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“Amoglianimali”
Bellezza
Da leggere (o rileggere)
Da vedere/ascoltare
Di tutto e niente
Il desco dei Gourmet
Il personaggio
Il tempo della Grande Mela
Comandacolore
Incursioni
In forma
In movimento
Lavori in corso
Primo piano
Salute
Scienza
Sessualità
Stile Over
Volontariato & Associazioni
Minnie Luongo
Marco Rossi
Alessandro Littara
Antonino Di Pietro
Mauro Cervia
Andrea Tomasini
Paola Emilia Cicerone
Flavia Caroppo
Marco Vittorio Ranzoni
Giovanni Paolo Magistri
Maria Teresa Ruta
Attilio Ortolani
Sito web: https://generazioneover60.com/ Email: generazioneover60@gmail.com
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Classe 1951, laureata in Lettere moderne e giornalista scientifica, mi sono sempre occupata di medicina e salute preferibilmente coniugate col mondo del sociale. Collaboratrice ininterrotta del Corriere della Sera dal 1986 fino al 2016, ho introdotto sulle pagine del Corsera il Terzo settore, facendo conoscere le principali Associazioni di pazienti.Ho pubblicato più libri: il primo- “Pronto Help! Le pagine gialle della salute”- nel 1996 (FrancoAngeli ed.) con la prefazione di Rita Levi Montalcini e Fernando Aiuti. A questo ne sono seguiti diversi come coautrice tra cui “Vivere con il glaucoma”; “Sesso Sos, per amare informati”; “Intervista col disabile” (presentazione di Candido Cannavò e illustrazioni di Emilio Giannelli).
Autrice e conduttrice su RadioUno di un programma incentrato sul non profit a 360 gradi e titolare per 12 anni su Rtl.102.5 di “Spazio Volontariato”, sono stata Segretario generale di Unamsi (Unione Nazionale Medico-Scientifica di Informazione) e Direttore responsabile testata e sito “Buone Notizie”.
Fondatore e presidente di Creeds, Comunicatori Redattori ed Esperti del Sociale, dal 2018 sono direttore del magazine online Generazioneover60.
Quanto sopra dal punto di vista professionale. Personalmente, porto il nome della Fanciulla del West di Puccini (opera lirica incredibilmente a lieto fine), ma non mi spiace mi si associ alla storica fidanzata di Topolino, perché come Walt Disney penso “se puoi sognarlo puoi farlo”. Nel prossimo detesto la tirchieria in tutte le forme, la malafede e l’arroganza, mentre non potrei mai fare a meno di contornarmi di persone ironiche e autoironiche. Sono permalosa, umorale e cocciuta, ma anche leale e splendidamente composita. Da sempre e per sempre al primo posto pongo l’amicizia; amo i cani, il mare, il cinema, i libri, le serie Tv, i Beatles e tutto ciò che fa palpitare. E ridere. Anche e soprattutto a 60 anni suonati.
DOTTOR MARCO ROSSI SESSUOLOGO E PSICHIATRA
è presidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale e responsabile della Sezione di Sessuologia della S.I.M.P. Società Italiana di Medicina Psicosomatica. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e come esperto di sessuologia a numerosi programmi radiofonici. Per la carta stampata collabora a varie riviste.
DOTTOR ALESSANDRO LITTARA ANDROLOGO E CHIRURGO
è un’autorità nella chirurgia estetica genitale maschile grazie al suo lavoro pionieristico nella falloplastica, una tecnica che ha praticato fin dagli anni ‘90 e che ha continuamente modificato, migliorato e perfezionato durante la sua esperienza personale di migliaia di casi provenienti da tutto il mondo
PROFESSOR ANTONINO DI PIETRO DERMATOLOGO PLASTICO presidente Fondatore dell’I.S.P.L.A.D. (International Society of PlasticRegenerative and Oncologic Dermatology), Fondatore e Direttore dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis, è anche direttore editoriale della rivista Journal of Plastic and Pathology Dermatology e direttore scientifico del mensile “Ok Salute e Benessere” e del sito www.ok-salute.it, nonché Professore a contratto in Dermatologia Plastica all’Università di Pavia (Facoltà di Medicina e Chirurgia).
DOTTOR MAURO CERVIA MEDICO VETERINARIO
è sicuramente il più conosciuto tra i medici veterinari italiani, autore di manuali di successo. Ha cominciato la professione sulle orme di suo padre e, diventato veterinario, ha “imparato a conoscere e ad amare gli animali e, soprattutto, ad amare di curare gli animali”. E’ fondatore e presidente della Onlus Amoglianimali, per aiutare quelli più sfortunati ospiti di canili e per sterilizzare gratis i randagi dove ce n’è più bisogno.
giornalista scientifico, dopo aver girovagato per il mondo inseguendo storie di virus e di persone, oscilla tra Roma e Spoleto, collaborando con quelle biblioteche e quei musei che gli permettono di realizzare qualche sogno. Lettore quasi onnivoro, sommelier, ama cucinare. Colleziona corrispondenze-carteggi che nel corso del tempo realizzano un dialogo a distanza, diluendo nella Storia le storie, in quanto “è molto curioso degli altri”.
classe 1957, medico mancato per pigrizia e giornalista per curiosità, ha scoperto che adora ascoltare e raccontare storie. Nel tempo libero, quando non guarda serie mediche su una vecchia televisione a tubo catodico, pratica Tai Chi Chuan e meditazione.
Per Generazione Over 60, ha scelto di collezionare ricordi e riflessioni in Stile Over.
Barese per nascita, milanese per professione e NewYorkese per adozione. Ha lavorato in TV (Studio Aperto, Italia 1), sulla carta stampata (Newton e Wired) e in radio (Numbers e Radio24). Ambasciatrice della cultura gastronomica italiana a New York, ha creato Dinner@Zia Flavia: cene gourmet, ricordi familiari, cultura e lezioni di vera cucina italiana. Tra i suoi ospiti ha avuto i cantanti Sting, Bruce Springsteen e Blondie
MARCO VITTORIO RANZONI GIORNALISTA
Milanese DOC, classe 1957, una laurea in Agraria nel cassetto. Per 35 anni nell’industria farmaceutica: vendite, marketing e infine comunicazione e ufficio stampa. Giornalista pubblicista, fumatore di Toscano e motociclista della domenica e -da quando è in pensione- anche del lunedì. Guidava una Citroen 2CV gialla molto prima di James Bond.
COMANDACOLORE è uno Studio di Progettazione Architettonica e Interior Design nato dalla passione per il colore e la luce ad opera delle fondatrici Antonella Catarsini e Roberta D’Amico. Il concept di COMANDACOLORE è incentrato sul tema dell’abitare contemporaneo che richiede forme e linguaggi mirati a nuove e più versatili possibilità di uso degli spazi, tenendo sempre in considerazione la caratteristica sia funzionale che emozionale degli stessi.
MONICA SANSONE VIDEOMAKER
operatrice di ripresa e montatrice video, specializzata nel settore medico scientifico e molto attiva in ambito sociale.
-10Generazione F La mia felicità? La voglio delirante Editoriale di Minnie Luongo
-13Foto d’autore La felicità? Una tavolozza di colori di Francesco Bellesia
-15Stile Over Felicità tra le pagine di Paola Emilia Cicerone
-19Da leggere (o rileggere) Un biglietto per la felicità Di Amelia Belloni Sonzogni
-25Riflessioni Felicità, tra chimera e realtà Di Rosa Mininno
-28Il tempo della Grande Mela Chiedimi se sono felice di Flavia Caroppo
-34Food Nutrire la felicità Di Michela Romano
-37In movimento Spesso viaggiare è sinonimo di felicità Gli Erranti
-43Il desco dei Gourmet
“Controfagotto alla Tebaldi”, per celebrare il centenario della nascita del soprano. Un piatto creato da Carlo Gallotti 20 anni fa per l’illustre cliente del negozio dalla Redazione
Il mese scorso, per parlare di felicità, avevo espresso la mia propensione per “gli sprazzi di felicita”, ovvero per i “momenti dell’essere” di Virginia Woolf.
Questa volta mi spingo oltre per dire che cos’è per me la felicità in amore e riprendo un Editoriale in cui avevo già citato il film del 1998 “Vi presento Joe Black”, dato che il monologo di Antony Hopkins (che ormai conosco a memoria, confesso) racchiude esattamente il mio pensiero. Sempre e comunque per una felicità delirante. Perchè, come sintetizzato dal personaggio interpretato da uno stupendo Hopkins, l’amore è passione e ossessione: un sentimento che non ti abbandona, che ti offusca i sensi, in cui buttarsi a capofitto. Amore significa vivere.
Lo so, probabilmente i più preferiscono la tranquillità e la sicurezza, e forse (sicuramente?) hanno ragione loro.
Per farla breve, ecco di seguito il famoso discorso del magnate William Parrish (alias Hopkins) alla figlia per commentare il suo rapporto col fidanzato e per augurarle di abbattere i muri e lasciarsi andare (cosa che succederà non appena incontrerà Brad Pitt).
“Non un’ombra di trasalimento, non un bisbiglio di eccitazione; questo rapporto ha la stessa passione di un rapporto di nibbi reali. Voglio che qualcuno ti travolga, voglio che tu leviti, voglio che tu canti con rapimento e danzi come un derviscio! Voglio che tu abbia una felicità delirante!
O almeno non respingerla.
Lo so che ti sembra smielato ma l’amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi. Io ti dico: “Buttati a capofitto! Trovati qualcuno che ami alla follia e che ti ami alla stessa maniera!”
Come trovarlo?
Beh, dimentica il cervello e ascolta il cuore”.
Ecco, io sono sempre e comunque per questo tipo di felicità. Alla faccia della confusione, della sofferenza e dello smarrimento cui, nel 99%, si va incontro puntando a un sentimento di questo tipo. Ma ormai sono troppo Over per pensare di voler cambiare. Buona felicità a tutti, comunque la intendiate!
Come la vita, anche la felicità comprende ogni tonalità, dalla più chiara alla più cupa
“La vita è una tavolozza di colori” (scatto Facebook di Francesco Bellesia, 2023)
Sono nato ad Asti il 19 febbraio del 1950 ma da sempre vivo e lavoro a Milano. Dopo gli studi presso il liceo Artistico Beato Angelico ho iniziato a lavorare presso lo studio di mio padre Bruno, pubblicitario e pittore. Dopo qualche anno ho cominciato ad interessarmi di fotografia, che da quel momento è diventata la professione e la passione della mia vita.
Ho lavorato per la pubblicità e l’editoria ma contemporaneamente la mia attenzione si è concentrata sulla fotografia di ricerca, libera da vincoli e condizionamenti, quel genere di espressione artistica che oggi ha trovato la sua collocazione naturale nella fotografia denominata FineArt.
Un percorso parallelo che mi ha consentito di crescere e di sviluppare il mio lavoro, una sorta di vasi comunicanti che si sono alimentati tra di loro. Molte sono state le mostre allestite in questi anni e molte le manifestazioni alle quali ho partecipato con premi e riconoscimenti.
Continuo il mio percorso sempre con entusiasmo e determinazione… lascio comunque parlare le immagini presenti sul mio sito.
Per me felicità e libri sono sinonimi . Da quando ho imparato a leggere o forse da quando, bambina, vincevo la paura di dormire da sola nella mia cameretta portandomi a letto un pacco di libri destinati a farmi compagnia per la notte, sui quali poi inevitabilmente mi addormentavo. Nel corso degli anni molti libri mi hanno dato conforto, per ragioni diverse e in momenti diversi. Ma se devo citare il mio personale “ libro della felicità” il primo che mi viene in mente è La mia vita di Agatha Christie (Mondadori), autobiografia della famosa scrittrice che è riuscita, grazie all’intelligenza e al sense of humor, a superare esperienze traumatiche come la dislessia o l’abbandono del marito . Il che non toglie che ci siano libri dedicati alla felicità fin dal titolo, come la celeberrima Lettera sulla felicità di Epicuro disponibile in diverse edizioni In realtà il titolo originale, modificato dagli editori per renderlo più appetibile, era Lettera a Meneceo : nel testo il filosofo riassume i principi fondamentali della sua filosofia: accontentarsi del necessario e non perdersi dietro desideri irrealizzabili. Una giusta via di mezzo che richiama per noi l’insegnamento buddista, cui si contrappone con qualche forzatura Seneca che nel suo De vita beata (pubblicato a Newton Compton come La felicità) sostiene che la felicità risieda invece in una vita virtuosa e condotta secondo ragione
In tempi più vicini a noi, il dibattito e l’idea stessa di felicità si fanno più complessi e ricchi di sfumature. Le raccolte di aforismi tendono a semplificare, ma anche limitandoci alla letteratura italiana c’è chi come D’Annunzio identifica la felicità con il piacere, mentre il suo contemporaneo Pascoli la trova piuttosto nelle piccole cose che lo circondano, una serenità familiare che è forse anche un modo di sfuggire a emozioni troppo forti (non è un caso che Pascoli sia uno dei miei poeti preferiti).
Gabriele D’Annunzio (1863- 1938)
Ma la felicità data dal rapporto con la Natura è un tema ricorrente in letteratura, pensiamo a un poeta romantico come William Wordsworth, e alla sua celeberrima poesia I Wandered Lonely as a Cloud - più nota come Daffodils - dedicata ai narcisi e all’emozione provata nel vederli danzare nell’erba ( Qui il testo integrale in inglese https://www.poetryfoundation.org/poems/45521/i-wandered-lonely-as-a-cloud ) .
Più curioso, semmai, che di felicità si siano occupati due autori che siamo abituati ad associare al pessimismo come Schopenhauer e Leopardi. Il poeta ci ricorda come la felicità che ci è concessa sia fatta solo di attimi, o della pausa tra due dolori, e in qualche caso dell’attesa di una felicità che non arriverà mai - come quella descritta nei celebri versi de Il sabato del villaggio - e resti quindi un sentimento precario e irraggiungibile . Mentre il filosofo tedesco (1788 / 1860) si è sbilanciato con una raccolta di Consigli sulla felicità pubblicati in italiano da Mondadori: per Schopenhauer una vita serena va cercata nella realizzazione della dimensione interiore, evitando di farsi ingabbiare dalle illusioni o di correre dietro ai piaceri.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, con l’avvertenza di non fermarsi al titolo, spesso fuorviante. Un esempio? Il bellissimo racconto di Katherine Mansfield intitolato Felicità - nell’originale Bliss , beatitudine - pubblicato in italiano da vari editori, descrive, in effetti, un momento di gioia infinita seguito, ahimè, subito dopo da una dolorosa delusione. Meglio forse allora lasciare la parola a Tolkien, o meglio a uno dei suoi personaggi, il nano Thorin Scudodiquercia, che ci propone una ricetta di felicità solo apparentemente banale: “Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto” . (“If more of us valued food and cheer and song above hoarded gold, it would be a merrier world.”)
Ci sono istanti di felicità tali da resistere, belli e isolati, al passare del tempo e nonostante tutto. Sono nella memoria, impossibili da dimenticare.
Può sorprendere, invece, ritrovare – scappato da un plico – un talloncino di cartone, perfettamente conservato; a monito?
— Torno per cena. Ciao!
La voce squilla incontrollabile mentre saluta i suoi ed esce. Ufficialmente, Elena va da Paola, quindi dovrebbe nascondere tutta la gioia, quasi una frenesia, che la spinge. Di quanto accaduto pochi giorni prima, non ha raccontato nulla, né a papà – si sarebbe ingelosito – né a sua madre – manca la necessaria confidenza. Solo due amiche, compagne di classe, messe al corrente, avevano commentato affettuose: “era ora, a diciott’anni compiuti, nel 1975!!, almeno prima della maturità, ci voleva”. Si dirige di buon passo verso la stazione di Levanto. I tigli di corso Roma sono carichi di gemme e piccole foglie già sbocciate; oltre l’intrico a volta dei rami, il cielo è azzurro, intenso eppure chiaro, privo per ora di nuvole. Quando attraversa il ponte sul Ghiararo, Elena vede le macchie gialle dei narcisi fioriti, illuminati su una riva dal sole che inizia a scaldare anche lei. È tutto bellissimo come sempre, eppure insolito.
Acquista il biglietto e raggiunge il binario per La Spezia.
È impaziente . Guarda di continuo l’orologio, cammina per mettersi al sole, ora alto e deciso oltre il crinale . Osserva, sulla banchina di fronte, di fianco all’ufficio del capostazione, i due “annuncio treno” – direzione La Spezia, direzione Genova – che iniziano a suonare quando un convoglio parte dalla stazione limitrofa; al momento, tacciono
Sarebbe stato come prendere un tram a Milano; qualche scossone, tra accelerate e frenate; poca gente in circolazione alle dieci del mattino del venerdì prima di Pasqua. Mezz’ora per rivederlo. Si sente avvolta dalla medesima e allegra agitazione confusa, le scorre addosso la stessa sensazione indefinibile provata nell’istante in cui l’aveva conosciuto.
Glielo aveva presentato Paola mentre era ospite da lei, una decina di giorni prima: veniva verso di loro con un amico e, al guinzaglio, Barto, terranova di una bellezza maestosa. Elena aveva subito affondato le mani nel pelo lungo, fitto attorno al collo, mentre lui l’aveva annusata facendole il solletico con i baffi. La bellezza del cane l’aveva affascinata tanto da non curarsi del fascino del proprietario, notato solo alzandosi. Le aveva sorriso, con una fossetta sulla guancia. Gli occhi blu, ingranditi dalle lenti da vista, sfuggenti; il gesto della mano passata di continuo sui folti capelli neri, lunghi quel tanto da cadergli sulla fronte a infa
stidirlo: aveva avvertito un’aria quasi familiare, ma non lo aveva mai visto, ne era certa; neppure ne aveva sentito parlare da Paola, che nel frattempo aveva preso accordi per vedersi la domenica pomeriggio, ad una festa di compleanno.
— Ci sentiamo — aveva detto lui – Emanuele – salutando mentre Barto distingueva odori.
Uno degli “annuncio treno” inizia a suonare.
—Allontanarsi dal primo binario, treno in transito.
Lo spostamento d’aria, i vagoni merci, lo sferragliare ritmato, il gusto del ferro: suscitano in lei sempre lo stesso smarrimento, passeggero come il treno, come se la portasse via. Si ripara dietro un pilastro, quasi dovesse riparare anche la felicità che prova: dell’attesa, del tragitto, della strada da percorrere; che proverà tra mezz’ora: dell’appuntamento, dell’incontro, delle labbra avide ma tenere.
Il suono degli “annuncio treno” raddoppia.
— Locale per La Spezia è in arrivo sul secondo binario. Ferma in tutte le stazioni.
Elena sceglie un posto vicino al finestrino, in uno scompartimento vuoto. Ha voglia di guardare il panorama e di ricordare, di fantasticare; tutto il resto resti fuori.
Si erano incontrati ancora in via Chiodo e lei, impacciata dalla consapevolezza che Emanuele le piaceva, era rimasta incollata a Paola. Cercava di non darlo a vedere ma non lo perdeva di vista un momento: affabile e sorridente, passava da un gruppetto all’altro, accolto sempre da tutti con espressioni evidenti di piacevole sorpresa. Scambi di battute, sigarette offerte e accese, un clima allegro di incontri da organizzare con questo, con quello. Le era parso di cogliere uno sguardo per lei ad ogni passaggio, come se anche lui la stesse tenendo d’occhio, fino a quando si era avvicinato e, intrufolandosi tra lei e Paola, aveva detto:
— Ho due biglietti in più per il concerto di Elvin Jones, stasera al Civico. Venite?
Aveva creduto sarebbero stati insieme ad ascoltare, invece Emanuele si era allontanato nell’intervallo ed era ricomparso a fine concerto:
— Jazz puro, vi è piaciuto?
No, non proprio, ma aveva detto di sì, lo avrebbe detto comunque.
Il treno rallenta, stride, si ferma a Monterosso. Entra il sole dal finestrino. Elena si crogiola al suo tepore riflesso. Sente dei passi, alcuni ragazzi in cerca di un posto a sedere per tutti la superano, per fortuna. Non ha voglia di chiacchierare.
Sulla porta dello scompartimento appare il capotreno:
— Favorisca il biglietto, per favore.
Oblitera con un colpo deciso il cartoncino e glielo rende. Dal finestrino, Elena vede il capostazione che sventola la paletta verde. Fischia. Il treno riparte.
Alla festa di compleanno, nella cantina di una villa a Fiascherino, Emanuele era gentile, con il sorriso sempre aperto tra le fossette, ma sfuggente. Bello e inquieto come un personaggio di James Dean, al quale le sembrava assomigliasse.
Senza dirle nulla, le si era avvicinato, con un braccio intorno alla vita l’aveva portata a sé mentre Drupi cantava “Piccola e fragile”; l’aveva tenuta stretta, con la sigaretta nell’altra mano, una boccata ogni tanto, occhi negli occhi, zitti tutti e due: non c’era più nessuno intorno per lei, cullata dal dondolio leggero del lento, avvolta da un profumo impastato di sigaretta ma piacevole, fino al secondo ritornello.
Emanuele non aveva aspettato la fine della canzone per lasciarla con Paola e andarsene a chiacchierare con altri amici. Un sorriso, un bacio leggero sui capelli, l’occhiolino appena accennato, un prendi e lascia che l’agitava e la lasciava inerme, a desiderare il prossimo.
La carrozza sui cui si trova Elena resta in galleria. Non tutto il treno riesce a entrare nella piccola stazione di Vernazza ma, quando riparte, appare il caruggio colorato, corre curvo in discesa verso la piazzetta e il mare e sparisce. A mostrare il mare brillante, a fargliene sentire il profumo e il rumore, arriva Corniglia dove il golfo è largo e lo sguardo scappa impaziente oltre la punta a levante, lungo le strade disegnate dalle correnti sulle onde. Elena abbassa il finestrino: sole in fronte, aria pulita, salsedine che sa di fiori di roccia, tutto la tranquillizza; sente un “annuncio treno” avvertire di un treno in transito e il suo non riparte, questioni di precedenze.
Emanuele sarà ad aspettarla al binario? Era stato impreciso nei dettagli:
— Quando arrivi, ti trovo.
Come trascorreranno quella giornata? Non le importa, non vede l’ora.
Nessuno degli amici sentiti da Paola per telefono era interessato a quel film, pazienza: sarebbero andate da sole, all’ultimo spettacolo del pomeriggio. Avevano fatto scorta di caramelle: Otello al cioccolato, uno per ogni primo piano di Alain Delon, mascherato da Zorro. Alla fine del primo tempo il sacchetto era quasi vuoto.
— Guarda chi c’è! — le aveva detto Paola, indicando alla sua sinistra. Elena si era sporta mentre Emanuele superava posti a sedere vuoti per raggiungerle.
— Vuoi cambiare posto? — le aveva chiesto Paola in un orecchio, a luci spente. No, non aveva voluto ricambiare il gesto esplicito, preferiva lasciargli l’iniziativa.
Gioia e imbarazzo si azzuffavano in lei mentre Zorro disegnava Z in punta di fioretto sulla pancia del sergente Garcia: non aveva ancora dato un bacio a nessuno, non sapeva come, non voleva sbagliare quando; sprofondava, nel timore di essere “imbranata” e nella poltroncina.
Manarola, Riomaggiore, le fermate intermedie sono finite. Deve scendere alla prossima. Sembra così lungo quest’ultimo tratto di gallerie.
Erano rimaste sedute ad ascoltare la colonna sonora, poi Ema -
nuele si era alzato, aveva sospinto Paola verso l’uscita dalla fila: — The end: fine! Il film è finito…
Fuori scrosciava una pioggia battente: — Siete a piedi? Vi accompagno io.
Aveva dato un colpetto di clacson, aperto lo sportello e reclinato il sedile anteriore della 500 blu per farle salire. Elena si era sistemata dietro. La pioggia batteva quasi violenta sulla capote di stoffa. Dopo qualche curva intorno ai colli, arrivati davanti a casa, Paola era scesa di corsa, aveva aperto il portone e chiamato l’ascensore. Elena si era girata per salutare Emanuele, sceso dalla 500 blu, bagnato.
All’improvviso, al riparo del portone, la schiena appoggiata alla pulsantiera dei citofoni, una mano intrecciata alla sua e l’altra nei suoi capelli annaffiati di pioggia, sopra le lenti appannate degli occhiali, aveva dato a Emanuele il primo bacio: così ovvio, quasi inconsapevole, dolce e semplice, tenero, lungo fino alla carezza sul viso, lo sfiorare delle labbra sulle sue ciglia e il sussurro solo per lei: — Ciao, stella; a domani.
Il treno termina la corsa.
Elena scende, cerca Emanuele e non lo vede; poi lo nota, sul primo binario, che la saluta con la mano. È bello, sorride.
Nell’abbraccio, subito ritrova la dolcezza dei baci scambiati pochi giorni prima in giro per la città, tra le bancarelle della fiera di San Giuseppe; la delicatezza con cui le spostava i capelli dal viso; i discorsi sul jazz, sulle orchestre americane, sulle canzoni anteguerra, ma come fai a conoscerle, le chiedeva e lei a spiegare che le cantavano i suoi genitori, la sai questa? Lui che l’ascoltava canticchiare, senti che bella vocina; e le insegnava:
“allacciamoci nel tango, dolce bimba fior del fango”, ma lei sbagliava sempre la nota “go” di tan-go e di fan-go.
La prende per mano: — Ho la macchina, vieni.
Un paio d’ore dopo, la riporta in stazione. Hanno gironzolato con la 500 blu, si sono fermati in una parte del porto, vicino al mare, un punto che Elena non conosceva e, dovesse tornarci, non saprebbe dire dov’era.
Elena ha snocciolato progetti immediati: era a Levanto per Pasqua, poi gli esami di maturità, sarebbe tornata per l’estate; intanto, poteva venire lui una volta a Milano.
— Non so, ho gli esami da dare in facoltà; sono già in ritardo.
I baci sono cambiati: sono strani, diversi, a tratti freddi.
— Che c’è?
Le parole sono sempre più asciutte e distanti, i sorrisi si sono spenti sul nascere.
Elena non è riuscita a non chiedere:
— Perché?
Le domande non hanno avuto risposta plausibile, fino all’ultimo “perché” di una semplicità cruda:
— Non ho voglia di stare con te.
Elena scende dalla 500 blu e lo saluta come se non ci fosse stato nulla tra loro; lo manda via, preferisce rimanere da sola, al binario finché arriva il treno.
Sale e si siede. Cerca di guardare il panorama, lo stesso del viaggio di andata, ancora più splendente nella luce piena del sole dopo mezzogiorno, ma non lo vede, non vede niente, solo i momenti vissuti, le emozioni appaganti; il gusto di un bacio bagnato di pioggia; la felicità e, ora, il vuoto. Cerca di non piangere, per orgoglio, per amor proprio, per non mostrare gli occhi rossi quando a casa le chiederanno il motivo di un rientro tanto anticipato. Pensa alle amiche a scuola, ansiose di sapere: racconterà – alla svelta – di una delusione amara.
Terrà il biglietto, per ricordare: andata e ritorno.
Di Rosa Mininno – psicoterapeuta, fondatrice di Sibilla (Scuola italiana di biblioterapia, del libro, della lettura e delle arti)
La felicità è un lampo di luce, un soffio di vento in una giornata torrida, acqua fresca e pulita quando si ha una gran sete.
“Più felici! Bisogna essere più felici!” cantava con fare impositivo il venditore di felicità nell’opera pop “Orfeo 9” di Tito Schipa jr agli inizi degli anni ‘70. Difficile dare una definizione di felicità. È istantanea, fuggevole e la sua dimensione temporale è fatta di attimi di vita. Eppure la sua percezione è immediata, fulminea
Difficile disquisire di felicità in un tempo storico come il nostro oscurato dalla guerra in territori vicini ai nostri confini . Difficile quando davanti agli occhi si hanno immagini di distruzione, di violenza della Natura e della stupida violenza umana. Difficile parlarne quando davanti agli occhi, che oggi possono vedere tutto anche dove non sono, si stagliano barconi sfasciati carichi di disperazione, di dolore e speranza arenati sulle spiagge dei nostri mari del Sud . Eppure tra tanto dolore si può piangere di felicità per aver tratto in salvo un bambino piccolissimo dopo più di 100 ore che la forza della vita ha conservato nell’oscurità, nella solitudine, sotto le macerie della sua casa, senza mangiare, senza bere, al freddo , nella paura. Un bambino che tra le braccia del soccorritore che piange di felicità perché l’ha trovato, cercato disperatamente, guarda lui e noi, al caldo nelle nostre case, con quei suoi occhi infiniti di bambino . Ecco, la commozione è una misura della felicità.
Difficile parlare di felicità se si hanno bollette, tasse e mutui o affitti da pagare, se lo stipendio non arriva alla fine del mese, sempre se si ha la fortuna di avere un lavoro per vivere dignitosamente.
Difficile parlare di felicità se si sta male. Eppure si può provare un attimo di felicità.
La primavera per me è sempre stata portatrice di felicità, una rinascita. La felicità ridotta ad una invenzione pubblicitaria, “ Più felici! Bisogna essere più felici! “ Bisogni indotti da strategie pubblicitarie ciniche, seduttive e martellanti . E più ci inseguono certe chimere e più la felicità si allontana da noi senza mai avere la possibilità di essere raggiunta e vissuta.
E allora bisogna fermarsi, guardarsi dentro e scoprire che la felicità, “ Il sommo bene “ del quale parla Seneca nel suo” De vita beata” in realtà è dentro di noi, non in vissuti effimeri , ma in vissuti autentici, istantanei che non esaltano, ma che consolano di tante storture e aggressioni della vita a volte matrigna cattiva, a volte madre affettuosa e generosa.
Allora la felicità è guardarsi con gli occhi dilatati e profondi della ricerca introspettiva quando scopriamo con sorpresa qualcosa di inedito di noi. E’ serendipità: cerchi qualcosa e trovi un’altra cosa alla quale tenevi e che credevi di aver perduto.
Forse la felicità sta proprio nella distanza da se stessa, in quello spazio ontologico che come un guscio, uno scudo ci sottrae dalla frenesia dei tempi e puoi essere felice di quegli attimi, al contempo eterni e fugaci, in cui ti rendi conto che sei vivo e felice di esserlo perché potresti non esserlo. Quell’attimo di eternità che non tornerà a viverti perché questa vita è troppo bella per odiarla del tutto nei momenti bui e troppo amara per amarla del tutto in quelli belli.
“ Il sommo bene” allora sembra proprio essere quella dimensione umana che gode di se stessa per il solo fatto di “ essere”, lontana dalle chimere della frenesia quotidiana della vita che si affanna a imbellettarsi come una cortigiana pronta a vendersi al miglior offerente
“ Essere “ non “ avere “ come nel pensiero di Erich Fromm. « Essere» come il pane caldo e profumato appena sfornato che mangi a morsi perché hai fame . Fame d�amore . Fame di felicità .
« Essere « e non « mostrarsi» come vuole invece il nostro tempo .
“ Essere” e non “ avere” perché “essere” è la dimensione umana che dilata nello spazio e nel tempo noi stessi perseguendo quel vissuto di universalizzazione enunciato da Samuel Slavson.
“Essere” perché è questa la dimensione dell’inconscio collettivo enunciato da Jung che ci unisce senza dimensioni temporali agli altri, da sempre, da quando siamo comparsi sulla Terra, terra sirena, terra del giorno e della notte. La felicità appartiene al giorno e alla notte.
CHIEDIMI SE SONO FELICE
“Coloro che si svegliano ogni mattina con un compito da svolgere e una missione da adempiere sono le persone più felici. Non importa quale sia questo compito, o se la missione sia piccola, piccolissima. Solo con la determinazione di vivere ogni giorno al massimo possiamo scrivere il diario dorato della nostra vita”.
Di Flavia Caroppo – giornalista, corrispondente da New York
La frase nell’illustrazione qui sopra (“rubata” dal blog di Francesco Galgani , grazie!) e la citazione sotto il titolo, non sono mie ma del mio Sensei, che non è un vezzeggiativo dato al mio nuovo fidanzato… In Giapponese Sensei significa maestro, e questo maestro si chiama Daisaku Ikeda. Classe 1928, Ikeda è un membro a pieno diritto della Generazione Over60.
Ikeda/Sensei, terzo presidente della Soka Gakkai e fondatore/presidente della Soka Gakkai Internazionale (SGI) è un filosofo buddista, un educatore, un costruttore di pace, uno scrittore e un poeta ma, soprattutto, è la persona che ha insegnato a me e ad altri 12 milioni di persone in tutto il mondo (oltre 100mila solo in Italia) ad essere felici. Perchè essere felici si può, si deve. E non un lontano domani, ma proprio qui, oggi, esattamente dove sono, e dov’è ciascuno di voi.
E ora un pizzico di storia, per chi non avesse mai sentito parlare della SGI e non avesse mai ascoltato attraverso una finestra aperta o al di là del muro che vi separa dai vicini, il suono di una campanella seguito dall’armonioso canto del mantra Nam-Myoho-Renge-Kyo! Non è difficile, provate a leggere ad alta voce: Nammiò-o renghe chiò, Nammiò-o renghe chiò, Nammiò-o renghe chiò! La Soka Gakkai International (SGI) è una ONG accreditata presso l’ONU, che ha tra gli scopi quello di portare la pace nel mondo attraverso attività educative, culturali e spirituali. Si tratta di un’organizzazione laica buddista che si basa sull’insegnamento di un monaco giapponese del XIII secolo, Nichiren Daishonin , il quale a sua volta si basava sugli scritti del Budda Shakyamuni, fondatore della dottrina buddista, più conosciuto con il nome di Siddharta. Nichiren “scoprì” che tra i vari sutra (insegnamenti), lasciati dal primo Budda (“illuminato” in sanscrito) ce n’è uno in particolare, il Sutra del Loto , che rivela come ogni essere umano può far emergere dalle profondità di se stesso la Buddità, ovvero quella forza vitale universale, quell’illimitata energia positiva che porta verso uno stato di felicità.
Tranquilli, la lezione di storia delle religioni è finita! Se siete arrivati a leggere sin qui, fate ancora uno sforzo: ora arriva la parte dove vi racconto i fatti miei. Se vi ho incuriosito, però, vi suggerisco di leggere Felicità in questo mondo , e di dare un’occhiata al sito della SGI Italia .
Allora, vi ho promesso i fatti miei o, come si direbbe in termini buddisti, “la mia esperienza”. Eccola qua. Mi avvicino al buddismo circa dieci anni fa, dopo la fine di una lunga relazione. Comincio a praticare, ovvero a recitare Nam Myoho Renge Kyo, su invito di un amico, e con me iniziano altri due amici. Chi più chi meno, in quel momento avevamo tutti una serie di profonda insoddisfazione esistenziale (tradotto in termini buddisti: l’oscurità). Riunirsi ogni settimana e recitare insieme parole per noi senza senso (oltre al mantra, il rituale prevede anche delle preghiere più lunghe, ovviamente in giapponese), poi ascoltare i racconti degli altri membri che sembravano quasi felici degli ostacoli che si trovavano ad affrontare (“Mah, sarà!”, pensavo…), era un “prezzo” equo da pagare per poi uscire insieme a mangiare una pizza o cibo cinese. “Questo buddismo è basato sulle prove concrete”, mi ripetevano gli altri membri. “La fede si solidifica proprio grazie alla realizzazione dei tuoi desideri. Chiedi quello che vuoi, una cosa impossibile, poi recita Nam Myoho Renge Kyo e vedrai che la otterrai”. Non ho mai creduto ai miracoli, ma ho sempre inseguito (e realizzato) i miei sogni, tranne uno, vivere a New York, che avevo chiuso nel cassetto di quelli irrealizzabili. Però, a quel punto, il fidanzato amava un’altra, mio padre, purtroppo, non c’era più e anche il lavoro cominciava a starmi stretto. La faccio breve, mi licenzio, riesco ad ottenere un visto di lavoro per gli Stati Uniti (altro beneficio quasi impossibile da ottenere), e meno di un anno dopo atterro a New York. E tutti vissero felici e contenti? Certo che no!
Provo a riassumere quel che è accaduto poi. Cerco di avviare un business, raccontare l’Italia, la sua cultura e le tradizioni di famiglia attraverso il cibo. L’idea ha successo ma i costi sono altissimi. Dopo poco più di un anno non ho più soldi, non ho un lavoro, e devo pagare un affitto di 4mila dollari al mese. Felice non è la parola esatta per definire il mio stato d’animo in quei mesi. Disperata, forse? Terrorizzata? Un po’ tutto e anche di più . Ma dov’era quella felicità che mi era stata garantita? Sì ok, avevo realizzato un sogno ma si era trasformato in un incubo ! La voglia di mollare era tanta, ma invece di darmi per vinta ho insistito, se ero arrivata fin qui c’era una ragione, avevo una “missione” da compiere e nulla poteva fermarmi. Dovevo saltare sull’ostacolo e superarlo, non lasciarmi schiacciare da esso. Iniziai a recitare Nam Myoho Renge Kyo ancora più intensamente, chiedevo quella “prova tangibile”, quel beneficio nella mia vita quotidiana che avrebbe permesso di dimostrare a me stessa la forza della mia fede e al mondo la validità del buddismo.
Anche qui facciamo un riassunto. Sono a meno di un mese dallo sfratto: una situazione impossibile da risolvere, e quindi decido che, forse, solo con la mia fede posso realizzare l’impossibile. Recito Nam Myoho Renge Kyo per ore, partecipo alle attività della SGI e cerco di non darmi per vinta. Ed è proprio durante la riunione del mio gruppo di preghiera che vengo a sapere che si è liberata una casa ad affitto controllato (meno della metà di quello che pagavo io), proprio a 100 metri dal mio costosissimo appartamento. Faccio la domanda, ma venire accettata era quasi impossibile, mi dicono. “Quasi” era più che sufficiente per credere che avrei ottenuto l’appartamento, che ovviamente è stato mio il giorno prima che scadesse l’affitto dall’altra parte.
E ora ci voleva un lavoro. Quante possibilità pensate che ci fossero che un mio vecchio collaboratore, un ragazzo geniale che con me come caporedattore aveva iniziato la carriera di giornalista (poi abbandonata per creare software di successo), stesse aprendo la sede americana della sua azienda italiana e cercasse qualcuno sul posto? Una su un milione? Beh è quello che è accaduto, ovviamente! E ora viene il “e visse felice e contenta”, direte. Calma, il peggio (per me il meglio) deve ancora arrivare.
Ovviamente, dopo tutti questi benefici, la vita mi regala più o meno 5 anni di abbonamento alla “palestra delle avversità”, e mi mette davanti una serie di ostacoli per rafforzare ancora di più la mia fede e avere benefici ancora più grandi. Solo per citarne alcuni: un dentista che sbaglia e mi fa finire in ospedale con il serio rischio di lasciarci le penne, una rogna legale, e il fisco italiano che mi chiede decine di migliaia di euro. Ma io sono ancora qua, come canta il grande Vasco Rossi . Un gruppo di amiche/sorelle sono diventate la mia famiglia d’elezione, col fisco ho risolto (ovvero pago) e alle immagini delle stanze d’ospedale sto sostituendo i panorami che mi godo dalle finestre della mia casa in montagna, seduta davanti al camino mentre Bruno, il mio cane, mi sommerge d’amore. E se mi chiedete se sono felice, vi rispondo di sì .
Mi sembra quasi di sentire i vostri pensieri (che sono esattamente i miei quando per la prima volta mi avvicinai al buddismo): “Ma è davvero possibile essere felici in questa vita?”. Oppure “Con tutti gli acciacchi e i casini che ho, dovrei credere che basta ripetere di seguito 5 parole strane, in una lingua che non capisco, per far scomparire i problemi?”. O ancora: “E come funzionerebbe (se poi davvero esiste) questa formula della
felicità? Mi basta suonare la campana, ripetere il mantra e poi vinco alla lotteria? Mi ricrescono i capelli? Trovo il partner della mia vita? Un lavoro fantastico, la casa dei miei sogni? Le rughe scompaiono e tutto il resto si rassoda?”.
Niente di tutto questo, oppure si avvererà tutto, chissà. Ma poco importa, perché qualunque cosa accada, posso dirlo con certezza, recitando Nam Myoho Renge Kyo sarete felici del risultato. So che la mia formula magica, quella chiave che apre la serratura dell’universo che è rinchiuso dentro ciascuno di noi, vi darà l’energia per affrontare e superare tutti gli ostacoli che vi appariranno davanti. E che diventerete felici, assolutamente felici, non importa quale “sfiga” vi piomberà addosso.
Sembra un po’ troppo facile per essere vero eh? Avete bisogno di una prova concreta nella vostra vita? E allora non vi resta che provare . Il momento migliore per cominciare è proprio qui e adesso . Tutto quello che dovete fare è ripetere: Nammiò-o renghe chiò, Nammiò-o renghe chiò, Nammiò-o renghe chiò…
Una ricetta che fa bene e… aumenta il buonumore. Eccola illustrata passo dopo passo
Di Michela RomanoCi sono alimenti per nutrire la felicità? Diciamo senz’altro di sì. Anzi, la felicità si può assumere anche per bocca, sotto forma di alcuni nutrienti come gli acidi grassi a catena media (MCT), contenuti in frutti molto comuni come cocco ed avocado.
Il più diffuso degli MCT è infatti l’olio di cocco, un elemento di elevatissima biodisponibilità per le cellule celebrali e nervose.
Nell’ambito dell’alimentazione a favore della longevità si dovrebbe optare per questo preziosissimo gras -
so, perché viene utilizzato come carburante privilegiato dal cervello che, nutrito al meglio, restituisce lucidità mentale e buonumore.
Il sapore del cocco è molto gradevole, ha una dolcezza naturale, fa parte di quegli alimenti apprezzati un po’ da tutti, grandi e piccini.
Il cocco è un frutto molto versatile che permette, oltre alla consumazione in forma fresca,la trasformazione in farine, riccioli, chips, latte e panna, olio.
Proprio per questo, si possono creare dessert e dolci “mono-ingrediente”.
La ricetta proposta è un panna cotta, al cocco, dolcificata con stevia, un dolcificante naturale a zero calorie, in sostituzione dello zucchero, alimento non così gradito dalle cellule nervose, a dispetto dei luoghi comuni.
PER LA PANNA COTTA : in una casseruola portare a 90 gradi (a bollore) il latte, il cocco rapè (cocco grattugiato), l’agar agar e la stevia.
Girare bene con una frusta e, una volta che il composto ha raggiunto il bollore, versare negli stampini.
Far raffreddare in frigo per un’ora.
PER LA COULIS: frullare il misto di frutti, cuocere con il succo del lime, stevia e agar agar.
ASSEMBLAGGIO : togliere le panne cotte dagli stampini con l’aiuto di un coltello per staccarle dai bordi. Adagiare la panna cotta su singoli piattini o ciotole e aggiungere la coulis di frutta.
INGREDIENTI
PER LA PANNA COTTA
Latte Di Cocco
500 ml
Cocco rapè
50 gr
Stevia in gocce
15 gr
Agar Agar
10gr
PER LA GUARNIZIONE
frutti rossi (fragole, lamponi, mirtilli)
250 gr
1 lime
Stevia in gocce
5 gr
Gli Erranti
Questa volta abbiamo scelto di esplorare una delle capitali italiane della cultura 2023. Che si visiti quella alta o quella bassa , Bergamo resta sempre una citta piena di sorprese . Se poi si ha la fortuna di capitarci la sera in cui nella città alta si svolge la festa delle luci , nell’ambito delle celebrazioni previste per le capitali della cultura, non c’è dubbio che ci aspetti una serata speciale.
E’ quello che è successo a noi: siamo arrivati quasi in centro lasciando la macchina al parcheggio coperto in piazza del Mercato del Fieno, a pochi passi dalla nostra meta, e abbiamo incominciato il nostro giro con la visita al tempietto di Santa Croce, un importante esempio di architettura romanica. Per l’occasione il tempietto è stato avvolto in una luce blu che rende particolarmente spettacolare questo monumento millenario, mentre all’interno l’artista cileno Ivan Navarro ha giocato con specchi e neon creando l’illusione di scendere nelle viscere della terra: l’installazione riprende all’infinito la parola BED e al tempo stesso permette di vedere riflessi gli affreschi della volta.
Un’altra installazione di Navarro si trova al museo Donizettiano: si tratta di Traffic, che crea un’atmosfera surreale utilizzando le tre luci di alcuni vecchi semafori, con il sottofondo delle musiche di Gaetano Donizetti. Il percorso artistico prosegue poi nel cortile del museo, dove l’artista e designer veneziana Federica Marangoni ha realizzato The Time Machine, una moderna clessidra luminosa che fa riflettere sul concetto di tempo .
Sempre di Federica Marangoni alla Rocca abbiamo trovato Go Up, una scala di luce rossa alta 12 metri, realizzata con un particolare tipo di neon che riproduce l’effetto visivo di una continua scarica elettrica, come quello di un fulmine. La scritta centrale invita a non fermarsi di fronte alle difficoltà della vita, come ha fatto Bergamo in tempo di Covid . La Rocca ospita anche Storie di Luce, nove opere realizzate dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bergamo Carrara sul tema del Risorgimento.
Sulla nostra strada abbiamo poi trovato il Chiostro del Carmine del XV secolo , dove da dicembre 2022 a fine gennaio 2023 è stata istallata una pista di pattinaggio su ghiaccio. Noi invece abbiamo potuto ammirare Tesselis la danza degli animali dell’artista torinese Angelo Bonello : un gioco di tessere luminose sul pavimento del chiostro sembra riprodurre un antico mosaico della città romana di Bergomum, creando immagini misteriose che simboleggiano una società futura in cui gli animali si riappropriano del mondo. Il nostro itinerario ci ha portati lungo la strada più caratteristica del centro di Bergamo, via Colleoni, detta la Corsarola : siamo arrivati così in piazza Mascheroni, dove abbiamo trovato Talking Heads dell’artista serbo Viktor Vicsek: due grandi teste parlanti una di fronte all’altra, ciascuna dotata di 4000 LED controllabili singolarmente che permettono di riprodurre le espressioni facciali.
Passando sotto la Torre della Campanella realizzata nel 1355 da Bernabò Visconti si arriva in Piazza della Cittadella, illuminata dall’installazione Ballerina di Angelo Bonello , una serie di sagome danzanti che si accendono a ritmo di musica in omaggio all’arte della danza: uno spettacolo che ha incoraggiato due piccole ballerine a esibirsi, dando luogo a un gradevole fuori programma.
Siamo poi tornati verso Piazza Vecchia, dove sulla facciata di Palazzo Nuovo era proiettato Angelo Mai Al Data Mapping, un contenuto visuale elaborato dall’intelligenza artificiale a partire dal database digitale della Biblioteca “Angelo Mai” che è stato parte integrante della cerimonia di inaugurazione della festa, con la partecipazione degli allievi del Conservatorio e del soprano Jessica Panzarotto. E ancora Luca Brinchi e Daniele Spanò presso Palazzo Moroni presentano 0,3 m, un dispositivo luminoso e sonoro che si ispira alla figura del dio Nettuno e denuncia la grave situazione ambientale che sta causando l’innalzamento degli oceani .
Ma il tempo è tiranno e, pur essendo ubicate nei pressi del parcheggio presso il convento di San Francesco oggi sede del Museo delle storie di Bergamo, non siamo riusciti a vedere Frame Perspective di Oliver Ratsi, istallazione audiovisiva che indaga l’evoluzione di infiniti possibili universi, e Polaroad di Daniele Davino, un video- racconto che utilizza le foto storiche di Itala Bianzini, proposte attraverso cinque lenti Fresnel trasformate in magici schermi in miniatura.
Alla fine della serata tornando verso l’autostrada ci siamo accorti dell’opera Follow the Blue che illumina la celebre Torre dei Venti costruita in stile razionalista dall’architetto Alziro Bergonzo, trasformandola nel manifesto della mostra. E infatti il colore predominante della manifestazione è il blu, considerato un colo -
re freddo, che però alla fine della serata lascia una sensazione di pace e tranquillità e abbinato all’arte ti induce a fantasticare e riscalda il cuore
Questo è il nostro racconto della Festa delle luci di Bergamo, ma non perdetevi l’appuntamento con il flashmob del 4 giugno, quando le due città saranno collegate da una catena umana con 40.000 fascette colorate fatte a uncinetto lunghe un metro e mezzo (il distanziamento interpersonale richiesto contro il Covid). Sicuramente noi ci saremo, come saremo a Bergamo nel mese di novembre per vedere l’installazione Fireflies on the Water dell’artista giapponese Yayoi Kusama. (informazioni e prevendite sul sito https:// www.theblank.it/
Lo scorso maggio pubblicavamo questo articolo. Molti lettori che l’hanno perso ci hanno chiesto se potevamo riproporlo. Lo facciamo volentieri, ricordando che sul blog www.generazioneover60.com nel menu della pagina, cliccando “Sfoglia la rivista”, troverete facilmente tutti gli articoli pubblicati- di qualsiasi nostra rubrica (Salute, Sessualità, Scienza, Foto d’Autore, In movimento, Incursioni e tante tante altre)-a partire dall’ultimo fino al primissimo, del dicembre 2018. Scorrendo i titoli, potete così trovare subito quelli che vi interessano e leggerli o, perché no, rileggerli. Il tutto gratis… Buona lettura!
A chiunque a Milano frequenti il locale di Zoppi e Gallotti, magari aspettando in coda per pagare alla cassa, non sarà sfuggito il lungo articolo del “Il Giorno” apposto alla parete. Risale a 20 anni fa esatti, quando il grande soprano Renata Tebaldi (affezionata cliente del negozio) stava per compiere 80 anni: un traguardo importante, ma che lei, donna sincera e sicura di sé, non tentava minimamente di nascondere. Per motivi di varia natura il Teatro alla Scala dove lei era di casa non era in grado di preparare un piatto per festeggiarla, e così si fece avanti Carlo Gallotti che, conoscendo i gusti di Miss Sold Out (ossia “Miss TuttoEsaurito”, come veniva affettuosamente chiamata negli Stati Uniti), la quale non amava cibi troppo elaborati, preparò per lei quello che chiamò il Controfagotto alla Tebaldi
In pratica, si tratta di un sano e semplice timballo di vitello con ripieno di prosciutto, rigorosamente di Langhirano. Non a caso “Voce d’angelo”- come veniva chiamata da Arturo Toscanini, pur essendo nata a Pesaro, crebbe e studiò al Conservatorio di Parma.
Ecco la ricetta originale :
CARLO ERMANNO GALLOTTIControfagotto alla Tebaldi (per 4 persone)
N°12 fette di magatello
Kg 0,150 patate lessate schiacciate
N°2 finocchi lessati nel latte
Kg 0 050 parmigiano reggiano grattugiato
Kg 0 050 prosciutto cotto
N° 12 fette di prosciutto crudo di Langhirano
N°12 fette di salvia
q . b . sale olio evo burro salato
Procedimento:
Battere bene le fette di magatello per renderle sottili, farcirle con l’impasto di patate e finocchi a dadi rosolati nel burro e sgocciolati, parmigiano, poco sale e il prosciutto cotto a dadini. Avvolgerli dando una forma cilindrica, avvolgerli con la fetta di prosciutto crudo all’interno e terminare con la foglia di salvia esternamente, legarli con uno spago e cuocerli in padella con poco olio di evo.
E quest’anno, in cui ricorre un secolo dalla morte del grande soprano di casa da Zoppi e Gallotti (dove mandava a fare acquisti la fidata Tina), perché non ricordarla preparando anche noi un Controfagotto alla Tebaldi ? Siamo sicuri ne sarebbe felice.
Via privata Cesare Battisti 2, Milano
Tel. 02/5512898.
Per ordini e richiesta di preventivi potete scrivere una e-mail a: info@zoppiegallotti.com
Sito Internet: http://www.zoppiegallotti.com
Buon appetito!
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