Il signor dannunzio cita i versi

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Il signor D' Annunzio cita i versi Al signor Pietro glielo dicono spesso «ohh~ lei ha una certa somiglianza col poeta Gabriele D' Annunzio». Lo dicono anche amici e conoscenti: «Alla lontana è forse tuo parente il letterato D' Annunzio?". Per davvero il signor Pietro è registrato all' anagrafe come D' Annunzio Pietro. E per davvero l' omonimo del Vate è nato a Palermo quarant' anni fa. Vive in un condominio nel quartiere Villa Tasca. Ma non è il solo D' Annunzio. A Palermo, infatti, c' è un ceppo di famiglia originaria di questa città che porta l' identico cognome. E Pietro ha due fratelli, Emilio e Salvatore D' Annunzio. Pietro lavora al Policlinico. Emilio presso l' azienda Amat. Salvatore collauda i motori alla Fiat. Nei tre fratelli D' Annunzio è comune la passione per le auto e la tecnologia. Pietro da ragazzo voleva fare il pilota elicotterista, ed Emilio e Salvatore smontano e rimontano spesso cilindri o pezzi di motore. Ma per chiamarsi D' Annunzio, in verità, c' è un legame «fortemente possibile con il letterato», dice Pietro. E spiega: «Mio padre è nato a Barrea. Cittadina di 200 mila abitanti, all' interno del Parco nazionale d' Abruzzo». Barrea è a circa cinquanta chilometri da Pescara, la città dov' è proprio nato, il primo marzo del 1863, Gabriele D' Annunzio. Pietro racconta: «Mio padre, Emidio D' Annunzio, aveva il culto per le parole ricercate. Collezionava vocabolari della lingua italiana e capitava nel suo dire che usasse un modo letterario di parlare. Endecasillabi sciolti». Pietro D' Annunzio racconta del padre. Tipo taciturno. Un sognatore. Maresciallo dei vigili. Uomo di bell' aspetto. Capelli pettinati con brillantina. Era appassionato d' automobili. Le cambiava spesso. La carrozzeria brillava come vi fossero stelle. Come quella volta, quella fiammante Lancia rossa o quando c' era la mitica 850. «Lui appariva come un sogno. Spuntava sotto la finestra con un clacson. Mi affacciavo e ogni volta un nuovo modello d' auto». Pietro D' Annunzio l' abbiamo incontrato al tavolino di un bar. Tra un tè freddo per noi. E un caffè caldo per lui. Ci ha raccontato delle sue vacanze. In campeggio con il camper. «Sono un giramondo, e il modo ideale per viaggiare è mettere su tenda in qualunque parte dell' emisfero terrestre. Viaggiare, un punto in comune con il Vate». Mette lo zucchero nel caffè, quando comincia a raccontare della sensualità del poeta. «Anch' io ho amato le donne. Ora mi sono fermato alla mia E., e sono felice. Ma metterei la mano sul fuoco che la passione sprigionata da Gabriele D' Annunzio è sano benessere, altro che volgarità». Poi manda giù in un sorso tutto il caffè. E riprende il discorso dicendo: «Mi spiego meglio». «In pochi viviamo davvero. Amiamo poco, e male. Ci difendiamo da tutti e da tutto. Viviamo sempre più accerchiati. Più vicini al televisore e al telefonino che a una carezza e a un bacio. Poi, tradiamo anche le donne che amiamo. Siamo ridotti male, e il grado di stupidità è altissimo. Ne conviene?», domanda. «Poi mi spieghi lei che cos' è volgare oggi. Siamo assediati da una dilagante volgarità, che non ci facciamo più caso. Così i ragazzini che crescono svelti non giocano più con i sassi. Li lanciano dai viadotti dell' autostrada. Vanno in discoteca. Noi ballavamo per la strada. Ci divertivamo moltissimo». Anche il figlio è un D' Annunzio. «Sì. Ma non l' ho chiamato Gabriele. Sarebbe stata la sua condanna. Infatti a scuola, a mio figlio Giuseppe, che a quindici anni studia il letterato del Novecento, i compagni di classe lo prendono in giro dicendogli: tu sei come D' Annunzio. E pensare che avrei voluto chiamarlo volentieri Gabriele». Poi il signor Pietro D' Annunzio guarda l' orologio, cita un verso a memoria «l' immensa gioia di vivere, d' esser forte, d' essere giovane», e scompare leggero quando comincia a cadere qualche timida goccia di pioggia. GIANFRANCA CACCIATORE


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