Genius People Magazine Euro 3.50
Numero 01
Gen/Feb 2015
INTERVISTE A:
Vittorio Sgarbi Alessandro Preziosi Ernesto Preatoni Giuseppe Cruciani Setrak Tokatzian
FOCUS:
Etiopia, 1987
Cortina D’ampezzo, Venezia
Giornalismo tra guerra e gossip
Bersaglio mobile Evento GeniusOFF con: Giuseppe Cruciani e Fausto Biloslavo
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GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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EDITORIALE
Filosofia e concretezza Di FRANCESCO LA BELLA
La vera forza di Genius People Magazine è rappresentata dalla natura biografica degli articoli, in cui l’intervistato è il vero protagonista. La stessa sfida rappresentata dalla decisione di approdare alla carta stampata, contro coloro che hanno tentato di dissuaderci e contro una tendenza che omologa al ribasso nel brusio indistinto della rete, spiega in maniera chiara il tipo di approccio che caratterizza la nostra missione: non arrenderci alla mediocrità. Come testata giornalistica, siamo focalizzati sulla volontà di creare un dibattito culturale nuovo in una città come Trieste, attraverso l’organizzazione di eventi con ospiti appartenenti al mondo della cultura e del costume, della politica e dell’imprenditoria, dalla moda al design, e durante i quali il pubblico è chiamato ad intervenire direttamente, innescando un crescendo di opinioni e punti di vista, spesso contrastanti, ma sempre costruttivi; ma soprattutto sulla volontà di riportare Trieste, punta di compasso di un nuovo assetto geopolitico e culturale che si è delineato negli ultimi anni a livello europeo e che caratterizzerà il Ventunesimo Secolo, al ruolo di crocevia di etnie, religioni, costumi, commerci, e arte che naturalmente le appartiene per la sua storia portuale e per il ruolo di cerniera che ha sempre avuto con l’est Europa. Trieste da sempre si pone come risultato di contaminazioni tra Veneto e Istria, tra Friuli e Slovenia, tra Carinzia e Balcani, ma genius vuole gettare lo sguardo sempre più oltre, come dimostra la scelta di aprire una redazione nella splendida ma complicata realtà di Chisinãu (Moldavia). Tutto ciò ha contribuito a costruire una piattaforma potente sul web, genius-online, e dilettevole sul cartaceo, Genius People Magazine, entrambi in grado di ospitare i temi più disparati, affrontati dai nostri giornalisti con professionalità, serietà e vivacità.
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
EDITORIALI
Oltre il digitale: passo decisivo per il team genius
Partecipare da spettatori o scegliere di vivere?
Di
Di
VITTORIO SGARBI
FABIO DE VISINTINI
Parliamo di Genius People Magazine e della prima uscita cartacea, dopo anni di digitale. Per quello che riguarda la mia generazione, ma soprattutto per la mia concezione delle cose parlando di giornali e riviste, nulla che non sia corporeo è degno d’attenzione. Mi spiego meglio: un giornale che non sia prodotto sotto forma cartacea, è un concetto per il quale posso utilizzare una similitudine. Un giornale non cartaceo è, appunto, come osservare la riproduzione di una bella donna. Una persona può guardare con i propri occhi, da vicino, una bella donna: osservandola in un buon video o in un quadro, poi, può essere anche meglio. La differenza, però, sta in una cosa: mentre la donna che vediamo nel quadro o in un video o in televisione rimane all’interno del suo supporto, quella che invece riusciamo a vedere dal vivo la possiamo pure toccare. Questo esempio per esprimere un concetto molto chiaro, quello della fisicità, che è fondamentale in tale campo. Una rivista non può essere solo digitale, per il mio pensiero. Può anche essere bellissima da vedere ma, nella versione online, noi ci fermiamo davanti alla vetrina; il punto focale è proprio questo, il fatto che esista la rivista cartacea con il suo corpo fisico. Io voglio poter sfogliare il giornale, toccarlo, sentire la grammatura della carta: ecco perché faccio i miei migliori auguri per la nuova rivista cartacea di Genius People Magazine, affinché sia un progetto che trovi successo e possa affermarsi con le sue iniziative ed i suoi eventi.
Di cosa parliamo? Di quello che vogliamo, naturalmente, dato che siamo un popolo di uomini liberi. Possiamo spaziare dalla politica alla cronaca nera, dal pettegolezzo al calcio con estrema facilità: basta seguire gli innumerevoli stimoli che ci propone la quotidianità o semplicemente la nostra indole, se non la vaghezza del momento. Liberi! In totale autonomia facciamo colazione a base di yogurt con bifidus, compriamo un’auto tedesca, beviamo birra o coca mangiando hamburger, rinunciamo a tutto ma non allo smartphone, ma soprattutto affrontiamo temi a blocchi: femminicidio per due mesi, poi uxoricidio, poi stalking, violenza sui minori, matrimoni gay, eccetera. Poi si ricomincia, come per il gioco dell’oca: tutto da capo. Ogni tema, nella routine, sembra diventare normale, quasi familiare. A forza di parlarne e far diventare ogni tema, anche pesante, uno spot dello spettacolo continuo, tutto sembra più accessibile, digeribile, accettabile anche per le nostre anime poco solide di “consumatori”, più che di “persone”. Ovviamente dobbiamo parlare con ciclicità più frequente del Cavaliere e della sua vita privata, di Balotelli, del razzismo e violenza negli stadi. Comunque dobbiamo parlare di calcio: per che squadra tifi? Che noia! Eh, ci credo: se parliamo sempre delle stesse cose e allo stesso modo, ogni volta dobbiamo aggiungere un po’ di pepe o di sale, perché altrimenti perdiamo l’attenzione del nostro lettore/ascoltatore che, telecomando o tastiera in mano, “clicca” e cambia ogni volta che la sua stimolazione non è considerata sufficiente. Stimoli, stimoli e ancora stimoli, altrimenti la tensione cala e quindi l’attenzione si perde. L’asticella sale di continuo, il desiderio più o meno conscio è di partecipare in diretta ad ogni catastrofe nel mondo, per vedere da vicino il dolore e lo strazio... degli altri. Vicino, infatti, è un concetto relativo: meglio se seduti in poltrona, senza partecipazione attiva, a distanza di sicurezza insomma, come quando c’è l’incidente in autostrada e la corsia opposta, protetta dal guardrail, riesce ad intasare il traffico per il bisogno bavoso di osservare la tragedia e poter dire a sé stessi e agli altri di esserci stati. Evitiamo di ricordare che oltre all’inutilità del nostro intervento da osservatori, spesso generiamo equivalente incidente e coda per aver bloccato la via. Partecipare
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
EDITORIALI
da spettatori è meglio che “fare”? Scendere in profondità nelle cose e negli argomenti ci può fare sporcare le mani o confonderci le certezze costruite pazientemente nel tempo? Probabilmente è così: possiamo scegliere se farci bloccare la digestione ad ora di cena col TG dai toni tragici, rilassarci e ridere, quasi fosse tutto una farsa, guardando Striscia la notizia, cercare sulla rete le notizie che vogliamo scartando il resto e continuare a vivere con la nostra piccola ansia decadente, nel nostro piccolo mondo composto e da proteggere. Oppure possiamo provare a vivere, ad essere curiosi, a vivere le passioni, a ribaltare le convenzioni per vedere se stiamo partecipando al mondo reale o a quello che ci raccontano gli altri, quelli che montano lo spettacolo ogni giorno, dove Banderas parla ogni mattina con le galline!
Tagliare le distanze e leggere la contemporaneità Di FABIO FIERAMOSCA
La cosa più bella che mi poteva capitare negli ultimi dodici mesi è stata la collaborazione con la crew di GeniusOFF per realizzare il nuovo periodico editoriale Genius People Magazine. Il lavoro e l’evoluzione di GeniusOFF, dalla sua nascita a queste pagine, rispecchia sinceramente la volontà personale e generazionale di tutto lo staff operativo. Francesco La Bella, che ha dato corpo ed energia a questo gruppo di giovani professionisti, ha da subito intuito la necessità di un grado di comunicazione più libero da vincoli, lacci e lacciuoli che spesso coprono la vera essenza delle informazioni, indirizzando i contenuti editoriali e visivi verso una dimensione priva di compromessi.
Difatti se NTWK rappresenta la scena culturale legata allo spettacolo ed al tempo libero mantenendo gli attori in scena e i lettori in platea, Genius People Magazine vuole tagliare le distanze tra i protagonisti del panorama contemporaneo e chi vuole leggere la nostra contemporaneità per il puro gusto di sapere e di informarsi, in pratica vuole avvicinare il più possibile chi parla a chi ascolta. Siano esse personalità politiche, scientifiche, finanziarie, professori, commercianti. Per questo è essenziale che ci sia assoluta fiducia verso il prossimo, e che le idee siano ben chiare sia da parte di chi vuol dire qualcosa sia da parte di chi vuole udire. Così il progetto Genius People Magazine è partito tenendo conto delle voci più difficili da ascoltare nella loro schiettezza, perché spesso “adattate” alle linee editoriali dei mezzi che li ospitano, oppure che vedono le loro affermazioni semplicemente “tagliate & aggiustate” per mere ragioni di spazio. Chi ha qualcosa da dire, spesso vede stravolto il senso delle proprie affermazioni e non riesce a farsi veramente comprendere e conoscere dal pubblico, lasciando molte volte in chi legge la sensazione di distacco e di sfiducia. Ma torniamo a GeniusOFF: per prima era stata creata la piattaforma web genius-online, capace di catalizzare testi, notizie ed informazioni provenienti direttamente dagli autori da varie parti del mondo. Era stata questa la fase che ha tolto quei filtri di cui ho detto sopra, e che ha liberato da ogni distorsione la comunicazione e le idee degli autori. Oggi la piattaforma genius-online raccoglie informazioni, commenti e interventi autorevoli espressi proprio da chi ha voce in capitolo e vuole avere un contatto con il lettore non mediato dalla “ragion di stampa”. Un secondo importante tassello è rappresentato dalla creazione di un format adatto a far incontrare e dibattere i cittadini con le persone e i personaggi che rivestono ruoli di valore sociale. È nata così una serie di incontri con dibattito aperti al pubblico, che vedono ospiti protagonisti le eccellenze imprenditoriali, politiche ed economiche nazionali. Ecco che il sistema “Genius” prende corpo, e le informazioni e la cultura contemporanea scorrono a cielo aperto, visibili a tutti: web magazine, live magazine e paper magazine sono i tre mezzi a vostra disposizione per conoscere il contemporaneo con gli occhi al futuro.
NUMERO 01
EVENTI GENIUSOFF
I nostri eventi firmati GeniusOFF Un dibattito socio-politico, economico ed artistico. Una sfida innovativa che vede la redazione di Genius impegnata a creare opinione e dialogo.
il quarto potere Giornalismo dalla guerra al gossip
sabato 13 dicembre 2014 ore 17.00 c/o Impact Hub Trieste
gli occhi della guerra di Fausto Biloslavo
Ospite Giuseppe Cruciani direttamente da La Zanzara di Radio 24
Un’iniziativa di GeniusOFF, a cura di Francesco La Bella
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GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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2012- 2015
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www.genius-online.it A cura di Francesco La Bella, direttore responsabile di Genius Magazine
20.01.2015 C/O Impact Hub Trieste H 17.00
NO RI
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“Gli anni delle meraviglie. Da Piero della Francesca a Pontormo. Il tesoro d’Italia II” (Bompiani)
OUS
Presentazione del nuovo libro di Vittorio Sgarbi, interviene Giuseppe Cruciani. Modera la prof.ssa Tatjana Rojc. Una nuova iniziativa di GeniusOFF, che unisce due personaggi che hanno già avuto modo di scambiarsi alcune battute. Ingresso gratuito, iscrizione obbligatoria. Per informazioni: redazione@genius-online.it Partner dell’evento: casa editrice Bompiani - rcslibri.corriere.it/bompiani
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EVENTI GENIUSOFF
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2012- 2015
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5 1. Il quarto potere. Giornalismo dalla guerra al gossip Mostra fotografica di Fausto Biloslavo e dibattito. Ospite Giuseppe Cruciani. (2014) 2. Notorious Presentazione del libro di Vittorio Sgarbi e dibattito. Intervento di Giuseppe Cruciani. (2015) 3. Euro sì o no? Sfida impossibile Presentazione con dibattito del libro “Il Pioniere” di Preatoni e Tamburini e Euro sì o no? Sfida impossibile II presentazione con dibattito del libro La vita oltre l’Euro di Preatoni e Mazzuca. (2014) 4. Mission Moldova. Una Moldova europea e cristiana Corso di formazione al volontariato e presentazione del libro “I bambini dell’Europa parlano a Papa Francesco”. (2014) 5. Steamtech. L’industria dell’auto al museo Presentazione delle nuove tecnologie del nord-est Italia.(2012) 6. Dei & Eroi Mostra fotografica di Brigitte Vincken curata da Jonathan Turner. (2013)
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SOMMARIO
EVENTI GENIUS-OFF
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Ernesto Preatoni, ovvero di come uscire dalla gabbia dell’euro di Francesco Chert
29
In copertina: Etiopia 1987, guerriglieri del Fronte di liberazione oromo attaccano un cantiere a Debekà. Rielaborazione grafica di una foto di Fausto Biloslavo
“Vi racconto la nostra ricchezza”. Il tesoro d’Italia secondo Vittorio Sgarbi di Anna Miykova
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EVENTO GENIUS OFF
Brigitte Vincken:
Giornalismo tra guerra e gossip
fra i colori e le sfumature grigie della fotografia di Serena Cappetti
Bersaglio mobile
ATTUALITÀ
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Don Cesare Lodeserto 30
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e l’impegno accanto ai poveri in Moldavia di Anna Miykova
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Perché l’Occidente non ha capito le Primavere Arabe di Matteo Macuglia
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CULTURA
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Marlene Dumas, 30
Il Quarto Potere: Bersaglio mobile: Libano 1985, uno dei bambini palestinesi del campo profughi di Burj el-Barajneh, a Beirut, sconvolto da duri scontri. Rielaborazione grafica di una foto di Fausto Biloslavo Marlene Dumas: Ritratto di of James Baldwin da “Great Men”, 2014, courtesy l’artista
Cortina d’Ampezzo, Venzia: Foto Francesco La Bella
giornalismo dalla guerra al gossip di Matteo Zanini
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Gli occhi della guerra: gli occhi di Fausto Biloslavo di Anna Miykova
40
“Gli occhi della guerra”: il giornalismo in prima linea di Francesco Chert
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Cruciani e i paletti da togliere di Michele Casaccia e Matteo Macuglia
60 Copertine: Elaborazione grafica di Mitja Vesnaver
Sergio Sorgini, arte e duttilità: da Verona a New York di Matteo Zanini
fuorilegge del ventunesimo secolo di Jonathan Turner
GEN/FEB 2015
FOCUS
62
Un italiano a New York tra natura, architettura e design di Martina Vocci
Interviste realizzate da Francesco La Bella. In redazione Francesco Chert. Ha collaborato Massimiliano Bergamo.
91
66
Alessandro Preziosi, dalla direzione artistica all’interpretazione con il “Don Giovanni di Serena Cappetti
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Sabrina Baracetti: “Far East Film Festival, non ci arrenderemo mai” di Sarah Gherbitz
78
All you need is… blues di Nicolò Giraldi
SOCIETÀ
72
Giuliano Santin a tutto… gas con RS Srl di Matteo Zanini
82
Dall’etere alla carta, il processo inverso della nuova pubblicazione di Michele Casaccia
84
Da Salgado al selfie. Il futuro nero della fotografia ai tempi del digitale di Gabriele Gerometta
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Giordano Riello, tra imprenditoria e impegni istituzionali di Francesco La Bella
88
Giganti delle nanotecnologie di Nicolò Giraldi
92
Fat Bike, tra moda ed ecosostenibilità di Michele Casaccia
94
Cortinametraggio, diciott’anni e non sentirli di Matteo Zanini
96
Eligio Paties Montagner: i Do Forni, quando un ristorante diventa un’istituzione
100
Nicolò Zeno: Palazzo Zeno, da 700 anni un gioiello nel cuore di Venezia
104 RUBRICA
Setrak Tokatzian: da generazioni sinonimo di lusso in piazza San Marco
92
108
#progetto
Piero Melfi,
di Studio-a29
l’oste dandy simbolo della Venezia romantica
COLOPHON
People magazine Direttore Responsabile: Francesco La Bella Numero 01-Gen/Feb 2015 Sede operativa c/o Impact Hub Trieste, Via Cavana 14-34124 Trieste (TS) Contatto generale: Mail: redazione@genius-online.it
Editore: Francesco La Bella
Pubblicità: GeniusOFF Srl
Stampa: Sinegraf
Advertising manager eventi: Giada Luise Mail: giada.luise@geniusoff.it
Traduzioni: Erin Russo
Collaboratori: Serena Cappetti , Michele Casaccia, Gabriele Gerometta, Sarah Gherbitz, Nicolò Giraldi, Matteo Macuglia, Pier Emilio Salvadè, Bettina Todisco, Jonathan Turner, Martina Vocci
Editorialisti: Vittorio Sgarbi, Fabio De Visintini, Fabio Fieramosca Corrispondente editorialista: Jonathan Turner Redazione centrale: Matteo Zanini
Web magazine: genius-online.it
Segreteria di redazione: Francesco Chert Mail: francesco.chert@geniusoff.it
Redazione: Francesco La Bella (direttore responsabile) Matteo Zanini (capo redattore) Francesco Chert (segreteria di redazione)
Art director: Mitja Vesnaver
Web Development: Actionet Srl-Pordenone
Coordinamento generale e ufficio grafico: Marco Gnesda Supporto grafico: Marco Pignat
Ufficio estero Moldavia: genius-online.md Via Sfatul Tarii 17-off. 32-Chisinãu MD 2012
Foto-reporter: Noemi Commendatore, Luca Tedeschi
Redazione: Ilie Zabica Mail: redazione@genius-online.it
Ufficio stampa: GeniusOFF Srl
ISSN 2420-8884 Aut. n. 1233 del 09/03/2011 del Trib. di Trieste-p.iva 01223770320 Direzione-redazione-amministrazione c/o Piazza della Libertà 3, 34132 Trieste (TS) Contatti direzione centrale: Mail: marketing@genius-online.it / amministrazione@genius-online.it Tel: +39 040 3480497 / Fax: +39 040 364497
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TIMELINE
Genius: un network in continua crescita 2012
2013
redazione fotografia grafica programmazione
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GeniusOFF Srl Impact Hub Trieste Studio-a29 genius-online
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2015
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EVENTI GENIUSOFF
Ernesto Preatoni, ovvero di come uscire dalla gabbia dell’euro Uno sguardo sui difetti della moneta unica e sulle cause della crisi dalla quale l’Europa non sembra in grado di uscire, analizzando rischi e possibili soluzioni. Solo qualche anno fa gli davano del matto. Il percorso imboccato dall’euro è irreversibile, dicevano. L’euro ci ha salvati dal baratro nel 2011, proclamavano. E tutti ad osannare il Governo Monti e la politica del rigore, la stessa che oggi sempre più economisti, giornalisti e politici, oltre che una parte sempre più consistente di opinione pubblica, condannano come un diktat imposto dalla Germania al resto d’Europa. E Preatoni all’improvviso viene ascoltato. Lui che si vanta di non avere nemmeno un centesimo investito in Italia, lui che con i soldi ci sa fare, che piaccia o no; lui che, dopo aver visto, dove tutti vedevano solo il deserto, quella che sarebbe diventata Sharm El Sheikh, sta vedendo davanti all’Italia un nuovo deserto, quello di una recessione di portata generazionale. C’è solo una possibilità: uscire dall’euro. Starà a noi decidere se farlo in maniera ordinata o disordinata, se pensare ad una exit strategy per gestire la transizione o se ritrovarci all’improvviso in Argentina.
Di FRANCESCO CHERT
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INTERVISTA A ERNESTO PREATONI
Ernesto Preatoni parla a “Euro si o no? Sfida impossibile II” . Foto Tedeschi
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EVENTI GENIUSOFF
Preatoni, la sua lettura della situazione non lascia scampo: uscire dall’euro subito ed in maniera ordinata, recuperando competitività attraverso una svalutazione della nuova lira affidata ai mercati, oppure essere costretti ad uscirne in modo disordinato, con un’inflazione fuori controllo, assalti ai bancomat e livelli di disoccupazione senza precedenti. Tertium datur, ed è lo scenario di gran lunga peggiore: non uscire dall’euro, sacrificando il futuro di un’intera generazione sull’altare del rigore. Stando alla sua interpretazione, lo scenario più probabile sembra essere quello dell’uscita disordinata e del caos. Da chi arriverà la spallata definitiva alla moneta unica? Dunque, dobbiamo fare una premessa. Io andrò alla London School of Economics il 22 novembre. Mi hanno chiesto di intervenire e io spiegherò perché sia importante parlare con i media della situazione attuale. Perché vede, spesso si parla tra esperti, tra professori, ma visto che questo è un discorso che necessita di una volontà politica, l’unico modo per smuovere la situazione è stato ed è quello di avere un’opinione pubblica che è contraria all’euro. Berlusconi si era perfettamente reso conto che l’euro non funzionava ma perché non ha fatto niente, e oggi non può più fare niente perché è stato scavalcato dalla Lega? Perché lui governava con i sondaggi d’opinione che dicevano che gli italiani, che non è che siano proprio dei grandi esperti di economia, non erano interessati ad uscire dall’euro. Quindi il discorso che oggi è importante è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica. Io stesso, alle volte, faccio una fatica incredibile ad andare a queste trasmissioni in cui tra le nozze gay e le quote rosa bisogna aspettare il momento serio per parlare dell’euro, anche perché gli interlocutori sono di qualità scadente, in generale. Ciononostante, secondo me,
va fatto. Comunque per rispondere alla sua domanda, è semplicissimo: se l’opinione pubblica italiana si sensibilizza, come mi pare che stia avvenendo, è probabile che usciamo dall’euro in modo ordinato. Altrimenti arriverà qualcun altro, perché fra economie che viaggiano a velocità diverse, una moneta unica è un non senso. Mazzuca, con cui ho scritto il libro, ha intervistato Prodi e gli ha chiesto cosa pensava dell’euro. Mazzuca ha fatto un pezzo brevissimo perché è molto amico di Prodi, ma la risposta è stata: non abbiamo sbagliato noi, hanno sbagliato quelli che sono venuti dopo che non sono riusciti a fare quello che dovevano fare. Mi ha fatto morire dal ridere. Per una exit strategy che ci conduca fuori dalla moneta unica in maniera meno traumatica, in chi dobbiamo sperare? Lei ritiene che i partiti antieuro presenti oggi in Italia, come Movimento 5 Stelle e Lega, abbiano la forza per arrivare all’opinione pubblica e soprattutto la competenza per gestire questa transizione? Quando lei vede Grillo che dice di voler uscire dall’euro con un referendum, al di là del fatto che la Costituzione non prevede referendum sui trattati internazionali, al di là di questo, non è fattibile uscire dall’euro in questo modo. Se la transizione non viene affrontata a mercati chiusi creeremo un disastro che non finisce più. I referendum mi sembrano una pantomima politica. Si parla in questi anni di crisi del capitalismo. Lei condivide questa visione? In fondo di soldi ce ne sono anche troppi, solo che sono fermi, come l’economia dei vari Paesi. A me sembra piuttosto che la crisi sia della politica, che dava al capitalismo una sostenibilità democratica. La politica tornerà? Sarà un ritorno traumatico? GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A ERNESTO PREATONI
“Ho una responsabilità verso me stesso, verso i miei familiari e verso quelli che mi hanno dato i soldi da investire: se questo coincide con l’interesse del Paese, sono contento, ma in caso contrario non è affar mio”.
NUMERO 01
La politica c’è anche adesso. Solo che la crisi economica fa prevalere le motivazioni di carattere economico a quelle di carattere politico. Però non ho ancora trovato un sistema che sia migliore del capitalismo. Chi dice che il capitalismo è finito deve darmi un’alternativa: se non ci sono alternative, il capitalismo continuerà. Magari un po’ zoppo, ma continuerà. Le nuove spinte in senso regionalistico che arrivano da Paesi dalle tradizioni democratiche vecchie di secoli come vanno interpretate? Occorre una nuova politica? E l’economia come si adeguerà al nuovo assetto geopolitico? Questo è l’effetto di un fatto. Che l’uomo non credendo più nell’altra vita, vuole tutto in questa. Da qui la convinzione di dare più di quello che si riceve e così si spiegano la Catalogna, i Paesi Baschi, la Scozia, l’Irlanda e tutti i movimenti separatisti e così anche la Padania. Come mai la situazione non è ancora esplosa? Non abbiamo ancora toccato il fondo o esistono dei meccanismi di assorbimento delle tensioni che impediscono alla situazione di raggiungere il punto di ebollizione? Lei conosce il detto che descrive bene gli italiani: o Francia o Spagna, basta che se magna? Gli italiani sono famosi in tutto il mondo per arrangiarsi e non sono di certo un popolo barricadero. È possibile che la Germania sia così ingenua da non capire che se è vero che la deflazione conviene al creditore è anche vero che il creditore non ha interesse a far morire di fame il debitore? In Germania, l’opinione pubblica è convinta che il popolo tedesco sia più bravo e che loro non debbano aiutare gli altri. Ma anche in Germania i leader non esistono 27
EVENTI GENIUSOFF
più e anche da loro i politici governano seguendo i sondaggi d’opinione e non è neanche lontanamente immaginabile che loro cambino idea. Mi dice il nome di un politico che secondo lei può essere all’altezza della situazione? Era Berlusconi. E adesso dovrebbe essere Renzi che purtroppo non capisce di economia. Fubini, una delle migliori firme di Repubblica ha detto bene, cioè che è un peccato che Renzi non capisca niente di economia. Parliamo di un nostro vecchio incubo, le riforme: con interventi strutturali adeguati, un Paese non esattamente calvinista come la Spagna ha ripreso a salire. A nord, economie fino a poco tempo fa in ginocchio come quella irlandese, si stanno risollevando. Non è che questo euro, che poteva insegnarci un po’ di mentalità nordica, sta diventando un alibi? La Spagna non ha tutta questa crescita e comunque le riforme andavano fatte prima e non perché lo chiede l’Europa. Draghi ha detto che se l’economia non riparte la colpa è nostra che non facciamo le riforme. Cosa mi dice invece della battaglia che si sta consumando sull’articolo 18? Vede, quando sento parlare di queste cose, dell’articolo 18, della lettera dell’Unione Europea, della risposta di Renzi, mi innervosisco perché ho l’impressione che così contribuiamo a distogliere la gente dal vero problema, che è l’uscita dall’euro. Questo succede non solo a livello italiano, non solo a livello europeo, ma mondiale. Guardi che al mercato mondiale dei consumatori mancano cinquecento milioni di persone che erano tra quelle che consumavano di più e che sono gli europei. Questo incide parecchio. Mettiamo che si delinei la migliore delle ipotesi: exit strategy, inflazione controllata, riforme intelligenti e lungimiranti,
semplificazione burocratica, tassazione ragionevole per le imprese, costo del lavoro competitivo. In questo caso, ma senza una riforma culturale del popolo italiano e dalla sua classe politica, tornerebbe ad investire in Italia? Gli italiani non hanno una mentalità così sbagliata. Voglio dire, l’Italia è un Paese che ha dato tanto agli investitori, il problema è che è in una gabbia come quella dell’euro. Pensi solo ai nostri governanti che avevano il debito pubblico in lire e l’hanno trasformato in euro. Si può essere più sprovveduti? Io credo che avere il debito pubblico in lire sia la premessa per ripartire in Italia. Quali colpe ha la classe imprenditoriale del nord est che solo vent’anni fa navigava nell’oro e che oggi è stata spazzata via dalla crisi rivelando tutta la sua fragilità? Secondo me non si può generalizzare. Ci sarà pure qualcuno che avrà fatto qualche sbaglio ma io non vedo gravi errori, anzi, sono stupefatto che la classe imprenditoriale italiana abbia tenuto così tanto. L’apparente cinismo della sua decisione di non investire neanche un centesimo in Italia sembra smentito dal modo appassionato con cui ci sta mettendo in guardia sull’imminente disastro. Si tratta di una forma di orgoglio o del patriottismo dell’esule incompreso? Io sono molto razionale. Io ho una responsabilità verso me stesso, verso i miei familiari, verso quelli che hanno avuto fiducia in me e che mi hanno dato i soldi da investire e verso i dipendenti che lavorano nell’azienda. Se poi questo coincide con l’interesse del Paese, io sono contento, ma se non coincide non è affar mio. Ha mai pensato di entrare in politica? Se io dicessi le cose che dico essendo entrato in politica, immediatamente non sarei più credibile. (7’55’’)
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Il Quarto Potere: giornalismo dalla guerra al gossip Fausto Biloslavo e Giuseppe Cruciani protagonisti di un evento sul mondo dei media e della comunicazione. DI MATTEO ZANINI Si parla tanto del Quarto Potere, ovvero della capacità dei mass media di influenzare opinione pubblica ed elettorato. Ed è proprio partendo da tale formula che GeniusOFF ha creato un vero e proprio evento-dibattito legato al giornalismo, al mondo dei media e della comunicazione e soprattutto alla tematica del suo sviluppo durante gli anni, con l’avvento delle nuove tecnologie.
quello che accade in altre parti del mondo. Le sue foto sono toccanti, possono sembrare cruente ad un primo impatto, ma raccontano un mondo che altrimenti noi non conosceremmo affatto: la sua esperienza, raccontata tramite le immagini, è stata svelata anche a coloro che non conoscevano a fondo il personaggio, inviato de Il Giornale nonché collaboratore di altre testate nazionali.
Ospitato all’interno della cornice di Impact Hub Trieste, il dibattito ha dato spazio a svariate tematiche, partendo in primo luogo dalla figura di Fausto Biloslavo, inviato di guerra triestino che nei suoi viaggi ha toccato tutti i principali conflitti andando a rischiare in prima persona. I suoi scatti, le sue immagini, i suoi reportage: è grazie a lui ed ai suoi colleghi, impegnati in prima linea ogni giorno, che possiamo rimanere sempre informati e aggiornati su
E parlando di immagini di guerra, prodotte proprio da Biloslavo, non si può non citare Gli Occhi della Guerra, la piattaforma di crowdfunding inaugurata da Il Giornale Online: un modo innovativo per finanziare i reportage di guerra, in un momento in cui il mondo della comunicazione ha sempre meno risorse da impiegare per continuare a garantire l’informazione quotidiana da una parte all’altra del mondo. E sono proprio gli stessi lettori che, con il loro supporto, permettono agli inviati di guerra di poter continuare al meglio il lavoro svolto egregiamente fino a questo momento: Fausto Biloslavo è uno dei principali promotori di quest’iniziativa, presentata anche a tutti i partecipanti alla serata organizzata presso Impact Hub da GeniusOFF.
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Il Quarto Potere - Giornalismo dalla guerra al gossip è stato un evento clou per la realtà di GeniusOFF, perché ha portato a Trieste due personaggi molto influenti per il mondo del giornalismo, come Fausto Biloslavo e Giuseppe Cruciani.
IL QUARTO POTERE: GIORNALISMO DALLA GUERRA AL GOSSIP
Degno contraltare di Fausto Biloslavo è stato certamente Giuseppe Cruciani, giornalista di Radio 24 nonché celebre voce del programma La Zanzara: amico di lunga data proprio di Biloslavo, Cruciani ha fatto vedere anche l’altra faccia del giornalismo, fatto di spettacolo, gossip, litigi in diretta e capacità di essere tagliente e pungente. Proprio come una zanzara, che non ha mezze misure e spesso ha coraggio di andare su argomenti che tanti professionisti non vogliono trattare: lui che, recentemente, ha litigato in diretta con Vittorio Sgarbi e che si è visto costretto a chiudere il programma televisivo “Radio Belva” per turpiloquio e risse verbali. Lui che è andato diritto per la sua strada, con una personalità debordante: è stato proprio Giuseppe Cruciani a tenere banco insieme a Biloslavo, per un confronto che è durato circa due ore e mezzo, fra proiezioni di filmati, considerazioni su come si sta sviluppando il giornalismo e domande del pubblico. Nella pagina precedente: Libano 1985, uno dei bambini palestinesi del campo profughi di Burj el-Barajneh, a Beirut, sconvolto da duri scontri, rielaborazione grafica. Salvo altra indicazione tutte le foto di “Bersaglio mobile” sono di Fausto Biloslavo
nuovo di fare dibattito, di discutere, di informarsi ed informare: Il Quarto Potere - Giornalismo dalla guerra al gossip è stato anche un momento utile per capire in che direzione sta virando il mondo dei mass media. L’introduzione delle nuove tecnologie e la possibilità di poter usufruire di tantissime informazioni in pochi secondi, i social network, gli smartphone e tanto altro ancora: stiamo assistendo alla diminuzione del cartaceo per andare sempre più verso il digitale e il mondo del giornalismo viene ovviamente influenzato da questo, dando la possibilità al lettore di sguazzare all’interno di un mare sconfinato di informazioni, a scapito però della qualità e in alcuni casi della veridicità.
Sì, perché non c’è stato solo il dibattito fra i due protagonisti: nel format di GeniusOFF, infatti, il pubblico partecipa attivamente all’evento, con la possibilità di fare considerazioni personali e chiedere pareri agli ospiti. Un modo
Biloslavo e Cruciani hanno messo in luce anche queste tematiche, fondamentali e importantissime da trattare: in un mondo dove le informazioni corrono sempre più veloci grazie a internet, quali sono le fonti più attendibili da seguire? Certamente il digitale è diventato sempre più importante, ma va maneggiato con attenzione. Il Quarto Potere - Giornalismo dalla guerra al gossip, ci ha lasciato questo insegnamento. (3’55’’)
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Sopra: Filippine 1986, anche i bambini imparano ad usare le armi con i ribelli maoisti nella giungla; Nella pagina a fianco dall’alto: Birmania 1985, guerriglieri karen martellano di colpi di cannone e mortaio una base governativa birmana nella giungla poi si lanciano all’assalto espugnando le difese nemiche; Cambogia 1984, colonna di guerriglieri anticomunisti del Kpnlf nella zona di Nong Chan.
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Sopra: Confine Pakistan-India 1990, una donna con bambino in un campo profughi per i rifugiati in fuga dal Kashmir indiano; nella pagina a fianco dall’alto: Confine Pakistan-India 1990, militanti indipendentisti del Kashmir prima dell’infiltrazione in territorio indiano; Iran 1985, donna velata a Teheran passa davanti ad un cartellone per l’alfabetizzazione del Paese.
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Gli occhi della guerra: gli occhi di Fausto Biloslavo Faccia a faccia con il celebre reporter di guerra, nato a Trieste e protagonista de “Il Quarto Potere - Giornalismo dalla guerra al gossip”. Quando era all’istituto nautico e “portava ancora i calzoni corti” iniziò il suo viaggio per raccontare con i propri occhi le brutture delle guerre umane. Un viaggio che dura da oltre trent’anni ma che ha sempre la stessa meta finale: Trieste, la città dov’è nato e il suo porto sicuro. Mi accoglie nella sua casa, immersa nel verde, che regala un’immagine mozzafiato di Trieste dall’alto e del suo mare azzurro. E subito mi pervade un senso di pace e tranquillità, ben lontano dai rumori degli spari e dagli orrori della guerra cui Fausto è avvezzo.
DI ANNA MIYKOVA
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INTERVISTA A FAUSTO BILOSLAVO
Etiopia 1987, gruppi tribali originari delle zone del Nilo, in rivolta contro il governo etiopico, armati dall'Oromo liberation front (Fronte di liberazione Oromo) che si batte contro il regime del colonnello Haile Mariam Mengistu.
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Com’è nata la tua passione per il giornalismo di guerra? Mi piaceva scrivere, amavo l’avventura e volevo girare il mondo. Così, mi sono “inventato” di fare il free lance, che all’epoca era una figura completamente sconosciuta. Poi, insieme a due amici e colleghi (Micalessin e Grilz) abbiamo fondato una piccola agenzia, l’Albatross Press Agency, e siamo partiti all’avventura, nel vero senso della parola. Infatti, nel 1983, durante l’invasione sovietica, siamo entrati in Afghanistan con i mujaheddin, travestendoci come loro. Mi piaceva particolarmente fotografare, poi sono passato anche alla scrittura e al lavoro di reporter vero e proprio.
“Essere embedded è una necessità: dopo l’11 settembre, è diventato sempre più pericoloso fare reportage con le parti avverse al potere”. Cosa significa essere un giornalista embedded? Essere embedded è una necessità e bisogna fare di necessità virtù. Soprattutto perché, dopo l’11 settembre, è diventato sempre più pericoloso e difficile fare reportage con le parti avverse al potere come i Talebani in Afghanistan, con cui sono stato un mese prima del 2001, o gli insorti in Iraq. Il giornalista con il passaporto occidentale e di un Paese membro della NATO è ormai considerato un nemico e un infedele. Quindi, essere embedded con gli eserciti occidentali o quelli regolari, che erano direttamente coinvolti, è diventato una necessità per via delle maggiori condizioni di sicurezza. Infatti, recentemente sono stato embedded con le Forze Armate afghane per vedere come reagiranno all’urto dei Talebani con il graduale ritiro delle forze occidentali. Certo, è una pratica più formalizzata e hai meno possibilità di manovra. Non puoi decidere da solo di prendere un taxi e andartene. In passato, invece, come mi è capitato nei Balcani, potevi andare prima con una fazione e poi stare dall’altra parte della barricata. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Affiancare una delle parti in conflitto non condiziona la propria prospettiva? L’obiettività al cento per cento non esiste perché ognuno ha la sua visione e le sue idee. Bisogna però cercare di fare il cronista riportando ciò che si vede. D’altro canto, è ovvio che quando ti trovi sotto il fuoco nemico insieme al soldato americano ventenne in Iraq, che dall’UMV ti chiede di passargli le munizioni, non ti tiri indietro. Mors tua, vita mea. Ti trovi coinvolto in una sorta di band of brothers. Ma, nella mia esperienza, non ho mai subito censure o obblighi di alcun tipo, tranne nel divulgare dettagli tecnici militari. Però non siamo delle spie, ma dei giornalisti! Insieme a Gian Micalessin e Toni Capuozzo hai dato vita a “Gli occhi della Guerra”, prima iniziativa di crowdfunding in Italia. Com’è nata? Per necessità, anche in questo caso. La crisi ha colpito l’editoria, e non solo, e i tagli maggiori hanno riguardato gli esteri e i reportage di guerra perché troppo costosi. Quindi, abbiamo creato una raccolta fondi di massa, che all’estero esisteva già, su un progetto di reportage dalle zone di guerra che mirano a dare la massima qualità attraverso la multimedialità, che è il futuro del giornalismo. Non bastano più l’articolo e la foto, bisogna realizzare anche video o audio con dei semplici cellulari di nuova generazione, accompagnati da immagini caricate in tempo reale sul sito e dall’invio di breaking news. Di chi sono gli occhi della guerra? Sono gli occhi del bambino soldato con le orbite rossastre che ho fotografato in Uganda, lo sguardo dei profughi che fuggono sotto le bombe o quello dei prigionieri terrorizzati. Ma gli occhi siamo anche noi giornalisti che raccontiamo questi conflitti e queste tragedie. Un’iniziativa ammirevole e una finestra sul mondo che sta avendo un importante seguito. In maniera inaspettata, abbiamo avuto un riscontro incredibile perché i nostri lettori sono diventati i nostri sostenitori. 38
INTERVISTA A FAUSTO BILOSLAVO
Quest’anno, grazie a loro, siamo riusciti ad andare in Ucraina, Libia, Afghanistan e in giro per l’Europa presso le comunità fondamentaliste musulmane. Adesso, abbiamo iniziato la raccolta fondi sui cristiani perseguitati che ha addirittura superato le nostre aspettative tale è stato il trasporto dei nostri lettori per questo tema. Il tetto di venticinquemila euro che ci eravamo posti è già arrivato a trentaseimila. Gian ora è in Siria e io partirò presto per l’Iraq. Poi andremo in Pakistan e in Nigeria e se resteranno fondi, li utilizzeremo per altri reportage. Infatti, la caratteristica principale di questa iniziativa è che i soldi raccolti non finanziano il giornale o i giornalisti ma servono semplicemente per coprire le spese dei reportage. (4’10’’)
Romania 1988, carri armati dell'esercito in rivolta contro il regime del dittatore Nicolae Ceausescu nella piazza principale di Timisoara il 25 dicembre NUMERO 01
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“Gli occhi della guerra”: il giornalismo in prima linea Mentre giornali storici chiudono i battenti c’è chi cerca nuove soluzioni come il crowdfunding, perché l’informazione non può aspettare. DI FRANCESCO CHERT
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“GLI OCCHI DELLA GUERRA”: IL GIORNALISMO IN PRIMA LINEA
Il giornalismo, a dispetto della quantità di argomenti che avrebbe a disposizione in una fase così povera di certezze e di punti di riferimento, sta vivendo uno dei suoi momenti più difficili. Complici l’accesso indiscriminato alla possibilità di prendere parola da parte di chiunque con la conseguenza di una deriva verso la mancanza di un controllo dei contenuti, la gratuità dei mezzi di informazione digitali che stanno disabituando i lettori all’acquisto dei giornali cartacei, la chiusura dei rubinetti pubblici che per decenni hanno innaffiato un sistema mediatico non sempre di qualità. In quest’epoca, in cui il giornalismo perde la sua attitudine di cane da guardia della democrazia diventando sempre più docile e fedele nei confronti dei governi di turno, esiste un giornalismo che senza lamentarsi e senza padroni se non i propri lettori, recupera la natura romantica, avventurosa e innamorata della verità che gli appartiene. Questo è quanto sta facendo la piattaforma di crowdfunding “Gli occhi della guerra” creata ad hoc da ilGiornale Online e di cui Fausto Biloslavo, reporter di guerra da più di trent’anni in prima linea ovunque il dramma dei conflitti armati imponga il dovere della presenza diretta, è uno degli ideatori e sostenitori. Lo sta facendo perché non c’è tempo da perdere, perché la storia sta scorrendo veloce e intensa, perché, parliamoci chiaro, ci vogliono fondi se vogliamo che il giornalista sia lì a testimoniare ciò che succede dove ci si ammazza, vicino a casa nostra come dall’altra parte del mondo, perché non c’è conflitto che non ci coinvolga direttamente come esseri umani e come opinione pubblica che merita un giornalismo serio e libero, onesto e profondo, cocciuto e coraggioso. Fausto Biloslavo lo ha capito perfettamente. Niente vittimismi, niente cappello in mano di fronte al potere: qui si va al sodo, perché è vero che c’è la crisi ma è anche vero che mai come in tempo di crisi c’è bisogno di un giornalismo in forma e pienamente operativo e di un’opinione pubblica informata ed esigente. (2’00’’)
“Esiste un giornalismo che senza lamentarsi e senza padroni se non i propri lettori, recupera la natura romantica, avventurosa e innamorata della verità che gli appartiene”. Fausto Biloslavo. Foto Tedeschi NUMERO 01
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Giuseppe Cruciani parla a “Il Quarto Potere – Giornalismo dalla guerra al gossip”. Foto Tedeschi GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A GIUSEPPE CRUCIANI
Giuseppe Cruciani e i paletti da togliere Giuseppe Cruciani, la Zanzara punge anche a Trieste: ospite de Il Quarto Potere – Giornalismo dalla guerra al gossip, il giornalista di Radio 24 si è prestato volentieri al dibattito legato al tema del giornalismo organizzato da GeniusOFF, offrendo spunti interessanti al pubblico presente. Una storia interessante, quella di Cruciani, che si è soffermato volentieri a parlare di comunicazione 2.0, crowdfunding e molto altro.
Di MICHELE CASACCIA, MATTEO MACUGLIA
L’amicizia con Biloslavo, come nasce e come vi siete trovati? Ci siamo conosciuti tramite il suo ex compagno reporter di guerra, Gian Micalessin, il quale era amico di una mia fidanzata all’epoca: un percorso piuttosto tortuoso. Poi siamo rimasti in contatto e quando sono andato a Radio 24 l’ho portato a fare delle cose anche in quel mondo. Parliamo di trent’anni fa per quanto riguarda il primo incontro, abbiamo riallacciato i rapporti da una quindicina. Ad ogni modo all’inizio è nato tutto per caso. A Il Quarto Potere – Giornalismo dalla guerra al gossip abbiamo parlato di crowdfunding per quanto riguarda Gli
Occhi della Guerra, la campagna de Il Giornale Online. Qual è la sua opinione su questa tecnica di fundraising per tematiche così complesse e con un pubblico che, specialmente in Italia, è piuttosto ristretto? Io penso che sia una frontiera interessante e nuova, non a caso l’ho sostenuta. Rivolgendosi ai lettori, in maniera trasparente, gli si dice: “Se voi volete sapere certe cose è necessario che ci diate la possibilità di farlo, visto che in questo momento gli editori sono interessati ad altre tematiche”. A dire il vero, il messaggio non è proprio così esplicito perché suonerebbe strano e un po’ brutto, ma la questione è proprio questa: l’editore non può o non NUMERO 01
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EVENTI GENIUSOFF
vuole spendere per raccontare la guerra in Libia, sarà quindi il lettore a finanziare con il proprio denaro. Credo che sia un’opportunità interessante, anche se ovviamente non può essere legata ad una grande testata con una grande liquidità. Penso che per organi di stampa medio-piccoli possa essere una strada da percorrere. Quindi lei pensa che la qualità possa sostenere la comunicazione 2.0, i cosiddetti new media, nel trattare tematiche così controverse anche a fronte di una fruizione che, soprattutto online, è particolarmente veloce e qualche volta anche superficiale? La qualità è un discorso particolare, può essere anche un frammento di verità, una fotografia significativa. Non trovo che la qualità significhi approfondimento o lunghezza del contenuto. La qualità è quello che serve all’editore in quel momento e che serve a far vendere le copie, qualcosa che gli altri non hanno. Restando in tema di Quarto Potere, Augias ha recentemente affermato che “proprio perché è anche un potere, il giornalismo può farsi controllore del potere o divenirne servo”. Come commenterebbe questa frase? C’è senz’altro chi diventa servo, ma esiste la possibilità di diventare servi delle proprie idee, al di là dei propri rapporti con il potere. Poi bisognerebbe stabilire come valutare questa sudditanza; anche omettere qualche informazione perché riguarda il proprio editore può essere sintomo di sottomissione. Questo però significa porsi dei paletti ed un giornalista dovrebbe mirare ad eliminarne il maggior numero possibile. C’è un giornale in Italia che secondo me è quello che ha meno paletti di tutti e si chiama Il Fatto Quotidiano. Credo che sia l’unica testata, forse assieme a Libero, che ha meno ostacoli da superare per garantire la massima libertà possibile. Questo anche grazie agli imprenditori che lo sostengono: questi fanno parte di una categoria particolare, meno legata agli ambiti del potere. Penso che possa dirsi il giornale più libero in
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Italia: questo non significa dire che nelle altre testate non ci siano giornalisti liberi, ma senz’altro anche i migliori editorialisti del Corriere della Sera hanno qualche difficoltà a raccontare qualcosa che riguardi il proprio azionariato di maggioranza. Il Fatto Quotidiano invece corre solo il rischio di essere schiavo dei propri lettori; trovo che questa sia una forma diversa di schiavitù. In una recente intervista a Il Giorno ha dichiarato di non riuscire più a stare a Roma, sua città d’origine, perché troppo caotica e legata al potere. Che impatto hanno avuto su di lei le rivelazioni di “Mafia Capitale”? E cosa pensa del fatto che tutti sembravano sapere degli intrecci che sono poi emersi, ma nessuno ha detto nulla prima dell’arrivo del procuratore Pignatone? Io non so se la colpa sia dei magistrati che c’erano prima o dei giornalisti che non hanno saputo raccontare quello che accadeva. Effettivamente, colpisce il fatto che valentissimi giornalisti di cronaca nera e giudiziaria siano costretti a raccontare qualcosa solo sulla scorta di milleduecento pagine di ordinanza piuttosto che su loro inchieste. È vero che la capacità d’investigazione dei magistrati comprende le intercettazioni telefoniche eccetera, però si poteva andare a spulciare qualcosa sugli appalti. Magari non fino a scoprire la cupola di Carminati, ma è strano che non sia saltato fuori nulla. Sicuramente c’è una responsabilità sia da parte dei magistrati che hanno preceduto Pignatone, sia del mondo del giornalismo, ora compatto nel raccontare l’indignazione di tutto il Paese. Un evento di queste dimensioni può influire sulla credibilità del mondo dell’informazione? No anzi, adesso i mezzi d’informazione sono considerati quelli che stanno dalla parte di Pignatone. Bisogna però evidenziare il fatto che, se non fosse stato per lui, i giornalisti non avrebbero scoperto nemmeno una briciola di questa inchiesta, cosa che avrebbero potuto e dovuto fare. Qualche avvisaglia ci fu a dire la verità, ma
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nulla che riguardasse la grande stampa o la grande informazione. Proviamo a passare a discorsi più leggeri. Com’è stare al nord, anche dal punto di vista lavorativo? Dopo 15 anni mi sono acclimatato bene in città e devo dire che non tornerei a lavorare a Roma. Sto bene e scelgo di non tornare a nella Città Eterna, però immagino che dopo due o tre settimane riuscirei a rifarci l’abitudine. Dal nord a Milano, cosa ne pensa dell’Expo? Per me è inevitabile che in Italia, purtroppo, nelle grandi manifestazioni e nei grandi appalti si manifestino sempre corruzione, impreparazione, fretta, incapacità di gestione, mancanza di trasparenza. Perciò non sono molto stupito da quanto è successo. Mi sorprende che si tenti di realizzare strade solo perché c’è l’Expo e trovo tutto questo completamente folle. Non so cosa succederà in quei sei mesi, quel che è certo è che ne mancano cinque e c’è ancora moltissimo lavoro da fare.
“Il Fatto Quotidiano è l'unica testata, forse assieme a Libero, che ha meno ostacoli da superare per garantire la massima libertà”.
Anche Trieste, nel 2008, è stata candidata per l’Expo, ma poi la vittoria andò a Saragozza. Geograficamente, Trieste è al centro dell’Europa ma sentimentalmente lontano da Roma: qual è la sua opinione in merito? Per le piccole città può essere un qualche cosa di positivo. Se l’organizzazione fosse gestita con una mentalità più snella e trasparente si avrebbe senz’altro un impatto più forte di quello che si può riscontrare nelle grandi città. Non mi piace fare il “tuttologo”, quindi ammetto di non sapere molto del mondo che ruota attorno a Trieste in termini di progetti, iniziative, ecc. Per quello che mi riguarda, vedo una città viva ma senz’altro un po’ lontana dal resto d’Italia e leggermente in declino. Tuttavia, per me che ci passo tre week-end l’anno, l’aspetto della città di confine mi piace e mi affascina con i suoi toni misteriosi e decadenti, anche se immagino che per i ragazzi tra i venti ed i trent’anni ci vorrebbe una città più vitale. (6’10’’)
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ATTUALITÀ
Don Cesare Lodeserto e l’impegno accanto ai poveri in Moldavia L’ideatore della Fondazione Regina Pacis, uno dei cardini importanti del progetto “Mission Moldova”, parla di progetti importanti per stare accanto alle persone meno fortunate di noi. Di ANNA MIYKOVA
Ucraina
Chisinãu
Romania
Mar Nero
in un paese a maggioranza ortodossa. Mission Moldova ONLUS è l’interfaccia di questo impegno in Italia. Nasce dalla sensibilità di S.E. Mons. Gianpaolo Crepaldi, maestro della pastorale sociale, e ha in Don Mario De Stefano l’espressione dell’impegno sul territorio. Mission Moldova e Regina Pacis sono un modello di rete sociale cattolica. Identici sono gli obiettivi e lo spirito evangelico, pur essendo diverso il terreno dell’impegno. La collaborazione scaturisce dalla reciproca attenzione tra due chiese sorelle, Chisinãu in Moldavia e Trieste in Italia, dalla condivisione di obiettivi sociali, con al centro soprattutto i bambini del villaggio di Varvareuca, e dall’impegno di preti e laici che vivono la carità come scelta di vita e assimilazione del Vangelo degli ultimi.
Come muove i primi passi la collaborazione al progetto “Mission Moldova” tra la Fondazione Regina Pacis, da Lei fondata, e Mission Moldova ONLUS? Regina Pacis ha una sua storia: da oltre diciassette anni, dall’Italia verso l’Europa fino in Moldavia, dove oggi ha la sua presenza più significativa, espressione dell’impegno sociale della Chiesa cattolica
Quindi, l’impegno della Chiesa cattolica, dei volontari e le attività caritatevoli sono i motori principali del progetto comune di Mission Moldova e Regina Pacis? Il progetto non è un pezzo di carta, ma un insieme di soggetti che credono in quello che fanno e sono consapevoli di poter fare del bene agli altri. Il progetto non è Don Mario e Don Cesare, bisogna fuggire dai personalismi o dalla sterile egoprogettualità. L’impegno comune di Mission Moldova ONLUS e della Fondazione Regina Pacis è una pagina di Vangelo già scritta che dobbiamo leggere attentamente e mettere in pratica con chi ha scelto di spendere un po’ della propria vita per gli altri. Ma attenzione, gli altri hanno un nome, una storia di povertà, una casa diroccata, una mensa scarsa di cibo, scarpe bucate, mani sporche e tanta solitudine. Il progetto è solo il coraggio di voltar pagina nella storia di questa gente che il buon Dio ci ha donato e che per noi, è l’unica porta di accesso verso l’Eternità.
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Lei è in missione fidei donum in Moldavia da sette anni. Qual è stato il dono più grande ricevuto? Ho obiettivi precisi nel cuore: anziani soli, bambini abbandonati, migranti, detenuti e donne vittime di violenza. È un cammino stupendo, dove il confine tra dare e ricevere è quasi invisibile, perché quando doni la vita a un povero non hai mai la certezza se stai donando o ricevendo, ma solo la convinzione interiore che in quel momento il gesto è tutto e, se fatto con amore, ha il sapore del miracolo. Il sorriso è la dimostrazione del miracolo!
INTERVISTA A DON CESARE LODESERTO
Ha riscontrato difficoltà o ostacoli? La difficoltà sono io, quando non credo, non prego, non amo! L’ostacolo è l’incapacità a credere che è Dio solo l’autore di queste stupende pagine di carità. Don Mario è certamente un grande, con la sua passione, l’esuberanza pastorale. Io sono un operaio malandato nella vigna del Signore, inquieto nell’amore verso gli altri e spesso dico, sperando di essere perdonato, che il buon Dio è in debito con me e il costo per la realizzazione di tanti progetti a beneficio degli ultimi credo di averlo già pagato. Sono difficoltà: l’indifferenza di chi dovrebbe essere maggiormente accanto, il conflitto con una società che rende i poveri più poveri e i ricchi più ricchi, la mancanza di aiuti concreti per realizzare i progetti, il silenzio farisaico delle istituzioni, il
perbenismo dei ricchi e lo scoraggiamento dei poveri. Le difficoltà sono i silenzi in una società dove il chiasso domina. Di recente, GeniusOFF è stato sul campo e ha potuto conoscere da vicino l’impegno per la popolazione moldava. Dopo l’evento di marzo, presso Impact Hub a Trieste, dove abbiamo dato ampio spazio a Mission Moldova perché convinti del valore del vostro impegno, abbiamo dato vita a una finestra italiana sulla Moldavia con la nascita di genius-online.md. Cosa pensa di quest’iniziativa? Sono grato agli amici di GeniusOFF per l’attenzione che stanno dando alla Moldavia e ai progetti condivisi con Mission Moldova ONLUS. La nascita di genius-online.md è importante perché la comunicazione e l’informazione sono
strumenti efficaci di affermazione dei valori. Diciamolo pure: ciò di cui non si parla non esiste! Non parlare dei poveri, dei bambini soli, dell’impegno per la tutela dei diritti vuol dire tacere sui valori che crescono. genius-online.md è un messaggio al mondo che legge e allora facciamo leggere le cose belle che si fanno in Moldavia, i valori umani culturali e religiosi, l’evoluzione dell’est, il sostegno alle imprese che possono essere strumento efficace della rivoluzione sociale. Voglio pensare a genius-online.md come compagno di viaggio della Fondazione Regina Pacis e di Mission Moldova ONLUS in un percorso che ci vedrà insieme per il bene di questa terra dell’est. Sono un sognatore razionale e per chi crede, sognare vuol dire essere ad un passo dal miracolo. (4’10’’)
Mons. Cesare Lodeserto al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, tenutosi a Trieste dal 4 al 6 novembre 2013. Foto Francesco La Bella NUMERO 01
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ATTUALITÀ
Perché l’Occidente non ha capito le Primavere Arabe Autodeterminazione dei popoli, libere elezioni e giovani: da un futuro democratico alla triste realtà dei giorni nostri. Le parole d’ordine erano autodeterminazione dei popoli, libere elezioni e giovani; un futuro democratico si profilava all’orizzonte. Complici i media, i paesi della NATO cominciarono a vedere le Primavere Arabe come una nuova opportunità per queste regioni nonché una replica moderna dei movimenti che, durante l’Ottocento, portarono alla formazione degli stati nazionali. Ben presto però, lo sguardo tanto ammirato si sarebbe trasformato in una maschera di orrore per ciò che noi stessi avevamo contribuito a creare.
Di MATTEO MACUGLIA
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PERCHÉ L’OCCIDENTE NON HA CAPITO LE PRIMAVERE ARABE
Ci è voluto davvero poco per passare dalle proteste pacifiche ad oltranza, a scontri armati che hanno reso intere regioni ingovernabili. Dalle ceneri dei vecchi regimi ne sono sorti di nuovi, non molto più democratici e raramente aperti verso i diritti civili. La colpa di tutto questo è senz’altro (anche) nostra.
Innanzitutto abbiamo immediatamente creduto in un Islam moderato a tutti i costi ed alle sue ragioni, pur non intravedendo un chiaro progetto politico alla base delle proteste. Drammatico in tal senso l’esempio della Libia, dove le potenze europee hanno subito spinto per armare i ribelli, creando i presupposti per tramutare questi eroi della rivoluzione nelle truppe che oggi combattono una sanguinosissima guerra civile, della quale non si intravede nemmeno lontanamente la fine. Ancora più grave la colpa dell’Italia in questo frangente. Vista la nostra conoscenza e contiguità con l’area, avremmo dovuto suggerire un approccio molto più ragionato e di lungo respiro rispetto a quello scelto seguendo Francia ed Inghilterra in operazioni che avevano ben altre mire rispetto alle nostre esigenze. Non è da meno il caso egiziano. Qui, i moderatissimi giovani delle piazze e dei social network hanno portato al governo un movimento tutt’altro che d’ispirazione democratica e dalle non ampie vedute sui diritti civili. Pronto l’intervento dei militari con deposizione del governo e passaggio ai metodi spicci ma efficaci. Ancora più controversa è la situazione in Siria. Quando le circostanze erano pacifiche, ed una presa di posizione morale sarebbe stata più che doverosa, tutto l’Occidente languiva. Allo scoppio della guerra civile, tutti si sono espressi in maniera compatta a favore dei ribelli, salvo poi accorgersi che il regime di Assad stava diventando il male minore, ultimo argine contro il dilagante estremismo degli insorti. Come risultato oggi il nord della Siria, che l’esercito non riesce più a controllare, è ormai largamente nelle mani dell’ISIS. Un primo motivo di questo epilogo delle Primavere Arabe è senz’altro da ricercarsi nel fatto che, in quasi tutti i casi, non vi era un’alternativa precisa rispetto a ciò contro cui si manifestava. Questo ha aperto le porte a derive nazionalistiche, anche contro i paesi occidentali, i quali non solo non hanno fatto nulla per aiutare ma, fino al giorno prima, appoggiavano per convenienza la gran parte di questi regimi. Errore catastrofico è stato armare i ribelli senza procedere parallelamente a formare una classe politica indipendente; da qui partiti, pigliatutto come quelli pro Sharìa che hanno portato non pochi imbarazzi a noi europei. Ciò che infine non si è compreso è stato il fatto che la Tunisia, paese in cui tutto questo è cominciato, era l’eccezione e non la regola. Grazie ad una popolazione meno stratificata ed ad un livello d’istruzione generalmente più alto rispetto a quello dei confinanti, la sollevazione popolare ha portato a libere elezioni che, nonostante un elevato livello di frammentazione partitica, sono sfociate nella costituzione del 26 gennaio 2014. (2’55’’)
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Fuorilegge del ventunesimo secolo
Marlene Dumas
CULTURA
Marlene Dumas Fuorilegge del ventunesimo secolo. Le figure rappresentate da Marlene Dumas sembrano essere perse in emozioni complesse, le loro intenzioni incerte. Sono vulnerabili, in bilico in attesa dell’ignoto, colte a metà del discorso. Si invitano l’un l’altra, quindi si respingono. Questo crea un ambiente migliorato e un punto di vista spietato nei suoi dipinti, acquerelli e disegni. Lo sguardo che cattura potrebbe essere solo un ritratto in piccola scala su carta, ma in realtà c’è molto di più. Anche nei suoi dipinti di cadaveri, martiri, donne annegate, terroristi morti e il Cristo in croce, gli occhi chiusi e le facce livide rivelano ancora un mondo di emozioni contrastanti. Questo denso ed accresciuto naturalismo separa Dumas dai suoi contemporanei. Ma in sostanza, la sua pittura non è tanto impressionista né espressionista, come tipologia di concetto. Pochi altri artisti in grado di confezionare tanto colpiscono a livello emotivo in poche pennellate significative e con simili colori. Massimo impatto, minima “pennellata”.
Di JONATHAN TURNER
Nella pagina precedente: Ritratto di of James Baldwin da "Great Men" serie di 16 ritratti di uomini pereseguitati per essere sospetti omosessuali, 2014 (courtesy l’artista); sopra: ritratti, foto Chris van Houts
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MARLENE DUMAS
Allo Stedelijk Museum di Amsterdam è attualmente ospitata la prima grande mostra di Dumas in Olanda per due decenni. Si tratta di una rassegna di oltre 200 opere dal 1970 ad oggi, con le sue tele più famose e opere inedite provenienti direttamente dal suo studio. La retrospettiva itinerante è intitolata “The Image as Burden”, dal nome di un dipinto dal 1993. È il suo commento sul concetto del peso della storia e dell’importanza dell’olio su tela classica, soprattutto in una regione così ricca di tradizione pittorica come i Paesi Bassi.
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Facendo riferimento al conflitto tra l’illusione di una immagine finita e il gesto artistico necessario per crearlo, Marlene Dumas “gioca” con la fisicità stessa della foto. I suoi ritratti sono spesso raffigurati in poche pennellate apparentemente casuali. I suoi materiali possono essere sparsi. Non ci sono pesanti grumi di vernice, solo la tela e qualche sottile pennellata incisiva. Di tanto in tanto, presenta macchie di colore, quasi come una sorpresa, come un cioccolatino avvolto brillantemente su un vassoio di olive.
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CULTURA
ISPIRAZIONE E REINTERPRETAZIONE
“The Image as Burden”, dipinto piccolo ma dal titolo pesante che dà una visione retrospettiva alla vita di Dumas, si ispira ad una scena del film Camille (1936), in cui Robert Taylor stringe fra le sue braccia Greta Garbo. Il film è ispirato al romanzo di Alexandre Dumas, su cui si basa anche La Traviata di Verdi. Il doppio ritratto di Dumas genera una potenza ben oltre le sue modeste dimensioni, mettendo in discussione tutti i canoni del simbolismo sessuale, culturale e religioso. È una metafora per il peso del pittore, che si sobbarca il peso del soggetto. Essa richiama anche quei dipinti devozionali e sculture di Maria che contempla il corpo morto di Cristo, anche se in questo caso, i ruoli sono stati invertiti. Dumas spesso si destreggia con l’imprevisto. Come il suo immaginario, i suoi titoli sono volutamente fuorvianti, o ambigui, o addirittura infiammanti. Dumas ha detto una volta che i suoi titoli fanno una sorta di reinterpretazione. Non c’è un solo significato o modo predeterminato in cui lei sceglie
“di rivelare, non visualizzare”. I suoi lavori rovesciano tutti i tipi di stereotipi, mescolati con scioccanti tecniche di natura sociale, sessuale, politico e razziale. La sua serie di sei disegni dal 1996 chiamati “sangue misto” non sono legati ad una razza specifica. “Self-portrait as a black girl” (1989) ha causato un po’ di scalpore alla sua inaugurazione. Nel frattempo, “The White Disease” (1985), un ritratto di una donna il cui volto carnoso è dipinto come se fosse stato picchiato a sangue, ha sicuramente superato la prova del tempo. Nel 2011, questo quadro inquietante sulla bruttezza dell’intolleranza, è stato venduto da Christie a New York per circa un milione di dollari. Nel momento in cui i media permangono trasmettendo una proliferazione continua di foto da paparazzi, i ritratti sfumati di Dumas sono una testimonianza del vero valore della pittura. La celebrità e il sensazionalismo possono passare, ma l’incisiva critica sociale di Dumas rimane pertinente.
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Marlene Dumas in una foto di Chris van Houts
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MARLENE DUMAS
DISSOLVENZA AL NERO
MADRE E FIGLIA
“Bianco e nero sono di primo piano nel mio lavoro come nozioni pittoriche, ma anche in senso razziale. Ho fatto quadri con nomi come “Night-time” e “Black Jesus Man”, in cui le caratteristiche delle figure non sono necessariamente di razza nera. I volti sono scuri, ma potrebbero essere solo in ombra: non è politicamente certo”. “Conspiracy” è un ritratto di una donna nera altezzosa con i capelli biondi. “È ispirato da una foto di Naomi Campbell con una parrucca gialla. Io gioco di continuo con i colori e, a volte, non so nemmeno io di che genere è la figura che dipingo”. Il materiale di base di Dumas è sempre di seconda mano. Con l’occhio acuto di un cecchino, che analizza il mondo stampato. Fotografie, riproduzioni, cartoline, figurine, riviste pornografiche, foto di scena e scatti di Polaroid sono tutti utilizzati come materie prime, riproposte come figure dipinte che mettono in discussione identità e bellezza.
L’infanzia e la maternità sono temi ricorrenti. L’attuale mostra retrospettiva comprende diverse immagini di Helena, figlia di Dumas, insieme con il suo partner di lunga data, l’artista Jan Andriesse. Ora ventenne, la vita di Helena è stata segnata da un bambino disperato e squillante, non ritratto nella classica posa da bambino, ma irritabile e un po’ invasivo. Lei è stata descritta come una giovane ragazza arrabbiata, con le mani immerse nella vernice. Infatti, quando Marlene Dumas rappresentò l’Olanda nel padiglione di Rietveld alla Biennale di Venezia del 1995, alcuni dei suoi ritratti includevano gli interventi e le modifiche fatte dalla figlia allora adolescente. Altri lavori mostrano Helena come una teenager, esitante e insicura, appoggiata contro un muro come una ragazza che aspetta gli amici fuori dalla discoteca. Una serie di ritratti di Dumas è stata anche specialmente ispirata al ragazzo marocchino che Helena aveva al tempo. “In Young Boys (1994), ho usato vecchie foto di una cerimonia di iniziazione. Naturalmente, ho violato la privacy culturale, mancando di rispetto. Così ho tolto i ragazzi dal loro barbaro contesto tribale. Ho dato loro sorrisi, cambiato il loro taglio di capelli. C’è chi pensa subito che la pittura stia per qualcos’altro, l’hanno letta come una dichiarazione in bianco e nero. Questo va bene ma non è necessariamente la mia intenzione”.
“I miei lavori migliori sono schermi erotici di confusione mentale, con intrusioni di informazioni irrilevanti”. Alcuni ritratti sono volti facilmente riconoscibili, come quelli di Marilyn Monroe, Osama Bin Laden, Pier Paolo Pasolini, e Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia. Il ritratto a tinte azzurre di Amy Winehouse (2011) è stato recentemente acquistato dalla National Gallery di Londra. Altri ritratti rappresentano uno stato emotivo, piuttosto che una persona reale. “Spesso nei miei lavori, devo far inginocchiare la figura, solo per adattarsi al telaio”, spiega Dumas. “In ogni caso, perché non posso mescolare la prospettiva e lo stile in una singola scena? Non sono mai stata interessata all’anatomia. A questo proposito, mi relaziono come fanno i bambini. Ciò che viene vissuto come il più importante, è visto come il più grande, a prescindere dalla dimensione fattuale”.
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Il personale e lo storico collidono nei ritratti di Dumas. “Dead Marilyn” (2008) si basa sulla fotografia di un’autopsia. Dipinta in blu-verde e grigio chiaro, questa tela ha segnato l’inizio di un gruppo di dipinti di lutto e donne piangenti, realizzato l’anno dopo la morte della madre dell’artista. Altri ritratti catturano il dolore delle vedove o i corpi avvolti delle donne arabe morte. “Sono stata accusata di traffico di immagini di miseria”, dice Dumas. Al contrario, lei è stata anche descritta come persona affetta dalla sindrome di Cenerentola, e questo la diverte anche.
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CULTURA
IL RITRATTO DI GRUPPO COME SCHIERA POLITICA
In “Snow White and the Broken Arm”, sette cupe facce nere guardano una figura di una donna, nuda e sdraiata, che stringe una macchina fotografica tra le dita artritiche. Anche in questo caso, Dumas svela come riesce a prendere una fiaba dolce e mutarla nel suo incubo psicologico. Molti dei dipinti più noti di Dumas mostrano figure disposte in strani gruppi disuniti. Che siano “The Seven Dwarves”, “The Nuclear Family”, “Jewish Pilgrims”, spose o una sequenza di coppie che si abbracciano, le sue figure si allineano in file sbilenche. In un’asta del 2005 a Christies (Londra), “The Teacher” (1987), il suo grande dipinto olio su tela basato su una formale fotografia “old style”, è stato venduto per 3,34 milioni dollari. A 51 anni di età, Dumas si era “guadagnata la strana fama di poter vantare il prezzo d’asta più alto per un’artista femminile”, ha riferito il New York Times. A quel tempo, se ne parlò molto sulla stampa internazionale, ma non era assolutamente il tipo di attenzione che Dumas stava cercando. In effetti, per lungo tempo, insieme ai suoi curatori principali (inizialmente Paolo Andriesse ad Amsterdam, così come Zeno X di Anversa, Frith Street a Londra, Koyanagi Gallery di Tokyo e David Zwirner a New York), ha controllato attentamente in che maniera i suoi lavori penetrassero nei mercati più grandi. Lei ha cercato di evitare la frenesia e le speculazioni di mercato. La sua produzione è bassa, e molti dei suoi grandi dipinti passano direttamente dal suo monolocale in collezioni pubbliche, a prezzi di gran lunga inferiori a quelli che avrebbero ottenuto in asta. Il prudente uso di Dumas di vernice, piccoli acquerelli e l’innato senso di intimità visibile durante tutta la sua opera è completamente opposto al lavoro di quei grandi pittori maschi roboanti provenienti da America, Germania e Italia che è emerso negli anni Settanta; circa allo stesso tempo, si è trasferita ad Amsterdam
da Cape Province. Dumas era praticamente l’unica donna pittrice in uno “scontro a fuoco” con artisti del calibro di Georg Baselitz, Jean-Michel Basquiat, Sandro Chia, Anselm Kiefer e Julian Schnabel. Fu come nel film “Il buono, il brutto e il cattivo”, celebre “Spaghetti Western” di Sergio Leone in cui Rada Rassimov, l’attrice nativa di Trieste che ha recitato nel ruolo di Maria, era l’unico personaggio femminile che appare in tutto il film. La sua maestria nel realizzare effetti suggestivi attraverso l’uso di una tavolozza opaca e pennellate decise ha visto Dumas più volte associata ad artisti come Frans Hals, Francis Bacon, Luc Tuymans e Maria Lassnig. Ha basato diverse opere su tele di Goya, Mantegna e Warhol, e ha creato un progetto di collaborazione con il fotografo olandese Anton Corbijn, incentrato su ritratti di spogliarelliste e prostitute del quartiere a luci rosse di Amsterdam. Come Caravaggio, Dumas capisce la potenza insita nel lasciare ampie zone dell’opera in bianco o in bianco e nero. In primo piano, le sezioni più grandi delle sue tele possono apparire del tutto astratte, o assenti. Alcuni sfondi sono meno di “un lavaggio”, poco più di una macchia. Nel frattempo, lo sconfinato entusiasmo, energia e natura curiosa di Marlene rimangono costanti. Lei ride, e poi fa una dichiarazione pungente, spesso sul suo stesso lavoro. Si interroga costantemente, eppure è affettuosa, mai distante né invadente. Questo lo mostra chiaramente attraverso il suo lavoro. Il suo atteggiamento è generoso: insegna presso accademie d’arte e aiuta veramente i suoi colleghi ed i suoi studenti. In passato, ha anche sostenuto di persona i costi di produzione di alcuni dei loro lavori (ad esempio, aiutando finanziariamente l’installazione di Eulalia Valldosera per Manifesta 1 a Rotterdam nel 1996), anche se rimane modesta parlando di questo. In ogni caso, Marlene Dumas non è certo diventata più mite con l’età. I suoi capelli rossicci e selvaggi sembrano ancora una criniera leonina.
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MARLENE DUMAS
“La mia arte si trova tra la tendenza pornografica a rivelare tutto, e l’inclinazione erotica a nascondere di che cosa si tratta”. NUMERO 01
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CULTURA
MARLENE E MANIFESTA 10
GESÙ COME OBIETTIVO
In occasione di Manifesta 10, la biennale nomade dell’arte europea che si è recentemente chiusa a St.Petersburg, Dumas ha concepito una nuova serie di 16 ritratti di personaggi di rilievo della cultura, principalmente dalla Russia - Sergej Ėjzenštejn, Vaclav Nižinskij, Rudolf Nureyev e Pyotr Tchaikovsky Illyich, ma anche James Baldwin,Tennessee Williams e Alan Turing - i cui riconoscimenti vanno ben oltre la loro identificazione come persone omosessuali. Altri schizzi in matita bianco e neri tratti dalla sua serie “Great Men” (tra cui Jean Genet e Oscar Wilde) sono ora inclusi nella sua personale al Museo Stedelijk.
A livello strettamente personale, posso anche garantire per la costante abilità di Marlene nell’affrontare questioni controverse con sensibilità. Già nel 1994, nel mio ruolo di curatore, ho organizzato “L’Ottobre degli Olandesi” (Dutch October), una serie di dodici mostre personali di dodici artisti olandesi in undici gallerie romane, e Marlene propose un’esposizione di gioielli dipinti su carta per la Galleria del Cortile. Il suo argomento? Ritratti di Gesù, un tema che ha rivisitato, più recentemente, nei suoi dipinti sublimi della Crocifissione, molti dei quali sono stati acquistati per la Collezione Pinault. Ma nei primi anni Novanta in Italia, l’immaginario cattolico palese non era certo di moda nel mondo dell’arte contemporanea internazionale. A quel tempo, la sua scelta è stata vista come radicale e certamente imprevedibile. Lei era un’artista nata nel 1953 in Sud Africa, che era di stanza in Olanda e che portava una raccolta di immagini di Gesù nella Città Eterna. Ha anche inserito un ritratto di una Barbie, come un’icona spirituale alternativa, con la sua faccia di plastica che indossa un sorriso enigmatico.
Sotto ciascun ritratto in stile identikit, Dumas ha scritto una concisa e struggente citazione circa l’uomo nella foto. Leonard Matlovich (1943-1988) era un sergente russo e vietnamita veterano di guerra. La sua lapide reca tale scritta: “Quando ero sul campo di battaglia, mi hanno dato una medaglia per aver ucciso due uomini, e una punizione per amare uno”. Questa serie è stata la reazione diretta di Dumas alla legislazione anti-LGBT e agli arresti ufficiali in Russia per i membri della comunità gay, una dichiarazione molto forte dato che Manifesta 10 era in corso nella città dove il primo ministro Putin è stato in precedenza il sindaco. Anche se la polemica è stata anticipata, i fatti accaduti in Crimea e altrove in Ucraina hanno disinnescato il potenziale della lotta politica a St.Petersburg. Un chiaro commento sui disordini politici in Russia è stato rilasciato da Kasper König, curatore di Manifesta 10. “Sta a noi non essere influenzati da pregiudizi nei confronti delle minoranze o di propaganda nazionalista, ma di respingerla. Ora più che mai, è importante continuare il nostro lavoro con coraggio e convinzione”, scrive König. “L’esperienza mi dice di mantenere la calma e continuare a lavorare sulla complessità e la contraddizione che l’arte ha da offrire, e come può impegnarsi, e opporsi alle semplificazioni del nostro tempo”.
Nella mostra del 1994 Dumas interpretò Gesù nella veste dell’uomo di tutti i giorni. È stato anche raffigurato con la pelle color giallognolo o blu scuro, con gli occhi di una tigre e in una versione, definita “Gesù islamico”. Come sempre, Dumas ha rivelato una combinazione improbabile di disarmonia, parodia, umorismo e nostalgia. E amore. “Dopo tutti i miei disegni di ragazze e donne, Gesù è un bell’uomo da dipingere,” mi ha detto Dumas. “Ho trovato questa immagine pallida di Michael Jackson in un giornale. Ho pensato che anche lui sarebbe stato un buon Gesù”. Ha anche parlato del “Denudato contro il nudo”: un uomo raffigurato senza sentimenti di odio, diffidenza, disgusto o di colpa. Il maschio come un essere umano vulnerabile. La nudità, per me, non è un’immagine eccessiva. Non è un segno di abuso. In ogni caso, cos’è peggio? Essere abusato o essere respinto?”
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MARLENE DUMAS
PUNTARE, CARICARE, FUOCO
Nella retrospettiva di Dumas, le emozioni corrono forte. Si avvertono appena in superficie il disagio, l’imbarazzo, lo sgomento e la vergogna. Gli opposti si attraggono. L’innocenza e la colpa, la tenerezza e la violenza, la gioventù e la vecchiaia, vittima e carnefice, la vita e la morte. Unica nella scena contemporanea, Marlene Dumas crea opere che sono gentili, ironiche e strazianti, a volte nella stessa pittura. La sua prima ricerca in un’istituzione americana ha avuto luogo presso il Museo di Arte Contemporanea di Los Angeles nel 2008, e lei la chiamò “Measuring your own grave”. Così, lei interpreta contemporaneamente i ruoli di artista, pistolera, becchino e cadavere.
“The Image as Burden” comprende quindici gallerie al piano superiore dello Stedelijk Museum di Amsterdam, esposte fino al 4 gennaio 2015. La mostra, curata da Leontine Coelewij, Kerryn Greenberg e Theodora Vischer, con una particolare attenzione alle opere giovanili 1976-1982, sarà poi presente presso la Tate Modern di Londra (5 febbraio - 10 maggio, 2015) e la Fondazione Beyeler a Basilea (30 maggio13 settembre, 2015). Attualmente, le pareti del Museo Stedelijk sono piene di dipinti e disegni di Dumas, che possono essere visti come trappole visive. Potrebbero essere innocenti, ma sono veramente esplosivi, ognuno di loro ha un’arma nascosta. E qui abbiamo la fuorilegge Marlene Dumas, la Annie Oakley dell’arte contemporanea, una “fuciliera” che esce con le armi spianate. (14’20’’)
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Installazione per la mostra “Marlene Dumas: Measuring your own Grave”, MOCA di Los Angeles 2008. Foto Brian Forrest
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EVENTI GENIUSOFF
Sergio Sorgini, arte e duttilità: da Verona a New York Il maestro internazionale e la sua storia, fra disegno, pittura e scultura. Di MATTEO ZANINI
Il primo Sorgini: puoi raccontarci gli inizi? Nasco come disegnatore. Il mio primo lavoro: ho illustrato un libro di poesie per mio zio don Bernardino Mastroianni che è stato una guida spirituale e di vita. Fumettista per il Vittorioso, in seguito ho lavorato come cartellonista cinematografico, per la Paramount Pictures e la Universal: parliamo degli anni 1959 -1961. In assenza dei moderni mezzi di comunicazione, il successo del film poteva essere decretato dalle qualità pittoriche dell’artista. Le case di distribuzione americane mi affidavano il lavoro; non ero a conoscenza del titolo definitivo in quanto doveva essere pensato esclusivamente per il pubblico italiano. Riempivo pertanto gli spazi riservati al titolo definitivo con lettere sfuse (titolo provvisorio), che, una volta conosciuto, recuperavo le lettere trasferendole sulla tela. Una specie di operatività alla Andy Warhol, per intenderci; questa metodologia la chiamavo “omaggio al cinema”, anche se i critici la definiscono pop art. Arrivato a Brescia
invitato dalla casa editrice – La Scuola – mi dedico all’illustrazione di libri per ragazzi. Dopo le locandine, si passa alla pittura. Ho vissuto un periodo di pittura metafisica, dove ho prodotto le mie donne lunari, donne enigmatiche in eterna attesa. Ho poi cominciato a dedicarmi alla scultura in bronzo che con la produzione pittorica hanno dato luogo alle antologiche al Palazzo dei Sette di Orvieto e al Maschio Angioino di Napoli. Altre grandi sculture contro la violenza sono state esposte al Palazzo Venezia di Roma e alla Reggia Venaria di Torino. Dopo, ho avuto l’onore di presentare un’antologica al Chiostro del Bramante di Roma in contemporanea alla mostra sulla “Dinastia di Brueghel”. Vista la numerosa affluenza di visitatori e per le tematiche affrontate (violenza contro le donne ed il dramma della malattia mentale) il Comune di Viterbo mi ha proposto di proseguire la mostra antologica nelle locali Logge di San Tommaso. Subito dopo Viterbo è
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seguita la mostra alla biblioteca del Mart di Rovereto. Sergio Sorgini è un artista, ma per arrivare dove è ora ha passato anche momenti difficili: nel suo percorso ha vissuto da piccolo gli anni della guerra. Ho conosciuto le rappresaglie tedesche a Roma, ho sofferto la fame, come tutti in quel periodo, che però ricordo costantemente perché sono stati gli anni che hanno segnato in modo indelebile la mia coscienza ed il mio voler essere vicino agli altri come ricordava Francesco d’Assisi a cui sono molto legato. Il discorso “umanitario” è legato alle fasce sociali più a rischio: ci sono argomenti interessanti anche qui. Parte della mia produzione è indirizzata alla denuncia di situazioni estreme della nostra società, da qui ad esempio i lavori dedicati alla violenza sulle donne quale simbolo della violenza “universale”. Un caro amico psichiatra, al tempo della mostra al Chiostro del Bramante, mi fece conoscere i suoi
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INTERVISTA A SERGIO SORGINI
Un artista di fama internazionale a Trieste: è Sergio Sorgini, pittore e scultore che ha dei legami con il capoluogo regionale, ma che con le sue opere ha toccato vette molto alte e sarà nei prossimi mesi protagonista con i suoi lavori. Nell’occasione di una delle sue visite in compagnia di Leonardo Guardalben (pittore che da quarant’anni è anche il curatore delle sue mostre), Sorgini si presta volentieri ai microfoni di Genius People Magazine per raccontare la sua storia ed il suo percorso, che parte da molto lontano.
ragazzi, malati di mente. L’incontro con questi giganti silenziosi e drammaticamente umani mi ha toccato nel profondo; rientrato a Verona, con questo forte carico emotivo, mi sono chiuso in studio per giorni, dormendo lo stretto necessario e meditando intorno al dramma delle condizioni di questi uomini, che hanno ispirato e fortemente condizionato i miei successivi lavori.
Nella pagina precedente: Sergio Sorgini inaugura la mostra “Non più violenza” alla Galleria Tergesteo di Trieste (22 novembre - 20 dicembre 2014) in occasione del Sesto Rapporto dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, foto Tedeschi; sopra: scultura in bronzo policromo realizzata in occasione della mostra “Non più violenza”, courtesy l’artista
della telecamera, prima l’esterno, entrando poi letteralmente dentro la scultura creando un taglio prospettico particolare che ha saputo cogliere l’essenza e la drammaticità della condizione dell’umano essere.
Infine, il capitolo scultura che peraltro è trattato in una maniera particolare. Nella scultura, un episodio interessante che mi sento di raccontare è stato il video realizzato dall’israeliano Avi Rosen al Maschio Angioino, dove è collocata in permanenza, all’ingresso del Museo Archeologico, una mia scultura dal titolo “non più violenza”. Questo lavoro è emblematico della mia produzione artistica: in scultura rappresento le donne come esseri lacerati, feriti, violentati nelle forme da questa società in cui vivo. Rosen ha esplorato, con l’occhio
Da ultimo, mi hai accennato di un nuovo movimento, vuoi parlarmene? Guarda, fai conto che sia un palazzo di cui sono già state gettate le fondamenta. Rimembranzismo è il nome che identifica il movimento. Al suo interno ci sono rappresentanti nell’ambito scientifico, letterario e artistico, come l’amico architetto Alessandro Carone, la storica dell’arte Irene Danelli, lo scienziato Angelo Spena, ordinario di genetica all’Università di Verona, la poetessa e antropologa Marcia Theophilo, candidata al premio Nobel per la letteratura e tanti altri. Io sono stato invitato per la parte artistica; è di questi giorni la creazione del manifesto del movimento, mio lavoro più recente. (4’10’’)
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CULTURA
Un italiano a New York tra natura, architettura e design Antonio Pio Saracino si racconta tra progetti, sculture e la sua vita nella grande mela. Quando intervisti qualcuno, difficilmente lo perdi completamente di vista. Se non altro passivamente, perché grazie alla tecnologia e ai social media oggi è possibile tenersi in contatto anche quando gli amici abitano dall’altra parte dell’Oceano. Così è successo anche con Antonio Pio Saracino che avevo intervistato qualche anno fa per GeniusOFF e di cui Facebook mi dà continuamente notizia, anzi grandissimi aggiornamenti. Capita sempre più spesso che sulla mia bacheca appaiano copertine di riviste prestigiose con le sue splendide sedie in prima pagina, foto di cantieri a cielo aperto nella Grande Mela con il simpatico e bel viso di Antonio che sorride da sotto un caschetto di sicurezza. Antonio Pio Saracino è architetto e designer e da quasi dieci anni vive a New York, dove lavora ottenendo grandi successi e importanti riconoscimenti. Quando penso all’impegno e alla costanza con cui l’uomo deve onorare il proprio talento, penso ad Antonio. Una grande persona e un grandissimo lavoratore che, dopo alcune esperienze in Italia tra le quali anche lo studio dell’archistar Massimiliano Fuksas, ha colto l’occasione di volare negli States e dare nuova linfa alla sua promettente carriera.
Di MARTINA VOCCI
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INTERVISTA A ANTONIO PIO SARACINO
Antonio Pio Saracino fotoritratto da Rodolfo Martinez
Hai vinto l’American Architecture Award per un attico a Tribeca con una vista straordinaria e con una metratura in cui lo spazio esterno è uguale a quello interno, un luogo magico in cui città e casa si compenetrano organicamente. Il progetto, firmato insieme a Steve E. Blatz, porta le inconfondibili tracce del tuo lavoro: la natura, le proporzioni auree derivate dalla perfezione di una conchiglia. Quindi continua il tuo fertile rapporto con l’ispirazione naturale? Credi che sia il fatto di vivere in una città che ti spinge a cercare proprio tutto questo verde? Vedo sempre quello che facciamo come un’estensione della natura. Credo che il design scaturisca dalla natura e ne rappresenti, in un certo senso, una continuazione. Non siamo distinti dalla natura, veniamo dalla natura e tutto quello che facciamo è un’estensione della natura e della sua attività costruttiva ed evolutiva. Il nostro corpo evolve biologicamente con le regole della natura. Il design che costruiamo evolve con il nostro corpo estatico: i nostri desideri, sogni, aspettative, stile di vita, valori. NUMERO 01
L’anno scorso in questo periodo dell’anno, inauguravi Guardians a Bryant Park, la culla per eccellenza del mondo glamour di New York di cui è uno dei parchi più centrali, tra Times Square e Grand Central; un punto di passaggio per i turisti di tutto il mondo. Il progetto Hero e Superhero è stato inaugurato in occasione della chiusura dell’anno della cultura a New York, dove sono giunti anche il sindaco di Roma, oltre all’establishment italiano d’oltreoceano. Sei stato scelto quindi per rappresentare l’italianità a New York. Come è nata questa collaborazione? Come mai proprio la figura dei guardiani? All’inizio del 2013 mi sono state offerte due opportunità incredibili: ideare un simbolo dell’Italia a New York in occasione dell’Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti e disegnare per un gruppo immobiliare di New York City, proprietario di alcune aree di Bryant Park, un progetto di arte pubblica nel cuore di Manhattan proprio a Bryant Park. Mi era stato chiesto dall’Ambasciata di disegnare un simbolo che rappresentasse l’Italia e di ridisegnare la figura del David, simbolo universale 63
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“Non siamo distinti dalla natura, veniamo da essa e tutto quello che facciamo è un’estensione della natura e della sua attività”. dell’italianità nel mondo. Da lì, nasce la mia idea dei Guardiani: David è stato un eroe che ha ispirato generazioni. La mia intenzione è stata quella di creare due Guardiani simbolici che celebrano il superuomo e l’ispirazione che esso sa infondere. E quindi proprio dal simbolo di una cultura e un mondo neoclassico è partita la tua interpretazione per Hero e Superhero. Ma chi sono? L’Eroe è un’imponente reinterpretazione in marmo del David di Michelangelo, guardiano della città di Firenze, mentre il Supereroe è un’imponente icona della cultura presente in acciaio inossidabile lucidato a specchio. Entrambe le statue sono state realizzate a New York, e i materiali differenti sono stati assemblati in modo tale da creare diversi strati che tracciano il movimento del corpo e la sua apertura a ciò che lo circonda. Così Hero e Superhero svettano verso il cielo grazie a un complesso sistema di piani sovrapposti, uniformandosi al contesto circostante e all’architettura dei grattacieli. Hero e Superhero fanno parte di quella che tu chiami “arte pubblica” in cui si integrano spazi aperti e sculture come quelle che avevi già realizzato a Bruxelles. Che cosa rappresentano? Le due sculture antropomorfe che ho creato sono concepite come due costruzioni architettoniche stratificate che rappresentano l’abilità universale dell’umanità di affermare la propria presenza
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nel mondo, grazie alla capacità di erigere costruzioni imperiture. La struttura architettonica è una traccia vitale che lasciamo nel mondo, niente potrebbe lasciare un segno tanto indelebile per celebrare l’Eroe e il Supereroe come custodi della nostra città. Quando ti ho intervistato qualche anno fa per la mostra che avevi fatto per una galleria di arte contemporanea a Trieste, il tema principale della tua riflessione artistica (naturalmente intesa in senso lato visto che sei laureato in architettura, ma ti occupi anche di arte pubblica e design) era la natura, intesa come una struttura perfetta e da cui trarre modelli sostenibili. Quali evoluzioni ha avuto il tuo percorso negli ultimi due anni? Direi che la natura rimane una componente fondamentale. Oggi poi, con l’aiuto delle tecnologie digitali più avanzate, possiamo ri-immaginare e ri-progettare gli oggetti di design con logiche complesse che si ispirano ai sistemi organizzati ed evolutivi esistenti in natura. Nel mondo in cui viviamo la linea di demarcazione tra elementi artificiali e naturali è sempre più sfuocata. Design e arredamento, progettazione: due componenti fondamentali della tua attività. Qual è la tua idea di casa? La casa nella nostra cultura contemporanea è il luogo dove si svolge una grande parte della nostra vita, dove ci ripariamo dal mondo e dove, allo stesso tempo, costruiamo il nostro mondo: un luogo in cui materializziamo i nostri sogni più intimi. Ci contorniamo di oggetti che ci rendono felici, di foto che ci emozionano, di colori che riscaldano la nostra quotidianità e di oggetti che ci ricordano i nostri valori, la nostra storia, la nostra cultura e che creano l’idea del nostro status sociale.
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INTERVISTA A ANTONIO PIO SARACINO
Ogni progetto ha sempre un’ispirazione: questo assunto vale per tanto per l’arte figurativa quanto per l’architettura e il design. Cosa influenza il tuo processo creativo? Da dove trai spunto per le tue opere? Non li vedo come due mondi separati. Li vedo come due mondi in relazione costante. Gli oggetti e le architetture nascono sempre con un valore d’uso specifico e con una funzione e poi si evolvono attraverso la nostra immaginazione e creatività. Vivi da anni stabilmente a New York, ma anche dall’Italia continuano ad arrivare grandi riconoscimenti, come tra gli altri il grande monumento che stai realizzando nella tua città natale, San Marco in Lamis, in Puglia. Quali sono le sensazioni di chi si vede arrivare a questo punto dopo tanto duro lavoro? Mi emoziono sapendo di poter emozionare e ispirare tanta gente con il mio lavoro e di poter condividere il mio mondo con loro. Ormai vivi da dieci anni a New York, ma per lavoro giri il mondo in continuazione. Ti sei mai trovato a combattere con lo stereotipo dell’italiano, quello di “pizza, spaghetti e mandolino” (tanto per capirci)? Continuamente! Ma fa parte del gioco perché, stando a New York, si ha la possibilità di entrare in contatto con tantissime culture diverse. Un turista a New York: cosa gli consigli di vedere per scoprire la “tua” Grande Mela? L’High Line, un nuovo parco sopraelevato intorno al quale si stanno progettando e costruendo nuove architetture. È una delle nuove aree di Manhattan in grande cambiamento ed è il quartiere dove vivo. E poi sicuramente i Guardians a Three Bryant Park! (6’25”)
“Hero”, nella foto sopra, e “Superhero” sono “The Guardians” di Bryant Park, New York: un omaggio alla cultura italiana negli Stati Uniti. Riproduzione riservata
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Alessandro Preziosi, dalla direzione all’interpretazione con il “Don Giovanni” Già ospite di genius-online con il “dietro le quinte” del Don Giovanni, Alessandro Preziosi aveva avuto modo di scambiare battute ed opinioni con il nostro Direttore Francesco La Bella ed il comune amico Fabrizio Pertot: lo incontriamo per la seconda volta, parlando proprio di teatro, regia e filosofie.
Di SERENA CAPPETTI
Alessandro, ti abbiamo visto negli ultimi anni a teatro prima in Amleto, poi in Cyrano: ora, il Don Giovanni. Ci spieghi la scelta di interpretare questi personaggi e testi teatrali? È una scelta legata a un ciclo ben preciso, quello del Seicento. I tre spettacoli sono in qualche modo un approfondimento editoriale per raccontare tramite queste tre figure teatrali le tematiche del tempo, segnato dalle grandi passioni, dagli eccessi, dalle innovazioni. La filosofia baconiana in Amleto, l’avvento dell’età moderna e la nascente letteratura scientifica con Cyrano, personaggio oltretutto realmente esistito, l’evoluzione costante rispetto all’estetica e al decoro popolare nel Don Giovanni. Quali sono la caratteristiche e gli aspetti peculiari della tua regia? In che modo ti distingui? La regia è basata su un voler raccontare il Don Giovanni partendo da tutti i Don Giovanni della storia, del teatro, della musica e della letteratura; due ore di spettacolo che arrivano fino al Don Giovanni del
XXI secolo. Ciò che ho poi voluto far emergere è l’incredibile uso dialettico del linguaggio mirato alla persuasione utilizzato dal protagonista, e dare ai personaggi, grazie all’aiuto di attori di grande valore come Nando Paone, le caratteristiche con cui poter ostacolare la coerenza del protagonista verso la sua dannazione. Ho voluto dare una speranza al Don Giovanni che va, solo, verso la morte. Dare al Don Giovanni uomo (il mito è infatti già condannato a morte) maggiore consistenza grazie al rapporto con Ravanello, ma anche alzando la sfida a tutti i personaggi, creando scontri, opposizioni, dicotomie che possano far emergere la riconversione di un uomo che vorrebbe riconvertirsi, ma che di fatto non può, avendo un destino ormai già segnato.
dolo in modo migliore, man mano che si sviluppa lo spettacolo. Si tratta di un viaggio meraviglioso, accompagnato da collaboratori grazie ai quali poter intervenire su ogni aspetto, dalla musica alla scenografia. Un percorso dove la difficoltà è data dalla ricerca quasi maniacale del movimento e del gesto, che mira quasi in maniera ossessiva alla generazione della costante curiosità dello spettatore.
Quali opportunità offre la possibilità di dirigere e al contempo interpretare uno spettacolo teatrale e quali sono le difficoltà? Sicuramente la possibilità di possedere lo spettacolo in maniera piena, assoluta, dove il regista riesce a definire l’interprete inquadran-
A tuo avviso, perché è importante riproporre i classici e come possono essere riportati al presente? Fedelmente rispetto alla loro stesura o con alcune contestualizzazioni riconducibili ai giorni nostri? I classici, nella loro interezza, rappresentano una società non ancora finita. Rendere moderno un testo classico non vuol dire cambiarlo ma creare delle interazioni, senza apportare degli sconvolgimenti che cambino l’essenza e la cultura del classico. Nello spettacolo, ad esempio, sono stati inseriti alcuni elementi della cultura moderna attraverso musiche, piuttosto che immagini e proiezioni in 3D, al fine
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INTERVISTA A ALESSANDRO PREZIOSI
di dare allo spettatore il senso di essere all’interno di una finta classicità, diversa. Tra gli obiettivi del regista, infatti, vi deve essere, a mio avviso, la volontà di far immergere lo spettatore nella forza delle emozioni grazie alle nuove e differenti possibilità date dalla tecnologia.
Alessandro Preziosi durante il Don Giovanni. Foto di Noemi Commendatore
sia, o meglio, dell’abuso di ipocrisia, rifiutando una religiosità prettamente esteriore e conformista.
Nel testo emerge spesso il termine cielo con un significato che rimanda a una dimensione letteraria, mitologico-classica. Nella lettura presentata nel tuo spettacolo, il soggetto giudicante e punitivo mantiene questa identità divina oppure rappresenta, forse, un’entità più sociale o personale? Il Don Giovanni vive nell’irrisione sociale e del cielo. Un nobile come lui non ammette altro giudice della sua vita che non sia la sua stessa coscienza. Del cielo, di Dio, non ha nessun rispetto perché si accorge che sotto il falso mantello della religione si accorre solo per tutelare e coprire la proprie malefatte. Per cui, l’unica apertura che si concede è quella di morire per incontrare Dio personalmente. Sintesi, questa, della denuncia che Molière fa dell’ipocri-
Il teatro di Molière rispecchia gli atteggiamenti critici dell’epoca e analizza con ironia e vivacità comica le debolezze della natura umana. A tuo avviso, sono ancora questi gli scopi della comicità dei giorni nostri, oppure si è persa una certa profondità di pensiero che sta dietro la risata? La comicità è sempre il risultato dato dalla ricezione dello spettatore collegata al cinismo della società in cui viviamo. Lo spettatore dimostra una profonda sensibilità verso le provocazioni di Don Giovanni, sorridendo con piacere alla stravaganza del personaggio e al contempo all’ignoranza di Sganarello. La debolezza altrui è ciò che scatena sempre la comicità, che cambia di Paese in Paese e di città in città. La magia della scrittura di Molière è data dal far riflettere e commuovere, e dal riuscire a provocare il pianto dove prima era nata la risata. (4’10’’)
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EVENTI GENIUSOFF
“Vi racconto la nostra ricchezza” Il tesoro d’Italia secondo Vittorio Sgarbi. Raffinato critico d’arte, saggista, professore, politico. Vittorio Sgarbi è un personaggio dalle mille sfaccettature: acuto osservatore, a volte istrionico e un po’ irriverente. Con il suo carattere esplosivo travolge l’uditorio e ammalia i sensi e, attraverso le sue parole, possiamo godere appieno della bellezza dell’arte, nel suo splendore senza tempo. DI ANNA MIYKOVA
Vittorio Sgarbi presenta “Gli anni delle Meraviglie” in Impact Hub Trieste. Foto Tedeschi
Professore, nel suo ultimo libro “Gli anni delle Meraviglie. Da Piero della Francesca a Pontormo. Il tesoro d’Italia II” accosta i nomi dei grandi Maestri del Rinascimento come Michelangelo, Leonardo e Tiziano ad altri meno conosciuti come Piermatteo D’Amelia, Saturnino Gatti, Stefano da Putignano. Perché questa scelta? All’interno di un secolo ci sono artisti più o meno conosciuti, alcuni noti, altri notevoli. A volte le due caratteristiche coincidono, o almeno si presume che sia così. Quando un artista è notevole sarà sicuramente anche noto, ma non si può sempre dire lo stesso del contrario. Prendiamo ad esempio Piermatteo d’Amelia. Ritengo sia un autore indubbiamente notevole e capace, più di Perugino, che ha avuto, però, maggior fortuna. Fino agli Anni Cinquanta non si conosceva nemmeno il suo nome e il pittore veniva identificato come “Il Maestro dell’Annunciazione Gardner” dal nome della proprietaria dell’opera, Isabella Stewart
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Gardner. Piermatteo D’Amelia è stato sollevato dall’oblio quando fu scoperto un documento che dimostrava le sue origini umbre. Io ho solo cercato di far prevalere la qualità sull’opera d’arte e di far convergere, quindi, gli artisti più noti con quelli notevoli. La parola meraviglia o meraviglie ricorre in diversi titoli dei suoi libri. Qual è, a suo avviso, l’approccio corretto per spiegare la meraviglia dell’arte ai meno esperti? Lo scopo del mio libro è proprio questo. La lingua dell’arte è una lingua universale e, poiché il programma scolastico non le attribuisce l’importanza dovuta, l’intento che mi sono posto ne “Il tesoro d’Italia” è didascalico. La serie di quattro tomi coprirà un periodo che va da Cimabue fino verosimilmente al 1822, anno della morte di Canova. Sarà un vero e proprio manuale di Storia dell’Arte italiana per coloro che hanno già terminato gli studi e che di questa materia hanno avuto solo “un
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INTERVISTA A VITTORIO SGARBI
assaggio”. Il concetto che voglio trasmettere è quello del tesoro d’Italia, che non solo dovrebbe inorgoglirci ma renderci ricchi com’è ricco il valore di questo patrimonio artistico. Lasciando la bellezza dell’arte, al contrario, si parla di un appiattimento culturale generalizzato in Italia, una sorta di “panem et circenses” dei romani, ma che al posto dei giochi fa uso di programmi televisivi cosiddetti “spazzatura”. Cosa ne pensa? La realtà è molto varia. Tanti giovani, per esempio, conoscono tutti gli autori dei videoclip che trasmettono sui programmi musicali, mentre io in questo settore mi sento del tutto ignorante. È un’espressione di creatività che i giovani conoscono molto meglio. Quindi, non è detto che, di per sé, l’essere giovani e non capire o non avere sufficienti competenze in un determinato settore, significhi non avere altre curiosità estetiche, come ad esempio la moda. Quando ero assessore a Milano, per esempio, la prima mostra che organizzai fu quella di Vivienne Westwood e lo feci proprio per dimostrare che non si può sempre fare mostre su Giotto o Piero della Fracesca. Ed evidentemente, in quell’occasione, il consenso dei giovani fu molto esteso. Per cui, sono molto ottimista. Ognuno ha la sua esistenza e deve cercare di renderla meno ostile a se stesso. In occasione dell’Expo 2015, lei è stato nominato delegato del Presidente della Regione Lombardia. Quali sono i suoi progetti per rendere Milano una città notevole alle migliaia di visitatori che si attendono nei prossimi mesi? La mia idea è di realizzare una serie di padiglioni nella città accanto agli orribili padiglioni che verranno costruiti, che non sono altro che i palazzi e i luoghi storici di Milano. I visitatori potranno godere, per esempio, di Palazzo Clerici che solitamente non vede nessuno e che ha un soffitto di trenta metri di Tiepolo. Ci sono le chiese di Bramante, i capolavori di Leonardo. A questo proposito, stiamo predisponendo un duplicato per consentire a tutti quelli
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che non potranno entrare, per l’eccesso di richieste, di poter fare l’esperienza di una conoscenza straordinaria. Poi ci sarà il padiglione legato a Michelangelo del Castello Sforzesco, quello del Caravaggio che è nato a Milano e le cui opere sono custodite a Brera e all’Ambrosiano. In sostanza, l’idea è di favorire chi arriva perché, essendo a Milano, non eviti di vedere quello che, con una concentrazione formidabile anche se meno conosciuto di quanto non sia a Venezia e Firenze, è il patrimonio artistico dei Grandi Maestri: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Bramante, Caravaggio. Prepareremo, poi, la mostra su Giotto e su Nicola e Giovanni Pisano, quindi l’inizio dell’arte italiana. Per cui, io ho cercato di indirizzare l’Expo verso un’enunciazione dei valori artistici italiani che a Milano sono perfettamente individuati. Bisogna favorire il percorso del visitatore e permettergli di fare, almeno a Milano, questo viaggio. Un viaggio milanese particolarmente ricco che mette in risalto gran parte del patrimonio artistico della città. Ovviamente. Poi, dobbiamo mettere in risalto anche le altre province lombarde. Per cui, a Mantova ho preparato il Museo della Follia e il Palazzo della Ragione perché è divertente il contrasto che si crea. Poi, un’altra grande mostra con gli scultori che lavoravano con D’Annunzio al Vittoriale, museo più visitato della Lombardia anche rispetto a Brera, dove ho preparato un’esposizione delle opere che solitamente non si vedono, denominata “Brera segreta”. Un percorso abbastanza ricco e che metterà in risalto anche altri aspetti. Ho in progetto di creare all’interno del Museo del Novecento una sezione dedicata al Futurismo, ultimo momento universalmente conosciuto dell’arte italiana. Ma il fatto che sia molto conosciuto non significa che non deve essere fatto vedere. Anzi, è necessario fare una razionalizzazione delle bellezze di Milano, in maniera efficace e sintetica. È chiaro che il visitatore non può pensare di veder tutto, ma almeno sapere di poter vedere quello che è più importante. (4’55’’)
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EVENTI GENIUSOFF
Brigitte Vincken: fra i colori e le sfumature grigie della fotografia L’artista olandese racconta il suo percorso professionale, dai primi passi in Italia fino ai lavori con artisti come Roberto Cavalli e Lucio Dalla. Brigitte Vincken, annoverata tra i primi tre fotografi olandesi di nautica, specializzata in fotografia in bianco e nero, ritrattistica e tecniche digitali, nonché nota a livello internazionale nel campo della moda maschile, vive tra Milano ed Amsterdam. Ha immortalato personaggi del calibro del Dalai Lama, Roberto Cavalli, Lucio Dalla, Larry Ellison, Leonardo Ferragamo e Carlo Riva. Nel campo della moda ha lavorato inoltre per Condé Nast, Pelican e Hearst.
Di SERENA CAPPETTI
Quale percorso di studi, esperienze, sensazioni ha intrapreso per arrivare alla sua professione? Professionalmente nasco in Italia, più precisamente a Carpi negli Anni Novanta, sotto la guida di Beppe Lopetrone che mi prese come sua assistente; partendo dall’organizzazione delle produzioni fino al lavoro in camera oscura e ai primi incarichi come fotografa. Chiaramente la fotografia mi piaceva, ma non potevo ancora immaginare che sarebbe diventata una parte fondamentale della mia vita. Nella stessa città ho avuto poi la possibilità di GENIUS PEOPLE MAGAZINE
maturare anche un’importante esperienza professionale tramite lo studio BT&C con cui collaboro tuttora. Ho quindi deciso di rientrare in Olanda per frequentare l’Accademia di Fotografia di Amsterdam, ma le possibilità di lavorare nel campo della moda erano molto rare, perciò iniziai ad interessarmi alla fotografia nautica che, con un po’ di fortuna e molto impegno, è diventata una delle mie attività principali. Il magnate americano Jim Clark, fondatore di Netscape ed appassionato di nautica, ordinò infatti in Olanda un veliero, affidandomi il compito di ritrarre la nascita dello scafo e dandomi in questo modo la possibilità di entrare nel mondo nautico tramite una via assolutamente privilegiata. Che cosa rappresenta per lei la fotografia e perché l’ha scelta come strumento d’espressione e di realizzazione delle proprie opere artistiche? La fotografia è come l’amore più grande della mia vita: pieno di colori, ma anche con tante sfumature grigie. Dolce ma a volte cattiva, imprevedibile, la amo e a volte la odio. La voglio mollare e poi la riprendo di nuovo con entusiasmo. Mi fa crescere, mi stimola e mi seguirà sempre lungo tutto questo viaggio che si chiama vita e sarà la mia ombra finché respiro. Come descriverebbe la sua poetica? Come un fatto didattico nella comprensione del mio percorso artistico; attraverso due concetti come la Mimesi e la Catarsi. Catarsi come purificazione da una contaminazione quale è stata ed è tuttora il lavoro che svolgo come fotografa professionista, dal quale cerco di estrapolare quegli elementi formativi del mio percorso per usarli come interpretazioni di un mio linguaggio artistico ed 70
INTERVISTA A BRIGITTE VINCKEN
sempre fare solo delle copie, dovremmo occuparci di come dovrebbero essere le cose e come dovremmo essere noi stessi. Quali sono le tematiche o i soggetti che la ispirano con maggiore intensità? Tutto quello che riguarda l’uomo, non solo le forme; l’eleganza maschile, la forza e la maschilità, ma ultimamente anche la debolezza e la fragilità. Mi piace lavorare con uomini belli, li preferisco alle donne e so riconoscere quali sono i giovani portati per questo mestiere. Spesso mi capita di lavorare con dei volti nuovi che, dopo aver posato per me, raggiungono successo e fama, come ad esempio il modello brasiliano Marlon Teixeira, ora richiestissimo da stilisti come Dior e Armani. La scelta di presentare spesso nelle sue opere il corpo maschile, quali valori vuole esprimere? Eleganza, potenza, eroismo.
Il modello Kelvin Vraam (Tony Jones Modelmanagement) in una foto di Brigitte Vincken.
eliminarne altri. Non solo una rimozione/separazione, ma proprio un “ristabilire un ordine”, un nuovo equilibrio emotivo. Essere più libera di dare alle emozioni e di gustarle in punta di dita. La Mimesi come quella attività tra umano e divino che riproduce immagini che creano sogni: una partecipazione delle cose alle idee, che nel mio mestiere sarebbe da ricercare più frequentemente ma che, molte volte, non viene considerata. Spesso si imita, accontentandosi, delle cose come sono o come sembra che siano. Se non vogliamo NUMERO 01
Vi è qualche artista a cui si sente affine a livello di produzione artistica o che stima particolarmente? Partendo dal presupposto che solo sognando ci si potrebbe avvicinare a certi livelli, direi che stimo moltissimo i lavori di Erwin Blumenfeld, Edward Weston, Patrick Demarchelier, Helmut Newton, Herb Ritts, Richard Phibbs, Jeanloup Sieff, Steven Meisel e Robert Mapplethorpe. E i suoi prossimi progetti artistici? Sto esplorando e sviluppando ancora lo studio sul collo maschile, e penso che non mi stancherò per un bel po’. Poi ci sono anche altri progetti che vorrei portare avanti e sviluppare con soggetti corpi maschili. Non solo ballerini e modelli ma anche transgender e... grassoni! (3’50’’) 71
SOCIETÀ
Giuliano Santin a tutto… gas con RS Srl Emirati Arabi, Bahamas, Norvegia, Scozia: esperienza in campo internazionale per un’azienda che si appresta a raggiungere un traguardo importante. Il mare come metafora di orizzonti sconfinati: RS Srl è una società di servizi specializzata in campo navale, portuale ed industriale, con una provata esperienza in campo oil & gas su impianti on-shore e off-shore. Si occupa, inoltre, di conduzione e manutenzioni ad impianti tecnologici civili e industriali: una realtà che nasce in Italia ma ha uno sguardo internazionale. Paesi come Camerun, Egitto, Emirati Arabi, Libia, Norvegia, Bahamas, Scozia sono solamente alcune delle mete toccate da RS Srl, il cui amministratore unico è Giuliano Santin. Ed è proprio Santin che ci accompagna in questo piccolo viaggio all’interno della realtà di RS Srl: “siamo detentori della certificazione di qualità dal 2000, siamo in possesso della SOA e, nella zona di Trieste ad esempio, abbiamo l’autorizzazione da parte della Prefettura per effettuare lo stoccaggio di materiale pirotecnico scaduto per il suo corretto smaltimento”. Un’attività, quella di RS Srl, che entra nel suo ventesimo anno; il 2015 sarà una data certamente importante, come conferma Santin: “Se devo fare un piccolo bilancio, devo dire che siamo stati fortunati perché abbiamo avuto sempre un segno positivo. Certamente il fatto di essere in un settore di nicchia ci agevola, ma teniamo anche in grande considerazione la formazione del nostro personale, che è professionalmente qualificato ed aggiornato sulle normative di sicurezza e di prevenzione vigenti”. Di MATTEO ZANINI GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A GIULIANO SANTIN
“L’origine della mia azienda? La passione: fin da piccolo ero affascinato dagli impianti speciali delle navi”.
attività proprio in tale campo, vero? Siamo impegnati particolarmente su navi commerciali o petrolifere: è un’attività che richiede grande preparazione, training ed aggiornamento costante sullo sviluppo di nuovi impianti e tecnologie. Il riconoscimento e le soddisfazioni più grandi legate a questo tipo di attività sono legati agli elogi che spesso riceviamo dopo lo sbarco dei nostri dipendenti, da parte degli armatori e dei direttori di piattaforma: ricordiamo che, per accedere alle piattaforme, i nostri tecnici hanno seguito dei corsi di formazione per sopravvivenza in mare dunque tutto quanto, come dicevo prima, è curato nel minimo particolare.
Parlando di attività di nicchia, che cos’è che fa la differenza nel vostro campo? “Un aspetto fondamentale sarebbe quello di adeguarsi agli standard internazionali: al momento, non possiamo certamente porci a confronto con il mercato mediorientale e cinese. Il loro costo del lavoro è nettamente più basso del nostro, per cui la cosa su cui dobbiamo puntare noi è l’alta qualità, in maniera da rimanere sempre competitivi a livello internazionale. Abbiamo parlato di internazionalità: parliamo dell’euro. Vasti dibattiti sono stati aperti sulla moneta unica. Per Giuliano Santin, “euro sì” o “euro no”? Non è una domanda facile: superficialmente, a bruciapelo, mi verrebbe da rispondere “euro no”. Ma, dal momento che in Europa ci confrontiamo su mercati internazionali e la moneta unica ci viene in aiuto proprio per facilitare questi traffici, bisogna riconoscere che l’euro ha la sua utilità.
Giuliano Santin. Riproduzione riservata
Il settore navale: avete una grande NUMERO 01
L’azienda, però, offre ancora tanti altri servizi ed ha partnership chiare e consolidate. Esatto: partecipiamo come supporto ai corsi di salvataggio in mare, abbiamo un’importante accordo con Viking, che è costruttore di zattere autogonfiabili, abbiamo clienti importanti nella pubblica amministrazione e privati, sia nel settore dei presidi antincendio che in quelli di videosorveglianza, portineria, manutenzioni di impianti e molto altro ancora. Ma come hai fatto a costruire tutto questo? L’origine di quello che siamo oggi? La passione. Sono sempre stato affascinato, fin da piccolo, dagli impianti speciali delle navi: era da sempre un mio pallino ed ancora oggi ho questo entusiasmo. Quest’attività, poi, mi ha portato a girare in lungo e in largo il mondo, toccando località come il Brasile, il Sudafrica, il Camerun, l’Egitto, senza poi considerare ovviamente le vicine Slovenia e Croazia e le consuete “tappe” a Miami, per il Sea Trade. (3’10’’) 73
CULTURA
Sabrina Baracetti: “Far East Film Festival, non ci arrenderemo mai” La maggiore età del Far East Film Festival raccontata dalla presidente e direttrice artistica, sulla scia del motto “We will never give up: non ci arrenderemo mai”. “Il percorso del Far East Film Festival si è costruito man mano negli anni”, racconta Sabrina Baracetti, presidente e direttrice artistica del Far East Film Festival nell’intervista realizzata da genius-online. “Quando ci siamo resi conto che il festival era diventato un appuntamento importante per il pubblico udinese e che la curiosità per quel mondo cresceva con le varie edizioni, con i film presentati, con gli ospiti portati ad incontrare gli spettatori, allora abbiamo sentito la necessità di ampliare l’offerta o comunque di arricchirla proponendo ai cittadini un vero viaggio a tutto tondo. Così sono nati gli eventi in città a tema, così è nata la Tucker Film qualche anno fa, che ci permette di dare un seguito al festival anche durante l’anno con la proposta di titoli per l’home video e le sale nazionali, sono nate le collaborazioni con i canali televisivi e tanta strada ancora vogliamo fare!” Di SARAH GHERBITZ
Poco più di un anno fa, il quindicesimo Far East Film Festival si chiudeva sotto il segno di una promessa. “We will never give up! Non ci arrenderemo mai!” Una promessa dentro cui abitavano due diversi stati d’animo: l’amarezza per i massicci tagli subiti e l’orgoglio per esserne usciti a testa alta. Oggi la sfida maggiore, nell’attesa di raggiungere i suoi fatidici primi diciott’anni, sembra pro-
prio la ricerca di nuovi spazi, che, accanto al festival, seguano i film fin già nella produzione e poi diffusione attraverso le sale cinematografiche, canali televisivi e web. Nato nel 1999, dopo la felicissima esperienza della rassegna Hong Kong Film (a tutti gli effetti, il numero zero del Feff), il Far East Film Festival è un progetto promosso e sviluppato dal Cec-Centro GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Espressioni Cinematografiche, che lavora alacremente sul territorio per promuovere il cinema di qualità e mantiene una delle sale d’essai più importanti della regione, il Visionario, che è anche una delle due sedi di proiezione del festival. Nel corso di questi anni, il festival ha cambiato nome, sede (Teatro Giovanni da Udine) e si è trasformato in una manifestazione 74
INTERVISTA A SABRINA BARACETTI
“Più un festival invecchia, più scopre le sue necessità. Smette di essere solo un evento e diventa, a tutti gli effetti, un avamposto culturale”.
pan-asiatica dedicata alle cinematografie popolari dell’Estremo Oriente, allargando il suo sguardo da Hong Kong a Pechino, Manila, Shangai, Bangkok, Seul, Singapore e Tokyo. Soprattutto, è riuscito a crearsi un proprio spazio richiamando ogni anno un pubblico fedele, fedelissimo, europeo e internazionale, composto da giornalisti, critici, studenti, esperti, addetti ai lavori
Quest’anno presentate “Fuku-chan of Fukufuku Flats”, frutto di una co-produzione tra Giappone e Friuli: che cosa vi ha spinto a partecipare a questo progetto? “L’obiettivo per la Tucker era quello di individuare un progetto cinematografico che potesse arrivare al pubblico con una storia profonda e delicata, ma trattata in maniera anche divertente e Fuku-chan of Fukufuku Flats rispondeva in maniera perfetta a queste caratteristiche. La protagonista è interpretato da un’attrice donna che è un volto popolarissimo nella tv giapponese, conduttrice di varietà molto seguiti nei canali principali della tv nipponica, e questo ci fa ben sperare che sarà un successo anche in patria. Il film uscirà nelle sale giapponesi in autunno”. Il Far East Film Festival fa parte di un sistema cinematografico in Friuli Venezia Giulia che è iniziato diverso tempo fa: quali sono i principali risultati ad oggi? La collaborazione tra i vari membri di questo sistema è fondamentale ed è quello che portiamo avanti tutti insieme, idee, progetti, produzioni di cui condividiamo rischi e successi. Questa rete ben collegata, dove si uniscono le forze e le risorse, penso sia vincente. La collaborazione tra i vari anelli del sistema – dalla Tucker Film al Fondo per l’Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia – ha portato, progressivamente, ai successi dell’irripetibile 2013: “Zoran, il mio nipote scemo”, premiato a Venezia, “TIR”, vincitore del Festival di Roma, “The Special Need”, incoronato al SWFX di Austin, in Texas. Tre titoli di peso internazionale per una regione con poco più di un milione di abitanti. Una regione che,
e in particolar modo da gente che ama le visioni d’Oriente. Oggi è il festival di cinema popolare asiatico più importante di tutto l’Occidente, ma la sua caratteristica peculiare, ovvero il pubblico come protagonista principale, resta immutata, proprio perché tutti i premi sono assegnati dal pubblico e non da una giuria specializzata. “Più un festival invecchia, NUMERO 01
più scopre la sua necessità. Smette di essere solo un evento e diventa, a tutti gli effetti, un avamposto culturale”, sottolinea Sabrina Baracetti, ‘anima’ del festival. “Dopo 15 anni, la percezione del lontano Oriente non è cambiata molto dalla prima edizione: resta lontano, ma intanto il Far East Film Festival ha cercato di portare alcuni film in distribuzione nelle sale cinematografiche, ha stimolato 75
CULTURA
appunto, investe e scommette responsabilmente sul cinema e sulla cultura cinematografica. Spazio anche ai capolavori del passato con il progetto sui film di Ozu: di che cosa si tratta? Diciamo che prosegue un obiettivo iniziato da anni all’interno del festival. In ogni edizione abbiamo dedicato uno spazio alla scoperta delle origini del cinema asiatico. Mostrare le origini, il passato, la nascita di quelle cinematografie sulle quali indaghiamo ogni anno è qualcosa
la nascita di rassegne televisive, ha costruito la sua collana home video, ed ora avrà il suo debutto sul web. Dopo quindici anni almeno esiste il cinema orientale anche in Italia e in
che porta con sé una magia senza eguali. La Tucker ha acquistato i diritti per l’Italia di sei capolavori del maestro Yasujiro Ozu, restaurati digitalmente dalla major nipponica Shochiku. I film – in formato 2K – saranno distribuiti nelle migliori sale italiane il prossimo anno e permetteranno al pubblico di riscoprire i gioielli di un cineasta con la “C” maiuscola. I restauri dei film sono operazioni preziose che riportano in vita opere valorizzandone la specificità e rendendo accessibili di nuovo al pubblico dei veri capolavori. (4’25’’)
Europa. La maggior parte dei film che trovano visibilità in Europa sono passati al Far East Film. L’esigenza è sempre la stessa: la fame di mondo che non si è mai placata”. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Nella pagina precedente: Sabrina Baracetti sul palco con Derek Kwok con in mano una camera GoPro Be a Hero, foto Paolo Jacob; in questa pagina: una foto di Francesco La Bella 76
CULTURA
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INTERVISTA A MIKE SPONZA
All you need is… blues Il bluesman italiano Mike Sponza, tra una registrazione e l’altra, ha fatto tappa agli Abbey Road Studios di Londra. Amate la musica? Amate il blues? Se la risposta è si, allora non potete non conoscere Mike Sponza. Genius People Magazine l’ha intervistato e ha cercato di tirare fuori da Mike qualcosa che, forse, negli anni è sfuggito. Diciamo così, un lato diverso di un artista molto conosciuto. E qualcosa in più sul nuovo album.
Di NICOLÒ GIRALDI
Mike Sponza ritratto da Escapista (escapista.net)
Quale musica ascolta Mike Sponza? Ho un disco fantastico in “heavy rotation” nella mia macchina, in questi giorni: “Going back home” di Wilco Johnson & Roger Daltrey. Un album fortissimo di blues-rock inglese con un’energia unica. Poi c’è sempre tanto blues moderno, soul music, ma anche molto jazz e pop music fatta bene.
Cosa pensi del lavoro di Marco Anzovino “Turno di notte?” Marco Anzovino ha sempre fatto ottima musica, ci conosciamo da molto. Questa volta ha lavorato sul concept “album + libro”, ed è una cosa che mi è piaciuta parecchio; sono contento di aver partecipato al suo disco. Tematiche importanti, affrontate con esperienza e poesia.
Quali sono gli artisti a Trieste che ti piacciono e che ascolti? Ho preso da diversi anni le distanze dalla scena musicale triestina: seguo solo qualche giovane artista che fa musica originale, come ad esempio Riky Yane. Come chitarrista mi piace molto, e lo dico spesso, Bobby Brown dei Brazos.
Quanto difficile è fare musica in Italia? Tanto quanto lo è nel resto del mondo; dipende dalla bravura, dalla progettualità, dai contatti, dal genere. Da più di vent’anni faccio pochi concerti in Italia, per scelta: statisticamente non riesco a chiedermi se è difficile suonarci, capita poche volte.
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CULTURA
“Se vieni pagato troppo poco, vuol dire che hai accettato di essere pagato troppo poco”.
Opinione personale sui talent show. Tu ci avresti mai preso parte? Mi fai una domanda che si rivolge giustamente al passato; probabilmente a diciotto - vent’anni avrei potuto voler partecipare ad un talent show, se ci fossero stati i talent show. Oggi, a quarantacinque anni, non mi piacciono, non mi interessano e non li prendo in considerazione. È vero che per suonare dal vivo si viene pagati sempre troppo poco? Se vieni pagato troppo poco, vuol dire che hai accettato di essere pagato troppo poco. Com’è andata agli Abbey Road Studios? La domanda corretta sarebbe «Come sta andando agli Abbey Road Studios?», visto che la produzione dell’album è ancora in corso e durerà ancora per tutto novembre. Sto vivendo un’esperienza incredibile, e sono veramente felice che la mia musica sia realizzata interamente ad Abbey Road. L’album che più di ogni altro ha influenzato Mike Sponza? Direi senza dubbio, a pari merito, “John Mayall & The Bluesbreakers with Eric Clapton” e “Hard again” di Muddy Waters. L’ultimo live che hai visto? Gregory Porter, ieri sera: concerto magnifico, artista pazzesco. Aspettavo di vederlo dal vivo, dopo aver preso tutti i suoi album. È un cantante eccezionale con un grande carisma. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Cosa pensi del Barcolana Festival? Mi sono esibito diverse volte al Barcolana Festival, registrando due dvd ed un album dal vivo, tra cui il mio ultimo progetto con l’orchestra sinfonica. È una rassegna che ha avuto grandi nomi della musica negli anni, e mi auguro che continui con questo trend. Cos’è rimasto del blues in Italia? Il blues in Italia è vivo e vegeto! Molti artisti italiani sono apprezzatissimi in tutta Europa e le collaborazioni internazionali sono tantissime. È un movimento musicale trasversale, che coinvolge un sacco di gente diversa, dai giovanissimi in su. Ci sono festival, raduni, “challenge”. C’è la European Blues Union, di cui faccio parte, e la sezione italiana è molto attiva. Cosa pensi delle agenzie di organizzazione eventi? Vivo Concerti? Azalea? Live Nation? Mi stai citando dei nomi di grandi organizzatori, seri e molto attivi. Io lavoro con agenzie che trattano artisti blues, e non ho mai avuto brutte esperienze. Gli agenti servono, permettono all’artista di pensare solo alla musica. I festival e l’Italia. Perché Glastonbury, Sziget, Isle of White e altri sembrano funzionare mentre qui da noi si fa più fatica, a parte alcuni tipo Trasimeno Blues? Non te lo so dire. Dietro questi festival enormi, ci sono troppe dinamiche che non conosco, soprattutto economiche. Nel caso dei festival blues, le cose sono diverse; c’è molta passione, ambienti amichevoli e gran rispetto per i musicisti. Ho suonato diversi anni fa allo Sziget, e non mi piacque. Cosa legge Mike Sponza? Libri e quotidiani o qualsiasi cosa? 80
INTERVISTA A MIKE SPONZA
Leggo molti libri. In questi giorni sono alle prese con un “mattone” eccezionale che consiglio vivamente a tutti i musicisti: “Come funziona la musica” di David Byrne. Sono un avido lettore di gialli hard boiled, biografie, storia, classici della letteratura. Divoro riviste di chitarre e automobili vintage. Cosa ti sembra il progetto Live Balcony? È un progetto internazionale molto interessante per band emergenti. Sono del parere che più musica originale si faccia, meglio sia. Il portale vedo che funziona molto bene, molto attivo e frequentato. So che a Trieste si girano dei video per questo progetto, ne ho visto qualcuno. Un artista con il quale avresti voluto sempre suonare? Non essendo un appassionato di necrofilia, ci sono solo artisti con cui vorrei suonare. Anzi, ho imparato che spesso è più piacevole, emozionante e appagante frequentare un grande artista giù dal palco. Parlare, bere, mangiare insieme, scoprire il lato umano dietro la sua musica. Ad esempio, qualche anno fa ho passato dei giorni magnifici con Jimmie Vaughan, uno dei miei idoli da teenager e uno dei miti del blues, senza mai parlare di musica. Detto questo, mi piacerebbe suonare con Tom Jones. Mike Sponza e i social. Utilizzo Facebook, Twitter, Instagram: cerco di farlo in modo intelligente e tecnicamente preparato per sfruttare al massimo le opportunità offerte da questi mezzi, ma credo che per i rapporti strettamente umani, siano tutto fuorché social.
e con il mio ego: ci saranno sempre cose da migliorare, ma ci lavoro con gran serenità. Ogni tanto faccio qualcosa di cui mi pento immediatamente, ma nulla di irreparabile. Sopportarmi o meno, è un’attività che lascio agli altri. Politica si, politica no? Politica attiva no. Idee sì. Ma non amo parlarne. Parliamo di chitarre vintage piuttosto? Se ti dico Franco Toro ti parlo di chi? Mi parli di un amico di vecchissima data, che per un bel periodo ha rappresentato il movimento blues locale. Ha fatto conoscere questa musica in città a molte persone, e gliene do atto. Un concerto che vorresti dimenticare: non dirmi “tutti belli”, per favore. I concerti da dimenticare sono già stati dimenticati, per cui non so risponderti. Io guardo sempre avanti e con positività costante; se ci sono stati momenti non piacevoli, non ci penso più.
Ferma il tempo per un attimo e proiettati nel passato: dove ti vedi? Mmmh… Londra o New York, seconda metà degli Anni Sessanta. Una canzone che avresti voluto scrivere tu. “Whiter shade of pale” dei Procul Harum. L’opinione su queste domande. Sono più preoccupato dell’opinione sulle risposte. Comunque, sei piacevolmente schizofrenico. Ultima: se dico bitinade a cosa pensi? Che avrei voluto sentirle di persona. Una forma di work-song dei pescatori della città di Rovigno che imitavano i suoni degli strumenti con la voce, avendo per l’appunto le mani impegnate dal lavoro: probabilmente uno dei miei bisnonni o prozii le avrà pure cantate. Doveva essere comunque una forma musicale molto ironica e divertente. O forse no, non lo sapremo mai, mi sa. Mi risulta che non esistano più. (6’50’’)
“Ho preso da diversi anni le distanze dalla scena musicale triestina: seguo solo qualche giovane artista che fa musica originale, come ad esempio Riky Yane”.
Dimmi tre cose che non sopporti di te. Ho un buon rapporto con me stesso NUMERO 01
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SOCIETÀ
Dall’etere alla carta, il processo inverso della nuova pubblicazione Se è vero che internet sta distruggendo alcune professioni, è pure vero che ne sta creando anche di nuove. Era inevitabile. Era inevitabile che prima o poi accadesse, che tutto si ribaltasse. Vuol dire che siamo vivi, che, sì Vergassola, c’è vita sulla Terra! Va bene che ci siano queste inversioni di tendenza, questi lampi di modernità: è così che si fa il progresso. Specie se poi, nel guizzo che ci porta a quell’analizzare doveroso di pro e contro, questi ultimi si contano sulle dita di una mano. La verità è una sola: non è la carta ad essere in crisi. È che, essendo noialtri del tutto in crisi, c’è bisogno di alternative alla carta. E quale alternativa migliore del digitale?
Di MICHELE CASACCIA
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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DALL’ETERE ALLA CARTA, IL PROCESSO INVERSO DELLA NUOVA PUBBLICAZIONE
Succede così, che uno scrittore all’esordio diventi editore di se stesso, diventi self-publisher, e si affidi a una delle tante piattaforme italiane (Narcissus, Ilmiolibro) o estere (Lulu, Smashwords) per auto-pubblicare il proprio capolavoro nei nuovi formati digitali (quindi nelle versioni eBook, Kindle, eccetera). Perché? Ma è ovvio: per risparmiare. E per vedere il suo libro pubblicato nell’arco di ventiquattro ore. Oppure accade che un giornale, un mensile, scelga di affiancare alla versione cartacea quella digitale, per diversificare l’offerta, per permettere a un cittadino del mondo di leggersi il suo giornale comodamente seduto, a migliaia di chilometri lontano da casa, dove le normali tecnologie non glielo avrebbero permesso. Se non addirittura, proprio come nel caso di GeniusOFF, di iniziare dall’online, andando “in stampa” solo sulla rete. A che pro? Ecco, facciamola questa lista di pro. Che poi non si dica che sono comunque diavolerie moderne, che la carta comunque non può non restare, che insomma non si prendano quelle posizioni da vecchi al bar. Perché il mondo sta andando in questa direzione per la via più breve, e le statistiche dell’ADS - Accertamenti Diffusione Stampa (associazione a cui fanno parte, tra le altre, l’Assocomunicazione, l’UNICOM, l’Unione Nazionale delle Imprese di Comunicazione o la FIEG, la Federazione Italiana Editori Giornali) parlano chiaro. Gli abbonamenti alle edizioni digitali dei quotidiani italiani sono salite in un anno di 145mila unità, dalle 352mila di settembre 2013, alle 497mila di settembre 2014. Cos’ha il digitale che tira tanto? Se velocità e multimedialità dell’informazione non dovessero soddisfare gli scettici, basti allora ricordare che il digitale è quasi sempre: gratis. Esatto, libero. Free. Gratuit. Kostenlos. Gli abbonamenti si pagano anche online, ma non è la regola: molti quotidiani online sono consultabili gratuitamente da testa a piedi, altri solo parzialmente. Il risparmio, però, si concretizza anche dall’altra parte, non solo cioè dalla parte del consumatore. Pensiamo ai costi di produzione o di mantenimento di un sito internet e confrontiamoli con quelli legati alla gigantesca macchina industriale che sta dietro alla produzione di un qualsiasi quotidiano cartaceo tra capannoni, motori, personale e via dicendo. Non ci sono santi. E che dire poi, della possibilità di condivisione, della facilità con cui un’informazione può essere appunto condivisa, veicolata, grazie ai social? E non è democratico, straordinario tutto ciò? Non è fantastico che le idee passino dall’iperuranio alla realtà digitale, che è realtà di fatto, con un “clic”? Non è forse il raggiungimento più vicino, più alto, più veloce, della libertà? Libertà d’espressione, d’intelletto, di partecipazione. Così l’informazione viaggia istantaneamente, raggiungendo ogni angolo del pianeta. È evidente, a questo punto, quanto sia difficile e capriccioso trovare dei difetti, ad argomentazioni così solide. Si può finire a parlare dei problemi legati all’occupazione ma, se è vero che internet sta distruggendo alcune professioni, è vero anche che ne sta creando di nuove. La bilancia tende sempre a riallinearsi, è solo questione di tempo. Se il digitale sembra una faccenda disumana, un mondo arido e troppo immateriale per diventare presente e passato, ripensiamo alla fantasia, per esempio, del nostro Calvino, quando diceva che «…ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone». Così la nostra società, a suo tempo, prenderà le misure, come ha sempre fatto. I nostalgici, gli amanti dell’odore di carta non moriranno: non c’è pericolo, perché la carta non morirà. Chiunque abbia un’educazione sentimentale media, o più semplicemente un minimo di senso estetico (perché, all’occorrenza, un libro può anche soltanto arredare casa), sa che il libro non verrà abbandonato; si continuerà a comprare il giornale dall’edicolante del quartiere. Se non altro per scambiarci due parole. Se non altro per fare quella strada, tutta gente e lampioni, come ogni domenica mattina, avvolti nella sciarpa. La strada di una vita. L’importante sarà trasmettere alle generazioni future questi valori. Allora una cosa sarà della carta. Diventerà sempre più preziosa. (3’50’’)
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SOCIETÀ
Da Salgado al selfie. Il futuro nero della fotografia ai tempi del digitale Dal documentario di Wim Wenders al percorso che ci porta ai giorni nostri: come si sta evolvendo la fotografia dopo l’introduzione del digitale. Spinto da recensioni positive e dal commento entusiastico di qualche amico, ho deciso di andare a vedere “Il Sale della Terra”, documentario di Wim Wenders sulla vita di Sebastião Salgado, celebre fotografo brasiliano. Un percorso dagli Anni Sessanta ai giorni nostri, fatto di volti e territori, alti ideali ed emozioni ancestrali. Un’esperienza che parla di uomo e natura, del tempo e della terra, e che usa come strumento per raccontare un’arte ormai quasi antica, la fotografia. Per mano di Salgado, che abbina ad un talento espressivo enorme, dedizione ed umanità, ogni immagine fissa sullo schermo prende vita, si satura di significati, si anima di storia.
Di GABRIELE GEROMETTA
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Un film profondamente emozionante, che non posso che consigliarvi caldamente e che è riuscito a innescare, in un figlio della cultura digitale come me, domande e riflessioni su dove è arrivata e dove sta andando la fotografia dall’avvento del digitale. Un tempo, la fotografia era un processo complesso, macchinoso e lungo. Ciò comportava una ponderazione e un’attenzione nel fotografare, oggi quasi scomparsa: scegliere il soggetto, cosa mettere in campo, filtri, ottiche. Ogni scatto era frutto di precise scelte formali e sostanziali del fotografo, ogni foto era il risultato della sensibilità e della tecnica di chi la scattava. Il celebre semiologo francese Roland Barthes, nel suo illuminante saggio “La camera chiara”, teorizzava che ogni foto è frutto dell’interazione tra tre elementi: l’operator, colui che scatta la foto, lo spectator ossia il fruitore, e lo spectrum, vale a dire il soggetto immortalato. Ogni foto, secondo Barthes, può venir letta secondo due principi: lo studium, cioè l’insieme di informazioni razionali che la foto ci offre spontaneamente, e il punctum, ossia l’aspetto emotivo, irrazionale e per ognuno personale, costituito dal dettaglio che ci colpisce senza apparente motivo. In quest’ottica, scattare e guardare una foto rappresentavano due azioni che presumevano conoscenza e una partecipazione emotiva. Ciò che rendeva alcune foto opere d’arte e che differenziava i fotografiartisti dai foto amatori. Poi, venne il digitale. Negli ultimi dieci anni, le innovazioni si sono succedute a ritmo vertiginoso e, se guardiamo al presente, troviamo un mondo dove la cultura dell’immagine è stata armata da dispositivi performanti, portatili e di facile utilizzo: cellulari che scattano foto a 10 megapixel, programmi di fotoediting talmente semplici da poter essere usati anche da un bambino, servizi accessori come la geolocalizzazione o i social network che ci permettono di infarcire le nostre foto di messaggi e informazioni, che esulano dalla foto stessa. E dove sta il problema direte voi? Il problema è Andy Warhol: il profeta della pop art, quando negli Anni Sessanta teorizzò il celebre quarto d’ora di celebrità per ognuno di noi, fu inconsapevole profeta 84
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DA SALGADO AL SELFIE. IL FUTURO NERO DELLA FOTOGRAFIA AI TEMPI DEL DIGITALE
della piega deteriore che avrebbe preso la società dell’immagine con l’avvento della comunicazione globale. Oggi fotografare, nel senso più social del termine, è un atto di autoaffermazione, un modo per mostrare e raccontare al mondo sé stessi. Il soggetto è sempre l’Io, anche se io non sono incluso nei quattro bordi della foto. Il mio viaggio in Thailandia, la mia foto con il vip di turno, il mio giro in bicicletta la domenica pomeriggio, la mia cena al ristorante. L’Io diventa operator e spectrum, il mondo è lo spectator. Abbiamo avuto il nostro quarto d’ora di celebrità, ma non ci hanno svelato il trucco: se ognuno ce l’ha, allora non ce l’ha nessuno… E poi c’è il selfie. Il manifesto d’intenzione di una generazione, lo scatto che dice al mondo (studium) che io voglio esserci, voglio essere il protagonista della foto, a scapito di tutto il resto. E per il punctum, non c’è più spazio; non perché non ci sia, ma perché stiamo perdendo la sensibilità per poterlo cogliere. Ma ben prima di Warhol venne un’altra profezia, quella di Walter Benjamin, filosofo tedesco che nel 1936 scrisse un saggio dal titolo “L’opera d’arte all’epoca della riproducibilità tecnica”. Benjamin, nel suo saggio, teorizzava il cambio di prospettiva a cui sarebbero andate incontro le forme d’arte classiche in un’epoca che permetteva, grazie al progresso tecnologico, la loro infinita replicazione. Trasportando di peso
il concetto ai giorni nostri, non possiamo che notarne i nefasti risultati ogni giorno: la pigrizia intellettuale che permea la società della comunicazione ci ha portato ad abbandonare l’approfondimento e la ricerca del nuovo, portandoci sulla pericolosa china della ripetizione di schemi (visivi, in questo caso) sempre uguali a sé stessi. L’omologazione a modelli di riferimento diventa il mantra più diffuso e così la gran parte delle foto cerca di assomigliare a qualcosa di precedente, un modello, uno stile. Ogni scatto perde la sua valenza di unicum, in quanto il suo vero significato sta nella riproposizione di schemi condivisi e quindi riconoscibili anche da un possibile fruitore. Ogni scatto non serve più ormai a fissare un momento memorabile per l’eternità, ma per autoaffermarsi, e la sua funzione dura lo spazio di una condivisione su Facebook. La rete ci invade con una pletora infinita di immagini, vuote di qualsiasi autorialità, significato intrinseco, che non raccontano nulla se non noi stessi hic et nunc. Ed è per questo, che ogni foto viene presto dimenticata, sostituita da un’altra e così via. Ora, da questa mia riflessione deriva un quadro forse un po’ troppo apocalittico e non voglio mettervi ansia. Potete tranquillamente continuare a farvi i selfie e postare su Facebook le immagini di ogni insignificante azione compiute durante la vostra giornata. Ma per lo meno, andate a vedere il film su Salgado e rifletteteci un po’ su. Promesso? (4’40’’)
Sebastião Salgado, scatto dalla serie “Greater Burhan Oil Field”, Kuwait 1991 NUMERO 01
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SOCIETÀ
Giordano Riello, tra imprenditoria e impegni istituzionali Venticinque anni, un curriculum importante e ruoli di alto livello: una storia di successo che parte da Rovigo. Aermec, sinonimo di garanzia e marchio di famiglia: l’azienda italiana fa parte del gruppo Giordano Riello International, composto da sette aziende, e propone anche una storia di successo che si trasmette di generazione in generazione. Il venticinquenne Giordano Riello è già in prima linea: nato in provincia di Verona il 20 maggio del 1989, studi scientifici al liceo e poi economici all’Università, ha passato un periodo alla Deutsche Bank a New York negli Stati Uniti e poi a Toronto in Canada. Una figura che connette in maniera eccelsa capacità imprenditoriale ed abilità istituzionale.
Di FRANCESCO LA BELLA
Giordano Riello, oltre all’imprenditoria, l’aeronautica nel cuore. La passione per il volo l’ho ereditata a sedici anni: a diciassette ho preso il primo brevetto e poi, a ventuno, ho finito tutti i brevetti di volo. Il campo dell’aeronautica ben si collega con la mia esperienza lavorativa, perché mi ha aiutato molto nell’attività di scheduling ovvero della pianificazione: è stata una vera scuola, un’esperienza che ogni imprenditore dovrebbe affrontare. Parliamo degli inizi e delle esperienze lontano da casa. È stato molto formativo il fatto di lavorare fuori dall’Italia. A sedici anni, ho iniziato a trascorrere le mie estati lavorando nelle nostre realtà di famiglia, prima a casa e poi in Ungheria: proprio quest’ultima esperienza mi ha fatto crescere molto, dal momento che nessuno parlava italiano o inglese ed ho dovuto imparare un po’ di lingua ungherese. Da qui, mi sono inserito a guardare dall’interno la realtà delle aziende di famiglia. Assistiamo spesso al clientelismo, specie quando si parla di aziende di famiglia: la Riello, però, si differenzia perché prevede un percorso diverso. Abbiamo una regola famigliare, che è quella che prima di entrare in azienda con dei ruoli operativi e di responsabilità, bisogna operare un’esperienza di alcuni anni in realtà esterne all’azienda di famiglia o, in alternativa, formare un’azienda in completa autonomia. Io, dopo il periodo fra Italia ed Ungheria, ho creato insieme a due miei amici ingegneri la EN Srls, azienda ingegneristica operante nel settore green economy e riqualificazione energetica di impianti a trecentosessanta gradi. Produciamo in Cina, ma siamo oramai pronti a portare parte della fase produttiva in Italia, pure pensando ai problemi che ci presenta il nostro paese, come la burocrazia e la pressione fiscale. Due aspetti, questi ultimi, che rappresentano il vero rallentamento dello stato italiano rispetto ad altre realtà europee e mondiali. Siamo in un momento in cui è necessario garantire il lavoro e, per farlo, bisogna partire innanzitutto dalla sburocratizza-
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INTERVISTA A GIORDANO RIELLO
zione. Comunque, tornando all’aspetto dell’esperienza fuori dalle aziende di famiglia, voglio sottolineare che l’autorevolezza bisogna guadagnarsela: essere messi in una posizione di comando solo perché sei il “figlio del capo” può essere molto controproducente. Dal gruppo, dipendono 1600 persone: abbiamo delle responsabilità ben precise. Lei è giovane, ma ha già degli importanti impegni istituzionali nel curriculum con realtà come il Gruppo Giovani Unindustria di Rovigo o la giunta nazionale di Confindustria. Quello dell’impegno istituzionale è per me un aspetto fondamentale: è certamente importante per la rete di conoscenze che si vengono a creare, ma anche perché è possibile confrontarsi con i colleghi imprenditori per avere anche la loro visione del modo di affrontare la crisi. A riguardo di Confindustria, ho un ruolo di grande responsabilità perché sono uno degli otto giovani imprenditori scelti per rappresentare a livello nazionale la Giunta del Presidente Squinzi. Portiamo a livello nazionale le esigenze della giovane imprenditoria, quella che è la linfa vitale del nostro paese; fra l’altro, parlando sempre dell’impegno istituzionale, insieme ad un mio amico che insegna alla LUISS di Roma abbiamo rivisitato una riforma fatta da mio padre nel 1992, presentandola al Presidente Renzi ed al Ministro Boschi.
“L’autorevolezza bisogna guadagnarsela: essere messi in una posizione di comando solo perché sei il figlio del capo può essere molto controproducente”. Parliamo di crisi e di vie d’uscita: un altro aspetto importante per l’economia è il turismo culturale. Qual è la sua opinione a riguardo? Un esempio come quello della città di Tarvisio, di cui avete parlato voi, che sta proponendo iniziative turistiche anche al
di fuori del periodo invernale, è quello che in azienda chiamiamo “innovazione”. Si tratta di un modo di garantire lavoro alla città a trecentosessanta gradi: è giusto e fondamentale sfruttare il patrimonio culturale dell’Italia, che peraltro rappresenta il sessanta per cento del patrimonio culturale europeo. Pensiamo che in Australia sono capaci di vendere un sasso in mezzo al deserto: in Italia noi siamo bravi a “fare”, meno a vendere. Quella del turismo è un’opportunità importante per noi, un percorso che il nostro Paese deve necessariamente perseguire per crearsi nuovi flussi da fuori. Chiudiamo con una curiosità: Giordano Riello ha un suo modello di imprenditore tipo a cui si è ispirato? Non vorrei essere autoreferenziale, ma devo dire che due grandi punti di riferimento sono stati mio nonno e mio padre, che fin da subito mi hanno insegnato valori come sacrificio, dedizione ed umiltà. Le dico solo che tutti e due, all’età di ottantotto e sessant’anni, ogni giorno scendono in fabbrica a parlare con i nostri operai per sentire i loro pareri e comprendere eventuali problematiche: questo è per far capire che il successo si conquista insieme, con tutte le maestranze che ogni giorno scendono in campo con noi. Umanità e valori morali: due cose che vanno imparati fin da subito; io spero di seguire le loro orme ed avere la stessa autorevolezza. (4’30’’) NUMERO 01
Giordano Riello nel suo studio. Riproduzione riservata 87
SOCIETÀ
Giganti delle nanotecnologie Un’azienda “diversa”, una sfida aperta ad un mondo in evoluzione e la visione del mercato del lavoro come dovrebbe essere. Genius People Magazine ha raccolto la testimonianza di Claudio Stefani, CEO della SMH, società che da anni opera nell’ambito delle nanotecnologie. Un indizio? Come sempre più spesso accade, nascono da noi e lavorano tanto con l’estero.
Di NICOLÒ GIRALDI
Riproduzione riservata
Come si può riassumere in un paragrafo l’attività di SMH? SMH Technologies è una società globale e indipendente, leader in Silicon Device In-System Programming e servizi per l’industria manufatturiera nell’ambito della produzione di schede elettroniche. SMH ha un giovane e motivato team di ingegneri che, oltre a sviluppare i dispositivi hardware, applicando le più innovative tecnologie disponibili, studia e sviluppa algoritmi atti ad applicare i programmatori per la funzione propria, ovvero la programmazione di memorie e microcontrollori impiegate dagli OEM (Original Electronic Manufacturer) in un mercato internazionale i cui maggiori player sono aziende come Siemens, Bosh, Whirlpool, Samsung. La distribuzione ed il supporto tecnico di primo livello avvengono attraverso una rete di GENIUS PEOPLE MAGAZINE
qualificati distributori presenti in tutte le aree tecnologiche del mondo. Il mondo delle nanotecnologie è in continua evoluzione. Forse i cittadini non sanno molto bene di che cosa si stia parlando. Come fare per far giungere il messaggio? Sono convinto che le nuove generazioni abbiano una crescente conoscenza dei settori tecnologici; tuttavia, per semplificare, possiamo dire che la sintesi delle azioni e relative reazioni attraverso dispositivi elettronici avviene sostanzialmente attraverso l’analisi delle stesse ed è compiuta da elementi intelligenti, l’azione avviene attraverso l’integrazione tra algoritmi e circuiti elettronici. Il compito di scrivere l’algoritmo all’interno della “silicio” è la nostra missione. Avete fondato un’azienda nel pordenonese, tuttavia lavorando anche con l’estero. Quali le differenze e quale la percezione che si ha nello “sdoppiamento” che tutto questo comporta? Invero, il nostro modello organizzativo è sviluppato secondo modelli condivisi a livello internazionale. Le community tecnologiche altamente qualificate non soffrono di provincialismi quindi modelli comportamentali, approcci alle problematiche, addirittura stili, sono condivisi senza pregiudizio di nazionalità. Tuttavia, per avere riconosciuto tale status, si deve mantenere nel tempo uno sforzo tale da compensare il differenziale tra quanto richiesto e ciò che normalmente troviamo nel nostro territorio. Molti limiti sono imposti anche dalle normative a cui dobbiamo sottostare e non solo in materia di disciplina del lavoro o in ambito finanziario. Quanto incide la volontà della classe dirigenziale di questo Paese di effettuare alcune riforme che possano semplificare anche il vostro lavoro? 88
INTERVISTA A CLAUDIO STEFANI
Questa domanda in realtà apre un capitolo che difficilmente potrebbe essere esaurito nell’ambito di questa intervista; tuttavia, allo stato attuale, mi accontenterei di non essere continuamente intralciato e limitato. In una visione semplicistica potrei dire che, in molti casi, sarebbe sufficiente prendere ad esempio le regole che vengono applicate nei Paesi in sviluppo, dei modelli di riferimento in particolare per efficienza; a mio malgrado mi rendo conto che innestare a macchia di leopardo tali modelli è, nel nostro ordinamento, pressochè impossibile. La classe dirigenziale, quindi, deve realizzare, con coraggio, profonde riforme. Cosa le piacerebbe che venisse fatto in Italia per arrivare ad un livello eccellente nel vostro settore? In qualche modo, correlata alla domanda precedente, la mia risposta è semplice: per affermare le eccellenze si deve pensare in modo globale, si deve interagire in maniera effettiva tra il mondo della ricerca, le università e il mondo del lavoro durante tutta la fase formativa delle nostre giovani risorse, lo sviluppo nel mondo del lavoro deve essere poi sostenuto con regole volte a premiare i risultati, ricercando la sicurezza nelle capacità del singolo e non all’interno di “un art.18”. Nel vostro sito parlate di lavoro di squadra, creatività e rispetto come tre pilastri sui quali si fonda la vostra mission. Ce ne parla in maniera più approfondita, eventualmente con qualche esempio? Sì, certamente. I pilastri a cui ci riferiamo contengono nella squadra il concetto di pari opportunità e di valorizzazione delle diversità, presupposto alla creatività che, condotta su basi di formazione specialistica, ottengono il raggiungimento di ambiziosi obiettivi in modo completo. Il rispetto, in un
contesto di reciprocità, è imprescindibile ed è anche molto vicino ad un concetto di disinteresse personale in termini di arricchimento economico. Come semplificare il significato di FlashRunner, una delle punte di diamante del vostro lavoro, ai cittadini? FlashRunner, per noi, non è solo il nome o il marchio di una linea di programmatori ISP, marchio che spesse volte viene identificato in virtù del nome proprio del prodotto alla stregua della Simmenthal o della Jacuzzi. Flashrunner è un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo tecnologico e concretizza anche tenacia e capacità, espressione di quanto i nostri giovani ingegneri, se inseriti in un ambito adeguato, possono esprimere. Se un giovane avesse il desiderio di lavorare con voi, cosa dovrebbe dimostrare di avere, oltre ad un buon curriculum? Mi permetto di partire dall’opposto; posso dire che ad oggi non sono mai dovuto ricorrere ad un solo licenziamento. L’opportunità di partecipare è aperta a tutti gli ingegneri che vogliono scommettere, in primo luogo, su se stessi; la selezione avviene in modo naturale, pertanto mi è più semplice dire cosa non deve avere: egoismo, invidia, limiti alle proprie visioni. Come si affronta questa crisi? Grazie per la domanda, ma quale crisi? Dire che c’è una crisi che ha radici profonde, che è strutturale, che coinvolge l’intera Europa, che per affrontarla dobbiamo fare le riforme e rinnovare la classe dirigente, mi sembra la ripetizione di ciò che i media, sotto diverse forme, ci stanno dicendo da anni. Quali le sfide future per una realtà importante come la vostra? NUMERO 01
Certamente il consolidamento nel mercato internazionale in cui operiamo è uno dei principali obiettivi, assieme all’incremento del vantaggio tecnologico competitivo che ci distingue; in termini più pratici il riconoscimento a standard internazionale del nostro OS (Sistema Operativo) proprietario, nonché l’“open sourcing” per lo sviluppo delle applicazioni. Veniamo ai numeri: ci riassume l’organigramma della SMH? La SMH è correlata una struttura che contiene: R&D (team di ingegneri per la ricerca e lo sviluppo). Support (team di ingegneri per supportare il cliente finale nelle applicazioni). Marketing (gruppo composto da un addetto e da consulenti esterni per la diffusione del marchio e delle informazioni sulle tecnologie da noi sviluppate). Sales (team vendite) preposto alla consulenza su prodotti e soluzioni, rivolto in particolare ai nostri distributori e ai clienti direzionali. Board of Directors (direzione e coordinamento). Admin comprende, oltre alla gestione amministrativa, anche la gestione logistica. Production (area produttiva la quale è anche preposta al mantenimento dei certificati di qualità ISO). È risaputa la percezione che i cittadini hanno oggi del rapporto tra l’Italia e l’estero. In Italia non funziona niente mentre all’estero va tutto bene: sappiamo che non è così. Cosa si può fare per invertire questa tendenza? In italia abbiamo grandi capacità e ancor più grandi potenzialità, incanalare questo in modelli organizzati ed efficienti vedrebbe realizzato un vantaggio competitivo a livello mondiale, ci credo fermamente e vorrei che tutti si orientassero verso percorsi fattivi certamente più faticosi e incerti rispetto a scelte immediate come il sotto impiego o addirittura l’emigrazione. (5’35”) 89
RUBRICA
#progetto I perché del fare, giorno dopo giorno, un progetto Di STUDIO-A29
#progetto è una rubrica progettata, seguita e realizzata dallo Studio-a29, studio di progettazione che si occupa, appunto, di #progetto.
Un botta e risposta senza giri di parole, tutto è ridotto all’osso, completa sincerità nell’esternare i perché del proprio operato e del proprio progetto.
#progetto è stata concepita come cinque interviste con una ferrea griglia progettuale in cui i cinque interlocutori progettisti avranno modo di snocciolare e raccontare ciò che progettano: cose, case, video, aziende, futuro e sogni.
State attenti! Non si escludono collaborazioni nella stesura delle interviste: la multidisciplinarietà, da noi, “è di casa”!
Abbozzando questo #progetto vogliamo dimostrare come sia facile comprendere il cosa, è davanti gli occhi di tutti il come, ma veramente pochi sono in grado di far affiorare il perché. Conoscere lo scopo del proprio operato, il motivo, il proprio credo, il perchè: perché, perché, perché? Forse perché per fare #progetto ci vuole un progetto? O forse perché per fare un progetto basta il metodo? L’intento è far conoscere ai lettori dei leader progettisti e lasciar emergere la loro indole di ispiratori, figure in grado di pensare, agire e comunicare il progetto dall’interno verso l’esterno, srotolando il metodo per giungere ad una semplificazione, una sintesi finale del loro saper fare, #progetto vuole conoscere la causa scatenante, il movente per cui si attivano delle dinamiche progettuali tralasciando come fattivamente questo avviene. Semplice no? Ci siamo dati delle regole precise: ogni domanda avrà un massimo di 140 caratteri, un tweet. Ogni risposta, a sua volta, avrà un massimo di 140 caratteri, un tweet. E visto che di metodo si parlerà, invece di dare delle foto e far assegnare degli hashtag, ci divertiremo a fornirgli degli hashtag perché da quelli ci restituiscano delle foto da loro selezionate, scattate o ritoccate. Ci addentreremo nel significato di parole come #sostenibilità e #identità e lo faremo tramite immagini significative, immagini che si attestino a icona di quanto espresso in caratteri poco prima.
Tutti gli intervistati da #progetto sono persone da noi selezionate per cui nutriamo una profonda stima e rispetto; professionisti che ci mettono il cuore, gran lavoratori dediti ai più svariati tipi di progetto, professionisti che, anche nel loro piccolo, vogliono fare la differenza (e ci riescono!). Le cinque interviste daranno vita ad una nostra interpretazione di progetto attraverso le loro parole chiave prese in prestito per spiegare quanto tutti noi cerchiamo di fare giorno dopo giorno: un #progetto.
Foto Elisa Biagi
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FOCUS
Eccellenze Made in Italy
Cortina d’Ampezzo, Venezia Interviste realizzate da Francesco La Bella.
In redazione Francesco Chert. Ha collaborato Massimiliano Bergamo.
FOCUS CORTINA
Fat Bike, tra moda ed ecosostenibilità Rifugio Col Gallina, passo Falzarego, 2055 metri di altitudine: ovviamente, Cortina d’Ampezzo, regina delle dolomiti. Regina per la sua bellezza, si sa, ma anche per l’entusiasmo con cui i suoi abitanti si re-inventano ogni anno per offrire a turisti sempre più esigenti le ultime novità. È il caso di Raniero Campigotto, che durante l’estate organizza escursioni sui sentieri teatro della Grande Guerra (ne sa qualcosa il nostro Paolo Rumiz), mentre per l’inverno, da gestore di rifugio e appassionato istruttore di mountain bike qual è, si butta giù per le piste con la sua fat bike. Di MICHELE CASACCIA
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FAT BIKE, TRA MODA ED ECOSOSTENIBILITÀ
«In realtà non è che ci buttiamo fuoripista o cose simili. Abbiamo creato dei percorsi dedicati alle fat bike.» Sì perché oltre a divertirsi, il suo è un business, un sogno in cui crede molto. “Solo un anno fa ad Eurobike (la fiera annuale della bicicletta, ndr), delle fat bike non si sapeva quasi niente, quest’anno ce le avevano tutti.” Ma cosa sono le fat bike? Le fat bike sono mountain bike con ruote “ciccione”, cioè bici che montano ruote da quasi ventinove centimetri di diametro e gomme più spesse, senza camera d’aria. Le ruote ideali per andare sulla neve! «In realtà, le fat bike sono bici senza stagionalità», precisa Campigotto, «la ruota più larga e sgonfia permette molta aderenza e maggiore facilità di guida e quindi di controllo, anche su terreni accidentati. Quest’estate la useremo in quei percorsi in cui una mountain bike tradizionale avrebbe grandi difficoltà.» Il concetto è semplice: si sale in seggiovia e si scende in fat bike. «È una bici ideale per chi ha poca voglia di far fatica e divertirsi. Ovviamente, per quelli che amano far fatica, si può anche salire in bici.» Scherza molto seriamente. Ma, scherzi a parte, quel che conta è che a prescindere dalle mode e dal tornaconto, tutto rientri in un elegante e giovanile progetto di ecosostenibilità, che va dalla caldaia a biomassa e ai pannelli solari, montati nel suo rifugio, alla cucina genuina o ad alternative sportive, come questa, ad impatto zero sull’ambiente. «Il futuro saranno le bici elettriche, ne sono convinto, su quello si dovrà investire.» La stagione, l’abbiamo visto purtroppo, non è stato un granché. Ma se, come l’anno scorso, verso marzo, scenderanno metri di neve, un giro sulla “bicicciona” andrà fatto. (2’10’’)
Foto Giacomo Pompanin NUMERO 01
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FOCUS CORTINA
Cortinametraggio, diciott’anni e non sentirli Intervista a Maddalena Mayneri, direttrice del celebre evento che dal 1997 a oggi anima la città ampezzana: come nasce e sopravvive una manifestazione del genere anche in tempo di crisi.
Di MATTEO ZANINI
L’edizione di quest’anno si terrà dal 18 al 22 marzo: che cosa dobbiamo aspettarci, come novità, rispetto agli eventi precedenti? Innanzitutto abbiamo allargato la sezione Corticomedy anche ai temi della fantascienza e dell’horror: ci sono arrivati tanti contributi in questi settori, da qui la scelta di ampliare. In più, nella sezione Instagram, oltre al tema del cibo andremo anche ad ospitare temi liberi: l’anno scorso abbiamo avuto una vera e propria esplosione di contributi per questo concorso ed anche nel 2015, dopo una prima lieve flessione, abbiamo ricevuto tantissime mail di partecipazione. Non è certamente facile creare un video di quindici secondi e trasmettere le proprie sensazioni ed intenzioni con efficacia, ma tanta gente ha voluto parteciparvi.
Sopra: Maddalena Mayneri; nella pagina a fianco: Giuria Webseries Cortinametraggio; ambedue le foto sono di Matteo Mignani
“C’è un importante aspetto di coinvolgimento dei cittadini: l’immagine che vogliamo dare è quella di una Cortina aperta, che è ben inserita all’interno dell’evento”. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Cortinametraggio avrà anche una buona copertura mediatica e partecipazione. Esattamente: parliamo della sezione Booktrailer, che è anche quella più particolare ed innovativa. La Rai ci seguirà con una trasmissione che verrà mandata in onda su Rai5, poi quest’anno cercheremo di coinvolgere ancora di più le case editrici, oltre a rendere l’evento ancor più interattivo. L’intenzione è quella di organizzare la giornata in questa maniera: alla mattina, proiezioni dedicate ai Booktrailer, in centro a Cortina d’Ampezzo, location che poi ci permetterà anche di ospitare dibattiti. Alla sera, poi, dalle 19.30 alle 22 faremo le proiezioni di Corticomedy. Parliamo del coinvolgimento di Cortina d’Ampezzo, proprio per vedere come l’evento si incastra al meglio nel telaio economico e sociale della città. Sicuramente un punto importante riguarda ciò che ho detto poco prima: il fatto di coinvolgere il centro di Cortina. Ci sono due alberghi come l’Hotel Savoia e il Villa Blu, che saranno i nostri appoggi logistici di riferimento, sia per l’accomodation che come punti d’incontro. Il Savoia, in special modo, avrà uno spazio libero per tutti e fungerà un po’ da centro congressi dell’evento; abbiamo già prenotato quasi ottanta camere, per cui l’affluenza sarà copiosa. Cortinametraggio nasce negli Anni Novanta, precisamente nel 1997: che cambiamenti maggiori hai notato in questi diciott’anni di manifestazione? Le prime quattro edizioni erano dei festival dedicati agli inediti ed eravamo una delle poche manifestazioni di questo genere; con il passare del tempo, oramai questi eventi si sono moltiplicati per cui ho cercato di fare qualcosa di diverso ed infatti cerco di dedicarmi solamente agli italiani. Importante è soprattutto il fatto di avere delle giurie formate da personaggi importanti (produttori, distributori, registi), in maniera che poi ci siano dei contatti diretti coi ragazzi che si mettono in competizione: per chi vuol lavorare nel mondo dello spettacolo, è fondamentale 94
INTERVISTA A MADDALENA MAYNERI
avere dei riscontri e delle testimonianze da chi ha già una vasta esperienza e può dare dei suggerimenti utili. Tengo molto alla promozione dei giovani, tanto che ci sarà un premio speciale, nel 2015, per la miglior colonna sonora dei corti. Qualche nome illustre? Puoi darci un’anticipazione? Avremo Jacopo Capanna, una vita nel mondo del cinema fra distribuzione e produzione: è lui che ha portato Twilight in Italia e sarà il presidente di giuria del pubblico. Abbiamo avuto poi le conferme di Claudia Gerini, Fabio Troiano e registi come Luca Miniero, Carlo Genovese, Antonio Morabito, Massimo Cappelli e Giulio Manfredonia. Ci saranno anche altri nomi, che però devono ancora confermare la loro presenza. Infine, diamo uno sguardo più globale: Cortinametraggio avverte la crisi, vista la situazione economica italiana? Cortinametraggio vive grazie agli sponsor privati ed a qualche contributo pubblico: quest’anno ci tengo molto a ringraziare il Comune di Cortina, che si è impegnato a fondo per riconfermarci anche nel 2015. In più, gli sponsor diretti che ci appoggiano non ci hanno fatto mancare la loro presenza e questo ci aiuta tantissimo. Noi cerchiamo di dare l’immagine della Cortina “aperta” e oltretutto c’è anche un
“Cerchiamo di avere giurie importanti, che vengano a contatto con i ragazzi che partecipano: per chi vuole lavorare in questo campo, è fondamentale avere testimonianze da coloro che hanno già una vasta esperienza”. importante aspetto di coinvolgimento dei cittadini: sono infatti previste due giurie composte da ampezzani, che rispondono al nome Noi di Cortina e Noi di Cortina Juniores. Insomma, una manifestazione globale, che faccia sentire tutti quanti partecipi e attivi. (3’25’’)
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Eligio Paties Montagner: i Do Forni, quando un ristorante diventa un’istituzione Il signor Eligio Paties Montagner ne ha visti passare, di personaggi che hanno fatto la storia, nel suo ristorante. Tutta la politica italiana, sovrani di mezzo mondo, capi di Stato, Papi, magnati dell’industria, attori, artisti, sono passati ai “Do Forni”, nel centro di Venezia. Saremmo stati ore ad ascoltare le storie incredibili e gli aneddoti riguardanti personaggi che abbiamo solo visto in tv o studiato sui libri di storia. Abbiamo parlato di un mondo che non c’è più, dei nuovi ricchi e del modo in cui Venezia sta affrontando le sfide che derivano dalla crisi economica e dalla globalizzazione: il signor Eligio ha le idee chiare e lo sta dimostrando ogni giorno, gestendo da più di quarant’anni quello che, più che un ristorante, è un’istituzione.
Di FRANCESCO LA BELLA In redazione FRANCESCO CHERT
Quando è iniziata la sua avventura e che cosa faceva prima di diventare un noto ristoratore? La mia avventura inizia da ragazzo, quando avevo quindici-sedici anni. Iniziai a lavorare come dipendente nell’ambito alberghiero, poi all’età di diciotto anni sono emigrato all’estero: parliamo degli anni dal 1957 al 1960. In quel momento, come si profilava il settore alberghiero? E Venezia era la “Venezia di oggi”? Erano gli anni del boom in Italia, si incominciavano ad aprire alberghi. Io ho fatto la scuola alberghiera nel triennio 1958 - 60, in parte qui a Venezia e in parte a Losanna. Le scuole alberghiere migliori in assoluto erano quelle svizzere. Il passaggio alla ristorazione quando avviene? La ristorazione inizia nel 1972, quando acquistai il ristorante che era un’osteria-trattoria che faceva cicchetti. È stato chiuso quasi un anno ed è stato riaperto il 19 marzo 1973: da quella volta, ha cominciato ad avere una clientela medio alta; qui sono passati re, principi, presidenti e tutta la politica. Conserviamo dei libri in cui ci sono tutte le firme; sono venuti da noi i Reali d’Inghilterra, sono passati Carlo e Diana ai tempi del loro arrivo a Venezia nel maggio 1985. Un ristorante che diventa un centro di riferimento per la cultura a Venezia: che relazioni è necessario avere per creare una cosa del genere? Noi abbiamo dato un’impronta alla venezianità. Il ristorante è nato per la clientela locale che tuttora continua, ma che ha avuto un grande exploit negli anni dal 1975 in poi. Il Presidente Pertini, per esempio, venne in visita a Venezia per l’inaugurazione dei vedutisti a Palazzo Ducale nel 1978 e passò
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INTERVISTA A ELIGIO PATIES MONTAGNER
“Buonasera”. Nella scuola alberghiera si insegna sempre: quando qualcuno entra, bisogna salutare. Quanto è importante questo approccio? Nel nostro mestiere ci vuole servizio, qualità, prezzo. Queste tre cose ti portano al successo; se uno apre un ristorante per il guadagno è meglio che non inizi nemmeno, perché il ristorante ti dà da vivere ma non ti arricchisce come una volta. Oggi siamo fortunati se riusciamo a mantenerle le aziende: questo è un ristorante che ha sessanta dipendenti, abbiamo dodici cuochi, dieci interni, quattro dispensieri, quattro persone in amministrazione, donne delle pulizie eccetera. Compreso il sottoscritto, siamo in sessanta.
qui da noi. Negli anni è poi tornato moltissime volte. Di qua è passata quasi tutta la politica nazionale. Quando parla di politica ne parla in maniera nostalgica? Io parlo di politica in generale; sono passati bianchi, rossi, verdi. Il locale è apolitico: l’unica cosa di cui siamo nostalgici è della “politica di una volta”, che forse non esiste più. A quei tempi c’era la politica vera, ora ci si scherza con essa. Io ricordo Pertini, Scalfaro, tutti i presidenti che sono venuti a farci visita; l’apripista, però, è stata la principessa Margaret nel 1976. Da quel momento hanno iniziato a venire attori, registi, cantanti. Eligio Paties Montagner nel suo ristorante. Foto Francesco La Bella
Lei ad oggi rappresenta i giovani imprenditori, perché sa che cosa vuol dire lavorare come dipendente. In questo mestiere bisogna però anche essere psicologi, specie quando si è seduti ad un tavolo con altre persone: come ci si comporta per esempio con un politico, con un attore? Ognuno ha un modo particolare di essere ricevuto, ma tutte le persone che entrano qui dentro sono ricevute dal sottoscritto, sia all’arrivo che alla partenza. È importante che cliente si senta a casa.
Facciamo un paragone: Papa Francesco ha esordito con il suo famoso
Ci racconti qualche aneddoto. Staremmo qui fino a domani, ma un aneddoto molto bello riguarda il sopralluogo che hanno fatto Carlo e Diana prima di essere nostri ospiti. Passava un cameriere con un vassoio pieno di fragole e lei, con destrezza, ne ha presa una e l’ha mangiata. Ecco, questa è una cosa che una principessa normalmente non dovrebbe fare, però sono episodi simpatici. Poi potrei raccontare di quando venne Nixon che non era più presidente ed era
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FOCUS VENEZIA
in viaggio: è arrivato, lo abbiamo accolto e servito e, al momento di andarsene nessuno lo ha salutato. Così lui si è messo in mezzo al ristorante ed ha iniziato ad applaudire! Il suo rapporto con al tecnologia: entrando qui si respira l’aria della scuola del contatto fisico, mentre oggi i social network offrono possibilità diverse. I social network sono un grandissimo bluff, perché se io voglio rovinare un collega basta che scrive cretinate e metta un nome sotto. Noi abbiamo denunciato una di queste piattaforme perché ha riportato cose che non sono mai successe: la frase è stata tolta e, dopo due mesi, rimessa. Ora se ne sta occupando la Procura della Repubblica. Se lei va su questi siti vedrà che il primo ristorante del città è un negozio vicino a noi che non è nemmeno un ristorante ma una rosticceria da asporto, ed il secondo è una gelateria. Oggi quando si entra nei locali si vede una vetrina di foto di personaggi che sono transitati all’interno. Qui non ci sono fotografie, nonostante i clienti illustri che hanno frequentato e frequentano il suo ristorante. Non ho mai voluto fotografie; ci sono grafiche, perché questo è anche un centro culturale. Ho iniziato nel 1985 con una mostra di grafica che, da allora, viene fatta tutti gli anni ed è organizzata dal Centro Internazionale di Grafica: qui sono passati tutti i più grandi artisti del Secondo Novecento. Lei ha titoli e onorificenze: ci può raccontare di questi passaggi? Il cavalierato mi è stato dato nel 1978, poi mi hanno dato il titolo di cavalier ufficiale, poi quello di commendatore e infine di grande ufficiale, che è l’ultimo grado.
Lei ha avuto anche Papa Ratzinger a cena? Si, ma non qui: abbiamo servito Papa Ratzinger al Patriarcato, creando i piatti e le tovaglie appositamente per lui. È stato molto emozionante, è una persona molto umana e dolce, sempre contornato da vescovi e cardinali che impediscono alle persone di avvicinarsi. Lui li ha mandati via e ha detto: “Io voglio parlare con questo signore”. E abbiamo parlato per buoni cinque minuti. Le devo dire che io ho conosciuto anche Giovanni XXIII, quando facevo il chierichetto e ho servito messa per lui. Come vede le critiche che i media stanno muovendo a Venezia? Sono sbagliatissime. Io non sono nato a Venezia, ma ad Aviano in Friuli e qui ci sono arrivato nel 1957: ho amato da subito questa città e la amo tuttora. Venezia è come l’Africa: o la ami, o la odi. Si parla molto della mafia e della corruzione, ma il buono e il disonesto esistono dappertutto: questa città è ospitale, tranquilla, vivibile. Certamente in estate è troppo affollata e si dovrebbero calmierare le entrate, altrimenti la distruggiamo.
avvicinare. Dà la mano a tutti, va addirittura in cucina a ringraziare i cuochi quando va via: una bellissima persona. Cosa succederà al made in Italy come cucina, moda, cultura? Ormai anche gli artisti vengono da fuori e le boutique sartoriali ospitano stilisti stranieri: lei è a favore della globalizzazione? Qui la moda c’è tutta. Non è importante guadagnare o no, l’importante è essere a Venezia. La prima stilista locale che andò in America fu Roberta di Camerino negli anni ’50. Prima non c’era nessuno. Come dimostra il caso del marchio Cipriani, che si dice sia tenuto in vita dalle banche, l’eccellenza non basta. Il controllo della gestione diventa una cosa fondamentale? Lei ha citato Arrigo Cipriani che ha portato la cucina italiana nel mondo. Ma anche il sottoscritto l’ha portata nel mondo: ho portato la cucina veneta in America varie volte ma anche in tutta Europa, in Messico, in Canada, in Australia ed è stato un grandissimo successo.
Lei vede molti personaggi pubblici, nel suo ristorante, nella loro intimità: ci racconti di qualche personaggio che l’ha colpita. Le posso raccontare di George Clooney che, quando viene a Venezia per la Mostra del Cinema, è sempre presente da noi; è un vero signore, molto gentile, educato e dolce, non come quei personaggi a cui non ci si può nemmeno
Faccia una critica al giornalismo italiano. Perché siamo più attenti al gossip che a storie come la sua? Guardi la Francia. Succedono le stesse cose che accadono qui, ma loro non scrivono quello che scriviamo noi. Noi scriviamo che c’è l’acqua alta e oggi c’è il sole: mostriamo immagini di repertorio dell’acqua alta, che a Venezia c’è sempre stata. Scrivono che l’acqua è a un metro e dieci ma non dicono che solo in alcuni punti arriva a questi livelli. In quei casi in piazza San Marco saranno dieci o venti centimetri, queste notizie catastrofiche creano paura ai turisti che cancellano la loro visita alla città e quindi un danno alle varie attività cittadine...
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Lei da imprenditore conosce i problemi della burocrazia. Pensa che sia possibile fare impresa oggi? Avevamo più difese una volta. L’imprenditore adesso è lasciato da solo, basta guardare i problemi che hanno le banche.
INTERVISTA A ELIGIO PATIES MONTAGNER
“Ognuno ha un modo particolare di essere ricevuto, ma tutte le persone che entrano qui dentro sono ricevute dal sottoscritto, sia all’arrivo che alla partenza”.
Euro, sì o no? Stavamo bene con la lira, ma è ovvio che non possiamo tornarci. Però le aziende come questa stavano meglio prima. C’è un lavoro pazzesco dietro a un ristorante: come fa a seguire tutta questa innovazione? Un ristorante si deve innovare pur mantenendo le cose classiche. Noi dobbiamo avere la granseola, il gamberetto o la cicala di mare, ma dobbiamo innovare con altri piatti. In Italia ogni regione ha la sua cucina mentre in Francia, da nord a sud, mangiano sempre la stessa cosa. Questo è il lavoro più difficile del mondo: noi, per esempio, trasformiamo tutto. Noi come settore non siamo nel commercio, siamo nell’industria, paghiamo i contributi come un’industria. Noi trasformiamo la materia: facciamo il pane, i dolci, la pasta; compriamo solo gli spaghetti, questa è la fortuna del locale. Ognuno deve dare un’etichetta alla sua azienda. La parola classismo esiste in questo ristorante? No, non esiste. Il ristorante lo fa chi poi frequenta ma ci vuole anche una squadra vincente al lavoro. Ci vuole tutto. La mia immagine è importante, ma l’immagine deve essere anche quella dei miei collaboratori. Nella sala, ci vuole armonia e una collaborazione da quando il cliente entra a quando il cliente esce. Lei è console russo: oggi il mercato russo detta su molti fronti l’economia, spende molto pure se è considerato un acquirente di dubbio gusto. A Cortina, dove non accettano prenotazioni dai russi, non hanno saputo ricevere la clientela di questo tipo. I russi vanno in monNUMERO 01
tagna, hanno bisogno di tenere gli sci fuori dalla porta e partire; per me, sono dei bei clienti. Ho organizzato un banchetto per un russo che è il re dell’alluminio e che poi è diventato mio amico. Vive duecento giorni all’anno in aereo ed ha festeggiato qui i suoi cinquant’anni: ha fatto tre giorni di festa, ha chiamato un tir di fiori dall’Olanda, ma poi è tornato ad essere un cliente normale. Quindi abbiamo bisogno dei russi? Noi abbiamo bisogno di tutti. Venezia ha bisogno di una clientela medio alta: tutti hanno il diritto di vedere Venezia ma le entrate devono essere controllate. E come si fa? Uno deve chiedere il permesso di entrare. Capisco che al Comune faccia comodo il pullman di turisti che deve pagare all’entrata in certe zone, però il turismo non va calmierato così. Ha mai pensato di entrare in politica? Mai. La politica è una brutta bestia. Ha nemici? Amici e nemici ne hanno tutti. Dichiarati? Dichiarati no. La classe si può ottenere o è innata? È innata. O uno ce l’ha quando nasce o non ce l’avrà mai. Poi c’entra l’educazione. Lei ha avuto un’educazione rigida? Abbastanza. Negli anni ha rivisto qualche suo titolare, dopo essere diventato titolare lei? No, non ne ho mai avuto occasione. (10’20’’)
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Nicolò Zeno: Palazzo Zeno, da 700 anni un gioiello nel cuore di Venezia Da 700 anni la famiglia Zeno vive nell’omonimo palazzo nel cuore di Venezia. Oggi Palazzo Zeno ospita importanti eventi mondani di altissimo livello. Noi abbiamo incontrato il conte Nicolò e gli abbiamo chiesto cosa significa vivere in una dimora del genere e abbiamo scoperto che non è come qualcuno se lo potrebbe immaginare. Le molte difficoltà sommate alla totale mancanza di aiuti rendono la gestione di un edificio storico del genere una lotta contro il tempo, l’acqua alta e un turismo che spesso non ha la consapevolezza di vivere Venezia come meriterebbe. Di FRANCESCO LA BELLA In redazione FRANCESCO CHERT
Nicolò Zeno in Palazzo Zeno. Riproduzione riservata
Perché oggi questo edificio può rappresentare una parte della cultura di Venezia molto importante? Molto semplice: perché bisogna lavorare per mantenere la cultura e tramandarla anche ai posteri come ci è arrivata dagli antenati. E come gli antenati ce l’hanno fatta avere in perfette condizioni. La nostra famiglia vive qui da 700 anni, e per 700 anni questo palazzo è rimasto della famiglia, passando di generazione in generazione, subendo alcune modifiche strutturali, ma portando ad oggi quella che era la loro vita. Oggi vediamo in molte parti di Venezia come i palazzi sono stati smembrati, trasformati, e non hanno più la loro identità di palazzo come casa veneziana di una famiglia. Mantenerli ha un grandissimo costo, non siamo aiutati da nessuno, l’unico aiuto è la nostra capacità nel cercare in qualche modo di pagarci le manutenzioni che sono assai elevate e con uno Stato che ha cambiato prospettiva della salvaguardia del bene storico, caricando di tasse specialmente questi palazzi veneziani, sarà molto dura nei prossimi anni riuscire a GENIUS PEOPLE MAGAZINE
mantenere un’integrità strutturale e degli affreschi. Quindi anche un palazzo come questo apre all’organizzazione di eventi. Gli eventi sono caratterizzati da una filosofia e vincolati ad uno spessore culturale? O basta il budget? Assolutamente sì: cerchiamo di mantenere un decoro, non tutti possono né si può fare tutto qua dentro, sempre cercando si rispettare al massimo i vicini e quindi nel non generare disagio a coloro che abitano qua accanto. Prima parlava di generazioni, ma non sempre il figlio d’arte può proseguire il percorso del padre; nel caso della vostra famiglia che cosa è successo? Siete stati contagiati da qualcosa che vi spinge a portare avanti con sacrificio anche questa situazione o avete un obbligo morale? Io l’ho sentito come obbligo morale, per il fatto che qualcuno ce lo ha lasciato, così noi abbiamo proseguito. È anche un grandissimo onore poter disporre di un bene del genere e farlo visitare e raccontare 100
INTERVISTA A NICOLÒ ZENO
la sua storia, perché ogni mattone di questa casa ha una storia.
nessuna indicazione, niente. Anzi, paghiamo solo le tasse.
Che rapporto avete invece con l’esterno? Venezia è una città internazionale in equilibrio, che ospita ogni giorno tantissima gente e che al contempo è ancora rappresentata dagli stessi veneziani. Eppure la cronaca rappresenta Venezia come una città sempre più in difficoltà a gestire questi flussi: ciò compromette il turismo culturale? Perché c’è dunque questa difficoltà a mantenere una struttura simile? Io ci riesco perché organizzo anche concerti. Avendo una sala che ha un’ottima acustica, possiamo organizzare o vengono organizzati dei concerti proprio per i turisti o per chi desidera. Questo rapporto verso l’esterno quindi c’è durante la Biennale e molte manifestazioni. È un modo per far vivere un palazzo veneziano nella sua interezza, come veniva usato una volta.
Facciamo un passo indietro. Ci racconta il suo profilo da un punto di vista anche di origini familiari e discendenza, un percorso storico non indifferente? Specialmente proprio questa casa è stata costruita da Carlo Zeno, il capitano de mar che ha salvato Venezia l’unica volta che venne attaccata dai genovesi direttamente in laguna, infatti sconfisse nella Battaglia di Chioggia la flotta genovese, cacciò i genovesi dalla laguna e li inseguì poi per tutto l’Adriatico prima e poi per tutto il Tirreno per affondare infine tutta la flotta di fronte a Sestri e battere definitivamente Genova. Era un grande condottiero cui però, come tutte le persone che diventavano importanti a Venezia, fu fatto un grosso sgarbo e venne incarcerato. Dopodiché fu liberato il giorno stesso dal suo stesso esercito e, stufo della situazione che aveva trovato, se ne andò a Gerusalemme dove visse in esilio volontario per un periodo e dove divenne molto amico del re di Scozia. Questo si ricollega al fra-
Ma forse non siete supportati dall’amministrazione pubblica, siete completamente a carico vostro. Assolutamente no, anzi: è tutto a carico nostro, non c’è nessun aiuto e
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tello Nicolò che, armata una flotta per una spedizione commerciale, si diresse verso nord superando il nord della Scozia, e lì fu colto da una tempesta molto violenta che lo fece affondare alle Orcadi. Riparato su una spiaggia e assalito dagli abitanti, al tempo vichinghi e quindi non molto inclini all’ospitalità ma piuttosto a portarsi via tutti i loro averi, fu salvato da un certo Henry Sinclair, vichingo e signore delle Orcadi in quel periodo, che alla richiesta di chi fosse, Nicolò svelò il suo nome e Henry Sinclair, dall’altra parte del mondo, disse di conoscere la sua famiglia. Infatti il re di Scozia era amico di Carlo e aveva comunicato di aver conosciuto questo grande condottiero veneziano, e la voce arrivò fino a lassù. Nicolò con Sinclair partì e nel 1390 arrivarono in Canada e da li ritornarono indietro e Nicolò chiamò suo fratello Antonio che partì da Venezia e raggiunse per un’altra spedizione il nord America. Quindi in quel periodo il costruttore di questa casa aveva un capacità commerciale, militaresca e anche economica assolutamente di proporzioni enormi, anche perché la famiglia era fatta di molte persone, ognuna con il suo palazzo perché man mano che raggiungevano una sicurezza economica, costruivano il proprio patrimonio perché tutto finiva sempre al primogenito, il quale riceveva tutti i beni. Il secondo intraprendeva la carriera militare e il terzo militare o ecclesiatico, e in quel periodo la famiglia aveva delle possibilità molto elevate, perché Nicolò si armò una nave con i suoi soldi e non come faceva Venezia che le noleggiava per i commerci. Questa casa è quindi l’emblema di quello che è rimasto della famiglia. La storia ci spiega il presente ma se il presente è rappresentato da una città sempre più metropolitana, 101
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globalizzata, anche il vostro linguaggio sta cambiando? Certo, anche sul sito è cambiato tutto, con google view è possibile far vedere il palazzo direttamente tramite internet. Certo, ha una visione completamente diversa da quello che è vedendolo da dentro, però in alcune cose aiuta a far piacere il palazzo, è il primo approccio che magari influisce sulla curiosità di venirlo a vedere dal vivo. Qual è il suo rapporto personale con l’esterno? Lei vive immagino molte ore in questo palazzo. No, sono perennemente in movimento, dovunque. Qui bisogna essere carichi, non puoi mollare. La mattina qui uno si alza e fa la conta di quello che viene giù, questa è la verità. Ogni giorno faccio il giro e controllo tutti gli elementi strutturali in decadimento e i pezzi di muro che vengono giù per l’inquinamento. Ad ogni acqua alta il pavimento in androna, visto che il palazzo è del Trecento ed è stato costruito più basso, si alza e noi perdiamo parte della sabbia che sta sotto, il palazzo si abbassa e continuerà a scendere sempre di più. Con il Mose io finirò sempre sotto. È un cane che si mangia la coda perché comunque l’unica cosa che il Comune ha fatto per noi è lo scavo del rio. Hanno scavato il rio ed è crollata la corte e il portinaio è caduto dentro il pozzo. E la politica territoriale? Quale politica? A me non sembra politica, ma un assembramento di ladri. È un problema di mentalità prima che di politica. Prendiamo ad esempio la Repubblica di Venezia:
a chi toccava la res publica tagliavano la testa. Qua sembra che a chi tocca la cosa pubblica diano anche un premio, e allora è quella la differenza. Non c’è legalità, non c’è rispetto, non c’è nulla. Ma esisterà una commissione che tuteli il patrimonio culturale e turistico e credo che voi abbiate tutte le carte in regola per avere voce in capitolo. No, assolutamente no, non abbiamo nessuna voce in capitolo. Altri ce l’hanno. Come vivete la presenza di un Patriarca genovese?
Lo farei subito, l’importante è che le persone che ho al mi fianco siano persone che abbiano un’integrità morale e che lavorino per il bene della città. Euro si o euro no? Euro si se le regole e le leggi come anche l’imposizione fiscale sono uguali per tutti. Qualcuno dice di dover bloccare l’accesso di masse di gente senza una logica: lei cosa ne pensa? Assolutamente d’accordo. Venezia non è per tutti perché deve essere rispettata per quello che è; allora le persone che arrivano devono essere
“È un grandissimo onore poter disporre di un bene del genere e farlo visitare e raccontare la sua storia, perché ogni mattone di questa casa ha una storia”. Mia madre è genovese, e io sono nato a La Spezia, ma credo che le persone debbano essere valutate per quello che sono e non per la provenienza. Cosa si aspetta da suo figlio? Che faccia meglio di me. I miei figli devono fare meglio di me. Con quali mezzi si immagina di poter mandare avanti questo suo impegno? Non si può fare nulla, dobbiamo mantenere e quella è la cosa più difficile da fare. E candidarsi in politica, no? Se un partito, un gruppo di imprenditori e visionari si proponesse per sistemare la questione di Venezia.
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ospitate nella maniera migliore, garantendo i servizi veri e non assembramenti di masse, dando servizi igienici e un numero di cestini adeguati. L’amministrazione è riuscita a fare solo le cose più brutte, se invece iniziamo a fare le cose più belle, la città sarà ancora più bella. Deve essere un salotto e non si deve permettere che la gente bivacchi in piazza san Marco, questo non è possibile. Chi viene a Venezia deve sapere che ci sono delle regole, e le regole devono essere rispettate come deve essere rispettata la velocità di barche e taxi. Questa è una città molto delicata e se la vogliamo preservare per il futuro penso che sia necessario farlo. (6’40’’)
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Setrak Tokatzian: da generazioni sinonimo di lusso in piazza San Marco Il nome Tokatzian significa lusso. E per piazza San Marco, significa storia. Non solo del mondo della gioielleria ma della cultura veneziana; fondata nel 1945 dall’omonima famiglia di origine armena, la boutique Tokatzian ha ospitato e ospita i più importanti brand del mondo. Oggi è gestita da Setrak, che porta avanti una tradizione fatta di eccellenza, di rapporto familiare con il cliente e con la ricerca costante del meglio. Ma come è cambiato il cliente della gioielleria Tokatzian? E com’è cambiata Venezia negli ultimi anni?
Di FRANCESCO LA BELLA In redazione FRANCESCO CHERT
Come ti sei avvicinato al settore del lusso? Come si relaziona una boutique come la tua con piazza San Marco, uno dei luoghi più turistici d’Italia e del mondo? Noi vendiamo lusso, dunque non abbiamo bisogno della massa. La nostra è la famiglia che ha portato a Venezia molti marchi di gioielli. Noi siamo qui da 70 anni. Siamo entrati nel mondo della gioielleria dal 1969 e dal 1988 io sono subentrato nel business della famiglia cambiando la strategia tradizionale e portando parecchie linee nuove di design. Ho iniziato con Pasquale Bruni che all’epoca si chiamava Gioielmoda e che proponeva già allora modelli all’avanguardia. Poi sono arrivati gli orologi con marchi come Frank Muller, Audemars Piguet, Iwc, jaeger Lecoultre, Bulgari, Chanel... In un contesto unico come quello di Piazza San Marco, nonostante la presenza massiccia di turisti GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A SETRAK TOKATZIAN
da tutto il mondo in ogni periodo dell’anno, siete riusciti a creare una cornice tipo Place Vendôme a Parigi, con marchi di lusso. È una scelta voluta oppure è stato quasi per caso che vi siete trovati in questa piazza? Piazza San Marco ha sempre avuto delle gioiellerie storiche come Missaglia e Nardi. Noi siamo entrati per ultimi, portando però una piccola rivoluzione. La nostra gioielleria è molto attenta al design; niente di classico, abbiamo trasgredito.
Setrak Tokatzian all'interno della sua boutique in piazza San Marco. Foto Francesco La Bella
Venezia è una città classica, è l’emblema della storia e della cultura italiana. Secondo te come deve rapportarsi ai tempi moderni? In altre parole, come la vedi questa nuova Venezia, travolta dalla globalizzazione e da stranieri? Dato che vendo lusso, a me il turismo di massa non interessa. Per esempio, il turista che arriva NUMERO 01
sulle grandi navi non rappresenta il cliente di questo negozio. Bisogna tuttavia considerare anche l’indotto cittadino. La città è organizzata per avere certi servizi e c’è gente che vive di questo, bisogna rispettare tutti. Però ovviamente la città è gestita in modo non professionale, sono molto critico sulla gestione della città. Nelle altre interviste che abbiamo svolto oggi, emerge spesso questo dato di perplessità nei confronti dell’amministrazione. Io ritengo che l’amministrazione pubblica purtroppo non stia lavorando nella direzione giusta. Non ne faccio una questione politica, io penso alla polis in senso classico. Venezia infatti è una città nella quale puoi conoscere chiunque e dove puoi creare rapporti di amicizia che altrove non ci sono. Qui puoi arrivare ovunque come imprenditore. Il problema, però, è 105
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che l’amministrazione comunale non è all’altezza di questa città: abbiamo bisogno di public relations e di persone capaci e io non vedo risultati. Venezia è fragile e ha assoluto bisogno di gente capace. C’è nostalgia nelle tue parole o sei comunque ottimista? Non sono molto ottimista perché vedo degrado, impunità, maleducazione. La città è invasa dagli extracomunitari e l’informazione di solito indica noi come i cattivi e loro come le vittime. Noi ci battiamo semplicemente per il rispetto della piazza e della città perché Venezia non è nostra, Venezia è di tutti, è dell’umanità. Ci sono bellezze uniche che devono essere rispettate. Quando la gente manca di rispetto io mi imbestialisco; e mentre l’amministrazione controlla costantemente i negozianti e gli imprenditori, noi abbiamo
Come sono gli affitti? Con la crisi, sono calati? No, gli affitti non calano mai. Il costo è elevato ma inferiore se paragonato a via Condotti, via del Babbuino a Roma o a via Montenapoleone a Milano. Perché acquistare a Venezia? Una volta davamo un’emozione. Io ho dato molti consigli ad aziende nel mondo degli orologi, ho anche fondato una mia linea: “Skyline” e ho depositato il brevetto per swiss made. Anche altri miei colleghi hanno fatto tanto per Venezia, che è una città che fino a poco tempo fa era molto tranquilla: quasi nessuna rapina, molte emozioni. Una città magica. Prima ci parlavi delle generazioni: tu, per esempio, sei un figlio d’arte. Com’è cambiato il cliente negli ultimi anni? Come sono le nuove generazioni di clienti?
“Io sono un uomo di strada, vado a bere il caffè con l’industriale come con lo spazzino, scherzo e ragiono con entrambi”. mandato via sedici banchetti che vendevano grano. Il mangime e gli escrementi dei colombi deturpano i restauri e le opere d’arte. Poi ci sono gli ottanta cingalesi che vendono riso, oppure quelli che vendono rose e che infastidiscono la gente: il cliente che viene qua va tutelato. Io sono sempre molto gentile con chi mi chiede informazioni o pareri, sono felice che mi lasci con un sorriso, che abbia un ricordo positivo della città. Il turista è contento se riceve accoglienza.
Le persone che vengono a feste, appuntamenti ed eventi mondani non le vedi in giro. Se vogliamo che tornino i clienti storici, dobbiamo tornare a dare emozioni. Il problema è che non c’è più la gente che, dopo aver passato o una bella giornata ed essersi divertita, decide di comprare ad esempio una borsa. Se poi ti invadono quelli delle rose e del riso, passeggiare per Venezia diventa difficile e poco piacevole. Chi ha soldi non vuole fastidi, ma semplicemente godersi la città. E comunque i figli dei nostri clienti
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più importanti non sono più venuti, è questo il dramma. Oggi molto spesso gli imprenditori hanno paura a mostrarsi per esempio con una macchina di lusso per timore di essere etichettati o guardati con sospetto. Da dove deriva questa mentalità? Non lo so ma è una caccia alle streghe, forse per distrarre le gente dalle cose che fanno i politici. Il problema è che in questo modo l’Italia viene uccisa. Dov’è il problema? Perché fare questo terrorismo fiscale? I nostri clienti così andranno a comprare l’orologio a Montecarlo! Andranno a comprare le pellicce in Francia! Oggi la gente non compra qua e ha ragione. Per esempio, se un cliente compra da me un orologio gli devo chiedere di tutto e violare la sua privacy: esce dopo mezzora. Euro sì o no? Negli anni più belli, fino alle Torri Gemelle, avevo la coda fuori del negozio, però sull’euro bisogna vedere. Qual è il tuo cliente migliore? C’è un po’ di tutto. Io tendenzialmente ho una clientela più affezionata che diventa amica, e quando diventa amica non compra più! Hai più amici o nemici? Sicuramente amici, nemici spero di non averne. Qualcuno, forse, ma solo invidioso. Faresti il politico? Io sono un uomo di strada, vado a bere il caffè con l’industriale come con lo spazzino, scherzo e ragiono con entrambi. (6’20’’)
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FOCUS VENEZIA
Emerge dalle precedenti interviste che ci sia qualche problema nell’amministrazione di Venezia, nel suo essere invasa da moltissime persone. Abbiamo tracciato tre profili: arte e cultura, ristorazione, mercato di lusso e gioielleria. Ora tracciamo quello che è il servizio sulla strada; tu come ti definisci? Questo è uno snack bar di lusso, viaggiamo su top quality; la qualità in generale si è abbassata moltissimo, negli ultimi quattro-cinque anni.
Piero Melfi, l'oste dandy simbolo della Venezia romantica Esattamente dietro Piazza San Marco, nel reticolo di stradine tipicamente veneziane, spunta il locale di Piero Melfi. Più che di un bar, si tratta di un’istituzione della tradizione dei cicchetti veneziani e lo stesso Piero, più che un oste, è una sorta di filosofo dandy vecchia maniera, tra il gaudente, l’eccentrico e il dongiovanni. Con lui, siamo tornati sulle tracce di quella Venezia elegante e ricca che non c’è più e che, almeno in parte, dovrebbe essere ritrovata.
Di FRANCESCO LA BELLA In redazione FRANCESCO CHERT GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Quindi tu non lavori sul numero. No, non mi piace lavorare sui numeri per un semplice motivo: il locale non permette di lavorare sui numeri. Si faceva tempo fa ma ora è diverso, lavoro solo con la qualità, infatti non vado male ma non vado neanche bene, sono sulla via di mezzo; purtroppo la qualità di gente che arriva a Venezia non è più quella degli anni passati. Questo è dovuto a tuo avviso a causa di un’amministrazione discutibile o perché è cambiato qualcosa nella testa delle persone? È cambiato un po’ nella testa delle persone, però è anche dovuto alla nostra amministrazione che non funziona. Euro sì o euro no? Rimpiangi i momenti della vecchia lira oppure no? Delle volte sì, delle volte no. Se faccio i conti con il rapporto lira – euro, a quest’ora sarei milionario. Come definisci il tuo ruolo? Sei quasi un pioniere nell’approccio al cliente, sei personaggio di te stesso. Chi sei? Io sono l’oste Gian Pier, mi chiamano l’oste più pazzo delle tre Venezie, e quindi cerco di far sentire il cliente a suo agio e farlo sentire a casa, alternando scherzo e riservatezza al momento giusto. 108
INTERVISTA PIERO MELFI
Da te vengono notai, imprenditori, impiegati, giovani. Abbiamo una clientela molto vasta, un po’ di tutto, personaggi sia della Venezia bene che il turista. Però a un certo punto scatta una cosa strana: si respira qui dentro un po’ l’aria da dolce vita degli Anni Sessanta, e poi si vive anche l’esterno. Certo, si vive anche l’esterno facendo una cicchettata fuori ascoltando buona musica e bevendo un buon bicchiere di vino.
“Noi siamo la prima Montecarlo, siamo la città più bella del mondo a livello di arte, storia e per un patrimonio culturale unico al mondo”. Ci racconti un aneddoto particolare? Due anni fa ci sono state delle pornostar che si spogliavano dentro e fuori il locale fino alle quattro e mezza del mattino. Una bella animazione. Insieme a te, respiro quell’italianità che è commistione di varie culture. Tu conosci Venezia, una città che ospita tutto il mondo, hai viaggiato molto e soprattutto curiosando nel tuo locale ho visto foto con Al Pacino, macchine da corsa, insomma sei un personaggio poliedrico. Io amo le macchine e le corse, amo un po’ il lusso e cerco di mantenerlo nel mio locale e nella vita privata fino a quando c’è la possibilità.
Piero Melfi a lavoro. Foto Francesco La Bella
“Mi piace il lusso” cosa significa? Perché il lusso oggi fa paura a molti, ormai non si è più liberi di girare con un certo tipo di macchina per paura di essere etichettato. Io questo problema non ce l’ho: pago le mie tasse e ne pago parecNUMERO 01
chie e quindi non penso di essere etichettato dal cliente, quando ho un socio che non lavora, ed è lo Stato. E che non ha nessun rischio. Ultima cosa: Venezia ti piace così? No, non mi piace assolutamente così perché negli ultimi anni è cambiata moltissimo. Io vorrei la Venezia di quando lavoravo all’Irish Bar, dove ho lavorato quasi quindici anni, dove si vedeva la crème de la crème della clientela e avevi dei personaggi che ora non trovi più. Dove sono andati? Sono spariti, non si vedono più in giro grazie allo Stato, perché c’è gente che ha la possibilità di spendere e va a spendere fuori l’Italia invece di far girare l’economia qui in Italia e qui a Venezia. Noi siamo la prima Montecarlo, non dobbiamo essere la seconda, la città più bella del mondo a livello di arte, storia e per un patrimonio culturale unico al mondo. Perché la Costa Azzurra? Non esiste. Tre consigli per far innamorare una donna? Arrivo a Venezia, aperitivo da te e cosa beviamo? Un buon bicchiere di vino, per esempio un buon prosecco. Oppure un buon spritz, anche se ormai ha rotto le scatole. Poi a cena? La porterei su una bella terrazza al Monaco o al Gritti, al Danieli. E dove la faremmo dormire? Una bella suite al Bauer oppure al Monaco o al Danieli. E quando arriva il conto come devo pagare? Lo paghi. E se non ho i soldi a Venezia come faccio? Non vieni, stai a casa che è meglio! (4’05’) 109
TEAM
Il nostro Team
FRANCESCO LA BELLA Direttore responsabile Mail: redazione@geniusonline.it
FRANCESCO CHERT Segreteria di Redazione Twitter: @FrancescoChert
MATTEO ZANINI Capo Redattore Twitter: @ZannaIlCobra
GIADA LUISE Account Manager Twitter: @giada_luise
Giornalista professionista, nasce a Vibo Valentia nel 1975. Ideatore e fondatore di geniusonline.it e Genius People Magazine, vive e lavora a Trieste. Ancora studente unversitario orienta le sue esperienze lavorative nell’editoria e nella pubblicità, collaborando con l’emittente televisiva Antenna Tre Nordest e da subito si autofinanzia le sue trasmissioni, per poi collaborare con la Presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia, guidata allora da Riccardo Illy. Dal 2007 indirizza le sue competenze nella consulenza specializzata, con Insiel Spa, Onda Mobile Communication Spa ed il Porto di Trieste. Oggi è direttore dell’ufficio stampa della Diocesi di Trieste.
Laurea in comunicazione, master in scienze politiche, unisce da sempre la passione per politica e scrittura attraverso un approccio polemico ed eretico, attitudinalmente minoritario e non allineato. Appassionato da sempre di cinema, musica, storia e letteratura. Ha lavorato presso vari uffici stampa, ha tenuto lezioni universitarie, si è occupato dell’organizzazione di eventi, oltre ad aver svolto molti lavori precari e sottopagati, tra cui il commesso, il facchino e il coltivatore diretto. Ritiene che il senso dell’esistenza stia nella consapevolezza.
Nasce e vive a Trieste: giornalista pubblicista dal 2003, ha collaborato e collabora con varie testate nazionali sia a livello cartaceo che televisivo. Grande appassionato di pallacanestro e di comunicazione digitale e via web, si è laureato all’Università di Trieste in Cooperazione allo Sviluppo e nel suo curriculum ha all’attivo l’organizzazione di diversi eventi sportivi e convegni di vario genere.
Giada Luise si laurea in Relazioni Pubbliche della Promozione e della Comunicazione Pubblicitaria presso l’Università degli Studi di Udine. Dopo aver conseguito un master in Business Communication lavora nel mondo della pubblicità e della comunicazione. Sviluppa ulteriori competenze nel campo delle relazioni istituzionali e politiche, lavorando presso il Consiglio Regionale del FVG. Collabora con il teatro La Piccola Fenice di Trieste all’organizzazione di eventi musicali e letterari.
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SHORT BIO
Ringraziamenti MASSIMILIANO BERGAMO (Venezia)
Ha creduto da subito nella rivista. Il Focus su Venezia porta la sua firma. ERICA D’ANDREA (Pordenone)
Fondamentale per i contatti sul territorio di Venezia e Pordenone. MITJA VESNAVER Art Director Twitter: @studioa29
MARCO GNESDA Coordinamento Twitter: @marcognesda
Trieste, 1984. Designer. Si occupa dell’identità visiva aziendale, della comunicazione di eventi culturali e della grafica editoriale. Nel 2009, con Marco Barbariol, Albi Enesi e Claudio Sartor, ha fondato lo studio di progettazione, Studio-a29.
Ingegnere libero professionista per l’edilizia e l’architettura dal 2006. Redattore e curatore grafico di Juliet Art Magazine dal 2010. Tra i fondatori nel 2010 dell’Associazione Culturale Mimexity per la diffusione della cultura contemporanea. Ha scritto per la rivista d’architettura IlProgetto. Dal 2014 membro di Impact Hub Trieste.
STEFANIA QUAINI (Milano)
CEO di Impact Hub Trieste, le va riconosciuta la paternità per il naming di GeniusOFF. ALBI ENESI (Tirana)
Amico talentuoso del backstage di GeniusOFF. Lo spot iniziale è opera sua. CLAUDIO SARTOR (Pordenone)
Un amico diplomatico di Genius. Punto di connessione nel gruppo di lavoro. MARCO BARBARIOL (Trieste)
Critiche costruttive e un confronto continuo. Alcune linee guida della rivista sono sue. ERIN RUSSO (USA)
La nostra “teacher” d’inglese. Con molta pazienza è impegnata nelle traduzioni dei contenuti. FAUSTO BAGNATO (Milano)
La sua saggezza ha stimolato più volte il gruppo redazionale per la realizzazione degli eventi. PAOLO ROSSO (Trieste)
Ha contribuito a fornire una “sana” operatività al gruppo di lavoro. ILIE ZABICA (Chisinãu)
Lui è la persona che si occupa di Genius nell’est Europa. “Concreto e serio”.
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CONTRIBUTORS
Hanno contribuito a questo numero
SERENA CAPPETTI Twitter: @serena_cappetti
MICHELE CASACCIA Twitter: @MicheleCasaccia
Di origine pordenonese, un po’ friulana e un po’ veneta, adottata da Trieste ormai da diversi anni. Laureata in Comunicazione e Pubblicità, scrive per genius-online e per il settimanale Vita Nuova. Appassionata di cinema e arte ma assolutamente curiosa senza riserve, ama sperimentare, specialmente in cucina. All’attività di giornalista associa, con entusiasmo, quella di copywriter e PR.
Classe 1986: consegue la maturità classica al Liceo Dante Alighieri di Trieste; attualmente iscritto alla facoltà di Lettere di Trieste, nel suo curriculum giornalistico ha all’attivo una collaborazione con il sito Panorama.it, ed ha pubblicato il libro autobiografico “PPP”, edito da Narcissus, sul delicato argomento del gaming on-line.
NICOLÒ GIRALDI Twitter: @NicoloGiraldi
MATTEO MACUGLIA Twitter: @matteomacuglia
Nasce per un errore della Storia a Trieste nel 1984. Giornalista dal 2009, pubblica con La Voce del Popolo, quotidiano italiano di Slovenia e Croazia dal 2005 fino a quest’anno, occupandosi di corrispondenza dall’Italia e da Londra dove completa un master alla London School of Journalism nel 2013. Laureato in Storia Moderna e viandante, ha fondato il progetto GiroNellaStoria.com, un viaggio a piedi lungo il presente della Grande Guerra.
Il “pulcino” della redazione: ventuno anni, laureando in Scienze Politiche e dell’Amministrazione all’Università degli Studi di Trieste. Ha una grande passione per la fotografia, il cinema e le arti visive in genere e nutre un grande interesse per l’attualità politica. Il suo sogno nel cassetto? Diventare, un giorno, giornalista.
SHORT BIO
NOEMI COMMENDATORE Twitter: @noemipictures
GABRIELE GEROMETTA Twitter: @IoSonoZero
SARAH GHERBITZ Twitter: @SarahGherbitz
Specializzata nella fotografia di scena e di interior Noemi Commendatore di origine siciliana oggi vive tra Roma e Napoli. La passione fotografica nasce dalla necessità di affrontare delle problematiche che spesso in società vengono sottovalutate. Da fotoreporter a fotografo di scena, spesso in giro con le compagnie nei più importanti teatri d’Italia. La fotografia è per lei sperimentare, è un potente mezzo per testimoniare e denunciare tutti quei disagi e quella bellezza che spesso non vediamo.
34 anni, si è laureato nel 2006 in Scienze della Comunicazione, con una tesi sul digitale: da allora ha fatto qualsiasi tipo di lavoro. Giornalista pubblicista dal 2006, è copywriter freelance dal 2012; appassionato di nuove tecnologie, cinema ed arti visive, scrive “di tutto e su tutto”. Parla soprattutto di tecnologie digitali e delle loro ricadute sulla nostra vita di tutti i giorni.
È nata a Trieste. Cresciuta in ambiente musicale, studi al Conservatorio “Tartini” e laurea in Lettere Moderne. Giornalista freelance, scrive di cinema e spettacolo per stampa e web. Si è occupata della presentazione di numerose serate e manifestazioni, tra cui “Donne al cinema”, ed il K3 Short Film Festival. Nel 2013 ha curato la redazione del catalogo di “Frame”, progetto realizzato con la Cappella Underground di Trieste sul linguaggio delle nuove tecnologie applicate all’arte.
ANNA MIYKOVA Twitter: @AnnaMiykova
BETTINA TODISCO Twitter: @BettinaTodisco
MARTINA VOCCI Twitter: @MartinaVocci
Bulgara di nascita, piemontese di adozione. Si laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia, dove per tre anni è vice-coordinatrice del Club Atlantico Giovanile del FVG. È consigliere giuridico per il diritto internazionale umanitario e si occupa di politica internazionale, geostrategia e sicurezza coniugando l’amore per la scrittura e per le relazioni internazionali. Vive a Roma, dove ha conseguito un master in Peacekeeping and Security Studies. Nel 2013 è stata embedded con l’EI in Libano.
È nata a Udine e vive a Trieste. Laureata in Matematica e specializzata in informatica, ha lavorato come progettista di sistemi informativi presso un’azienda del settore ICT, nella quale oggi ricopre il ruolo di social media manager. Giornalista pubblicista, ha approfondito le tematiche della comunicazione, conseguendo un master in Analisi e gestione della comunicazione ed ha collaborato alle pagine culturali di quotidiani e periodici locali. Ama la letteratura, la scrittura, il giornalismo, il cinema, il teatro, i viaggi e la fotografia, oltre alla matematica.
Si è laureata in Teoria della Letteratura alla Sapienza di Roma. Ha vissuto tra Parigi e Roma, da quattro anni è tornata a Trieste dove si occupa di comunicazione, redazione ed è social media manager. Dopo un’esperienza nell’arte contemporanea con LipanjePuntin artecomporanea e Roma e a Trieste, da anni è attiva in campo culturale con l’organizzazione di diverse iniziative atte a sviluppare la cultura cittadina. Da quattro anni cura e co-conduce per TV Capodistria la rubrica La Barca dei Sapori.
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