Giroinfoto magazine 54

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N. 54 - 2020 | APRILE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.54 - APRILE 2020

www.giroinfoto.com

Pier 39

San Francisco ALL AMERICAN REPORT

CAEN IL MEMORIALE Di Barbara Lamboley

VINNATUR GENOVA Band of Giroinfoto

VAJONT LA DIGA Di Barbara Tonin Photo cover by Giancarlo Nitti


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WEL COME

54 www.giroinfoto.com APRILE 2020

Giroinfoto Magazine nr. 53


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la redazione | Giroinfoto Magazine

Seattle skyline by Giancarlo Nitti

Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

©

Novembre 2015,

da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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Giroifoto è

Giroifoto è

Giroifoto è

Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.

Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

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L E G G I L A G R AT U I TA M E N T E O N - L I N E www.giroinfoto.com Giroinfoto Magazine nr. 53


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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI Progetto editoriale indipendente

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ANNO VI n. 54

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20 Aprile 2020

giroinfoto magazine

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RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Giancarlo Nitti Monica Gotta Adriana Oberto Barbara Lamboley Manuel Monaco Roberto Giancaterina CAPI SERVIZIO Giancarlo Nitti Redazione Mariangela Boni Redazione Monica Gotta Redazione Barbara Tonin Redazione Barbara Lamboley Redazione

LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.

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CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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GIROINFOTO MAGAZINE

I N D E X

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C O N T E N T S

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R E P O R TA G E

LA PASSIONE DELLE MAESTRANZE

62 URBEX

IL CASTELLO DEL GIGANTE

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IL TEMPIO DI POSEIDONE

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R E P O R TA G E

PIER 39

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10

PIER 39 All American Report Di Cinzia Carchedi

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VAJONT La strage della diga Di Barbara Tonin

38

IL TEMPIO DI POSEIDONE Atene Di Adriana Oberto

52

IL CASTELLO DEL GIGANTE Urbex Urbex Team Old Italy

62

LA PASSIONE DELLE MAESTRANZE Trapani Di Luisa Montagna


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R E P O R TA G E

22 VAJONT

VIAGGIO IN TERRA SANTA Israele Di Maddalena Bitelli e Remo Turello

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CAEN Il Memoriale Di Barbara Lamboley

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VINNATUR GENOVA Band of Giroinfoto Genova LE TUE FOTOEMOZIONI Questo mese con: Giuseppe Calogero Paolo Gentili Pina Pignatiello

R E P O R TA G E

VIAGGIO IN TERRA SANTA

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R E P O R TA G E

102 VINNATUR

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CAEN MEMORIAL

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VI PRESENTIAMO

I NOSTRI

REPORTS Pubblicazione delle statistiche e i volumi relativi al report mensile di: Aprile 2020

402

250

102

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Articoli pubblicati dagli utenti

Nuovi Reporters

Copertura degli articoli sui continenti

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ARTICOLI

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ARTICOLI

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ARTICOLI

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ARTICOLI

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R E P O RTA G E

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PIER 39 - SAN FRANCISCO

A cura di Cinzia Carchedi

Barbara Tonin Chiara Borio Cinzia Carchedi Fabrizio Rossi Giancarlo Nitti Giulia Migliore Mariangela Boni Giroinfoto Magazine nr. 53

SAN FRANCISCO


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

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Per qualche ora di leggerezza, in un luogo prettamente turistico, non resta che una visita al Pier 39, un molo con un pontile in legno che ricorda quello dei pescatori; in realtà è un complesso commerciale e turistico inaugurato nell’ottobre del 1978 e concepito dall’imprenditore Warren Simmons, situato sul bordo del Fisherman’s Wharf e la Embarcadero Freeway.

Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

Benvenuti Giulia Migliore Photography

nella Baia di San Francisco. Dopo la visita ad Alcatraz (n. 49 della nostra rivista), ci incamminiamo verso la nostra destinazione e lo sguardo è attratto dai tram della linea F, vetture storiche che arrivano da diverse parti del mondo (inizialmente dismesse da Philadelphia e Milano, poi da Osaka, Mosca, Porto, Amburgo, Melbourne, Bruxelles, New Orleans, Kobe, Blackpool). Ci addentriamo e immediatamente ci assalgono gli odori di hot-dog, pop corn e leccornie varie, ma soprattutto il profumo della salsedine: il panorama è mozzafiato! Sullo skyline Alcatraz, il Golden Gate Bridge e il Bay Bridge tutti insieme davanti ai nostri occhi, rapiti da questa vista fantastica e dalle bandiere americane agitate dal vento.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

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Fabrizio Rossi Photography

Pier 39

Basta abbassare lo sguardo…per chi non avesse ancora sentito i loro schiamazzi…per vedere adagiati sui pontili appositamente costruiti - i leoni marini, sbadiglianti uno sopra l’altro a spingersi e scavalcarsi per guadagnare un posto al sole. Arrivati nel 1990, subito dopo il terremoto di Loma Pietra, il loro numero è rapidamente cresciuto negli anni. La colonia vive qui durante l’inverno e migra verso sud per la stagione riproduttiva; raggiunse il picco nell’inverno 2009 toccando i 1701 esemplari.

Giancarlo Nitti Photography

A studiare, vigilare, aiutare e a far conoscere sostenendo la vita di questi mammiferi, il Marine Mammal Center presente al Pier. Ma andiamo verso il centro del molo dove un palco è adibito a spettacoli vari e poco più avanti il San Francisco Carousel, una caratteristica giostra realizzata in Italia, completamente dipinta a mano con immagini di città californiane che - illuminata da 1800 lampadine - comprende 32 creature diverse da cavalcare: i tradizionali cavalli, ma anche draghi, leoni marini e panda.

Barbara Tonin Photography

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PIER 39 - SAN FRANCISCO

Pier 39

Giancarlo Nitti Photography

Artisti di strada, saltimbanchi, musicisti improvvisati rallegrano il molo; al Pier 39 ci sono circa 110 negozi tra abbigliamento, oggettistica, souvenir, oltre a 14 ristoranti con piatti soprattutto a base di frutti di mare freschissimi: un salto ad assaggiare i gamberi al Bubba Gump Shrimp & Co Restaurante & Market. Se vi dovesse capitare provate gli "Shrimper’s net catch with secret cajun spice", gamberi in salsa piccante serviti in una sorta di scodella in metallo…favolosi!

Clam Chowder Chiara Borio Photography

Oppure optate per Crab House dove, con un pò di pazienza per la coda, si può scegliere il panino con crema di granchio o il sandwich con gamberetti e granchio da gustare seduti su una panchina con vista incredibile e vento fra i capelli (e qui di vento ce n’è in abbondanza) o per esempio una Clam Chowder di San Francisco, ovvero una zuppa di vongole servita dentro un bel panino scavato, ma attenzione: è rovente come la lava di un vulcano.

Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

Shrimper’s net catch with secret cajun spice

Pier 39 Per gli aficionados, c’è l’immancabile Hard Rock Cafè. C’è un’altra simpatica attrazione al molo: la Musical Stairs; le scale non sono altro che tasti musicali..quindi su, salite e scendete fino a creare la vostra melodia. E perché non entrare anche all’Aquarium of the Bay per lasciarsi incantare dalla fauna oceanica? Il Pier 39 è un po’ come un luna park per adulti, affacciato sull'oceano, che saluterete con sacchetti colmi di souvenir e il sorriso di un bimbo sul viso.

Giancarlo Nitti Photography

Giancarlo Nitti Photography

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PIER 39 - SAN FRANCISCO

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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

Giulia Migliore Photography

Bubba Gump Shrimp Company Una piccola parentesi vorremmo dedicarla al Bubba Gump Shrimp & Co Restaurante & Market. L’idea di creare questa catena di ristoranti è nata alla Viacom Consumer Products, proprietaria dei diritti del film Forrest Gump e della catena di ristoranti Rusty Pellican. Il film ha riscosso un incredibile successo di pubblico e di critica aggiudicandosi ben sei Oscar nel 1995, tra i quali miglior film e miglior attore protagonista a Tom Hanks (nel ruolo di Forrest).

Giancarlo Nitti Photography

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PIER 39 - SAN FRANCISCO

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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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PIER 39 - SAN FRANCISCO

Giancarlo Nitti Photography

Ricordiamo che, nel film, era stato il compagno d’armi Benjamin Beauford Blue detto “Bubba” a proporre a Forrest Gump di diventare suo socio, una volta rientrati dalla guerra in Vietnam, nella pesca di gamberi visto che la famiglia di “Bubba” era specializzata nella cucina di questi deliziosi crostacei, da qui il nome Bubba Gump Shrimp Company. Il primo ristorante è stato aperto nel 1996 a Monterey (California). Oggi i ristoranti aperti sono 44: 29 negli Stati Uniti, 4 in Messico, 3 in Giappone, 3 in Malaysia, 1 a Londra, nelle Filippine, Indonesia, Hong Kong e Qatar. Il fatto curioso è che non ce ne siano in Alabama, nonostante nel film l’azienda avesse sede proprio in questo Stato. Ovviamente nel menu dominano i piatti a base di gamberi ma si possono trovare pietanze per tutti i gusti, sia a base di pesce che di carne che vegetariani. All’interno del locale i riferimenti al film sono molteplici: immagini, frasi, riproduzioni di costumi…

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Attiguo al ristorante c’è un negozio di merchandising. Per gli appassionati del film sarà difficile resistere alla tentazione di portarsi a casa un souvenir: c’è persino il peluche a forma di gambero! Mi raccomando, prima di dire “sono un po’ stanchino, credo che tornerò a casa”, non dimenticate di farvi immortalare sulla riproduzione della celebre panchina con cui si apre il film e da dove Forrest racconta la sua rocambolesca storia. La storia di una persona con problemi di apprendimento, un quoziente intellettivo inferiore alla media e problemi di postura che lo obbligano in tenera età ad indossare degli ingombranti tutori. Nonostante le premesse non siano delle più favorevoli, quella di Forrest è una storia che dà speranza, infatti la sua sarà una vita incredibile e costellata di successi perché, ricordate, “la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”.


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Chiara Borio Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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VAJONT 1963

"Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblio della memoria"

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VAJONT A CURA DI BARBARA TONIN E FABRIZIO ROSSI

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VAJONT 1963

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1963

VAJONT Questo è il racconto di un’amena valle delle Dolomiti. Una storia difficile da scrivere e probabilmente anche da leggere, che narra della costruzione della diga ad arco più alta del mondo, dello sfruttamento dei bellissimi laghi bellunesi e pordenonesi e dei loro torrenti. È una storia soprattutto di persone che sono state sacrificate per gli interessi di alcuni e di come la Natura alla fine faccia sempre il suo corso, nonostante l’Uomo cerchi di dominarla. È il mio contributo per non dimenticare.

unknown (1960) No Copyright - pubblico dominio

Sara Morgia Photography

US Army (1963) No Copyright - pubblico dominio Giroinfoto Magazine nr. 53


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VAJONT 1963

IL CONTE VOLPI

E LE PRIME CENTRALI IDROELETTRICHE

Risalendo il corso del fiume Piave, noto anche come “Fiume sacro alla Patria” per gli eventi accaduti durante la Prima Guerra Mondiale, si raggiunge il paese di Longarone, anch’esso considerato “territorio sacro” per la tragedia avvenuta il 9 ottobre 1963, legata alla costruzione della diga del Vajont, la più alta del mondo nel 1960. Ma perché costruire la diga più grande al mondo? Per spiegarlo, dobbiamo tornare ai primi anni del ‘900, quando la richiesta di energia elettrica era sempre più in crescita, ma in particolare nel 1917 quando inizia la creazione del polo produttivo di Porto Marghera, in provincia di Venezia. Inizialmente in Italia, la produzione dell’energia elettrica avveniva esclusivamente tramite le centrali termoelettriche a carbone. La prima fu attivata nel 1883 dalla Edison a Milano. Qualche anno più tardi, nel 1895, la medesima società metteva in funzione la prima grande centrale idroelettrica italiana a Paderno d’Adda. La produzione di energia delle centrali sarebbe stata destinata a illuminare la città. Successivamente, con lo sviluppo della rete di trasmissione nazionale, nel 1900 per opera di una società chiamata “La Cellina” (dal nome dell’omonimo fiume) vengono

costruiti altri impianti anche nella zona tra il bellunese e il pordenonese. L’energia elettrica prodotta avrebbe provveduto all’illuminazione pubblica di Venezia. In quegli anni, il giovane imprenditore Giuseppe Volpi, già amministratore di numerose società, le cui più importanti prevedevano progetti per la costruzione di linee ferroviarie, aree portuali e sfruttamento di risorse forestali e minerarie sia in Italia che all’estero, vede una potenziale fonte di guadagno nello sfruttamento dell’energia idroelettrica per l’Industria. Nel 1905 pertanto costituisce una nuova impresa, la Società Adriatica di Elettricità (S.A.D.E.), incorpora La Cellina e altre società minori, e realizza nel 1907-08, a Ponte della Serra sul Cismon, la sua prima diga. Favorita dal regime liberale nella gestione delle risorse idriche, nel 1911-13 per conto di S.A.D.E., la Società Idroelettrica Veneta (S.I.V.), realizza i primi impianti nel territorio tra il Lago di Santa Croce e il Piave.

Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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CASSO Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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VAJONT 1963

Barbara Tonin Photography

IL VAJONT L'IDEAZIONE

Lo slancio imprenditoriale porta Volpi, pochi anni dopo, a partecipare anche al grande progetto per l’esecuzione del polo industriale di Porto Marghera. L’energia al porto era fornita principalmente dalle centrali termoelettriche a carbone e in misura minore da quelle idroelettriche, in quanto la capacità idrica del Piave e dei suoi affluenti non riusciva a coprire le necessità in ogni periodo dell’anno. L’energia idroelettrica tuttavia era più a buon mercato e non necessitava di importare la materia prima (era il cosiddetto "carbone bianco" delle Alpi). La crescente necessità di energia, il minor costo e i maggiori guadagni che portavano le centrali idroelettriche spingono la S.A.D.E. a progettare numerosi altri impianti, sfruttando il Piave, che beneficia del passaggio dolomitico e dei numerosi importanti affluenti. Successivamente, vengono pertanto messi in funzione gli impianti dell’Alto Cordevole e del Piave (serbatoi di Fedaia e di Alleghe, centrali di Malga Ciapela, Saviner e Alleghe);

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del Medio Cordevole (centrali di Cencenighe, Agordo e La Stanga); del Cordevole-Mis-Piave (centrali di Sospirolo, Bivai, Busche, Quero e il serbatoio di Mis); gli impianti di Fadalto e Nove. Viene previsto inoltre il potenziamento degli impianti PiaveBoite-Maè e nel progetto viene incluso anche il Vajont. Il serbatoio formato dalla diga avrebbe raccolto l’acqua proveniente dagli altri bacini, le cui centrali da sole non sarebbero riuscite a soddisfare il fabbisogno di energia elettrica della parte orientale del Veneto. Il lago del Vajont sarebbe pertanto diventato una sorta di banca dell’acqua da utilizzare durante i periodi di secca. In questo modo, il “Grande Vajont”, tramite un complesso sistema idroelettrico interconnesso, comprendente 7 serbatoi, 4 centrali, oltre 50 km di gallerie, 5 ponti tubo e condotte forzate, il tutto convogliato verso la vicina centrale di Soverzene, avrebbe permesso di fornire energia per tutto l’anno.


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LA DIGA A DOPPIO ARCO PIÙ GRANDE DEL MONDO

Il progetto della diga viene affidato all’ing. Carlo Semenza, direttore dell'ufficio tecnico costruzioni idrauliche della S.A.D.E., il quale aveva già realizzato per la S.A.D.E. numerosi altri impianti nel Triveneto e successivamente in tutto il mondo. Fu infatti considerato uno dei più esperti progettisti e costruttori di dighe. La diga del Vajont infatti fu costruita a regola d’arte, capace di resistere a qualsiasi sollecitazione. Cosa non fu calcolato allora? Il primo progetto per una diga sul torrente Vajont risale al 1925. La valle infatti aveva le caratteristiche morfologiche perfette, in quanto presentava una gola stretta e molto profonda. L’ipotesi del geologo prof. J. Hug di Zurigo prevedeva la costruzione dello sbarramento, in corrispondenza del ponte di Casso, che ora non esiste più. Viene scelta invece nel 1929 la proposta del prof. Giorgio Dal Piaz di costruire la diga in prossimità del ponte Colomber. In quella posizione, si sarebbe potuto realizzare uno sbarramento più alto (130 m) che avrebbe avuto un invaso di 33 milioni di metri cubi e avrebbe quindi portato un maggiore apporto energetico. Il progetto però viene nuovamente cambiato nel 1940. La diga sarebbe stata alta 207 m e il bacino imbrifero così creato avrebbe avuto una capacità di 50 milioni di metri

cubi. Il parere favorevole del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici giunge nel 1943, dopo la valutazione della documentazione presentata e della relazione firmata dal prof. Dal Piaz, in cui questi affermava che la zona prescelta per erigere la diga del Vajont presentava roccia compatta. I rilievi geologici però vennero eseguiti solo in corrispondenza delle spalle della diga e non su tutti i versanti della valle. Forse perché era periodo di guerra e il Ministero aveva altre priorità o forse perché la S.A.D.E. era diventata una potenza economica (Volpi era stato prima Ministro delle Finanze del Governo Mussolini e poi Presidente di Confindustria), non furono richieste ulteriori verifiche sul territorio. Nel 1948 la S.A.D.E. procede con i primi espropri e nel 1956 viene aperto il cantiere. Inizialmente gli abitanti della valle vedono in quest’opera la possibilità di rinascere dalla devastazione lasciata dalla guerra e, in aggiunta, grazie alla diga e a un lago più grande avrebbero beneficiato anche del turismo. Il cantiere, inoltre, stava dando lavoro a centinaia di persone. Molti altri, invece, non accettano la modifica della valle e gli espropri sottopagati e creano il Comitato di Erto e Casso a difesa della valle contro la S.A.D.E..

Barbara Tonin Photography

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LONGARONE Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 53

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PIANO DI SCIVOLAMENTO Barbara Tonin Photography

LA DIGA E IL MONTE TOC Negli anni ’50, la S.A.D.E. viene a conoscenza che in Svizzera stavano costruendo una diga di 285 m. Data la crescente richiesta di energia elettrica, dovuta anche alla maggior diffusione degli elettrodomestici, nel 1957 la S.A.D.E. decide di apportare l’ennesima modifica al progetto, che però verrà autorizzato dal Ministero su valutazione della relazione del 1940, senza ulteriori indagini geologiche. La diga sarà alta 261,60 m e avrà una capacità utile di 150 milioni di metri cubi d’acqua a quota di massimo invaso di 722,50 m s.l.m. ovvero, da sola, più del doppio della somma delle capacità di tutti gli altri bacini! La preoccupazione di chi era contrario alla diga si fa più forte, chi invece era a favore comincia ad avere dei ripensamenti. Gli abitanti della valle che conoscevano bene i loro monti, sentivano che questa enorme opera non avrebbe portato nulla di buono. Non era luogo per costruire una diga. Quei monti non erano formati da solida roccia compatta. La diga veniva costruita sul torrente Vajont che in ladino

vuol dire “va giù”, tra il monte Salta e il monte Toc e “toc” in dialetto veneto significa “pezzo” e in friulano “marcio” (da “patoc”, cioè “zuppo, marcio”). Quei monti infatti, come tutte le Dolomiti, sono formati al basamento da rocce calcaree omogenee e, via via verso la cima, da un’alternanza di sottili strati calcarei e argillosi. Tale stratificazione fu formata dalla continua e lenta compressione di depositi sottomarini risalenti al Giurassico, dovuta allo scontro della placca Adria (un pezzo d’Africa) contro l’Europa. Questo scontro deformò e continua tuttora a deformare le rocce definendo i corpi delle montagne attuali. Tali forze di compressione sono ancora attive e rendono la zona dolomitica ad elevato potenziale sismico. La presenza di sismi, le molte faglie e pieghe nelle rocce e le forti pendenze, inoltre, sono tutti elementi che concorrono all’evoluzione anche “repentina” di questi luoghi.

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VAJONT 1963

CASSO Barbara Tonin Photography È il 1959. A pochi chilometri dal Vajont, al lago di Pontesei, si verifica un grave incidente. Anche lì c’è una diga progettata dall’ing. Semenza. Il 22 marzo una grossa frana, con un volume di circa 3 milioni di metri cubi, precipita dalle falde del monte Castellin e dello Spiz, colmando parzialmente l’invaso.

Viene contattata la stampa, ma solo una giornalista risponde all’appello. È Tina Merlin de l’Unità, l’unica che ha avuto il coraggio di affrontare il potere del colosso. Il presidente della S.A.D.E., nella persona del Conte Vittorio Cini, decide di denunciarla per aver pubblicato notizie false, atte a turbare l’ordine pubblico.

La frana, cadendo nel lago, solleva un’ondata di 20 metri, che travolge l’operaio Arcangelo Tiziani, il cui corpo non è mai stato ritrovato. Nel frattempo, con l’innalzamento della diga si verificano i primi incidenti mortali tra gli operai e aumentano anche gli espropri e, tra conflitti e preoccupazioni aumentate per l’incidente di Pontesei, i paesi si riuniscono e decidono di rendere pubbliche le manovre della S.A.D.E..

I lavori però continuano indisturbati e, con il nuovo progetto, il bacino si sarebbe ingrandito in modo considerevole dopo l’invaso. Con un lago così grande i due versanti del Vajont sarebbero stati difficilmente raggiungibili da una parte all’altra. Gli abitanti di Erto e Casso chiedono pertanto di costruire un ponte pedonale che attraversi il bacino. La S.A.D.E. tuttavia si rifiuta giustificandosi che non sarebbe sicuro, perché il terreno non lo consente!

IL CAOS TRA I GEOLOGI Una figura importante nella vicenda Vajont è il geologo Leopold Müller, consulente geotecnico della S.A.D.E.. Il prof. Müller viene chiamato ad eseguire dei rilievi sul Toc e sul Salta, in quanto erano state rinvenute numerose crepe estese e molto profonde. Anche la S.A.D.E. ora cominciava a preoccuparsi. La relazione del prof. Müller va a confutare quella del prof. Dal Piaz, ma viene confermata da quella del giovane geologo Edoardo Semenza, figlio dell’ing. Carlo Semenza.

stimata di 200 milioni di metri cubi di roccia.

I rilievi infatti hanno evidenziato che sotto il monte Toc c’è una frana con un fronte di 2 km, una profondità di centinaia di metri, uno sviluppo verticale di circa 600 m e una massa

Un secondo evento disastroso però mette in allerta la S.A.D.E.: il crollo della diga del Frejus in Francia, che ha provocato 421 morti.

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Successivamente si individuerà che la frana avrà un andamento in alto a forma di M. Un altro parere però viene dato anche dal geofisico Pietro Caloi, il quale riferisce che la costa del monte Toc appoggia su un potente substrato roccioso autoctono, la frana se c’è riguarda soltanto uno strato superficiale di sfasciume di 20 o 30 m di spessore, ma sotto è roccia compatta.


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LA PRIMA FRANA DEL TOC

Nel frattempo, alzandosi 60 metri al giorno, la diga è terminata. È il 1960 e una Commissione di collaudo nominata dal Ministero si reca sul posto per una disamina, prima di autorizzare le procedure d’invaso. La diga è stata costruita a regola d’arte ed è perfetta. Riguardo alle relazioni geologiche, la Commissione opta per quella più favorevole. Si procede quindi con le ultime fasi di collaudo, che prevedono invasi del bacino a diverse altezze alternati agli svuotamenti. Il primo è fissato a quota 600 m s.l.m.. Per il secondo invaso la S.A.D.E. viene autorizzata a raggiungere quota 660 m senza svuotare prima il lago. Ma a quella quota non si arriverà. A 640 m s.l.m. si iniziano a sentire forti rumori sordi dalla montagna, compaiono macchie giallastre sull’acqua e si verificano piccole frane. Esattamente com’era accaduto poco tempo prima a Pontesei. Gli ingegneri della S.A.D.E. tremano e cominciano ad avere i primi ripensamenti, ma sono stati investiti troppi soldi e di lì a poco sarebbe stata ufficializzata la nazionalizzazione delle industrie idroelettriche. Bisognava collaudare la diga prima, altrimenti E.N.E.L. non avrebbe comprato l’impianto. Il 4 novembre di quell’anno, però, una frana si stacca dal monte Toc e svela una prima parte del fronte a M, che sarà

verificato poi essere di 3 km. La relazione del prof. Müller era corretta, ma si vedrà in seguito che era sottostimata. Caloi decide di ripetere i suoi rilievi e ritratterà la valutazione precedente: con le forti piogge di quel periodo e l’immissione dell’acqua nel serbatoio, la roccia ha subito un rapido processo di degenerazione. Gli strati argillosi della roccia si erano imbevuti d’acqua assorbendola come una spugna ed erano diventati materiale lubrificante per quelli calcarei, agevolando lo scivolamento. Fortunatamente non ci fu nessun morto o ferito, ma la Natura stava dando i suoi primi avvertimenti. Tina Merlin viene nuovamente chiamata dagli abitanti di Erto e Casso, affinché testimoni sull’accaduto. Gli ingegneri della S.A.D.E. si rimettono al lavoro per trovare una soluzione. Le proposte sono molte ma vengono scartate: far franare a piccoli blocchi la roccia (si perde capacità e quindi energia elettrica), bloccare la frana con il cemento (troppo costoso), ... Alla fine si decide di creare una galleria di by-pass sulla sponda destra del lago, che ha roccia compatta, che colleghi i due laghi che si formerebbero in caso di caduta della frana. In questo modo l’energia elettrica prodotta dal Vajont è salva. Gli abitanti della valle, però, sono ancora in una situazione di rischio, ma la S.A.D.E. non se ne cura.

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SALA DI CONTROLLO Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 53

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LA CATASTROFE ANNUNCIATA

I lavori per la galleria iniziano e la Commissione di collaudo torna di nuovo dalla S.A.D.E. e valida la prima relazione di Caloi. Intanto, il processo di Tina Merlin si apre e si conclude in sei ore, con la completa assoluzione della giornalista, in quanto la frana del 4 novembre era una prova tangibile di quanto affermato nei suoi articoli. Il Presidente della Provincia di Belluno, Da Borso, tramite degli incaricati inizia ad occuparsi del Vajont, ma nessuno sapeva della situazione. Vengono chieste informazioni allora proprio al geologo Penta della Commissione di collaudo, il quale riferisce che la situazione è assolutamente sotto controllo e che a Padova vengono fatte anche prove dell’eventuale catastrofe sui modellini in scala della valle. Da Borso non convinto (perché fare prove su modellini se è tutto sotto controllo?) va a Roma, ma non riesce ad avere risposte perché “la S.A.D.E. è uno Stato nello Stato” (cit. Da Borso). Tina Merlin nel frattempo continua ad indagare, parla con gli operai e i tecnici della diga e prepara un articolo che dapprincipio nemmeno l’Unità vuole pubblicare: “Una frana di 50 milioni di metri cubi minaccia vita e averi degli abitanti di Erto”. Lei però non sapeva che la stima dei geologi, in realtà, era quattro volte maggiore! Nonostante gli accadimenti, la S.A.D.E. continua i lavori per terminare la galleria e con gli invasi e svasi del lago secondo il piano stabilito dall’ing. Pancini, il capo cantiere. Gli invasi sono sempre più alti, fino a quota 680 metri, e vengono eseguiti anche senza autorizzazione.

Le scosse di terremoto sono sempre più frequenti e le crepe sempre più ampie e profonde. Ma a queste scosse non viene data la giusta importanza. È il gennaio del 1962, l’ing. Semenza, morto a ottobre dell’anno precedente, viene sostituito dall’ing. Alberico Biadene, il suo vice. Pochi mesi dopo se ne va anche il prof. Dal Piaz e l’ing. Biadene rimane l’unico al comando. Nel frattempo, anche le prove su un modello della diga lungo 40 metri continuano per opera dal prof. Augusto Ghetti dell'Istituto di Idraulica e Costruzioni idrauliche dell'Università di Padova. Da due anni, sul modello riempito d'acqua, viene fatta cadere una frana ghiaiosa in due tempi diversi ravvicinati. Stessi materiali e stessa tipologia di frana vengono usati in tutte le prove, senza prevedere altre ipotesi di caduta. La stesura finale della relazione, riporta i seguenti risultati: se una frana di 200 milioni di metri cubi trovasse l'acqua a 700 m s.l.m., la caduta della stessa provocherebbe un'onda di pochi metri superiore al coronamento della diga (721 m) e colpirebbe le borgate più in basso di Erto e Casso. Se l'acqua fosse a 715 m, invece, provocherebbe un'ondata quattro volte più alta, con effetti disastrosi sia sulle sponde della valle per dilavamento sia a valle della diga su Longarone e i paesi limitrofi. Non furono però mai fatte ulteriori indagini su come potesse essere il piano di scivolamento e neanche su altri tipi di sfaldamento, ad esempio una frana compatta rocciosa che scende come un'unica massa, ovvero quello che avvenne pochi mesi dopo. Le ipotesi erano già talmente disastrose così che la relazione fu tenuta segreta sia da parte di S.A.D.E. sia dall'Università.

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IL TOC INIZIA A CEDERE

A marzo del 1963 si concretizza la Nazionalizzazione e a luglio l'E.N.E.L. acquista dalla S.A.D.E. l'impianto Grande Vajont come perfettamente funzionante, lasciandolo ancora in custodia a quest'ultima. Il collaudo conclusivo della diga però non è ancora stato fatto, ma poco importa alla S.A.D.E. perché, prima che si concretizzi il passaggio, avrà tutto il tempo per portarlo a termine. Procede pertanto con l'ultimo invaso a 715 m, non curandosi della presunta quota di sicurezza a 700 m s.l.m. consigliata da prof. Ghetti, perché ormai la responsabilità civile e penale, anche pregressa, è dell'E.N.E.L.. L'ultimo invaso ad agosto del 1963 è a quota 712 m, mancano solo 3 metri per terminare il collaudo, ma il 2 settembre si verifica una scossa di settimo grado della scala Mercalli sul Toc. L'ultimo avvertimento. Gli abitanti di Erto e Casso chiedono che venga messa in sicurezza la zona, ma la loro richiesta viene ignorata più volte. Il 12 settembre la frana in un unico blocco comincia a scendere di alcuni centimetri.

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Le prove del prof. Ghetti erano completamente errate. L'ing. Biadene allora dà subito l'ordine di chiudere le saracinesche dell'acqua, ma la frana continua a scendere. Decide allora di abbassare rapidamente il livello del lago fino a quota 700 m, ma più l'acqua scende più veloce scende anche la frana. Ormai il Toc è impregnato d'acqua al suo interno, la ghiaia l'ha assorbita e ha reso instabile il Toc, che rimaneva al suo posto solo grazie alla pressione dell'acqua del lago sui suoi fianchi. La S.A.D.E. comunica immediatamente lo stato di pericolo e la necessità di sgombero degli abitanti del Toc, ma è troppo tardi.


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9 OTTOBRE 1963 L'INIZIO DELLA FINE

La sera del 9 ottobre, finalmente, la "quota di sicurezza" viene raggiunta, ma non basterà. Ormai la discesa della frana si vede addirittura ad occhio nudo, gli alberi sono inclinati e corrono giù, ma non viene dato alcun allarme di evacuazione né ad Erto e Casso né tantomeno a Longarone. Perché non c'è tempo. Perché non si vuole creare il panico. O forse perché è tutto sotto controllo. Longarone quella sera è piena di gente, alcuni lavorano, qualcuno invece già riposa. Il bar del paese ha la televisione e alle 22 avrebbero dato la partita del Real Madrid contro i Rangers Glasgow. Inoltre è centro di ritrovo per tutti i giovani anche dei paesi vicini. Longarone è la “Piccola Milano”. Immaginiamoli lì al bar, ragazzi, padri e nonni, tre generazioni davanti alla tv che si divertono, spensierati.

di 260 milioni di metri cubi (pari a 800 volte il Duomo di Milano), con una velocità di circa 90 m/s, si stacca dal Monte Toc portando con sé il bosco, gli animali, le case e soprattutto vite umane.

Fumo da non vederci quasi e birra, frasi canzonatorie e grasse risate, urla d’incitamento per la squadra preferita. In strada, le mamme che chiacchierano tra loro, con i passeggini e i bimbi piccoli che fanno i capricci e scappano dalle mani. Ragazzini e ragazzine, chi al cinema, chi davanti ad un gelato, forse con il primo amore. Sono lì, sereni. Forse qualcuno parla della diga o forse no, perché abbiamo bisogno di una pausa dalle preoccupazioni ogni tanto. E poi i responsabili del cantiere hanno detto che possiamo stare tranquilli.

È sufficientemente alta per spazzarlo dal cielo, ma uno spuntone la blocca. Insaziabile allora, deviata dalla roccia, mira i piccoli borghi più in basso e divora Pinéda, Ceva, Prada, Marzana, Lirón, San Martino, Le Spesse, Fraséign, Il Cristo. Ancora non si accontenta e l’altra metà, con 25 milioni di metri cubi d’acqua, distrugge gli edifici della S.A.D.E., i dormitori con gli operai, i punti di controllo con i tecnici e poi punta la diga e la sorpassa.

Le loro famiglie sono qui a Longarone. Se ci fosse pericolo, le avrebbero fatte fuggire… Sì, fuggire… Molti se ne sono già andati… Ma ci hanno detto che è tutto sotto controllo. Non c’è motivo di preoccuparsi. Eppure… Ore 22.39. Nello stesso momento, sù nella valle del Vajont, una frana

Precipita nell’acqua, va a sbattere sulla sponda opposta e viene sbalzata indietro. I fili dell’alta tensione sono tutti saltati e illuminano il cielo come se fosse giorno. Un boato assordante, come quello di centinaia di aerei, invade la valle e si fa sentire anche giù a Longarone. Un’onda di quasi 300 m si alza imponente e punta dritta, minacciosa, verso Casso. Fortunatamente sbatte contro le dure rocce del Salta e lo va solo a danneggiare. Sono salvi! Ma la furia dell’acqua non è soddisfatta, rimbalzata sulle rocce, si divide in due, una parte vuole colpire più a monte anche Erto.

Longarone è al buio. Si sentono da lontano fragorosi boati. È in arrivo un forte temporale, pensano. È strano in questa stagione. Alcuni rientrano in casa, altri continuano a riposare. Molti escono in strada per capire cosa stia succedendo. L’aria si alza, diventa sempre più forte… troppo forte. Cercano di scappare, di ripararsi. Questo vento è troppo forte per essere un temporale, non smette… Le prime gocce e sabbia.

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“… poi…un rumore sordo, fondo, la sensazione che il letto prendesse velocità, una forza spaventosa che mi prendeva alla schiena, mi piegava in due, mi schiacciava; la sensazione di essere di gomma, di allargarmi e poi restringermi, gli occhi diventati due stelle; una pressione enorme che mi tirava per i capelli, che mi risucchiava in un pozzo senza fine; mi inchiodava le braccia al corpo senza possibilità di muovermi; un gran male alla schiena giù in fondo; l'impossibilità di respirare…! Questa forza che mi teneva legata non so a cosa mi ha fatto arrabbiare! Ricordo di aver pensato: "No! non voglio lasciarmi andare!", anche se sembrava la sola cosa da fare. Ho, con tanta fatica, alzato un braccio, mi sono toccata la faccia cercando gli occhi, il naso, la bocca; mi sembrava di essere diventata sottile, schiacciata, senza spessore; ho alzato le braccia sopra la testa…cercavo qualcosa da toccare…e poi…il nero. Nero totale.” Micaela, sopravvissuta alla strage del Vajont

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La pressione dell’aria, pari a quella di due bombe di Hiroshima, spinta dall’acqua, dilania le persone e distrugge Longarone. L’acqua, poi, spazza via tutto. Infine, non stanca, l’onda si dirige sia a monte che a valle del Piave, colpendo anche Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone e Codissago nel comune di Castellavazzo, ridiscende di nuovo verso Longarone e porta con sé detriti, corpi e resti umani fino alla foce del Piave. Tutto si verifica in meno di quattro minuti. Poi tutto è silenzio. Sono poco più di un centinaio i superstiti. 1910 i morti, di cui solo 701 i corpi riconosciuti, 456 i corpi mai trovati, che ancora giacciono sotto terreni e strade. Decine i bambini mai nati. Nessun colpevole. Non rimangono che fango, calcinacci, il dolore dei superstiti e l’orrore dei soccorritori. E il campanile di Pirago. Ritto sopra le macerie. Come un dito indice che ci ammonisce e ci chiede di imparare una volta per tutte per il futuro, ma anche di non dimenticare il passato.

PIRAGO Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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A CURA DI ADRIANA OBERTO

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Se vi trovate in Grecia e state visitando Atene, una delle gite più suggestive che possiate regalarvi è quella al tempio di Poseidone a Capo Sunio.

CAPO SUNIO

è un promontorio situato sulla punta meridionale dell'Attica in Grecia, a circa 69 km da Atene. Su di esso si trovano, in una meravigliosa posizione, i resti di un tempio greco dedicato a Poseidone, nonché di un secondo tempio dedicato ad Atena, di cui sono però conservate solo le fondamenta. Il primo riferimento letterario a Sunio è nell'Odissea di Omero (III. 278–285). La storia racconta che mentre i vari comandanti greci salpavano da Troia, il timoniere della nave del re Menelao di Sparta morì al suo posto mentre navigava al largo di “Sunion, Promontorio di Atene". Menelao sbarcò a Sunio per dare al suo compagno tutti gli onori funebri (fu cioè cremato su una pira funeraria sulla spiaggia). Il sito era frequentato sin dalla fine dell'VIII secolo a.C., come provano i rinvenimenti archeologici, ed Erodoto ci informa che nel VI secolo a.C. vi si teneva una processione quinquennale, nella quale i capi ateniesi si recavano al promontorio via mare su una barca sacra. Secondo il mito sarebbe il luogo dal quale Egeo, re di Atene, si sarebbe gettato nel mare; in seguito a questa vicenda al mare venne dato il suo nome (mar Egeo). Giroinfoto Magazine nr. 53


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MAR EGEO Il mare Egeo prende il nome da Egeo, re di Atene e padre di Teseo (a sua volta futuro re di Atene). La leggenda narra che Pasifae, la moglie del re cretese Minosse, generò da un toro un mostro, il Minotauro, dal corpo umano e dalla testa taurina. Il Minotauro fu rinchiuso nel Labirinto, progettato dall’architetto Dedalo, dal quale era impossibile uscire. Soggetti al dominio di Creta, gli Ateniesi erano costretti a pagare un pesante tributo: ogni nove anni dovevano inviare sette fanciulli e sette fanciulle in pasto al Minotauro. Teseo, venuto a conoscenza della cosa e con l’intenzione di uccidere l’orrendo mostro e liberare Atene dal peso del tributo, volle far parte del gruppo delle vittime. Prima di partire, promise al padre Egeo che se tutto fosse andato secondo le previsioni, avrebbe comunicato dall’orizzonte il suo successo issando una vela bianca in segno di vittoria. La nave partì come aveva già fatto tante volte: con le vele nere, simbolo di dolore e di lutto per la futura morte dei

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fanciulli destinati al Minotauro. Giunto a Creta, Teseo accettò l’aiuto di Arianna, la figlia di Minosse, che si era innamorata di lui. La principessa consegnò all’eroe un gomitolo da srotolare man mano che s’inoltrava nei meandri tortuosi del Labirinto, così da non smarrire la via del ritorno; in cambio dell’aiuto prestato, Arianna aveva ottenuto da Teseo la promessa di essere portata con lui ad Atene e sposata. Ucciso il Minotauro e uscito dal Labirinto grazie al filo di Arianna, Teseo s’imbarcò alla volta di Atene, portando con sé Arianna. Però ruppe la promessa fattale e l’abbandonò sull’isola di Nasso (da cui l’espressione “piantare in Nasso”, divenuta “piantare in asso”). La fanciulla, sedotta e abbandonata, maledisse l’eroe ateniese e la sua maledizione colse nel segno. Teseo, infatti, dimenticò di cambiare le vele come promesso al padre Egeo; questi, avvistata l’imbarcazione con le vele ancora nere, credette che il figlio fosse stato ucciso e si gettò dall’alto di una scogliera nel mare proprio in prossimità di Capo Sunio. Da allora il mare prese il nome del re e diventò il Mar Egeo.

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SUNIO era un demo (il demo era una suddivisione del territorio dell’Attica N.d.R.) anche prima della sua fortificazione nella guerra del Peloponneso. Il centro dell'insediamento era situato un po’ più a nord del promontorio, tra i moderni insediamenti di Ano Sunio e Kato Sunio. Sunio fu fortificata nel diciannovesimo anno della guerra del Peloponneso (413 a.C.) con lo scopo di proteggere il passaggio delle navi dirette ad Atene, e da quel momento fu considerata una delle principali fortezze dell'Attica. La sua vicinanza alle miniere d'argento di Laurio probabilmente contribuì alla sua prosperità, che divenne proverbiale, ma già al tempo di Cicerone era in decadenza. Il circuito delle mura può ancora essere rintracciato, tranne dove le rocce naturalmente ripide offrivano una difesa naturale. Le mura erano fortificate con torri quadrate di muratura ellenica e racchiudevano uno spazio di poco più di mezzo miglio di circonferenza. La parte meridionale dell'Attica, che si estende verso nord dal promontorio di Sunio fino a Thoricòs a est e Anaphlystus a ovest, è chiamata da Erodoto l'angolo suniaciano. Sebbene Sunio fosse particolarmente sacro per Atena, Aristofane ci dice che anche Poseidone vi era venerato. Sul promontorio esisteva un tempio arcaico, precedente a quello i cui resti sono stati ritrovati, e che fu probabilmente distrutto durante l'invasione di Serse dell'Attica del 480 a.C. Dopo la sconfitta persiana nella battaglia di Salamina un’intera trireme nemica venne portata nel santuario e dedicata a Poseidone. Il tempio venne ricostruito in marmo probabilmente intorno al 440 a.C. durante la guerra del Peloponneso, e nel 413 a.C. il sito venne fortificato. Giroinfoto Magazine nr. 53


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OPISTHODOMOS

NAOS

IL TEMPIO Il tempio di Poseidone a Sunio fu costruito nel 444–440 a.C. Ciò avvenne durante l'ascesa dello statista ateniese Pericle, che ricostruì anche il Partenone di Atene. Fu costruito sulle rovine di un tempio risalente al periodo arcaico. Il tempio era un periptero dorico esastilo, cioè aveva un portico frontale con sei colonne doriche. 16 delle 38 colonne sono oggi in piedi (quattro di queste sono state ricostruite nel 20° secolo). Il tempio ricorda da vicino il tempio contemporaneo e ben conservato di Efesto sotto l'Acropoli, che potrebbe essere stato progettato dallo stesso architetto. Come per tutti i templi greci, l'edificio di Poseidone era rettangolare, con un colonnato su tutti e quattro i lati che racchiudeva la peristasi. Il numero totale di colonne originali del colonnato esterno era di 34: 15 colonne rimangono ancora oggi (con l'aggiunta di 1 su 4 colonne del naos interno). Le colonne, di marmo bianco estratto localmente nell'Olimpo laureotico, erano alte 6,10 m con un diametro di 1 m alla base e 79 cm nella parte superiore.

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PRONAOS

Al centro del tempio vi era il naos (la sala del culto), una stanza rettangolare senza finestre, simile alla sala parzialmente intatta del Tempio di Efesto. Avrebbe contenuto, ad un'estremità di fronte all'ingresso, l'immagine del culto, una colossale statua in bronzo di Poseidone (6 metri) che arrivava al soffitto. Non lontano dal Tempio di Poseidone ve ne era uno dedicato ad Atena. Fu costruito nel 470 a.C., sostituendo un edificio più antico del VI secolo. Il tempio di Atena fu demolito nel I secolo d.C. e parti delle sue colonne furono portate ad Atene per essere utilizzate nel tempio sud-orientale dell'Agorà. Il sito inoltre era protetto da una guarnigione di ateniesi e abitato dalla gente del luogo. I resti dell'antica città sono appena visibili sul sito e si limitano ad una strada e poche fondamenta di case. Gli scavi archeologici nel sito furono iniziati nel 1906 e portarono al rinvenimento di una statua di kouros (il Kouros di Sunio) e di un rilievo votivo, oggi conservati nel Museo archeologico nazionale di Atene.

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POSEIDONE Nella mitologia greca Poseidone (o Posidone) era il dio del mare, dei terremoti e dei maremoti. Figlio di Crono e fratello di Zeus, Ade, Era, Estia e Demetra, Poseidone è uno dei dodici dèi dell'Olimpo. La sua consorte è la Nereide Anfitrite da cui ha avuto quattro figli: Tritone, un essere mezzo uomo e mezzo pesce; Roda, ninfa marina protettrice dell'isola di Rodi (chiamata così in suo onore) e sposa di Elio; Cimopolea, dea minore delle tempeste marine molto violente, e Bentesicima, dea minore delle onde. Il simbolo del dio era il tridente e gli animali a lui sacri erano il cavallo (creato da lui dalle onde del mare), il toro e il delfino. Suo epiteto ricorrente è "Enosìctono", cioè "Scuotitore di terra". Divinità simili a Poseidone del mondo antico furono Rodon nella religione illirica, Nethuns nella religione etrusca e Nettuno nella mitologia romana. In suo onore venivano celebrati i giochi Istmici. Posidone era originariamente il dio dell'acqua (da cui il suo epiteto di Υαιήοχος, Gaiéokos, "Possessore della terra", inteso come marito della Terra ovvero l'acqua che la feconda) e del terremoto (Ennosigeo, Eννοσίγαιον, Scuotitore della terra); solo in seguito fu associato al mare. Questo perché l'ambiente originario dei Greci fu dapprima continentale. Poiché la figura di Poseidone è in stretta relazione sia con il mare sia con i cavalli, e considerando la lontananza dal mare delle zone in cui abitavano gli antichi indoeuropei, alcuni studiosi ritengono che Poseidone originariamente fosse nato come un dio-cavallo e che solo in seguito sia stato assimilato alle divinità acquatiche orientali quando i popoli greci mutarono la loro fonte di sostentamento principale passando dalla coltivazione della terra allo sfruttamento del mare con la pesca e i commerci marittimi.

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Secondo Pausania, Poseidone era uno dei custodi dell'Oracolo di Delfi prima che Apollo ne assumesse il controllo. Apollo e Poseidone spesso si occuparono degli stessi aspetti delle vicende umane: ad esempio durante la fase della fondazione di nuove colonie Apollo, per mezzo dell'Oracolo, autorizzava i coloni a partire e indicava loro dove stabilirsi, mentre Poseidone si prendeva cura dei coloni durante la navigazione verso la nuova patria e procurava le acque lustrali per celebrare i sacrifici propiziatori per la fondazione della nuova città. Poseidone era venerato come divinità principale in molte città: ad Atene era considerato secondo soltanto ad Atena, mentre a Corinto e in molte città della Magna Grecia era considerato il protettore della polis. Le celebrazioni in onore di Poseidone si tenevano, all'inizio della stagione invernale, in molte città del mondo greco. I marinai rivolgevano preghiere a Poseidone perché concedesse loro un viaggio sicuro e talvolta come sacrificio affogavano dei cavalli in suo onore. Quando mostrava il lato benigno della sua natura, Poseidone creava nuove isole come approdo per i naviganti e offriva un mare calmo e senza tempeste. Quando invece veniva offeso o si sentiva ignorato allora colpiva la terra con il suo tridente provocando mari tempestosi e terremoti, facendo annegare chi si trovasse in navigazione e affondando le imbarcazioni. L'iconografia classica di Poseidone lo ritrae alla guida del suo carro trainato da cavallucci marini o da cavalli capaci di correre sul mare. Spesso era rappresentato insieme a delfini e con il tridente in mano.

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IL TRAMONTO L’ora che precede il tramonto è forse il momento migliore per visitare il tempio di Poseidone. Il sole tramonta sul mare e dietro il tempio, che si trova in posizione sopraelevata rispetto all’orizzonte. L’accesso al sito archeologico avviene da est e da qui una delle strade porta al sito abitato, i cui resti sono pressoché inesistenti, da cui si gode di una meravigliosa vista sul mare. Da qui si procede in salita verso il tempio stesso, che viene avvolto dalla luce dorata del tramonto man mano che il sole scende.

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C’era una volta un bellissimo castello del XIV secolo sperduto in mezzo alla Val Padana. Inizialmente vi era solo la torre, fatta costruire da un valoroso condottiero italiano per viverci con la sua dolce amata. In seguito, un gentiluomo facoltoso lo ampliò e lo trasformò in un vero castello in stile neogotico, per poter ospitare la sua numerosa famiglia nel periodo estivo. Un luogo incantevole, con affreschi, arredi e giardini stupefacenti. E questo è solo l’inizio della storia di questo glorioso maniero.

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La parte più antica del castello, la torre, è stata costruita alla fine del XIV secolo da un valoroso condottiero che prese parte alla battaglia di Marino del 29 Aprile 1379. Le sue truppe erano schierate a difesa di Papa Urbano VI e, vincendo, liberarono Roma dalla minaccia dell'invasione dei Bretoni, i quali consideravano Papa Clemente VII il vero capo della Chiesa. Insieme ad Alberico da Barbiano, il condottiero sbaragliò i nemici, uccidendo e facendo prigionieri tutti gli uomini dell'esercito avversario. I prigionieri furono fatti sfilare per le strade di Roma in catene per celebrare la gloria dei vincitori. Dopo secoli di esistenza e svariati proprietari, nel 2003, la parte più bella della tenuta fu data in condivisione ad un’associazione letteraria ed artistica che ci organizzava feste ed eventi (nonché pernottamenti e week end a tema).

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Quest'area comprendeva camere con soffitti alti ed affrescati, di varie dimensioni, che sono diventate la biblioteca, il soggiorno e le camere per gli ospiti, la cucina principale, il retro cucina, le scale e la dispensa al piano terra. I concerti ed i ricevimenti venivano tenuti al pian terreno, nell'ingresso principale e nelle sale adiacenti al foyer. Una piacevole combinazione di pavimenti in marmo, capitelli in terracotta ed altri particolari tipici del XIX secolo, e vetri colorati nella porta centrale ne facevano una delle stanze più colorate. Lo scalone che conduce ad un ripiano da cui partono altre due scale conduceva i visitatori al piano di sopra con i suoi stupendi soffitti ed antiche mappe e disegni del castello appesi al muro. La biblioteca si trovava a sinistra di questo atrio, probabilmente dove si trovava la libreria un secolo fa; affreschi che rappresentano Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso formavano parte della decorazione del soffitto.

Fu l’occasione per la proprietà di far fruttare un tesoro che sarebbe diventato un peso se non riqualificato. L’associazione non occupava tutte le 100 stanze ma divideva con i proprietari la parte più bella del castello.

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E poi ci fu il terribile terremoto del 2012 che colpì la zona… Il Castello non resse. Essendo stato costruito per svolgere principalmente da residenza estiva i muri si sono accasciati alla prima scossa ed il risultato è impressionante: da una parte, è rimasto uno scheletro, un’anima svuotata dalla meraviglia che lo popolava fino a poco tempo prima. Dall’altra parte, sono rimasti, come per incanto, dei muri ed alcune stanze ancora intatte che fanno ancora percepire l’atmosfera del tempo che fu e nonostante la pericolosità del luogo, non ci si può non soffermare sui suoi bellissimi interni. Dopo 122 gradini, dal piano terra alla terrazza, si viene ricompensati con la solenne veduta della fertile campagna circostante, dei parapetti in mattone e del tetto in tegole di terracotta. Dalla terrazza si possono ancora salire 37 gradini all'interno di una torre più sottile, chiamata Anna, come la moglie del condottiero. In cima alla torre Anna si sale su di un piccolo balcone e da questo punto è possibile guardare le cime degli alberi, il terrazzo e i merli ghibellini della torre sottostante, il parco del castello, il giardino e la chiesa adiacente con il convento. Sapevamo che c’era qualcosa di ancora più intrigante e stupefacente all’interno di queste mura e lo abbiamo cercato a lungo…

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Quando finalmente lo abbiamo trovato. Lo abbiamo scovato in un edificio adiacente, un po’ in disparte e pressoché interamente crollato. Si può dire sia un miracolato, l’unico sopravvissuto al terremoto su questa proprietà. Lui è il Gigante Appeso: un’installazione artistica assolutamente inconsueta sia per il luogo in cui la troviamo, sia per la sua posizione all’interno della stanza. Si tratta di una statua gigante fatta di cartapesta resinata e appesa al soffitto con il corpo rivolto verso il cielo. La statua è la raffigurazione di un corpo nudo maschile. E’ appesa al soffitto con un sistema di corde di metallo e si muove con le correnti d’aria che attraversano la stanza. Rimaniamo increduli ed estasiati da tanta singolarità. Questa opera d’arte è rimasta custodita all’interno del castello dopo essere stata esposta all’Accademia delle Belle Arti di una nota città italiana. Si vede che è stata lasciata in affido ai proprietari o all’associazione culturale che le hanno adibito una stanza “qualsiasi” all’interno della struttura.


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La favola si chiude così. Usciamo increduli e con impresse immagini bellissime. Come sempre accade quando concludiamo le nostre esplorazioni, siamo pervasi da un sentimento di tristezza o, in questo caso, più di rammarico per il fatto che i lavori di ristrutturazione si siano fermati. Mancanza di fondi, inagibilità dell’area, non lo sappiamo, ma vedere crollare una bellezza di quest’entità storica ed artistica è davvero un grande peccato.

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È LEGALE L’URBEX? CHIARIAMOLO IN 10 PUNTI

Tratto da www.ascosilasciti.com

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Lo Stato in cui si trova l’immobile. Inteso come la nazione in cui si trova. Ognuna con le sue lingue, le sue culture e soprattutto… le sue regole! Esiste un’enorme differenza di conseguenze legali se la stessa azione viene svolta in Lituania o in Italia. Aldilà delle leggi che possono tutelare e condannare, ricordiamo bene che in alcuni Stati, prima di uscire vincitori da una causa legale e le pubbliche scuse dell’accusa, si rischia di passare da un bel “servizio educativo” della polizia locale. Non sempre negli Stati più monarchici avrete la detenzione assicurata e in quelli più democratici, la certezza di farla franca. Non avendo tempo nè risorse sufficienti per affrontare la questione di ogni singola Nazione, ci concentreremo a sviscerare il, già complesso, codice del nostro Bel Paese.

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Accessi aperti. Mancanza di recinzione, porte spalancate o inesistenti, grosse aperture nei muri perimetrali, insomma tutti i varchi aperti sono “amici dell’urbex”. Tutto cambia se per accedere a un luogo abbandonato, proverete ad aprire porte chiuse o scavalcare muri (la questione cambierebbe anche per ogni metro di altezza dei perimetri…), il che costituisce violazione di domicilio privato. Crearsi entrate con forza o manomettendo recinzioni, è sufficiente invece perchè l’accusa diventi una frizzantissima “effrazione con scasso”. Giroinfoto Magazine nr. 53

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Lo stato in cui versa l’immobile, ma questa volta intesa come condizione. Finestre rotte, muri crepati, tetti squarciati, muffa e vegetazione incontrollata, porte spalancate, sono tutti segni di chiaro abbandono che potrebbero tutelare l’esploratore. L’attenuante di “immobile in chiaro stato di abbandono” non è da sottovalutare, per quanto non vi sia nulla di codificato. In un’alta percentuale dei casi può però assolvere l’esploratore da accuse di violazione di domicilio.

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Cartelli e avvertimenti. Controllare l’eventuale presenza di cartelli di monito non sarebbe troppo sbagliato (proprietà privata o divieto di accesso). La loro assenza o illeggibilità (magari pioggia e vento hanno fatto arrugginire il ferro dell’affisso o marcire il legno del manifesto) potrebbero comportare buoni sgravi di responsabilità. Insomma, un’ulteriore attenuante, che male non fa’…


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Non toccare nulla. Per chi non lo conoscesse, il comandamento dell’Urbex “prendi solo foto, lascia solo impronte” è un promemoria anche di tutela legale. I souvenir, fosse anche un sasso del muro di un manicomio abbandonato, non sono contemplati come legali.

Strumenti che portate con voi. Conosciamo tutti, o almeno immaginiamo, il rischio di entrare in un edificio abbandonato, potenzialmente abitato da malviventi. Purtroppo no…non basta questo pretesto per portarsi un machete, nemmeno con l’altruistico fine di accettare l’incolto prato della magione. Ma attenzione, anche con un bastone da trekking, o altri strumenti apparentemente innocui, potrebbero scattare l’aggravante di “arma bianca”. Nessuna arma da difesa, all’infuori del cavalletto o di un ramo trovato sul posto, si può….accettare!

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Avvisi e permessi. Torniamo al tema clou. Anche a costo di passare come noiosi genitori apprensivi, sconsigliamo sempre di esplorare questi posti. Se proprio doveste sentirne l’irrefrenabile impulso, avvisate le autorità competenti, nel caso di edifici comunali/statali, o i proprietari/ guardiani per ottenere il permesso ad entrare. Anche a costo di creare allarmismi. Oppure rivolgetevi ad alcune associazioni che operano tramite quest’ultimi. Diffidate dalle organizzazioni che si disinteressano della questione legale e vi fanno clandestinamente introdurre in pericolosi edifici abbandonati.

Anzi, sarebbe meglio prendere solo foto (nel senso di scattarle, ovviamente, non di rubare gli album di famiglia sul comò impolverato) e non lasciare alcuna impronta. Come mai? Udite-udite, per creare il giusto setting alle proprie foto, basta solo spostare gli oggetti e gli arredi, ed essere colti sul fatto, per una bella “accusa di tentato furto”.

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Non scappare e collaborare sempre con le autorità. Se avete seguito i consigli sopra citati, potete sentirvi tranquilli. Motivo per cui, mostratevi per quello che siete e avete fatto. E’ sempre buona norma collaborare enunciando le proprie intenzioni. Così facendo sarete fuori dai guai nel 90% dei casi.

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Rispettare tutti gli 8 punti. La somma delle probabilità di non passare guai seri, che viene fuori rispettando gli 8 punti, vi assolve al 99,9%, parlando dal punto di vista penale. Più complessa diviene la questione civile, che dipende maggiormente dalla volontà del proprietario di volervi eventualmente punire, denunciandovi.

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Incertezza. L’incertezza, purtroppo, rimane l’unica certezza. Tranquilli al 100% non lo sarete mai. Unico modo per sentirvi realmente tutelati è di ascoltare il consiglio enunciato al punto 7. Odiate da molti, poiché danno in pasto alcuni luoghi abbandonati al grande pubblico, queste Associazioni (solo quelle che operano tramite mezzi legali) sono in realtà le uniche a tutelare i luoghi abbandonati in tre modi: si rivolgono ai proprietari ottenendo i permessi di visita; danno visibilità ad alcuni posti altrimenti destinati a marcire nell’indifferenza; scelgono come meta per i loro viaggi solitamente luoghi già devastati dal tempo e dai vandali, per non esporre al turismo di massa gli edifici ancora intatti, accelerandone il declino. Intanto, l’unica certezza è che, come scriveva il romantico François-René de Chateaubriand, tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine. Giroinfoto Magazine nr. 53


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LA PASSIONE DELLE MAESTRANZE

PROCESSIONE

DEI MISTERI DI TRAPANI

A cura di Luisa Montagna

LA PASSIONE

DELLE

MAESTRANZE Un anno fa stavo cercando in internet un evento religioso a cui partecipare per mettermi alla prova come fotografa: la Processione dei Misteri di Trapani mi colpì per la sua storia. L’idea era quella di fotografare il backstage della processione, il lavoro minuzioso di preparazione delle maestranze che precede la Processione che dura ben 24 ore, tra il venerdì santo e il sabato. Partii alla volta di Trapani una settimana prima del giorno di Pasqua.

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Luisa Montagna Photography

La processione dei Misteri è la più lunga manifestazione religiosa italiana e tra le più antiche. Ha evidenti origini spagnole e risale a quasi 400 anni fa. I Misteri sono venti raffigurazioni artistiche della Passione e Morte di Cristo, esattamente diciotto gruppi, più i due simulacri di Gesù Morto e di Maria Addolorata. Su una base sagomata di legno, la vara, si ergono le opere scultoree del XVII e XVIII secolo realizzate dagli artigiani trapanesi e rappresentanti scene evangeliche. La vara appoggia su cavalletti di legno e questi ultimi sono ricoperti, durante la processione, da una stoffa nera detta manta. Le statue vengono addobbate con preziosi ornamenti argentei ed elaborate composizioni floreali, illuminate in modo da far risaltare i tratti del volto, le espressioni di dolore e sofferenza.

Ogni gruppo è portato a spalla da non meno di dieci uomini, detti massari. I portatori conferiscono alla processione uno dei suoi aspetti più significativi: l'annacata. Con questo termine si intende il movimento impresso al gruppo seguendo le cadenze dei brani musicali suonati dalle bande. Un suono caratteristico che accompagna le vare durante il percorso è quello delle ciaccole, strumenti in legno che scandiscono la fermata e la ripresa dell’andamento delle vare. I Misteri sono custoditi presso la settecentesca chiesa barocca delle Anime Sante del Purgatorio da dove parte la processione nel pomeriggio del Venerdì Santo. Il lungo corteo dopo essersi snodato per le vie della città e aver trascorso un'interminabile e affascinante notte, si conclude, sempre nella chiesa del Purgatorio, intorno alle ore 14.00 del Sabato Santo.

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Luisa Montagna Photography

La processione dei Misteri di Trapani è, indubbiamente, una delle più note manifestazioni della Settimana Santa siciliana. Lo è per una serie di ragioni: l’ampia partecipazione di fedeli e di turisti, la forte connotazione sociale e identitaria apportata dalle maestranze, il rituale delle passioni che si dispiega nei gesti (le scinnute e le modalità di trasporto dei fercoli: annacata, vutata, ecc.), nei suoni (le musiche bandistiche, le acclamazioni), negli imponenti gruppi statuari e nei complessi apparati festivi. Come accade in ogni grande festa comunitaria, autentico fatto sociale, le cerimonie rituali espongono il “come si è stati”, il “come si è” e il “come si vorrebbe essere”. Memorie, desideri e realtà nello spaziotempo della festa, dunque del mito, trovano una soluzione ed un senso. La festa riafferma il durevole esserci della comunità entro l’unica cornice realmente e compiutamente legittimante, quella del sacro. Qui sono tutte insieme presenti, e tra loro inscindibili, dinamiche politiche e sociali, strategie comunicative, necessità psicologiche, passioni religiose, tensioni devozionali: chi può mai dire se un fedele compia quel gesto, pronunzi quella parola, porti quello stendardo, indossi quell’abito solo per affermare una sua abilità, solo per dar spazio alla sua devozione o solo per manifestare una sua appartenenza? Egli, consapevole o meno, è un insieme di tutte queste ragioni. Giroinfoto Magazine nr. 53


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I Misteri, infatti, sono sintesi eccellente di una specifica tipologia celebrativa di forte marcatura religiosa e laica e di chiara matrice penitenziale. Le feste di Pasqua possono sempre essere considerate momento di rappresentazione ideale di una societĂ , della sua storia culturale, economica e politica, del suo ordinamento e del suo sistema di valori: la presenza delle confraternite e delle maestranze e le funzioni cerimoniali da queste assunte, i diversi e specifici ruoli assegnati alle donne e agli uomini, agli adulti e ai bambini, la struttura degli itinerari processionali, la successione dei momenti rituali e il rigido ordine di precedenza dei sacri cortei sono alcuni tra gli elementi che denunziano chiaramente questo fatto. Anche per tale ragione la festa religiosa e, in particolar modo la festa di Pasqua, oltre che momento di affermazione e condivisione di fede profonda, diviene per la comunitĂ momento di esibizione del proprio patrimonio e della propria memoria, di riconoscimento e rivendicazione di una specifica appartenenza: un momento ideale dunque per conoscere e fare esperienza dei suoi sentimenti, delle sue certezze e delle sue speranze.

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Andare in loco una settimana prima della Processione doveva servirmi per capire le dinamiche, conoscere i luoghi, vedere la gente, tastare il polso della situazione prima del grande evento e soprattutto introdurmi nelle retrovie per fotografare le persone all’opera ma…sorpresa! Il giorno del mio arrivo c’era già una Processione in corso, un’altra il giorno dopo ed un’altra ancora il giorno successivo… Un’unica grande mobilitazione di tutta la città per tutta la Settimana Santa: uomini, donne, bambini, anziani, commercianti, artigiani, lavoratori impegnati nei preparativi e nelle Processioni in costume.

Tutte le Processioni partono ed arrivano alla chiesa barocca delle Anime Sante del Purgatorio dove all’interno si trovano, schierati, tutti i gruppi statuari.

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Luisa Montagna Photography

Mi ha colpita in particolar modo il fatto che durante la settimana le scolaresche arrivavano a frotte a far visita a questo luogo e le maestre spiegassero ai bambini il significato delle statue, quasi come se fossero dentro ad un Museo...ma forse un po’ lo è. Quando si arriva al giovedì sera, il fermento aumenta all’inverosimile. Le statue ed i gruppi dovranno risplendere in tutta la loro magnificenza per la Processione del grande giorno. Ed ecco che tutte le vare vengono coperte con le apposite mante con sopra i loghi dei Ceti ed addobbate con i fiori. Le statue vengono vestite e ricoperte degli ori e argenti, tenuti al sicuro per tutto l’anno in apposite cassette,

vengono installati i ceri e le luci, i massari attaccano le protezioni ai bastoni portanti che verranno ricoperti di fodere nere e fanno le prove. Tutto deve essere pronto, tra poche ore si comincia. Sono le 14 del Venerdì Santo. L’emozione e la tensione dentro alla chiesa è altissima, si fanno le riunioni qua e là per le ultime direttive di gruppo. La chiesa è stracolma di persone: chi guarda, chi sfila, chi porta. Giroinfoto Magazine nr. 53


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Luisa Montagna Photography Si apre il portone e il rito ha inizio. Alle prime note della banda, una musica che ti dà una botta nello stomaco, lo confesso: ho pianto. Ho pianto per la tensione, ho pianto per l’emozione, ho pianto per la musica. Mi resi conto di essere entrata nello spirito della festa. Per tutta la notte la Processione ha sfilato per la città in un percorso predefinito in un bagno di folla, accompagnata solo dal risuonare delle ciaccole, perché di notte le bande si azzittiscono. Sono le 14 del Sabato. Tutte le vare sono rientrate nella chiesa. Un rientro difficile, sempre con l’annacata, ma all’indietro. I massari sono sfiniti, molti sono pieni di cera colata dalle candele, ma felici. Piangono, si abbracciano in un abbraccio commovente di fratellanza, amicizia, condivisione. La festa è finita, ma molto presto ce ne sarà un’altra.

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70 PRESENTA

WORKING GROUP 2019

BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project

PIEMONT

ITALIA

E

L OMBARDI

A

LAZIO

ORINO ALL AMERICAN

REPORT

Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 53

LIGURIA

STORIES

GIROINFOTO MAGAZINE


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COME FUNZIONA

Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.

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CHI PUÒ PARTECIPARE

Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Invia a events@giroinfoto.com una mail con una fototessera, i dati anagrafici, il numero di telefono mobile e il grado di preparazione in fotografia. L’organizzazione sarà felice di accoglierti.

PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Watsapp, Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tecniche di ripresa. tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubbliGli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze cati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremolegati al brand Giroinfoto magazine. le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.

SEDE OPERATIVA La sede delle attività dei working group di Band of Giroinfoto si trova a Torino con sezioni a Genova, Milano e Roma. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi.

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VIAGGIO IN TERRA SANTA

VIAGGIO

IN TERRA SANTA A cura di Maddalena Bitelli e Remo Turello

Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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L I

A GALILEA È LA ZONA A NORD DELLO STATO DI ISRAELE, DIVISA DAL PUNTO DI VISTA AMMINISTRATIVO TRA ISRAELE E CISGIORDANIA ED È DELIMITATA A EST DAL LAGO DI TIBERIADE. L NOME “GALILEA” DERIVA DALL’EBRAICO (GALIL), CHE SIGNIFICA “CIRCOLO”.

Questa zona è citata nei Vangeli, e quindi conosciuta dai cristiani, come la zona in cui Gesù iniziò la vita pubblica e le predicazioni. A causa delle numerose invasioni che si susseguirono nella storia, il popolo ebraico della Galilea dovette convivere con altri popoli. Per tale motivo, gli Ebrei di questa regione non sono mai stati ben visti dagli Ebrei più ortodossi di Gerusalemme, che denominavano in senso dispregiativo questa terra “Galilea delle genti”. La Galilea è la zona più fertile di Israele, dove vengono coltivati fin dall’antichità l’olivo, la vite, il grano, l’orzo e il lino. Per visitare tutti i luoghi sacri della Galilea bisognerebbe avere a disposizione circa due giorni: l’itinerario del primo giorno potrebbe comprendere il Lago di Tiberiade, il Monte delle Beatitudini, Tabgha, il Santuario del Primato di Pietro e Cafarnao; il secondo giorno, invece, Nazaret e il Monte Tabor.

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VIAGGIO IN TERRA SANTA

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Detto anche Mare di Galilea, Lago di Genezaret o Lago di Kinneret, il Lago di Tiberiade è un bacino di acqua dolce, diversamente dal Mar Morto che è di acqua salata. Formato dal Fiume Giordano, è situato tra i territori di Israele e le alture del Golan, in una depressione che si trova a circa 200 metri sotto il livello del mare. È lungo circa 21 km e largo circa 11, profondo in media 45 metri; è un bacino pescosissimo, infatti in queste zone si può assaggiare il pesce San Pietro, chiamato così a causa delle macchie scure sui lati del corpo: secondo la leggenda sono le impronte lasciate dalle dita di San Pietro, apostolo che lasciò le reti e la pesca per seguire Gesù.

Nonostante in passato sia stato un’importantissima risorsa idrica del paese, fornendo fino a un terzo dell’acqua consumata, oggi ne fornisce soltanto una piccola parte. Per assaporare la calma delle sue acque e ammirare il panorama che lo attornia, vale la pena effettuare una traversata in battello della durata di circa un’ora.

Remo Turello Maddalena Bitelli Photography Photography

A Ginosar, villaggio nei pressi di Tiberiade, sorge l’Yigal Alon Museum, un museo dedicato alla storia della Galilea dai tempi antichi fino ad oggi. All’interno è esposta la “barca di Gesù”, un’imbarcazione così chiamata perché risalente al I sec. d. C. che anticamente veniva utilizzata per la pesca e per il trasporto delle persone. Fu ritrovata nel 1986, ben conservata dal fango che la ricopriva, grazie ad un periodo di siccità che abbassò notevolmente il livello delle acque del lago. Si tratta di una barca composta da 12 tipi di legno differenti, probabilmente fu utilizzata per un lunghissimo periodo e quindi sottoposta a numerose riparazioni.

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Maddalena Bitelli Photography

Il Monte delle Beatitudini è un’altura di circa 150 metri sul livello del Lago di Tiberiade. Sulla cima si trovano un convento di suore francescane e la Chiesa delle Beatitudini. L’edificio di base ottagonale è stato progettato dall’architetto Barluzzi nel 1937; la pianta della base deriva dal numero delle beatitudini citate da Gesù nel discorso della montagna riportato nei Vangeli. La chiesa è circondata da un porticato e da un giardino, immersi nel silenzio, che invitano alla meditazione e da cui si può ammirare un meraviglioso panorama sul lago. Percorrendo i vialetti del giardino, i visitatori possono leggere delle targhe che riportano le beatitudini in diverse lingue. Giroinfoto Magazine nr. 53


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Poco lontano dal Monte delle Beatitudini, sulle rive del lago, si trova Tabgha, luogo dove viene ricordato l’episodio evangelico della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. L’attuale chiesa, affidata ai Benedettini tedeschi, sorge sui resti di una basilica bizantina di cui si sono conservati i bellissimi mosaici che ne costituivano la pavimentazione. (nelle foto: un nilometro, uno strumento a forma di torre usato nell’antico Egitto per misurare le piene del Nilo, e un fenicottero che lotta con un serpente).

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Poco distante dal santuario di Tabgha, in direzione di Cafarnao, si incontra il Santuario del Primato di Pietro. In questo luogo la tradizione cristiana ricorda l’episodio del conferimento a Pietro, da parte di Gesù, del primato tra gli Apostoli e della Chiesa, oltre che gli episodi della pesca miracolosa e della terza apparizione di Cristo risorto ai discepoli. Scavi effettuati nel 1968 da parte dei francescani riportarono alla luce una cappella d’epoca bizantina del IV secolo, che venne distrutta durante le invasioni persiane e arabe; la chiesa attuale fu costruita dai francescani nel 1933.

Al centro della chiesa si trova una roccia, anticamente chiamata “Mensa Christi”, che la tradizione afferma essere quella su cui Gesù, dopo la pesca miracolosa, preparò da mangiare ai suoi discepoli e conferì il primato a Pietro. A chiusura dell’itinerario del primo giorno in Galilea, consigliamo di visitare la città di Cafarnao, dove si dice che Gesù visse ospitato a casa di Pietro e iniziò la sua predicazione. Molto probabilmente la sua costruzione risale all’epoca ellenistica, come testimoniano i reperti archeologici. Al tempo di Gesù doveva trattarsi di una città importante, con una guarnigione militare e un posto di dogana; la sua importanza derivava anche dalla sua posizione sulla strada che collegava Gerusalemme a Damasco. Oggi sono visitabili la sinagoga, risalente al IV secolo e fatta costruire dai romani dopo la seconda rivolta giudaica, e il Memoriale di Pietro, costruito nel 1990 con una forma che vuole ricordare una nave (in ricordo della barca di Pietro e simbolo della Chiesa). Oltre questi due monumenti, si possono osservare gli scavi delle insulae di case della città antica: si pensa che ogni agglomerato di case, costituisse un quartiere abitato da un clan. Le case avevano muri a secco ottenuti con pietre di basalto, che potevano raggiungere i tre metri d’altezza; al centro c’erano dei cortili dove erano posti due o tre focolari per cuocere le vivande. Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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Il secondo giorno il nostro itinerario inizia da Nazaret, con la visita della Basilica dell’Annunciazione. Il nome della città significa “la fiorita” ed è un importante luogo della spiritualità cristiana, in quanto è a Nazaret che l’Arcangelo Gabriele annunciò a Maria la nascita di Gesù. La basilica è stata costruita dall’architetto Muzio negli anni Sessanta e sorge sul sito dove esisteva una chiesa francescana, a sua volta costruita sui resti di edifici bizantini e paleocristiani. Sulla facciata, in pietra bianca e rosa, sono riportate le parole dell’Angelus: “L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria” e “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. La chiesa è costituita da due diversi livelli: la parte inferiore, dove si trova la grotta dell’annunciazione con l’iscrizione in latino “Qui il Verbo si è fatto carne” che fa memoria dell’evento sacro, e la parte superiore, sormontata dalla grande cupola alta oltre 40 metri. Nelle cappelle laterali della chiesa superiore e sui muri del cortile che circonda tutta la basilica, si trovano mosaici e quadri che ricordano l’episodio narrato dai Vangeli. Un’opera qui custodita e ricca di significato è una Madonna realizzata con i metalli delle armi delle guerre, che fu regalata dagli Stati Uniti. La città vanta un importante Museo Archeologico disposto su una vasta area esterna e nel Palazzo Vescovile, che ospita numerosi reperti venuti alla luce in seguito agli scavi effettuati dai Francescani per costruire la nuova basilica. Tra questi sono presenti vasi, anfore, ceramiche, pentole e altri oggetti che vanno dall’età del Bronzo, al periodo del Ferro fino all’epoca romana. Il Museo conserva anche numerosi elementi architettonici delle chiese precedenti, da mosaici a marmi a pietre con incisioni. Sono custoditi cinque capitelli di epoca crociata che riproducono storie di Gesù e di Pietro. Un esempio è il Capitello di San Tommaso: al centro Gesù risorto mostra il costato all’incredulo Tommaso e ai lati una coppia di apostoli.

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Per raggiungere la cima si deve percorrere un sentiero di un’ora di cammino, oppure optare per i pulmini guidati da locali che accompagnano i visitatori su per la strada stretta e piena di curve. Una volta arrivati a destinazione, si può visitare la Basilica della Trasfigurazione, costruita dall’architetto Barluzzi nel 1924. A destra e a sinistra dell’entrata si ergono due torri, costruite su due cappelle preesistenti, affrescate in ricordo dei profeti Elia e Mosè. In questo luogo la tradizione cristiana vuole ricordare l’episodio della trasfigurazione di Gesù che salì sul monte e si rivelò nella sua vera forma ai discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo: non solo uomo, ma anche Dio.

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A nord di Nazaret troviamo la Fontana della Vergine che gli arabi chiamano Ait sitti Mariam all’esterno della Chiesa di San Gabriele. La chiesa fu costruita nel 1750 dai Greci-Ortodossi e scendendo nella cripta si vede scorrere l’acqua della sorgente presso la quale Gesù si recava da bambino con sua madre a prendere l’acqua. Ultima tappa dell’itinerario nella regione della Galilea, è il Monte Tabor, che raggiunge i 588 metri sul livello del mare.

Il clima della Terra Santa è in generale caldo, per lo più secco, in tutti i periodi dell’anno. Tuttavia, occorre considerare le particolarità naturali di alcuni luoghi. Ad esempio, il Lago di Tiberiade è esposto tutto l’anno a venti freddi provenienti dall’Hermon a Nord; è soggetto inoltre a cambiamenti repentini delle condizioni metereologiche, anche nell’arco di una sola giornata. Altre zone, come quella del Mar Morto, che si trova 400 metri sotto il livello del mare, sono caratterizzate da clima principalmente torrido e umido; Gerusalemme, invece, che si trova a mille metri d’altitudine, in inverno ha un clima più freddo . Dunque, cosa mettere in valigia per un viaggio in Terra Santa? Il classico abbigliamento “a cipolla”! In inverno soprattutto.


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VIAGGIO IN TERRA SANTA

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Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 53


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Raccontare la seconda guerra Mondiale e il D-Day in modo completo ed efficace non è semplice. E’ stata una guerra talmente complessa e ricca di avvenimenti che renderne un’immagine reale risulta difficile. Siamo nel cuore della Normandia, a due passi dalle spiagge dello sbarco, e lì, dal 1988, sorge il Memoriale di Caen; Uno spazio di 32000 mq interamente dedicato alla storia del XX secolo sul tema della fragilità della pace. L’idea di un museo per la pace è venuta al sindaco di Caen, Jean Marie Girault, nel 1969. Nel 1986, fu posata la prima pietra nel luogo in cui sorgeva il commando del Generale Wilhelm Richter, comandante della 716a divisione d’infanteria tedesca durante lo sbarco in Normandia. L’inaugurazione avvenne nel 1988 in presenza del presidente della Repubblica Francese François Mitterrand. Il Museo per la Pace custodisce una collezione di più di 8.000 oggetti e 100.000 documenti riguardanti la Seconda Guerra Mondiale in Europa. I percorsi sono organizzati in modo crono-tematico e lasciano uno spazio particolarmente ampio all’olocausto. L’ingresso principale è costeggiato da una serie di bandiere delle principali nazioni che hanno preso parte alla Battaglia di Normandia mentre dall’altra parte si trova una vetrina con le prime 12 pietre estratte dal suolo da ognuna delle Nazioni coinvolte. Il Museo si divide in due ali principali: “Il mondo prima del 1945” e “Il mondo dopo il 1945”.

A cura di Barbara Lamboley

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Barbara Lamboley Photography

Il mondo prima del 1945 Dalle origini della Seconda Guerra Mondiale alla fine della guerra, questo primo percorso racconta e spiega quello che fu la prima metà del XX secolo.

La sconfitta della pace:

Dal bilancio catastrofico della fine della prima guerra mondiale al 1939, la prima parte mostra il concatenamento di cause effetti che hanno preceduto la Seconda Guerra Mondiale in Europa e in Asia. Questo primo percorso termina con l’invasione della Polonia nel Settembre del 1939.

La strana guerra, da Settembre 1939 a Maggio 1940:

E’ la presentazione dell’inizio della guerra con 3 chiavi di lettura differenti: francese, inglese e tedesca.

La Francia degli anni bui:

Questo spazio illustra la vita quotidiana dei Francesi dopo la sconfitta della Francia, le diverse forme di collaborazione e di resistenza dal 1940 al 1945.

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Guerra Mondiale, Guerra totale Dalla guerra europea alla Guerra Mondiale:

1941: la Germania lancia l’operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica e il Giappone attacca Pearl Harbor. Russi e Americani raggiungono quindi gli Alleati nella lotta contro i paesi dell’asse: il conflitto diventa mondiale.

Genocidio e violenze di massa, sterminio degli ebrei in Europa:

La shoah, i centri di concentramento e di sterminio, la deportazione degli zingari, violenze dell’esercito giapponese… E’ in questo clima di violenza inaudita che sono stati perpetrati i peggiori atti criminali di guerra in Europa ma anche in Asia tra il 1937 e il 1945.

La guerra totale:

Nella guerra totale, la società intera è coinvolta nel conflitto: partecipa alla guerra, subisce le deportazioni e i bombardamenti. Il nemico, distrutto dalla propaganda, è solo un obiettivo da distruggere.

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I popoli di fronte alla guerra:

Questa sala rende l’idea di come gli uomini, civili e militari, hanno vissuto e percepito gli anni della guerra.

Riconquista e liberazione:

Tra combattimenti, bombardamenti massicci delle città, guerra civile e rappresaglie contro le popolazioni, le guerre di liberazione mettono fine in modo progressivo alla devastazione dell’Europa e dell’Asia, entrambe stremate dalla guerra.

Bilancio e uscita dalla guerra:

Questa parte fa il bilancio umano e materiale della guerra di dimensioni planetarie che ha sconvolto il mondo e ha fatto perdere all’Europa il suo potere e la sua immagine di fronte agli Stai Uniti e all’Unione Sovietica, i grandi vincitori del conflitto.

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Lo sbarco in Normandia:

Questo spazio è interamente dedicato allo sbarco degli alleati in Normandia, episodio cruciale alla liberazione dell’Europa. Poca gente quanto abbia sofferto la Normandia, dopo il 6 Giugno 1944. Un terzo dei 60.000 civili francesi ammazzati durante la seconda guerra mondiale erano normanni; distruzione delle città, bombardamenti massicci, battaglie feroci, sofferenza dei civili, fuga dai tedeschi… La raccolta eccezionale di testimonianze dei civili e soldati fa capire al visitatore l’intensità della battaglia. Ad illustrare in modo esaustivo la battaglia, il film di 19 minuti intitolato “La terrible bataille de Normandie” ovvero “La terribile battaglia di Normandia” montato a partire da immagini di archivio tedesche, francesi, canadesi, britanniche e americane; dà allo spettatore un’immagine concreta della durata e della violenza dello sbarco e della battaglia di Normandia, iniziata il 6 giugno 1944 e finita col bombardamento di Le Havre a Settembre del 1944.

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Il racconto dello sbarco in Normandia dal punto di vista di

Robert Capa Il 6 giugno 1944 è conosciuto come il D-Day, il tragico giorno dello sbarco in Normandia, un evento epico e tragico che ha cambiato il corso della storia.

Fortunatamente nell’ultimo rullino rimasto si salvarono 11 fotografie che vennero immediatamente battezzate “Magnificent Eleven“.

A fianco delle migliaia di soldati pronti ad invadere la spiaggia di Omaha Beach c’era Robert Capa, fotografo ungherese, chiamato a documentare le fasi delicate dello sbarco assieme a pochi altri fotografi che però non riuscirono a documentare quasi nulla o morirono sul campo.

Queste 11 immagini abbastanza sfuocate ispirarono anche Steven Spielberg a girare il film “Salvate il soldato Ryan” e sono le UNICHE fotografie al mondo che documentano il giorno dello sbarco a Omaha Beach!

Armato di due fotocamere Contax II, il fotografo Robert Capa documentò il secondo assalto a Omaha Beach, definito poi uno dei più intensi reportage di guerra di tutti i tempi. Capa riuscì a scattare 106 fotografie del D-Day che vennero inviate immediatamente a Londra nella sede di Life, la rivista per la quale lavorava Robert Capa. I 4 rullini inviati vennero immediatamente sviluppati ma un giovane assistente, dalla fretta, si dimenticò di accendere la ventilazione dell’essicatore con cui venivano asciugati i rullini e purtroppo 3 su 4 vennero buttati via! Robert Capa Photography

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“Il mare era gelido e la spiaggia ancora lontana un centinaio di metri. Mentre intorno a me fioccavano proiettili che bucavano l’acqua, mi diressi verso la barriera d’acciaio più vicina. Ad un soldato venne la stessa idea e per alcuni minuti dividemmo insieme quella specie di rifugio. […] Era ancora troppo grigio e troppo plumbeo per scattare buone foto, Barbara Lamboley Photography ma il colore plumbeo dell’acqua e del cielo rendevano molto carichi d’effetto quei piccoli uomini che cercavano di evitare gli assurdi ostacoli antinvasione inventati dal trust di cervelli di Hitler. […] Mi fermai per alcuni scatti in più e feci appello a tutto il mio coraggio per l’ultimo balzo verso la spiaggia. […] La pendenza della spiaggia ci garantì un po’ di protezione dai colpi delle mitragliatrici e dei fucili per tutto il tempo che restammo in quella posizione, ma l’alta marea ci spingeva continuamente contro le barriere di filo spinato, dove il fuoco delle armi sembrava festeggiare l’apertura della stagione turistica”

Robert Capa

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Il mondo dopo il 1945 Questa parte racconta gli avvenimenti successi nel mondo dalla fine della seconda Guerra Mondiale alla caduta del muro di Berlino, cioè illustra tutta la seconda metà del XX secolo.

Il faccia a faccia ideologico:

Evocazione dello scontro tra due mondi, immagini della vita quotidiana e della propaganda ma anche delle contestazioni e della repressione. La divisione tra est e ovest è ormai reale.

Le crisi della guerra fredda:

Rappresentazione della crisi dei missili di Cuba attraverso i resti di un aereo abbattuto dagli americani nel 1962; la crisi dei missili di Cuba è un susseguirsi di eventi avvenuti dal 16 al 28 ottobre 1962 e che hanno visti protagonisti gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. La causa principale della crisi è stata determinata dal posizionamento sull’isola di Cuba di una serie di missili sovietici puntati in direzione degli stati uniti. Questa crisi ha portato i due fronti a sfiorare una guerra nucleare.

L’equilibrio del terrore:

Un autentico Mig-22 sovietico, un missile francese,

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una bomba atomica americana dimostrano la sfrenata corsa all’armamento in generale ma in particolare all’armamento nucleare dei due fronti. Regna un equilibrio del terrore.

Berlino in mezzo alla guerra fredda:

La città di Berlino è diventata il simbolo della Guerra Fredda, il simbolo di tutti gli antagonismi Est-Ovest. Divisa da Luglio 1945 tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica, la capitale tedesca ha conosciuto periodi di forte tensione prima e dopo la divisione in due, nell’agosto del 1961. A partire da questa data, Tedeschi dell’Ovest e Tedesco dell’Est vivono separati da un Muro e questo fino alla sua caduta, il 9 novembre del 1989. Concepito attorno a pezzi di muro ricoperti di scritte dai berlinesi, questo spazio di 400 mq presenta al pubblico oggetti e film che raccontano la vita prima e dopo la caduta del Muro.


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l bunker sotterraneo,

posto di comando del Generale Richter Fino al 2013, la Galleria dei Premi Nobel per la Pace era installata nell’ex posto di comando del Generale Richter, comandante della 716a divisione d’infanteria tedesca durante lo Sbarco e la Battaglia di Normandia. In questo luogo, il Memoriale di Caen celebrava alla sua maniera le personalità e organizzazioni che si erano battute per la Pace. Da Gennaio 2014, la scenografia è stata completamente rivisitata e il bunker ospita una mostra permanente che spiega la storia del sito e dell’occupazione tedesca e della resistenza.

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A cura di Monica Gotta

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Magazzini del Cotone Porto Antico

GENOVA

Monica Gotta Stefano Zec

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Monica Gotta Photography

Nella cornice del Porto Antico, il 23 febbraio 2020 è stata inaugurata la manifestazione VinNatur 2020, organizzata dall’Associazione Viticoltori Naturali.

Dopo la nostra visita alle 5 Terre, uno dei territori liguri più conosciuti sia a livello turistico, sia per le eccellenze enogastronomiche, torniamo nuovamente a parlare di vino. Vedasi reportage sul n. 50 di Dicembre 2019

Questo evento doveva essere l’apertura della Genova Wine Week, iniziativa condivisa con l’Associazione Papille Clandestine, durante la quale erano previsti diversi appuntamenti dedicati alla produzione di vino. Purtroppo, dal 24 febbraio 2020, in ottemperanza all’ordinanza regionale relativa a misure di contenimento sanitarie, tutti gli eventi sono stati cancellati, compreso il Genova Wine Festival che il 1 marzo avrebbe chiuso la settimana del vino … "che ha come protagonista il “vino dei genovesi”: ciò che si beve oggi e ciò che si è sempre bevuto in questo territorio, storicamente legato alle rotte commerciali e alle culture che si sono incrociate sotto la Lanterna". (cit. https://www.genovawinefestival.com/cantine-2020/) Per addentrarsi al meglio nell’atmosfera della manifestazione, a partire da venerdì 21 febbraio, in centro città erano state organizzate serate in alcuni locali genovesi in cui i viticoltori di VinNatur si erano immedesimati nella veste di osti per fornire approfondimenti riguardo la loro produzione vinicola e le caratteristiche uniche che rappresentano i loro prodotti e le loro aziende. L’edizione 2020 ha riunito più di 100 vignaioli provenienti da Italia, Spagna, Francia e Slovenia. Il nostro magazine ha avuto la possibilità di assistere alla giornata di apertura ed effettuare interviste ad alcuni viticoltori aderenti all’iniziativa, dalle quali è emersa una grande passione e dedizione.

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L’ASSOCIAZIONE VinNatur promuove l’unione dei vignaioli che producono vini agendo nel rispetto del territorio, delle viti, dei cicli naturali, limitando l’uso di agenti chimici e della tecnologia in genere, sia in vigna, sia in cantina. L’Associazione sostiene la ricerca scientifica e divulga la conoscenza delle tecniche naturali e innovative, grazie anche alla pubblicazione della rivista semestrale VinNatur Magazine, edita dal 2019. Da segnalare che VinNatur ha prodotto un disciplinare di produzione del vino naturale, grazie alla collaborazione con una società italiana leader nella certificazione volontaria e nei controlli regolamentati, Valoritalia, la quale “nasce come società di certificazione dei vini a Denominazione d’Origine, Indicazione Geografica e dei vini con indicazioni del vitigno e/o dell’annata. Garantisce la tracciabilità del prodotto dal vigneto alla commercializzazione” I tecnici coinvolti in quest’attività sono professionisti che, per svolgere al meglio le loro mansioni, hanno ricevuto in aggiunta una formazione specifica sul protocollo di VinNatur, al fine di farlo rispettare. I controlli, svolti direttamente in loco, pongono particolare attenzione alla gestione del vigneto e alle tecniche agronomiche adottate dai produttori.

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IL VINO NATURALE Il protagonista delle giornate genovesi è il vino, per la precisione il vino naturale. Come in altri settori, il ritorno “al naturale” nasce come reazione alle produzioni industriali che si pensa abbiano impoverito i terreni e trasformato questo prodotto d’eccellenza italiana, oltre al desiderio di tornare alle origini, non così distanti nel tempo, quando i nostri nonni facevano tutto a mano affidandosi, per la buona riuscita del prodotto, ai frutti della terra e alla benevolenza della natura. In sostanza, per definire naturale un vino, lo stesso deve essere libero da sostanze chimiche, senza alterazioni riguardanti aspetto, profumo e gusto. Non dubito abbiate notato la differenza tra gustare un vino senza artefatti e uno “adattato” alle regole del mercato, che insegue un teorico gusto del pubblico. E naturale è diverso da biologico. Questa tendenza si sta espandendo, anche se discussioni e

controversie non mancano, in quanto non esiste ancora una vera definizione e un disciplinare condiviso. Proprio per questo motivo nel mondo del vino naturale si auspica la stesura di un disciplinare rigoroso, supportato da criteri scientifici, che indichi una via precisa ai produttori interessati a seguire questa strada. Ma chi ha inventato il vino? Pare che la scoperta del vino sia talmente antica da affondare le sue radici nella leggenda e nel mito. Alcune scoperte archeologiche collocano fossili di vite in Toscana, altre teorie affermano che la scoperta del vino fu casuale e avvenne nel Neolitico in seguito a una fermentazione spontanea e l’uomo divenne “vignaiolo per caso”. Le prime tracce di coltivazione sono state rinvenute nella Turchia orientale mentre in Armenia, dove la vite selvatica cresce tutt’ora spontanea, è stata scoperta la prima casa vinicola.

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Entriamo quindi nel cuore dell’evento! All’ingresso del Centro Congressi dei Magazzini del Cotone ci viene consegnato il calice per la degustazione. Arrivati al piano troviamo la parte dedicata alla gastronomia, ed entrando nella zona dedicata ai produttori vinicoli, appuriamo che l’evento ha attirato molte persone, semplici curiosi ma anche esperti del settore e giornalisti. A parte le aziende di provenienza straniera, constatiamo che in questa manifestazione sono rappresentate la maggior parte delle regioni italiane: Abruzzo, Trentino Alto Adige, Campania, Emilia Romagna, Friuli, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto. Le aziende sono raggruppate per regioni per facilitare la visita. Abbiamo intervistato due produttori liguri: lo storytelling è riferire le loro esperienze, ritrovare antichi metodi, ascoltare il loro vissuto, conoscere ciò che stanno sperimentando per trovare nuove vie al gusto.

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LE INTERVISTE Stefano Zec Photography

Azienda Agricola Terra della Luna Produzione di vini naturali nei Colli di Luni (SP) – Liguria Ci avviciniamo al primo produttore ligure presente a VinNatur 2020. La sua azienda si trova nei Colli di Luni, vicino a La Spezia, ai confini con la Toscana. Il terreno si trova a 3 km dal mare ed è un terreno argilloso, composto in superficie da argilla rossa e al di sotto da argilla grigia. Questa particolare configurazione del terreno permette di vendemmiare anche in stagioni asciutte, in periodi diversi da quelli canonici. Ci spiega che l’argilla grigia si comporta da impermeabilizzante per cui, se vi è carenza di pioggia, mantiene fresche le radici delle viti e questo dà la possibilità di procedere con una vendemmia tardiva ad ottobre. Nel mentre del racconto si assaggiano i vermentini, senza solfiti, che fermentano solo in acciaio. La provenienza del vermentino, vitigno a bacca bianca semi-aromatico, è incerta, parrebbe spagnola, ma nemmeno l’etimologia del nome suggerisce indizi; si ipotizza possa essere stato portato in Corsica e, successivamente, in Liguria. Adattandosi particolarmente a climi caldi e secchi

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è anche conosciuto come “vino del mare”. Ogni qualità presenta caratteristiche che lo legano al territorio in cui cresce, mostrando però sempre in aggiunta anche i profumi della macchia mediterranea. Iniziamo a degustare un vino del 2017, annata asciutta senza piogge. A ragione di quanto detto precedentemente, questo vino deriva dalla vendemmia di settembre, mentre il successivo assaggio sarà un vermentino del raccolto di ottobre: la differenza risulta piuttosto evidente a livello di gusto, il primo è decisamente più sapido. Del 2018 si dice sia stata una buona annata con un giusto equilibrio tra pioggia e sole: i vini presentano un’ottima sapidità ma anche una buona acidità, caratteristica importante perché ne permette una maggiore longevità e ciò fa sì che, dopo qualche anno, il vino regali sapori inaspettati e strutturati. Questo è quanto riscontriamo in fondo al calice, un vino molto particolare, decisamente differente dai precedenti.


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Arriviamo al 2014, nel mese di luglio si verificò un evento meteorologico straordinario: 23 giorni di piogge continuative. La pioggia può incidere molto sull’acidità dei vini naturali. In questo caso è risultata essere piuttosto alta portando il produttore alla scelta di commercializzare il vino solo ora, per dargli il tempo di esprimere le sue migliori qualità. Un passo fondamentale è stato rifermentarlo in bottiglia per permettere di trovare un giusto equilibrio di gusto, caratteristica che anche noi notiamo. Continuiamo con un vino rosé: si chiama Osé di Luna, è un grenache-cannonau, fermentato in bottiglia, ossia con fermentazione alcoolica terminata in bottiglia, senza mosto e solfiti aggiunti. Anche questo vino è un esperimento del produttore, per cui ce ne parla con la curiosità di chi desidera conoscere l’opinione di coloro che lo assaggiano. Il grenache è un vitigno a bacca nera di origine spagnola e di antichissima tradizione nelle aree viticole mediterranee. Si trova in Spagna, Francia, Portogallo, Italia, specialmente in Sardegna con il nome di cannonau, e in molti stati esteri. Originariamente si trattava solo di grenache nero ma, nel tempo, si sono sviluppate forme grigie (rosate) e bianche.

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Secondo il Gambero Rosso il vitigno vive in Sardegna dal 1.400 a.C., pertanto sono nate teorie sull’endemicità di questo vitigno nelle zone interne dell’isola. Il successo è dovuto, oltre che all’adattabilità ai climi caldi, alla sua originalità aromatica. Il proprietario dell’azienda ci racconta che da casa sua, quando è limpido, si vede la Corsica. La costa ligure, la Corsica e la Sardegna creano virtualmente un golfo chiuso, forse si spiega in questo modo la territorialità del vitigno e il microclima che aiuta la sua presenza. Passando ai vini rossi fermi ne produce di due tipi: un grenache in purezza e un syrah in purezza, ovvero prodotti con il 100% dello stesso vitigno. Spesso i vini vengono prodotti unendo diversi tipi di uve per ottenere le migliori caratteristiche organolettiche. Questi vini, datati 2017, hanno trascorso due anni in “legno grande”, ossia in botte da 500 l. vengono imbottigliati senza essere filtrati e senza aggiunta di solfiti, rimangono in bottiglia almeno tre mesi prima di essere commercializzati. Il Syrah, un’uva cosiddetta internazionale, è una delle uve rosse più nobili, nota per i suoi tipici aromi. La sua origine è incerta, si ipotizza venga dal Medio Oriente.

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In cantina si stanno anche eseguendo esperimenti di fermentazione nel marmo di Carrara. E, con grande stupore delle persone raccolte intorno a questo tavolo, appare una bottiglia del 2017 nata proprio dal marmo. Il contenuto di questa bottiglia così particolare ha riposato nel marmo per quasi un anno e, pur immaginando un altro tipo di evoluzione del prodotto, il viticoltore è rimasto piacevolmente stupito del risultato. Chiedendo un abbinamento gastronomico, soprattutto ligure, il viticoltore suggerisce che Lunatica si abbinerebbe bene con il coniglio alla cacciatora, per la precisione alla ligure, con olive e pinoli, mentre Lunatica 2014, vino molto acido, con le acciughe di Monterosso. Qui si impone una riflessione: naturale all’ennesima potenza o imprenditore agricolo 3.0? L’importante è sviluppare idee imprenditoriali innovative, uno dei settori produttivi più antichi e tradizionali del paese. Fare agricoltura sana e consapevole è un vero e proprio boom, a livello nazionale, come non si era mai visto.

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Azienda Agricola Terrazze Singhie Orto Feglino (SV) - Liguria

Ci apprestiamo ora ad ascoltare il racconto del secondo produttore ligure presente a VinNatur 2020. L’azienda si trova nella provincia di Savona, a Orto Feglino, sopra Finale Ligure. È gestita da una giovane coppia, lui lombardo, lei friulana, hanno scelto di vivere in Liguria per gestire quest’azienda e anche perché considerano questo posto un luogo magico. Da due anni cercavano un luogo di cui innamorarsi e in cui trasferirsi, l’hanno trovato qui: lei amante del mare, lui della montagna, la Liguria unisce in sé entrambi i panorami. A prescindere dalle motivazioni personali, si tratta di una regione vitivinicola con tanto ancora da dare e da scoprire, soprattutto nel settore dei vini naturali. Hanno iniziato acquistando a fine 2017 un vigneto storico in cui per 300 anni si è coltivato il grano e solo 100 anni fa è stata piantata la vigna. Per volontà di vinificare quest’uva in modo tradizionale e di conservare il territorio, hanno scelto di mantenere inalterata la struttura originaria. Coltivano la lumassina, varietà d’uva autoctona della provincia di Savona, presente tra l’entroterra di Noli e quello

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di Finale Ligure. Pare ne siano rimasti meno di 100 ettari per far spazio a vermentino e pigato. Lumassina, in ligure, significa anche lumachina, poiché, secondo la tradizione locale, questo vino va bevuto accompagnato ad un piatto di lumache. È indicato per la vinificazione in bianco, come vino secco e come spumante, matura a fine settembre ed è adatto alla vinificazione in purezza. La caratteristica di questo vitigno è avere un grappolo molto composto, ricco di acidità e tarda maturazione. In questa azienda la si raccoglie acino per acino, a seconda della giusta maturazione, in modo da lasciare il grappolo sano il più possibile sulla pianta. In cantina si utilizzano vasche d’acciaio, si pressa e inserisce il prodotto in barrique per 10 mesi. Il prodotto finale non viene filtrato. I proprietari stanno sviluppando il mercato nella zona di Milano, di Roma, in Sicilia e un po' anche in Liguria. Il vino che stanno presentando a VinNatur 2020 è la loro prima vendemmia!


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IL TAPPO HI-TECH Una delle tante sperimentazioni nel settore del vino riguarda i tappi delle bottiglie. Aprendole avrete notato che possono essere di diversi materiali, sughero, metallo, vetro e così via. Parlando con uno dei produttori veniamo a conoscenza di una nuova sperimentazione sulle chiusure, iniziata per far sì che il vino non venga alterato dai mutamenti del tappo nel tempo. La parte essenziale di questo nuovo tappo è quella a contatto con il vino, creata con un materiale trasparente, completamente inerte e asettico, utilizzato anche in medicina. Questa chiusura ermetica, nonostante sia costosa, può essere molto utile per la conservazione dei vini più longevi.

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Questi sono solamente 2 racconti su 100 che avremmo potuto ascoltare e divulgare. Concludiamo pensando che la qualità del vino si crei principalmente attraverso impegno, dedizione e passione dei produttori, nel rispetto dell’ambiente e della diversità dei terreni, grazie alle operazioni in cantina e l’uso accorto delle tecniche enologiche, tramite ricerca, sperimentazione e innovazione. Come si evince dalle interviste, si potrebbe affermare che un winemaker sia un inventore, un interprete della natura nella

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quale vive, regista della storia del suo prodotto, frutto del lavoro legato indissolubilmente al terreno e al clima al quale esso è soggetto. Dopotutto, il vino si fa con la filosofia di essere consapevoli del proprio prodotto.

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Middle Earth

Autore: Giuseppe Calogero Lago di Dobbiaco Trentino

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Sea Guardians Autore: Paolo Gentili Ladispoli (Rm)

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A piccoli passi Autore: Pina Pignatiello Pescocostanzo - L'Aquila Giroinfoto Magazine nr. 53


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ARRIVEDERCI AL PROSSIMO NUMERO in uscita il 20 Maggio 2020

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