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Giovanni Fontana
from TERRITORI n° 32
L’architettura al centro
Si fa un gran parlare di pandemia e distrategie operative post-Covid e, in questo contesto, si vanno riscoprendo gli insostituibili ruoli dell’architettura. È ben chiaro che tutto dovrà essere ripensato e riprogettato per far fronte ad inedite esigenze di definizione e di organizzazione degli spazi, sia nell’edilizia civile, sia nella città, dai servizi sanitari al verde pubblico, dall’aula scolastica al marciapiede. Non poche specificità funzionali richiederanno aggiornamenti delle tecnologie impiantistiche, nuovi accessori e materiali innovativi. Ma per molti versi si tratta di un discorso scontato, che necessita senza dubbio di una collocazione in ambiti più generali, perché l’architettura, a prescindere dalle specifiche contingenze, dovrebbe sempre svolgere di per sé un ruolo essenziale, basilare. Purtroppo da decenni le classi dirigenziali hanno distolto l’attenzione dall’imprescindibilità di questa materia, con le disastrose conseguenze che sono – ahimè – sotto gli occhi di tutti. Oggi dobbiamo sostenere con forza, più che mai, l’urgenza di porre l’architettura al centro dell’interesse nazionale, non solo per la ripresa economica, ma per una miriade di aspetti che toccano, direttamente o indirettamente, qualsiasi ambito della vita sociale. Potrebbe sembrare ovvio ricordarlo in questa sede, ma ipotizzando l’incontro con un lettore non addetto ai lavori – magari un immaginario politico sprovveduto! – è bene rimarcare come la funzione dell’architettura sia fondamentale nella vita di un paese. È la disciplina di riferimento per disegnare gli spazi delle nostre azioni, indispensabile per il risanamento delle città in crisi e la riorganizzazione delle aree metropolitane, per il recupero dei centri storici e la rivitalizzazione degli antichi borghi, per la tutela del territorio e del paesaggio, per il recupero e la valorizzazione dei beni culturali, per la generale riconfigurazione territoriale, che inquadri le attività produttive nell’ottica della giustizia e della sicurezza sociale e preveda il potenziamento delle reti infrastrutturali, per garantire la qualità dell’edilizia pubblica e privata, investendo infine anche la sfera del design nelle sue varie componenti. Ma al di là di tutto ciò, c’è da aggiungere che l’architettura, oggi come non mai, deve essere intesa come disciplina che persegua le ragioni dell’equilibrio. Equilibrio in tutte le sue forme e in termini assoluti. Soprattutto equilibrio ambientale, a difesa dell’habitat naturale. Equilibrio che si opponga alla dissipazione dissennata delle risorse, che contribuisca drasticamente alla riduzione dell’inquinamento di acque, cieli e terre, che ponga di nuovo l’uomo nel baricentro delle forze, tornando a valorizzarne l’innato spirito di cooperazione, che una volta sapeva agire in armonia con il genius loci, contro le logiche dei potentati economici e del top management aziendale, ripiegati esclusivamente sui propri interessi, con uno sguardo miope, rivolto del tutto al proprio interno, che non si preoccupa di quanto può succedere negli spazi circostanti, se non per quel poco a cui lo obbligano le griglie normative. Oggi, mentre i piccoli imprenditori sono ridotti al collasso, la grande imprenditoria globalizzata si pone nell’ecosistema in termini di estraneità, come una sorta di tumore maligno all’in- terno di un corpo di cui tradisce l’equilibrio, che si espande gradualmente soffocandone le funzioni, assorbendone le energie, assottigliandone la reattività, fino a consumarlo oltre l’estremo limite e portandolo quindi alla morte. Ogni giorno che passa è teatro di un conflitto subdolo, che nasconde i suoi segni dietro le luci e i colori smaglianti del mercato globale, ma che in realtà si realizza in termini di ingiustizia sociale e di attacco ai più elementari principi ecologici, al di là di ogni possibile sostenibilità. A fronte dell’arricchimento smodato, sorgono architetture smodate, fuori misura, fuori scala, fuori luogo, indici di uno status symbol che assurge ad allegoria dello strapotere che si abbatte su popolazioni sempre meno reattive, indebolite economicamente e sempre meno capaci, dal punto di vista socioculturale, di avanzare ogni sorta di strumento d’opposizione. Da tempo, ormai, i grandi interessi privati viaggiano su un binario opposto a quello dei bisogni pubblici. È questa la contraddizione che alimenta una dimensione conflittuale sempre più pressante. Purtroppo, alla fragilità dei nostri ambienti naturali e dei nostri spazi insediativi, corrisponde un’analoga fragilità sociale. Le collettività, ora ancor più sfibrate dall’attacco del virus, non riescono a contrastare il degrado ambientale, l’inqui namento, l’abbandono dei centri storici, il disfacimento di luoghi d’eccellenza che furono significativi cardini della storia umana; anzi, impegnate in quelli che potrebbero essere individuati come esercizi a vuoto, sono loro stesse che, invischiate in automatismi comportamentali, contribuiscono enormemente ad aggravare le problematiche in atto. Nel calderone del consumismo globale, l’uomo sta annientando sé stesso, in progressione direttamente proporzionale alla sua convinzione dell’impossibilità di incidere sulla realtà. È paradossale! Noi tutti abbiamo responsabilità nella difesa del mondo in cui abitiamo da millenni e dove per millenni ancora dovremmo sperare di continuare a vivere. È fuor di dubbio che in quest’ottica possano svolgere un ruolo d’eccellenza le compagini socioculturali che abbiano a cuore un vero miglioramento della qualità della vita, secondo prospettive di crescita responsabile, di benessere non solo di tipo economico, ma anche biologico e intellettuale (morale e psichico). Tra queste dovrebbero collocarsi anche gli Ordini professionali. In particolare, gli Ordini degli Architetti potrebbero assumere una funzione pubblica di primaria importanza, rilanciando, nella giusta direzione, valori e conoscenze disciplinari, al fine del raggiungimento di una consapevolezza interna, da una parte, e di una coscienza esterna, dall’altra. Un Ordine dovrebbe svolgere, pertanto, un vero e proprio ruolo di politica culturale, che di conseguenza finirebbe inevitabilmente per avere risvolti di taglio socioeconomico. In questo senso, la funzione principale dovrebbe essere quella di sollecitare, galvanizzare la classe politica, incidendo e interferendo, più che quella della mera autotutela o del perseguimento di finalità corporativistiche. In tal modo potrebbe ritagliarsi nella vita pubblica uno spazio significativo di grande utilità, che potrebbe garantire un contributo essenziale in risposta alle istanze della società in crisi, assottigliando così l’incertezza del futuro. Giovanni Fontana
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