Benvenuti nel mondo di Giroinfoto magazine
Novembre 2015,
da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta.
È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage.
Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti
Oggi
Ed ecco entrati nel sesto anno di redazione di Giroinfoto Magazine. Le difficoltà degli ultimi due anni relative alla pessima gestione sociopolitica sono cresciute, intralciando il libero sfogo editoriale limitando le prerogative della rivista nello sviluppo culturale e turistico in aiuto dei territori.
Nonostante tutto, e grazie all'impegno di tutti i nostri collaboratori, il progetto Giroinfoto.com non si arresta, anzi, combatte con tutte le proprie forze per pubblicare articoli utili alla valorizzazione dei territori bisognosi di visibilità.
In questo periodo storico, dove tutto è ormai convertito al mondo digitale, risulta talvolta anacronistico volersi concentrare su un progetto cartaceo, sia per motivi di convenienza economica che di divulgazione.
Da qui la decisione di mantenere il magazine con un format "tradizionale" per il mantenimento della qualità comunicativa, evolvendolo alla digitalizzazione favorendo la fruizione.
In ultimo, vorrei ringraziare anche tutti i nostri lettori che crescono continuamente sostenendo il progetto Giroinfoto.
Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
Giroifoto è
Editoria
Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
Giroifoto è
Attività Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
Giroifoto è Promozione Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
CAPO REDATTORE Mariangela Boni
RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ
Barbara Lamboley (Resp. generale)
Adriana Oberto (Resp. gruppi)
Barbara Tonin (Regione Piemonte)
Monica Gotta (Regione Liguria)
Manuel Monaco (Regione Lombardia)
Gianmarco Marchesini (Regione Lazio)
Isabella Bello (Regione Puglia)
Rita Russo (Regione Sicilia)
Giacomo Bertini (Regione Toscana)
Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna)
COORDINAMENTO DI REDAZIONE
Maddalena Bitelli
Remo Turello
Regione Piemonte
Stefano Zec
Regione Liguria
Silvia Scaramella
Regione Lombardia
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Regione Lazio
Rita Russo
Regione Sicilia
Giacomo Bertini
Regione Toscana
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Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.
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DELL'ARSENALE
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A cura di Barbara Tonin
Adriana Oberto Barbara Tonin Giancarlo NittiTORINO
Raccontando di Torino, della sua storia, della sua architettura e dei suoi personaggi, è doveroso menzionare uno dei palazzi più imponenti e culturalmente fecondi: il Palazzo dell’Arsenale, un tempo Regie Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria e Fortificazione, oggi sede del Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito.
Polo formativo già da metà del Settecento, ha plasmato giovani che successivamente hanno fatto non solo la Storia d’Italia, ma hanno anche fissato i capisaldi della scienza, della tecnologia, della cultura e della società: uomini illustri quali Camillo Benso Conte di Cavour, Giovanni Cavalli e Vittorio Bottego, eroi quali Giovanni Cairoli, Piero Toselli e Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, e Generali quali Alfonso Lamarmora, Raffaele Cadorna, Armando Diaz, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Enrico Caviglia e Franco Angioni.
Tra i docenti, figurano scienziati di fama mondiale quali Luigi Lagrange, Paolo Ballada di Saint Robert, Giovanni Cavalli, Agostino Chiodo, Giovanni Plana, Filippo Burzio.
Sita nel cuore di Torino, la struttura, come la vediamo oggi, nasce come ridefinizione del Regio Arsenale, che inizialmente era un fabbricato che delimitava ampi cortili di forma quadrata e che comprendeva poligoni, laboratori e una fonderia, risalenti al secondo Seicento.
L’Arsenale, quindi, viene ripensato con l’intento di diventare il più importante centro di riferimento per la difesa del territorio e dei regnanti e per la produzione, raccordando l’isolato di Santa Barbara con l’area della Cittadella; Carlo Emanuele III voleva un arsenale “a prova di bomba, in grado di resistere ad un attacco come i depositi di munizioni”.
La produzione, infatti, sarà volta a fabbricare non solo cannoni e ordigni bellici, ma anche fuochi d’artificio.
La meravigliosa architettura di Palazzo dell’Arsenale nasce da un lungo periodo di interventi iniziati negli anni ’30 del Settecento su strutture preesistenti.
Stilisticamente influenzato dal primo architetto di Sua Maestà Filippo Juvarra, che doveva conferire magnificenza allo spazio militare di rappresentanza conservando la funzione produttiva, il progetto fu poi firmato e portato a termine dal capitano Antonio Felice De Vincenti.
A Juvarra, tuttavia, si deve l’innovazione di separare la zona di rappresentanza da quella di produzione.
Il primo progetto di Juvarra del 1728 prevede un complesso di due piani, al cui pian terreno sono collocati i magazzini e al primo piano la sala d’armi.
Il secondo progetto del 1730, a cui seguirà l’inizio dei lavori, porta alla costruzione di una composizione simmetrica rispetto all’asse inclinato, che si presenta con un importante scalone a tenaglia, con due rampe in curva, sul vertice dell’ingresso attuale; altri due assi perpendicolari, poi, attraversano idealmente le quattro
maniche che delimitano il cortile completando la simmetria nella zona produttiva.
Le modifiche apportate in quest’ultimo progetto, tuttavia, non potenziano il complesso, come voluto da Carlo Emanuele III.
Un nuovo progetto viene quindi pensato e predisposto nel 1736 da Ignazio Bertola, noto anche per la realizzazione dei forti di Exilles e Fenestrelle, e infine firmato da Antonio Felice De Vincenti.
Un provvedimento regio documenta che il capitano d’artiglieria dovrebbe aver disegnato
La nuova soluzione ingloba e modifica il complesso esistente, lasciando però l’impianto juvarriano.
A Palazzo dell’Arsenale viene, quindi, integrata e completata la sala d’armi e, nel frattempo, continua la produzione di munizioni e armi da fuoco. Una descrizione della fabbrica militare è pubblicata nel 1753 nella “Guida de’ forestieri per la Real Città di Torino” di Gian Giacomo Craveri, in cui si
Alla porta di questo sta continuamente un Corpo di Guardia del Reggimento dell’Artiglieria. E sotto l’atrio vedonsi quattro stupendi pezzi di cannone, Nell’ampio cortile del medesimo trovansi moltissimi cannoni, mortari, mucchi di bombe, palle da cannoni, ed altri simili attrezzi militari.
Quest’Arsenale fu cominciato dal duca Carlo Emanuele II, ristaurato dal re Vittorio Amedeo II, indi dal regnante sovrano Carlo Emanuele fu accresciuto di sontuosa fabbrica ed ultimamente di un nuovo, e particolare edificio, dove è stabilita la Scuola di metallurgia, alla quale resta annesso un ampio laboratorio, fornito di tutti li fornelli, vasi e strumenti necessari alla chimica metallurgica; ed un museo, o un gabinetto in cui si fa la raccolta di tutti li minerali, e fossili non men del Paese, che esteri.
Inoltre vi sono fonderie di metalli, officine, e magazzini d’ogni sorte d’istrumento militari da taglio, ed da fuoco,
Dietro all’Arsenale in capo alla contrada comincia il nobile e dilettevole passeggio della Cittadella».
Palazzo dell’Arsenale si presenta in stile barocco, ma con influenze dell’ordine dorico, sugli assi stradali di via dell’Arsenale e di via dell’Arcivescovado, atte a conferirgli un senso di austerità.
Il pian terreno è caratterizzato da imponenti pilastri bugnati sormontati da pilastrini sdoppiati con volute che richiamano i capitelli.
Su questi corre la cornice marcapiano che demarca il piano nobile, a doppia altezza e strutturata in lesene sdoppiate, anch’esse in bugnato, che conferiscono regolarità e modularità alle facciate.
La fascia più in alto, ornata di triglifi combinati a coppie e di riquadri con trofei di armi, completa la struttura. L’impressione che ne risulta è di una profonda prospettiva, solida e protettiva, che rimanda allo schieramento dei soldati in linea.
Le facciate, invece, sugli altri due assi stradali conservano l’immagine barocca che caratterizzava la capitale sabauda.
Posto tra via dell’Arsenale e via dell’Arcivescovado, rivolto verso il nucleo storico della città, l’ingresso angolare, impostato da Castellamonte e affinato da Juvarra, è chiuso da un imponente portone d’accesso ad arco, sormontato da una testa di leone che gli fa da chiave.
Ai lati, due coppie di massicce colonne binate sostengono una maestosa trabeazione ottocentesca, raffigurante le statue del Genio militare e dell’Artiglieria. L’aspetto attuale di tale facciata fu realizzato nel 1890 dal Capitano del genio Emilio Marrullier, modificando il progetto voluto da De Vincenti.
Sopra il portale, una lapide ricorda gli scopi dell’opera: “Regnando CARLO EMANUELE III, cresciuto il Piemonte in militare grandezza, sorse, disegnato da Felice De Vincenti, questo Arsenale di guerra, e perché rimanesse, di sua militare difesa, presidio, scuola, officina, vi diè compimento l’Italia nuova regnante UMBERTO I”.
Varcato l’ingresso, un lungo corridoio antistante accompagna verso il cortile interno e, ai lati, uno scalone a tenaglia conduce ai piani superiori. Inusuale e innovativo l’asse diagonale che dall’ingresso divide in due parti perfettamente simmetriche lo spazio interno e incanala l’attenzione, con forte dinamismo, verso il cortile “d’onore” (un tempo “cortile civile”), che ha sempre avuto connotazione di rappresentanza.
Le facciate che guardano la corte si presentano nuovamente in stile barocco e con grande modularità, con ampie finestrature e ricche di ornamenti, figure allegoriche, riquadri con trofei d’armi, abbaini, fiaccole e doccioni.
Dalla parte opposta, a mettere in comunicazione i vari porticati, il padiglione denominato “Gran scala”, che originariamente era l’ingresso principale. Anch’esso, come il precedente, presenta una scala a tenaglia, passaggi, snodi, atrii affluenti e arcate.
Dallo scalone si raggiunge l’ampio e luminoso salone del piano nobile, che sfoggia imponenti alte coppie di pilastri, archi, volte a vela e cupole sferiche, che conferiscono allo spazio una forte carica ascensionale. Attigue al salone e sviluppate su due o tre navate, ci sono quelle che in passato erano le sale d’armi dell’Arsenale, in cui si ripetono pilastri, archi e cupole sferiche e ampie finestre disposte in ordine sovrapposto.
Giancarlo Nitti Photography Giancarlo Nitti PhotographyL’intervento di Ignazio Bertola non si limita, però, agli aspetti architettonici. Di concerto con altri ingegneri militari e con l’approvazione di Carlo Emanuele III, dà vita nel 1739 alle Regie Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria e Fortificazione, di cui diventa primo direttore. Ideata al fine di riorganizzare i settori tecnici dell’esercito sabaudo, diventa un vero e proprio istituto di formazione politecnica per l’istruzione del Corpo degli ingegneri militari; un punto di riferimento di vita intellettuale, culturale e militare, che mise in comunicazione Torino con l’Italia e il resto del mondo.
Emerge dunque in via definitiva la funzione del complesso, che non solo è fabbrica e rappresentanza, ma anche, e negli anni a venire soprattutto, polo destinato alla formazione militare.
Da qui trova origine la straordinaria biblioteca monumentale sita al piano nobile, che dal 1814 ha assunto il nome di "Libreria delle Scuole Tecniche dei Cadetti di Artiglieria e Genio".
Voluta da Madama Maria Giovanna Battista di Savoia nel 1678, inizialmente propone testi di metallurgia, chimica, industrie estrattive e costruzioni, ma successivamente amplia l’offerta bibliografica con testi di carattere etico, didattico, scientifico, tecnico, geografico, storico, giuridico, letterario, psicologico, sociologico e militare, nonché di una raccolta di pubblicazioni periodiche, atti, reperti cartografici e di numerosissimi documenti di notevole interesse culturale, contando fino a 120.000 opere.
Barbara Tonin Photography Barbara Tonin PhotographyCostituita dalla fusione delle biblioteche della Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio, della Regia Accademia Militare e di quelle dei presidi militari di Torino, Alessandria e Novara, la biblioteca si articola in due ambienti: uno operativo, con oltre 100.000 volumi, e una monumentale. Quest’ultima, Inaugurata il 28 ottobre 1989, conserva le originarie caratteristiche architettoniche dell’edificio e presenta uno splendido lavoro di ebanisteria dei fratelli Baiano, di recente applicazione, in tutto l’ampio locale. Un sistema di climatizzazione, inoltre, provvede a conservare alla giusta temperatura gli importanti volumi in essa contenuti: 120 cinquecentine principalmente di carattere militare; 4 incunaboli tra cui il "De re militari" di Valturio, del 1483, uno dei primi libri in cui appare l’illustrazione silografica (stampata mediante tavole in legno incise) e il "De Arithmetica ad Patritium Simmachum" - libri duo; "De Musica" - libri quinque; "De Geometria" libri duo: opere di Severino Boezio, stampate a Venezia nel 1499; manoscritti del ‘700 e libri in stampa fino al 1850. Tra i numerosi tomi citiamo l’opera geografica di Braun Georg, "Urbium Praecipiarum Totius Mundi", edizione dell’ultimo quarto del 1500 in 4 volumi, abbellita da numerose tavole acquerellate; "Pirotechnia", di Vannuccio Biringuccio, stampato a Venezia nel 1550; "Leonis lmperatoris de bellico apparatu liber", stampato a Basilea nel 1554; "Delli quesiti et inventioni diverse", di Nicolò Tartaglia, stampato a Venezia nel 1538.
Tra le altre opere degne di particolar nota, si segnalano i volumi (33) della "Encycolpédie ou Dictionnaire raissonné des sciences, des arts et des métiers", pubblicata tra il 1751 e il 1777, sotto la direzione di Didérot e D’Alembert, definita da Voltaire: uno dei più grandi monumenti del progresso dello spirito umano...; "Ulyssis Aldrovandi Monstrorum Histoira", opera di 13 volumi del famoso naturalista, medico e filosofo bolognese, stampato a Bonoire nel 1642; il manoscritto di GB. D’embser, "Dissegni d’ogni sorta de’ cannoni et mortai" (1732), prezioso trattato di artiglieria piemontese dcl Settecento, in due volumi; "Sabaudiae Respublica et Historia" dedicato al Senatore Veneto Domenico Molino, stampato in Olanda nel 1634; una edizione settecentesca del "Vocabolario degli Accademici della Crusca", in 6 volumi.
Barbara Tonin PhotographySono conservati, inoltre, numerosi manoscritti, quali "Delle macchine inventate per l’espugnazione di Ostenda in Fiandra" raccolte dal Capitano Alessandro Cavalca da Parma (anno 1648); "Il Battaglione overo l’essercitio del soldato sopra il campo conforme al stile moderno", anno 1680; "Trattato di Geometria sotterranea ad uso delle Regie Scuole di Mineralogia" del Robilant, anno 1759; "Les élements de tatctique" di Papacino d’Antonj, anno 1772.
Tra i cimeli custoditi nella biblioteca figurano le fotografie e gli atti di assenso e di arruolamento alla Regia Accademia Militare degli allievi Luigi Cadorna (1865-1868) e Armando Diaz (1879-1882); la fede di battesimo, la nomina a paggio d’onore, la votazione d’esame e i documenti di nomina a Sottotenente nel Corpo Reale del Genio dell’allievo Camillo Benso Conte di Cavour, nonché la domanda del Marchese di Cavour per l’ammissione del figlio Camillo alla Regia Accademia Militare; gli atti di assenso e di arruolamento, la fotografia, la lettera del Ministro della Guerra per l’Ammissione alla Regia Accademia Militare, nonché il decreto di promozione dal secondo al terzo anno di corso di Emanuele Filiberto Duca delle Puglie.
Oltre alle opere di valore storico e a quelle destinate alla formazione, sono presenti anche trattati di farmacopea e studio di piante officinali, trattati di medicina e trattati di classificazione di specie animali e vegetali: opere, per lo più, afferenti al Fondo Antico.
La Biblioteca, custode anche dell’archivio della Regia Accademia di Torino, consente, in appositi locali, la consultazione delle proprie opere librarie a tutti i cittadini italiani che ne facciano richiesta, previo appuntamento ed autorizzazione, secondo le vigenti norme in tema di accesso, consultazione ed estrazione di copia.
Barbara Tonin Photography Giancarlo Nitti PhotographyIl Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito sono nati allo scopo di formare, preparare e motivare giovani Ufficiali, al fine di adempiere il loro compiti nel rispetto della Patria, del senso civico, della virtù e del coraggio.
La formazione è sempre più orientata verso una visione cosmopolita, al fine di soddisfare le esigenze generate da nuovi e mutevoli scenari internazionali.
È svolta, quindi, con l’intento di preparare gli Ufficiali dell’Esercito ai cambiamenti geopolitici, predisponendoli alla resilienza, per affrontare compiti sempre più complessi e diversificati e svolgere missioni con efficienza e competenza.
Oltre all’insegnamento culturale e psico-fisico, alla Scuola di Applicazione si insegnano i principi morali, l’efficienza, la salvaguardia, la dignità del decoro e la serietà.
Non di minore importanza, inoltre, è la preparazione linguistica, necessaria a ricoprire incarichi nell’ambito di Organismi Internazionali, nell’ottica degli scambi e della comunicazione con Eserciti stranieri di Paesi alleati o partner, nonché della partecipazione a progetti di sviluppo e consolidamento di rapporti internazionali e bilaterali o, semplicemente, di programmi formativi di scambio.
Barbara Tonin Photography Barbara Tonin PhotographySupportata da tecnologie sempre più all’avanguardia, la Scuola di Applicazione prepara i futuri professionisti militari e comandanti dell’Esercito, tramite una didattica politecnica e polifunzionale, di formazione avanzata e versatile con ben nove dipartimenti tra materie scientifiche e umanistiche.
Il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito, con sede a Torino, ha il compito di presiedere alla formazione di base degli Ufficiali del Ruolo Normale, del Ruolo Speciale, della Riserva Selezionata, in Ferma Prefissata e di quelli a Nomina Diretta, nonché della formazione avanzata degli Ufficiali del Ruolo Normale.
Alle proprie dipendenze ha l’Accademia Militare di Modena, le due Scuole militari “Nunziatella” di Napoli e “Teuliè” di Milano, il neo costituito Centro di Competenza Tattica e, infine, il Centro Studi Post Conflict Operations (CSPCO) di Torino.
Quest’ultimo conduce attività formative, di supporto allo sviluppo concettuale e dottrinale, allo scopo di accrescere la preparazione del personale militare e civile, nazionale e internazionale, nel pianificare e condurre efficacemente operazioni di stabilizzazione e ricostruzione in situazioni post-conflitto.
L’istituto militare è pienamente integrato con l’Università degli Studi di Torino per quanto riguarda la formazione degli Ufficiali del Ruolo Normale delle Armi e del Corpo di Commissariato.
A tale scopo, di concerto con l’ateneo torinese è stata creata un’apposita struttura didattica speciale, denominata Scuola Universitaria Interdipartimentale in Scienze Strategiche (SUISS).
Foto archivio Giancarlo Nitti PhotographyIl percorso di studi per gli Ufficiali, è una peculiarità nel panorama universitario nazionale in quanto Interateneo ed Interdipartimentale.
Nasce infatti dalla collaborazione tra quattro Istituzioni:
Foto archivio
Ultimi tre anni del percorso formativo dove vengono conseguite la Laurea Triennale e la Laurea Magistrale.
Per soddisfare le esigenze formative degli Ufficiali frequentatori sono stati individuati cinque percorsi didattici:
Politico Organizzativo per la Fanteria, Cavalleria e Artiglieria; Sistemi Infrastrutturali per il Genio; Comunicazioni per le Trasmissioni; Logistico per Trasporti e Materiali; Economico - amministrativo per il Corpo di Commissariato.
Nell'Accademia si svolgono i primi due anni del corso.
Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito di Torino
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Accademia Militare di Modena
Università degli Studi di Torino
Il corso di laurea è stato aperto successivamente anche agli studenti civili, che vi accedono secondo un numero programmato (60), per un totale di circa 250 studenti nell’arco dei cinque anni.
La collaborazione con il Politecnico di Torino è incentrata sulla formazione degli Ufficiali del Corpo degli Ingegneri.
Nella sede di Modena gli Ufficiali conseguono la Laurea Triennale in Ingegneria e completano gli studi con il conseguimento della Laurea Magistrale a Torino.
Con il Politecnico di Torino la collaborazione prosegue con il “Master in veicoli e mezzi per protezione civile e difesa”, la cui prima edizione è stata organizzata nel 2011.
Per lo specifico progetto è stato coinvolto anche il Comando Logistico dell’Esercito tramite il dipendente Centro Polifunzionale di Sperimentazione.
L’iniziativa è di particolare interesse in quanto prevede il coinvolgimento tripartito tra Esercito Italiano, Politecnico di Torino e Industria della Difesa e Sicurezza (soggetti pubblici e privati) per la definizione di un percorso formativo di comune interesse.
Il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione di Torino in collaborazione con la SUISS partecipa ai programmi europei ERASMUS e “The European initiative for the exchange of young military officers, inspired by Erasmus” il cosiddetto Military Erasmus.
Giancarlo Nitti PhotographyAl completamento dell’internazionalizzazione contribuisce l’attività di ricerca e didattica specializzata del Centro Studi Post-Conflict Operations, tramite corsi in lingua inglese, rivolti a dirigenti civili e militari, italiani e stranieri, al fine di migliorare le capacità operative dei singoli e la conoscenza reciproca delle rispettive competenze operative con specifico riguardo alle Operazioni di Stabilizzazione e Ricostruzione e alle tematiche connesse con la comprensione dell’ambiente socio-antropologico dei Teatri di Operazione.
Inoltre è stato anche sviluppato un progetto internazionale che ha visto interagire il polo formativo delle Nazioni Unite con assetti dell’Esercito legati al Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione ed alla Brigata Alpina “Taurinense”. Sono stati sviluppati anche specifici percorsi formativi universitari, tra i quali il “Master in Peacekeeping Management” presso la Facoltà di Scienze Politiche.
Giancarlo Nitti PhotographyIl Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito quale polo didattico di eccellenza nel panorama italiano, e prestigioso centro culturale per la Città di Torino, è ben inserito nel tessuto sociale locale, proficua e consolidata la sinergia con il mondo accademico, le istituzioni internazionali, scientifiche e imprenditoriali del territorio. In un’ottica volta a promuovere la cultura della “Difesa”, sono state sviluppate molteplici iniziative volte a rafforzare ulteriormente i legami con le altre istituzioni civili, militari e religiose.
Diverse le collaborazioni con importanti Associazioni di promozione culturali e sociali quali il Fondo Ambiente Italiano e i Tram Storici, che hanno organizzato visite guidate all’interno del Palazzo, ed il Teatro Regio che quest’anno ha organizzato la seconda edizione del “Regio Opera Festival” nella splendida cornice del Cortile d’Onore di Palazzo dell'Arsenale.
Oltre al Palazzo dell’Arsenale, sede di comando, il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito si avvale di altre infrastrutture: il Complesso Infrastrutturale "Città di Torino" (detto anche Palazzo Simoni poiché intitolato al Capitano Gastone Simoni, Medaglia d'Oro al Valor Militare); il Complesso Sportivo "Capitano Nicola Porcelli"; la Caserma Morelli di Popolo; il Campus “Alessandro Riberi” (Ex ospedale militare) e il Circolo Unificato dell’Esercito di Torino.
Degno di nota tra le numerose attività dell’Esercito è l’impegno nella salvaguardia del patrimonio naturale, in collaborazione con la Sovraintendenza ai Beni Culturali, per garantire il basso e rispettoso impatto delle attività militari sull’ambiente e la conservazione del patrimonio culturale.
Adriana Oberto PhotographyA riconoscimento del valore e dell’impegno negli anni del Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione, al Palazzo dell’Arsenale sono conservate diverse onorificenze e simboli.
Tra i più importanti citiamo la Bandiera d’Istituto della Scuola di Applicazione, decorata di Medaglia d’Argento al Valore Militare. Storicamente, le bandiere venivano concesse come ricompensa al contributo di sangue sul campo di battaglia e come emblema delle glorie e delle tradizioni del reparto, ma in questo caso venne consegnata alla Scuola nel 1977 per servizi particolarmente meritori, con la seguente motivazione: "Culla di alti insegnamenti, che forgiò tante giovani generazioni di Ufficiali educandole alle leggi del dovere e del sacrificio, nella critica notte dell'armistizio, respinta l'intimazione di resa, affrontava una impari lotta contro forze più volte superiori, costituendo un baluardo contro il quale urtavano invano scelte fanterie avversarie. Né le perdite, né il successivo intervento di mezzi corazzati nemici riuscivano a fiaccarne la tenace volontà di resistenza. Dopo più ore di accanita lotta, desisteva dal combattimento solo in seguito ad ordine superiore, suggellando con il sangue generoso dei suoi difensori le sue tradizioni di valore e di fedeltà all'onore militare".
Sempre nello stesso anno venne assegnato anche uno Stemma Araldico.
La “campana del dovere”, invece, forgiata nel 1678 da Simon Boucheron, regio fonditore nel Regio Arsenale, è lo storico emblema che caratterizza gli Istituti di Formazione militare.
Simbolo del valore e del sacrificio di militari e civili che hanno dato la vita per la Patria, ricorda agli accademisti il rigore e la rigorosa applicazione negli studi necessaria per assolvere i loro gravosi compiti.
Dal 1739 a oggi la Scuola di Applicazione ha avuto diversi cambi di denominazione, ordinativi e di sede, ma grazie anche alla preziosa collaborazione dell’Università degli Studi e il Politecnico di Torino, ha sempre mantenuto il suo ruolo come riferimento formativo, culturale, morale ed etico per le Forze Armate.
Sinergia, avanguardia e progresso: sono queste le parole chiave che hanno reso nel tempo il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito una delle istituzioni più prestigiose d’Europa.
Si ringrazia per l’ospitalità il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito, in particolare il Comandante per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito, Generale di Divisione Mauro D’Ubaldi; il Capo di Stato Maggiore del Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito, Generale di Brigata Roberto De Masi; l’Addetto alla Pubblica Informazione, Luogotenente Giorgio Cuccu.
Adriana Oberto Photography Adriana Oberto PhotographyUna passeggiata
Porto con me un bel ricordo di Stavanger perché è stato il primo posto che ho visitato dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19.
La sua area metropolitana, che include i comuni di Sola, Randaberg e Sandnes, è la terza più grande area urbana della Norvegia, con una popolazione complessiva di quasi 250 mila abitanti.
Dal 1969, con la scoperta dei giacimenti petroliferi Ekofisk nella parte meridionale del Mare del Nord, la città ha conosciuto una veloce trasformazione, da centro economicoindustriale a polo energetico, ed è diventata nota per essere la capitale europea del petrolio.
Nel 2008 è stata anche Capitale europea della cultura insieme alla città britannica di Liverpool.
È piena di buoni ristoranti, bar, locali notturni e negozi, ma allo stesso tempo il centro città è piccolo e suggestivo.
Antonio Pedone PhotographyLungo il porto di Stavanger ci sono circa 60 edifici marittimi.
Furono costruiti tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX secolo per essere utilizzati come salagione per le aringhe, magazzini per sale, tronchi e altre merci, nonché per altre industrie.
Oggi sono stati convertiti in uffici, ristoranti, appartamenti e altre attività commerciali.
Antonio Pedone PhotographyPasseggiando per il centro, è possibile scorgere la torre Valbergtårnet, costruita sulla collinetta Valberget.
Si tratta di un edificio costruito tra il 1850 e il 1853 come torre di avvistamento degli incendi per i vigili del fuoco della città.
I nuovi sistemi di allarme antincendio hanno gradualmente reso superflui i turni di guardia, che sono stati definitivamente sospesi nel 1922.
La torre ospita un piccolo museo che racconta la storia dell’edificio e dei vigili del fuoco di Stavanger.
Gamle Stavanger è la parte più antica della città, sul lato ovest del porto Vågen, e comprende 173 caratteristiche case di legno dipinte di bianco risalenti all'inizio del XVIII secolo. Anche il Museo norvegese dell'inscatolamento e il Museo Marittimo di Stavanger fanno parte del nucleo della città vecchia.
Antonio Pedone PhotographyIl Norwegian Petroleum Museum è sicuramente il museo che caratterizza maggiormente la città. Al suo interno, vengono presentati i progressi tecnologici raggiunti nel settore petrolifero e la sua influenza nell’economia norvegese.
Inoltre, viene dato spazio anche al tema del cambiamento climatico, minacciato dalle emissioni di gas serra e dal riscaldamento globale.
Stavanger di notte è meravigliosa: il clima freddo non ferma nessuno; in giro e nei locali si incontra e si fa amicizia con gente di qualsiasi età e tipologia. Øvre Holmegate è la strada con la maggior concentrazione di locali per passare la serata: agli inizi degli anni 2000 era una strada tranquilla e ordinaria, sino a quando il parrucchiere Tom Kjørsvik non ha avviato un processo durato quattro anni che l'ha trasformata da dimenticata ad attrazione principale del paese, con l'aiuto dell'artista Craig Flannagan che ha scelto la combinazione di colori per la pittura delle case.
Antonio Pedone PhotographyOggi la strada, chiusa al traffico dal 2005, è fiancheggiata da locali accoglienti e giustamente viene chiamata “Fargegaten” (via dei colori)!
Uno bar dei più frequentati dalla gente del posto è l'Hanekam , dotato di una piccola pista da ballo che si riempie velocemente nei weekend.
Il Bardello invece è un locale accogliente dove si possono degustare i migliori cocktail ascoltando musica dal vivo e assistendo a performance dal vivo.
Se volete passare una serata all'insegna della leggerezza, il Frøken Phil è il locale che garantisce divertimento e informalità.
Invece, agli amanti della buona musica consiglio di fare tappa allo Stavanger Blues Club, a pochissimi passi dalla Fargegaten. Le serate programmate di martedì sono state le mie preferite.
Anche la zona del molo vanta una numerosa presenza di locali dove passare la serata e tra questi, consiglio il Rabalder Bar, che gode della posizione migliore.
Antonio Pedone PhotographyDove mangiare
Stavanger ospita anche i migliori ristoranti della Norvegia.
Impossibile quindi non citare i due ristoranti blasonati con le stelle Michelin: il RE-NAA (due stelle) e il Sabi Omakase (una stella).
Un’altra scelta sicura è il Tango, piccolo ristorante intimo dotato di straordinarie opere d'arte moderne e solo nove tavoli, che consentono di mantenere ferma l'attenzione sul cibo.
Il Sirkus Renaa di giorno è una panetteria e pasticceria di livello che si trasforma in eccellente pizzeria la sera. Parlando di pizza, non posso omettere il Villa 22, dove ho conosciuto i pizzaioli campani che, oltre a sfornare la migliore pizza del posto, sono molto cordiali e si rendono disponibili per dare i consigli giusti.
Per assaggiare i migliori piatti di pesce e frutti di mare, la tappa da Fisketorget è obbligatoria. Constaterete che è riduttivo associare i sapori della Norvegia al solo salmone. Fisketorget è famoso per la sua zuppa di pesce e altri piatti di pesce pescato in giornata a base di ingredienti di stagione.
Durante il giorno è aperto anche il banco della pescheria, dal quale si può acquistare del pesce sottovuoto da portare a casa come souvenir, facendo attenzione a non tenerlo troppo tempo fuori dal frigorifero. Se invece volete provare la carne, vi consiglio di passare da XO Steakhouse dove ho provato un ottimo filetto di cervo.
Se non riuscite a rinunciare alla cucina Italiana, vi consiglio Italo, di proprietà di una famiglia italiana. Adiacente a Italo, il ristorante etiope Gadja vi conquisterà con i suoi sapori stupefacenti. Infine, a circa 3 Km dal centro, il Patrioten Bistro offre piatti tipici norvegesi in un ambiente semplice ma accogliente.
Antonio Pedone PhotographyStavanger è una delle città con il maggior numero di opere di street art d’Europa. Dal 2001, infatti, ospita il festival di street art Nuart che si tiene ogni anno a settembre.
Il festival stato istituito nel 2001 ma è dal 2005 che si è concentrato esclusivamente sulla Street Art, diventando uno degli eventi più antichi del settore.
Il Nuart Festival intende fornire una piattaforma annuale per artisti nazionali e internazionali che operano al di fuori dei sistemi tradizionali.
L'evento mira a stimolare il dibattito sfidando nozioni radicate su cosa sia e, cosa più importante, possa essere l'arte, in un ambiente internazionale, stimolante e dinamico per artisti, studenti, galleristi e pubblico: un evento che mira a riflettere la cultura e parteciparvi contribuendo a definirla.
Tra gli altri eventi degni di nota, non ci si può dimenticare del Norway Chess, un torneo d’élite, che si tiene presso il Clarion Hotel Energy, tra i più prestigiosi al mondo a tal punto da essere definito da Garry Kasparov nel 2014 il "Wimbledon degli scacchi”.
Invece, nel mese di maggio si tiene il festival internazionale di Jazz (Mai Jazz) che è uno dei principali di tutta la Norvegia.
Se avete la possibilità di utilizzare una bicicletta (alcuni alberghi, come lo Scandic Royal , le mettono a disposizione dei clienti), vi consiglio di organizzare un paio di passeggiate in bicicletta.
Antonio Pedone PhotographyIn particolare, consiglio di visitare il monumento Sverd i fjell (letteralmente, “Spade nella montagna”), che si trova nei pressi del fiordo Hafrsfjord di Madla. Opera di Fritz Røed, le tre spade, costruite in stile Vichingo e sono alte 10 metri circa l’una; il monumento fu commissionato da re Olav V di Norvegia nel 1983 per ricordare la battaglia di Hafrsfjord dell’872, quando il Re Harald Bellachioma, antico predecessore Vichingo di Sweyn I Barbaforcuta che fu Re d’Inghilterra per 5 settimane, sconfisse due rivali e unì tutta la Norvegia in un unico regno.
La spada più grande rappresenta il re vittorioso, mentre le altre due sono destinate a simboleggiare gli avversari sconfitti.
Il monumento funge anche da simbolo di pace, poiché le spade sono affondate nella montagna e quindi non sono più usate. Harald regnò dall’872 sino al 930, ed è passato alla storia come il primo Re della Norvegia unita.
Un’altra passeggiata che merita essere fatta in bicicletta è quella sullo Stavanger City Bridge, passando dagli isolotti Grasholmen e Sølyst sino ad arrivare all’isola di Engøy e godendo di viste spettacolari.
Stavanger è anche il punto di partenza ideale per alcune delle esperienze naturali più uniche della Norvegia: una crociera sul Lysefjord o delle escursioni mozzafiato sulle famose formazioni rocciose di Preikestolen e Kjerag.
AntonioOltre ad essere un paese marittimo, la Norvegia è ricca di acque interne, che hanno reso la navigazione il mezzo di trasporto più importante.
Nel porto di Stavanger, è possibile ammirare e visitare alcune delle navi veterane più importanti della Norvegia.
D/S HestmandenD/S Hestmanden
La D/S Hestmanden è stata costruita a Bergen nel 1911 e, in tempo di pace, ha navigato principalmente in navigazione costiera in patria, mentre entrambe le guerre mondiali ha navigato all'estero con rifornimenti ai porti alleati.
Oggi, Hestmanden è l'unica nave mercantile norvegese conservata che ha navigato in entrambe le guerre mondiali, ed è anche l'unica rimasta delle oltre 1000 navi che hanno navigato durante la Seconda Guerra Mondiale sotto la bandiera di Nortraship (Nortraship, il cui nome deriva dalla Norwegian Shipping and Trade Mission - NORTRA - è la società che venne creata durante la Seconda Guerra Mondiale per gestire il naviglio norvegese non catturato dai tedeschi e sotto la sovranità del governo norvegese in esilio).
Nel 2017, la nave ospita il Norwegian War Sailor Museum con mostre, film e altre informazioni sui marinai di guerra e le loro storie nelle due guerre mondiali.
A bordo ci sono anche opportunità di vedere la cabina e il salone del capitano, nonché la cucina. Molto spesso, ex marinai si incontrano a bordo della nave per intonare vecchi cori di guerra.
Antonio Pedone PhotographyMS SandnesMS Sandnes
La motonave Sandnes è una delle navi più belle e lussuose che hanno navigato al largo della costa norvegese.
È stata costruita nel 1950 e fino al 1974 ha operato un servizio di traghetti notturni da Bergen a Stavanger e ritorno. Divenne poi una nave scuola/scuola per i giovani che volevano diventare marinai, ma nel 1995 fu ritenuta troppo piccola per continuare in questo ruolo, e fu messa in vendita.
Nel 2007 è stata acquistata e trasferita di nuovo a Stavanger, dove è stata ristrutturata e classificata di II grado dalla Direzione per i beni culturali.
Ora è la più grande nave storica della Norvegia ed è utilizzata per crociere notturne sui fiordi ed eventi sociali.
Antonio Pedone PhotographySS RogalandSS Rogaland
Fu varata nel 1929 e originariamente era dotata di motori a vapore, che furono sostituiti da motori diesel nel 1965, da qui il cambio di designazione da piroscafo a motonave.
Come la MS Sandnes, la SS Rogaland ha iniziato la sua vita operando un servizio di traghetti notturni da Bergen a Stavanger e ritorno.
Dopo la guerra, nel 1947, si trasferì sulla rotta Bergen-Oslo e continuò a operare su quella rotta fino al 1954, quando passò
al servizio Sandnes/Stavanger-Oslo. Fu infine ritirata da quel servizio nel 1964 per essere venduta.
Nel 1990 fu acquistata dalla Veteran Ships Association di Stavanger, che la ribattezzò Gamle Rogaland (Vecchia Rogaland).
È stata restituita a Stavanger per essere restaurata e utilizzata come nave museo, e attualmente intraprende occasionali crociere sui fiordi.
Antonio Pedone PhotographyOgni anno, durante l’ultimo fine settimana di giugno, il comune di Sale San Giovanni, in collaborazione con la Pro Loco, organizza la manifestazione Non solo erbe, fiera delle erbe aromatiche ed officinali.
Questo evento è nato per valorizzare le coltivazioni biologiche e biodinamiche di lavanda, elicriso, issopo, salvia, melissa e altre presenti sul territorio, ma anche per
mettere in mostra i tesori del paese, come la pieve di San Giovanni Battista o la cappella di Sant’Anastasia.
Il periodo corrisponde con quello di massima fioritura in modo da permettere a tutti i visitatori di immergersi tra i bellissimi colori e gli evocativi profumi di queste piante.
Sale San Giovanni
I suggestivi sentieri che portano dal centro del paese ai campi coltivati, passando per punti panoramici e percorsi ombreggiati, sono visitabili tutto l’anno, ma in questo fine settimana il centro storico di Sale San Giovanni si popola anche di stand di esposizione e vendita di prodotti erboristici e cosmetici, agricoli e derivati, oltre che di ottimi prodotti culinari.
Oli aromatici ed essenze, estratti e rimedi naturali, saponi e prodotti per l’igiene, tutti fanno bella mostra di sé sui banchetti distribuiti per le vie del paese, inebriando i visitatori con i loro aromi.
Questa manifestazione rappresenta anche l’occasione per visitare, accompagnati da preparatissime giovani guide, i gioielli storici ed artistici del paese, rappresentati dalle antiche pievi di campagna, veri scrigni custodi di bellezze antiche e nascoste.
Sale San Giovanni
Barbara Lamboley PhotographyLa prima di queste meraviglie è la Pieve di San Giovanni Battista, chiesa cimiteriale costruita sul sito di un tempio pagano già esistente e risalente ai primi decenni dell’XI secolo.
Nel corso delle epoche ha subito varie modifiche ed aggiunte: tra le altre è stato rialzato il tetto delle navate laterali, sono stati aggiunti il campanile e la sacrestia. Così come la struttura, anche le decorazioni interne hanno subito varie modifiche nel tempo: alcuni affreschi sono andati perduti, altri sono stati coperti e quelli che rimangono sono esempi di stili e gusti differenti.
L’affresco più antico è quello che si trova nel catino absidale ed è della fine del XII secolo. Grazie ad un recente restauro ha riacquistato la sua originale bellezza e rappresenta il Cristo in mandorla attorniato dai simboli dei quattro evangelisti: il bue sacrificale per San Luca, l’angelo per San Matteo, l’aquila per San Giovanni e il leone per San Marco.
L’opera successiva per datazione è quella presente sulla navata di destra ma è arrivata a noi incompleta. Ci rimangono solamente l’immagine di san Sebastiano ancora giovane, vestito con abiti cortesi e con le frecce in mano come simbolo distintivo e quella di sant’Antonio Abate, riconoscibile dalla tonsura monacale, dal tau e dal bastone da pellegrino.
Maurizio Anfossi Photography Remo Turello PhotographyProseguendo all’interno della navata principale e avanzando nei secoli possiamo osservare l’immagine presente sul pilastro di sinistra. Si tratta dell’affresco meno ben conservato, dipinto tra XIV e XV secolo da una mano più delicata e precisa, con una prospettiva più studiata ed accurata.
Si vedono solo più sulla sinistra le mani di santa Lucia che porge gli occhi su un piattino mentre alla destra si intravede una spalla con l’armatura e un’arma. Si pensa si tratti di un santo guerriero, in quanto in alto compare anche una parte di aureola, ma non è facilmente identificabile in quanto questa parte di affresco è andata perduta.
Proseguendo sulla destra si vedono san Giovanni Battista con tutti i suoi attributi, l’abito fatto di pelle di animale, il mantello rosso e la scrittura sacra con l’Agnello, che punta il dito verso un’altra figura non più riconoscibile.
Si potrebbe trattare di un altro santo di provenienza orientale, visto il turbante, ma anche in questo caso non è possibile identificarlo univocamente.
La mancanza di documenti antichi non permette di conoscere il nome degli autori degli affreschi, come accade per molte chiese antiche.
C’è però una piccola eccezione all’interno della pieve di San Giovanni che è data dagli affreschi di san Sebastiano e della Madonna che allatta il Bambino, risalenti alla fine del XV secolo.
Per entrambi è presente un particolare sfondo dorato con stralci vegetali che si ritrova in un ugual decoro in alcuni affreschi della chiesa di santa Anastasia ed in altre chiese del Piemonte.
Anche se questo dettaglio non permette di dare un nome agli autori di questi affreschi, da modo di identificare la bottega che li ha realizzati, caratterizzandola con questa specie di ‘firma’.
Un discorso simile si può fare per la committenza delle opere. Non ci sono indicazioni esatte sui committenti, ma sicuramente doveva trattarsi di famiglie abbastanza ricche: questo si vede in particolare dal grande affresco del 1550 che rappresenta la Madonna in trono con san Pietro e san Giovanni Battista.
La Madonna, assisa in trono, tiene in braccio Gesù Bambino che, sporgendosi verso San Pietro gli offre due chiavi: una d’oro indicante il potere spirituale e una d’argento per il potere materiale.
All’altro lato della Vergine appare san Giovanni Battista, protettore di Sale, che regge con una mano il libro e l’Agnello e con l’altra un bastone con il cartiglio ‘Ecce Agnus Dei’. La particolarità di questo affresco è il colore usato per il mantello della Madonna che è un blu oltremare.
Si tratta di una tinta che veniva preparata usando pietre come i lapislazzuli che provenivano dai porti del Vicino Oriente, quindi da oltre il mare.
Era un pigmento raro e dispendioso, indice proprio della ricchezza della committenza.
Notizie più concrete riguardanti la famiglia che ha richiesto le decorazioni di questa chiesa si possono trovare in un altro affresco leggermente più tardo.
Al di sopra, come decorazione, si trovano le bande colorate in giallo e nero, simbolo del Marchesato di Ceva.
All’interno della pieve si trovano altri indizi del legame del paese con la nobile famiglia: è possibile trovare sia il loro motto che il richiamo ai nomi di alcuni membri sepolti al di sotto del pavimento.
Nel 2013 è stato fatto uno scavo che ha riportato alla luce parti delle antiche fondamenta dell’edificio, oltre che più di una decina di sepolture che sono state poi rimosse e studiate.
È anche presente un affresco raffigurante san Secondo d’Asti che tiene in mano un modellino della città di Asti, probabilmente simbolo del legame tra il Marchesato di Ceva e la città di Asti.
I colori del Marchesato si possono vedere ancora nell’affresco presente sull’abside della navata di sinistra.
La parte superiore è stata rifatta nel ‘900, probabilmente perché troppo deteriorata, mentre la parte inferiore risale ad un periodo compreso tra XV e XVI secolo. È rappresentata una sacra conversazione in cui la Madonna è intenta a discorrere da un lato con san Sebastiano e sant’Antonio Abate, mentre dall’altro ci sono san Rocco con cappello e conchiglie ad identificarlo e san Martino con le insegne vescovili.
La presenza in più affreschi di san Rocco e di san Sebastiano, entrambi protettori da pestilenze e peste, denota le frequenti epidemie che devono aver colpito il paese e la zona.
Maurizio Anfossi PhotographyL’altro gioiello medioevale di Sale San Giovanni è la Pieve di Sant’Anastasia
Costruita su una collinetta al di fuori del paese, anche questa chiesa ha subito diverse modifiche e rimaneggiamenti nel corso dei secoli.
Il nucleo più antico è datato intorno al 1050 ed è stato eretto dai monaci benedettini di San Benedetto Belbo che dipendevano dal priorato di Santa Maria del Castiglione di Parma.
Si trattava originariamente di una sorta di riparo per viaggiatori e viandanti e la struttura corrispondeva all’incirca all’attuale abside.
Anche il toponimo della collina su cui si trova, detta Gamellona, riconduce a questa funzione: la gamella, infatti, era la ciotola con cui i monaci rifocillavano i pellegrini.
La chiesa rimase immutata fino all’incirca al XIII – XIV secolo: in questo periodo venne ingrandita alzando il tetto e costruendo la navata.
È ancora possibile distinguere facilmente le parti originarie rispetto a quelle aggiunte in seguito per i differenti metodi di costruzione utilizzati. Infine, nel XIX secolo vennero fatti nuovi lavori ricoprendo il tetto con pietre di langa e costruendo il campanile.
All’interno dell’edificio sono presenti diversi affreschi, ma quello più bello e meglio conservato è quello che si trova nella zona absidale, realizzato nel XV secolo.
La scena è divisa in tre parti ed è tutta racchiusa tra le due figure simboliche che si trovano agli angoli opposti: un diavolo dalle corna caprine e un angelo bianco con ali verdi e rosse dall’altra.
I due personaggi rappresentano allegoricamente l’Inferno e il Paradiso, cioè i due estremi opposti, tra cui si muoveva la vita degli uomini medioevali. Ogni dettaglio della rappresentazione è un simbolo teologico e, ad esempio, i colori dell’angelo rappresentano le tre virtù teologali: fede, speranza e carità.
Remo Turello Photography Remo Turello PhotographyIl centro dell’affresco è occupato dalla figura di santa Anastasia che tiene in una mano il Vangelo e nell’altra la palma del martirio.
Anastasia nacque in una famiglia patrizia dell’antica Roma, figlia di un senatore e di una nobildonna cristiana.
Fin da giovane aderì alla fede della madre e incominciò ad aiutare segretamente i perseguitati. Si sposò con un certo Publio, anch’egli appartenente al ceto patrizio, che però era contrario al cristianesimo. Quando scoprì la fede della moglie, Publio la segregò in casa, impedendole di portare avanti le sue attività in favore dei bisognosi.
Morto il marito, Anastasia si trasferì in Illiria, dove fu libera di riprendere la sua azione di aiuto verso i bisognosi, curando in particolar modo i carcerati, essendo lei stata in qualche modo carcerata in casa. La sua storia si svolge durante il periodo dell’impero di Diocleziano, famoso per le persecuzioni contro i cristiani, e ripercorre i passi di quella di molti altri martiri della prima chiesa.
Venne infatti scoperta e processata e, rifiutandosi di abiurare la fede cristiana, venne condannata al rogo. Secondo la tradizione fu arsa viva il 25 dicembre 304. Il suo culto si diffuse inizialmente nelle province romane orientali e raggiunse l’Italia e poi il resto dell’Europa solo a seguito delle conquiste dei Goti e dei Longobardi.
Alla sua sinistra è rappresentato san Rocco con il caratteristico cappello a falde larghe per la protezione dagli agenti atmosferici e il corto mantello detto ‘sanrocchino’ su cui è posata una conchiglia.
Sulla gamba è ben visibile la piaga della peste, che lo identifica facilmente come protettore dalle malattie, oltre che dei viandanti.
Dall’altro lato, invece, si trova san Romeo, rappresentato con una cotta bianca, il mantello rosso, il bastone e la mitra.
Anche questo santo è considerato protettore dei pellegrini, infatti anche lui ha una conchiglia sul bastone, ma la sua presenza è piuttosto insolita nelle langhe, trattandosi di un santo spagnolo domenicano.
Queste tre figure occupano il riquadro centrale dell’affresco mentre, sulla sinistra, nella parte in cui è presente il piccolo diavolo, si trovano sant’Antonio Abate, con la tonaca marrone, la lunga barba bianca e il bastone a forma di tau e san Bernardo di Chiaravalle. Nel riquadro di destra, infine, possiamo osservare la Vergine in trono con il Bambino e san Giovanni Battista. Maria ha in mano una rosa bianca, simbolo di verginità e purezza, mentre Gesù bambino tiene in mano un uccellino, simbolo della salvezza dell’anima. Tra queste figure e l’angelo si trova san Giovanni Battista nella sua iconografia più classica, con il vangelo in mano e la scritta ‘Ecce Agnus Dei’, la tunica fatta di peli di cammello e il mantello rosso simbolo del martirio.
In tutti e tre i riquadri dell’affresco il cielo sullo sfondo è sostituito da un fondo dorato decorato con stralci vegetali, proprio come nell’affresco della pieve di san Giovanni, ad indicare che è stato dipinto dalla stessa bottega.
Maddalena Bitelli Photography Remo Turello PhotographyL’attrazione principale della manifestazione sono le piante officinali.
Sale San Giovanni è il secondo polo in Piemonte per la produzione di erbe officinali: coltivazioni di lavanda, elicriso, issopo e salvia si perdono a vista d’occhio, intervallate dall’enkir, un cereale di origine antica e riscoperto per le sue qualità.
Per saperne di più abbiamo fatto alcune domande ai membri della famiglia Suria, coltivatori da anni su questi difficili terreni.
Quando siamo arrivati, al mattino presto per poter fare i primi scatti al levar del sole, abbiamo trovato Ugo e Luca già intenti al lavoro.
“Ieri sera è piovuto – ci raccontano – così questa mattina abbiamo iniziato a rincalzare le piante novelle di lavanda.
La natura non ti aspetta e quando c’è da fare un lavoro nel campo va fatto rapidamente in giornata altrimenti dopo è tardi.”
Remo Turello PhotographyCogliere il momento! Come per noi fotografare!!
Marco ci ha raggiunti più tardi al pian del Gi, uno dei più caratteristici luoghi di Sale San Giovanni.
Il casotto e i campi attigui sono proprietà della famiglia.
“La nostra storia è iniziata con mia mamma Vittoria.
Per necessità si lavorava nei campi per poter vivere.
In quegli anni nei nostri terreni coltivavamo cereali e avevamo dei vigneti; come potete vedere la conformazione di queste colline le rende spettacolari, ma allo stesso tempo la pendenza è avversa all’agricoltura e i campi sono impervi da lavorare, faticosi da coltivare.”
Ma come siete passati da cereali e viti alle erbe officinali?
Con il cambio generazionale parte dei terreni sono stati abbandonati.
Quando abbiamo ripreso l’attività di famiglia, il nostro primo obiettivo è stato di poter coltivare in modo naturale per aver prodotti sani e genuini senza dover utilizzare prodotti chimici.
Abbiamo abbandonato quindi i cereali e le viti, che producono meglio su altri terreni e qui avrebbero bisogno di additivi e concimi. Abbiamo riflettuto su come usare al meglio e in modo naturale questi terreni e la risposta è giunta guardando alla tradizione: per arricchire i campi e mantenerli produttivi il modo migliore è la rotazione delle coltivazioni.
Inoltre, abbiamo dovuto trovare un prodotto che si adattasse bene alla tipologia dei nostri terreni e le piante aromatiche si sono dimostrate perfette.
E come funziona il ciclo delle colture?
Per prima cosa bisogna preparare il terreno; per questo piantiamo per un anno del favino, una leguminosa che riesce ad ‘ingrassare’ il terreno.
L’anno successivo la sostituiamo con dell’Enkir, un antico cereale riscoperto in tempi recenti che riesce a ripulire il terreno.
A questo punto, dopo aver fertilizzato il terreno, l’anno successivo è possibile piantumare le erbe officinali.
Che tipi di piante aromatiche avete qui?
Noi coltiviamo principalmente la lavanda e la salvia, ma abbiamo anche campi di issopo, melissa e finocchietto. Quindi abbiamo detto un anno di favino e un anno di enkir, ma poi quanto vivono le altre erbe officinali?
Queste piante restano sul terreno fino ad una quindicina di anni.
Tra la fine di giugno e la prima decade di luglio raggiungono il massimo della loro fioritura, poi i fiori iniziano a diventare più scuri, tendenti al marrone, ed è il momento di raccoglierli.
Per il resto dell’anno queste piante non richiedono molti interventi, se non di sostentamento e di pulizia delle prode dalle erbacce.
Lavori che per lo più vanno fatti manualmente.
Quindi non usate macchinari?
Sì, li usiamo per la raccolta dei fiori.
Passiamo nell’interfila con una particolare macchina che taglia i fiori con lo stelo e li carichiamo in un cassone. Il ricavato lo portiamo agli stabilimenti per la lavorazione e l’estrazione degli oli.
Dopo il passaggio di questa macchina e per il resto dell’anno le piante restano come “tosate” sempre ogni anno un po’ più alte del precedente, per compensare la crescita. In primavera poi ripartono e si preparano per una nuova fioritura.
Questo è il procedimento per la lavanda, ma per la salvia come funziona?
Il procedimento è il medesimo e anche la macchina che usiamo è la stessa.
L’unica differenza è che ci sono anni particolari per cui per la salvia riusciamo ad avere due raccolti.
Cinzia Carchedi PhotographyCome vengono usati i fiori e le foglie che raccogliete?
Principalmente servono per produrre tramite la distillazione in alambicchi gli oli essenziali, che vengono usati in cosmesi e per la profumeria.
Le piante che coltiviamo appartengono a chemiotipi specifici, selezionati per produrre una buona quantità di olio, quindi raramente le utilizziamo per scopi alimentari o per l’essiccatura.
E quanto rendono praticamente queste piante?
Per fare ad esempio un litro di olio essenziale, quanta lavanda occorre?
Servono all’incirca quattro quintali di lavanda per distillare un litro di olio.
Ah! Se pensiamo alla leggerezza del fiore di lavanda capiamo bene il motivo per il quale sia così costoso!
Ringraziamo i nostri ciceroni per le loro interessanti informazioni e ora non ci resta che andare ancora ad immergerci tra i profumi, i colori, gli aromi e la storia di Sale San Giovanni.
Cinzia Carchedi Photography Lorenzo Rigatto PhotographyA cura di Rita Russo
La millenaria storia dell’isola più grande del Mediterraneo, la Sicilia, emerge in ogni suo angolo, dalla costa alle aree più interne, come quelle della provincia di Enna, l’unica priva di sbocco a mare, costituita da venti comuni tra i più alti di quota, ognuno dei quali porta i segni, più o meno integri, lasciati dalle numerose civiltà che si sono succedute nel tempo sull’intera isola.
Così in giro per la provincia ennese, attratti dalla sua antichissima storia e dalle affascinanti testimonianze di essa, siamo andati a visitare Assoro, una ridente cittadina, il cui centro storico, che si erge sul Monte La Stella a circa 900 metri sul livello del mare, digrada dolcemente sul pendio meridionale di esso e dista 30 km da Enna e 4 km dalla riva sinistra del Fiume Dittaino (conosciuto nell’antichità con il nome di Chrysas).
Il Monte La Stella fa parte dei Monti Erei, una catena montuosa sita nella parte centrale dell’isola, a sud dei Nebrodi e delle Madonie, il cui limite orientale è costituito dalle prime propaggini della Piana di Catania e quello occidentale dal corso del Fiume Imera Meridionale e comprende le provincie di Enna e Caltanissetta.
Quest’area montuosa, le cui vette non raggiungono altezze particolarmente elevate, è nota per essere stata un tempo la sede di una delle aree più importanti al mondo per l’estrazione dello zolfo, testimoniata oggi da alcuni parchi minerari.
Russo PhotographyL’estrazione dello zolfo è stato un elemento determinante, non solo per l’intera provincia di Enna, ma anche per l’economia assorina. Infatti, ad Assoro, nella zona confinante con il Dittaino, sono stati ritrovati giacimenti di zolfo, salgemma e alabastro gessoso, sfruttati grazie a una rete di 80 pozzi, che, fino al dopoguerra, hanno donato ricchezza e stabilità economica al paese.
La risorsa estratta dalle tredici zolfare prossime ad Assoro veniva trasportata alla stazione di Leonforte e da qui a quella di Dittaino, per poi essere trasferita ai porti di Catania o di Riposto, dai quali raggiungeva tutto il mondo.
Dell’antica tratta ferroviaria AssoroLeonforte restano oggi la traccia e alcune infrastrutture, tra cui l’antico ponte delle dodici luci.
ASSORO ATTRAVERSO I SECOLI
Le origini di questo centro abitato affondano le loro radici in epoche antichissime, a partire dall’età del Bronzo medio. Tracce dei primi insediamenti urbani sono stati riscontrati in alcune zone collinari nei pressi dell’attuale Assoro e nella zona dove s’innalza il maestoso castello.
I Siculi, di provenienza indo - europea, fondarono per primi la città, verso il 1450 a.C., al centro dell’ampio e fertile territorio attraversato dal fiume Chrysas, che gli arabi denominarono poi Wadi at Tain, ossia fiume di fango, da cui l’attuale nome di Dittaino.
Ma i primi abitanti effettivi furono i Sicani giunti dall’Africa. In seguito fu colonizzata da diverse popolazioni tra le quali i Greci, i Cartaginesi e i Romani.
Di tale periodo sono stati ritrovati numerosi reperti, oggi custoditi nel Museo Archeologico Paolo Orsi di Siracusa.
Secondo lo storico Diodoro Siculo, Assoro, tra il 404 e il 260 a.C., fu l’unico centro a sostenere la potente Siracusa nelle battaglie contro i Cartaginesi, gli Etruschi e i Greci. In cambio la potente città le donò il privilegio di coniare moneta propria, rappresentando uno Stato indipendente con proprie leggi, culti e calendario religioso.
Della storia di Assoro scrisse anche Cicerone ne “Le Verrine”, in cui racconta di un episodio che vide protagonisti gli “assorini” contro il pretore romano Verre, il quale noto per la sua abilità nei furti di pregevoli opere d’arte, dopo essere divenuto governatore della Sicilia, escogitò un piano per sottrarre, dal Tempio di Assoro, la statua del dio Chrysas, il dio del fiume che scorreva attraverso le sue campagne rendendole fertili e per questo adorato dagli abitanti, in prevalenza agricoltori.
Egli, infatti, giocando d’astuzia, decise di non compiere direttamente il furto ma di inviare i suoi uomini che, però, furono scoperti e costretti alla fuga.
Riferendosi a questo episodio, Cicerone attribuì agli assorini la frase “Viri Fortes et Fideles” che oggi compare sullo stemma del Comune, in cui è raffigurata l’immagine di tre monti italici illuminati da una stella. Tale stemma risulta essere identico a quello dei Benedettini di Catania che ressero Assoro per circa un millennio.
La tormentosa e più recente storia di questa città inizia con l’invasione dei musulmani che s’insediarono nel centro fino al 1061 d.C., quando i normanni guidati dal Conte Ruggero, in quell’anno, conquistarono Assoro per la felicità dei suoi abitanti.
Al Conte Ruggero successe Guglielmo II, detto “il buono” che, insieme alla zia Costanza d’Altavilla, Signora di Assoro, decise di erigere nella cittadina un nuovo tempio costituito dalla magnifica Basilica di San Leone.
Ai normanni seguirono prima gli svevi e poi gli angioini che si imposero prepotentemente in tutta l’isola, causa scatenante della famosa battaglia dei Vespri Siciliani (1282), a cui gli assorini parteciparono attivamente.
Espulsi gli angioini dal territorio dell’isola, il potere passò agli aragonesi con a capo Pietro I d’Aragona, che portò in Sicilia numerose famiglie aristocratiche, tra le quali quella dei Valguarnera, alla quale venne riconosciuto il diritto di dimora nel castello e gli vennero affidati tre feudi.
Questa famiglia contribuì molto allo sviluppo e all’espansione della cittadina con la costruzione di monumenti e luoghi di culto.
Rita Russo Photography
Prima di raggiungere il cuore del centro storico, sito nella parte più alta del paese, ci si imbatte in un isolato campanile a fianco del quale si scorgono alcuni ruderi.
Si tratta della Chiesa di Santa Caterina che, realizzata dai Cavalieri del Tempio nel secolo XIII, fu utilizzata per molto tempo come ospedale per i pellegrini e alla fine del 1700 funzionò, per un periodo, da Chiesa Madre di Assoro.
Percorrendo la via Crisa, corso principale della cittadina, si raggiunge la pedonale Piazza Umberto I, caratterizzata da un ampio belvedere dal quale si gode di una spettacolare veduta sui tetti della cittadina e dei profili delle città di Enna e Calascibetta, site proprio di fronte ad essa.
Da questo punto ci si trova ad un passo dai luoghi più interessanti del paese. Infatti, sul lato destro della piazza, prospetta il fronte posteriore del maestoso Palazzo della Signoria, i cui pianterreni costituivano originariamente le scuderie baronali.
La facciata settentrionale e quella orientale, in elegante stile Catalano, che prospettano, invece, rispettivamente sulla successiva piazza Guglielmo Marconi e su Via Crisa, hanno portali bugnati e balconi in pietra finemente lavorati.
Il palazzo fu edificato nel 1492 per volontà della nobile famiglia Valguarnera, Signori di Assoro, che avendo vissuto per lungo tempo nel bellissimo Castello, ebbero per il palazzo esigenze costruttive sfarzose e regali.
Negli anni successivi la residenza divenne ancora più elegante e nel 1538 venne affiancata da un nuovo palazzo in stile barocco.
A 50 metri da piazza Umberto I si trova la bellissima Chiesa di San Leone, divenuta Matrice di Assoro nel 1492 ed elevata a rango di Basilica nel 1499, il cui prospetto principale si affaccia su Piazza Marconi.
Essa è collegata al Palazzo della Signoria attraverso un arco a tutto sesto sul quale un camminamento permetteva, ai nobili Valguarnera, l’accesso privato dal palazzo al tempio. La magnificenza decorativa e la bellezza artistica di questo luogo di culto è tale da lasciare senza fiato il visitatore che vi accede.
Essa fu, infatti, dichiarata Monumento Nazionale nel 1933 ed è, senza tema di smentita, uno dei monumenti più belli dell’intera Sicilia.
La chiesa fu eretta nel 1186, su un’area sulla quale insisteva originariamente un tempio pagano, per volere di Guglielmo il buono, il quale la donò, come cappella “regia”, a Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II, sposa di Enrico VI, a sua volta figlio di Federico Barbarossa (dal cui matrimonio nacque poi Federico II, lo Stupor Mundi).
Verso la fine del 1400, per mano dei Valguarnera, la chiesa fu ristrutturata, ampliata e arricchita di nuovi stili.
In questo periodo furono aggiunte alla navata centrale le due laterali dotate ognuna di sette altari.
Essa presenta, dunque, uno stile prevalentemente gotico che si alterna a quelli arabi e catalani.
A seguito dei danni subiti a causa del terremoto della Val di Noto, avvenuto nel 1693, il tempio subì ulteriori ristrutturazioni. Il sisma non causò vittime, ma ingenti danni al pronao e alla guglia campanaria, poi sostituita da una specola con orologio fino al 1973.
La chiesa, a fasi alterne, è stata oggetto di ulteriori ristrutturazioni che, conclusesi nel 2012, hanno permesso di rendere fruibile nella sua interezza questo prezioso bene, insieme a tutto il suo patrimonio artistico e culturale.
Rita Russo PhotographyPer il tipo di struttura, la basilica presenta similitudini con la Cappella Palatina Palermitana e con il Duomo di Monreale, della cui Curia, nel periodo normanno, faceva parte anche il territorio assorino.
Essa presenta una forma a croce latina ripartita in tre navate per mezzo di colonne tortili. Il transetto è rialzato rispetto al pavimento della chiesa e a un livello superiore si trovano l’abside centrale e le due laterali.
Il tetto, ligneo con capriate, nel 1490 fu restaurato da un ricco ma non noto assorino, Eugenio di Rocca, il quale, convinto di guadagnarsi un posto in paradiso attraverso questa ristrutturazione, su una delle travi, in una lingua ottenuta dalla commistione di più stili ( arabo, gotico - catalano e barocco), così scrisse: LULEGATU DI RUGGERU DI ROCCA NI ACCAPTAU - VIVAI ANIMA EIUS - MCCCCLXXXX.
Rita Russo PhotographyNumerose opere d’arte, riferibili alle varie fasi costruttive della basilica, adornano e arricchiscono ogni suo angolo.
Di notevole bellezza è il crocifisso ligneo appeso al centro della navata principale, che da un lato ritrae il Cristo e dall’altro la sua resurrezione, del quale non si conosce il nome dell’autore ma si pensa che possa appartenere ad un artista della scuola di Cimabue, databile quindi tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300.
Le meraviglie che decorano l’abside centrale, ornata da una volta con nervature ad ombrello, sono per lo più attribuibili alla scuola gaginiana.
Di particolare pregio è la pala d’altare scultorea, collocata nel catino absidale e realizzata in marmo da Antonello Gagini, nel 1515. Essa raffigura nelle due scene esterne inferiori, l’inferno a sx e il purgatorio a dx; un festone di frutta, sul quale si trovano i simboli iconografici dei quattro evangelisti (aquila, angelo, leone e toro), separa le scene inferiori dalla parte centrale della pala stessa, nella quale in cinque nicchie decorate in alto dalla conchiglia di San Giacomo, allegoria del pellegrinaggio terrestre, si trovano altrettante statue a tutto tondo.
Quelle di sx raffigurano San Leone Vescovo, titolare della chiesa e San Leone II, papa siciliano; mentre, quelle di destra raffigurano San Benedetto da Norcia, in omaggio ai monaci benedettini che evangelizzarono la cittadina e San Placido martire, che donò la dimora assorina all’Ordine benedettino. Mentre in quella centrale è raffigurata la statua della Madonna Libera Inferni.
L’ordine superiore comprende due lunettoni esterni, due serie di tre formelle che recano scene evangeliche in bassorilievo e delimitano un grande altorilievo sull'asse centrale, nel quale si staglia la figura trionfale del Cristo Risorto con bandiera spiegata, raffigurato nell'atto di assurgere al cielo in un vortice di nembi e putti alati.
Le formelle sono intervallate da lesene con capitelli che presentano la superficie esterna decorata da delicate grottesche in rilievo. Infine, tutti gli elementi della parte sommitale della pala riportano all’allegoria del Paradiso.
Rita Russo PhotographyI sarcofagi marmorei, realizzati anch’essi da Gagini e ben visibili ai lati dell’abside, contengono le spoglie dei conti Valguarnera ed originariamente poggiavano su quattro cariatidi, oggi non più esistenti.
Sull’altare maggiore svetta un Crocifisso in legno e impasto (alto metri 1,70) sempre attribuito ad Antonello Gagini e caratterizzato da una bellezza e una perfezione anatomica fuori dal comune.
Questa statua, in occasione delle feste pasquali e in particolare il Venerdì Santo, viene portata a spalla, in processione per le vie del paese, da 72 confratelli “Nudi”, così chiamati perché camminano a piedi scalzi.
Rita Russo PhotographyUna volta usciti dalla basilica, saliamo attraverso gli stretti vicoli e i piccoli cortili del centro storico, per raggiungere la parte più alta di esso sul quale si trovano i ruderi del Castello, non mancando di passare prima a visitare un’altra delle chicche di questo paese, costituita dalla chiesa di Maria SS degli Angeli, la prima edificata ad Assoro.
Essa, insieme all’adiacente convento, fu eretta dai Padri Francescani Riformati, nel 1622, inglobando quella preesistente dedicata a S. Margherita. Fino al 1896 questa struttura, che ospitava una ricca biblioteca, rimase in possesso dei frati francescani. Dopo quella data il convento fu trasformato in carcere mandamentale e dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne prima sede di un orfanotrofio e poi di un istituto scolastico a regime convittuale. Alla chiesa si accede attraverso una monumentale scalinata al cui centro si innalza una grossa croce in pietra.
All’interno, trionfa lo sfarzo legato agli splendidi dipinti in stile barocco siciliano, realizzati con la tecnica del “trompe l’oeil”, inusuali per una chiesa appartenente all’ordine dei francescani.
Rita Russo PhotographyContinuando la salita, raggiungiamo la sommità del Monte La Stella, sulla quale si erge quel che resta dell’antico Castello, conosciuto anche come Castello di Valguarnera, dal nome della nobile famiglia che vi dimorò per ultima.
Di questa magnifica struttura, che ha contribuito alla formazione della storia di Assoro, restano oggi solo pochi e significativi ruderi.
Le notizie storiche su questo edificio sono per lo più incerte ed esigue. E’ probabile che esso sia il frutto di successive ricostruzioni su apparati preesistenti.
Infatti, con l’importante scoperta effettuata dall’illustre archeologo Paolo Orsi, fu avanzata l’ipotesi dell’esistenza di un’antichissima struttura, risalente probabilmente ai primi abitanti di Assoro (Siculi e Sicani), grazie al rinvenimento, sul lato interno del muro di sud - ovest, di segni di un’antica scrittura costituita da lunghe serie di petroglifi lineari, tutti uguali. Su questo edificio, poi, i bizantini realizzarono il loro forte che fu, però, requisito e ricostruito dagli invasori arabi nel 939 d.C..
Il forte arabo fu, successivamente, conquistato dai normanni che lo ingrandirono e lo cedettero poi, attraverso un atto di vendita sottoscritto da Ruggero II, al vescovo di Catania che ne divenne proprietario feudale.
A questo seguì Scaloro degli Uberti, feudatario e conte di Assoro, componente della omonima famiglia ghibellina proveniente da Firenze.
Durante le guerre politiche del 1340, Scaloro, accusato di tradimento, subì l’esproprio del Castello e del feudo di Assoro che venne assegnato a Giovanni d’Aragona, duca di Randazzo. Sette anni più tardi, Scaloro, grazie ad un atto di clemenza del re Federico IV d’Aragona, riottenne il Castello e il suo feudo ma morì poco tempo dopo, a causa di una sanguinosa vicenda bellica che vide coinvolto proprio il castello. Negli anni successivi, la proprietà di quest’ultimo restò dapprima nelle mani reali aragonesi e nei primi anni del 1400 passò in quelle dei nobili catalani Vitale e Simone Ventimiglia. Questi ultimi furono nominati Signori di Assoro e tali rimasero fino alla fine del feudalesimo.
Essi apportarono numerosi interventi di sviluppo ed espansione al Castello e vi abitarono finché non furono completati i lavori di realizzazione del Palazzo della Signoria.
Da quel momento la fortezza fu abbandonata e andò nel tempo in rovina, cosa che ha reso ancora più difficile, oggi, la comprensione dell’intero apparato.
Nonostante ciò, dai suoi resti si può affermare che una parte delle mura superstiti sono rivolte verso la vallata, dove si estendeva la zona residenziale.
Invece, dall’altra parte, cioè verso Assoro, si estendeva quella difensiva dove i soldati controllavano costantemente eventuali attacchi nemici.
Infatti, era possibile accedere al Castello solo passando per il paese.
La planimetria di questo edificio, realizzato in cima alla rupe, ha un andamento poligonale irregolare, a causa delle asperità del terreno roccioso sul quale fu edificato.
Caratteristica tipica dei castelli del medioevo, era quella di costruire fortezze alternando gli scavi nella roccia a mura forti e solide. In quella in oggetto è possibile, infatti, notare questo particolare attraverso i due spezzoni di mura rimasti, il primo dei quali termina su una torre piena, a pianta circolare, l’unica superstite delle quattro originarie, dotata, fino a pochi anni addietro, di beccatelli in pietra.
L’altro brandello di cortina muraria è rivolta verso la vallata e delimita una sorta di sotterraneo, probabilmente utilizzato come magazzino, al quale si accedeva da una scala elicoidale scavata nella roccia calcarenitica; mentre i piani superiori erano adibiti a dimora residenziale dei nobili che si succedettero.
La posizione strategica dell’edificio permetteva di controllare sia il vasto territorio di Assoro, sia la strada che da Catania conduceva a Palermo.
Attualmente, in prossimità dei ruderi del castello, dai quali si può godere di un’ottima veduta sull’ampia vallata sottostante e soprattutto sul Monte Etna, è stato realizzato un parco urbano immerso nel verde.
Una volta visitato il Castello, scendiamo, attraversando altre vie del centro storico, per chiudere la nostra passeggiata culturale nel punto da cui essa ha avuto inizio, ossia Piazza Umberto I.
Durante questo tragitto ci imbattiamo in altri luoghi di culto tra cui la Chiesa dello Spirito Santo a tre navate, risalente al secolo XIII, che è stata restaurata di recente e le suggestive rovine della Chiesa di San Biagio, risalente al 1603, della quale resta solamente il campanile e il prospetto principale.
A queste si aggiunge un’altra particolarità, che non potevamo perdere, costituita dalla cappella rupestre bizantina (sec.X-XI) dedicata a Santa Maria La Mendola o della Madonna Medica, che si trova custodita all’interno di una cavità rupestre, sita poco fuori dal centro storico di Assoro.
All’interno di questo antro, probabilmente sede di un culto pagano più antico, si conservano le tracce di dipinti bizantini dedicati a San Leone e a Santa Petronilla, patrona di Assoro.
Rita Russo Photographya cura di Achille Bonito Oliva
MILANO
FABBRICA DEL VAPORE
dal 22 ottobre 2022 al 26 marzo 2023
Una mostra imperdibile sul protagonista della pop art americana
Ogni cosa ripete se stessa. È stupefacente che tutti siano convinti che ogni cosa sia nuova, quando in realtà altro non è se non una ripetizione.
[ Handy Warhol ]
Con oltre trecento opere divise in sette aree tematiche e tredici sezioni - dagli inizi negli anni Cinquanta come illustratore commerciale sino all’ultimo decennio di attività negli anni Ottanta connotato dal rapporto con il sacro - la spettacolare mostra Andy Warhol.
La pubblicità della forma è promossa e prodotta da Comune di Milano–Cultura e Navigare, curata da Achille Bonito Oliva con Edoardo Falcioni per Art Motors, Partner BMW.
Aperta dal 22 ottobre 2022 sino al 26 marzo 2023 a Milano alla Fabbrica del Vapore, è un viaggio nell’universo artistico e umano di uno degli artisti che hanno maggiormente innovato la storia dell’arte mondiale.
“Warhol – afferma Bonito Oliva – è il Raffaello della società di massa americana che dà superficie ad ogni profondità dell'immagine rendendola in tal modo immediatamente fruibile, pronta al consumo come ogni prodotto che affolla il nostro vivere quotidiano.
In tal modo sviluppa un'inedita classicità nella sua trasformazione estetica.
Così la pubblicità della forma crea l'epifania, cioè l'apparizione, dell'immagine”.
Andrew Warhola, classe 1928, originario di Pittsburgh, dopo la laurea nel 1949 si trasferisce a New York, trasforma il proprio nome di origine slovacca in Warhol e nei primi anni ’60 è un giovane pubblicitario di successo, che lavora per riviste come New Yorker, Vogue e Glamour.
L’intuizione che lo renderà celebre e ricco è quella di ripetere una immagine più e più volte, in modo da farla entrare per sempre nella mente del pubblico.
Thirty Are Better Than One, la sua prima Monna Lisa ripetuta ben trenta volte, da celebre ed esclusiva opera d’arte, viene trasformata in una opera di tutti e per tutti, trasformando il linguaggio della pubblicità in arte. In Green Coca-Cola Bottles –scrive Falcioni nel suo testo per il catalogo – comprendiamo immediatamente che per l’artista è proprio la quantità a prevalere sull’originalità del soggetto raffigurato: è infatti ripetendo la stessa immagine che egli riesce a portare e mettere in scena il panorama consumistico nel mondo dell’arte: compito dell’artista non è più creare, ma riprodurre”.
Per far questo Warhol adotta una speciale tecnica di serializzazione, con l’ausilio di un impianto serigrafico, che facilita la realizzazione delle opere e riduce notevolmente i tempi di produzione.
Su grosse tele riproduce moltissime volte la stessa immagine alterandone i colori: usando immagini pubblicitarie di grandi marchi commerciali o immagini di impatto come incidenti stradali o sedie elettrice, riesce a svuotarle del significato originario. L’arte deve essere “consumata” come qualsiasi altro prodotto.
La tecnica della serigrafia viene usata da Warhol già nel 1962 per realizzare la serie Campbell’s Soup Cans, composta da trentadue piccole tele di identiche dimensioni raffiguranti ciascuna gli iconici barattoli di zuppa Campbell’s, esposte nello stesso anno alla Ferus Gallery di Los Angeles.
Mao (Reversal Series) ca. 1979, Serigrafia su carta da giornale, Unique, 76.2 x 96.52 cm, Collezione Privata, Monaco.
Lo stesso fa con i ritratti delle celebrità dell’epoca: Marilyn Monroe, Mao Zedong, Che Guevara, Michael Jackson, Elvis Presley, Elizabeth Taylor, Brigitte Bardot, Marlon Brando, Liza Minnelli, Gianni e Marella Agnelli, le regine Elisabetta II del Regno Unito, Margherita II di Danimarca, Beatrice dei Paesi Bassi, l'imperatrice iraniana Farah Pahlavi, la principessa di Monaco Grace Kelly, la principessa del Galles Diana Spencer.
Per queste personalità essere ritratte da Wahrol diventa un imperativo a conferma del proprio status sociale.
Emblematica la Gold Marilyn Monroe, conservata al MoMA di New York: una delle donne più affascinanti della storia moderna americana viene qui rappresentata su uno sfondo oro, esattamente come si trattasse di una tavola del Trecento raffigurante la Madonna.
La critica all’inizio stronca questi lavori, non comprendendone l’originalità né la volontà di Warhol di comunicare l’idea della ripetizione e dell’abbondanza del prodotto, in linea con la filosofia consumistica dell’epoca.
La sua opera viene vista come un oltraggio all’Espressionismo Astratto, movimento artistico allora dominante negli USA.
Lo stesso celebre gallerista Leo Castelli all’inizio non comprende la genialità innovativa del lavoro di Warhol e cede alla richiesta di Jasper Johns di non ammetterlo nella sua scuderia.
In realtà aderendo alla cultura di massa e portandola nel mondo concettuale dell’arte figurativa, Warhol ha esaltato la patria del consumismo e tutto quanto gli Stati Uniti hanno simboleggiato dal dopo guerra sino agli anni ’80.
Disastri Car Crash Disaster, 1978, Serigrafia su carta Curtis Rag, Unique, 53 x 92.4 cm, Collezione Jonathan Fabio1963, Acrilico e serigrafia su tela, 76.2 x 83.3 cm, Collezione Privata
“Il vero colpo di genio attraverso cui l’artista riuscì a valorizzare definitivamente gli anni ’60 e le nuove forme di comunicazione di massa – leggiamo ancora nel testo di Falcioni – furono però le Brillo Box: si tratta di sculture identiche alle scatole di pagliette saponate Brillo in vendita nei supermercati. Queste vennero realizzate da una falegnameria e i bordi vennero serigrafati da Warhol e i suoi assistenti come le etichette originali. Saranno proprio queste opere a far scaturire in Arthur Danto, celebre filosofo ammaliato da queste creazioni, la sua concezione sulla filosofia dell’arte, che ruota attorno ad una domanda fondamentale: “che cos’è l’arte?”.
Questo interrogativo lo porterà a ritenere queste scatole di legno delle vere e proprie opere d’arte, in forza della loro capacità di evocare e rappresentare alla perfezione un determinato contesto storico, in questo caso gli anni ‘60 assieme alle sue innumerevoli novità, di cui il pop artist può essere considerato senza dubbio il massimo interprete. L’evento che rese queste opere tra le più celebri dell’intera storia dell’arte fu la personale dell’artista presso la Stable Gallery di New York, tenutasi nel 1964: queste sculture furono disposte all’interno dello spazio espositivo tutte in fila e una sopra all’altra, proprio come se si trattasse di un supermercato piuttosto che di una galleria d’arte”. E’ visitando questa mostra che Leo Castelli si ricrede e comprende l’attualità dell’operazione di Warhol, arruolando nella sua scuderia.
Da questo momento la carriera di Warhol ha una vera e propria deflagrazione. Nasce la celebre The Factory, originariamente al 231 East 47th Street, dove innumerevoli assistenti creano a ritmo frenetico le sue opere in serie: quadri, film, cover musicali, sculture, copertine di riviste e molto altro. E dove Warhol accoglie attori, musicisti, scrittori, tutto il mondo creativo newyorchese, creando i primi film come i The Velvet Uderground & Nico, per cui realizza anche la copertina del celebre LP.
Qui sono realizzati molti altri film che mostrano azioni ripetute dilatate nel tempo, sorta di quadri proiettati su una parete bianca e gli Screen Test, ritratti filmati di personaggi in visita alla Factory, ripresi, allo scopo di entrare nella loro intimità, con una camera fissa senza muoversi per tre minuti su un fondo nero.
Alcuni di questi film dedicati alla cultura gay newyorkese, di cui Warhol faceva parte, sono stati censurati, distribuiti col passaparola e proiettati trent’anni dopo la data di realizzazione in occasione di mostre organizzate in vari musei del mondo. Nella Factory viene realizzato inoltre il magazine Interview con in copertina, per ciascun numero, il personaggio del momento. E sono prodotte altre celebri copertine per Time e Playboy. Molte altre Factory seguiranno in diverse parti della città, laboratori dei tantissimi progetti ideati senza sosta dal poliedrico artista.
Nel frattempo è nata una nuova generazione di artisti come Basquiat, Haring, Scharf che considerano Warhol il loro padre spirituale: accogliendoli nella sua cerchia Warhol ne assorbisce dinamismo e creatività.
Riesce così a rinnovarsi nuovamente, ideando le ultime sperimentazioni iconiche come il celeberrimo Dollar Sign, emblema del rampantismo economico di quegli anni, abbandonando l’uso della serigrafia e dedicandosi, reinterpretando in chiave pop alcuni riferimenti artistici del passato, alla pittura pura.
La mostra milanese vuole documentare questo avvincente percorso: dagli oggetti simboli del consumismo di massa, ai ritratti dello star system degli anni ’60; dalla serie Ladies & Gentlemen degli anni ’70 dedicata alle drag queen, i travestiti, simbolo di emarginazione per eccellenza e considerati alla pari di star come Marilyn, sino agli anni ’80 in cui diviene predominante il rapporto col sacro: cattolico praticante, ne era stato in realtà pervaso per tutta la vita.
Esposte una ventina di tele, una cinquantina di opere uniche come serigrafie su seta, cotone, carta, oltre a disegni, fotografie, dischi originali, T-shirt, il computer Commodore Amiga 2000 con le sue illustrazioni digitali, la BMW Art Car dipinta da Wahrol, la ricostruzione fedele della prima Factory e una parte multimediale con proiezioni di film da vedere con gli occhialini tridimensionali.
Andy Warhol muore nel 1987 per una infezione alla cistifellea. Le sue icone, i suoi personaggi, i suoi soggetti sono riprodotti ovunque, in tutto il mondo, su vestiti, matite, posters, piatti, zaini. Ha anticipato i social network e la globalizzazione degli anni Duemila, ha cambiato per sempre amato da un pubblico trasversale.
La mostra rappresenta una occasione imperdibile per godere della sua arte unica, coraggiosa, innovativa e traboccante di idee.
GIAVENO
I meno giovani
lo ricorderanno sicuramente, ma non sappiamo se per le nuove generazioni i testi delle elementari riportino ancora la figura del contadino che, da una grande sacca, estrae i semi di grano per lanciarli sul terreno.
In quelle illustrazioni il “seminatore” indossava immancabilmente un cappello, sovente di paglia, e calzava dei larghi scarponcini. Adesso la semina avviene tramite macchinari e strumenti sofisticati che dell’uomo hanno soltanto bisogno per venire manovrati, però è affascinante riandare col pensiero a un intervento “umano” più diretto, a contatto con quei semi che diventeranno delle spighe dorate pronte a trasformarsi nel profumato pane che arriva sulle nostre tavole.
E allora perché non fare un poco di storia di questi chicchi capaci di tramutarsi quasi miracolosamente, sebbene siano già stati ampiamente trattati nel numero 71 della nostra rivista?
La parola grano deriva dal latino triticum, che significa spezzato, schiacciato o trebbiato, riferendosi a quell’operazione che separa il chicco di grano dalla lolla (detta anche pula) da cui è ricoperto.
La semina - dopo aver pulito, fertilizzato e arato il terreno - può avvenire in primavera o in autunno, da cui la denominazione “grano primaverile o invernale” (quello invernale raccolto in primavera, il primaverile in autunno) e per crescere bene richiede almeno otto ore di luce solare al giorno; il terreno migliore è quello argilloso con un adeguato contenuto di calce, ma è importante avere una buona scorta di materia organica e humus e innaffiarlo tre volte all’anno, la prima dopo l’aratura, poi durante la spigatura e infine nella maturità delle spighe.
La raccolta avviene, con una mietitrebbia, dopo cinque-sei mesi, a circa 30 centimetri da terra, precisamente quando gli steli hanno perso il colore verde e la grana risulta molto consistente.
Sono assai considerevoli i benefici del grano, ritenuto a ragione uno degli alimenti più importanti per l’uomo, come asserisce il prof. Alessandro Corbellini dell’Istituto Agrario Gae Aulenti di Biella, che considera i cereali legati da tempo immemorabile alla storia dell’umanità, trattandosi di una risorsa facilmente reperibile e nello stesso tempo fondamentale per l’alimentazione.
Il professore aggiunge poi che, nel corso dei millenni, alcune tipologie sono state privilegiate ad altre, anche in virtù dell’adattamento delle piante all’ambiente circostante.
A tale proposito, molto interessanti sono le iniziative del Giardino Botanico Rea, dove vengono presentate periodicamente mostre tematiche per valorizzare e divulgare le conoscenze in ambito botanico su argomenti differenti, fra le quali ci ha colpiti particolarmente l’esposizione che tratta “Il recupero dei grani storici”.
Per questo motivo sono state fatte delle sperimentazioni sulla coltivazione di diverse varietà di cereali storici, inizialmente dietro
richiesta di alcune Associazioni di agricoltori, tra cui l’Associazione Principi Pellegrini di VangAzioni.
Nel corso del tempo si sono aggregate altre collaborazioni, specie con il territorio di Giaveno, allo scopo di creare una filiera “Dal grano al pane”, pertanto dalla coltivazione al prodotto finito.
Man mano che passava il tempo, si sono poi fatti avanti l’Ecomuseo della Val Sangone, i Mulini storici di Detu e della Bernardina, il Centro arti e Tradizioni Popolari e i Panificatori De.Co di Giaveno.
Ė stato proprio a causa della curiosità e dell’interesse suscitati da queste notizie che in noi è sorto il desiderio di conoscere alcuni di quei MULINI che, trasformando il grano in farina, ci permettono di apprezzare il sapore e la fragranza del PANE.
Maria Grazia Castiglione PhotographyIntenzionati quindi a saperne di più, ci siamo recati proprio a Giaveno, dove siamo stati accolti dal Sindaco Carlo Giacone, dal Vicesindaco Stefano Olocco, dal Capo Area Comunicazione e Ufficio Stampa dottoressa Alessandra Maritano e dal panificatore Dario Calcagno Tunin, coordinatore delle attività dell'Associazione Panificatori Artigiani De.C.O. Giaveno.
Dopo i primi convenevoli, questo “Comitato di accoglienza” si è attivato per illustrarci i prodotti locali, che non riguardavano soltanto i funghi, ma anche numerosi prodotti caseari o relativi all’allevamento, al dolce miele e - non perché ultimo in ordine di importanza - a quei panificatori che si tramandano quest’arte da generazioni. Il signor Calcagno Tunin tiene a sottolineare che si dà molta importanza alle tradizioni che si trasmettono da padre in figlio, soprattutto alla qualità dei prodotti, senza mai limitarsi alle parole, alle chiacchiere, ma curando la sostanza!
Si entusiasma poi nel raccontarci che ai tempi del nonno gli abitanti delle borgate scendevano dai monti fino a Giaveno con le gerle cariche di burro, tome e tomini e per distribuire i loro prodotti agli interessati e, una volta svuotate, visitavano i fornai per riempirle nuovamente.
Fra gli avventori c’erano anche i monaci della Sacra di San Michele, che facevano fare il pane in quello che poi si chiamerà il Mulin du Detu
Quando gli domandiamo quali siano le specialità del luogo risponde trattarsi delle micche, delle mezzane e degli stirotti, delle biove e dei grissini stirati a mano, ma non manca di appassionarsi nel descriverci i suoi prodotti e, fedele al “non limitarsi alle chiacchiere”, ci regala persino dei deliziosi biscotti di sua produzione!
Sono i nuovi nati, “I Pellegrini”, creati finalmente con farine integrali cento per cento prodotte in terre di Sacra: i primi di pasta di meliga fatta con pignoletto rosso, i secondi di farina di castagno e, infine, il “bastone del pellegrino” con mirtilli e mele essiccate sminuzzati e miele.
TorinoGiavenoPiacevolmente scortati dalla dottoressa Maritano, attraversiamo questa ridente cittadina attorniata dai monti per raggiungere la nostra prima meta, il Mulino della Bernardina, sentendoci un po’ calare in un’atmosfera dai sapori antichi.
Ai nostri occhi si presenta un’efficientissima costruzione dotata di quella ruota che possiede un non so che di fiabesco. Ė sempre interessante conoscere la storia delle strutture che visitiamo, e anche in questa occasione non ce ne fanno mistero, spiegandoci il suo funzionamento e le sue origini. Veniamo così a sapere che si tratta di un antico mulino a pietra, ancora funzionante ad acqua, costruito nel 1745 e ristrutturato alla fine del 1800.
Il suo nome deriva dal mugnaio che iniziò i lavori di ristrutturazione, che si chiamava appunto Bernardino, di cognome Ughetto.
Alla sua morte, la moglie fece proseguire i lavori, ma pur desiderando onorare il marito attribuendo al mulino il suo nome, lo tramutò al femminile, per far sì che in futuro ci si ricordasse anche di lei e del suo impegno lavorativo. Le suffragette e le femministe avrebbero apprezzato!
Il mulino è dotato di tre macine, una per il mais, una per le castagne e una per il grano e la segale e, fino ad ora, le antiche tradizioni sulla lavorazione della farina sono state tramandate di padre in figlio.
I proprietari desiderano difatti far riscoprire le usanze di una volta, trasmettendo i valori della vita contadina, ed esaltano la qualità della farina macinata a pietra, prodotto di alta qualità che mantiene intatti i suoi valori nutrizionali.
Barbara Tonin Photography Monica Pastore Photographysono state inserite le vecchie macine del mulino - che poi è stato restaurato - perché a quei tempi nulla veniva buttato. I materiali con cui sono fatte, inoltre, arrivano da una cava di una specifica zona della Francia: si tratta di un agglomerato di pietre specificatamente studiato per non dare problemi di salute.
È un granito molto resistente all’usura e che non produce fessurazioni nel tempo.
Ogni anno, in aggiunta, vengono svolti degli interventi di rabbigliatura, per conferire alla superficie le tipiche striature che permettono di schiacciare i grani con la migliore resa.
Ai visitatori del mulino, esattamente come è capitato a noi, è così offerta la possibilità di scoprire un pezzo di storia secolare giavenese, dove questo antico esemplare si distingue per essere uno dei più grandi mulini di montagna presenti sul territorio.
Gerardo Rainone Photography Fabrizio Rossi PhotographyMentre lasciamo con rammarico il Mulino della Bernardina, ancora affascinati dal sapore antico dei locali che sanno di genuinità e di pane, ci avviamo verso il secondo Mulino, il Mulin du Detu, anch’esso - come il precedente - ad acqua a ruota verticale esterna.
Nel percorrere le vie di Giaveno insieme alla dottoressa Maritano, disquisiamo sull’importanza e sulla necessità di tornare ai vecchi usi, ma per capire questa esigenza occorre fare un passo indietro.
Dagli anni ‘70 in poi le richieste dell’industria si erano difatti rivolte in una direzione diversa, cioè verso la riduzione dei tempi del ciclo produttivo.
Dal momento che l’obiettivo verteva a creare farine che permettessero tempi minori di impastatura e lievitazione, gli ibridatori avevano iniziato a creare piante con presenze di glutini sempre maggiori, ma continuando con questa metodologia una buona parte della popolazione non riusciva a digerire l’aumentata quantità di glutini; e risultavano incrementate le intolleranze alimentari, anche quelle leggere.
Ė stata questa la ragione per cui è emersa la necessità di un ritorno alle vecchie varietà di grani, possedenti caratteristiche
organolettiche primitive e più facilmente digeribili; questa decisione si è rivelata molto utile, se non altro al fine di un semplice recupero della biodiversità andata persa negli anni. Ciononostante, non bisogna credere che a priori le antiche varietà siano tutte migliori di quelle attuali, è normale che ne esistano di buone e meno buone, queste ultime poi abbandonate per la loro scarsa qualità.
Ne è un esempio il Triticum turgidum mirabilis, detto più comunemente il “grano del miracolo”, una qualità presente da secoli; nell’800 un grande semenziere francese, Villemourin, affermò che con l’utilizzo di quella varietà le produzioni sarebbero incredibilmente aumentate, e proprio per tale motivo gli venne attribuito l’appellativo grano del miracolo.
In effetti produce sì una spiga molto grande, però possiede degli aspetti negativi, delle criticità che si riscontrano non soltanto nel peso maggiore che rischia di spezzare il fusto, ma anche nella qualità del prodotto che è molto bassa. In conclusione, appaga l’occhio ma non la pancia!
Manuela Albanese Photography Monica Pastore PhotographyAbbiamo approfittato del tempo mancante al raggiungimento della nuova meta per “ripassare” la storia da poco appresa sulla macinazione a pietra del grano, ricordando che l’uomo ha cominciato a schiacciare e frantumare i cereali sin dalle epoche più remote.
L’idea di lavorare un prodotto della terra e di sottoporlo ad una “prima trasformazione” che lo rendesse meglio utilizzabile e digeribile, è stato peraltro uno dei punti chiave dell’evoluzione della specie umana, al pari della scoperta del fuoco o dell’invenzione della ruota.
L’affinamento dell’arte di lavorare il frumento è durato millenni. Inizialmente gli antichi agricoltori schiacciavano i grani per mezzo di mortai, poi cominciarono a stritolarli tra due pietre, fino a riuscire, intorno all’anno 1000 a.C. in Grecia, a dare alle macine una forma più razionale.
Nei resti di Pompei è stata ritrovata una macina a pietra, comprensibilmente dalla forma ben diversa rispetto alle attuali, azionata dalla forza umana o animale.
Nella lenta ma incessante evoluzione di questa tecnologia, definita “bassa”, o “piatta” macinazione, i salti fondamentali sono stati compiuti con l’adozione della forza idraulica, del vento e, infine, della propulsione a vapore.
Alla fine del XVIII secolo, punto di massima evoluzione di questa tecnologia, le macine a pietra venivano azionate “in batteria” mediante turbine idrauliche o macchine a vapore. Grazie alla nuova e copiosa disponibilità di forza motrice, anche le macchine accessorie vennero “motorizzate” e fecero la loro comparsa le prime coclee, i primi elevatori e i buratti.
Domenico Ianaro Photography Gerardo Rainone PhotographyFu proprio il perfezionamento del buratto, uno dei primi macchinari nella storia dei molini, che mise in luce il più grande limite della macinazione a pietra, ossia il fatto di trattare tutte le frazioni del chicco allo stesso modo, indipendentemente dalla diversa resistenza che oppongono alla macinazione.
Per questo motivo, pochi anni dopo, all’inizio del XIX secolo, iniziarono a prendere piede i primi laminatoi a cilindri e si iniziò ad adottare un nuovo metodo produttivo, che un tempo era definito “alta” (o “graduale”) macinazione.
Proseguendo la nostra camminata, abbiamo esaminato le informazioni avute sulla struttura della macina a pietra, come fossimo degli alunni che ripassano la lezione.
Ė costituita da due mole orizzontali (A e B in figura) in moto relativo l’una sull’altra. Una delle due mole è fissata all’incastellatura e non può muoversi (mola dormiente, indicata dalla lettera A in figura), l’altra è invece mobile (mola mobile, indicata dalla lettera B in figura).
Il grano da macinare viene caricato mediante una tramoggia (D in figura) collocata al centro della mola superiore, sulla quale è praticato un foro di ingresso. Il grano è costretto a passare nello spazio che rimane tra le due mole, la cui altezza viene regolata mediante un volantino.
Per agevolare l’ingresso del grano tra le due mole e, al contempo, obbligarlo a compiere un lungo percorso prima di scaricarsi alla periferia delle stesse, queste presentano scanalature o “raggi”, che vengono tracciate secondo considerazioni teoriche e pratiche.
Ad esempio, per la macinazione del grano tenero conviene utilizzare un maggior numero di raggi di congrua profondità, per fare in modo di ridurre la superficie lavorante, aumentare il passaggio dell’aria e, di conseguenza, ridurre il surriscaldamento del prodotto.
Fabrizio Rossi PhotographyGrazie alle spiegazioni ottenute dai mugnai e dalla dottoressa Maritano, abbiamo quindi appreso quali tipi di farine si ottengono con la macinazione a pietra, cioè delle ottime farine scure, come la farina tipo “2” e la farina tipo “1”, che differiscono dalle analoghe farine macinate con il molino a cilindri per i valori di umidità che, nel caso della macinazione a pietra, sono sempre inferiori, poiché questa è in grado di macinare soltanto cereali con un tenore di umidità inferiore rispetto a quello sopportato da un molino a cilindri e, inoltre, è piuttosto impattante sul prodotto dal punto di vista del surriscaldamento.
Per questa ragione, uno dei metodi più rapidi per capire se una farina è veramente macinata a pietra consiste nel controllarne l’umidità, che solitamente risulta più bassa di almeno due punti percentuali rispetto a quella ottenuta dalla macinazione a cilindri.
A quanto pare, il prodotto più caratterizzante che si può ottenere con la “nostra” macinazione è la farina integrale.
Questa avrà una granulometria più fine e spigolosa, a differenza della farina analoga ottenuta con il molino a cilindri, e sarà quindi particolarmente indicata per la
Domenico Ianaro Photography Gerardo Rainone PhotographyStavamo ancora elaborando queste informazioni quando siamo arrivati al numero 8 di via Beale, dove si trova - e ci appare - il Mulin Du Detu, l'antico storico mulino della Ruata Bassa di Giaveno e uno dei protagonisti dell’iniziativa “Dal grano al pane, tra forni e mulini”.
Ė sull’imponente, antichissimo portone in legno di quercia che, leggendo la scritta sulla targa ancora parzialmente visibile, apprendiamo che fu edificato nel 1218, più di 800 anni fa. Il Mulin Du Detu ha una grande ruota a pale metalliche, che l’acqua del Biàl fa muovere per spinta in senso antiorario (solitamente le pale girano per caduta dell’acqua).
Dopo aver ammirato il lavoro della ruota visitiamo i locali e veniamo avvolti nella particolare atmosfera di questo antico mulino-museo.
Ci viene raccontato che, già mulino abbaziale appartenuto ai monaci benedettini del monastero della Sacra di S. Michele, nel 1877 è stato acquistato e restaurato da Giai Via Benedetto
(Lou Detu), proveniente dalla vicina borgata Tetti Via (lou Cant dou Tet).
Dal 1960 e fino al 1980 è stato gestito da Rosanna, ma ha continuato a macinare sempre più saltuariamente perché il prezioso lavoro delle vecchie macine non veniva più richiesto come prima.
I tempi stavano cambiando, e con essi le abitudini di consumo pertanto, pur essendo uno dei più grandi e più antichi mulini della Val Sangone, a un certo punto le vecchie pale della ruota hanno definitivamente fermato le ancora robuste macine. Delle quattro macine da cui era composto, due macinavano solo grano, le altre due servivano per granoturco, segala, avena, castagne e fave.
Fortunatamente, nel novembre del 2016, a quasi ottocento anni dalla costruzione e dopo circa 35 anni di inattività, le porte del “Mulin du Detu” si sono riaperte in occasione della festa di San Martino, per poi passare sotto l’ala protettrice dell’Associazione Culturale MULIN DU DETU - nata il 4 aprile 2018 a Giaveno, e i cui soci fondatori sono Giuseppe Colombatti, Carla Gianotti e Claudio Ostorero -.
Ed è stato così che ha ripreso l’attività, in seguito a un anno e mezzo ricco di soddisfazioni per aperture ed eventi per far visitare il Mulino - patrocinati dal Comune di Giaveno e in collaborazione con l’Associazione Panificatori Artigiani De.Co. di Giaveno, alla partecipazione a tavole rotonde e incontri sui mulini sia in Piemonte che in Val d’Aosta, nonché all’iscrizione all’associazione nazionale A.I.A.M.S. (Associazione Italiana Amici dei Mulini Storici).
L’Associazione ha tanti progetti per il futuro, legati principalmente al territorio piemontese, alle scuole (con laboratori didattici), a collaborazioni a 360° per la fattoria didattica e la semina di grani antichi e storici.
La nostra visita ai due mulini termina con i ringraziamenti ai nostri anfitrioni, certi che quando sulle nostre tavole spezzeremo il pane ne stimeremo maggiormente il profumo e il sapore, ricordando non soltanto le intense fragranze conosciute e apprezzate con i mugnai e i panificatori, ma finanche la passione che anima e la fatica che costa a coloro che lo producono affinché noi lo possiamo gustare.
Si ringraziano il Comune di Giaveno e l'Associazione Panificatori Artigiani De.C.O. di Giaveno, in particolare il sindaco Carlo Giacone, il vicesindaco Stefano Olocco, la dottoressa Alessandra Maritano e il sig. Dario Calcagno Tunin, nonchè la signora Cristina del Mulin della Bernardina e i signori Giuseppe e Carla del Mulin du Detu per l’ospitalità.
Andrea Barsotti Photography Remo Turello PhotographyLuciana Navone Nosari,
nata a Villar Perosa, sin dall’adolescenza vive a Torino, dove oltre alla scrittura si è dedicata all’altra sua passione, la pittura. Presso il Circolo dei Lettori di Torino partecipa da anni al gruppo di letture poetiche “Tempo di Parole”. Dopo aver vinto il concorso Poeti al video, alcune sue liriche sono state pubblicate su un volume dallo stesso titolo e su Tendenze poetiche.
Sono poi seguiti i romanzi Carezze di Luce (Saste, 2000); Profumo di tiglio (Edizioni Angolo Manzoni, 2006); Specchi di ghiaccio (Ananke, 2008); Viola di vento (WLM edizioni, 2011); Stelle di carta (Amazon, 2014); Donna è… (ETABETA-ps, 2015); I colori del silenzio (Edizioni EBS Print, 2016); Refoli di vita (Edizioni EBS Print, 2018); Le orme violate (ETABETA, 2019); Il trono di Lancillotto (Amazon, 2021), Sui passi del vento (ETABETA, 2022).
Nel 2013 è uscita la raccolta di poesie Bagliori (WLM edizioni). Fanno parte di Antologie i racconti: Profumo di neve (TURIN TALES, un caffè a Torino, Lineadaria, 2009), Amiche stelle (ITALIANE, Lineadaria, 2010), L’uomo dagli occhi di cristallo (LA LUNA STORTA, WLM edizioni, 2013) e Diversità…? (RACCONTI DAL PIEMONTE, historica edizioni, 2019).
Nel 2019 il romanzo Refoli di vita ha ricevuto una Menzione d’Onore all’VIII edizione del Premio Nazionale I MURAZZI; fra gli altri, hanno ottenuto dei riconoscimenti i racconti I cavei del pento, L’ultimo sogno, Diversità…?, Non solo gatti e le poesie Il fiume della vita, L’incontro, Bruchi e farfalle, Tre donne nella pandemia, La corona usurpatrice, Pistilli di Luce, A un ragazzo di vento, Spicchi di vite e Volteggi di diversi autunni.
BARGA
Il Comune di Barga è geograficamente situato tra la piana di Lucca e le montagne della Garfagnana, definito uno dei borghi più belli d’Italia oltre che località turistica di prestigio tanto da meritarsi la Bandiera arancione Touring Club e la qualifica di «Città-slow».
Con il ritrovamento di alcuni reperti archeologici si è avuta conferma che i primi abitanti di questo territorio furono popolazioni Liguri, o, più precisamente, «Liguri Apuani», una confederazione di tribù insediatesi a cavallo dell’Appennino ligure e tosco-emiliano sin dalla preistoria.
Nel II secolo a.C. queste popolazioni furono sottomesse da Roma e, dopo la caduta dell’Impero d’Occidente l’intero territorio cadde sotto il dominio dei Longobardi, e precisamente sotto la famiglia dei Roladinghi.
Successivamente Barga subì numerosi assedi da parte delle soldatesche dei comuni di Lucca e di Pisa, fino all’XI secolo, quando il dominio divenne definitivamente dei lucchesi, con un periodo particolarmente florido sotto l’aspetto economico grazie al commercio dei prodotti provenienti dalle località vicine e dalla manifattura tessile.
Dopo non molto tempo, a causa di una presenza importante del fenomeno del contrabbando che causò l’aumento dei dazi su molti prodotti, l’economia locale entrò in crisi, con una conseguente notevole diminuzione della sua popolazione.
Solo nel 1341 Barga decise di sottomettersi a Firenze e tale decisione segnò l’inizio della rinascita e dell’ulteriore progresso della cittadina.
Giacomo Bertini PhotographyLa famiglia dei Medici, che governarono la Repubblica fiorentina e poi, dal 1500, il Granducato di Toscana, ebbe grande interesse per questa zona da cui si traevano importanti materie prime e concesse privilegi ed esenzioni fiscali che favorirono un consistente sviluppo dell’economia del posto.
Questo sviluppo economico è testimoniato ancora oggi dai diversi palazzi in stile rinascimentale sorti nel XVI secolo, come il Palazzo Pancrazi, sede comunale, il Palazzo Balduini e il Palazzo Bertacchi, che ospiterà in tempi diversi i granduchi di Toscana.
Giacomo Bertini PhotographyNel periodo granducale Barga, ebbe diversi cambiamenti sotto il profilo amministrativo molto importanti, infatti da distretto fiorentino passo alla provincia pisana, quindi, nel 1849, a seguito dell’annessione del Ducato di Lucca alla Toscana, diventare un Compartimento di Lucca.
Con l'annessione al Regno d'Italia il Compartimento Lucchese fu trasformato in provincia di Lucca e Barga ne divenne il comune più settentrionale al confine con la provincia di Massa e Carrara.
Con l'annessione al neocostituito Regno dovette subire un nuovo, consistente, lento declino economico, che portò una buona parte della popolazione ad emigrare verso l’estero fino al XIX secolo, quando molti emigranti cominciarono a ritornare a Barga, investendo i loro risparmi in terreni e nella costruzione di ville nell'allora immediata periferia cittadina.
Gli anni della Seconda guerra mondiale furono particolarmente drammatici anche per la zona del barghigiano.
Trovandosi direttamente sulla Linea Gotica, questo borgo visse l'esperienza del fronte in tutte le sue crudeltà, subendo rastrellamenti e cannoneggiamenti che causarono centinaia di vittime militari e civili.
Giacomo Bertini Photography Giacomo Bertini PhotographyPer ricordare quei momenti drammatici è stata inaugurata la “via della liberazione” che parte da Barga, attraversa Catagnana, Sommocolonia, Rio Villese e ritorna a Barga.
Una strada percorribile a piedi lunga 7.8 Km o in bicicletta per 10.6 Km lungo un percorso che si snoda in sentieri, mulattieri o rotabili.
L’industrializzazione del territorio a valle, che ha caratterizzato gli anni del dopoguerra, ha permesso a Barga di svilupparsi in un sistema economico misto, mentre si sono ridotti, spopolandosi, gli insediamenti più in alto che non offrivano concrete possibilità di sviluppo.
Uno scenario socioeconomico che negli ultimi anni si è consolidato anche sullo sviluppo rurale, grazie alle nuove frontiere della economia «verde», in armonia con le altre attività come la lavorazione dei metalli (in via primaria il rame e le sue leghe), e con importanti strutture turistiche che si avvantaggiano della particolare posizione di Barga, al centro di una zona di interesse naturalistico e geologico.
Accedendo al centro storico da ovest si attraversa Porta Reale, anticamente chiamata Porta Mancianella.
Questa porta risale al 1185 ed è conservata nelle sue forme originali ed è sormontata dallo stemma di Barga all’esterno e da una terracotta robbiana all’interno.
Giacomo Bertini PhotographyUn’altra storica porta si trova dalla parte opposta del borgo, Porta Macchiaia.
Il suo nome richiama il suo orientamento verso i boschi dell'Appennino Tosco-Emiliano ed è più piccola rispetto alla porta originaria che fu costruita nel XV secolo ed era protetta da una torre oggi scomparsa.
Dominante sulla città si trova il Duomo dedicato a San Cristoforo.
Un imponente edificio costruito in diverse fasi, la cui attuale facciata corrisponde al fianco sinistro di una precedente pieve. Molte sono le decorazioni che arricchiscono l’esterno della chiesa che spaziano dal romanico al gotico.
Tra queste sono ben visibili sopra l’arco del portale maggiore delle foglie e un bassorilievo che raffigurano la scena di una vendemmia, mentre sullo stipite a destra sono scolpiti dei simboli caratteristici del periodo medievale, che hanno impegnato studiosi nel tempo per comprenderne il significato, rimanendo tutt’oggi ancora un mistero.
GiacomoSul ponte stradale che attraversa Parco Kennedy si trova una cabina telefonica modello inglese, con al suo interno dei libri posizionati su scaffali, tanto da essere considerata la più piccola biblioteca al mondo.
La presenza di questa cabina telefonica, donata da una coppia di italo-scozzesi, è giustificata dal legame che c’è tra Barga e la Scozia. Infatti, a causa della crisi economica dalla fine dell’800 precedentemente descritta, molti abitanti del posto emigrarono in Scozia in cerca di fortuna e una volta in pensione, portando con sé moglie e figli con annesse tradizioni scozzesi, ritornarono nel paese di origine donando al luogo valori e modelli di vita acquisiti in terra di emigrazione ancora oggi percepibili.
Nel centro della cittadina si trovano molti edifici di importanza culturale e storica.
Tra questi il Teatro dei Differenti, costruito su un piccolo teatro risalente al 1689.
Giacomo Bertini PhotographyIl piccolo teatro, infatti, solo cento anni dopo, venne abbattuto e ricostruito ampliandolo in tre ordini di palchi con l’aggiunta di decorazioni eseguite sotto la direzione del Cav. Francesco Fontanesi, pittore e scenografo teatrale noto in tutta Italia.
Il Teatro dei Differenti è il fiore all’occhiello della mondanità barghigiana e dal 1967 è tornato a vivere un’intensa e prestigiosa attività lirica e concertistica. Dopo importanti lavori di recupero e adeguamento strutturale iniziati dall’amministrazione comunale verso la fine del secolo scorso, il Teatro dei Differenti, oggi prosegue il suo prestigioso cammino come luogo della cultura.
In questo teatro il poeta Giovanni Pascoli, nel pomeriggio del 26 novembre 1911, tenne il discorso «La grande proletaria si è mossa» a sostegno dell’impegno italiano nella guerra italo-turca che portò alla conquista della Libia.
Giacomo Bertini Photography Giacomo Bertini PhotographyUn altro importante edificio di rilevanza storica si trova alla destra del Duomo.
Il Palazzo Pretorio è un edificio civile di costruzione antica, risalente al III o IV secolo d.C. Sotto la sua loggia si possono vedere elementi, simboli e antiche misure barghigiane, come il braccio, lo staio e il mezzo staio, utilizzati nella vita quotidiana dei commerci e degli scambi della Barga del passato.
Oggi, questo affascinante luogo, ospita il Museo Civico del Territorio, articolato in due sezioni: una dedicata all’aspetto geologico e paleontologico, l’altro incentrato sull’aspetto storico e archeologico, al fine di dare una lettura totale e completa del territorio.
Giacomo Bertini PhotographyA pochi minuti dal centro storico, nella frazione di Castelvecchio, si trova la Casa Museo Giovanni Pascoli.
In questo luogo il poeta, assieme alla sorella Maria (Mariù) e al cane Giulì, trascorse gli anni più tranquilli della sua travagliata esistenza, dal 1895 sino al 1912, descrivendo la sua abitazione come «una bicocca con attorno un po’ d’orto e di selva».
Probabilmente, proprio grazie alla pace e alla natura che caratterizzano questi luoghi, in questa casa il «poeta delle piccole cose» diede alla luce alcuni dei migliori versi del decadentismo italiano. Questi versi sono rimasti, e con essi anche la «bicocca», che mantiene inalterate le vestigia del tempo.
Grazie alla dedizione e all’opera di conservazione da parte della sorella Mariù, che, finché visse, si impegnò quasi maniacalmente nella conservazione delle memorie del fratello, attualmente, Casa Pascoli mantiene ancora la struttura, gli arredi e la disposizione degli spazi che aveva al momento della morte del poeta, avvenuta a Bologna il 6 aprile 1912.
Oltre alla cucina, alle camere e allo studio, nella Casa Museo, si può visitare la cappella ancora consacrata dove si trovano le tombe di Giovanni e Mariù Pascoli. Nel giardino, invece, ben conservate si trovano la tomba del cane Giulì e di Merlino, un merlo di cui si era preso cura per molti anni lo stesso Giovanni a causa di un’ala rotta.
Il Comune di Barga, erede dei beni per lascito di Mariù Pascoli, ha cura dell'archivio, nel quale sono custodite circa 76.000 carte e 12.000 volumi, e degli edifici attraverso la figura di un conservatore.
Giacomo Bertini PhotographyA poche centinaia di metri dal centro di Barga recentemente è stata inaugurata una via che lega l’attualità al passato, grazie ad una pietra che ci riporta al tempo del dominio mediceo precedentemente descritto.
Questa pietra dura, conosciuta come diaspro, è stata utilizzata come elemento decorativo nelle Cappelle Medicee in San Lorenzo a Firenze.
Osservandole risalta il colore rosso cupo sanguigno e agatato, cosparso e retato di chiazze e venature di quarzo bianco e rosa.
Per ottenere questa pietra si dovette procedere all’estrazione con metodi esclusivamente manuali in una escavazione intensiva a cielo aperto, seguendo il filone che affiora nelle tre cave di Giuncheto, denominate Cava Frangente, Cava Bona e Cava Palazzetto, dalla quale fu estratto tutto il diaspro necessario alla realizzazione dei pilastri della Real Cappella.
Per raggiungere queste cave è necessario percorrere un sentiero lungo il corso della Lopporella, affluente del lato orografico destro della Loppora Grande, dove ancora oggi sono ben visibili le linee di taglio a scalpello, i segni dei picconi e dei tronchi che venivano usati come zattere.
Giacomo Bertini PhotographyA mantenere la memoria di quanto ritrovato tra i documenti negli Archivi di Stato fiorentini e con i sopralluoghi effettuati sul posto, lo storio Emilio Lammari guida i visitatori, grandi e piccoli, e si impegna con la Proloco a sistemare lungo il percorso della cartellonistica informativa in continuo aggiornamento.
Un compito difficile, ma necessario per garantire l’eredità storica del paese, che risplende a chilometri di distanza, appunto nelle Cappelle Medicee.
Per riportare in vita il passato, insieme alla Proloco, opera un’altra associazione culturale denominata Ventri d’Arte, che propone pratiche di laboratorio che guardano al territorio come un luogo meraviglioso da scoprire.
Tra gli obiettivi prefissati quello di riportare l’attenzione dei cittadini a quei borghi o villaggi ormai abbandonati e riconquistati dalla natura, come quello di Bacchionero.
Questo villaggio si trova nel cuore della montagna tra i comuni di Barga e Coreglia e in antichità fungeva da spartiacque dell’antico confine tra lo Stato fiorentino e quello lucchese.
Tra i tanti volontari impegnati nell’associazione Ventri d’Arte, la dott. ssa in Storia dell’Arte Lucia Morelli, pone il suo impegno con grandi e piccoli nella realizzazione di molte attività che interessano i più svariati settori, tra cui quello teatrale proprio sul palcoscenico del Teatro dei Differenti.
Molti sono i turisti che scelgono di trascorrere del tempo tra la storia, l’arte e la cultura che questo luogo dona, assieme al buon cibo e un’ottima birra.
Capita, a volte, di incontrare persone che non conosciamo ma che suscitano un interesse immediato.
E’ quanto accaduto nel suo Ristorante agrituristico Il giardino segreto con Barbara Pergolesi, una persona speciale perché il suo sorriso, che la rende ancor più bella, è una sintesi perfetta delle sensazioni di rispetto, libertà e semplicità che si provano incontrandola.
Il ristorante si trova all’interno della sua Azienda Agricola.
Una casetta rosa in mezzo al verde.
Un pergolato, qualche tavolo e sipario…. Il tempo si ferma.
In sottofondo il cinguettio degli uccelli e tra un piatto, una chiacchiera, una risata, Barbara racconta a noi commensali la sua storia.
Nel 1994 fugge dallo splendido caos del centro storico di Roma e da Palazzo Colonna si trasferisce in quel di Tarano in provincia di Rieti.
Un luogo suggestivo che riporta alle mente reminiscenze letterarie:
Petrarca Canzoniere,
Qui non palazzi, non theatro o loggia, ma ’n lor vece un abete, un faggio, un pino tra l’erba verde, e ’l bel monte vicino, Onde si scende poetando et poggia.
La sua è stata una scelta di vita consapevole alla ricerca della semplicità nella natura.
Ma è stata anche la scelta di una nuova dimensione lavorativa: trasformare un podere di circa 50 ettari in Sabina, a due passi da Roma in una azienda agricola.
Un’azienda che oggi vanta pascoli semi bradi per l’allevamento di circa 40 Chianine, 50 maiali neri oltre ad altri animali come polli e cavalli. Comprende anche una coltivazione di ulivi ed un orto per avere sempre verdure ed odori a KM zero.
Special guest in questo ambiente rurale indigeno è una particolare razza di bovino, quello giapponese il Wagyu. Ben 27 capi importati dall’Olanda di una specie pregiatissima.
Una qualità di carne elevata sia dal punto di vista nutrizionale che di resa nella produzione e nel gusto. Un Kg può costare dai 300 ai 1.000€.
La sua particolarità, racconta ancora Barbara, è quella di avere una elevata marezzatura, ossia marmorizzazione della carne, dovuta alla distribuzione uniforme del grasso lungo tutta la muscolatura. Questo conferisce alla carne una morbidezza ineguagliabile. Ogni morso diventa un’esperienza. Più conosciuta, in effetti, è la carne di Kobe chiamata così perché allevata nella sola prefettura di Hyogo in Giappone.
Questa carne è protetta da un marchio registrato e per essere definita tale deve rispettare alcune regole d’oro. La carne di Kobe può essere quindi solo d’importazione, mentre la carne di Wagyu può essere allevata in tutti gli altri Paesi.
In Italia ci sono pochissime aziende che allevano questa specie. Alcune si trovano nel Nord-EST mentre nel Lazio c’è solo questa.
Le regole d'oro
La
Laura Rossini Photographyappartenere alla razza con manto
essere nato, macellato
le femmine
avere un
avere
avere
nella prefettura
Hyogo essere una mucca vergine,
devono essere
Ovviamente la qualità della carne è data anche dalla loro dieta. In questo caso mangiano cereali fioccati, crusca, fieno ed erba fresca perché escono al pascolo.
L’allevamento non è intensivo.
Gli animali sono liberi di circolare nella proprietà, hanno i loro spazi ed anche dei ricoveri all’aperto. Solo quelli all’ingrasso, la sera, tornano in stalla così possono mangiare un po' di più.
La vocazione quasi francescana per il rispetto della natura e la ricerca della purezza di Barbara si fonde con una mirata e lungimirante strategia economica frutto della sinergia con i suoi due figli Giovanni ed Isabella.
La filiera è completa e il prodotto arriva a KM zero dal produttore al consumatore. Direttamente in tavola nel ristorante gestito dalla figlia Isabella o venduto al dettaglio.
Nel difficile periodo della pandemia è stato organizzato un servizio di delivery utilizzando un furgoncino frigo per effettuare le consegne di prodotto freschi a Roma.
Laura Rossini PhotographyNon avendo alcuna esperienza nella ristorazione si sono affidati allo chef stellato Maurizio Serva che ha un suo ristorante a Rivodutri per avere consigli e studiare un menù che valorizzasse i prodotti dell’azienda.
E in effetti, pane e salumi sono fatti in casa e le materie prime sono tutte di altissima qualità. Dall’antipasto al dolce, ogni piatto, ha colori, profumi e forme tale da creare una perfetta armonia di sensi.
Ecco qua che un sorriso compare anche sui nostri volti. Piccole opere d’arte e di gusto.
Barbara si è lasciata guidare dal suo istinto di cliente esigente, con anni di esperienza alle spalle.
Ha investito tempo e denaro per fare di questo posto Il suo giardino segreto.
E’ una fumatrice, ama conversare con gli amici e coccolare i suoi cani.
Per questo ha realizzato all’interno del locale un giardino d’inverno per permettere agli irriducibili di fumarsi una sigaretta o scambiare due chiacchiere in relax e compagnia in un ambiente confortevole dedicando uno spazio anche agli amici a 4 zampe.
Un ambiente accogliente che non si esaurisce nel ristorante in quanto consente un giro nell’azienda tra campi e stalle e qualche incontro ravvicinato con i Wagyu, tra una mucca che allatta ed cavalli incuriositi che si avvicinano e osservano i visitatori.
Una carezza un saluto e via.
Gianmarco Marchesini PhotographyE per finire, le parole di Frances Hodgson Burnett, autrice del romanzo dal titolo Il Giardino segreto, che ha certamente ispirato la scelta del nome dato all’agriturismo:
Una delle cose strane della vita di questo mondo è che solo qualche volta uno si sente veramente contento di vivere.
Succede, per esempio, se ti alzi presto una mattina e assisti a quel meraviglioso, indescrivibile spettacolo che sono l’alba e il sorgere del sole.
Se in un momento così si riesce a dimenticare tutto e a guardare solo il cielo che da pallido va prendendo colore, il misterioso spettacolo che ti prende alla gola e ti fa commuovere davanti a tanta bellezza che pur si ripete ogni giorno da migliaia di migliaia di migliaia di anni e ti senti felice di poterci assistere.
Succede, per esempio, se ti trovi solo in un bosco al tramonto e riesci ad ascoltare le cose meravigliose che ti ripetono, senza che le tue orecchie possano intenderle, i raggi del sole che se ne va e che ti raggiungono come una pioggia d’oro attraverso i rami e le foglie degli alberi.
Succede, per esempio, se in una splendida notte stellata alzi gli occhi verso la cupola scura trapunta da milioni di puntini tremuli e lucenti.
Succede, talvolta, se ascolti un pezzo di musica; o se ti specchi negli occhi di una persona che ami.
E’ vero
…a volte succede.
Un ringraziamento speciale a Barbara Pergolesi per l’accoglienza, la gentilezza e la professionalità.
Gianmarco Marchesini PhotographyQuanto leggerete nasce da un pensiero che da tempo si manifesta e induce a riflettere sul concetto di tempo. La domanda è: che fine ha fatto il nostro tempo?
Concorderete sul fatto che l’impressione che oggi abbiamo del tempo è che ci sfugga tra le dita, che lo rincorriamo e studiamo mille modi, peraltro inutili, per averne di più. Perlomeno per pensare di averne di più, più precisamente per illuderci di averne di più. Quindi perché la percezione che avevamo 20 anni fa era quella di avere tempo mentre oggi l’impressione che abbiamo è di averne sempre meno oppure di non averne proprio?
Cosa ci è successo e perché il tempo è scomparso?
Cit.
Alice: “Per quanto tempo è per sempre?”
Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”. (Lewis Carrol)
Il tempo è un'illusione
Albert EinsteinCome disse Einstein "il tempo è un'illusione".
L'equazione del tempo – detta analemma - è indispensabile per calcolare gli orari del sorgere e tramontare del sole, mentre l'uomo primitivo divideva il tempo in mesi osservando la luna.
Quindi ci serve la luna o ci serve il sole per calcolare il tempo?
Primo dilemma!
Per la fisica quantistica il tempo non esiste: ciò accade anche nell’inconscio.
Pensateci: quando viaggiate nella vostra mente il tempo non esiste.
Pertanto secondo il modello relativistico di Einstein il tempo potrebbe davvero non esistere ed essere un'illusione della nostra percezione.
Lorena Durante Photography
La teoria della relatività afferma invece che la velocità dell’osservatore influenza anche la percezione del prima e del dopo, e dunque che lo scorrere del tempo non è universale.
D’altra parte alcuni filosofi percepivano il tempo come modalità dell'esserci dell'essere, una riflessione sul mondo e sull'essere umano. Il tempo - indeterminato - è un momento in cui accade qualcosa ... di speciale. Pensate a passato, presente e futuro. Come misurate il tempo? Come lo misurereste nella dimensione dello spazio, concetto sviscerato da Einstein?
Gli esseri umani - da un certo punto in poi della storiahanno inventato strumenti per misurare il tempo e qui ci sarebbe da dire … in modo soggettivo ... L’orologio suddivide il tempo attraverso un’unità di misura e questa viene ripetuta all’infinito.
È una suddivisione del tutto arbitraria che riduce il mondo a oggetto misurabile e ciò fa dell’orologio una forma di controllo e non una forma di conoscenza (Heidegger).
Quale di questi concetti è più vicino all’idea che avete del tempo?
Effettivamente quale è la realtà?
La realtà dei fatti, la realtà fisica, la realtà una e univoca?
L’uomo primitivo misurava il tempo osservando la Luna perché ogni 28 giorni - oggi diciamo circa - essa torna nella stessa posizione. Attorno al 3.000 a.C. gli astronomi babilonesi iniziarono a dividere il giorno in ore.
Questa conoscenza ci è giunta attraverso delle tavolette d’argilla, il più importante compendio dell’astronomia babilonese chiamato MUL.APIN (668-626 a.C.).
Questi studi permettevano loro di controllare accuratamente il flusso del tempo nel corso di tutto l’anno per via di una lunga lista di stelle e della loro levata eliaca.
Pare che da qui nasca anche il germe da cui scaturì lo zodiaco. Il rapporto tra tempo e zodiaco lo vedremo in un secondo momento!
Qualche anno dopo, in Egitto, furono inventati i primi strumenti di misurazione del tempo: le meridiane. Il concetto della meridiana è semplice: un’asta illuminata dal Sole proietta la sua ombra su un quadrante graduato.
Gli egiziani non si fermarono qui e inventarono anche l’orologio ad acqua: un semplice vaso da cui il liquido sgocciolava attraverso un foro.
L’ora veniva determinata in base alla quantità d’acqua rimasta nel vaso e così nacque la clessidra.
Il nome deriva dal greco κλεψύδρα (klepsýdra), che letteralmente significa "ruba-acqua".
Agli Egizi si deve anche la divisione del giorno in 24 ore e dell’ora in 60 minuti.
Per vedere i primi orologi meccanici bisogna aspettare circa il 1.200 d.C. Furono inventati in Europa ma erano ancora strumenti imprecisi.
L’uso che si diffuse per rimetterli sull’ora esatta era attendere mezzogiorno, ossia quando il Sole raggiunge il punto più alto sull’orizzonte.
Una storia racconta che il primo orologio meccanico fu costruito da un orologiaio tedesco.
Pare che Carlo V di Francia incaricò un orologiaio tedesco di nome Henri de Vick di costruirne uno per la torre del suo palazzo a Parigi.
L’artigiano compì l’opera nel 1364 o così si presume.
Un’altra teoria attribuisce a Christiaan Huygens, matematico, astronomo e fisico, l’invenzione dell’orologio.
Prendendo spunto dal lavoro di Galileo, Huygens lavorò fino a ottenere il brevetto sul primo orologio a pendolo.
Nella sua opera "Horologium Oscillatorium sive de motu pendulorum" espose la teoria del moto del pendolo.
In sostanza l’orologio di più facile realizzazione è stato la meridiana di cui si conosce l’uso in Cina a partire dal III millennio a.C.
Nella sua versione primitiva si trattava di un palo piantato nel terreno, sistema di misurazione che nella sua semplicità si diffuse rapidamente.
Le prime meridiane erano costituite da un quadrante con disegno orario tracciato a terra oppure su un muro e da un palo, detto gnomone, infisso verticalmente o obliquamente rispetto al piano del quadrante stesso su cui proietta l’ombra indicando l’ora del giorno.
Bisogna fare una distinzione tra meridiana e orologio solare. La meridiana indica solamente il passaggio del Sole a mezzogiorno, ossia indica ogni giorno, lungo una linea retta, l'istante in cui il Sole transita sul meridiano del luogo.
Gli orologi solari invece dipendono dal movimento apparente del Sole.
Lo gnomone o stilo proietta l'ombra solare su una superficie solcata dal tracciato delle linee orarie.
Queste linee cambiano a seconda del tipo di orologio (declinante, verticale, orizzontale, etc.).
Il loro orario differisce dall'orario dell'orologio che portiamo al polso e anche questo dettaglio è motivo di riflessione.
L'orologio negativo solare invece proietta i raggi di luce attraverso una fessura.
Lascio alla vostra curiosità di indagare ulteriormente sull’argomento (orario dell’orologio solare e di quello da polso) che riporta all’analemma e ad altri calcoli piuttosto complicati!
Uno dei costruttori di meridiane più conosciuto è il Capitano D’Albertis che lasciò nella sua dimora, Castello D’Albertis, numerosi esemplari. Durante una visita al castello (N. 52 febbraio 2020 di Giroinfoto Magazine) si scoprì la passione del Capitano per questo tipo di orologio. Alcune di queste meridiane sono molto particolari, frutto dell’ingegno del Capitano D’Albertis.
Monica GottaPhotography Mondovì Monica Gotta PhotographyUn giorno Galileo, osservando un movimento oscillatorio, cominciò a contare i battiti del polso e scoprì, con soddisfazione, che ogni oscillazione ne conteneva esattamente lo stesso numero.
Sostanzialmente il battito misura la durata dell’oscillazione e, a sua volta, l’oscillazione può essere utilizzata per misurare la durata di altre variabili fisiche osservabili.
Unità di misura = battito del cuore.
Oggigiorno l’unità di misura è il secondo. E’ l’intervallo di tempo in cui un atomo di cesio eccitato compie 9 192 631 770 oscillazioni.
Unità di misura = secondo = atomo.
Gli orologi atomici permettono di anche di suddividere il secondo in numero impressionante di sotto-intervalli che assicura una precisione mai raggiunta prima. Il primo orologio atomico entrò in funzione nel 1999.
Ciò dimostra quanto si sia progrediti scientificamente ma, concettualmente, è cambiato qualcosa?
Torniamo alla domanda: effettivamente quale è la realtà?
Tuttora scegliamo un fenomeno osservabile come unità di misura del tempo.
Non possiamo fare esperienza del “secondo” con i nostri 5 sensi: il tempo è una percezione.
Il concetto di tempo nasconde, inoltre, un altro tranello: possiamo andare avanti e indietro di un metro, ma non possiamo andare e venire nel tempo - almeno per ora la scienza non ci ha donato lo strumento per farlo - non possiamo fermarlo, se non quando viaggiamo nella nostra mente.
Grand Central Terminal - New York Barbara Tonin Photography Torre Mondovì Pietro Cattaneo PhotographyL’equazione del tempo, detta anche analemma è a forma di 8 in posizione orizzontale, è stata usata come simbolo matematico di infinito ∞. La sua conoscenza nei calendari è indispensabile per calcolare gli orari del sorgere e del tramontare del Sole.
L’UNITA’ DI MISURA DEL TEMPO – ANTICA E MODERNA
In Italia si trova il più antico orologio ancora funzionante al mondo, o meglio, orologio da torre.
Si trova a Chioggia e basterà guardarlo per capire che in quest’oggetto convivono mistero, leggenda e storia. Si tratta dell’orologio del campanile di Sant’Andrea. Durante la disputa con la cattedrale inglese di Salisbury per conquistare il titolo di orologio più antico ancora funzionante è stato scoperto un documento comunale che recitava … “Si metta a disposizione degli economi del Comune la somma per saldare le spese dell’orologio e per tenerlo in ordine e funzionante”…
Questo documento, risalente al 1386 circa, lascia presumere che l’orologio fosse già funzionante prima di quella data. Grazie alle ricerche dell’Ing. Marisa Addomine Chioggia vinse la sfida contro Salisbury nel 2005.
Oggi nella torre di Sant’Andrea è ospitato il Museo dell’Orologio, un museo verticale che porta il visitatore con un itinerario storico temporale a raggiungere la cella campanaria da cui si gode un panorama mozzafiato.
Non distante da Chioggia troviamo alcuni esempi di orologi simili e particolari a Venezia.
Uno è sulla Torre dell’Orologio di San Marco, l’altro è sulla Chiesa di San Giacomo di Rialto.
L’orologio di San Marco fu creato dall'orologiaio emiliano Giancarlo Ranieri e fu inaugurato il 1 febbraio 1499 dal Doge Agostino Barbarigo.
Creò grande meraviglia per i suoi automi e le particolari indicazioni del quadrante.
Posizionato in modo che fosse ben visibile dal mare era azionato da pesi e la sua caratteristica più particolare era la Processione dei Magi.
La parte più affascinante del meccanismo invece era l’indicazione astronomica.
Il quadrante era suddiviso in 24 ore e si potevano leggere in cerchi concentrici le posizioni dei pianeti secondo il sistema Tolemaico tra cui la posizione del Sole inserita nello zodiaco e l’indicazione delle fasi lunari.
Una leggenda racconta che quando l'orologiaio ebbe terminato il suo capolavoro, gli Inquisitori di Stato lo fecero accecare, in modo che non potesse mai più costruirne uno uguale.
Barbara Tonin Photography Manuela Albanese PhotographyLa Chiesa di San Giacomo di Rialto è una delle chiese più antiche di Venezia.
Si apre su Campo San Giacomo di Rialto e probabilmente la sua fondazione è legata alla nascita del mercato di Rialto nel 1097.
Anticamente questo luogo era nucleo delle attività commerciali e finanziarie della città.
La chiesa è ornata da uno splendido orologio che regolava la vita dei clienti e dei commercianti del mercato di Rialto.
È il quadrante di orologio pubblico più antico della città di Venezia con numeri romani in pietra d’Istria, una lancia segnaore e i raggi del sole.
La particolarità è quella di avere le ore 12 a destra (alle 3) e non in alto.
È stato recentemente restaurato e ora si regola automaticamente con Francoforte attraverso un sistema di sincronizzazione via radio.
Anche qui troviamo il richiamo all’astronomia come in molti altri orologi antichi.
Anche l’orologio delle Torri dell’Arsenale di Venezia, uno dei monumenti più ammirati e fotografati nella città lagunare, è stato recentemente ripristinato.
Si tratta di un orologio a pendolo di fattura probabilmente tedesca risalente al Settecento.
La torre dell’orologio è uno dei più antichi accessi all’Arsenale di Venezia e ora è tornato a segnare il tempo sulla laguna.
Monica Gotta Photography Giuseppe Tarantino PhotographyVolendo si potrebbero nominare un numero infinito di orologi sparsi sulla nostra penisola e nel mondo degni di essere citati e la cui storia ci farebbe sicuramente incuriosire se non appassionare.
Lascio la parola alle immagini.
Suggerisco un luogo che ha dell’incredibile e che lascia a bocca aperta tutti coloro che lo vedono.
Parlo di Jantar Mantar a Jaipur, nella regione del Rajasthan in India.
Qui riprendo una frase precedente ossia quale è il rapporto tra tempo e zodiaco.
In effetti Jantar Mantar non rappresenta un rapporto, è una convivenza.
Ci sono strumenti per la misurazione del tempo e ci sono strumenti astronomici.
COGNE Monica Gotta Photography TREVISO Monica Gotta PhotographyANTAR MANTAR – JAIPUR – RAJASTHAN (INDIA)
Il Jantar Mantar, situato nel cuore di Jaipur, è uno dei più antichi, grandi e spettacolari osservatori astronomici, riconosciuto come patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 2003. Fu costruito dal Re Rajput Sawai Jai Singh II tra il 1727 e il 1734 su modello della struttura già esistente a Delhi. Per la sua costruzione fu utilizzato marmo locale e si sviluppa su oltre 18.000 metri quadrati. Il nome deriva dalla lingua sanscrita. Jantar deriva da yantra che significa macchina o strumento e mantar deriva da mantrara che significa calcolare o consultare. Quindi possiamo dire che Jantar Mantar significa strumento per il calcolo.
Il Maharaja costruì 4 strutture simili oltre a quella di Jaipur. Questi 19 straordinari strumenti erano adibiti a misurare ed interpretare la posizione dei corpi celesti, a misurare il tempo e a calcolare l’ora locale.
Questi strumenti potevano essere utilizzati anche per fare previsioni sui raccolti o, più semplicemente, per fare oroscopi. Ogni strumento porta una scala astronomica e ciascun pezzo include strumenti complessi le cui forme – geometriche - e impostazioni sono state scientificamente progettate. È un esempio di innovazione architettonica costruito sulla base di diverse credenze religiose e sociali dell’India del XVIII secolo.
Al suo interno c’è la meridiana in pietra più grande del mondo: Vrihat Smarat Yantra. Non è più un centro di osservazione scientifica funzionante ma viene mantenuto come monumento storico, rappresenta le profonde conoscenze e competenze in ambito astronomico e cosmologico e rivela l’incredibile patrimonio culturale dell’India. Jantar Mantar è stato più volte restaurato, nel 1948 è stato dichiarato monumento nazionale ed è protetto come monumento nazionale del Rajasthan dal 1968.
Gli strumenti più conosciuti sono i seguenti.
"Samrat Yantra" che significa "strumento supremo" è una meridiana equinoziale e calcola il tempo con una precisione di due secondi.
Monica Gotta Photography Vrihat Samrat Yantra è un'enorme meridiana lunga circa 27 metri la più alta del mondo e la più grande del mondo.Jaya Prakash Yantra include due coppe emisferiche con lastre di marmo graduate che fungono da meridiana.
L'elevazione, l'azimut, gli angoli delle ore e la posizione esatta dei corpi celesti vengono rilevati utilizzando l'immagine invertita del cielo e il movimento delle ombre invertite sulle lastre.
Nadi Valaya Yantra è costituito da una coppia di meridiane circolari, rivolte a nord a sud che simboleggiano i due emisferi della Terra.
È una meridiana che calcola l’ora solare ed è inclinata di circa 27°.
Lorena Durante Photography Monica Gotta PhotographyLaghu Samrat Yantra è uno strumento che misura l'ora locale con una precisione di venti secondi.
La rampa di questa meridiana punta verso il Polo Nord, quindi l'ora locale a Jaipur può essere facilmente calcolata misurando la posizione dell'ombra della rampa sulle divisioni della scala.
Ram Yantra misura l'elevazione e l'azimut del Sole e dei pianeti ed è costituito da una coppia di strutture a forma di tubo, aperte verso il cielo.
Chakra Yantra è uno strumento costituito da due cerchi di metallo che misurano le coordinate e l'angolo orario del Sole.
Digamsa Yantra è una struttura simile a un pilastro nel mezzo di due cerchi concentrici esterni, che viene utilizzata per misurare l’azimut dei corpi celesti prevedere i tempi di alba e tramonto in un giorno.
Kranti Writta è uno strumento speciale utilizzato per misurare il segno solare del Sole durante il giorno.
Nadi Valaya YantraLorena Durante Photography
Ma cosa può essere un orologio oltre che il misuratore del tempo?
Può essere un elemento decorativo della nostra persona, un pezzo alla moda da abbinare alla nostra mise quotidiana, può essere un ricordo del nostro nonno o bisnonno come un orologio da taschino, può essere lo smartwatch che portiamo al polso e registra i nostri allenamenti, risponde al telefono o usa la tecnologia NFC per fare pagamenti elettronici, è la sveglia molesta che ogni mattina ci ricorda che dobbiamo andare al lavoro.
È il nostro marca tempo per essere sempre puntuali agli appuntamenti, al giorno d’oggi è diventato un vero e proprio accessorio di bellezza, un pezzo integrato e irrinunciabilmente cool del nostro modo di vestire e del nostro look.
Può essere anche un oggetto di scena che vediamo in una pièce di teatro, può essere una curiosità da ammirare in un centro commerciale di Dubai U.A.E.
Può essere un’infinità di cose alle quali probabilmente nessuno di noi pensa.
Vi lascio curiosare nei meandri della meccanica quantistica, fate amicizia con il termine “entanglement”, confrontate il tutto con la fisica classica, rinfrescate la memoria sul modello relativistico di Einstein, fate un viaggio nelle teorie dei maestri filosofi … avrete sicuramente tempo da dedicare a queste attività straordinariamente “connesse” … per usare un termine familiare del nostro “tempo”. Considerate questo come punto zero, il momento che divide il nostro passato dal nostro futuro.
Questo momento ha senso e valore se viene confermato dalle nostre azioni.
Senza azione, senza conferme è solamente un “non tempo”, sprovvisto di dimensione temporale e di realtà effettiva. Per acquisire coscienza di tutto ciò basta un attimo!
Università di Rochester, Libri Rari, Collezioni Speciali e Conservazione (RBSCP), Kodak Historical Collection. Fotografo sconosciuto, pubblicità della Recordak con etichetta "Tutti questi assegni in 30 metri di rullino. Un bel risparmio", 1955 c.
MAST. Bologna
gennaio
La mostra IMAGE CAPITAL, curata da Francesco Zanot, allestita negli spazi espositivi del MAST, è frutto della collaborazione tra il grande fotografo Armin Linke e la storica della fotografia Estelle Blaschke, ricercatrice dell’Università di Basilea.
Un progetto visivo e di ricerca che ha richiesto oltre quattro anni di lavoro e racconta una storia della fotografia diversa dal solito, mettendo al centro i suoi innumerevoli utilizzi pratici e la sua funzione come tecnologia dell’informazione.
La mostra IMAGE CAPITAL, al MAST di Bologna dal 22 settembre all’8 gennaio 2023, è un ambizioso progetto artistico che investiga la fotografia come sistema di creazione, elaborazione, archiviazione, protezione e scambio di informazioni visive: un vero e proprio capitale per cui, il suo possesso, corrisponde all’acquisizione di un autentico vantaggio strategico.
Il fotografo Armin Linke e la storica della fotografia Estelle Blaschke, ricercatrice dell’Università di Basilea, esplorano attraverso immagini, testi e altri materiali le diverse modalità attraverso cui la fotografia viene utilizzata all’interno di differenti tipologie di processi di produzione, in particolare in ambito scientifico, culturale e industriale: grazie alla fotografia, infatti, i sistemi di comunicazione e di accesso alle informazioni sono migliorati esponenzialmente fino a consentire lo sviluppo delle industrie globali e di vasti apparati governativi.
“Dentro questo circuito – spiega Francesco Zanot – le immagini fotografiche assumono un peculiare valore descrivibile come una vera e propria forma di capitale. La spinta all’utilizzo della fotografia come tecnologia dell’informazione è avvenuta intorno alla metà del Novecento, quando i processi gestionali e amministrativi di aziende e istituzioni si stavano espandendo e necessitavano di essere ottimizzati”.
Con la fotografia digitale c’è stato un vero e proprio salto di scala. “Anziché essere soltanto i soggetti delle fotografie – prosegue Zanot –, gli oggetti del nostro mondo vengono oggi costruiti sulla base delle fotografie stesse e delle loro rielaborazioni, invertendo un rapporto precedente unidirezionale.
Queste trasformazioni portano con sé alcune fondamentali ricadute sul piano economico e politico: le grandi masse di immagini che alimentano questo sistema hanno acquisito un valore straordinario, conferendo a coloro che le possiedono e le gestiscono poteri ugualmente sterminati.
Nella società capitalista la fotografia non domina soltanto l’immaginario, ma molto di più”.
IMAGE CAPITAL esplora questi processi in un percorso che parte dall’inizio della loro storia e arriva fino alle tecnologie più recenti e aggiornate.
La mostra è suddivisa in sei sezioni dedicate ad altrettanti temi essenziali:
Memory: sulla capacità delle fotografie di raccogliere e immagazzinare informazioni.
A partire dall’idea di riproducibilità meccanica, viene qui investigata l’intrinseca natura della fotografia come strumento di registrazione, le cui potenzialità si esprimono a livelli sempre più alti con l’avvento della tecnologia digitale.
Access: sulle modalità di archiviazione e indicizzazione delle immagini.
L’associazione tra fotografia e testo (o metadati) è alla base del successo di questo medium come tecnologia dell’informazione.
I metadati (parole chiave, geodati, didascalie...) non sono utili soltanto per organizzare le immagini in sistemi ordinati, ma anche per poterle ritrovare e utilizzare.
Protection: sulle strategie per la conservazione a lungo termine delle immagini e delle informazioni che contengono.
Se le immagini possono essere considerate come depositi di informazioni potenzialmente deteriorabili, a loro volta devono essere protette per non venire disperse.
Qui si investigano le strategie per la protezione delle immagini, dagli archivi, che possono arrivare a dimensioni monumentali, ai sistemi di back-up.
George Eastman House, the Legacy Collection. Pubblicità Kodak per il Recordak Miracode System, 1966 Armin Linke, CERN, Large Hadron Collider (LHC), cablaggio, Ginevra, Svizzera, 2019Mining: sull’analisi delle immagini e il loro utilizzo nelle tecnologie per il riconoscimento automatico.
Se è vero che le fotografie contengono una grande quantità di informazioni, allo stesso modo si rendono necessari sistemi per poterle estrarre (mining).
Questa sezione è dedicata a questi processi e alla conseguente possibilità di utilizzare grandi quantità (cluster) di immagini simili (da cui vengono estratte informazioni simili) per lo sviluppo di tecnologie di riconoscimento automatico, le cui applicazioni sono oggi fondamentali, particolarmente nei settori dell’industria e della sicurezza.
Imaging: sulla fotografia come sistema di visualizzazione dell’esistente o di un suo progetto. La fotografia viene qui osservata come sistema di visualizzazione, a partire dalla sua capacità di andare oltre i limiti dell’occhio umano fino al suo utilizzo per lo sviluppo di tecniche di rendering e modellazione digitale.
Dopo essere stata a lungo considerata una prova di realtà, la fotografia costituisce in questo senso la base di partenza da cui la realtà viene progettata e costruita.
Currency: sul valore delle immagini.
Dall’associazione tra fotografia e valuta al capitalismo informatico, qui si osservano i processi di attribuzione di valore alle immagini, oggi legati particolarmente alla capacità di accumularne grandi quantità e, soprattutto, di associare ad ognuna ampi set di informazioni.
A partire dai testi di Estelle Blaschke e dalle opere fotografiche di Armin Linke, ideatori del progetto IMAGE CAPITAL, la mostra comprende una vasta selezione di interviste, video, immagini d’archivio, pubblicazioni e altri oggetti originali.
Nonostante la loro diversità, tutti questi materiali sono disposti negli spazi espositivi del MAST su uno stesso piano, senza gerarchie né priorità, con l’obiettivo di offrire agli spettatori una narrazioneesperienza tanto immersiva quanto stratificata.
IMAGE CAPITAL è un progetto di ricerca promosso da Fondazione MAST e dal Museum Folkwang di Essen.
La mostra sarà esposta in un tour internazionale al Museum Folkwang (9 settembre - 11 dicembre 2022) e nel 2023 al Centre Pompidou, Parigi e alla Deutsche Börse Photography Foundation, Francoforte/Eschborn.
La mostra è accompagnata da un opuscolo informativo gratuito.
FONDAZIONE MAST
IMAGE
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