NUR - Rivista di Cultura e Identità di Sardegna n° 0

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Illustrazione: John Picking - 2001


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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

II° Serie - Numero 0 Ottobre 2011 Autorizzazione del Tribunale di Cagliari N. 25/99 del 23-07-1999

Direttore responsabile Gavino Maieli Condirettore M. Antonietta Seu Redazione

Enrico Fanni Giannella Bellu Daniele Cosseddu Erica Demuru Andrea Nateri Veronica Maieli Marta Marceddu

Roberto Rattu Nawal Razik Elisabetta Saba Marzia Sanna Josephine Sassu Maria Sassu Annamaria Sechi

… E s’aberint is gennas. Chene cundennas torra a cumenzai su camminu. In sa punta arziada de su destinu ti torru a attoppai … po cantai. NUR ses tui aintru e no ddu sciria, ses tui frori de scraria po dis lieras. Scedas noas bettimì po comprendi sa notti de dogna dì.

…E s’aprono le porte. Senza remore riprendi il tuo cammino. Nel punto più alto del destino è bello rincontrarti … per cantare. NUR sei tu dentro e non sapevo, sei tu fiore d’asfodelo per giorni liberi. Buone nuove portami per comprendere la notte di ogni giorno.

Anna Cristina Serra

Direzione e Amministrazione Via S’arrulloni 28 09126 Cagliari c/o Gavino Maieli Cell: 339.8847966 – 348.2922202 Email: direttore@nursardegna.it Web: www.nursardegna.it

Edizioni NURJANA PROGETTO GRAFICO YOUSARDINIA per Edizioni NURJANA STAMPA Max Grafica di Massimiliano Manca Via Montello 18/a - 09122 - Cagliari Tiratura: 150 copie Chiuso in tipografia il 28/09/2011 Per la pubblicità: YOUSARDINIA - Tel: 349.2265243

Per augurio alla nuova rivista e per testimonianza d’amore alla parola “NUR”. che sia parola di radici lontane capace di far fiorire nuove speranze Copertina: Gianni Argiolas - 2001


S O M M A R I O

Nur - A. Cristina Serra Con quei Padri nel cuore - Gavino Maieli Pensamentu de unu becciu piscadori de Sa Marina - Aquilino Cannas Nur, il primogenito dei sardi - Sergio Ginesu La più antica attestazione della parola “nuraghe” - Giulio Paulis Nur - Giovanni Lilliu La Sardegna fra Ottocento e Novecento - Manlio Brigaglia Una parabola discendente - Carlo Pillai Sos Alighieris sardos - Larentu Ilieschi A is “poetas” campidanesus - Faustinu Onnis Senza peli sulla lingua - Intervista a Leonardo Sole Balente - Nereide Rudas Aquila - Mario Licheri Musica in piazza - Francesco Alziator S’Istoria manna de Nur - Francesco Masala Sardegna, terra di canti ed incanti - Giacomo Serreli Due culture musicali a confronto - Angelo Filippini Un “Inno” di emozioni - Luciano Sechi Un Coro nel canto, un Coro nella vita - Paolo Puddinu Il lato oscuro della grande Madre - Claudia Reghenzi Najuka - Vincenzo Pisanu Lo sciamanesimo in Sardegna - Intervista a Dolores Turchi Sa pipia ‘e maju - Roberta Muscas A volte serve una mano d’aiuto - M. Giuseppina Gregorio La basilica di Santa Croce - Giancarlo Buffa Verdaderas descripcion de la Isla de Sardeña - M. Cristina Cannas Y narrame como aman los poetas - Gabriella Orgolesu Ispadas de sole - Franceschino Satta E deo, Maria Carta - Maria Carta Ricordo Maria - Francesco Cossiga Quella voce tra immaginario e realtà… - Salvatore Mannuzzu Caro direttore… - Lycia Santos do Castilla L’ultimo canto libero - Andrea Parodi Ricordo di Fabrizio De Andrè - Raffaella Saba In viaggio con Sergio Atzeni - Marco Melis Mio padre Gavino Delunas - Vanda Delunas “Sardi fuori Sardegna” tra solidarietà e cultura - Tonino Mulas Bergamo e la Sardegna: impegno di un’amicizia - Mario Pomesano Bentu de Terra Manna - Francesca Utzeri Marcinelle - Annamaria Sechi Onorevole Presidente, Onorevoles Consizeris… - Battista Isoni Attualità di un processo di duemila anni fa - Virgilio Ladu Domenico - Giovanni Maieli

Note storico-politiche su lingua e cultura in Scozia - Walter Perrie

Questo filtro spremuto alle brughiere e dal seno dei boschi, dai vertici dei monti e dal respiro degli abissi marini ti correrà le vene in un languore dolce e amaro di malinconia che forse chiamerai mal di Sardegna

Marcello Serra

Minoranze linguistiche: il Cimbro - Alessandro Norsa De “Sa Scomuniga…” - Faustinu Onnis Un saio d’amore e di speranza - Intervista a padre Salvatore Morittu Ballo a tre passi - Intervista a Salvatore Mereu La tessitura in Sardegna: Sarule - Natalia Cusinu Cucina di Sardegna - Giovanni Fancello Barbagia - Vanna Flore Anche questa è Sardegna - Franco Lissia Terra di mandorle amare - Raimondo Manelli La poesia improvvisata in Sardegna - Liceo Ginnasio “G. Asproni” – Nuoro Sos sinnos - Liceo Scientifico “A. Segni” – Ozieri

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Con quei Padri nel cuore

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uando sette anni fa NUR dovette sospendere le pubblicazioni, per motivi che è sempre la vita a stabilire al di là della volontà degli uomini, rimase fermo un proposito: tornare ad esserci, con identica convinzione, con rinnovato impegno. Quel proposito si è realizzato: siamo di nuovo qui, come allora, con la stessa passione e con la stessa dignità che hanno segnato anni e anni di intensa partecipazione. on questo Numero Zero NUR ritorna a nuova vita, con lo stesso spirito che per diversi anni ci ha consentito di essere presenti nella vita culturale della Sardegna. Molte cose nel frattempo son cambiate, da un punto di vista culturale, economico, sociale. E non sempre in meglio, anzi! Essere di nuovo partecipi rappresenta quindi quasi un dovere, anche per rispetto dei valori forti e dei forti legami che ci uniscono a tante persone che ci son state vicine allora e che ancora hanno la voglia e l’entusiasmo per essere protagonisti insieme. olte cose son cambiate, a cominciare dalle tecnologie moderne che allora non c’erano e che oggi offrono ben altre possibilità. Cercheremo di utilizzarle con intelligenza, potendo peraltro contare su forze giovani ed entusiaste. Un progetto che si basava sul motto “NUR: dal passato il futuro della sardità”, non poteva del resto non ricorrere alla collaborazione di persone giovani che avessero, e non solo anagraficamente, un futuro davanti. E’ stato però inatteso e sorprendente l’entusiasmo con cui ragazzi e ragazze, in Sardegna e fuori Sardegna, hanno accettato di mettere a disposizione la loro curiosità, la loro freschezza, la loro voglia di non perdere le radici ma di andare a scoprirle nella loro profondità, misurandosi in una esperienza del tutto nuova, stimolante ma non priva di incognite come quella che caratterizza la vita di una rivista culturale. Si è lavorato a lungo per favorire questo incontro di forze nuove e spesso diverse tra loro, per creare una miscela positiva e propositiva tra antico e moderno, tra passato e futuro. Ora si può dire che il gruppo ha iniziato a prendere forma e si sta impadronendo dei nuovi strumenti, contribuendo con idee, con proposte, con allegria, a costruire una nuova “palestra” di cultura come lo fu S’ISCHIGLIA di Angelo Dettori e di Aquilino Cannas. el preparare questo Numero Zero abbiamo ritenuto però che fosse giusto e doveroso, prima di impegnarci con tutte le nostre energie in questa nuo-

va avventura, dedicare un pensiero ai tanti che ci hanno accompagnato nella prima esperienza di NUR. Molti ormai devono fare i conti col carico degli anni, molti non ci sono più; molti son stati i nomi importanti, tanti i nomi meno noti ma non per questo meno cari. Da lì l’idea di un numero che riportasse momenti della vecchia esperienza, un pezzetto di ognuno per mettere insieme un mosaico, un pensiero unico di quello che NUR è stata e ha significato. Piccoli frammenti, tanti semi, oseremmo dire, da lanciare in un terreno che ci sembra fertile, e nel quale cercare di far germogliare altre piante che nel tempo possano crescere forti e rigogliose. Un passaggio di testimone, quindi, un “ponte” tra l’esperienza vissuta e quella che ci siamo proposti di costruire. Un omaggio, certo, ma anche la promessa di un impegno. n pensiero particolare va tuttavia a chi a suo tempo ha seminato e curato i germogli di allora: Aquilino Cannas, Faustino Onnis e Lorenzo Ilieschi. Riuscire a ricostruire qui, in poche righe, il loro ruolo, il peso che hanno avuto, singolarmente e insieme, nella storia della cultura sarda, non è cosa semplice. Sicuramente l’esperienza di S’ISCHIGLIA è quella che di più ha caratterizzato la loro vita intellettuale. La loro opera però non può essere compresa compiutamente se non viene inquadrata nel tempo in cui hanno vissuto. Erano anni particolari, anni di profondi cambiamenti nella realtà economica e sociale della Sardegna. Erano anni di dolorose emigrazioni verso terre sconosciute, verso popoli diversi e non sempre disposti all’accoglienza, anni di duri sacrifici e di grandi fatiche per venir fuori da una miseria non solo economica senza pari. Ma proprio in quella sofferenza sono germogliati i semi di una visione nuova delle cose, una visione non più chiusa nella realtà immobile e immutabile dei nostri villaggi, sempre uguale a se stessa, ma disponibile alla novità, all’apertura. La poesia registrava tutti questi fermenti, e attraverso la poesia e i dibattiti su di essa si cercavano nuove strade, nuove soluzioni che andavano al di là del semplice verso. Durissime al proposito le diatribe tra i sostenitori della poesia in rima e quelli della poesia a versi sciolti, laddove lo scontro non riguardava semplicemente un modo diverso di scrivere, ma un modo diverso di concepire la realtà, mettendo di fronte chi voleva rimanere ancorato al passato, alla immobilità del passato, e chi invece, pur salvaguardando la specificità di una storia

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incancellabile, era disposto a guardare oltre, a misurarsi con possibilità diverse, e sino al momento inesplorate. Erano anni in cui S’ISCHIGLIA proponeva riflessioni di straordinaria importanza per la nostra terra, dai temi dell’identità (percepita come qualcosa di poco chiaro, vissuta “d’istinto”, per cui si capiva che essere sardi doveva pur avere un significato, che però rimaneva da definire nei suoi contorni e nella sua complessità), ai temi del campanilismo, volti al superamento di modalità tribali, spesso infantili, che dividevano, e ancora purtroppo dividono, sassaresi e cagliaritani, campidanesi e logudoresi, in un intreccio di posizioni ridicole e sterili per cui per esempio ancora oggi si discute, ma è un modo di ucciderla, su quale sia la “vera” lingua sarda. E così fino alle sollecitazioni verso una poesia che fosse sempre più capace di “leggere” in profondità l’anima della Sardegna e verso le soluzioni che la narrativa in lingua sarda può offrire. Senza dimenticare le durissime prese di posizione sulle leggi non scritte per le quali solo con la morte di chi consideri nemico puoi soddisfare il tuo odio, sulla base di codici che tanto sangue e tanti lutti hanno scaraventato sui nostri villaggi e che non sono più accettabili in una comunità che solo nella vita può trovare il filo della speranza. Su questi temi si spendevano ore, per cercare di capire, per cercare idee nuove, per trovare le parole giuste, le più convincenti: bisognava rendersi conto che non era quella la strada da seguire, che non stava in quella cultura dell’odio il futuro della nostra terra. nni eroici, si può dire, anni nei quali scrivere in sardo non era considerato propriamente un merito, anzi spesso era motivo di denigrazione se non di scherno. Eppure è grazie a quel lavoro umile, quasi silenzioso però tenace, che oggi esiste la possibilità di non scomparire, la possibilità di avere dei progetti culturali che non trascurino le ricchezze del passato, ma che su quelle ricchezze costruiscano le fondamenta per una cultura nuova, moderna, aperta al mondo. Aquilino Cannas, Lorenzo Ilieschi, Faustino Onnis, in questo processo hanno avuto un ruolo determinante, da grandi Padri che per questo scopo si sono spesi con tutta la loro passione e il loro entusiasmo, senza risparmio. Con Mario Licheri, oggi “disterradu in Franza”, al quale va un fortissimo abbraccio, tutti insieme si era, semplicemente, “quelli di S’ISCHIGLIA”. ltre a queste considerazioni, che non esauriscono certo il discorso e non completano il quadro di quanto in quegli anni si è fatto, e per il quale bisognerà avviare un lavoro specifico, restano le riflessioni personali. Dire del rimpianto per persone che ti hanno regalato a piene mani la loro esperienza, il loro affetto, la loro passione, è del tutto impossibile. Non si possono descrivere né le emozioni, né gli insegnamenti, né le attenzioni che giorno per giorno, per decenni, questi uomini ti hanno trasmesso. Se oggi NUR c’è è perché ci sono stati questi Maestri, premurosi, dolci, severi, esigenti: Sardi! Sardi nella

loro dignità, Sardi nella loro combattività, Sardi nella loro dolcezza: orgogliosi nel portare avanti le loro idee, granitici nel tener fede ad un impegno, solenni nel trasmetterti un valore. Straordinari nel consegnarti una bandiera! “E non può provare a dir di no!” esclamavano quando si trattava di affidare compiti delicati ed impegnativi che comportavano una grande responsabilità. Sorridendo, ma con ben poco da ridere: non si poteva dir di no, non per loro, ma per la tua terra, che loro ti hanno aiutato ad amare in profondità e per la quale era giusto mettere a disposizione quell’amore grande. E non si può dire di no ancora oggi: la grandezza dei padri sta nel riuscire a trasmettere un impegno, una motivazione ai figli. E loro sono stati dei grandi Padri, capaci di trasmettere un patrimonio grandissimo di idealità e di onestà intellettuale. i mancano. Certo che ci mancano! E ci mancheranno tanto, sempre. Ma sappiamo che la vita è così. Gai est! Ed è da accettare, perché questo è il naturale corso delle cose: il dramma, e loro lo hanno anche vissuto, pesantemente, semmai è quando sono i padri a seppellire i figli. Per questo è giusto continuare in serenità, con la stessa dignità e lo stesso orgoglio che sono stati capaci di insegnare, è giusto continuare anche per loro perché molto di loro c’è in quello che è possibile fare. NUR quei valori li terrà stretti e cercherà di trasmetterli anche in questa nuova edizione, sapendo che comunque, in qualunque momento, non si sarà mai soli: quei grandi Padri, nel cuore, ci saranno sempre. Con la loro ironia, con la loro dolcezza. Più vivi che mai.

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Gavino Maieli

Direttore di NUR

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Pensamentu de unu becciu piscadori de sa Marina A unu chemu seus torraus, arrenconaus in s’arruga ’e Su Fortinu, arrimaus senz’acconnortu e senz’ ’e faina, chi no c’è prus genti ’e arremu, in sa Marina. E custu e’ suzzeriu apustis de sa gherra, apustis de sa gherra su sciaccu nd’est arruttu, isciaccu mannu po tottu is appendizius: isperdiu Stampasci, mesu sderruttu Casteddu ’e Susu, Biddanoa chi no teni prus ortus e ne giardinus, e nosus!... a nosus su tempu de nd’arregolli is trastus s’hanti lassau! e pigaus si ndi funti is bascius, pigaus a unus a unus, po ci oberri buttegas e magazinus (is bascius nostrus sempri allichirius, segaus aintru ’e s’arrocca antiga, friscus de istari e callentis de ierru). Pagus o nisciunus c’est aici atturau. E no est accabau. Infattu, su mercau becciu s’hanti furau! su mercau mannu aundi portamus in carinu a bendi friscu su pisci ancora sartiendi... No! Non sa gherra ha fattu custu dannu! No sa gherra si immoi nisciunus ghetta prus arrezza a mari biu, puita finzas su mari hanti bocciu! E non po sa gherra sa genti s’e’ fuia, si finzas is cresias immoi hanti serrau! chi a ci passai de dominigu a mengianu manc’anima bia has’a incontrai,... e su logu t’hara parri unu mortoriu, una tristura de mundu isperdiu e frastimmau. Ohi Casteddu Casteddu! Chi dopu millanta e millant’annus arrutta ses in malas manus! arrutta in manus arrennegaras, arrutta e sfigurara,... bella chi fiasta! Bella chi fiasta in oru ’e mari intra a montis e intra a istanis comenti de giunchiglius e de arrecaras cuncordara... Bella chi fiasta! Bella chi fiasta in bell’arias limpia e cumpria: asseliara!... E immoi brutta e dirrutta: iscempiara. Ohi Casteddu! Casteddu bella che reina! Ohi! chi no tenis prus genti ’e arremu, in sa Marina. 5

Aquilino Cannas


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Nur, il primogenito dei sardi Sergio Ginesu

Istituto Scienze Geologico Mineralogiche Università degli Studi di Sassari

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on capita di sovente, nella vita di un ricercatore abituato a ricostruire gli eventi che modificano il paesaggio e a rideterminare le forme antiche di un territorio, di imbattersi in un deposito fossilifero ed in resti fossili che permettono una più attenta ricostruzione degli eventi geologici più recenti. Studi precedenti avevano permesso di ritrovare almeno due giacimenti nei quali si percepiva la presenza dell’uomo, sebbene essi risalissero a periodi in cui si ritiene che l’uomo come specie ancora non esistesse. Proseguendo questi studi abbiamo condotto una campagna di ricerche per ricostruire il territorio della Sardegna come doveva essere all’arrivo del primo uomo, nel Pleistocene medio superiore (500mila – 200mila anni fa). Durante questa attività ci venne segnalata la presenza di un giacimento fossile all’interno di una piccola ed angusta cavità carsica in territorio di Cheremule, nel Mejlogu settentrionale. Il giacimento si rivelò subito ricchissimo ma quasi banale, caratterizzato dalla nota fauna di quel periodo rappresentata da cervi, specie di volpi , animaletti simili ai conigli ed altri piccoli roditori. Ciò che invece attirò la nostra attenzione, fu la posizione del giacimento all’interno della grotta; infatti, anziché trovarsi in prossimità dell’ingresso, le ossa giacevano sparse verso la fine del condotto. Si intensificò in tal modo l’analisi di questo territorio; tale analisi si concretizzò nella scoperta dei resti di quello che possiamo considerare il primogenito dei sardi. Per esperienza personale ho imparato a non trascurare la toponomastica del luogo; la stessa grotta prende il nome di Nurighe, con un’etimologia che a noi sardi è familiare, e ciò fu determinante nel convincermi a battezzare quest’uomo Nur. Uno dei dati più importanti emersi dallo studio è l’età della colata di basalto che ha chiuso l’ingresso della casa di Nur. La colata ha un’età assoluta di 300 mila anni; per la prima volta si trovano resti umani in Sardegna così antichi e per la prima volta si può avere una datazione così certa della sua età. Nur è rimasto sepolto per trecentomila anni a lato della strada statale 131 Carlo Felice, una strada che tutti i sardi hanno percorso almeno una volta nella loro vita, passando senza saperlo vicino a quei resti quasi come in un inconsapevole atto di riverenza verso gli antichi avi.

La piu’ antica attestazione della parola “nuraghe” Giulio Paulis

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n’iscrizione monumentale latina del I sec. d.C. incisa sull’architrave del nuraghe “Aidu Entos”, nei pressi dell’antica stazione di Molaria, ha restituito recentemente nella determinazione locale in Nurac Sessar la più antica attestazione della parola “nuraghe”. Essa precede di ben mille anni quelle immediatamente successive, quali nurake de Guthoppor (CSP, 311), nurake de coruos (CSP, 430), nurake d’annauos (CSP, 403), nurake de gollettoriu (CSP, 202), ecc., anch’esse riferentisi a delimitazioni confinarie. Però si pone un problema interpretativo, che interessa tanto l’epigrafista quanto il linguista: il termine nurac del costrutto locativale in Nurac Sessar è l’abbreviazione grafica della forma piena nurace, intesa come ablativo sing. di un tema in –ax/-acis, oppure è sic et simpliciter la forma protosarda dell’appellativo per “nuraghe” non ancora integrata all’interno del sistema declinazionale latino? Alcune considerazioni inducono a propendere per questa seconda eventualità e quindi per l’ipotesi che in paleosardo la parola per “nuraghe” fosse nurak.

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n questo mondo che cambia anche noi sardi dobbiamo definirci in un’identità nuova. Una identità forte, robusta, che viene dalle radici profonde, fondamento del presente, ma che guarda e che progetta per il tempo a venire con uomini nuovi. Una identità abile a confrontarsi con l’Europa. Ma l’Europa delle tante culture, delle tante nazionalità, delle tante patrie; l’Europa delle regioni e dei popoli. Senza privarci della luce, del senso della civiltà del Mediterraneo. L’identità in molti sardi è ancora allo stato di emozione, meno di coscienza, meno di ragionamento che porta a riconoscerci in tutto nella propria terra, a essere cittadini, a titolo pieno, della nazione Sarda. E ciò senza negarci al respiro del mondo. Dunque cuore e cervello, radici e ali. La nostalgia, che ci porta un balsamo di conforto nel nostro luogo e ci prende a scoramento in terra straniera, non basta per l’impresa che ci aspetta nel secolo che viene. Identità, autonomia è anche capacità e intelligenza di fare. Vuol dire camminare da sé, tracciare i propri sentieri. I sardi hanno un codice genetico superbo. Lo pongano a frutto in una frontiera nuova.

Giovanni Lilliu

La Sardegna fra Ottocento e Novecento

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’età giolittiana è considerata una sorta di “età dell’oro” nella storia del nostro Paese. Anche in Sardegna essa è stata un periodo di crescita e di modernizzazione: gli esercizi industriali raddoppiano, gli occupati crescono del 50 per cento, l’impiego dei cavalli a vapore aumenta. Lo stesso quindicennio che vide il decollo dell’Italia come potenza industriale fu anche contrassegnato da una serie di elementi negativi, primo fra tutti il radicalizzarsi della “questione meridionale”, cui corrispose l’ingigantirsi del fenomeno dell’emigrazione. Anche i più importanti eventi modernizzatori dell’età giolittiana in Sardegna ebbero risvolti di forte malessere sociale. Nel settembre del 1904 le miniere videro l’eccidio di Buggerru (2 morti e 11 feriti nello scontro tra soldati e minatori in sciopero), nel maggio 1906 l’aumento generalizzato del costo della vita diede luogo, soprattutto nella Sardegna meridionale, ad una serie di vere e proprie sommosse che da Cagliari a Quartu, a Selargius, a Pirri, ai diversi centri dell’Iglesiente, al Sarrabus, al Gerrei, sino a Bonorva, Cossoine, Terranova si conclusero con oltre 10 morti (a Cagliari, a Gonnesa, Nebida, Villasalto, Bonorva), diverse decine di feriti, più di cento arresti nella sola Cagliari.

Manlio Brigaglia

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Una parabola discendente

L’uso del sardo da parte degli intellettuali dal riformismo sabaudo all’unità d’Italia

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ella seconda metà del XVIII secolo l’opera di svecchiamento delle strutture politico-economiche della Sardegna condotta dal Bogino durante il regno di Carlo Emanuele III si estese, come è noto, anche al campo della cultura. In questo clima di generale cambiamento che naturalmente abbracciò diversi altri campi, notevole fu il ruolo esercitato dalle nuove idee provenienti d’Oltralpe col conseguente allineamento della nostra cultura con quella europea. E’ la novità di questo nuovo clima congiunta col trauma della sostituzione nella burocrazia e nelle scuole dell’italiano allo spagnolo che ha contribuito alla nascita di una coscienza nazionale sarda.

Carlo Pillai


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Correddada in LA minore

Sos Alighieris sardos Larentu Ilieschi In Sardigna, dognunu a modu sou, cheret sa limba sarda unificare, e a forza de tantu inciapuzzare est naschidu unu cumitadu nou. Sos cumponentes, postos a su prou, su sardu l’ischin pagu mastigare, ma sa Regione est pronta a isborsare tantu pro issa totu faghet brou. Como, segundu cussu cumitadu, chi unu libereddu hat postu in giru, hat inie sas regulas fissadu. Barbagia, Logudoro e Campidanu, tres limbazos passadu hat in chiliru senza distingher ne paza ne ranu. Ma non si miran zertu in cuss’ispiju sos chi su sardu han sutu in su cabiju.

A is “poetas” campidanesus

Faustinu Onnis

Cantai, o fradis bonus de coru, su prexu de sa vida sempri bella: in s’abettu de dda biri prus novella in totu Campidanu e Logudoru.

Po chi su cantu siat de veras cantu capassu a s’omi’ de ddu fai intendi’ biu, cantai, cantai cun cuddu spiritu nodiu de stima o de arrabiori chen’ ‘e prantu

Cantai: su mundu riccu de virtudi, s’umanidadi pren’ ‘e valentia, sa biadesa de s’omi’ in cumpangia, su traballu in bona sorti, e sa saludi.

ma riccu di esperienzias in pelea comente s’abi po biviri in is froris, cantai, e cantai puru is oras, is coloris chi pintant sa dì cand’est a nea.

S’esistenzia, in dogna circustanzia, candu puru est in pena e in dolori, sa bellesa, sa bonesa de s’amori riccu de siendas mannas de amiganzia.

Cantai, o fradis bonus de coru, sa poesia prus bella e sa prus digna chi onorit custa terra de Sardigna in totu cantu Campidanu e Logudoru.

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Senza peli sulla lingua

La Sardegna tra passato e presente, tradizione e modernità Intervista a tutto campo con Leonardo Sole

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cosa sola sopravvive e, anzi, tende a dilagare tra i fautori della lingua e della cultura sarda: quella che possiamo chiamare “regressio ad uterum”, l’identità sentita come un rifugio nostalgico in un passato che non è mai esistito. Raramente si sente dire che l’identità vera è ciò che resta di un confronto, anche duro, con l’altro (l’Italia e il mondo).

i rara intelligenza, bravo, preparato, generoso, sensibile, rigoroso con se stesso e con gli altri, amante della giustizia e della precisione, coerente, ma anche polemico, spigoloso, permaloso, eccessivamente diretto e tutt’altro che diplomatico, a volte persino intrattabile. Sono soltanto alcune delle definizioni che si danno di Leonardo Sole, uno dei maggiori e più rappresentativi uomini di cultura sardi. L’interessato che ne pensa?

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ome far sì, a suo avviso, che in nome di una lingua sarda unica e unificata, non scompaiano o ne risentano in qualche misura le varianti linguistiche della nostra isola?

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enso che l’unico modo di trattare decentemente con gli altri consista nell’essere se stessi. Ma questo implica scelte severe che la gente non comprende e, se le comprende, non le accetta. Peccato! Perché se non sei te stesso non puoi dialogare, e quindi crescere, con l’altro.

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i tratta di un falso problema, al quale sono particolarmente affezionati i sognatori e tutti quelli che concepiscono la lingua come un dato, vale a dire come una ciambella di salvataggio cui aggrapparsi contro i marosi della vita moderna, e non come un processo. Purtroppo si tratta della maggioranza. Basti dire che in una Regione pigramente assorbita in tutt’altre faccende, che però ha avuto un colpo d’ala, quello di pensare a uno standard della lingua sarda, c’è stata una vera e propria sollevazione da parte di non pochi intellettuali sardi, rancorosamente abbarbicati alle radici uterine e non alle autentiche matrici della lingua e della cultura. Una grande occasione perduta. Purtroppo – ma questo non giustifica la lotta a testa bassa contro lo standard – ci sono stati, come al solito, non pochi equivoci.

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l problema della lingua sarda e della sua conservazione-valorizzazione. Sulla base dell’esistente, il suo parere qual è?

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o dedicato la mia vita di studioso e di uomo impegnato (anche con ruoli importanti a livello nazionale e internazionale) allo studio e alla tutela della lingua sarda. E’ stato un piacere, ma anche una sofferenza, perché tutte le volte che rientravo da una visita di studio in una delle tante minoranze linguistiche d’Europa, mi ritrovavo nella solita contraddizione: mentre tutti erano orgogliosi della loro lingua, qui in Sardegna dovevo di volta in volta dimostrare che esiste una cosa chiamata lingua sarda. Son passati trent’anni, e ancora oggi viviamo tra gli equivoci, i sotterfugi, le furberie e i particolarismi. Una

Paolo Sanna

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Balente

Nereide Rudas

Nato nel segreto dell’altura petrosa, elementare, quasi ostile cavalcava l’idea della bravura del valor e della virtù virile. Nella sfida della sua cultura combatté, ribellandosi, sul Carso.

Una patria ignota, forse oscura servì con la sua vita non servile.

della dura obbligante balentia. Io della mente e dell’avventura ignaro fu l’inutile balente d’un mondo estinto prima che esistente, futile curvatura della radente sorte ignaro fu l’immobile figura dell’effimera morte.

Soldato, bandito, giustiziere fedele alla sua cavalleria visse/morì sotto la norma ardita

Aquila

Mario Licheri

Aquila sei perché sorvoli i minuscoli roditori che si ritengono umani. Aquila eri nel deserto

dove abita Dio e l’inferno. Però, se aquila è rapace, aquila non sei, tu che mai attacchi l’agnello e l’indifeso cucciolo d’uomo.

Le penne delle tue ali sono fatte di parole leggere, di verbi affilati come arresoia lussurgesa. (ad Aquilino Cannas)

Musica in piazza

Francesco Alziator

Le trombe intessono nell’aria grave della sera estiva immensi arruffati gomitoli di suono. Come un tuono scrosciante rullano i tamburi

scordati e la babilonica ridda dei metalli che vibrano e scintillano tersi per la sua scorribanda malvagia sopra la folla muta.

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S’Istoria manna de NUR

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te cheret narrere NUR? Est una paraula indoeuropea, comente a narrere, sempre in limba indiana, su Mana o su Karma de sa “Sarditudine”. uncas, est cosa zusta, propriu in custa rivista chi leat su numene da-e custa paraula de antigoriu, de dare unu bonu saludu a su liberu de Eliseo Spiga, chi est unu contadu subra s’istoria manna de NUR. liseo est unu de sos “babbos mannos” de s’indipendentismu culturale sardu: da-e sos tempos de sa “Rivolta contr’a su colonialismu”, de feltrinellianu ammentu, a sos tempos de “sas chimbe dies de Pratobello”, cando in su Municipiu de Orgosolo bi fit iscrittu: “Inoke semus a Reprubrica”; da-e sos tempos de “Città-Campagna” a sos tempos de “Nazione Sarda” e de sa “Leze de iniziativa populare pro su bilinguismu perfettu”; da-e sos tempos de sa “Confederazione Sindicale Sarda” a sos tempos de oe, de su “Circulu rivoluzionariu pro sa sarda zenia”. u contadu de Eliseo est intituladu “Capezzoli di pietra”, comente a narrere, bortadu in limba sarda, “Cabijos de pedra” o “Simingionis de perda” o “Tittas de pedra”. Insomma, metaforicamente, “Sos Nuraghes”. Est un’istoria manna, un’istoria de deris, de oe e de cras, tota s’istoria manna de NUR, s’istoria malefadada de sa zente sarda, da-e sos tempos de sos nuraghes fattos de pedra fumiga a sos tempos de sas chejas fattas de ozu de pedra. Est unu contadu longu-longu, fattu mesu-mesu de “Iscienzia” e de “Utopia”. nu inzegneri, de numene Nurghulè, cassintegradu de una fabbrica de petroliu, benit puntu da-e una zinzula e si leat sa malaria. In mesu a sos dillirios de sas frebbas malaricas, Nurghulè torrat a su naschidorzu fedale, intro sas intragnas de sa mama sua, NUR. n sos bisos de sas frebbas, sa Sardigna li paret comente l’haiat disizada: chenza barcas fenicias, chenza mercantes cartaginesos, chenza legionarios romanos, chenza giuighes bizantinos, chenza quintas armadas ispagnolas, chenza buginos piemontesos, chenza fabbricas milanesas, chenza frebbas malaricas, chenza chininu de istadu. , gai, s’inzegneri Nurghulè ponet manu a su fraigu de milli nuraghes e, in giru a donzi nuraghe, una ‘idda, fatta de pinnetas. In peruna ‘idda b’haiat Re, ne Pontefice, ne Generale Comandante, ca totu sas cosas

fin in podere de tota sa zente de sa ‘idda e donzi ‘idda haiat sos gherreris suos, zigantes corrudos cun battor ojos e battor manos, prontos a sa gherra contr’a sos inimigos chi ‘enian da-e su mare. la narrere tota, sos dillirios de sas frebbas malaricas daian a Nurghulè s’idea chi sos milli nuraghes de NUR fin pius altos de totu sas piramides de Egittu. a, in su contadu de Eliseo Spiga, b’hat puru una maravizosa istoria de amore. Nurghulè, una die de ‘eranu, torrende da-e cazza, attoppat una femina etrusca, bennida da-e su mare impari cun marineris perdularios in chirca de ossidiana, sa bomba atomica de antigoriu. a femina etrusca, de numene, si narat Mysal. Est una pobidda zovana, hermosa e galena, cun sos ojos biaittos, colore de sas violas. Un’ojada sola tra issos duos e una fiamarìda de amore brujat ambos coros. manu tenta, bestidos de luna, sos duos amorados intran in d’un’’adde fiorida: bona zente, creide a mie, sos continentales han imbentadu medas cosas, ma s’amore tra omine e femina l’hamus imbentadu nois, sos de NUR! Nemos, mezus de Nurghulè, podiat cuntentare a Mysal.

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Franziscu Masala

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Post scriptum. Caro Eliseo, ti invidio le tue febbri malariche, che ti hanno permesso un folle e meraviglioso stravolgimento storico: cioè, trasformare la nostra storia di vinti in storia di vincitori. Ma, caro Eliseo, l’unica, vera, malattia del tuo singolare racconto consiste nel fatto che è scritto in lingua italiota. E’ una malattia di tutti i sardi. Ed è una malattia senza rimedio, perché, in nessuna scuola sarda, è stato, mai, introdotto l’insegnamento della lingua sarda, “sa limba de NUR”.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Sardegna, terra di canti ed incanti Giacomo Serreli

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’ difficile ritrovare in un’area territoriale tanto limitata un patrimonio musicale così ricco e variegato di espressioni come quello che si riscontra in Sardegna. La musica tradizionale sarda è in assoluto una delle più ricche ed antiche del Mediterraneo e si manifesta in canti polivocali o monodici e nell’uso di strumenti alcuni dei quali tipici dell’isola. L’esperienza trentennale del Coro di Usini rappresenta una delle manifestazioni più appropriate del ricco repertorio della polivocalità sarda, che ha reso popolari brani come “Adios Nugoro amada” del canonico Antonio Giuseppe Solinas; “Nanneddu meu” di Peppino Mereu; “Non potho reposare” di Salvatore Sini, musicata da Giuseppe Rachele nel 1921. Sono anche altre però le forme attraverso cui il variegato patrimonio etnomusicale sardo si esprime. Una delle forme più originali è senz’altro il canto a tenores, un canto corale affidato a quattro voci esclusivamente maschili e tipico dell’area barbaricina, nel centro della Sardegna.

Ancora molto diffuso è il canto a chitarra, che si sviluppa nel confronto tra due o tre cantori, accompagnati da un chitarrista, che a turno ripetono lo stesso componimento musicale gareggiando con varianti melodiche e strutture sempre più complesse. Di fondamentale importanza è poi il repertorio di canti liturgici e professionali; grazie all’opera delle confraternite religiose, sono ancora vivi in centri come Castelsardo, Cuglieri, Santulussurgiu ed Orosei, e testimoniano l’innesto dello stile polifonico popolare in moduli musicali di estrazione colta o liturgica, specie gregoriana e bizantina. Ricchissimo anche il panorama di canti monodici non accompagnati, alcuni estremamente arcaici come l’anninnia (ninna nanna), il duru duru (dall’arabo duru che significa girare, filastrocche per far ballare sulle ginocchia i bambini), l’attitidu o attitu (pianto funebre affidato esclusivamente alla voce femminile della lamentatrice accompagnata da altre donne).

Sardegna e Valle d’Aosta Due culture musicali a confronto

Angelo Filippini

Coro Sant’Orso – Valle d’Aosta

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l confronto tra il canto popolare sardo e il canto popolare valdostano, pur evidenziando precise differenze tra queste due culture, mostra tuttavia anche significative analogie. Gli aspetti che uniscono le due culture sono rappresentati soprattutto dai luoghi d’esecuzione dei canti, che sono gli stessi della vita, la casa, la campagna, la chiesa, la piazza, la cantina, e dal modo con cui il canto è espresso, un modo naturale, l’opposto di quello con cui viene espresso normalmente un brano di musica dotta. Un altro aspetto comune è quello della spontaneità, la quale sembra generare una sorta di grammatica musicale del genere popolare; da questa spontaneità sono emersi infatti quegli abbellimenti di cui è ricca la melodia sarda e che ne co-

stituiscono un elemento caratteristico. Senza fioriture la linea melodica sarebbe priva di movimento e di anima. Pure essendo, quella della Sardegna e quella della Valle d’Aosta, due culture molto diverse, è possibile trovare più di un elemento in comune, soprattutto nel canto popolare. Questo esalta il valore e l’importanza di questo tipo di canto, poiché riesce a coinvolgere e a legare tra loro culture che hanno modi differenti di sentire e di esprimersi, con un vincolo forte di emozioni come quelle che il Coro Sant’Orso e il Coro di Usini da tempo si scambiano, in un rapporto di fraterna amicizia. E questo grazie all’amore comune per un modo di cantare che da secoli rappresenta la più grande possibilità di incontro tra i popoli.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Un “Inno” di emozioni Ten. Col. Luciano Sechi

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’ho scritto d’istinto. Col cuore. E’ venuto fuori da solo, in un attimo, all’improvviso. E poi, senza rendermene quasi conto, “mi è scappato di mano”. E se n’è andato per conto suo per le strade del mondo. Nato come pura musica militare, l’Inno della Brigata “Sassari” ha oltrepassato in brevissimo tempo le mura delle caserme, portato in tutti i nostri villaggi e fuori dalla Sardegna dai militari della Brigata. Ho scritto le parole e la musica unicamente usando il cuore e i sentimenti di figlio di Sardegna, e forse è per questo che quest’Inno è tanto amato, forse perché rispecchia l’amore dei sardi per la Brigata “Sassari”, un amore che ha radici antiche ed è tuttora fortissimo perché in quella Brigata i sardi si riconoscono, per la fierezza, per l’orgoglio, per il carattere, per il tributo di dolore e di sangue che ogni paese della Sardegna, anche il più piccolo, ha versato per le sorti dell’Italia.

Le insegne della Brigata “Sassari” sono il simbolo di una storia antica, dal Carso, dal Piave, dalle trincee tormentate e insanguinate della guerra 15-18 sino alle montagne della Bosnia e della Croazia nella seconda guerra mondiale. Oggi i tempi sono cambiati, il ruolo dei nostri soldati non è più quello di un tempo, non vengono chiamati più ad operazioni di guerra per affrontare un nemico; oggi vengono impiegati in missioni di pace, vengono chiamati a dare un aiuto a popolazioni distrutte da anni di guerra e di devastazione, popolazioni che sanno di poter guardare ai “diavoli” della “Sassari” con occhi di speranza. Non è cambiato però lo spirito, la fedeltà ad un ideale, una fedeltà che non si paga col denaro: certi valori non possono essere vissuti da mercenari, si è fedeli perché si crede, non per una ricompensa. E si crede insieme, insieme si guarda avanti, verso traguardi di pace e di civiltà.

Un Coro nel canto, un Coro nella vita

Prof. Paolo Puddinu

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docente di Storia e istituzioni dell’Asia -Università di Sassari

evo riconoscere di essere un uomo particolarmente fortunato. Nella vita ho avuto esperienze eccitanti e momenti di grande pace interiore. Ho girato il mondo, goduto a piene mani delle sue folgoranti bellezze. Ho frequentato persone di ogni classe sociale, sentito parlare lingue di ogni parte del globo. Mi sono trovato in mezzo al turbinio di una tromba d’aria nel deserto afgano; ho visto il sole scomparire dietro le ciclopiche mura di Angkor in Cambogia. Sono stato folgorato dalle tonalità del più vicino mare di Stintino e ammaliato dalla sabbia abbacinante del mare di Alghero. Ho visto i colori dell’India, sono stato travolto dai suoi indimenticabili odori e dal formicolare della gente nel mercato di Hyderabad. Mi sono tuffato nell’Oceano Indiano e nell’Oceano Pacifico, ho riposato sotto altissimi banani festanti di scimmie. Ho assaporato per anni il verde delle Alpi giapponesi e rinvigorito il corpo nelle salutari

e abbondanti acque termali del Giappone. Sono stato a contemplare le cime di Lavaredo. Ho calpestato il lastricato della piazza Tien An Men di Pechino. Ho assistito alla strabiliante trasformazione della città di Shanghai. Ho visto fiorire sulla sabbia la ricca città di Dubai… Mai nulla però mi ha preso quanto il piacere che provo ogni volta nell’osservare il senso di amicizia che lega tra loro i componenti il Coro di Usini. Mi colpiscono sempre per il senso di attenzione che li lega gli uni agli altri. Nonostante le diverse età e i diversi ruoli, sanno ascoltarsi con rispetto: nessuno vuole primeggiare, nessuno impone il suo punto di vista, nessuno urla, nessuno offende. Sanno ascoltare e ascoltarsi. Non so se siano trenta o trentacinque, so però che dimostrano di essere una cosa sola: un Coro. Un Coro nel canto, un Coro nella vita.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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Il lato oscuro della Grande Madre E

sistono luoghi, sulla splendida isola, dove il tempo ha fermato la sua corsa, dove le pietre, posate da mani primitive, rimangono immote e immutabili, per permettere all’uomo di oggi di vivere, per un attimo, la medesima esperienza. Si tratta dei pozzi sacri nuragici, scavati nella profondità della terra, costruiti in modo tale che, in certe notti di plenilunio, nei solstizi d’estate, la luna poteva affacciarsi proprio sopra l’imboccatura e abbracciare così l’acqua, che nei pozzi si trovava, trasmettendovi un po’ della sua potenza e mistero. a visione dei pozzi sacri nuragici, attraverso i simboli del cerchio, del buco di serratura che ricorda la vulva femminile, dell’acqua raccolta nella parte più profonda, non può che evocare l’idea della Grande Madre, ossia di quell’Essere Supremo dalle illimitate capacità creative che detiene il mistero della nascita e lo trasmette agli altri esseri umani, alla terra, alle piante, agli animali. utti proveniamo da un corpo di donna, tutti gli esseri umani conservano la memoria di quello stato edenico, fusionale, in cui si è uniti, indifferenziati e totalmente dipendenti l’uno dall’altra. E poi… lo strappo, quel trauma indicibile e indimenticabile, ma unico e necessario affinché il figlio possa essere messo di fronte alla necessità del suo “divenire soggetto” al mondo. a nostra vita si origina dunque da una separazione, così come la fine, che ci separa dalla vita per riportarci al regno della Madre. Dal punto di vista simbolico, questi due momenti non possono che dare un’indicazione su un possibile modo nuovo di relazionarsi. Separarsi dall’oggetto fusionale significa “venire al mondo”, ritornare alla simbiosi significa morire. ’angoscia della separazione continua a riprodurre in noi il desiderio della ricongiunzione con l’oggetto originario che ha soddisfatto i primi bisogni, ed in particolare il bisogno di essere amati; così il bambino cerca l’oggetto nella madre, l’amante cerca l’oggetto nell’amata, l’emigrante cerca l’oggetto nella propria terra. Ma questa disperata ricerca ci riporta continuamente alla schiavitù della dipendenza dal bisogno che l’altro può soddisfare, la nostra felicità viene totalmente demandata all’altro, impedendo di diventare, ciascuno di noi, “matrice” della propria vita.

ppure il destino dell’uomo è quello di uscire dalla dipendenza per ritrovare se stesso, così come il figlio, per crescere, deve staccarsi dalla madre. Ma per fare questo deve sperimentare ogni volta il dolore della separazione, senza per questo temere la distruzione del rapporto, perché solo distanziandosi da ciò che costituisce un unico amalgama il soggetto può “vedersi” ed amare l’altro come identico. Il divenire è possibile, dunque, solo attraverso la relazione con l’Altro e, via via che si rinnovano gli incontri con il mondo, l’individuo, se solo ne diventa consapevole, può arricchirsi di quella diversità che ugualmente gli appartiene, perché della stessa natura sono fatti gli esseri umani e la stessa sostanza psichica li ha plasmati, in ogni paese, in ogni luogo della terra. a quale amore può esserci nel volere l’altro per sé, simile a sé, con gli stessi progetti o gli stessi sentimenti? Quale amore può esserci nelle madri che insegnano, con lucida freddezza, l’odio e la vendetta? Questi sentimenti implicano un continuo investimento, una costante attrazione verso quell’oggetto, impedendo l’aprirsi di un orizzonte nuovo. L’odio e la vendetta non possono che richiamare uguali risposte, in una catena senza fine. Ad ogni figlio, che voglia diventare adulto, spetta il compito di spezzare questa catena. Ad ogni madre che ama davvero il figlio, spetta il compito di scioglierlo dall’abbraccio divorante, perché amare significa volere che l’Altro sia. erto l’Archetipo della Grande Madre, come tutti gli archetipi, essendo una funzione preformata della psiche, comprende e trascende la madre personale ed include tutti i simboli che ad essa fanno riferimento, compreso la Madre Terra, quella terra tanto amata, dai sardi come da tutti coloro che hanno abbandonato il luogo natio, che li tiene indissolubilmente legati ad essa attraverso il sentimento della nostalgia. La nostalgia rimanda, inevitabilmente, al desiderio del ritorno al luogo originario e primario, alle tenebre calde e accoglienti dell’utero materno, dove regna la quiete ma non si è ancora vivi. La Vita ha bisogno di essere “animata” e “pensata”, se non c’è corpo non c’è vita, ma se non c’è il pensiero che riflette la vita, essa non ha altrettanto significato.

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Claudia Reghenzi 14


Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Naiuka

Liberamenti ispirau a “Good night sotto la Croce del Sud” de Gavino Oggiana omaggiu a s’autori

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iat torrau a innì a iscusi, anca fiat scoppiada sa mina chi nci haiat sprondiu in artu totu a follas a follas sa carri martoriada de is tres giovunus. u sordau italianu fiat torrendi a s’accampamentu, is duas piccioccas amharas andaiant a bendi’ crobis prenas de mercanzia chi portaiant a conca. Si fiant incontraus propriu asub’’e sa mina, in sa bia chi de Gondar andaiat a Azozò. Sa scena bida de pagu distanzia dd’haiat totu assustrau. ambrighendi a ogus prenus, conc’a terra, non si fut acatau di essi’ in cumpangia assungutendi. Arziendi sa conca, dd’haiat bida apartada, a una pariga ‘e metrus de distanzia: prangendi ddu castiada. Is ogus unfraus de lagrimas pariant chi ddi pregontessint su poita. Fut stetiu avvertiu de diffidai de totus, feminas e ominis nieddus, mannus e piccioccheddus, ma custa fut a trassa de crabittu feriu, e ddu castiada ancora senz’’e bogai fueddu. Fut abarrada aici e totu po finzas candu issu s’indi fiat arziau e si fiat avviau a s’accampamentu po donai sa sceda. a notti, is tres fileras de tendas postas in pamentu de terra, a or’a oru de su laghixeddu sacru de sa cittadi santa di Axun, fiant abarradas mudas. Nisciunus haiat fattu cantus de montagna a cuncordu ni canzonis di amori a sa sarda. Marchigianus, sicilianus e trentinus, citiant. Is abruzzesus pariat chi intendessint su dolori de is sardus po su cumpangiu andau. o podendi dormiri, si fut incamminau me in s’argini bascia de su laghixeddu. Sa sentinella dd’hiat arregordau de fai attenzioni, e issu si fiat firmau giustu accanta de is matas prus mannas. Fumendi, circaiat de cumprendi’ su poita fessit in cussu logu bellu i aresti anca nci fiat sceti genti morta de famini e ominis nieddus chi moriant a ogus

sprappaddaus. Sa sigaretta fut a s’urtima tirada candu hiat intendiu su stragazzu accanta i avvertiu sa puba chi lestra fiat fuendisì. e scattu, si fut tirau de costau a sa mata, proteggendi su corpus e sighendi sa puba cun s’oghiada. Luegus, coment’’e unu guettu fut scappau a curri’ avatt’’e s’umbra intra comas e cambus, finzas a candu custa nci fiat arruta a terra imburchinendi a corpu in sa currera. S’inci ddi fut ghettau asuba stringendiddi su corpus, e dd’haiat puntau su pugnali in su zugu. Fut abarrau spantau candu si fut acatau di essi’ cassau una femina. “Naiuka!” dd’hiat nau issa, castiendiddu cun ogus de crabittu feriu, “Naiuka! Buana!” haiat torrau a nai. i fiant torraus a agatai in su propriu logu, a de notti, candu is aterus cumpangius fiant asutt’’e is tendas. Issu dd’haiat pensada, e in coru suu aspettaiat de dda torrai a biri. Fut stetiu senz’’e nai unu fueddu. Naiuka siddi fut accostada a fiancu mentris issu, sezziu, fumaiat narba arridada imboddicada cun papereddu ‘e seda. In fundu in fundu, fiant duus piccioccheddus chi in coru teniant su propriu dolori, uguali timoria, e in is ogus portanta su propriu limpiori. n is nottis chi s’incontranta tremiant de timoria e de disigiu, perdius aintru ‘e unu bisu chi ndi scorrocaiat tot’is barrieras de s’odiu. S’amori haiat conquistau is duus giovunus in is sensus e aintru de s’anima insoru. on nd’hiat fueddau cun nisciunus, fiant passaus quattru mesis e nemus hiat scipiu nudda de cust’amori segretu, biviu e passau cun Naiuka me is logus prus impensaus, in oras furadas a cua e consumadas cun fervori e sentidu. Naiuka, arta comenti sa luna, frisca comenti su mengianu prenu ‘e luxi…

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Naiuka cun su corpus de carruba Naiuka chi donat a manus prenas Naiuka po oras de gosu serenas furadas a custu logu di amarolla Naiuka chi si tremit che una folla candu imprassada s’aberit a s’amori Naiuka chi scabiddat che unu frori a sa luxi de mengianu arrosinau Naiuka…su santu chi t’hat criau cantu ti stimu e cantu ses bella tui…

Vincenzo Pisanu 15


Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Lo sciamanesimo in Sardegna

La vita e la morte in Sardegna attraverso miti, riti e credenze Intervista a Dolores Turchi

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n’altra delle caratteristiche che uno sciamano doveva possedere era il dominio del fuoco. Esistono in Sardegna varie leggende legate al potere del fuoco. Di queste leggende non è più chiaro il significato. Se però si conoscono gli studi fatti da Mircea Eliade sullo sciamanesimo nelle varie parti del mondo e su come un tempo gli sciamani riuscivano a dominare il fuoco, allora appare chiaro il significato di tali leggende. Si capisce allora che la prova del fuoco era uno dei mezzi attraverso il quale lo sciamano poteva dimostrare la sua potenza, naturalmente con l’aiuto degli spiriti.

e parole sciamanesimo e sciamano richiamano alla mente culture lontane e misteriose. Signora Turchi, cosa vuol dire sciamanesimo? E perché “Sciamanesimo in Sardegna”?

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o sciamanesimo potrebbe essere definito una forma di religiosità primitiva. Si basa sulla capacità che hanno alcuni individui di entrare in rapporto col mondo dei defunti mediante una trance e di ottenere dagli spiriti aiuti e informazioni da utilizzare a beneficio della comunità in cui operano.Bisogna però dire che nel mondo occidentale il termine sciamanesimo è stato spesso stravolto e si tende a considerare lo sciamano una specie di stregone. Giustamente lei osserva: “Perché sciamanesimo in Sardegna?”. La nostra cultura dovrebbe essere al di fuori di certe concezioni. Eppure tante manifestazioni a carattere magico e tanta medicina popolare praticata da noi fino a mezzo secolo fa rimandano in modo chiaro a forme di sciamanesimo che nella nostra isola si sono protratte per millenni. Non venivano però definite col termine di sciamanesimo, ma con altre parole. Ad esempio, il sinodo di Ales e Terralba del 1696 denuncia molto chiaramente pratiche sciamaniche messe in atto da alcuni individui e riferisce il termine con cui il popolo le indicava: andare in calazonis.

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orrare a su connotu è importante per conoscere su chi no est connotu, dentro e fuori di noi. Che significato e che importanza può avere questo sforzo, culturale e non solo, per il futuro, psicologico e sociale, della Sardegna e dei sardi?

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orrare a su connotu ha importanza non per la pura curiosità di conoscere il passato, ma per acquisire una maggiore consapevolezza del presente. Questa consapevolezza crea delle certezze che portano a fare scelte equilibrate, ad affrontare il futuro con più responsabilità. Se si conosce il passato è più facile un confronto proficuo con gli altri popoli. Salvando le cose positive de su connotu siamo avvantaggiati nelle scelte future e nel cammino da percorrere e ci è più facile salvaguardare la nostra identità.

uali gli elementi caratteristici dello sciamanesimo?

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nnanzi tutto la capacità di guarigione attribuita agli sciamani, poi la divinazione, ossia la conoscenza del futuro; due facoltà che venivano frequentemente esercitate dalle persone che praticavano lo sciamanesimo in Sardegna. Nel nostro ambiente si trattava in prevalenza di donne molto esperte nella conoscenza delle piante medicinali, comprese quelle allucinogene. Queste donne dovevano aver acquisito una grande pratica nel dosaggio delle erbe, tanto da riuscire a procurarsi una trance o delle allucinazioni tali da avere la sensazione di “volare”, quasi l’anima potesse staccarsi dal corpo per raggiungere altri mondi e incontrare gli spiriti cui chiedere aiuto a beneficio delle persone che a loro si rivolgevano.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

SA PIPIA ‘E MAJU Un viaggo nel passato al confine tra rito e gioco

Roberta Muscas

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a figura antropomorfa femminile continua a comunicare all’uomo il suo arcaico linguaggio sacrale. Non dobbiamo sorprenderci se tale retaggio lo si trovi proprio nella società infantile, società che è stata ritenuta da alcuni studiosi come fra le più conservative, e in una dimensione ludica, dimensione depositaria di parecchi culti del passato. Si tratta di un gioco calendariale, praticato dalle nostre nonne nella loro infanzia il primo maggio, denominato sa pipia ‘e maju, la “bambola o bambina di maggio”. Tale bambola, protagonista principale del rituale ludico, veniva costruita dalle stesse bambine con i fior d’oro (il Chrisantemum coronarium, denominato in lingua locale su caraganzu), fiori che in primavera vestono di giallo i nostri campi. I fiori venivano modellati fino ad ottenere una sorta di fantoccio che veniva poi interamente ricoperto da piccole vesti smesse ottenute in prestito dalle mamme: un abitino, dei guanti e una cuffia, sa caretta. La bambola era così pronta per il rituale. Le bambine

si disponevano a percorrere questuanti le vie del paese. Una bambina, in testa al corteo, portava sa pipia ‘e maju in posizione eretta. Bussando ad ogni casa, le bambine si presentavano con la seguente formula: “Si podit a sa pipia ‘e maju?”, “E’ permesso entrare alla bambina di maggio?”. Gli adulti accondiscendevano con piacere a quella richiesta: offrivano pane, formaggio, carciofi, meringhe o biscotti. All’offerta seguiva da parte degli adulti un augurio di un’annata piovosa e fertile: “Assumancu essit propiu fillas mias! Ghettaincedda beni a s’arriu!”, “Oh, piovesse, figlie mie! Gettatela al fiume con cura!”. Questa raccomandazione riguardava la fase finale del rituale. Le bambine, infatti, ultimata la questua si recavano al torrente e lì, trasformandosi in vere e proprie prefiche, recitando il proprio dolore per il destino della loro bambina, la gettavano nelle acque. Il “sacrificio” doveva servire ad assicurare la continuità del ciclo naturale, il ridestarsi della nuova vita in primavera.

A volte serve una mano d’aiuto... M. Giuseppina Gregorio

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Isili, centro del Sarcidano di circa 2100 abitanti, durante la ristrutturazione di una vecchia casa del centro storico è stata rinvenuta una statua lignea con la mano sinistra mobile. Quella casa era nota come “sa ‘omu ‘e Santu Raimundu”, citata così perché i primi proprietari, i Bonu, una famiglia di imprenditori edili di Ortueri, trasferendosi a Isili per un importante lavoro, l’avevano portata con loro; il capostipite, Raimondo, era infatti molto devoto al santo di cui portava il nome. Il San Raimondo in causa è certamente San Raimondo Nonnato, santo spagnolo del 1200 chiamato così perché estratto in extremis dal corpo della madre, morta durante il parto. Per tale ragione era invocato, durante il travaglio, dalle partorienti e dalle levatrici, di cui è anche il patrono. La cosa che maggiormente incuriosisce in questa statua

di Isili, è il braccio mobile, che non appare come un arto spezzato accidentalmente, ma bensì conformato a incastro affinché potesse essere staccato e poi rimontato senza compromettere l’integrità estetica del Santo. La statua veniva portata nelle case delle partorienti, specie se primigravide o se avevano già perso dei bambini, e lì ne veniva invocato l’aiuto e la protezione. Dopo l’ennesimo “miracolo” il parroco di allora chiese al proprietario di portare la statua in chiesa, dove sarebbe stata esposta al culto e avrebbe potuto avere più onori. Raimondo Bonu rifiutò decisamente dicendo: “Il Santo torna a casa sua”. Da allora a scopo di protezione veniva concessa la sola mano, che veniva posta sul “pancione” della gravida o sotto il cuscino.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

La basilica di Santa Croce

Giancarlo Buffa

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rogettata negli anni sessanta del Cinquecento, su disegni del teatino Giandomenico da Verdina (l’attribuzione sembrerebbe però mancare del supporto documentale), discepolo dell’architetto gesuita ferrarese Giovanni Tristano, la chiesa di Santa Croce sorge a Cagliari sopra un’antica sinagoga ebraica, che notizie frammentarie fanno preesistere al 1216. La sua fondazione, anteriore al corpo del collegio e delle aule del seminario, ultimate tra il 1725 e il 1773 (sede attuale del dipartimento di Architettura della Facoltà d’Ingegneria, in via Corte d’Appello, già via dei Giudei), può essere meglio compresa se si analizzano più in generale le idee scaturite nel corso del Concilio Ecumenico di Trento. I dettami conciliari, ratificati da Pio IV nel gennaio del 1564, ricalcando certa concezione medievale esclusivistica, consentivano l’affermazione della sola fede cattolica, considerata l’unica apportatrice di verità. Un punto di vista, questo, comune

in tutte le religioni monoteiste. Con il nuovo modello ideologico e della pratica pastorale, la Santa Sede intendeva ristabilire il primato del proprio magistero in ogni ambito, favorire in Sardegna la diffusione della Compagnia di Gesù, dotata di risorse umane ragguardevoli e di alto livello formativo. Verosimilmente, intorno alla metà del Cinquecento, dopo l’espulsione degli ebrei (1492), seguita all’editto di Ferdinando il Cattolico, l’antico tempio doveva fungere da centro di formazione scolastica della capitale del Regno di Sardegna. Nel 1564, per volontà dell’arcivescovo Antonio Parraguez di Castillejo e del viceré don Alvaro De Madrigal, venne donato alla Compagnia di Gesù dall’amministrazione civica. Consacrato al culto cristiano, al pari di tutte le ex sinagoghe, l’edificio fu intitolato alla Santa Croce, da cui prende nome il bastione sottostante, detto pure di San Giovanni, che guarda ad ovest verso il rione di Stampace.

Verdadera descripcion de la Isla de Sardeña La carta geografica della Sardegna dipinta nel duomo di Cagliari M. Cristina Cannas

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’esterno della parete di fondo della cappella pisana del SS. Sacramento (seconda metà del XIII sec.), aperta nel transetto sinistro della cattedrale di Cagliari, è inglobato in un ambiente che comunica con l’episcopio. Sull’intonaco vi è dipinta una carta geografica della Sardegna o, per meglio dire, ciò che rimane della carta geografica e cioè una parziale visione dei territori centro-meridionali. L’Isola ha una disposizione orizzontale, è ruotata di 90° gradi, con l’est in alto. Due stemmi la sovrastano, posti nel campo di due archetti pensili sopra la bifora. Al di sotto degli emblemi corre un cartiglio con l’iscrizione: VERDADERA DESCRIPCION DE LA ISLA DE SARDEÑA. Purtroppo il cattivo stato di conservazione e una

non buona documentazione fotografica ne impediscono una chiara lettura. Nessun testo che riguarda i fatti artistici legati alla Santa Maria di Castello cita questa pittura murale, è un’Isola che non c’è. Solo Antioco Piseddu ne parla in un articolo sul villaggio scomparso di Segolay. Data la carta alla seconda metà del 1600 e riporta i nomi dei villaggi ancora leggibili: Segolay, San Basilio, Donigala, Donori, Senorbì, che si “indovina tra le scrostature”. Il primo stemma è quasi illeggibile, contornato da volute fogliacee, forse inquartato e sormontato da corona, con al II i pali d’Aragona. Il secondo è quello dei quattro mori, incluso entro volute fogliacee e coronato.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Y narrame como aman los poetas

Gabriella Orgolesu

Y narrame como aman los poetas. Imprentana sas umbras caminende, paraulas de amore semenende sutt’a unu chelu chi nues e nies incunzat. Y narrame como aman los poetas. Cando drommin notte manna in sos balcones, isettana ch’intrinene sos sonnios e de issos sas chizas meda istraccas da-e niunu mai si lassana furare. Y narrame como lloran los poetas. Cando su sole in basciu est naschidorzu cussu lenu ciu ciu ‘e sos puzones e-i su cascu ispampinadu ‘e donzi criu, accunortat ebbia e a su ninna ninna los conduet in coa a sa mama issoro. Y narrame como aman los poetas.

Ispadas de sole

Franceschino Satta

In sos pichidos angrones de s’anima allattaos da-e s’odiu, corruschian ammentos de focu cupinde traschias de malissia.

Cherjo binchere gherrande chin ispadas de sole. Sos granos de su coro no iffroscan in rubos de malissia.

Sun frizzas de benenu chi mi brusian s’ispiritu.

Cando sa luche ‘e s’anima s’isparghet in agheras durches de chelu tando sa terra est cussorja ‘e meravillas.

Su tempus m’hat puntu su coro allinnau, e, chene chischiu, nadro in corbarjos d’anneu.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

E deo, Maria Carta…

EG

o… Penso chi custa est sa cosa pius importante: forsis deo in custu momentu non so’ deo, so’ torrada ainsegus cun su tempus cando veramente… razie, grazie a voi oggi sono qui. Son passati tanti anni, tanti, tante fatiche per essere qui oggi. Tante paure per non sbagliare e, sapete, è molto difficile lasciare la propria vita comunitaria, lasciare un mondo che ci appartiene, inserirsi in un mondo che non è nostro e dove devi stare sempre attento a non sbagliare. Io ringrazio voi per i vostri gesti di dolcezza: mai Siligo, il mio paese, mi ha fatto una sgarberia, mai! Mai sezis bistados malos cun megus: sempre unu sorrisu, sempre una peraula ‘ona. Non como! Como in effettis mi podides puru giudigare, como los supporto sos giudigos, supporto totu, oramai so’ abituada a totu. Ma cando haia bisonzu de ‘ois, m’hazis sempre aggiuadu. M’hazis nadu: Maria Carta oe cantat boghes de riu, cuddu cantu chi forsis m’aggiuaiat, comente a tantas che a mie. Non fia deo solu chi haia bisonzu de andare a tribagliare, de andare a samunare, fin tantos che a mie chi haian bisonzu. Solu chi custu bisonzu non mi bastaiat, non cherio restare a pês a modde, cherio essire, comente ‘ois puru cherizis bessire, cherio andare a connoschere ite fit su mundu daboi ‘e Siligo, a s’ater’ala ‘e Siligo ite b’haiat e a totu cherio narrere: faghidelu ‘ois puru, non nos bastat de istare mudos, de nos frimmare unu momentu, non nos devimus frimmare, devimus esistere, devimus fagher ischire a sos ateros chi esistimus, chi vivimus e devimus vivere. Non bos birgonzedas de istare male: faghidelu ischire, ca solamente fattendelu ischire chi istamus male sos ateros s’abizan chi vivimus! razie a bois! Deo so’ inoghe, deo ando a rappresentare sa Sardigna e bos naro: no est fazile. Et est meda pius fazile, non a sos silighesos, ma a sos sardos a narrer: eh, est fazile pro Maria Carta a cantare! No, no est bistadu fazile! Eo podia ‘alanzare totu su chi cheria cun sa ‘oghe ch’hapo, invece hapo seberadu su mundu chi hapo sempre amadu: Siligo, sa Sardigna, sos bezzos de Siligo chi m’han imparadu a cantare. ando hapo incominzadu a Siligo, chi tiu Gellon in prima fila, cando hapo annunziadu chi cantaia su “mi e la”, m’hat nadu: “Eh, fiza mì, inoghe ruet s’ainu!”, podides immaginare cun cale orgogliu hapo finidu sa cantone. E poi l’hapo ‘idu ch’hat abbasciadu sa conca e l’hapo

‘idu chi fit pianghende. Propriu in cussu momentu, da-e sas lagrimas de tiu Gellon, hapo ischidu chi podia cantare fora de sa Sardigna. scusade… Est istada una crisi de piantu, ma… bos cherzo troppu ‘ene, bos cherzo troppu ‘ene! Hapo lassadu calesisiat cosa, e calesisiat cosa haia hapidu lassadu finzas essendeche fora. Proite ‘ois ischides chi oramai so’ tribagliende meda fora, e ischides puru chi in custa ‘idda manna ch’est s’Italia, pro vivere bisonzat andare puru fora. Non solu sos emigrados chi faghen sos minadores, ma finzas chie andat cun d’unu discorso culturale oe devet andare fora pro vivere. o non lu fatto però solu pro vivere; lu fatto pro fagher ischire chi in Sardigna esistin non solu sas cosas feas chi s’intenden, sas cosas negativas, ma esistit unu mundu chi appartenit a totu sos sardos e appartenit a totu su mundu.

I

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Maria Carta

Intervento di Maria Carta a Siligo in occasione del Premio “Siligo” di poesia sarda del 1982, quando le venne assegnato il premio ”Mesumundu”.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Ricordo Maria

Quella voce tra immaginario e realtà… A colloquio con lo scrittore

Caro direttore…

Salvatore Mannuzzu

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icordo Maria. E’ un ricordo fresco della mia giovinezza, legato struggentemente alla vita serena vissuta per lunghi periodi nella ridente Siligo, “madre” insieme a Chiaramonti della mia “sardità”. Di Maria ricordo la bellezza solare, la grazia sinuosa e la simpatia aggressiva! Eravamo così giovani, anzi giovanissimi entrambi! Ma il lascito di un antico classismo feudale ci impedì, mi impedivano, ancorché io non fossi “Don”, ma solo “signoricu”, di frequentarci, ma non certo impedivano a me di guardarla e di ammirarla, e di perdermi anche nei suoi occhi profondi e nella musica della sua voce.

Francesco Cossiga

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gnuno ha le sue musiche, scritte nei cerchi della vita. E in quelli più interni della mia ci sono le voci e i canti che ho sentito cominciando a vivere, mille anni fa, nel Meilogu. Non credo d’avere mai conosciuto di persona Maria Carta. O forse sì: erano gli anni della guerra, poco più che bambino viaggiavo da Thiesi, dove viveva la mia famiglia, a Sassari, dove studiavo. Viaggiavo sulle disastrose corriere d’allora. Che chiamavamo tout court “Scìe” (S’Iscìa). A Siligo la “Scìa” faceva due fermate: alla prima talvolta salivano due bambine scalze (cominciava l’autunno), cui l’autista regalava il gusto di traversare in quel modo un po’ di paese, fino alla seconda fermata. Chissà perché a un certo punto, molti anni dopo, m’era venuto da pensare che quella bambina scalza fosse Maria Carta. Non so se fossero ancora gli anni ’50, o iniziassero già i ’60, quando ho sentito la prima volta la voce di Maria Carta. Ma quella che così mi giungeva era davvero una voce nostra: una voce uscita – miracolosamente uscita – dal vecchio cuore della Sardegna. Quella voce evocava un mondo intero, quasi fosse rimasto incolume: la solitudine d’un invisibile pastore, nella campagna pervasa di sole e di silenzio, con scarsi alberi tutti piegati verso maestrale; e l’allungarsi delle ombre, lilla adesso, sulle stoppie divenute d’un giallo cinerino, verso il tramonto; e il procedere della notte senza luna, con qualche rintocco di campanacci, l’accendersi d’un fuoco, là ai piedi di quelle rocce che quasi non si vedono più. Il sentore di fumo…

Paolo Sanna 21

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aro Direttore,

ho in mano NUR, numero speciale per Maria Carta. Lo guardo, lo sfoglio, poi, finalmente, lo leggo, una pagina dopo l’altra senza fermarmi. Lo aspettavo da tanto ed ora che finalmente ce l’ho fra le mani, sono presa da viva emozione. Ogni relatore ci regala un ricordo, uno stralcio della vita di Maria; tra un articolo e l’altro, il suo volto sapientemente posto in molte sequenze, come in filigrana o dissolvenza, ci regala un ricordo come di sogno. Le pagine mai pesanti, graficamente bene impaginate, aiutano e invitano alla lettura. Più di trenta firme che parlano, governano alta l’emozione e le vibrazioni. Grazie per averci regalato un numero così prezioso. Il primo scritto, per la storia di una leggenda…

Lycia Santos do Castilla


Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

L’ultimo canto libero Andrea Parodi

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uel giorno di febbraio del 1993 mi imbarcavo da Genova per raggiungere Cagliari. Si trattava di un viaggio davvero speciale: volavo verso un incontro segreto con una donna che era stata, da ragazzo, un punto di riferimento per il mio futuro “lavoro”. Quella donna era Maria Carta. Mentre viaggiavo tra le nuvole, pensavo all’emozione provata quando mi aveva detto che desiderava incontrarmi e che avrebbe voluto cantare con me. Fu allora che le promisi di cantare un brano pensando a lei come alla madre di tutti i Sardi, la madre che ti ninna e che ti invita a tenere gli occhi aperti, a guardare verso il mondo, ad avere dei valori in un mondo povero di valori. Ci demmo così appuntamento a Poggio dei Pini, vicino Capoterra, dove si trovava lo studio che aveva visto nascere e realizzare gli ultimi due album dei Tazenda. Fu un incontro segreto. Sembrava l’incontro di due complici. Arrivò in macchina vestita di nero, con in testa un turbante per nascondere gli effetti terribili della chemiote-

rapia. Parlammo. Mi confidò le sue paure. Non avevamo molto tempo, bisognava registrare quello che poi, secondo il mio immaginario, sarebbe diventato “l’ultimo canto libero”. Finita la prima parte, la invitai a rientrare in sala e a cantare in modo libero. Iniziò così a cantare senza l’obbligo di un canto definito; cantava libera, come quando andava a lavare i panni al fiume, un canto spontaneo che ci restituiva una Maria stupenda nella sua sofferenza, una Maria dolcissima e austera che non voleva arrendersi nonostante il male. Venne l’ora di lasciarci. Ci abbracciammo. “Io ho sentito questo cantare insieme come un passaggio di consegne: sono vecchia, ora tocca a te” mi disse, “Però ti faccio una promessa: quando ti sposerai ti canterò l’Ave Maria”. Maria, la mia Madre mediterranea, mantenne la promessa. Anche se purtroppo, il giorno delle nozze, quell’Ave Maria l’ho potuta sentire soltanto io.

“Sardi” di Sardegna

Ricordo di Fabrizio De André

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Raffaella Saba

’undici gennaio 1999 moriva Fabrizio De Andrè. A quattro anni dalla sua scomparsa si sente la mancanza della sua discreta presenza, il suo musicare il mare e le montagne della nostra Isola; ma la sua voce resta scolpita sul granito di Gallura. Fabrizio De André e la Sardegna: un amore incondizionato per una terra aspra e selvaggia e per una cultura arcaica e affascinante. È una scelta ideologica che lo avvicina all’ideale tolstoiano della natura. Fabrizio abbraccia in pieno quello che è il vero ideale anarchico di amore nei confronti di tutte le creature dell’universo, perché il vivere nella natura è il modo più semplice e insieme più profondo di realizzarsi, di essere autentico, di essere felice. Un rapporto che si salda col tempo, soprattutto dopo i quattro lunghi mesi di soggiorno all’Hotel Supramonte.

La Sardegna si è macchiata di un grave delitto: aver privato un individuo della propria libertà. Al momento della liberazione il cantautore riscatta l’immagine negativa che l’isola ha dato di sé. Fabrizio non scappa, non fugge. Rivolge parole di comprensione ai suoi rapitori. Secondo il principio del pensiero libertario: “conoscere per capire, capire per amare”. Nascono delle riflessioni, dei paragoni con una cultura altra del tutto simile alla sarda, quella degli indiani d’America. Come una catarsi liberatoria ecco che l’esperienza si fa poesia, musica, canto. Un tributo per la nostra isola che è un vero e proprio atto d’amore: Fabrizio ne canta la natura, la cultura e la tradizione. Ne canta anche la lingua. E così i due destini si incrociano e la Sardegna si lega indissolubilmente a Fabrizio De André.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

In viaggio con Sergio Atzeni Marco Melis “Arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: lo attraverso?” Così Ruggero Gunale in “Il quinto passo è l’addio” può essere assunto come icona di tanti sardi che di fronte all’immensità del mare hanno formulato lo stesso interrogativo. Mare, grande culla che, come grembo materno, protegge, isola dalle brutture e dai pericoli ma che impedisce di conoscere, di sperimentare, di porsi in discussione. Elemento che induce a non nascere, a non voler uscire e abbandonare le proprie certezze; affrontarlo è una terapia salutare, significa trovare il coraggio di puntare su se stessi. Sergio Atzeni, come il suo Ruggero Gunale aveva scelto di affrontarlo, di varcare lo spazio, di tracciare la linea tra l’isola e l’incognito. Ciò che lo sostiene è la forza culturale di una maggiore conoscenza di se stesso attraverso l’incontro con altre genti, con altre culture, con altre lingue. Una sorta di Ulisse moderno. Aveva intuito che quella massa infinita d’acqua poteva rappresentare non solo un ostacolo ma anche uno dei possibili percorsi sulla strada della crescita. Ed infatti scambio, incontro, mescolanze, imbastardimento fanno parte della sua “impronta”, convinto che solo da ciò può avvenire un miglioramento, solo questo può mettere in moto un meccanismo che permet-

ta di superare steccati, tabù, tradizioni dogmatiche. Alternative: accontentarsi di vedere il proprio mondo da un solo punto di osservazione, convinti che sia il migliore, o conoscere altri mondi per poi riguardare al proprio con un bagaglio conoscitivo, di esperienze e di letture che siano di stimolo ad una stagione più proficua? Più ostica la seconda, perché comporta soffrire, apprendere, sperimentare. Soprattutto comporta vincere la diffidenza innata in noi sardi verso s’istrangiu, spesso includendo in questo termine anche chi, sardo, torna dopo anni “di continente” e viene guardato con fastidio e malcelata insofferenza. Viaggiare significa forza, coraggio, spirito indipendente e aperto, significa accettare di mettere in discussione le proprie convinzioni, accettare che alcune di esse si rivelino errate, significa in qualche modo divenire più reali perché ci costringe, abbandonando il noto per il non-noto, a prendere coscienza del nostro essere, a relazionarci con lui in prima istanza e con gli altri, i non-noti, in rapida successione. Non possiamo barare: “l’altro” ci osserva e i nostri passi dalla circolarità ripetitiva del “tondo” debbono deviare per nuovi tracciati.

Mio padre Gavino Delunas

E

Vanda Delunas

’ per me sempre bellissimo, dolce e struggente, poter scrivere di mio padre: è come averlo ancora vicino. Mi viene ancora oggi difficile rassegnarmi alla sua morte così innaturale, così disumana, per questo spesso rivado col pensiero agli anni della mia fanciullezza per ritrovare ricordi di una figura leggendaria nella storia del canto sardo. Una figura che vive ancora nella memoria della gente di Sardegna. Ho sentito mio padre per la prima volta cantare in pubblico al “Politeama Margherita” di Cagliari. Indossava il costume nuorese. Il teatro era gremito: vi era un’atmosfera di esaltazione indescrivibile. Il silenzio si faceva assoluto

appena le prime note della chitarra annunciavano un’altra canzone. Dalle prime file della platea una madre tese il suo bimbetto verso di lui. Egli lo tenne fra le braccia ed iniziò a cantare la sua Ninna nanna logudorese; alla fine lo rese alla mamma addormentato. La folla lo acclamò a lungo in piedi. Poi le luci si attenuarono ed egli rimase in penombra, il chitarrista gli porse la chitarra; accompagnandosi, in quella fioca luce che nascondeva una forte emozione, cantò due delle sue più belle canzoni: Disisperada de Logudoro e Agonia.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

“Sardi fuori Sardegna” tra solidarietà e cultura I programmi della FASI

I

l 2003, per la FASI, è iniziato con una manifestazione davanti all’Alfa Romeo insieme a Pinuccio Sciola e alle sue sculture. E’ stata l’occasione per un messaggio di solidarietà agli operai in cassa integrazione. In questa manifestazione si racchiude simbolicamente lo spirito dell’attività della FASI, la Federazione delle Associazioni Sarde in Italia: cultura e solidarietà, promozione della Sardegna e funzione di servizio per la comunità. circoli associati in Italia e nel mondo sono una rete preziosa, una risorsa formata da “sardi fuori Sardegna”, un’occasione di promozione e di scambio a favore della nostra Isola. Il nostro impegno e le nostre battaglie infatti hanno un valore per tutti i sardi, non solo per gli emigrati. Quando ci battiamo per un nuovo statuto dell’autonomia sarda, e chiediamo che dentro ci sia un concetto di nazionalità allargata, che comprenda cioè i sardi fuori Sardegna, chiediamo di rimediare a una carenza storica di una terra matrigna che ci ha reso figliastri. Poniamo anche un problema identitario forte per la nostra terra: avere più ampia consapevolezza di sé, della propria identità. Perché è anche grazie a questa identità che noi fuori Sardegna continuiamo ad esistere come sardi.

I

Bergamo e la Sardegna: impegno di un’amicizia

A

ssociazioni come il Circolo dei sardi di Bergamo, mentre assolvono all’importante funzione di tener viva la memoria delle radici, nonché di valorizzare le potenzialità di quelle radici, possono rivestire un ruolo fondamentale nell’intensificare rapporti di reciproca conoscenza e di amicizia tra persone provenienti da ambienti culturali “lontani”, come avviene per i sardi trapiantati qui e coloro che costituiscono, con la loro cultura ed i loro valori, la comunità di accoglienza. uesto incontro/confronto sembra essere un passaggio obbligato. Ed è qualcosa di più di un desiderio: è un impegno che dovrebbe vedere coinvolti tutti, sardi che vivono in Sardegna e sardi del mondo, per garantire alla nostra terra uno sviluppo da troppo tempo atteso, nel quale gli emigrati si sentano, giustamente e con orgoglio, partecipi e protagonisti.

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Mario Pomesano Presidente del Circolo dei Sardi di Bergamo

Tonino Mulas Presidente FASI

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Bentu de Terra Manna A Berlino, la poesia sarda è donna

“Bentu de Terra Manna”… Si intitola così l’antologia di poesie scritte da autrici sarde presentata sabato 20 marzo presso i locali della Freie Universität di Berlino. “Una serata sardo-europea”: così é stato definito il contesto in cui la manifestazione letteraria é avvenuta. oesia quale massima espressione dei sentimenti e di continuitá con la tradizione, perché la poesia di oggi affonda le proprie radici nelle storie cantate e raccontate dalle donne di ieri. Lingua sarda, poi, come quella piú consona a raccontare la sfera delle emozioni, soprattutto quando si tratta di curare le ferite dell’anima. E donne, come custodi della memoria storica e dello sguardo critico.

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Francesca Utzeri


Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Marcinelle

Anna Maria Sechi

Ci sono pagine di storia che più di altre segnano la memoria, per il dolore che provocano, per lo sgomento che suscitano anche al solo pensarci. La storia degli emigrati è drammaticamente ricca di queste pagine, è dolorosamente ricca di questi sgomenti.

M

arcinelle, s’otto de austu de su 1956, tragicamente intrat in s’istoria de sas disgrascias mannas de sas minieras de carvone: custu fattu est pro sempre in sa memoria de sa zente de inoghe. Barantachimb’annos sun passados da-e sa die cando, a fundu de 835 metros, verso sas otto de manzanu unu carrello ch’est bessidu fora da-e sa cascia de s’ascensore trunchende unu cavu elettricu e tubos de ozu chi si sun allutos. E da-e cussu hat leadu fogu sa miniera. Sun restados impresonados 274 minadores. Dughentossessantaduos mortos. Chentutrintatres fin italianos in sa forza ‘e sa vida. Medas fin appena arrividos, haian unu matessi sonniu. Oe sas minieras de carvone no esistin pius. Inue tando fit totu piuere de carvone, b’est oe unu mantu ‘irde.

Onorevole Presidente, Onorevoles Consizeris…

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Battista Isoni

norevole Presidente, Onorevoles Consizeris,

so’ ‘ennidu a Cagliari in su 1974 cun s’isperanzia de partecipare a sa battaglia de sos sardos pro s’autonomia. Autonomia chi est diventada oramai una finzione e chi diamus cherrere cambiare. Eo so’ iscandulizzadu e preoccupadu pro su ch’est suzzedende, ca si omines validos chi han su compitu e su dovere de guidare sa sorte de cust’Isula in d’unu mundu tempestadu, si omines acculturados e attentos, reduces da-e milli battaglias, si mustran dispostos a passare s’oceanu subra una zattera de ciarras ligadas cun filos de giungu, cheret propriu narrere chi sa classe politica, chi haiat devidu rappresentare custa “Nazione”, hat zertamente perdidu su sensu de su reale e de su possibile, e podimus pensare chi da-e custu fattu nos devimus ispettare disgrascias e isventuras. Semus propriu arrividos a sa sucuttadura! E chie pagat tanta lizzeresa e tantu iscunsideru? E chie pagat pro una Giunta imbelle, debile, chenza autoridade e solamente astiosa? E chie si podet illudere chi da-e un’attrezzu privu de cabu e de coa potan torrare benefizios a sa Sardigna?

Sos omines de sinnu e de bona volontade chi sun intrados in custa Giunta, e non nde mancat, deven, pro s’interessu de sa Sardigna, haer coraggiu politigu, zivile e umanu pro furriare da-e custa avventura iscunsiderada, e deven tentare de riunire ateros omines assinnados e volenterosos, dispostos a incominzare, cun perizia e prudenzia, a leare sa via tortuosa e diffizile chi giughet ue naschet sa redenzione de sa Nazione Sarda. Sa Nazione Sarda hat bisonzu de su cuidadu de tota sa zente sarda, e hat prinzipalmente bisonzu de sos suos elettos. Sos chi como cheren fuire subra a caddos de ferula, iscan chi sos traighimentos b’est chie los realizzat fuende a sas retrovias, torrende a domo disertore, e b’est chie los realizzat currende a dainanti, a sas linias inimigas, dendesi presoneri. Ma non podimus essere presoneris de illusiones: sos sardos ispettan chi torremus totu in prima linea, onzunu cun sa parte sua, pro sa fortuna de sa Sardigna e de onzi fizu de custa terra nostra. (Dal primo intervento in lingua sarda al Consiglio Regionale della Sardegna.)

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Attualità di un processo di duemila anni fa

Virgilio Ladu

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ale forse la pena di fare alcune considerazioni in margine ad un processo celebrato nell’antica Roma oltre duemila anni fa. Parte lesa eravamo noi Sardi. Il processo si celebra nel 54 a.C. L’imputato è Marco Emilio Scauro, ex governatore della Sardegna; l’accusa è di violenza privata, abuso di potere, peculato e concussione. Ad accusarlo di questi reati sono i Sardi, i cui interessi sono tutelati da un giovane e valente avvocato del foro romano, Publio Valerio Triario; l’imputato ha affidato la sua difesa ad un collegio di sei avvocati, e fra questi Marco Tullio Cicerone. È grazie all’arringa di Cicerone, nota come “Oratio pro Marco Aemilio Scauro”, che noi possiamo seguire il processo. A noi interessa soprattutto il ruolo dei centoventi testimoni, venuti dalla Sardegna per accusare Scauro. Questi nostri lontani antenati dovevano essere degli sprovveduti, visto che nessuno di loro è invitato a parlare e affidano la loro deposizione ad un documento scritto. Le accuse nei confronti di Scauro erano suffragate unicamente da questi

centoventi testimoni. Cicerone, nella sua arringa difensiva, trova più opportuno affrontarli in blocco. Ed è qui appunto che viene tracciato l’identikit dei Sardi e chiarito in quale considerazione fossero tenuti. Citiamo testualmente: “La razza più ingannatrice, come ci attestano tutti i documenti dell’antichità e tutte le opere storiche,è quella dei Fenici. I Punici, loro discendenti, non si sono mostrati, se pensiamo alle molte ribellioni di Cartagine, alle numerose violazioni e rotture di patti, figli degeneri. I Sardi, che discendono dai Punici grazie ad un incrocio di sangue africano, non sono stati condotti in Sardegna come normali coloni ed ivi stanziati, ma come il rifiuto di coloni di cui ci si sbarazzi” /cap: XIX, 42). Questa foto di gruppo rivela in quale considerazione fossimo tenuti. Cicerone suggella il suo apprezzamento con alcune definizioni rimaste celebri: “Sardi pellites latrunculi mastrucati”. Il nobile Scauro, accusato da questi centoventi “peddizzoni”, non poteva che essere assolto.

DOMENICO un eroe-trovatello alla ricerca di un’identità

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Giovanni Maieli

olte rappresentazioni teatrali prendono spunto dalla letteratura. “Domenico” (Domenico, Edizioni Sole, Cagliari 2001), opera prima di Claudio Susmel, nato a Reggio Calabria nel 1950 ma da oltre quarant’anni in Sardegna, è un raro caso in cui è la letteratura ad essere permeata e arricchita dall’esperienza teatrale. Domenico è un sognatore, un visionario. Siamo nel 1300, la storia si sviluppa tra la Sardegna e la Corsica, in quello che potrebbe essere definito “l’Arcipelago Occidentale”. Domenico imparerà a confrontarsi, ad entrare in relazione col mondo esterno e ad aprirsi ad esso, attraverso una serie di piccole avventure che, tra una lacrima e un sorriso, costringono il lettore a riflettere. Ed è proprio a

questo che il cantastorie-Susmel vuole arrivare: riflettere sul corso della vita, sui sogni e sugli amori che col passare del tempo si allontanano sempre più. L’errore più grave è chiudersi in sé stessi. Bisogna guardarsi intorno, aprirsi al mondo per conoscere e apprezzare la bellezza di altre culture e far conoscere la nostra agli altri al fine di non ricadere in quel “nuragismo accidioso”, come lo definisce l’autore, che da troppo tempo, e ancora oggi, si ritrova in Sardegna e che fa leva sull’egocentrismo e sulla tendenza all’isolamento dei sardi.

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Note storico-politiche su lingua e cultura in Scozia

Walter Perrie poeta scozzese

(traduzione di Claudia Reghenzi)

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el corso dei secoli sette lingue sono state usate nelle diverse parti della Scozia, sebbene soltanto tre di queste costituiscano la moderna tradizione letteraria. Le lingue che sono state parlate o scritte in Scozia sono: il Pitti, il Vecchio Gallese, il Gaelico, il Latino, il Norn, lo Scozzese e l’Inglese. Di queste, soltanto il Gaelico, lo Scozzese e l’Inglese sono ancora parlati. Ciò che è particolarmente interessante, riguardo alla evoluzione della lingua e alle tradizioni letterarie in Scozia, è il fatto che tale evoluzione rispecchia le lotte di potere dei differenti gruppi culturali che ciascuna lingua rappresenta. La lingua più antica ancora parlata è il Gaelico, che insieme allo Scozzese, all’Irlandese e al Bretone appartiene al gruppo Gaelico-Britannico delle lingue Europee. Il Gaelico oggi è da considerarsi di fatto la lingua madre soltanto per poche centinaia di persone; tuttavia, diverse migliaia

l’hanno imparato in qualche misura, molto spesso come possibilità di stabilire un anello di congiunzione con un’identità culturale scozzese. Molto spesso la cultura della lingua è infatti associata a simpatie nazionaliste. Gli Scozzesi sono un popolo Celtico che migrò gradualmente dall’Irlanda verso la Scozia dal terzo secolo in avanti. Come per altri popoli Celtici la loro fu essenzialmente una cultura di guerra che si basava sulla suddivisione in piccoli gruppi o tribù, conosciute in Scozia come clans. Dall’850 a.C. questi Celti si stabilirono come gruppo dominante in Scozia, imponendo la loro lingua e la loro cultura alla popolazione preesistente, i Pitti. Attraverso matrimoni misti con la dinastia Pitti, ma anche attraverso atti di conquista, Kenneth MacAlpin divenne il primo re di un territorio che comprendeva la maggior parte dell’attuale Scozia.

Minoranze linguistiche: il Cimbro

Alessandro Norsa

Nel panorama delle minoranze linguistiche italiane, il cimbro (Taücias Gareïda) occupa uno degli ultimi posti per il numero di persone che ancora oggi lo parlano. Gli ultimi a parlare questo antico dialetto sono pochi abitanti di qualche contrada isolata nelle Prealpi venete e trentine; non si possono neppure definire “comunità”, per il basso numero di persone che la compongono, ma sono comunque la viva testimonianza di una lingua parlata da generazioni e tuttora esistente in un territorio diverso da quello d’origine. In Italia fenomeni come questo non sono rari, basti pensare alla lingua slovena parlata dalla comunità slovena di Trieste e della Valle del Natisone, il tedesco, parlato dalla comunità tedesca di Bolzano e della sua provincia, l’albanese, parlato in 41 comuni distribuiti in sette regioni (Abruzzo, Molise, Calabria, Basilicata, Campania, Sicilia e Puglia), il patois (franco-provenzale), parlato in valle d’Aosta, il friulano (con la sua variante più importante: il cerniel, carnico), il ladino, parlato in 3 regioni (Veneto, Friu-

li, Alto Adige e in particolare nelle province di Bolzano, Belluno e Trento), il sardo, con le sue varianti, il catalano, parlato ad Alghero, il greco parlato nel salentino, il croato parlato nel Molise ed il genovese del XVI secolo parlato nell’isola di Carloforte. Al giorno d’oggi il cimbro è parlato solamente a Giazza, nei 13 comuni veronesi, in alcuni centri dei 7 comuni vicentini, intorno a Roana e a Luserna. La lingua è parlata dalle persone più anziane. Nei secoli passati, per la maggiore autonomia politica e la posizione geografica, vicina a vie di comunicazione, la lingua dei 7 comuni assunse un’importanza decisiva, tanto che in questa variante si trovano testi molto importanti per lo studio di stadi antichi della lingua cimbra.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

De “Sa Scomuniga…”

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dusì.

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iat usanza de sa genti de is biddas in is mericeddus de s’istadi de is tempus passaus, su fai boddeus po si pigai sa friscura contendu contus o cantendu po ‘nci passai s’ora spassien-

s contus, poita fiant indirizzaus a is giovuneddas po chi non bessessinti foras de s’educazioni de su costumau de sa comunidadi, fiant di Orcus, de Cogas e Cogus, Duendus e Duennas; di Erois e Santus chi apparessiant in is momentus de perigulu, spantosamenti, po salvai s’anima de chini podiat essiri po arruiri in tentazioni de perdiri sa castidadi. s contus fiant de allirghia po su spassiu de totus, ma teniant su scopu di educai is ascurtadoris a is bonus fai, a is cumportamentus di onestadi in sa vida, aintru de is imparus de is beridadis de sa Fidi Cristiana. Intre is Contus e is Cantus de boddeu, duus fiant is poemas de narrazioni chi attiranta s’attenzioni de is ascurtadoris chi non s’arrosciant e chi fiant sempiri aggradessius: Sa scomuniga de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, po su spassiu maliziosu de is fueddus grais e de is frastimus in rima po stracciai s’arrisu, e Sa coja de Pitanu, po sa bellesa de is dialugus e is canzonis. ustus duus poemas, (poita sunt veramenti poemas popularis), beniant resaus o cantaus; candu fiant resaus, su chi contada assumiat s’aspettu e is fai de s’attori de commedia ponendu totu s’attenzioni, in is inginnus e in is ingestus, po elevai su narri’ e su fai a vera rappresentazioni teatrali; candu fiant cantaus beniant cantaus a sa moda de sa currentina, e non fiat raru su podiri intendiri beccius, sezzius in is perdas de is bias, cantendu cun cussu traggiu is proprias cosas po su recreu de issu etotu, chi lompiu a sa beccesa non teniat aturu po si spreviai. iant però espressioni de una civilidadi chi si nc’est andada spinta de sa modernidadi chi appettigat totu; fiant e abbarrant però comente monumentus de su mundu de sa messarizia e pastorìu chi su mundu sbuidu e maccu di hoi est torrendu a circai po si spiegai is medas imperòs chi boccint is cosas bellas chi sempiri hant nudriau is sentidus prus bellus de s’omini e dd’hant accumpangiau po lompiri a is umiadroxus disigiaus. oi, chi no est prus tempus de boddeus a sa bona e sa genti pretendit chi s’espressioni siat puru bi-

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stida di Arti, Sa scomuniga de predi Antiogu arrettori de Masuddas benit rappresentada comente opera teatrali cun apparau scenicu appropriau, curau po poni’ in risaltu totus is suttilesas chi cuntenit in is pinnicas de su dialugu e chi Ottaviu Congiu cun talentu e Maestria interpretativa ponit in giusta luxi po essiri elevada a perla de su Teatru Sardu. edas s’hanti a domandai si siat giusta o no s’acciunta de unu prolugu scenicu a unu poema teatrali famosissimu comente Sa scomuniga de Predi Antiogu…E medas hant a fai diversas considerazionis tenendu contu e de is medas esigenzias chi tenit s’autori de s’opera po comunicai su messaggiu chi bolit fai lompiri a destinazioni e de is esigenzias chi tenit s’attori chi s’opera dda interpretat in manera chi custu messaggiu lompat in su modu prus bellu a su sentidu de su spettadori po chi esprimat su plausu. ici comenti dda conosceus, s’opera est unu sfogu de lingua repentinu cundìu de frastimus e maledizionis, po finiri in d’un’anatema chi generat spreu chena de una motivazioni apparenti. Su spettadori, duncas, imbistiu de custa affrusada, abbarrat disorientau e si domandat ita podit hai provocau custu livori velenosu chi accuzzat sa lingua de Predi Antiogu po ndi fai de issa una lanza chi ferrit e offendit chena de peruna piedadi. Su prologu acciuntu scoviat s’antefattu a sa precedenza de su cali sunti depias is arrexonis chi cuncurrint a spiegai su chi succedit a pustis e aici su spettadori s’agatat sa rexoni spianada po unu mellus cumprendoniu de is fattus chi depint essiri ancora contaus po giustificazioni de su sfogu prenu di arrabiori e de velenu aici coment’est.

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Faustinu Onnis


Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Un saio d’amore e di speranza Intervista a padre Salvatore Morittu

Padre Morittu, parliamo anzitutto delle sue origini… Sono nato a Bonorva il 29 settembre del 1946, ultimo di una famiglia di pastori. Da bambino e da adolescente com’era, che cosa sognava di fare? Involontariamente ho dato subito guai alla mia mamma, perché mi ha concepito in età avanzata ed è stata una gravidanza difficile: i medici avevano dipinto scenari foschi circa la sanità del nascituro. Mamma reagiva a colpi di rosario e di novene presso i santuari più celebri. La mia fanciullezza è stata caratterizzata dal fatto che la mia casa a Bonorva dista 50 metri dal Convento francescano: il tempo che non trascorrevo a casa o a scuola era totalmente vissuto nella chiesa e presso i frati. Quando e perché ha deciso di farsi frate francescano?

Riguardando a ritroso la mia vita, quando Dio si scosta e mi lascia sbirciare dal suo cannocchiale, azzardo a dire che sono nato frate. Certamente ha svolto un ruolo molto importante l’educazione cristiana ricevuta in famiglia, la simpatia e la confidenza con i frati. Ma c’è soprattutto il mistero di Dio che chiama chi, come e quando vuole e dispone le vicende umane facendo intravedere i segni del suo progetto. Il suo incontro con il mondo e i problemi della tossicodipendenza: come è stato, come lo ricorda? Misterioso e provvidenziale anche questo: prima di incontrare il drogato ho incontrato il Padre Dario Pili, responsabile dei frati di Sardegna che, appena giunsi in Sardegna nel 1978, mi propose una provocazione del Padre Eligio Gelmini, pioniere dell’impegno con i drogati: realizzare in Sardegna, in un nostro convento, una Comunità per aiutare i drogati sardi.

Ballo a tre passi Intervista al regista Salvatore Mereu Incominciamo dal titolo: perché Ballo a tre passi? Il film si doveva chiamare “E tutti risero”. Siccome era anche la traduzione italiana di un film di Bogdanovich, per non incorrere in problemi giudiziari la produzione ha chiesto di trovare un altro titolo. Siccome il capitolo della suora è sottotitolato “Ballo a tre passi”, a significare l’andamento danzante della vita, ecco il titolo. Ci parli della genesi estetica a incominciare dalla scelta della Sardegna. Volevo fare un film in Sardegna (dopo Miguel e Prima della fucilazione). La cosa più naturale. Non si doveva pre-

scindere dalla Sardegna. Per leggere il film è importante la chiave sarda, ma è limitativo vederci solamente una rappresentazione locale. E’ sulla Sardegna ma volevo dire qualcos’altro. E’ un film sulla vita. Il film ha sollevato polemiche. Cito tra le critiche: pessimo servizio alla Sardegna, stereotipi e luoghi comuni, interessi commerciali nelle scene di sesso fatte per compiacere lo spettatore… Quando si fa un film ci si deve togliere dalla testa che debba piacere a tutti. Il dissenso giova al film. Però devo dire che non c’è stata furbizia. Mi ferisce chi pensa che io abbia avuto furbizie. Io amo le persone che racconto.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

La tessitura in Sardegna: Sarule

Natalia Cusinu

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ttività visionaria, da un nulla, un filo, ti costruisce uno spazio, la tessitura è occupazione antica di millenni. Forse. Forse, perché dati certi non ne abbiamo. Certo è invece il suo genere: è quello femminile, creatore di mondi. Non per nulla la tessitura venne da tempi remotissimi demandata alla protezione di divinità femminili. Tessere non significa soltanto predestinare (sul piano antropologico) e riunire insieme realtà diverse (sul piano cosmologico), ma anche creare, esprimere la propria sostanza, come fa il ragno, che produce la tela da se stesso. In Sardegna circolano voci che le Janas traggano la loro tela dalle viscere della terra e che tessano nel silenzio cavo dei loro antri, le domus de Janas. A Sarule però più di una nonna racconta che nella profondità più remota del monte di Gonare, su cui poggia un venerato santuario, la Vergine tesserebbe, con il suo telaio d’oro, tramonti dolci come il miele ed arcobaleni trasparenti come l’acqua limpida.

Ma fermiamoci qui, ai piedi del monte, nel paesino barbaricino che, uno dei pochi in Sardegna, tramanda la tecnica della tessitura con telaio verticale: Sarule. Uno dei tappeti più antichi che si ritrovano a Sarule data forse al 1500. E’ opera affascinante per chi la guarda, perché l’equilibrio cromatico e geometrico delle sue forme appaga l’occhio, ed anche per chi ne ascolti la sua storia. Si dice infatti che a tessere questa burra sia stato un uomo: un pastore. Si chiamava ziu Gantine o forse ziu Bachis, e si racconta che una notte rientrò dalla campagna in preda a non si sa quale stato di agitazione, come se fosse posseduto dai demoni. Non salutò le sorelle che lo aspettavano alla soglia, non mangiò, né si tolse i gambali per riposare; si diresse risoluto verso il telaio, si sedette e si mise a tessere. Nessuno glielo aveva mai insegnato, ma lui tesseva e continuò a farlo per tutta la notte e per tante notti. Di giorno richiamava il gregge con lo zufolo di canna, di notte tesseva, mentre le sorelle lo osservavano a bocca aperta facendosi il segno della croce.

Cucina di Sardegna Annotazioni e ricette tra storia e tradizione

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Giovanni Fancello

uando si parla di cucina sarda, si pensa solo a porcheddu arrustu, a culingionis, o culunzones, a malloreddus, o ciccioneddos, a seadas, o sebadas, e a poco altro. Noto anche che esperti e studiosi a livello internazionale, riferendosi alla cucina sarda, la definiscano “arcigna e sconosciuta”. In realtà la storia culinaria della Sardegna non segue l’evoluzione delle altre cucine regionali, che hanno motivazioni storiche diverse, ma fonda le sue radici in tempi remoti ed a volte preistorici. I vari popoli conquistatori dell’isola hanno lasciato tangibili tracce sulla alimentazione autoctona, ma non hanno scalfito i principi originari della nostra cucina, che a distanza di secoli persistono nel quotidiano. Il merito è delle donne, madri, mogli e figlie di contadini e pastori, che l’hanno praticata e tramandata nei secoli.

I piatti della sconosciuta cucina sarda non sono rintracciabili nelle creazioni dei nuovi cuochi, che cercano di creare piatti ispirati a concetti culinari “moderni” nati nelle mense di Parigi o di New York, ma si possono trovare nei piatti di una umile donna di casa che per il suo bisogno quotidiano fa riferimento a modelli culturali che risalgono ad antiche origini. Nei menù dei ristoranti sardi difficilmente troviamo in offerta piatti come ambulau, suppa de farre, faada, piadigu, pillas, pisci a collettu, succu de faa, su ministru, suppa de trigu cottu, su misciu, su ministru; eppure questi sono piatti della tradizione che in molte case sarde si consumano quotidianamente e la loro origine è lontana e “povera”, come diceva il satirico Marziale nel I secolo d.C.

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Barbagia

Vanna Flore

Non è questa l’ultima notte di vendetta altri fucili attendono in agguato sulle fronde più verdi e la terra antica non è mai sazia di sangue e amare lacrime. Barbagia e granito, ginepri contorti dal sole e dal gelo è la mia terra indomita, la terra di donne dal seno velato di scuro e le mani di pietra come la pelle degli uomini sotto manti d’orbace e velli di fiera domate dall’aratro.

Anche questa è Sardegna

Franco Lissia

I canti antichi parlavano di messi, di marine, di belle donne scalze sull’aia profumate di mirto, di lentisco, corteggiate dai venti di maestrale.

nelle balze di buio. Nella tanca sopra il monte giace l’ucciso con in bocca un morso di terra per fermare il dolore, la vita.

Oggi è ai mitra la parola, l’urlo, l’agghiacciante urlo soffocato di agonia

Terra di mandorle amare

Raimondo Manelli

Isola mia, modesta impronta di piede contadino, chiudi gli orecchi alle lodi dei ricchi adulatori che baciano le tue rive scoprendo i denti d’oro.

di pascoli contesi di pecore migranti… Richiama i figlioli emigrati: che insieme ti calzino un sandalo nuovo per le novissime strade del mondo, che impetuosamente muta.

Spopolata sei, anche assetata e incolta terra di mandorle amare,

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

La poesia improvvisata in Sardegna Note storiche su una tradizione ancora viva Classe 1ª B Liceo Ginnasio “G. Asproni” Nuoro Anno scolastico 2002-2003

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a poesia improvvisata è un patrimonio tipico delle società contadine. Testimoniata fin dall’antichità classica in alcune aree mediterranee, si è conservata nei secoli. In un’ipotetica storia delle gare poetiche in Sardegna, c’è una data precisa che segna il confine tra le testimonianze approssimative e quelle certe: il 15 settembre 1896. Quel giorno a Ozieri, per la Madonna del Rimedio, si tenne la prima disputa, per così dire, pubblica e solenne, in versi improvvisati, sul palco di una piazza. La data del 15 settembre 1896 rappresenta una linea di demarcazione fra la poesia improvvisata, che potremmo chiamare “d’ovile”, e quella più propriamente professionale. Iniziarono da allora quell’arricchimento di contenuti e quell’evoluzione tecnica che avrebbero portato la poesia orale sarda alla complessità che ancora oggi le è propria. Tra il 1925 ed il 1930 le gare poetiche iniziarono ad essere in un particolarissimo occhio di ciclone: l’ostilità del

clero. La rottura definitiva avvenne nel giugno del 1932. L’insolita durezza della Chiesa sarda si spiega facilmente: con un decreto regio dell’anno precedente, il governo fascista aveva emanato il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Il titolo terzo del trattato ufficiale prescriveva a chiarissime lettere il divieto di “spettacoli e trattenimenti che possano dar luogo a turbamenti dell’ordine pubblico o siano contrari alla morale o al buon costume”. Le gare poetiche pubbliche tacquero dal 1932 al 1937: cinque anni di silenzio totale. Nel 1937 giunse una sorta di condono, a due condizioni: per potersi esibire in pubblico, gli improvvisatori dovevano essere iscritti al Comitato provinciale Arti Popolari di Sassari e non dovevano affrontare argomenti che toccassero la religione e la politica. Tutti i cantadores si assoggettarono alle limitazioni. Ad eccezione di Raimondo Piras.

SOS SINNOS meravizosu ammentu e nostalgica poesia Classe IV B, Liceo Scientifico “A. Segni” di Ozieri Anno scolastico 2000-2001

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u sardu, l’ischimus totu, est sempre istada limba de cantu e de poesia, limba de contos e limba de foghile. E infattis nos paret contu de foghile, custu dipintu de Mialinu Pira, una pintura delicada, ma prezisa a sa veridade, comente la podimus bidere onzi die. Le due patrie di Michelangelo Pira hanno contribuito a darci il cantore più completo della nostra Isola, un’Isola che cambia ogni giorno. Un cambiamento, però, per rimanere sempre uguale a sé stessa e sempre attuale, allo stesso tempo. E’ questo il segreto della nostra terra, ogni più piccolo cambiamento è teso a ripristinare sempre un ordine antico, una ricetta vincente: un quadro ben riuscito che cambia le tinte, ma non il disegno. La nostra patria è il prodotto di tante culture, quindi, dice Michelangelo Pira, che differenza può fare una cultu-

ra che si aggiunge a quelle già presenti? L’unica differenza può essere, semmai, una cultura che tenta di schiacciare le altre; ecco perché il nostro è un popolo orgoglioso. Eppure, nel nostro orgoglio, è nascosta l’ospitalità più grande, la generosità dei nostri sorrisi, la felicità dell’avere sempre nuovi orizzonti. La vita è meravigliosa, e Mialinu fa vivere i suoi personaggi come in un teatro, perfetto e imperfetto, triste e un po’ buffone, nostalgico ma felice, una scena che tutti, prima o poi, dovremo calcare, lasciando dietro di noi qualcosa: le tracce. Le tracce: Sos Sinnos. Mialinu ci ha detto dove cercare l’inchiostro giusto per quei segni: è un posto al centro del petto, che porta impresse le immagini dei nostri cari, dei nostri amori, della nostra terra: la Sardegna. Già, bravi: quel posto è il cuore! Come facevate a saperlo?

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Illustrazione: Raffaele Pischedda - 2001



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