N 9/10 Anno 5 Generazione Over60

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Settembre Ottobre 2023

Robin Williams ne “L’attimo fuggente” interpreta John Keating, l’insegnante che tutti avremmo voluto avere

Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Milano: n°258 del 17/10/2018 ANNO 5, n.9/10

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Le rubriche

EDITORIALE “Amoglianimali” Bellezza Da leggere (o rileggere) Da vedere/ascoltare Di tutto e niente Il desco dei Gourmet Il personaggio Il tempo della Grande Mela Comandacolore Incursioni In forma In movimento Lavori in corso Primo piano Salute Scienza Sessualità Stile Over Volontariato & Associazioni

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Generazione Over 60 DIRETTORE RESPONSABILE Minnie Luongo

I NOSTRI COLLABORATORI Marco Rossi Alessandro Littara Antonino Di Pietro Mauro Cervia Andrea Tomasini Paola Emilia Cicerone Flavia Caroppo Marco Vittorio Ranzoni Giovanni Paolo Magistri Maria Teresa Ruta

DISEGNI DI Attilio Ortolani Sito web: https://generazioneover60.com/ Email: generazioneover60@gmail.com Issuu: https://issuu.com/generazioneover60 Facebook: https://www.facebook.com/generazioneover60 Youtube: https://www.youtube.com/channel/generazioneover60

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Generazione Over 60 MINNIE LUONGO DIRETTORE RESPONSABILE

Foto Chiara Svilpo

Classe 1951, laureata in Lettere moderne e giornalista scientifica, mi sono sempre occupata di medicina e salute preferibilmente coniugate col mondo del sociale. Collaboratrice ininterrotta del Corriere della Sera dal 1986 fino al 2016, ho introdotto sulle pagine del Corsera il Terzo settore, facendo conoscere le principali Associazioni di pazienti.Ho pubblicato più libri: il primo- “Pronto Help! Le pagine gialle della salute”- nel 1996 (FrancoAngeli ed.) con la prefazione di Rita Levi Montalcini e Fernando Aiuti. A questo ne sono seguiti diversi come coautrice tra cui “Vivere con il glaucoma”; “Sesso Sos, per amare informati”; “Intervista col disabile” (presentazione di Candido Cannavò e illustrazioni di Emilio Giannelli).

Autrice e conduttrice su RadioUno di un programma incentrato sul non profit a 360 gradi e titolare per 12 anni su Rtl.102.5 di “Spazio Volontariato”, sono stata Segretario generale di Unamsi (Unione Nazionale Medico-Scientifica di Informazione) e Direttore responsabile testata e sito “Buone Notizie”. Fondatore e presidente di Creeds, Comunicatori Redattori ed Esperti del Sociale, dal 2018 sono direttore del magazine online Generazioneover60. Quanto sopra dal punto di vista professionale. Personalmente, porto il nome della Fanciulla del West di Puccini (opera lirica incredibilmente a lieto fine), ma non mi spiace mi si associ alla storica fidanzata di Topolino, perché come Walt Disney penso “se puoi sognarlo puoi farlo”. Nel prossimo detesto la tirchieria in tutte le forme, la malafede e l’arroganza, mentre non potrei mai fare a meno di contornarmi di persone ironiche e autoironiche. Sono permalosa, umorale e cocciuta, ma anche leale e splendidamente composita. Da sempre e per sempre al primo posto pongo l’amicizia; amo i cani, il mare, il cinema, i libri, le serie Tv, i Beatles e tutto ciò che fa palpitare. E ridere. Anche e soprattutto a 60 anni suonati.

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Chi siamo DOTTOR MARCO ROSSI SESSUOLOGO E PSICHIATRA

è presidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale e responsabile della Sezione di Sessuologia della S.I.M.P. Società Italiana di Medicina Psicosomatica. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e come esperto di sessuologia a numerosi programmi radiofonici. Per la carta stampata collabora a varie riviste.

DOTTOR ALESSANDRO LITTARA ANDROLOGO E CHIRURGO

è un’autorità nella chirurgia estetica genitale maschile grazie al suo lavoro pionieristico nella falloplastica, una tecnica che ha praticato fin dagli anni ‘90 e che ha continuamente modificato, migliorato e perfezionato durante la sua esperienza personale di migliaia di casi provenienti da tutto il mondo

PROFESSOR ANTONINO DI PIETRO DERMATOLOGO PLASTICO

presidente Fondatore dell’I.S.P.L.A.D. (International Society of PlasticRegenerative and Oncologic Dermatology), Fondatore e Direttore dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis, è anche direttore editoriale della rivista Journal of Plastic and Pathology Dermatology e direttore scientifico del mensile “Ok Salute e Benessere” e del sito www.ok-salute.it, nonché Professore a contratto in Dermatologia Plastica all’Università di Pavia (Facoltà di Medicina e Chirurgia).

DOTTOR MAURO CERVIA MEDICO VETERINARIO

è sicuramente il più conosciuto tra i medici veterinari italiani, autore di manuali di successo. Ha cominciato la professione sulle orme di suo padre e, diventato veterinario, ha “imparato a conoscere e ad amare gli animali e, soprattutto, ad amare di curare gli animali”. E’ fondatore e presidente della Onlus Amoglianimali, per aiutare quelli più sfortunati ospiti di canili e per sterilizzare gratis i randagi dove ce n’è più bisogno.

ANDREA TOMASINI GIORNALISTA SCIENTIFICO

giornalista scientifico, dopo aver girovagato per il mondo inseguendo storie di virus e di persone, oscilla tra Roma e Spoleto, collaborando con quelle biblioteche e quei musei che gli permettono di realizzare qualche sogno. Lettore quasi onnivoro, sommelier, ama cucinare. Colleziona corrispondenze-carteggi che nel corso del tempo realizzano un dialogo a distanza, diluendo nella Storia le storie, in quanto “è molto curioso degli altri”.

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Chi siamo PAOLA EMILIA CICERONE GIORNALISTA SCIENTIFICA

classe 1957, medico mancato per pigrizia e giornalista per curiosità, ha scoperto che adora ascoltare e raccontare storie. Nel tempo libero, quando non guarda serie mediche su una vecchia televisione a tubo catodico, pratica Tai Chi Chuan e meditazione. Per Generazione Over 60, ha scelto di collezionare ricordi e riflessioni in Stile Over.

FLAVIA CAROPPO GIORNALISTA E AMBASCIATRICE DELLA

CUCINA ITALIANA A NEW YORK Barese per nascita, milanese per professione e NewYorkese per adozione. Ha lavorato in TV (Studio Aperto, Italia 1), sulla carta stampata (Newton e Wired) e in radio (Numbers e Radio24). Ambasciatrice della cultura gastronomica italiana a New York, ha creato Dinner@Zia Flavia: cene gourmet, ricordi familiari, cultura e lezioni di vera cucina italiana. Tra i suoi ospiti ha avuto i cantanti Sting, Bruce Springsteen e Blondie

MARCO VITTORIO RANZONI GIORNALISTA

Milanese DOC, classe 1957, una laurea in Agraria nel cassetto. Per 35 anni nell’industria farmaceutica: vendite, marketing e infine comunicazione e ufficio stampa. Giornalista pubblicista, fumatore di Toscano e motociclista della domenica e -da quando è in pensione- anche del lunedì. Guidava una Citroen 2CV gialla molto prima di James Bond.

COMANDACOLORE è uno Studio di Progettazione Architettonica e

Interior Design nato dalla passione per il colore e la luce ad opera delle fondatrici Antonella Catarsini e Roberta D’Amico. Il concept di COMANDACOLORE è incentrato sul tema dell’abitare contemporaneo che richiede forme e linguaggi mirati a nuove e più versatili possibilità di uso degli spazi, tenendo sempre in considerazione la caratteristica sia funzionale che emozionale degli stessi.

MONICA SANSONE VIDEOMAKER

operatrice di ripresa e montatrice video, specializzata nel settore medico scientifico e molto attiva in ambito sociale.

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Sommario

-10Generazione F Imparare & Insegnare Editoriale di Minnie Luongo -13Foto d’autore Lapis: un termine che sa di ricordi di scuola di Francesco Bellesia -15Da leggere (o rileggere) Vasi canopi Di Federico Maderno -21Da leggere (o rileggere) La prof dietro la lavagna Di Amelia Belloni Sonzogni

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Sommario -27Stile Over Il tempo tra scienza e poesia di Paola Emilia Cicerone -31Dal nostro archivio La maestra Carmela Di Paola Emilia Cicerone -35Il tempo della Grande Mela A scuola di recitazione per imparare l’italiano a New York (e non solo) Di Flavia Caroppo -39Dal nostro archivio La macchia sul judogi Di Marco Vittorio Ranzoni

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Generazione F IMPARARE & INSEGNARE EDITORIALE

Come tanti miei coetanei, io sono stata sia un’alunna sia un’insegnante. Decisamente contenta di andare a scuola, dalle elementari e medie (dove senza sforzi risultavo la “prima della classe”, senza essere secchiona né averne l’aria né il carattere) fino al liceo (anche se qui la cosa si rivelò decisamente più impegnativa), e poi all’università, dove- trovato il giusto metodo di studio- acquistai un’insperata autostima e una crescente soddisfazione nel superare gli esami, tanto che una volta non esitai a sostenerne due nella stessa mattina. In realtà io mi ero preparata per uno, poiché il secondo era fissato qualche giorno dopo. Mentre mi stavo accingendo ad uscire da casa, mi avvisarono che il secondo esame era stato anticipato per quella stessa mattina. Non mi scomposi più di tanto… che problema c’era? In realtà un problema, e non da poco, si poneva: di un tomo pesantissimo che avrei dovuto studiare per il secondo esame, avevo letto soltanto (e anche superficialmente) una metà scarsa, ripromettendomi di terminarlo con una delle mie abituali maratone di studio che iniziavano alle quattro del mattino e si protraevano fino a quando non ero arrivata all’ultima pagina. Allora, premevano al telefono, che intendevo fare? “Non c’è problema: mi presento ad entrambi gli esami”. E con faccia tosta e una certa dialettica rodata in quei quattro anni affrontai le due prove, portando a casa due 30.

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Generazione F

Con la mia amata Irene: da alunna ad amica

Ripetizioni estive di francese

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Generazione F In quei quattro anni di università solo le prime tre ore della mattina (generalmente dalle 4 alle 7…) erano dedicate allo studio, dopodichè cominciava il mio tour de force di ripetizioni (soprattutto di latino, ma anche di italiano, greco e francese) perché non c’erano paghette di sorta e dovevo provvedere a me stessa. Raggiunta la laurea in lettere moderne, non dopo essermi iscritta anche a filosofia (ormai ci avevo preso gusto), mi sentii perduta. In realtà il mio sogno era fare il medico (per la precisione il chirurgo), ipotesi scartata con grande dolore subito dopo la maturità, nell’apprendere che fra i primi esami (probabilmente come primissimo) avrei dovuto affrontare chimica, e mi vidi quarantenne china ancora sulle pagine di una materia di cui mi sfuggiva (e tuttora mi sfugge) tutto. Pertanto, avendo deciso di andare a vivere da sola al più presto, mi ero iscritta a lettere, non escludendo così di poter intraprendere il mestiere di giornalista. Mestiere che in realtà iniziai a 22 anni, ma che capii non mi avrebbe dato la possibilità di guadagnare immediatamente uno stipendio sicuro con cui pagare affitto e bollette. Credo di essere stata una brava insegnante (sia a scuola sia nelle lezioni private), ma una volta scritto il mio primo articolo- su un quotidiano del Canton Ticino – avvertii il sacro furore che anima il giornalista e/o scrittore (avevo pubblicato giovanissima poesie e brevi racconti), e capii che scrivere era il mio vero obiettivo. Ma come fare per mantenermi? Anche qui mi risposi come quella volta che dovevo affrontare due esami universitari: potevo fare sia l’uno che l’altro. Il pezzo di carta conquistato mi avrebbe permesso di entrare come supplente in una scuola media, pagando senza problemi affitto e tutto il resto e, contemporaneamente, avrei fatto anche la giornalista. E così è stato. Erano altri tempi, mi rendo conto, ma fui anche molto fortunata: da supplente passai in breve ad avere un contratto a tempo determinato e a ruota uno indeterminato, finché dopo un periodo come insegnante di sostegno- superati gli esami di abilitazione- mi ritrovai insegnante di ruolo di lettere. Non tralasciando di essere nominata collaboratrice del preside, quindi vicepreside e infine preside (oltre che presidente di commissioni d’esame in più istituti). Il tutto in vista di andare in pensione il prima possibile (riuscii per un pelo, e non con le tanto discusse pensioni baby) e dedicarmi completamente a quello che consideravo IL mio lavoro. Per fare ciò ancora una volta la sveglia sul comodino era puntata sulle ore 4 del mattino, così da avere tempo – prima di prendere l’auto e imboccare una superstrada nebbiosa che mi avrebbe condotto trafelata in classe allo scoccare delle 8,10, inizio della prima ora di lezione- di scrivere a mano varie rubriche fisse per il Corriere della Sera, dove collaborai per oltre 30 anni. Trovando, inoltre, una splendida combinazione: seguire la medicina e scriverne. Il mio sogno si era realizzato. Fino a infrangersi qualche anno fa con il disastro della stampa, dell’editoria e di quanti l’hanno provocato. Dicevo di essere stata una brava insegnante. Lo continuo a credere; purtroppo il mio pensiero era rivolto altrove, ma insegnando da prof nella scuola ho imparato tanto e sono stata a contatto con realtà differenti che mi hanno aperto la mente. L’unico vantaggio: non dover più puntare la sveglia alle 4 del mattino. Eppure… quanto vorrei tornare a doverlo fare!

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Foto d’autore LAPIS: UN TERMINE CHE SA DI RICORDI DI SCUOLA

“Lapis” . Francesco Bellesia, autore di questo scatto, lo commenta così: La Matita, oggetto dimenticato, obsoleto, colmo di ricordi. Ma i bambini di oggi sanno che cos’è un lapis? Noi Over sì, almeno per la maggioranza, visto che alcuni dei nostri maestri la chiamavano così. Si tratta della comune matita in grafite, quella usata sia per scrivere sia per disegnare, semplice da cancellare con una comune gomma, a differenza dei pastelli.

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Foto d’autore FRANCESCO BELLESIA Sono nato ad Asti il 19 febbraio del 1950 ma da sempre vivo e lavoro a Milano. Dopo gli studi presso il liceo Artistico Beato Angelico ho iniziato a lavorare presso lo studio di mio padre Bruno, pubblicitario e pittore. Dopo qualche anno ho cominciato ad interessarmi di fotografia, che da quel momento è diventata la professione e la passione della mia vita. Ho lavorato per la pubblicità e l’editoria ma contemporaneamente la mia attenzione si è concentrata sulla fotografia di ricerca, libera da vincoli e condizionamenti, quel genere di espressione artistica che oggi ha trovato la sua collocazione naturale nella fotografia denominata FineArt. Un percorso parallelo che mi ha consentito di crescere e di sviluppare il mio lavoro, una sorta di vasi comunicanti che si sono alimentati tra di loro. Molte sono state le mostre allestite in questi anni e molte le manifestazioni alle quali ho partecipato con premi e riconoscimenti. Continuo il mio percorso sempre con entusiasmo e determinazione… lascio comunque parlare le immagini presenti sul mio sito.

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Da leggere (o rileggere) VASI CANOPI Saper raccontare in maniera seria ed esilarante allo stesso tempo come “si è catturati dal sistema scolastico” due volte (la prima all’asilo e poi dall’altra parte, come docente) richiede una scrittura unica e raffinata. Di Federico Maderno – scrittore Sono stato catturato, una prima volta, la mattina di un giorno di novembre del 1967. Lo ricordo benissimo, anche se a quel tempo viaggiavo con i pantaloni di velluto alla zuava ed il berretto di panno stile KEP da cavallerizzo, completo di paraorecchie e bottone rivestito di stoffa fissato alla sommità. Avevo cinque anni, uno spirito libero e una rara propensione per fare diventare un trastullo tutto quello che mi passava per le mani. Il tempo avrebbe dovuto fermarsi, e sarei rimasto il più gioioso tra gli ignoranti.

A quel tempo, per esempio, preso dalla mania delle biglie, ci giocavo di continuo, sul pavimento del salone. Era una stanza enorme, rivestita di marmettoni fatti di una pietra scura, quasi nera, e intarsiati di venature di tutte le gradazioni del verde, che formavano geometrie imprevedibili, ardite.

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Da leggere (o rileggere) Conoscevo a memoria tutta la mappatura di quelle piastrelle, ogni più bizzarro grafema. Cultore in erba di una pareidolia da mattonelle, invece di interpretare le nuvole mi ero divertito a memorizzare, tra quelle macchie casuali, tutte le similitudini possibili, a riconoscere nel guazzabuglio delle striature ogni schema significativo, la più piccola somiglianza. Dalla “macchinetta del caffè, ma senza beccuccio” al temutissimo “teschio di cane magrissimo” che rimaneva in un angolo e sopra il quale neppure mi azzardavo ad appoggiare il dito, per far avanzare le piccole sfere di vetro. Quel pavimento di marmo era oggettivamente stupendo; naturalmente, lo era quando era pulito e con la Emulsio tirata a specchio. Mia Madre ci dedicava parecchie ore ogni giorno (l’appartamento aveva una superficie di centotrenta metri quadrati e il maledetto pavimento nero era dappertutto, con l’esclusione del bagno e della cucina). Io, mi limitavo a farci rotolare le biglie; sentivo che era netto come un lenzuolo e profumato di cera come un’arnia. Così, mi ci crogiolavo sopra alla maniera di una biscia su una roccia assolata. Inevitabilmente, dopo ogni interminabile partita, i marmettoni erano trasformati in un’infinita raccolta di impronte digitali. Si guardava in controluce e sembrava di essere nell’archivio della questura; solo che i dermatoglifi rimandavano ad un unico colpevole e non era necessario cercarlo. Mamma alzava gli occhi al cielo, ma io la fulminavo con la mia infallibile espressione da vitello al mattatoio e lei metteva in conto l’ennesimo passaggio con i feltri della lucidatrice (SanGiorgio, ce l’ho ancora adesso, perché la roba costruita una volta… eccetera, eccetera…). Così, nell’illusoria percezione di un tempo sospeso, trascorrevano i miei giorni da selvaggio felice e tutto sembrava immutabile. Ma qualcosa stava per cambiare. – Vieni, ché andiamo a giocare con gli altri bambini – mi aveva detto la Mamma quella mattina di novembre. Sembrava tranquilla. Non credo che stesse covando un pluriennale rancore per l’untuosità dei miei polpastrelli. Non avrebbe avuto senso: me li aveva fatti lei e dunque non poteva sottrarsi alle sue responsabilità. In quei giorni, mi convinsi per qualche tempo che non si trovassero più, sul mercato, le spazzole di feltro della SanGiorgio. Nell’attesa di un incremento di produzione, venivo allontanato dal problema. “Ma quali bambini?” avevo pensato io, che per trascorrere delle ore spensierate non avevo ancora bisogno di compagnia. Bastavo a me stesso come uno stilita in meditazione alla sommità della sua colonna. Eppure, l’avevo seguita fiducioso, fino alle vetrate di quella strana casa, dalle cui stanze provenivano le grida insensate di altri piccoli selvaggi. Ci aveva accolto una signora che avevo giudicato anzianissima, e aveva, probabilmente, parecchi anni meno di quanti io ne abbia adesso (dunque, si trattava di una bambina). Avevo notato, da subito, una qualche complicità tra le due donne. Si scambiavano sorrisi eccessivi e frasi troppo brevi.

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Da leggere (o rileggere) Ero stato attratto, per qualche minuto, dalla giocosità chiassosa dei miei coetanei; e quando mi ero voltato, la Mamma era sparita (si trattò certamente del primo ed ultimo dei suoi tradimenti). Non lo sapevo ancora, ma ero stato catturato dal sistema scolastico. Alla sera, Papà mi aveva chiesto come fosse andato il mio primo giorno da studente. Avevo piazzato le mani sui fianchi, esageratamente (avevo appena scoperto che tale postura conferisce una profonda autorevolezza), e avevo commentato, storcendo un po’ la bocca in una smorfia di scetticismo: – Insomma… insomma… Non male, ma non credo che tale ambiente sia consono alle mie aspirazioni, così che difficilmente costituirà un riferimento auspicabile per il mio futuro sociale o culturale (naturalmente enunciai il concetto con un eloquio assai più adeguato alla mia giovane età, ma la sostanza era quella). Fu un errore gravissimo: non ne sarei più uscito. E non mi riferisco alla semplice carriera da studente, iniziata quel primo giorno all’asilo e proseguita fino alla laurea; quanto, piuttosto, all’insana idea che nel sistema si potesse giocare anche dall’altra parte della barricata. Per quello, tuttavia, era necessaria un’altra trappola ben congegnata. Era l’ultimo giorno di servizio militare. Mi ero appena congedato come Sottotenente di complemento e tornavo a casa ancora in divisa, ma con i borsoni pieni di tutto quello che davvero non avrei più usato. Lo ricordo benissimo, proprio perché non portavo più da un pezzo i pantaloni alla zuava e sul mio berretto campeggiava una barretta dorata da ufficiale. Telefonai dal binario numero 1 della stazione di La Spezia (erano ancora gli anni dei telefoni che facevano “glonk” quando ingurgitavano i gettoni con una fame da suonatore di banda) ed era quasi un “butta la pasta ché arrivo”. – Tra due ore sono a casa – dissi a mia Madre. – Ora mi prendo un mese di meritato riposo e guai a chi si permette di… – Ti hanno cercato da una scuola… – Come: “da una scuola”? – Evidentemente, un po’ di sano sospetto era rimasto. – Sì, è per una supplenza. – Ah… E da quando inizierebbe, questa supplenza? – Da domani. – Mh… Funziona sempre quella lucidatrice SanGiorgio? – Ma cosa dici?! – Lascia perdere, Mamma. Appena arrivo, telefono io alla segreteria. È stata la seconda maledetta trappola. Trent’anni anni di docenza, con qualche discontinuità e l’inevitabile iniziale periodo di precariato.

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Da leggere (o rileggere)

Ho i capelli bianchi (quei pochi che sono rimasti). Ho visto la scuola italiana cambiare, e non in meglio. L’ho vista trasformarsi da Ente di formazione culturale al surrogato di tutto quello che, nella Società, non esiste più o non garantisce più di funzionare; la famiglia, prima di ogni cosa. L’ho vista, soprattutto, svuotata dei contenuti. Del resto, se osi parlare di “programmi” vieni tacciato di bieco nozionismo e lapidato in Sala Consiglio. L’ho vista riempita di tutto quello che non si riesce a veicolare altrimenti.

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Da leggere (o rileggere) Perché la scuola deve occuparsi di ogni cosa; nulla le è estraneo, indifferente, da nulla può chiamarsi fuori. Non c’è emergenza sociale per la quale non venga chiesto il suo contributo. Bullismo, ludopatie, dipendenze da sostanze nocive e da telefonini, violenza, disordini alimentari, razzismo, depressione, disparità di genere… Non c’è problema sociale che non sia destinato a transitare per le aule scolastiche, nel tentativo di raddrizzare una situazione che si aggrava. I genitori, a ben guardare, possono perfino provare a non occuparsi dei figli, e rischiano ben poco. I Professori, no. Finiscono sui giornali, sono fatti bersaglio degli strali televisivi del sociologo di turno. E tu, prova a spiegare che in fondo ti sei preso una laurea in Ingegneria perché hai la presunzione di ficcare in quelle menti sconsiderate i principi di una materia tecnica. Non si può fare. Non c’è tempo, per simili sciocchezze. C’è l’incontro con il dietologo e poi, domani, il progetto di teatro. Mercoledì vengono gli agenti della Polizia locale a parlare di educazione stradale. Giovedì, per le classi prime e seconde, “Gli amici della canoa“ proiettano un cortometraggio su sport e salute. Il giorno dopo, per le altre tre classi, un noto ortopedico ci intrattiene su “quando lo sport può fare male”. Cerchiobottismo per adolescenti, insomma. – A che ora, quello che fa male? – Verso le 9.00; perché poi, alle 11.30, tutti in palestra a sentire quel tizio che parla di… di cosa parla, più? – Mi sembra che fosse il tipo della comunità di recupero dei tossicodipendenti. – Ma non era quello dell’associazione contro il consumo di alcool? – Quello viene la settimana prossima, tra i volontari per la donazione di midollo osseo e una signora che parla di “ikebana e equilibrio mentale”. – Ma non avevo piazzato la verifica di Matematica, uno di quei giorni? – Si sposta, no? – Ma è la terza volta che la sposto! Sta per finire il primo periodo e tra poco ci chiederanno se abbiamo un numero congruo di valutazioni. – E tu spostala ancora; così, magari, riusciamo a far venire anche il circolo scacchistico e l’esperto di danze scozzesi. – Quella delle danze scozzesi è una balla, dai! Te la sei inventata adesso, per rovinarmi la giornata. – È uscita la circolare che saranno venti minuti, ti giuro… Però, ho sentito che Rossi va a chiedere se la valutazione sulle danze scozzesi può essere inserita tra i voti di disciplina, alla voce “cittadinanza e Costituzione”. Non doveva essere questo, il finale. Lo giuro. A un certo punto, sognavo ex alunni che venivano a ringraziarmi per averli introdotti alla sublime arte del rilievo topografico. Mi illudevo. Temo soltanto di dovermi confrontare, un giorno, col titolare di una scuola di ballo. È seduto sulla soglia della sua palestra, ad attendere inutilmente allievi che non arrivano. Mi fermo un attimo a guardarlo. Sta suonando, lamentosamente, una cornamusa scozzese e allora, improvvisamente, penso di aver riconosciuto, nelle sue sembianze smagrite, un mio antico discepolo. Sembra mio nonno, per quanto è sciupato. Provo a scappare, ma mi ha riconosciuto anche lui e mi blocca gridandomi alle spalle.

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Da leggere (o rileggere) – Si ricorda di me, Prof? – Ah sì, certo… – Spero che nessuno ci ascolti. Gli rivolgo un saluto con un cenno della mano e tento di proseguire. – Aspetti! – Dimmi, caro. – Scusi una domanda, Prof: ma con tutto il bene che GLI voglio (qualche baratro linguistico deve pur averlo aperto la didattica degli anni 2000)… Cosa c***o ci insegnavate allora, invece di farci capire qualcosa sulle derivate e gli integrali? Vaglielo a spiegare che la verifica di matematica era andata in coda all’”Associazione per la tutela del Porro gigante di Carentan”! No, non doveva esserci un finale così. Non per uno che ha lasciato incompiuta una meravigliosa partita a biglie. Forse è per questo, per evitarci quell’ultimo affronto, che non ci lasciano andare in pensione. Dobbiamo morire in servizio, accasciandoci sulle cattedre, per non vedere, per non capire cosa sta accadendo nel Bel Paese. Intanto, come dice qualcuno, tolto il registro cartaceo a favore di quello elettronico, s’è fatto posto per i vasi canopi o per le urne cinerarie, da sistemare negli armadietti metallici della sala insegnanti.

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Da leggere (o rileggere) LA PROF DIETRO LA LAVAGNA Quando si parla di scuola, mi sento sempre come se la maestra, quella maestra, mi avesse mandato dietro la lavagna, anche se nella mia vita scolare non ci sono mai finita Di Amelia Belloni Sonzogni – scrittrice «Ripeti con me : per una donna, l’insegnamento è l’ideale» . Ho sentito questa frase tante volte che credo ne fosse imbibito il capezzolo materno, poi sia stata diluita nel latte della colazione e inzuppata con i biscotti al Plasmon, ma non era abbastanza. Per dimostrarne la veridicità, occorrevano esempi concreti; perciò, mi è stata fatta frequentare la scuola ben prima dell’età scolare. Si coglieva ogni opportunità perché prendessi confidenza con l’ambiente, che mi apparve enorme e luminoso. Porte larghe e altissime, pesanti, di vetro; un mappamondo luccicante al centro dell’atrio, immenso; corridoi che si aprivano come braccia lunghissime; iscrizioni che non sapevo leggere incise su lastre di marmo imponenti; un’urna contenente – mi spiegò mia madre – l’acqua del Piave: un fiume importante, ci aveva combattuto anche il nonno durante la Prima guerra mondiale.

L’atrio della Scuola Elementare milanese Leonardo da Vinci

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Da leggere (o rileggere) Tenendomi per mano, mi portò con sé in una stanza, con finestre smisurate dalle quali entrava una luce tanto abbagliante da impedirmi di distinguere la fisionomia delle signore intente nel loro lavoro. Doveva essere un giorno in cui le lezioni non erano ancora iniziate, ma tutti erano già all’opera. Dalle scrivanie si alzavano pile di cartellette amaranto, rigide, tenute da un elastico: una alla volta scendevano sui tavoli tra le mani esperte delle segretarie per essere aperte, consultate e poco dopo riposte sulla pila dirimpetto, dall’altro lato, sull’altro angolo; nel mezzo una fila composta di calamai, penne, matite, scatolette di latta aperte su un tampone bluastro e uno strano raccoglitore che teneva appesi, quasi per il collo, degli aggeggi di legno e metallo: cosa sono, mamma? I timbri della scuola, non toccare. Ma una delle signore prese un foglio bianco, un timbro e me li porse, poi guidò la mia mano, sul tampone e sul foglio: schiaccia forte! Sorrisi, divertita e restituii il timbro quasi subito. «La Signorina Direttrice, è libera?» chiese mia madre con un certo ossequio, indicando una porta chiusa all’interno di quella stanza . Mi rimase la curiosità di vedere questa signorina direttrice che immaginai importantissima, considerata la nota di timore riverenziale nella voce di tutti . Non c’era . Andammo allora lungo un corridoio . Mi venne incontro Mafalda : rotonda, allegra, una cofana di capelli scuri raccolti a banana sulla nuca e un sacco di complimenti : fai presto a venire a scuola, così sarò la tua bidella . Capii poco, ma lei mi piacque subito . Intanto sbirciai la gigantesca doppia rampa simmetrica di scale, quel giorno lustra e deserta, che saliva verso i piani superiori, inondata anche questa dalla luce . Doveva essere un giorno di settembre, ancora caldo, limpido e assolato. Il processo di assuefazione proseguì con altre visite guidate, in altri spazi che – ormai era chiaro – sarebbero stati miei; così, il grembiule bianco con il colletto amaranto e il distintivo a rombo con le cifre ricamate «LdV» (Leonardo da Vinci) cucito sul petto, il tricolore di carta da sventolare, il sacchetto di monete dorate di cioccolato – da mangiare pensando però al salvadanaio da riempire nella giornata del risparmio che si festeggiava il 1° ottobre – non furono una sorpresa nel mio primo giorno di scuola : ne avevo già vissuto qualcuno, tra quelli degli alunni di mia madre . La scuola per me ebbe a lungo le sembianze, la struttura, il tempo scandito dalla campanella dell’istituto, milanese e di una certa fama, in cui insegnava lei che, nell’anno scolastico… non mi ricordo quale, se fosse stato possibile esaudire tutte le richieste, avrebbe avuto una classe di ottantadue maschietti. Decise per tutti, come Salomone,

Il rombo, simbolo distintivo della Scuola

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Da leggere (o rileggere) la Signorina Direttrice: minuscola, magrissima, sempre in perfetto ordine e trucco, non un capello scappato dalla retina che tratteneva il grigio chignon, e capace di incutere una soggezione non comune. Anche perché era ubiqua: poteva sbucare ovunque e in qualunque momento, e dove non arrivava lei, arrivavano i capiscala o controllori (diventati tali per meriti scolastici) che erano i suoi occhi e le sue orecchie, sistemati nei punti strategici per mantenere l’ordine, segnare contravvenzioni e riferire ritardi, o passi troppo veloci, o fuori dalle righe disegnate dalle piastrelle sui pavimenti dei corridoi. Su quelle si doveva camminare per raggiungere l’aula. No, non sono mai stata caposcala. Non ho goduto privilegi né favoritismi e sopportavo a malapena quelle facilitazioni logistiche che mi differenziavano: uscire prima dalla mia classe per raggiungere mia madre nell’atrio mi toglieva il gusto di uscire da scuola come e con le mie compagne; passare l’intervallo in classe di mia madre, invece che nella mia, mi toglieva dal mio gruppo, ma mi dava l’esclusivo libero accesso all’ala maschile. Non ho mai più avuto tanti amici maschi come allora e alle loro feste di compleanno o carnevale mi sentivo una principessa.

I ritratti augurali con la divisa della Scuola erano una prassi. Qui una foto dell’autrice del 1966

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Da leggere (o rileggere) «Ripeti con me: per una donna, l’insegnamento è l’ideale». Scelsi di iscrivermi a lettere moderne perché amavo la letteratura e la storia; avevo aspettative confuse e non pochi dubbi sul mio possibile futuro lavoro del quale ogni tanto discutevo serenamente con papà: hai tempo, scegli con calma, suggeriva. Mia madre intanto ripeteva il suo mantra, con l’aggiunta di nuova sollecitazione: potresti iniziare a lavorare mentre studi, qualche supplenza nelle scuole, ho saputo da un collega che… Mi scambiarono per una di loro gli studenti dell’Istituto tecnico Cattaneo schierati a picchettare l’ingresso nel giorno di sciopero in cui presi servizio. Eravamo di fatto coetanei. Impiegai non poco a convincerli che ero lì per sedermi dall’altra parte della cattedra e dovevano lasciarmi passare. Anche quella scuola era mastodontica, meno luminosa però, e ci aveva insegnato papà, da poco in pensione quindi vivissimo nel ricordo di tutti i suoi colleghi che mi coccolarono come una nipote prediletta. Stabilii con le mie alunne una bella complicità. Erano più le volte in cui si giocava di quelle in cui tenevo lezione: d’altronde, supplendo un’insegnante di educazione fisica, era consentito e io mi sentivo dalla parte sbagliata della cattedra. Una fatica farsi dare del “lei” … Fu destabilizzante, confesso, incontrare per caso una di loro al mare, teneramente per mano a un ragazzo per il quale avevo avuto una memorabile cotta: buongiorno prof! Sorrisi, imbarazzata per la combinazione del destino, per un ribaltamento di ruoli che mi scoppiò nel cervello e perché ricordavo di conoscerla, ma in quale scuola era stata mia alunna? Dopo il Cattaneo, infatti, ebbi altri incarichi in altre sedi. E dopo la laurea, in attesa che il moloch ministeriale partorisse i concorsi, insegnai la mia materia nell’istituto parificato nel quale aveva insegnato papà appena finita la guerra. Anche qui regnava con indiscussa autorità un’attempata signorina M. che gestiva tutto, più formosa e rumorosa della Direttrice e con qualifica diversa: segretaria tuttofare. Credo fosse stata platonicamente innamorata di papà – era bellissimo, simpatico, colto – quindi per questo motivo o per accertata incompatibilità tra noi, non ebbi vita facile. Nessuno dei suggerimenti di papà per tentare di espugnare la manifesta ostilità della signorina M. riuscì efficace: di lui avevo solo il cognome. «Ripeti con me : per una donna, l’insegnamento è l’ideale» . Arrivò il giorno fatidico. «Ninin, c’è una lettera per te». Raggiungo papà in anticamera: la rigira tra le mani, quasi titubante nel darmela. «Viene dal Provveditorato» mi dice, e mi guarda sbiancare : sa che temevo questo momento . Apro, leggo, ho superato anche la prova orale del concorso a cattedre, primo tra quelli a cui mi sono candidata, primo indetto dopo decenni. Giro e rigiro la comunicazione. Sta capitando davvero: diventerò una insegnante, entrerò in ruolo. Mi sento incastrata in una funzione che non mi piace, in un lavoro che non sento mio.

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Da leggere (o rileggere)

Leonrdo da Vinci: citazioni affrescate sulle pareti dell’omonima Scuola Come ne esco ora? Non ne esco. Mi carico di un “secondo lavoro”, un volontariato per il quale mi prodigo; inanello pubblicazioni, raccolgo soddisfazioni, appaio persino in tivvù. Papà gongola soddisfatto e fiducioso. Mia madre commenta con una certa preoccupazione: non potresti accontentarti della scuola? Per una donna, l’insegnamento è l’ideale. Arrivò il giorno fatidico, un altro, decenni dopo. Mi apparve, scese su di me come manna, un anno sabbatico: pausa, respiro, attesa, nessun orario, nessun tragitto ancorché breve. Me lo presi, lo assaporai e questo bellissimo anno sabbatico mi disse chiaro e tondo che sarei stata folle a non decidere più per me stessa. Ogni volta che ripenso al momento in cui ho presentato le dimissioni dall’insegnamento, immagino davanti a me una cattedra: la prendo con le mani sotto il bordo lato docente e la ribalto di forza; i fogli impilati al centro finiscono tutti all’aria, svolazzano come la piuma di Forrest Gump e, quando si depositano a terra, appare chiara la scritta: «Ripeti con me : per una donna, l’insegnamento è l’ideale» .

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Da leggere (o rileggere)

N.d.A.: questa immagine è stata scattata in occasione degli esami di seconda elementare alla Leonardo da Vinci ed è stata pubblicata dal Corriere della Sera. Ne ho una copia, ritagliata dal numero di quel giorno, perché la maestra, che ragguaglia l’alunno (nei miei più teneri ricordi, insieme con la sua mamma e i suoi famigliari) è mia madre. La dedico idealmente con affetto ai suoi alunni, tantissimi davvero se si considera che per parecchio tempo la maestra insegnava agli scolari solo in prima e seconda elementare, per poi consegnarli al maestro; a classi di quaranta alla volta…. La dedico in particolare a quelli con cui sono a vario titolo rimasta in contatto oppure ho da poco ritrovato grazie ai social.

Foto dal Corriere della Sera, 26 giugno 1964

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Stile Over SCUOLA E DISCIPLINA L’autrice, ripercorrendo la propria esperienza scolastica, dalle elementari alla Montessori in avanti, riesce a ricostruire i motivi della sua personale etica: nonostante le sia naturale ribellarsi all’autorità, accetta (e anzi apprezza) l’autorevolezza Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

L’autrice sui banchi di scuola elementare alla Montessori Curiosavo tra i miei ricordi di scuola, indecisa su come affrontare il tema del mese: un’esperienza troppo lontana nel tempo, troppo ricca, e poi della scuola Montessori ho già parlato nell’articolo dedicato alla maestra Carmela. Invece, proprio un dibattito su Facebook a proposito del metodo Montessori mi ha fornito uno spunto. Perché parlare di scuola significa anche parlare di ordine e disciplina, presenti nelle scuole e nella società di ieri - anche se nelle Montessori assumevano un aspetto particolare - e assai meno in quelle odierne. E mi sono trovata a ragionare sul mio personale rapporto con questi concetti. Sono una ragazzina allevata da un padre stalinista a parole, ma sufficientemente affettuoso e distratto da lasciarle fare sostan-

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Stile Over zialmente quello che volevo. E quindi cresciuta da liberale tendente all’anarchia, intollerante nei confronti delle regole, particolarmente se accompagnate da frasi come “ Sono gli ordini” oppure “Si fa così”. E sono certa che la domanda “ma PERCHE’ si fa così?“ sia riecheggiata anche nelle aule della mia scuola elementare. Eppure sono stata un’alunna abbastanza disciplinata, e poi una studentessa attenta anche se le scuole che mi accoglievano non brillavano per rigore. Ripensandoci, forse la formula magica che mi ha salvato dall’analfabetismo ruota attorno a due concetti: io mi ribello all’autorità ma accetto, anzi apprezzo l’autorevolezza. E tendo a rispettare i patti. Ora, nella mia famiglia il patto era che gli adulti lavoravano e i piccoli andavano a scuola, e ci si aspettava che assolvessero decorosamente questo compito. In qualche modo, mi pareva che un patto ci legasse anche agli insegnanti: loro cercavano di trasmetterci le loro materie e noi dovevamo imparare. Il che non significa che fossi un’alunna modello: non ero una di quelle che disturbavano, perché mi pareva che in questo caso si sarebbe venuti meno al patto di solidarietà con i compagni interessati ad ascoltare. Ma certamente in molti casi i più affascinanti tra i libri di testo (come la mitica antologia di epica) o semplicemente la lezione dell’ora dopo mi coinvolgevano più della spiegazione dell’insegnante. Ero anche tendente alla chiacchiera, e il mio codice etico diventava più flessibile quando si trattava di confrontare una versione di latino o di greco con le compagne, o di aiutare un’amica meno portata di me alla traduzione.

Un’immmagine scattata con la mitica Polaroid che riporta immediatamente gli Over molto indietro negli anni

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Stile Over Negli anni delle elementari l’elasticità prevista dal metodo Montessori ha sicuramente contribuito ad aggirare qualche scoglio. Mentre le nostre coetanee entravano a scuola irreggimentate in grembiulini d’ordinanza noi sciamavamo liberamente con vestine multicolori scelte dalle mamme. La scuola, come ho già raccontato altrove, era confortevole e stimolante. Ne sono emersa con particolari carenze? Direi di no: nonostante l’odio per le perline utilizzate per insegnarci la matematica, ho imparato a fare di conto quel tanto che bastava per affrontare i corsi successivi, e la mia proverbiale distrazione nei confronti dell’ortografia (prima di essere definitivamente risolta dai correttori automatici) è stata più che compensata dalla mia passione per la parola scritta e la lettura, coltivata attraverso la biblioteca di classe e le attività proposte.

Le perline utilizzate per l’insegnamento della matematica

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Stile Over Degli anni delle medie, trascorsi tra Roma e Firenze in un periodo particolarmente difficile della mia vita, ricordo poco se non il rapporto di affetto e stima con alcuni insegnanti che ha fatto come al solito da motore ai miei successi scolastici. Mentre il liceo meriterebbe una storia a sé: la scarsa propensione di mio padre ad attendere in coda per l’iscrizione mi guadagnò un posto nel più improbabile liceo ginnasio di Firenze, ma anche cinque anni di divertimento in una scuola gestita in modo vagamente surreale grazie alla combinazione tra un preside mite e distratto e un vicepreside che avrebbe avuto anche l’ambizione di metterci in riga, se solo non avesse avuto troppo da fare. Il risultato, per fare solo un esempio, è che i ragazzi più grandi uscivano nell’ora di ricreazione per andare a comprare fuori la pizza, e sono abbastanza certa che non avessero nessun tipo di autorizzazione. Io non l’ho mai fatto, un po’ perché non m’interessava la pizza, un po’ perché le regole apparentemente sensate (eravamo minorenni e in caso di guai ci sarebbero andati di mezzo i nostri professori) mi risultavano più digeribili. Lo stesso principio, insomma, per cui litigavo (erano gli anni ‘70) con gli studenti dei collettivi che tentavano di imporre scioperi ai compagni delle classi inferiori bloccando l’ingresso all’istituto. E oggi mi viene da ridere immaginando il loro imbarazzo di rivoluzionari di fronte a una quindicenne occhialuta nei cui confronti era impensabile usare la forza. Intanto io arringavo i più piccoli rassicurandoli sul fatto che, se avessero voluto scioperare andava benissimo, ma se preferivano entrare stessero tranquilli che li avrei aiutati io. La stessa logica per cui, in altra occasione, entrai in classe a riprendere i libri comunicando all’insegnante già presente (forse l’unica insegnante davvero severa che mi sia mai toccata in sorte) che avrei partecipato allo sciopero di quella mattina, condividendone gli obiettivi. Perché, ragionavo, se protesti lo fai sapere, e non ti trinceri dietro vaghe giustificazioni. A incanalare il mio fervore arrivarono, nel 1974, i decreti delegati, che segnavano l’ingresso di genitori e insegnanti nella gestione della scuola. Inevitabilmente fui coinvolta, e da quel momento la scuola diventò un po’ più mia, rendendomi più attenta a segnalarne le magagne ma al tempo stesso più indulgente. Ma col liceo arrivò anche il grande amore, per le nuove materie che incontravo e i professori che le insegnavano. L’insegnante di scienze riuscì, grazie a un laboratorio faticosamente messo su e alla sua passione per la biologia, a risvegliare un interesse che non si è mai più spento (e sono davvero felice di aver fatto in tempo a dirle quanto le sue lezioni e quelle esercitazioni al microscopio abbiamo segnato la mia vita). E poi c’erano il greco antico e l’incontro col professor Iginio Crisci, adorabile appassionato di studi classici in grado di compensare un’innata timidezza - che apparentemente avrebbe dovuto renderlo inadatto all’insegnamento - con la cultura e la passione per la sua materia. Devo a lui una scelta oggettivamente sbagliata, l’iscrizione alla facoltà di lettere classiche (avrei scoperto presto che di professori come lui nelle aule universitarie ce ne erano pochi). Ma anche la gioia di seguire quei Colloqui di filologia classica cui invitava, nelle aule della Facoltà di Lettere, gli studenti più attenti: e il fatto che per noi quelle lezioni oggettivamente noiose e in gran parte incomprensibili fossero un obiettivo cui mirare, è forse la risposta migliore alla domanda sul tipo di disciplina che funziona. Almeno per me, ma forse non solo: non obbedisco agli ordini ma rispondo (nei limiti del ragionevole, non ve ne approfittate) alle richieste di chi ha saputo guadagnarsi la mia stima e il mio affetto.

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Dal nostro archivio LA MAESTRA CARMELA Ricordi di scuola: un’esperienza montessoriana Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Paoletta, come venivo chiamata alle elementari A volte Facebook offre dei regali inaspettati: tra i più belli degli ultimi anni, l’incontro, dopo oltre mezzo secolo, con la mia maestra delle elementari. Chi non ricorda “la maestra”? Per molti di noi è la prima persona importante della vita al di fuori della famiglia, indimenticabile soprattutto per chi ha avuto la fortuna di un incontro felice, e di essere seguito per un quinquennio dalla stessa insegnante. Grazie ai contatti con gli ex allievi della mia scuola romana (Scuola Elementare Statale 7° Circolo Montessori Plesso Villa Paganini) circa due anni fa ho potuto scrivere una mail un po’ emozionata che cominciava con le parole “Cara maestra”, e allegava una mia foto d’epoca per rendermi riconoscibile. Così, il rapporto tra una bimba un po’ spa-

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Stile Over ventata e un po’ musona e la sua giovane maestra - che ha insegnato a Villa Paganini dal 1954 al 1998 - si è trasformato in un’amicizia on line tra due signore Over. E ho avuto la gioia di trovare la mia cara maestra impegnatissima a divulgare la pedagogia montessoriana cui ha dedicato la sua lunga carriera, nell’inedito ruolo di blogger: la trovate su https://carmelaalbaranoblog.home.blog/ , con ricordi, testimonianze e approfondimenti preziosi per chi ama la pedagogia e il mondo della scuola . Così per un po’ sono tornata a essere Paoletta, come mi chiamavano da bambina, e come mi ha sempre chiamato lei, la maestra Carmela - ancora oggi non riesco a chiamarla diversamente - o “Maestra Caramella” come era stata ribattezzata per la sua dolcezza. La ricordo il giorno del nostro primo incontro, piccolina e paffuta, occhi scuri e un sorriso irresistibile. Sarebbe stato difficile fare di meglio, volendo immaginare una persona adatta a rassicurare una bambina timida, poco avvezza agli estranei e poco convinta dell’esperienza scolastica nonostante il “collaudo” dell’asilo, all’epoca tutt’altro che scontato. Carmela era giovane, ma credo che sapesse già leggere bene nel cuore dei bambini, come ha poi fatto per tutta la vita: mi si avvicinò gentilmente coinvolgendomi in un lavoretto gradevole che riguardava alcune foto di fiori, e alla fine tornai a casa convinta che la scuola non fosse poi così male, e che le giornate trascorse accanto a quella creatura gentile sarebbero state serene. Villa Paganini era una delle scuole Montessori aperte nella capitale, diretta da Maria Clotilde Pini - per noi la Signorina Pini - allieva di Maria La maestra Carmela Montessori. E in quelle casette verdi nascoste dalla vegetazione di un bel giardino, lo spirito montessoriano si respirava davvero: “Come medico”, scrive Carmela Albarano nel suo blog, “la Montessori vedeva oltre le medicine, vedeva che era necessario far vivere i bambini, stimolarli, attivarli, renderli partecipi alle proprie funzioni, azioni e reazioni”. Per chi si avvicinava alla scuola, era un programma fantastico. Quegli anni per me non furono facili, tra malattie e lutti familiari, ma Villa Paganini mi piaceva, sentivo che lì c’erano persone in grado di supportarmi nei momenti difficili. E c’erano tante cose da fare, dalle lezioni di flauto dolce - occasione per massacrare la Barcarola di Offenbach, ma anche pe scoprire che amavo la musica classica - ai lavoretti manuali che realiz-

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Stile Over zavamo per i nostri genitori, con risultati estetici discutibili ma grande divertimento. In retrospettiva, sono ammirata dall’audacia con cui le nostre maestre ci facevano maneggiare forbici, candele e ceralacca, ma evidentemente la loro assistenza attenta ma non opprimente funzionava a dovere, perché non mi ricordo che si sia mai fatto male nessuno. D’altronde, il metodo Montessori punta all’autonomia dei bambini e a promuovere la creatività. Con risultati a volte bizzarri dal punto di vista della disciplina, specie per chi come me era già portato alla contestazione . L’orario scolastico - assai flessibile, come tutto in quelle aule luminose senza i tradizionali banchi e i grembiuli bianchi e neri - prevedeva momenti di lavoro libero, che io dedicavo inevitabilmente ai fascinosi libri della bibliotechina di classe . Ricordo con chiarezza che più volte la maestra mi aveva invitato a fare altro, magari qualche lavoro di gruppo, avendo correttamente individuato le relazioni con i coetanei come il mio punto debole . Ma la mia obiezione era sempre la stessa : “E’ lavoro libero? E allora posso fare quello che voglio . Ed io voglio leggere” . Si deve certamente alla dolcezza della maestra Carmela il fatto che mi abbia definita “ dolce e garbata nel profondo” anche se prevenuta e riservata al primo incontro: un’ennesima carezza, e oggi la gioia rara di parlare con qualcuno che mi ha conosciuta bambina.

A lezione di flauto dolce E la bambina solitaria che ero cominciò a scoprire proprio in quegli anni la gioia delle amicizie femminili che poi sarebbero state tanto importanti nella mia vita. Grazie anche al bel giardino in cui trascorrevamo i momenti di ricreazione, e che era teatro delle storie avventurose che inventavo e interpretavo per e con le mie amichette. Proprio poche settimane fa ho avuto la sorpresa di ritrovarne i nomi sul blog di Carmela Albarano, in un libretto che raccoglie i nostri i componimenti poetici, ennesima testimonianza dell’affetto, assolutamente ricambiato, che ha legato e lega la maestra alle sue classi. Sintetizzato nel suo blog da una “ricetta” infal-

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Stile Over libile: “ basta arricchirsi del sapere e lasciarsi andare vivendo con i bambini, senza preoccuparsi di essere capaci o meno di disegnare, o di avere o no abilità manuali (se ci si preoccupa, per me, è solo un alibi per non fare).L’importante è avere entusiasmo e dare indicazioni. Nel rapporto adulto-bambino sono importanti la chiarezza, la decisione, la fermezza, la giustizia, la serenità. Basta farsi bambino tra i bambini”.

La mia scuola

Carmela Albarano, oggi attivissima blogger

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il tempo della Grande Mela A SCUOLA DI RECITAZIONE PER IMPARARE L’ITALIANO A NEW YORK (E NON SOLO) L’affascinante viaggio dell’attore Massimo Zordan che, seguendo la voce dell’anima, è volato dai palcoscenici italiani ai banchi di scuola americani, dove insegna la lingua attraverso il teatro a studenti di ogni età. Di Flavia Caroppo – giornalista, corrispondente da New York

Massimo Zordan, l’attore vicentino che insegna l’italiano agli americani tramite il teatro

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il tempo della Grande Mela Raccontaci le tue origini nel teatro. Come hai iniziato questa avventura? «Riferendosi agli attori, il grande Totò una volta disse che “siamo venditori di chiacchiere!”, e così la pensavo anch’io. Ma ciò che ho scoperto nel corso della mia vita da “teatrante” è che, al di là delle chiacchiere, il teatro è una voce dell’anima. Un’anima che, nella mia giovinezza a Vicenza, ha trovato la sua voce con una compagnia di giro calabrese. Avevo vent’anni, ed è successo all’improvviso, è stato un colpo di fulmine e una fuga d’amore! Questo viaggio, partendo da un treno che attraversava l’Italia dal Veneto alla Calabria, ha segnato l’inizio di una passione che mi ha portato a collaborare con artisti di calibro mondiale e vincitori del premio Nobel». Questa “fuitina” è stata la prima tappa della tua storia d’amore con il teatro. Poi che è successo? «Ho studiato all’Accademia Europea d’Arte Drammatica di Palmi e ho avuto la fortuna di perfezionarmi sotto la guida di luminari come Arias, Dario Fo, e Anatolij Vassiliev. Mentre esploravo le varie sfaccettature del teatro, dalla didattica alla teatroterapia, ho avuto la gioia di lavorare in prestigiose tournée con artisti del calibro di Ottavia Piccolo e Alessandro Preziosi, e di apparire in serie televisive di grande successo come “Distretto di Polizia” e “Don Matteo”. Parallelamente, mi sono dedicato alla didattica teatrale, ho creato laboratori teatrali su temi come il disagio mentale e ho fondato diverse compagnie, tra cui la Compagnia Cajka, con cui ho portato il teatro in barca a vela nei porti del Mediterraneo». Sei venuto in barca a vela dai porti del Mediterraneo a New York? «Magari, sarebbe stato avventuroso! In realtà ho preso un molto meno romantico aereo, e non sono neppure venuto qui con l’idea di fare l’insegnante! Il mio piano era di fare una lunga vacanza, rinfrescare il mio inglese e aiutare un’amica che si stava trasferendo nella Grande Mela con suo figlio, che avrebbe cominciato la scuola. E proprio grazie al mio ruolo di “nanny” ho scoperto, e sono stato scoperto, da una scuola internazionale italiana che, riconoscendo il mio talento, mi ha invitato a far parte del corpo docenti come insegnante di materie teatrali. Da allora, era il 2014, vivo a New York, combinando le mie passioni: l’insegnamento e il teatro». Com’è questa famosa scuola americana vista dall’interno? «Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, diciamo che mentre il sistema italiano enfatizza la cultura generale e la presentazione orale, il sistema americano si concentra sulle connessioni tra argomenti e dà priorità ai test. Ma in entrambi i sistemi, il teatro ha il potere di unire e insegnare». Come si insegna il teatro ai bambini in America? «Le mie lezioni sono un riflesso della mia vita: ciascuna è un viaggio. Mi vedo come un comandante di barca, che indica la rotta e poi si affida al suo equipaggio per raggiungere l’approdo. E come un comandante di barca guida i suoi marinai, io cerco di guidare i miei studenti verso nuove scoperte. È un processo collaborativo, dove ogni allievo ha un ruolo fondamentale. L’obiettivo è creare inclusione attraverso il teatro e, per farlo, utilizzo giochi che richiamano quelli dell’infanzia e risvegliano emozioni e capacità nascoste all’interno di ciascuno di noi. La nostra interazione attraverso il teatro diventa un mezzo naturale per apprendere e applicare la lingua italiana in vari contesti comunicativi».

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il tempo della Grande Mela

Massimo Zordan in uno dei workshop che presenta nelle Università americane. Come hai unito il teatro con l’insegnamento della lingua italiana? «Fondamentale è stata la mia collaborazione con il Prof. Daniel Bellissimo, tra i più noti esperti di “italiano come seconda lingua”. Insieme abbiamo sviluppato un metodo che combina glottodidattica e tecniche teatrali, integrando queste ultime nell’insegnamento delle lingue. Questo metodo unico valorizza la comunicazione non verbale e l’espressione emotiva nel processo di apprendimento della lingua. Abbiamo sviluppato un manuale multimediale che enfatizza l’importanza della dedizione, dell’amore e della passione nell’apprendimento. La nostra metodologia è stata anche arricchita da una collaborazione di quattro anni con il Middlebury College del Vermont, un’istituzione rinomata nell’insegnamento delle lingue straniere. Abbiamo presentato i nostri workshop in prestigiose istituzioni come la Montclair University del New Jersey, l’Orsuline School e il Manhattan College, per citarne alcune. Il nostro lavoro ha guadagnato l’attenzione di enti come il Consolato italiano a New York e il Ministero della pubblica Istruzione. Queste collaborazioni hanno dimostrato che il nostro “viaggio” ha creato un ponte significativo tra le culture, facilitando l’apprendimento dell’italiano attraverso il teatro».

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il tempo della Grande Mela

Le lezioni del professor Zordan sono un viaggio attraverso le emozioni dove lui è il capitano e gli studenti l’equipaggio. Questo metodo funziona solo sui bambini? «Assolutamente no. La scuola, intesa come luogo dove si insegna, e la capacità di apprendimento è intergenerazionale e universale. Ogni nazione, ogni cultura e ogni lingua hanno qualcosa di unico da offrire. Il teatro è una straordinaria piattaforma interattiva per insegnare e apprendere una lingua in modo dinamico e divertente per studenti di ogni età. Ogni nostra lezione risveglia le emozioni e le capacità innate in ogni individuo, la tecnica può essere applicata ad ogni lingua». Quali saranno le prossime tappe del viaggio di Massimo Zordan? «Soltanto il tempo lo dirà. Ma una cosa è certa: il desiderio di imparare e di condividere rimane costante, indipendentemente dalla lingua o dalla geografia. E come i marinai di Colombo che, alla scoperta di nuove rotte, scoprirono le Americhe, io continuerò a navigare verso nuovi orizzonti cercando di scoprire nuove strade nell’insegnamento e nell’arte. Perché l’apprendimento è un viaggio senza fine. Il mio viaggio non è ancora finito e la mia missione rimane la stessa: esplorare, scoprire e condividere»!

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Dal nostro archivio LA MACCHIA SUL JUDOGI Judo: uno splendido sport che mi ha insegnato moltissimo. Compreso non sottovalutare mai un avversario, sia pure un’angelica ragazzina bionda… Di Marco Vittorio Ranzoni - giornalista

Da bambino ero magro, timido e introverso. Adesso sono timido e introverso, ma allora la mia magrezza e il fatto che mangiavo pochissimo e malvolentieri sembrava un problema per la crescita e il dottore disse che dovevo fare sport. Delle turbe dell’animo dei bambini, allora, ci si preoccupava poco.

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Incursioni Così iniziai a praticare atletica leggera: nella corsa mi dissero di lasciar perdere, nel salto in alto mi plafonai ben presto a un metro e venti, così il campo Cappelli perse presto un giovane atleta. Provai con la pallacanestro (chi mi conosce a questo punto ride malignamente, ma allora non si poteva sapere che cosa ne sarebbe stato del mio corpo). Vabbè, i miei cominciavano a disperare finché un giorno pronunciai la parola magica: judo. Strano, perché non conoscevo nessuno che lo praticasse e allora non era tanto di moda; forse avevo visto qualcosa alla televisione, era da poco disciplina olimpica (giochi di Tokyo del 1964), non mi ricordo i dettagli; i miei non sapevano bene cosa fosse, ma tant’è… Un giorno presi il tram con mia nonna Claudia e discesi i gradini della palestra Universo di via Crocefisso. Non potevo saperlo, ma quello era un giorno particolare: era in corso uno stage per sole cinture nere. Figurati! Io facevo la lotta con i cuscini saltando sul letto della nonna Carla (l’altra nonna mi avrebbe fracassato col battipanni, se solo ci avessi provato) e quella mi sembrava un’alternativa decisamente pazzesca. Nota bene: in tutti gli anni di palestra non mi capitò mai più di vedere una simile dimostrazione di tecniche, quindi è ovvio che quel pomeriggio di novembre fu Jigoro Kano in persona a mandarmi un segnale.

Jigoro Kano (1860- 1938), fondatore del judo

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Incursioni Cominciò così un’avventura fantastica, sotto la paziente guida del Maestro Ubaldo Paschini, che ben presto divenne il mio faro e il mio mito. Iniziai a divertirmi. Poi si faceva un sacco di ginnastica e qualche muscoletto saltò fuori. Dopo qualche mese e il primo esame misi la cintura gialla e si cominciò a fare sul serio. Il metodo di Paschini era di far partecipare subito gli allievi alle garette organizzate tra le palestre milanesi, secondo il suo motto: “Nelle gare non si perde mai, si vince o si impara”. Ero diventato un po’ più alto, però pesavo sempre pochissimo, il che era un vantaggio, per alcune tecniche che stavo imparando. Dopo qualche gara della domenica venne organizzato un quadrangolare. Erano incontri molto amichevoli e alla buona e a volte, nella stessa categoria di peso, eravamo in pochi e poteva succedere di misurarsi con una ragazza. E infatti nel sorteggio mi capitò una ragazzina bionda, molto carina, con la cintura bianca. Timido ed educato com’ero restai lì rigido per farle fare la prima mossa. Ricordo solo di avere visto i miei piedi vicino al soffitto e poi lei che si rassettava il judogi e il mio maestro che rideva sotto i baffi . La ragazza si cinse della sua cintura marrone: aveva da poco vinto i campionati provinciali e lo scherzo della cintura era stata un’idea del mio maestro, che così ebbe l’occasione per dirmi : “Mai sottovalutare un avversario”. Mi piaceva un sacco, il judo. Col tempo superai gli esami per il grado superiore e cambiai i colori della cintura: arancione, verde, blu. Una sera di normale allenamento il maestro mi chiamò a sé per un randori: lui pesava almeno 95 chili, ma si lasciò proiettare diverse volte lasciandomi eseguire tutte le tecniche che preferivo, prima di impartirmi la lezione: pronunciava a voce alta il nome della tecnica che avrebbe applicato, per darmi modo di evitarla,

Judo: via della cedevolezza

poi partiva veloce come un cobra e mi faceva volare da tutte le parti. Gli altri si erano fermati tutti a guardare quella specie di straccio bianco che roteava senza peso per tutta la palestra e ricadeva fragorosamente. Alla fine, dopo il saluto, prese qualcosa da una borsa e me la porse senza dire nulla: era la cintura marrone. Poi, fuori dallo spogliatoio, mi chiese se mi sarebbe piaciuto entrare nella squadra agonistica. Per me era un sogno che si realizzava, ero felicissimo. “Però”, disse, “non qui, nella mia palestra di Sesto San Giovanni”. Sapevo che Paschini aveva fondato un club a Sesto, del quale si dicevano meraviglie e che mieteva medaglie. Dissi subito di sì senza pensare alle difficoltà logistiche e, avuto il permesso genitoriale, iniziai a frequentare anche là: due sere a settimana a Milano alla Universo, e due sere a Sesto. Spesso, prima delle gare della domenica, allenamento anche al sabato.

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Incursioni

Il mio maestro Ubaldo Paschini con un allievo

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Incursioni La prima volta allo Sport Club Sesto me la ricorderò per sempre. A Milano tutti fighetti: palestra del centro, con le mamme che accompagnavano i bambini “a fare judo” nella tenuta sempre immacolata, candida e stirata e restavano a guardarli nascondendo i fremiti quando cadevano. A Sesto non era così. Mai vista una mamma: a Sesto, secondo me se le erano mangiate. Appena entrato mi sembrò una specie di girone dell’inferno: si stava allenando la squadra agonistica e mi sembravano tutti teppisti scappati di galera, la materassina beige con macchioline di sangue e i judogi che non vedevano la lavatrice da anni. Mi guardarono con aria di compatimento; io ero talmente leccato che mia nonna mi aveva pure fatto la riga sui pantaloni candidi del judogi, che vergogna… Il maestro mi presentò i compagni e subito iniziai l’allenamento con quelli più o meno del mio peso. Un altro pianeta e un altro livello. Brutti, sporchi e cattivi. Quello sì che era judo vero. Ben presto capii che pur nel suo rigore di arte marziale il judo può avere due anime, quella classica e quella moderna, sportiva. Infatti lì a Sesto il motto del maestro Paschini - che nel frattempo si era inventato dal niente il trofeo Abramo Oldrini per cinture nere, diventato ben presto uno dei tornei più prestigiosi a livello mondiale - era declinato in un più prosaico “L’importante non è partecipare, ma vincere”. Diavolo d’un uomo.

Uchi Mata, una delle tecniche più usate a livello agonistico

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Incursioni La faccio breve per non fare il sentimentale: da lì in poco tempo mi feci degli amici veri, scoprii ben presto che i judogi erano sporchi perché quasi tutti, figli di operai, ne avevano uno solo (io ne avevo tre) e imparai che sudandoci dentro una settimana diventavano molto più morbidi e confortevoli. Di lì a breve mi uniformai allo stile, imparai tantissimo e mi divertii un mondo. Prendevo il tram e la metro fino al capolinea di Marelli e tornavo a casa alle undici di sera; quando andavo alla palestra di via Crocefisso (col judogi macchiato di coreografiche macchioline di sangue) mi guardavano come se fossi un teppista scappato di galera. Specie le mamme. Così passarono gli anni, io ero nella categoria fino a 57 chilogrammi anche se facevo un po’ fatica a restarci e prima del rito della pesatura facevo parecchi giri di corsa con addosso felpe e maglioni per arrivare alla bilancia trattenendo il fiato. Disputai tante gare, non ero un fuoriclasse ma me la cavavo e portai qualche coppa agli scaffali dello Sport Club Sesto. Ma era un impegno gravoso e ben presto mi trovai intrappolato tra i primi esami all’Università, la fidanzata e gli allenamenti, e così smisi del tutto. Gli esami da cintura nera si facevano a Roma, allora, ma bisognava dedicarci parecchio tempo per studiare bene i kata, e quindi mi tenni la vecchia marrone, ormai scolorita e sfilacciata L’ultima volta che sono salito su una materassina però l’ho fatto alla grande: per una riunione aziendale invitammo come testimonial dei valori dello sport Pino Maddaloni, allora freschissimo oro alle Olimpiadi di Sydney, e i tre fratelli Vismara, vere icone della storia del judo italiano. Così, su un tatami approntato per l’occasione, mi sono fatto strapazzare per qualche minuto da brivido dopo aver rimesso il vecchio judogi. Pulito e stirato per l’occasione, ci mancherebbe.

1. Jigoro Kano (1860–1938): fondatore del judo 2. Judogi: abbigliamento del judoka 3. Randori: esercizio libero di messa in pratica delle tecniche 4. Kata: schemi prestabiliti di attacco e difesa 5. Tatami: materassina sulla quale si pratica il judo

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Immagini e fotografie

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ILLUSTRAZIONE DI ATTILIO ORTOLANI


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