11 minute read

Stefano Manlio Mancini

Next Article
Walter Casali

Walter Casali

di Stefano Manlio Mancini

Rispetto ad alcuni decenni fa, la condizione femminile è variata moltissimo. Tuttavia, anche se sul piano dei diritti l’uguaglianza con l’uomo è stata acquisita, si verificano ancora episodi di discriminazione in ambito lavorativo e sociale. Alle grandi difficoltà che ne derivano, si aggiungono ancora pregiudizi e violenze. Sono numerosi i casi in cui la donna viene minacciata, stuprata, violentata o addirittura uccisa per mere deficienze sul piano etico e culturale. Questa considerazione costituisce un motivo ulteriore per rivisitare la vicenda umana e professionale di Artemisia Gentileschi, grande donna e artista geniale, vivace interprete del suo tempo, alla quale nel 2016 fu dedicata una prestigiosa mostra a Roma, negli spazi di Palazzo Braschi1 [n.d.r.].

Advertisement

Artemisia Gentileschi e il suo tempo

Battezzata due giorni dopo la sua nascita nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, la piccola Artemisia diventò orfana di madre nel 16054. Fu verosimilmente in questo periodo che ella si accostò alla pittura: incoraggiata dal talento del padre, la bambina spesso lo osservava affascinata mentre si cimentava con i pennelli, fino a sviluppare una venerazione totale e una lodevole voglia di emulazione. La formazione della Gentileschi avvenne, nell’ambito artistico romano, proprio sotto la guida del padre, che fu perfettamente in grado di sfruttare al massimo il precoce talento della figlia. Ripercorrendo il percorso didattico proprio degli aspiranti pittori del tardo Rinascimento, Orazio avviò la figlia all’esercizio della pittura per prima cosa spiegandole come predisporre i materiali adoperati per l’esecuzione dei dipinti: la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli con setole e pelo animale, l’approntamento delle tele e la trasformazione in polvere dei pigmenti furono tutte pratiche che la piccola metabolizzò nei primi anni. Appresa una certa confidenza con gli strumenti del mestiere, Artemisia perfezionò le proprie capacità pittoriche soprattutto attraverso la copia delle xilografie e dei dipinti che il padre aveva sotto mano – non era raro, per gli atelier dell’epoca, essere forniti di incisioni di personaggi come Marcantonio Raimondi e Albrecht Dürer – e, contestualmente, sostituì la madre ormai defunta nelle diverse incombenze della conduzione familiare, dalla gestione della casa e del vitto all’assistenza dei suoi tre fratelli minori. Frattanto, la Gentileschi fece propri stimoli decisivi anche dalla intensa scena artistica capitolina: fondamentale fu la conoscenza della pittura di Caravaggio, artista che aveva sbalordito il pubblico realizzando gli scandalosi dipinti nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, inaugurata nel 1600, quando Artemisia non aveva che sette anni . Alcuni critici del passato hanno addirittura supposto l’ipotesi di una frequentazione diretta tra la Gentileschi e Caravaggio, che spesso visitava lo studio di Orazio per procacciarsi le travi da sostegno per le proprie opere6. Molti, tuttavia, ritengono questo particolare poco credibile alla luce delle incalzanti restrizioni paterne, a causa delle quali Artemisia studiò la pittura confinata entro le mura domestiche, non potendo servirsi degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi: la pittura, all’epoca, era infatti reputata una pratica quasi esclusivamente maschile, e non femminile. Pur tuttavia, la Gentileschi subì ugualmente l’influsso della pittura caravaggesca, anche se mutuato attraverso le pitture del padre . Nel 1608-1609 il rapporto tra Artemisia e il padre mutò da un discepolato ad una collaborazione attiva: la Gentileschi, infatti, incominciò ad intervenire su alcune tele paterne, per poi creare piccole opere d’arte autonomamente (anche se di dubbia attribuzione), dove dà prova di aver recepito e assimilato gli insegnamenti del maestro. Fu nel 1610 che concepì quella che secondo vari critici è la tela che sancisce ufficialmente l’entrata della Gentileschi nel mondo dell’arte: si tratta del notevole Susanna e i vecchioni. Nonostante i differenti dibattici critici – molti, infatti, sospettano a ragione aiuti da parte del padre, deciso a far conoscere le precoci qualità artistiche della figlia-allieva – l’opera si può ben reputare la prima prova artistica di rilievo della giovane Artemisia. La tela lascia inoltre intuire “come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia stata indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci”8 . Anche se i pochi documenti giunti fino a noi non ci danno notizie particolareggiate sulla formazione pittorica di Artemisia, si può supporre che abbia avuto origine nel 1605 o nel 1606 e che sia culminata intorno al 1609. Questa datazione viene confermata da diverse fonti: innanzitutto, una nota lettera che Orazio inviò alla granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612, nella quale egli asseriva con vanto che la figlia in soli tre anni di apprendistato aveva raggiunto una perizia paragonabile a quella di artisti maturi:9 “Questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. Da questa missiva, dunque, possiamo facilmente desumere che la Gentileschi sia diventata artisticamente matura tre anni prima del 1612, cioè nel 1609. Ad avvalorare questa tesi c’è un’altra fonte, ossia la ricca documentazione che ricorda le diverse committenze rivolte a Orazio Gentileschi posteriori al 1607: ciò lascia immaginare proprio che la figlia abbia cominciato a collaborare con lui a partire da questa data circa. Certo è che la Gentileschi nel 1612 era ormai divenuta un’esperta pittrice, a tal punto che suscitò perfino l’ammirazione di Giovanni Baglione, uno dei suoi biografi più conosciuti, il quale scrisse che: “Lasciò egli figliuoli, ed una femmina, Artemisia nominata, alla quale egli imparò gli artificj della pintura, e particolarmente di ritrarre dal naturale, sicché buona riuscita ella fece, e molto bene portossi”. (Giovanni Baglione10) Cresciuta quindi nel mondo del naturalismo caravaggesco, Artemisia si formò, come abbiamo già detto, nella bottega paterna, che primeggiava nella riproduzione realistica di materiali e particolari quotidiani. La giovane poi acquisì da Orazio l’attitudine a registrare tutto ciò che osservava e sviluppò una notevole capacità di ritrarre la figura umana, che è il tratto per il quale è più conosciuta ed apprezzata.

Lo stupro - Questa sua innata inclinazione per le Belle Arti fu motivo di vanto e d’orgoglio per il padre Orazio, che nel 1611 decise di assegnarle come guida Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil con cui collaborava all’esecuzione della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Agostino “lo smargiasso” – come era spesso soprannominato – era sì un pittore talentuoso, ma aveva un’indole irascibile e sanguigna e un passato più che burrascoso: oltre ad essere implicato in diverse traversie giudiziarie, era un furfantesco sperperatore e per di più fu anche mandante di svariati omicidi11. Malgrado ciò, Orazio Gentileschi aveva grande ammirazione di Agostino, che frequentava costantemente la sua abitazione, e fu felicissimo quando acconsentì ad avviare Artemisia alla prospettiva. I fatti, però, presero un andamento tutt’altro che piacevole. Tassi, infatti, perse la testa per Artemisia (che all’epoca aveva solo diciotto anni) e tentò di sedurla diverse volte, sebbene la sua passione non fosse assolutamente corrisposta. Egli, infatti, era volto ad una strumentalizzazione erotomane del corpo femminile, e, quando, nel maggio del 1611, subì l’ennesimo rifiuto, approfittò dell’assenza di Orazio e stuprò Artemisia. Questo evento doloroso, universalmente famoso, condizionò in modo tragico la vita e la carriera artistica della Gentileschi che, vistasi portare via la propria verginità, restò sconvolta12 . L’efferato stupro avvenne nell’abitazione dei Gentileschi in via della Croce, con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e di una tale Tuzia, vicina di casa che, in assenza di Orazio, era solita accudire la ragazza. Artemisia raccontò l’avvenimento con parole agghiaccianti: “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”. (Artemisia Gentileschi13)

Il processo - Dopo aver stuprato la ragazza Tassi arrivò perfino a blandirla con la promessa di sposarla, così da porre rimedio al disonore causato. Occorre rammentare che all’epoca vi era l’opportunità di estinguere il reato di violenza carnale allorché fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, contratto tra l’accusato e la persona offesa: d’altra parte, all’epoca, si riteneva che la violenza sessuale danneggiasse una generica moralità, senza oltraggiare in primo luogo la persona, sebbene questa fosse “coartata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale”14 . Artemisia cedette dunque alle lusinghe del Tassi e si comportò more uxorio, seguitando ad avere rapporti intimi con questi, nella speranza di un matrimonio che non avvenne mai. Orazio, da parte sua, non fiatò sull’episodio, sebbene Artemisia l’avesse informato immediatamente. Fu soltanto nel marzo del 1612, quando la figlia scoprì che Tassi era già sposato, e quindi impossibilitato al matrimonio

Tassi, inviò una rovente querela a papa Paolo V per sporgere denuncia al suo perverso collega, accusandolo di aver deflorato la figlia contro il suo volere. La petizione così recitava: “Una figliola dell’oratore [querelante] è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo olre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sue chimere abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et pechè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento”16 . Fu così che iniziò la vicenda processuale a carico del Tassi. La Gentileschi era ancora fortemente sconvolta dall’abuso sessuale, che non soltanto la condizionava sotto il profilo professionale, ma la umiliava come persona e, oltre a ciò, infangava il buon nome della famiglia. Ciò nonostante ella affrontò il processo con una apprezzabile dose di coraggio e forza di spirito: ciò non fu cosa da poco, tenendo conto che l’iter probatorio fu tortuoso, intricato e particolarmente aggressivo. Il corretto andamento dell’attività giudiziaria, infatti, fu continuamente pregiudicato dall’impiego di falsi testimoni che, noncuranti dell’eventualità di un’accusa per calunnia, mentirono sfacciatamente sulle circostanze conosciute pur di ledere la reputazione della famiglia Gentileschi. Artemisia, secondo la consuetudine, fu inoltre costretta parecchie volte a visite ginecologiche lunghe ed umilianti, durante le quali il suo fisico fu sottoposto alla eccessiva curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio addetto a stilarne il verbale: le sedute, in ogni caso, provarono una concreta lacerazione dell’imene accaduta quasi un anno prima18. Per appurare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, le autorità giudiziarie ordinarono addirittura che la Gentileschi fosse soggetta ad un interrogatorio sotto tortura, così da accelerare – secondo la mentalità giurisdizionale diffusa dell’epoca – l’accertamento della verità. Il supplizio scelto per l’occasione era quello cosiddetto “dei sibilli”, e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l’azione di un randello, si stringevano sempre di più fino a stritolare le falangi. Con questa dolorosa tortura Artemisia avrebbe corso il rischio di restare priva delle dita per sempre, danno enorme per una pittrice della sua grandezza. Lei però voleva vedere ammessi i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a soffrire, non ritrattò la sua deposizione19 . Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per “sverginamento” e, oltre a ingiungergli una sanzione pecuniaria20, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. Come era prevedibile, lo smargiasso scelse l’allontanamento, pur tuttavia non scontò mai la pena: egli, infatti, non si allontanò mai da Roma, poiché i suoi potenti committenti romani reclamavano la sua presenza fisica in città. Ne risultò che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, al contrario, la sua reputazione a Roma era completamente compromessa: erano molti i romani a prestare fede ai testimoni prezzolati del Tassi e a considerare la Gentileschi una “puttana bugiarda che va a letto con tutti”21. Sconcertante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista22 . Nonostante il trauma, in questo periodo arduo Artemisia realizzò alcune delle sue opere più ispirate, tra cui la Danae (1612 ca.). Risulta difficile stabilire con sicurezza quali altri pittori l’artista conoscesse direttamente ma è certo che la pittrice recepì i gesti eloquenti, la luce drammatica e gli scorci intimi che caratterizzavano il linguaggio visivo della pittura romana del tempo.

This article is from: