N. 76 - 2022 | FEBBRAIO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.76 - FEBBRAIO 2022
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UN HUSKY A TORRE A MARE Band of Giroinfoto PECCIOLI TOSCANA Band of Giroinfoto
PONT AVEN BRETAGNA Band of Giroinfoto
FIERA DEL BUE CARRÙ Band of Giroinfoto Photo cover by Manuela Fa
WEL COME
76 www.giroinfoto.com FEBBRAIO 2022
LA REDAZIONE
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GIROINFOTO MAGAZINE
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Giroinfoto magazine
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Oggi Ed ecco entrati nel sesto anno di redazione di Giroinfoto Magazine. Le difficoltà degli ultimi due anni relative alla pessima gestione sociopolitica sono cresciute, intralciando il libero sfogo editoriale limitando le prerogative della rivista nello sviluppo culturale e turistico in aiuto dei territori. Nonostante tutto, e grazie all'impegno di tutti i nostri collaboratori, il progetto Giroinfoto.com non si arresta, anzi, combatte con tutte le proprie forze per pubblicare articoli utili alla valorizzazione dei territori bisognosi di visibilità. In questo periodo storico, dove tutto è ormai convertito al mondo digitale, risulta talvolta anacronistico volersi concentrare su un progetto cartaceo, sia per motivi di convenienza economica che di divulgazione. Da qui la decisione di mantenere il magazine con un format "tradizionale" per il mantenimento della qualità comunicativa, evolvendolo alla digitalizzazione favorendo la fruizione. In ultimo, vorrei ringraziare anche tutti i nostri lettori che crescono continuamente sostenendo il progetto Giroinfoto. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
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Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
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Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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ANNO VIII n. 76
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20 Febbraio 2022 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
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FALCONERIA A BAGHERIA
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FALCONERIA Bagheria Band of Giroinfoto
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FIERA DEL BUE Carrù Band of Giroinfoto
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RITRATTE Direttrici di musei italiani Fondazione Bracco
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ESCHER Palazzo Ducale Genova Band of Giroinfoto
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ROSADELLI ORAFI Torino Band of Giroinfoto
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CICIU DEL VILLAR I fantocci di pietra Band of Giroinfoto
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PECCIOLI Storia e arte contemporanea Band of Giroinfoto
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TORRE A MARE
Un husky a...
A cura di Giancarlo Nitti
PUGLIA
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La storia antichissima di un paese che conduce a racconti misteriosi e intriganti nelle radici profonde della cultura di un lembo di terra e mare pugliese, raccontata da Captain Swat.
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Negli ultimi decenni, con l'espansione della periferia sud di Bari, Torre a Mare diventa hinterland cittadino estendendo l'urbanizzazione della costa. Prima dell’attuale nome, fu “Torre Apellosa”, poi “Lapillosa” e in seguito “Pelosa” (a P-lao-s), quando era ancora un piccolo borgo di pescatori abitanti dei rinomati trulli e delle grotte naturali tipiche della costa. Per molti secoli Torre Pelosa fu a tutti gli effetti la marina di Noja (Noicattaro) e dei nojani, del resto mai abbandonata a dispetto dell'avanzamento territoriale della vicina Bari. Ed è proprio qui che si trova il nostro "cane da location" di Giroinfoto magazine, Captain Swat, alla scoperta di un paese che lavora per mantenere le sue origini di un pittoresco porticciolo in contrasto all'evoluzione urbanistica.
Bari
Torre a Mare
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TORRE A MARE
Giancarlo Nitti Photography
Torre a Mare, villaggio preistorico. Sepolto dai tempi, attraverso recenti scavi e studi archeologici, ora con certezza conosciamo che in età tardoneolitica (3000-2000 a.C.), in questa area costiera esisteva un insediamento di tribù agricole e marinare. Di quell’antichissima popolazione, oggi è presente una ricca testimonianza, dopo essere stata nascosta e custodita nelle viscere della scogliera e rivelata negli anni '70 dagli studiosi dell’Istituto di Civiltà preclassiche dell’Università di Bari, diretti dal prof. Francesco Biancofiore, ai tempi docente di paleontologia.
I reperti emersi dagli scavi confermarono un dato storico che, già da qualche secolo prima, molti studiosi avevano rilevato in alcuni eventi di ritrovamento di tesori archeologici. Questi ritrovamenti, sia di tipo occasionale che di studio, consistevano per la maggior parte in tombe sparse lungo la costa e nell’entroterra nojano, documentando, prima della conferma scientifica recente, la presenza di due ben distinte culture: Quella preistorica neolitica, e sovrapposta alla sue rovine, quella peuceta del periodo antecedente alla conquista da parte dell'impero romano. Su queste radici profonde di antichissime civiltà, nacque Torre a Mare, sorgendo con il nome di Noha, (la Nuova), unendo i due rioni più antichi, il Pagano e il Casale, quest’ultimo una piccola borgata di pescatori che, per secoli, continuarono a utilizzare attraversando la costa deserta con un faticoso andirivieni attraverso i sei chilometri di un impervio e tortuoso sentiero.
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TORRE A MARE
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Monumento al pescatore L'installazione artistica di Mario Piergiovanni inaugurata nel 2002 in sostituzione dell'originale in bronzo "La Fendàne du Pescatòre di Torre a Mare" realizzata da Tommaso Piscitelli nel 1925, rimossa all’inizio della seconda guerra mondiale per esigenze belliche.
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TORRE A MARE
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Dal medioevo... La Pellosa, così nominata intorno al 1049, Torre a Mare appendice marina del territorio nojano, entra nella storia feudale di Noha, prima come contea e poi, con la Regina Bona e i Carafa, ducato di Noja. Nell’anno 1087, le tre navi baresi reduci dall’aver involato a Mira le spoglie di San Nicola, fecero sosta presso la vicina Cala San Giorgio, prima di sbarcare a Bari, come testimoniano le cronache del monaco Niceforo e dell’arcidiacono Giovanni, entrambi baresi e testimoni oculari dello storico avvenimento. Nella magnificenza cinquecentesca del castello nojano dell'attuale Noicattaro, Torre a Mare presta territorialmente la grotta della Regina, che fu detta anche del Duca, perché con vari adattamenti era diventata il lido balneare riservato ai nobili del luogo. Comincia così, la narrazione dell'evo moderno, segnato in particolare da una torre che proprio in quegli anni (1563-73) si eleva per scrutare l’orizzonte sul mare e darà il nome al paese nascente, che conserverà poi, nel rispetto della storia, l’attributo di origine, Torre Pelosa. La costruzione di questa torre diede inizio a un tempo nuovo per i pescatori nojani deducendone la sua funzione come posto di vedetta, rendendo la costa più sicura dalle orde dei barbari e dalle scorribande dei mussulmani, arabi, saraceni e turchi. Per molti secoli Torre Pelosa fu la marina del vicino centro di Noja, che dopo l’Unità d’Italia cominciò a chiamarsi Noicattaro.
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Trascorreranno ancora circa due secoli, però, prima che nei pressi della torre incomincino a delinearsi le prime costruzioni di case per i pescatori e le abitazioni estive dei signori della zona diventando luogo prediletto di villeggiatura da parte non solo dei cittadini di Noicattaro, ma anche di quelli di Bari, Rutigliano e Triggiano. Nel 1865, il paese si collega fortemente a tutta l'area circostante con la costruzione della ferrovia e l'apparizione del telegrafo sviluppando i collegamenti commerciali. Torre Pelosa viene separato dalle radici Nojane in era fascista prendendo il nome di Torre a Mare.
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Novus Portus Mentre la Puglia diventa “Porta d’Oriente” per l’esportazione dei prodotti cerealicoli della Capitanata e della Terra di Bari nei rapporti tra Federico II e la Basilicata, Torre a Mare dal 5 ottobre 1239 apre ai novus portus o, meglio, “agriporti” istituendo la gestione economica dei Portulanati Regulis o Rivulus e San Cataldo di Bari.
Torre di Mare, il cui porto originario era molto verosimilmente collocato alla foce del Basento, acquistava una rinnovata importanza per il novus portus che si inseriva in stretta continuità con il castrum fatto costruire dallo stesso Federico II. Alla manutenzione del Castrum Turris Maris dovevano contribuire, oltre gli abitanti del luogo, quelli di Pisticci, Casale Pisticci, Craco, Avinella e Camarda.
Questo era il nuovo toponimo del porto romano di Methapontum che ebbe un ruolo strategico di significativa importanza, in quanto terminale logistico del comprensorio agroalimentare della Siritide, già oggetto di traffici dei greci ivi stabilitisi dalla costa jonica con la Madrepatria.
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Attualmente la Torre è gestita dalla proloco di Terralba e dalle associazioni locali come il FAI Gruppo Oristano e Afni Sardegna, ed è meta di visitatori occasionali, di turisti, di scolaresche e, soprattutto, di appassionati di natura. Oltre al fascino architettonico e storico, la Torre nasconde anche tante opportunità per gli appassionati di natura e avifauna. In cima si può godere di un paesaggio mozzafiato e ammirare il volo di fenicotteri, aironi di ogni specie, falchi di palude e falchi pescatore, fratini e germani, gabbiani comuni e roseo, solo per citarne alcuni, tutti abituali frequentatori delle pozze d'acqua salmastra che circondano la Torre di Marceddì.
Altra occasione da non perdere è la visita al "Giardino delle orchidee", all’interno del quale crescono spontaneamente numerose varietà di orchidee. Situato all’ingresso della borgata, il giardino è un’importante meta turistica e, grazie all’impegno delle associazioni locali nei mesi di aprile e maggio è possibile ammirarlo con delle visite guidate.
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Oggi... Torre a Mare deve oggi fare i conti con la sua vacillante identità. Cosa resta delle sue radici nell’entroterra nojano? Negli ultimi tempi la piccola località è diventata destinazione ambita dei baresi, soprattutto nel periodo primaverile ed estivo, accogliendo chiunque decida di passarci o anche di restarci, questo, in accordo con l’essenza dell’antenato Varvamingo che, come la leggenda narra, dava asilo a quanti fossero sorpresi dal peggioramento delle condizioni del mare.
Quel caratteristico porticciolo di pescatori e di ricovero nautico di un tempo, oggi sostituito dal porto turistico, lascia sempre meno spazio alla figura del pescatore che rammenda le reti seduto per terra o sulla propria barca. L'immagine generale del paese e del porto è mutata decisamente, presentandosi con yacht e altre imbarcazioni lussuose e sempre meno barchette di modesti lupi di mare. Dell’eterna lotta fra pescatore e polpo, resta comunque la statua, anche lei rinnovata nell'ultimo secolo.
Varvamingo Secondo la leggenda, a nord della Baia di Calafetta sorgeva una grotta abitata da un pescatore nojano, Domenico Daugenti, detto Varvamingo (barba-mingo) a causa della sua folta barba e considerato uno dei primi abitanti del luogo.
La casa-grotta, seppur dimenticata e trascurata, conserva la storia leggendaria di quel primo pescatore del borgo marinaro, nei pressi dell'odierno porto alla foce Lama Giotta.
Il pescatore, stanco del continuo andirivieni pedestre sull’impervio tragitto Noja-Torre a Mare, pensò bene di divenire residenziale anche per evitare i disagevoli orari di apertura e chiusura delle porte nojane di quei tempi. Con il tempo in molti seguirono il suo esempio, stabilendosi in antiche grotte o piccoli trulli e facendo così nascere il nucleo di quello che sarebbe diventata Torre a Mare.
Per visitarla basta affacciarsi sul porto punteggiato di colorati gozzi, per andare poi a incamminarsi verso sinistra sulla banchina che ospita i rispostigli dei pescatori.
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TORRE A MARE
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Com’è noto, Bari è la vera capitale della cultura del “crudo di mare” e del pesce in generale, riconosciuta in Italia e all’estero. La globalizzazione, ha portato nel nostro territorio culture gastronomiche cinesi e giapponesi che sono lontane anniluce dalle nostre tradizioni, sapientemente tramandate dai nostri avi. Consumare pesce crudo o frutti di mare sembra essere spesso una novità, ma non per i baresi. D’altro canto che i frutti di mare siano stati sempre sacri per i baresi, lo conferma anche un’ordinanza dell’Intendenza di Bari del lontano 1819, a proposito dei riposi dei negozi nei giorni festivi, con la quale autorizzava i marinai (insieme ai barbieri), a svolgere liberamente le rispettive attività pure nei giorni di festa.
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Torre a Mare, divenuto ormai un "quartiere", dedicato ala turismo e alla movida barese, il sapore dei prodotti del mare crudi si gustano “in diretta”, nella nuova modalità evolutiva del food organizzato in aperitivi, apericene, happy hour e finger food di "crudo". Ecco apparire negli ultimi decenni una sfilza di locali costieri che propongono interessanti esperienze gastronomiche che rimarcano fortemente la tradizione.
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PONT AVEN
A cura di Barbara Lamboley
La città dei pittori, dei mulini e dei biscotti Pont-Aven è un piccolo borgo della Bretagna, a Nord Ovest della Francia. Si trova nel dipartimento del Finistère e conta circa 3000 abitanti. In bretone, Pont-Aven significa il ponte sull’”Aven” (il fiume che l’attraversa) ed è famosa per i suoi mulini, le sue galette “Traou Mad” ma soprattutto per aver accolto una serie di grandissimi pittori alla fine del XIX secolo. Pont Aven ha addirittura assistito alla nascita di un nuovo modo di pensare la pittura noto come Scuola di Pont-Aven, costituita da innumerevoli artisti venuti da tutto il mondo.
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PONT AVEN
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Fino alla fine del XIX secolo, Pont-Aven era il classico villaggio contadino bretone abbastanza difficile da raggiungere. La sua particolarità stava sicuramente nel fatto di essere attraversata da un bosco (detto “il Bosco dell’Amore”), da un fiume, ma anche di avere un porto di mare e di godere quindi di una grande affluenza di acqua. Per sfruttare al meglio le potenzialità del fiume, gli antichi abitanti avevano deciso di costruire la bellezza di 14 mulini ad acqua. I mulini sorgevano lungo l’Aven e davano occupazione a decine di famiglie specializzate nella lavorazione del grano o della carta. Questa piccola cittadina avrebbe potuto rimanere nell’anonimato per sempre, ma a partire dal 1860 arrivò la svolta.
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In quegli anni infatti la città si apre al resto del mondo grazie alla costruzione della linea ferroviaria e diventa terra di passaggio. Nel 1864, un giovane pittore americano di nome Henry Bacon si ferma per caso a Pont-Aven e rimane piacevolmente sorpreso dalla bellezza del luogo. Appena rientrato a Parigi, Bacon sparge la voce ed invita tutti i suoi illustri amici pittori ad andare a vedere questo posto meraviglioso circondato da paesaggi unici e popolato di gente in costume tradizionale che lavora nei mulini ad acqua. A Pont-Aven inizia una nuova era. Il paesino diventa fonte d’ispirazione per gli artisti che cominciano ad arrivare da tutto il mondo. Ai pittori piacciono la bellezza dei mulini e dei paesaggi e l’autenticità delle scene di vita quotidiana tipiche delle campagne bretoni. Inoltre, soggiornare a Pont-Aven è molto conveniente rispetto alla vita nelle grandi città. E così, anno dopo anno, si susseguono permanenze di artisti rinomati che si ritrovano per dipingere, studiare, scambiare idee e pareri e che danno vita ad un nuovo movimento stilistico, il Sintetismo. Questa corrente sarà, più avanti, fatta rientrare nella Scuola di Pont-Aven che già riuniva pittori meno inclini all’insegnamento tradizionale della pittura e più portati a una condivisione liberale delle idee e a un insegnamento altrettanto svincolato da canoni troppo rigidi. I grandi nomi della Scuola di Pont-Aven sono: Paul Gauguin, Émile Bernard e Paul Sérusier.
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PONT AVEN
Paul Gauguin nasce a Parigi nel 1848 ma trascorre la prima infanzia e l’adolescenza in Perù, presso i nonni materni. A 17 anni si imbarca su un mercantile e viaggia in molti continenti. Tornato in Francia nel 1871 trova un impiego in un banco di cambio e, grazie al suo tutore Gustave Arosa, inizia a interessarsi alla pittura. Colleziona i dipinti degli impressionisti e inizia lui stesso a dipingere paesaggi sull’esempio di Camille Pisarro. Dal 1883 decide di dedicarsi esclusivamente alla pittura nonostante le difficoltà economiche che questa scelta comporta. Nel 1886 si trasferisce proprio a Pont-Aven, in Bretagna, dove, insieme a Emile Bernard, elabora il nuovo stile sintetico, caratterizzato da colori accesi, campiture nette e figure delimitate da nette linee di contorno, tecnica che conferisce ai suoi dipinti una potente carica evocativa. Gauguin si trasferisce in Bretagna dove la vita costa meno, soprattutto perché Pont-Aven è un luogo selvaggio, arcaico dove l’artista sente forte il richiamo verso un’arte lontana dalla civiltà e dalle sovrastrutture borghesi. A questa fase bretone appartiene il primo grande capolavoro di Gauguin intitolato “La vision après le sermon” (“La visione dopo il sermone”) che si affranca dal paesaggio di matrice impressionista. Il dipinto, che oggi si trova alla National Gallery di Edimburgo, fu portato a termine nel 1888. Nel 1891 parte per Tahiti e, lontano dalla civiltà europea, trova nuova ispirazione e linfa vitale nella vita semplice ed essenziale degli indigeni. Dopo due anni però, a causa di una malattia, è costretto a tornare in Francia. Nel 1895 sceglie di tornare in Oceania e continua a lavorare instancabilmente nonostante le difficoltà economiche e i problemi di salute. Nel 1901 si stabilisce nelle isole Marchesi dove si impegna a favore dei diritti degli indigeni e dove muore nel 1903.
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Émile Bernard nasce a Lille (Nord della Francia) nel 1868 ma, a 10 anni, la famiglia decide di trasferirsi a Parigi, andando ad abitare nel sobborgo di Asnières. Nel 1884 inizia a frequentare l'atelier di Fernand Cormon. Quest’esperienza si rivela felicissima per il suo lavoro perché lì incontra Henri De Toulouse Lautrec e Vincent Van Gogh, coi quali stringe una duratura e sincera amicizia, ma soprattutto perché, grazie a Camille Pissarro, conosce Paul Gauguin, destinato ad avere un ruolo importante nella sua vita. Con loro, che già esponevano le loro opere al Café du Tambourin, Bernard costituì il gruppo dei "Pittori del Petit-Boulevard", nato per distinguersi dai "Pittori del Grand-Boulevard" che esponevano nella galleria di Theo Van Gogh, fratello di Vincent. La permanenza nello studio di Cormon dura solo due anni: nel 1886 Bernard viene escluso dall'atelier. Pensa allora di recarsi in Bretagna e in Normandia, facendo il viaggio a piedi e scoprendo paesaggi sempre diversi. Poco tempo dopo, mentre Van Gogh parte per Arles, Bernard decide di stabilirsi in Bretagna nel villaggio di Pont-Aven. Lì ritrova Paul Gauguin, e conosce tantissimi altri artisti di prestigio, con i quali dà vita alla cosiddetta Scuola di PontAven, le cui idee, in netto distacco dall'Impressionismo, furono alla base del Cloisonnisme e del Sintetismo. La loro non era più una pittura fondata sulla visione reale, ma una pittura "di memoria" basata sui ricordi e le impressioni suscitate, con i soggetti racchiusi da una linea scura, come nelle vetrate delle cattedrali gotiche. Bernard e Gauguin, nonostante la grande differenza d'età (20 anni), erano l'anima del gruppo, influenzandosi a vicenda nella produzione di quadri e dei più svariati oggetti artistici: ceramiche, vasi scolpiti, legni dipinti, affreschi, arazzi... Ben presto, però, i rapporti tra loro e il gruppo cominciano a logorarsi: se da un lato vari excompagni avevano intrapreso la propria strada (giungendo a fondare il movimento Nabis), dall'altro Bernard e Gauguin si attribuivano la paternità del nuovo movimento Sintetista, accusandosi reciprocamente di plagio. Ad alimentare ulteriormente il dissidio tra i due fu il successo che Gauguin, dopo un secondo soggiorno in Bretagna, cominciò a riscuotere. Fu addirittura ritenuto dalla stampa il solo e unico fondatore del movimento. Bernard, sentendosi messo da parte, giunge alla rottura con lui nell'aprile del 1891, riservandogli, da allora fino alla sua morte, atteggiamenti ostili. Del soggiorno di Bernard a Pont-Aven rimangono una serie
di opere; la più famosa è “Bretonnes au pardon” del 1892. L’opera rappresenta diversi gruppi di donne che indossano costumi tradizionali della Bretagna, si riposano e consumano il pranzo dopo aver partecipato alla cerimonia religiosa bretone conosciuta come “pardon”, una processione in onore del santo patrono. Il quadro è conservato presso il Dallas Museum of Art, Dallas, Texas, USA. Emile Bernard muore nel 1941 nel suo atelier di Parigi.
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PONT AVEN
Paul Sérusier nasce nel 1864 da famiglia benestante e riceve un'educazione classica. Nel 1875, Sérusier è ammesso al liceo Condorcet dove studia filosofia classica, greco, latino e scienze e si diploma in filosofia e scienze nel 1883. Nel 1885, dopo aver lavorato per un breve periodo nella società di un amico del padre, entra alla prestigiosa Académie Julian per studiare arte. Il primo successo giunge nel 1888 con Le Tisserand (Il Tessitore), quadro ispirato al naturalismo fotografico per il quale riceve una menzione al Salon des Indépendants. Sérusier, come molti altri artisti francesi e non, trascorre l'estate del 1888 a Pont-Aven, in Bretagna. Là, la sua attenzione cade sul piccolo gruppo d'artisti che gravita intorno a Emile Bernard e Paul Gauguin. Si avvicina al gruppo e non solo riceve una lezione gratuita da Gauguin, ma, sotto la sua guida, dipinge sul coperchio di una piccola scatola di sigari un paesaggio: “Paysage au bois d’amour”. Gauguin incoraggia Sérusier a liberarsi dalla costrizione imitativa della pittura, a usare colori puri, vivaci, accesi, a non esitare ad esagerare le sue fantasie e a dare ai suoi dipinti la sua logica decorativa e simbolica. Sérusier ritorna quindi a Parigi con il suo piccolo dipinto e con entusiasmo lo mostra ai suoi compagni, rendendoli partecipi delle nuove idee apprese da Gauguin. Il dipinto, anche noto come “Le Talisman” (Il Talismano), è tuttora conservato presso il Museo d’Orsay di Parigi. Dopo l’esperienza parigina, Sérusier ritorna in Bretagna nell'estate del 1892 e si stabilisce nel piccolo villaggio di Huelgoat per due anni dipingendo figure monumentali e solide di contadini bretoni. Sérusier muore nel 1927 a Morlaix. Nonostante ripetuti viaggi in Germania, non ha mai lasciato la Bretagna.
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Potremmo citare altre centinaia di artisti che hanno frequentato Pont-Aven e che hanno fatto la sua storia. Anche Vincent Van Gogh, pur non avendo mai soggiornato a Pont-Aven, si lasciò ispirare dal folklore bretone grazie al quadro di Émile Bernard “Le pardon de Pont-Aven”. Van Gogh, affascinato dalla bellezza dell’opera che il suo amico Gauguin gli aveva mostrato, decise di farne una versione propria usando l’acquerello. Ne nacque “Les bretonnes et le pardon de Pont-Aven”, riproduzione “vangoghiana” del quadro di Bernard che si trova attualmente nella Collezione Grassi della Galleria d’Arte Moderna di Milano.
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Oggi, chi si ferma a Pont-Aven percepisce un’aurea melanconica sulla città. La passeggiata che attraversa Il Bosco dell’Amore è spesso e volentieri frequentata da artisti nostalgici dei tempi della Scuola di Pont-Aven. Ci sono scuole d'arte, musei e gallerie espositive ovunque. I mulini, purtroppo, sono stati smantellati quasi tutti ma esistono pietre commemorative che ne ricordano la presenza. Per fortuna alcuni sono stati adibiti a ristoranti o negozi e offrono ancora ai turisti l’atmosfera caratteristica del luogo. Anche la chiesa dedicata a Saint Joseph, risalente al 1875, in stile neo gotico, merita una visita. La sua particolarità sta nel rivestimento ligneo interno dipinto di azzurro che ricorda l’interno di una barca. Impossibile non soffermarsi a guardare l’insegna della famosissima fabbrica di biscotti “Traou Mad” (che in bretone significa “cose buone”) appena si entra nel paese. La fabbrica è nata nel 1920 quando un panettiere inventò per sbaglio la ricetta della galette di Pont-Aven, tipico dolce della tradizione. Da allora, l’azienda non ha mai smesso di lavorare ed esporta i suoi prodotti anche fuori dalla Francia. Le galette sono fatte a partire da prodotti locali come farina, uova e burro (tanto burro!), ingrediente sempre presente nella cucina bretone.
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TRAOU MAD Sono diventate uno dei simboli forti della gastronomia e pasticceria bretone. Ideali come accompagnamento di una bevanda calda, questi deliziosi biscotti a base di farina, burro fresco, zucchero e uova deliziano il palato dei turisti che passano da PontAven. Le "Traou Mad, vengono realizzate fin dal 1890 secolo dai fornai locali, l'origine delle galette di Pont-Aven è associata a Isidore Penven, che succedette al padre nella panetteria di famiglia situata non lontano dal ponte storico del paese. Forte del suo successo, il dolce aumento nella sua produzione nel primo venntennio del '900 diventando ben presto l'emblema della Città dei Pittori.
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Osservare il volo degli uccelli, sopratutto se si è immersi nella natura, desta sempre ammirazione e interesse in chi guarda. Ancor di più se tra questi è possibile riconoscere un rapace. Quando poi quest’ultimo ci vola vicino, senza alcuna paura per entrambi, l’emozione è assicurata. E questo è ciò che ci è accaduto, nelle campagne prossime a Bagheria (PA), grazie all’incontro con Giorgio Panzeca che, ad un certo punto della sua vita, ha trasformato la sua ancestrale passione per i rapaci in una vera e propria professione, quella di falconiere.
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La falconeria, che nasce come pratica venatoria basata sull’uso dei rapaci per la cattura di prede costituite generalmente da altri uccelli, ha origini temporali ancora oggi non ben definite, sebbene le prime evidenze relative a questa attività siano state ritrovate, in ambiente medio-orientale, in alcune testimonianze archeologiche riferite agli antichi popoli dei Sumeri e degli Assiri.
terre del vecchio impero Romano.
Tale pratica si diffuse via via anche in Estremo Oriente, dapprima tra i Mongoli, i quali attribuivano ai falchi e alle aquile forti significati simbolici e successivamente in Cina, Corea e Giappone.
Ma nel XIII secolo, in particolare, essa divenne un aspetto fondamentale della vita sociale del nobile europeo, essendo considerata non un semplice diletto, ma una vera e propria scienza. Essa venne, così, regolamentata attraverso numerosi testi letterari. Tra questi, quello che sarebbe divenuto negli anni successivi il testo di riferimento per intraprendere l’attività di falconiere è il De arte venandi cum avibus, ("L'arte di cacciare con gli uccelli") opera redatta da Federico II di Svevia, re di Sicilia, durante il suo regno durato dal 1198 al 1250. Conosciuto con l’appellativo di Stupor mundi, Federico II, dotato di una personalità poliedrica e affascinante, era un uomo colto e amante delle lettere e grande appassionato di caccia, soprattutto quella praticata con i rapaci, tanto da fare di un falco il suo stemma araldico.
Non si ha certezza della diffusione della falconeria nell’Antica Roma, nonostante il ruolo predominante dei rapaci nella simbologia e nella mitologia romana. Con buona probabilità furono i Germani che, a partire dall’VIII a.C., portarono in Europa i rudimenti della falconeria. Ma fu durante il Medioevo che essa si diffuse sul suolo europeo, raggiungendo interessanti sviluppi. Un notevole contributo all’espansione di questa pratica provenne dall’arrivo degli Arabi, nel VIII secolo d.C., che diffusero i loro usi e costumi attraverso il loro impero. In particolare, la falconeria iniziò a fiorire nella regione del Vicino Oriente, contesa tra arabi e bizantini, compresa tra la sponda orientale del Mar Mediterraneo e l’altopiano persiano, radicandosi nelle diverse compagini che andavano lentamente formandosi nelle
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Nei secoli successivi, tra l’XI e il XII secolo d.C., con le Crociate, durante le quali intensi furono gli scambi tra l’Europa Cristiana e l’Oriente arabo - bizantino, la falconeria si sviluppò maggiormente tra i milites, ossia tra la classe guerriera dominante, finanziariamente più privilegiata.
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Il suo trattato costituì sin da subito il top per questo fenomeno socio-culturale. Si tratta di una vera e propria opera omnia in sei volumi che analizza e descrive accuratamente i sistemi di allevamento, addestramento e impiego di uccelli rapaci (soprattutto falchi) nella caccia ad altri uccelli, riprendendo e ampliando i precedenti testi scritti sull’argomento. La passione e la pratica della caccia con i rapaci continuò ad essere diffusa nelle varie parti d’Europa anche nei successivi secoli. Ma soprattutto nel XV, dove la nobiltà difendeva in modo classista i suoi privilegi contro la ricca ed emergente borghesia, la falconeria fu oggetto di particolari misure restrittive e di controllo, sia sull’uso che sul possesso dei rapaci, facendo così di quelli più pregiati un’esclusiva dei regnanti: il girifalco per un Re e l'aquila per l’Imperatore. Nelle corti rinascimentali, amanti del lusso e dei piaceri, la falconeria ebbe larga diffusione più come esercizio di un’arte che come mezzo di sostentamento. Noti falconieri di questo periodo furono i Cavalieri Ospitalieri, divenuti successivamente Cavalieri di Malta, che proprio con un falcone pagavano il loro tributo annuale al Viceré di Sicilia, imposta molto preziosa vista l’impossibilità di far riprodurre in cattività i rapaci e la difficoltà del loro addestramento. Nel XVII secolo, la falconeria, sempre privilegio esclusivo della nobiltà, toccò la sua punta massima
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presso le corti sovrane dell’assolutismo, ossia dove il Re, primo tra i nobili, dettava le mode in materia di usi e costumi. Dopo i fasti del Seicento, essa cadde nell’oblio nel XVIII secolo, soppiantata dall’uso, sempre più imperante, delle armi da fuoco. Nella prima metà del XIX secolo continuò ad essere trattata in maniera limitata solo come hobby; mentre venne riscoperta nella seconda metà dello stesso secolo e continua ad essere praticata anche ai giorni nostri. Oggi le capacità dei rapaci e quindi, la falconeria, vengono utilizzate non solo a fini hobbistici o nelle rievocazioni storiche medievali, ma anche per scopi differenti rispetto a quello per il quale è nata, ossia la caccia, oggi limitatamente praticata e l’attività attualmente più diffusa è quella del bird control, che permette di allontanare uccelli infestanti in modo non cruento da luoghi di vario tipo. Essa, infatti, si è dimostrata indispensabile nella prevenzione dei danni delle colture agricole, nella protezione degli aeroporti oltre che di attività industriali e commerciali e nel ripristino degli equilibri in insediamenti urbani, invasi da specie esageratamente accresciute.
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Ed è proprio questa l’attività svolta dal nostro amico Giorgio che, prima di raccontarci la sua storia, ci invita a conoscere i suoi due rapaci, due splendidi esemplari di Poiana di Harris, un maschio di nome Harry e una femmina di nome Akira (che in giapponese significa “preziosa”) e ad assistere alla loro preparazione prima di uscire per l’allenamento quotidiano di uno dei due.
La sua storia è piuttosto singolare. Infatti, ereditata dal padre, artigiano del legno, la passione per i mobili, Giorgio diventa arredatore d’interni, avviando due esercizi commerciali dedicati all’arredamento. Ma come a volte può accadere durante il corso della vita di ognuno, dopo circa vent’anni di lavoro in questo settore, nonostante l’amore per la propria professione, decide di dare una svolta epocale alla propria vita, in un momento particolare di essa. Così, abbandonato il mondo dell’arredamento rivolge la propria attenzione alla sua passione per i rapaci che, trasmessagli dal nonno, ha sempre mantenuto nel frattempo come hobby. Scopre, quindi, che vivere accanto a loro e in mezzo alla natura gli procura benessere fisico e psichico. Pertanto, presa coscienza di ciò, per nulla pentito della sua nuova vita, decide di diventare falconiere, intuendo sin da subito che il suo rapporto con i rapaci può offrirgli oltre che benessere pure opportunità di lavoro, quale quella del bird control.
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Parallelamente a ciò, decide anche di condividere con gli altri il benessere procurato dal rapporto con i suoi animali, come accade con la pet terapy, sebbene per la legge italiana i rapaci non siano considerati animali da compagnia e dopo aver ottenuto tutte le necessarie autorizzazioni, crea un’associazione di volontariato, denominata “l’Albero di Chirone”. Quest’ultima ha tra i suoi scopi proprio quello di promuovere il benessere delle persone, di qualunque genere ed età, al fine di prevenire o fugare qualsiasi loro disagio con interventi di tipo educativo, di gruppo o individuali, anche con l’ausilio dei rapaci. Il beneficio è senz’altro dato, oltre che dal contatto con la natura, soprattutto dal confronto con questi animali che, seppure abituati alla presenza dell’uomo, mantengono la loro indole selvatica e insegnano a stabilire con essi un rapporto basato sul rispetto, piuttosto che sulla forza, contribuendo così a migliorare anche i rapporti interpersonali.
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Oggi, dopo quindici anni dal suo cambio vita, Giorgio vive con i suoi due rapaci, tra il mare e la campagna, vicino alla borgata marinara di Aspra, unica frazione di Bagheria, lontano dalla frenesia e dal caos della città di Palermo, da cui dista circa 15 km, dedicando tutto il suo tempo alla loro cura. Per quanto negli ultimi due anni il Covid abbia reso difficile qualsiasi tipo di lavoro, per tutti e in tutti i settori, Giorgio, che possiede un curriculum di tutto rispetto in questo campo avendo lavorato per grosse società sia in Sicilia, sia in Italia sia all’Estero, continua oggi periodicamente la sua attività di bird control. Sebbene per svolgere tale compito sia quasi sempre sufficiente far volare una sola poiana, in funzione del tipo di uccello infestante da allontanare a volte Giorgio ricorre alla collaborazione di altri falconieri, grazie ai quali il controllo,
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quando strettamente necessario, può essere affidato al massimo al volo di due o tre poiane insieme, tutte provenienti da allevamenti riconosciuti da organi preposti CITES (Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione). Tale convenzione firmata a marzo del 1973, adottata da 160 paesi, è entrata in vigore in Italia nel 1980. In particolare, per la falconeria, essa assicura che il commercio di varie specie di falconidi e di accipitridi, può essere effettuato solo se tali animali sono nati in cattività, arginando notevolmente il fenomeno del contrabbando di rapaci.
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l bird control, come già accennato in precedenza, consiste nell’allontanamento incruento di volatili infestanti sfruttando il naturale istinto di autoconservazione che essi possiedono nei confronti di un rapace, dal momento che, in natura, il rapporto esistente tra le due specie è quello di preda e predatore. Per questo, i rapaci addestrati vengono fatti volare per una o due ore al giorno e per un periodo tale da consentire il completamento di tale sgombero. Infatti, la presenza costante e continua di essi induce, nel tempo, le colonie dei volatili infestanti a interrompere il loro ciclo riproduttivo, a causa dello stress dovuto alla presenza dei predatori. Quando i maschi, infatti, capiscono che quel territorio non è più “sicuro”, abbandonano automaticamente la zona d’azione dei rapaci. Quelli che vengono utilizzati in questa pratica, come nel caso delle poiane di Giorgio, non sono addestrati alla caccia, ma alla presenza dell’uomo e a ricevere il cibo unicamente dalle mani del falconiere. Per questo essi non uccidono gli uccelli, ma è sufficiente la loro presenza in volo nell’area interessata per indurne l’allontanamento. Il falconiere, al momento opportuno, richiama il rapace al pugno, dandogli la ricompensa adeguata. La necessità dell’azione di bird control nasce dalla nocività della presenza costante di alcuni tipi di uccelli che, oltre a causare, nella maggior parte dei casi, gravi danni alle strutture su cui si posano, sono anche portatori di parassiti e dunque veicolo di contagio di numerose patologie, molte delle quali letali per l’uomo e per gli altri animali (criptococcosi, salmonella, istoplasmosi, ornitosi). Questo è senz’altro il miglior sistema per la bonifica di qualsiasi area da volatili infestanti come passeri, gabbiani, colombi, ecc. Questi ultimi, in particolare, sono definiti dalla legge n. 968 del 27/12/1972, "patrimonio indisponibile dello Stato” e quindi non possono essere catturati, uccisi o sterilizzati senza l’autorizzazione delle ASP competenti o l’intervento di specifiche competenze. Dopo l’affascinante racconto della sua vita e della pratica da lui svolta con le sue poiane, incantati dagli splendidi panorami offerti dal lungomare che percorriamo e che si affaccia sul grande Golfo di Palermo, ci accingiamo ad accompagnare Akira nel suo volo di allenamento quotidiano, lasciando Harry a riposare per un allenamento intensivo effettuato il giorno precedente, non senza aver provveduto al suo sostentamento quotidiano. Giunti nel punto dal quale Akira potrà iniziare il suo volo odierno, continuiamo l’intervista con Giorgio per farci raccontare, stavolta, tutto (o quasi) sulle caratteristiche di questi magnifici animali, sul loro addestramento e sull’equipaggiamento necessario per la loro gestione.
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Le specie di rapaci utilizzate nella falconeria sono varie in funzione anche dell’attività che questi ultimi devono svolgere. Nel caso specifico, gli animali che si accompagnano al nostro amico sono, come già detto, Poiane di Harris, rapaci di basso volo (short-wings) appartenenti al genere degli Accipitridi.
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Originaria del continente americano, la Poiana di Harris (Parabuteo unicinctus) è un rapace dal comportamento particolare. Esso in natura vive in stormi, ordinati secondo una precisa gerarchia sociale, nella quale tutti gli individui collaborano alla caccia. La loro spiccata socialità li rende molto adatti alla falconeria perché facilmente allevabili in cattività e più duttili nell’addestramento. Presentano ali corte e larghe e vengono chiamati anche veleggiatori perché non battono le ali, se non per alzarsi in volo, sfruttando per volare le correnti ascensionali, attraverso le quali prendono quota ad ogni giro. Hanno un volo con grande accelerazione e vengono lanciati direttamente dal pugno del falconiere per inseguire le prede o, in questo caso, per mettere in fuga gli uccelli infestanti. Come in tutti i rapaci diurni, la femmina è più grande del maschio e può raggiungere anche i 1200 g di peso. La loro lunghezza varia dai 45 ai 58 cm ed il colore del piumaggio, bruno rossiccio, varia da scuro a chiaro, fino al bianco della coda. Sia Harry che Akira, che provengono da un allevamento siciliano, dotati di anello identificativo, possiedono la cosiddetta carta d’identità del rapace, documento CITES che contiene tutti i dati dell’animale (specie, sesso, numero dell’anello di riconoscimento, dati dell’allevatore, timbro dell’ufficio che lo ha rilasciato) ed è richiesta dai Carabinieri per la Tutela Ambientale ai fini della dichiarazione obbligatoria di detenzione del rapace. Giroinfoto Magazine nr. 76
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Prima di lasciare libera Akira, Giorgio, mentre la prepara al volo, ci descrive tutti i componenti dell’equipaggiamento necessari per tenerla al pugno in sicurezza. Due laccetti di cuoio, chiamati geti e attaccati poco sopra i rostri dell’animale lo assicurano al suo pugno. Questi sono collegati alla lunga (cordino) che consente attraverso la girella o tornetto di legare il rapace o al guanto o al posatoio. Il tornetto, essendo dotato di snodo centrale, consente alla lunga di non impigliarsi, evitando così di mettere in pericolo l’animale stesso. Insieme ai geti, Akira indossa due grossi sonagli (uno per zampa) che consentono al suo conduttore di individuarla, quando è poco fuori dal suo campo visivo, attraverso il loro suono. Durante l’addestramento o il lavoro, può essere fissato al corpo del rapace anche un trasmettitore radio di telemetria dotato di GPS, che consente al falconiere la localizzazione di quest’ultimo anche quando si allontana parecchio dalla base di partenza. Tra gli “attrezzi” dell’equipaggiamento di un rapace vi è anche il cappuccio o chaperon che, realizzato in cuoio, copre per intero la testa del rapace ad eccezione del rostro e serve a impedire che questo venga infastidito o intimorito da qualcosa o da qualcuno. Mentre, invece, l’equipaggiamento di Giorgio è costituito da uno spesso guanto di cuoio che lo ripara dai robusti artigli delle sue poiane e una borsa che serve per portare con sé l’occorrente per l’addestramento, cibo compreso.
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Liberata Akira dalla lunga e dai geti, con indosso solo i suoi sonagli, la osserviamo, finalmente, scorrazzare libera nel suo ambiente naturale e tornare, di tanto in tanto, con volo rapido e deciso, sul guanto di Giorgio, sempre attenta ad ogni suo richiamo, per gustare un bocconcino del pasto quotidiano a lei destinato, lasciandoci sempre più affascinati dalla sua bellezza, eleganza e fierezza. In quanto femmina predominante, la osserviamo poggiarsi, in atteggiamento regale, sulla cima degli alberi o di rocce isolate, da cui osservare tutto ciò che la circonda o per riposare, sempre pronta a ritornare da Giorgio semplicemente quando lui pronuncia il suo nome. Un rapace addestrato necessita di un allenamento di un paio d’ore di volo al giorno che serve oltre a mantenerlo in salute, tenendo efficiente la sua muscolatura, anche ad incrementare giornalmente la sua esperienza. Chiaramente, l’addestramento dei rapaci non si riduce all’attività di allenamento giornaliero s.s. (volo ed esercizi) ma comprende anche una serie di attività di contorno che completano la gestione di questi animali, quali l’alloggio, l’alimentazione e la cura che servono a mantenerli in buona salute fisica e psichica. La formazione di un rapace, che comunque necessita da parte del falconiere di tanta passione, dedizione, costanza e di un profondo senso di responsabilità nei confronti dell’animale, è molto impegnativa, anche in considerazione del fatto che non si tratta di un comune animale domestico. Ma essa costituisce motivo di arricchimento continuo sia per il volatile che per lo stesso falconiere per tutta la sua durata, pari a quella della vita stessa del volatile (circa 20 anni).
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La falconeria, dunque, oltre ad essere un’arte è anche una scienza perché strettamente collegata alla vita di esseri viventi, i rapaci. Pertanto, per gestirli al meglio occorre che il falconiere conosca a fondo la loro biologia ed etologia, che non solo costituiscono la base del loro addestramento ma aiutano ad evitare la maggior parte dei problemi che possono portarli alla morte, come malattie, traumi, fughe, ecc. È fondamentale, ad esempio, che il falconiere sappia gestire correttamente il peso e la fame dell’animale che costituiscono i punti basilari del suo addestramento. Infatti, un errore di valutazione di uno di essi può comportare, per il rapace in cattività, malattie o addirittura la morte. È, inoltre, importante che il falconiere osservi attentamente il suo animale in ogni momento della giornata e che sappia comunicare con esso interpretando correttamente i segnali inviati dal volatile attraverso il linguaggio del corpo. Tutte caratteristiche che, alla fine della giornata, abbiamo potuto riscontrare in Giorgio, osservandolo durante la nostra permanenza al suo fianco e al fianco di Akira.
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Sebbene, vari aspetti della falconeria siano stati criticati nel tempo, soprattutto per la cruenza di alcune pratiche di addestramento come la “cigliatura” che consisteva nel cucire le palpebre dell’animale per poi allentare gradualmente la chiusura della sutura con l’avanzare del livello di addestramento, abolita nel medioevo e soppiantata dall’uso del cappuccio grazie a Federico II, oggi le critiche degli ambientalisti si sono concentrate sul mantenimento degli animali in cattività e sul trasferimento di alcuni tipi di rapaci in zone più calde di quelle a cui sono abituati. Nonostante ciò essa è stata riconosciuta dall’UNESCO, nel 2016, come patrimonio vivente dell’umanità ed è un bene transnazionale che l’Italia condivide con altri 17 paesi. Ciò perché, seppure originariamente nata come metodo per ottenere il cibo, la pratica della falconeria si è evoluta nel tempo esprimendo legami con la salvaguardia della natura, con il patrimonio culturale e l’impegno sociale all’interno delle comunità. I falconieri, seguendo le proprie tradizioni e principi etici, addestrano, fanno volare, nutrono i rapaci e sviluppano con essi un legame profondo, basato sulla sensibilità e sulla
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superiorità dello spirito e non sulla forza, in un equilibrio estremamente fragile, difficile da raggiungere ed altrettanto difficile da mantenere, ma grazie al quale il rapace stesso, signore dei cieli, che potrebbe rendersi inafferrabile dall’uomo, è libero di volare in cerca della preda per tornare a posarsi sulla mano del falconiere, con altrettanta libertà. Ringraziamo, dunque, il nostro amico Giorgio Panzeca per averci consentito di vivere e poter raccontare un’emozionante ed inusuale giornata insieme ad Harry e Akira, immersi nella natura incorniciata da bellissimi panorami marini che, come accade spesso lungo quasi tutte le coste siciliane, destano sempre ammirazione e stupore anche in chi è abituato a viverli.
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A cura di Lorena Durante Giroinfoto Magazine nr. 76
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Quando mi sono trasferita a Carrù (CN) dieci anni fa ho iniziato ad apprezzare e a capire veramente il significato della Fiera del Bue Grasso, ossia il vero senso che racchiude questo evento di metà dicembre. Per la cittadina di Carrù questa sagra non è solo un grosso mercato zootecnico come in molti potrebbero pensare, ma è una festa vera e propria alla quale ci si prepara come ci si prepara al Natale. Alla vigilia della Fiera tutto si trasforma per preparare al meglio questo giorno, come in attesa del regalo più bello: sì, perché questo giorno ripaga la fatica che gli allevatori hanno fatto nell’anno che sta finendo per ottenere la migliore produzione dalla loro cascina. Quindi, se doveste venire a vedere la fiera non pensate di partecipare al solito evento gastronomico, ma ricordatevi che è una giornata ricca di tradizione, passione e amore per la propria terra e il proprio lavoro.
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La Fiera ha origini molto antiche. Fin dal 1473 si tenevano in Carrù dei mercati di bestiame con frequenza bisettimanale, ma la prima Fiera del Bue Grasso ufficiale risale al 15 dicembre 1910 quando fu istituita per volontà dell’Amministrazione Comunale e del Comizio Agrario di Mondovì, per porre rimedio alla grave carenza di animali da macello ed al conseguente aumento dei prezzi della carne. La prima edizione contò ben 2100 capi bovini, 200 suini, 500 ovini e un migliaio di capi di pollame. La fascia, vinta la prima volta da un allevatore fariglianese, divenne un distintivo di qualità e da allora per allevatori, commercianti e macellai la fiera divenne un appuntamento fisso. Nel 1914 la medaglia d’oro per il vincitore fu inviata addirittura dal Re. La fiera continuò anche durante le due grandi guerre; solo nella seconda guerra si ridusse un po’ e fu sospesa per un anno nel 1944. Ma la crisi del dopoguerra, grazie anche alla tenacia delle amministrazioni carrucesi, venne ben presto superata e la Fiera riprese ben salda con la sua tradizione e la sua popolarità.
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Dall’anno scorso, la Fiera è diventata a pieno titolo internazionale. Fino agli anni novanta la mattinata si chiudeva con una sfilata dei buoi vincitori per le strade del paese; solo negli ultimi anni però questa tradizione, giudicata forse troppo pericolosa, è stata sostituita da una piccola passerella davanti all’area mercatale. L’esposizione zootecnica prevede anche una “gara” tra i capi presenti: un’apposita giuria fatta da esperti del settore, veterinari e membri dell’Anaborapi (Associazione degli allevatori della razza bovina piemontese), giudica le caratteristiche dei diversi capi indicando i migliori per ogni categoria.
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Quest’anno, nella sua 111a edizione, un po’ ridotta a causa della pandemia, sotto l’ala mercatale erano presenti 62 buoi, suddivisi nelle tre categorie previste dal Regolamento della Fiera. A garantirsi il record di bue più pesante in assoluto è stato “Androne”, esemplare di 5 anni, del peso di 1.550 kg, allevato dall’azienda agricola “Fratelli Delsoglio” di Fossano. Al momento della premiazione il bue viene decorato con la storica gualdrappa, che da 25 anni viene dipinta da un pittore di Carrù, Bruno Bianco, insieme a sua moglie Tiziana.
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Sono un pittore e l’arte è la mia passione – ci ha raccontato Bruno Bianco . Sono 25 anni che dipingo con l’acrilico le gualdrappe per la ‘Fiera del Bue Grasso’ e ne realizzo circa 120 l’anno. Per questa edizione della rassegna, che è la 111ª, ne ho realizzate una settantina. Sulla gualdrappa dei primi tre posti viene inserito l’anno, il premio, la categoria dell’animale e l’edizione della fiera. Vi si riporta anche la data precisa, in modo tale che non siano ripetibili, e alla fine vengono autenticate col nome della macelleria cui il bue è destinato. Le fantasie variano a ogni edizione. Le gualdrappe generiche, invece, quelle che vengono consegnate ai vincitori a partire dal quarto e fino al nono posto, le realizza mia moglie. In giro per l’Italia ci sono circa tremila mie gualdrappe. Sono contento!
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La fiera non inizia però nel momento in cui apre l’esposizione zootecnica, bensì molte ore prima, verso le 5.30 del mattino, quando decine di persone si mettono in coda per rinnovare la tradizione della colazione del contadino, servita all’alba a chi arrivava a Carrù dopo tante ore a piedi magari proprio con il bue da vendere al mercato. La colazione del contadino, non ci inganni il nome, è un pasto caldo a base di trippe e vino rosso, che riscaldava i viandanti dopo tanti passi nella lunga notte di dicembre. La parte gastronomica è sicuramente una delle cose più rilevanti e attraenti di questo evento, così come il mercato allargato che attira anche molti turisti anche in un freddo giovedì come questo. Ma dopo aver parlato della colazione del contadino e della storia di questa Fiera non possiamo non dedicare una parte del nostro racconto al suo protagonista indiscusso: il Bollito Misto alla piemontese. Opulento, profumato, fumante: il Bollito Italiano è uno dei piatti più monumentali della tradizione gastronomica invernale carrucese. Questa è la frase che si legge sul sito della Proloco di Carrù per descrivere questo piatto, specialità da assaggiare assolutamente se si è di passaggio.
Adriana Oberto Photography
Nella letteratura il bollito appare per la prima volta nel 1887 in «Cucina Borghese semplice ed economica», edito da Vailardi e di autore ignoto e viene indicato come il piatto preferito da Vittorio Emanuele II. Il segreto per per prepararlo al meglio? Occorre ricordarsi la ”Regola dei sette” di Giovanni Goria, Accademico della Cucina.
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Parliamo di Regola dei sette perché il Bollito Misto alla piemontese si compone di sette tagli di carne: tenerone, scaramella, muscolo di coscia, stinco, spalla, fiocco di punta, cappello del prete, e di sette ornamenti che vanno cotti in pentole diverse: la testina di vitello (completa di musetto), la lingua, lo zampino, la coda, la gallina, il cotechino e la rolata.
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Il grande piatto unico va poi completato con i bagnetti che la tradizione ci propone per accompagnarlo, anche questi sono
7 I più classici sono: il bagnetto verde rustico (bagnet vert), una salsa ottenuta da prezzemolo, acciughe, aglio e mollica di pane raffermo; il bagnetto rosso (bagnet ross), con pomodori, aglio, senape e aceto rosso; e poi la cugnà, la salsa di Aviè, la senape e la salsa di rafano. Samuele Silva Photography
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Da anni nella Piazza vicino al Monumento dedicato proprio al Bue grasso, la Pro Loco allestisce, sotto un tendone riscaldato, un vero e proprio ristorante che accoglie i turisti nelle domeniche prima della fiera con pranzi luculliani con eccellenze del territorio. Nelle giornate della Fiera il servizio si trasforma in una vera e propria maratona gastronomica, con il tradizionale Bollito NO STOP, che vede servito questo piatto per tutta la giornata del mercato tradizionale. In un angolo della stessa struttura si può anche acquistare il Tocau, il tradizionale bastone utilizzato dai garzoni degli allevatori per dirigere gli animali in cammino che, negli anni scorsi, è diventato simbolo della Fiera internazionale del bue grasso di Carrù. Dal 2017 infatti, i turisti, ad ogni visita fatta in occasione della fiera possono passare dalla Pro Loco e farsi aggiungere sul Tocau acquistato uno stampino commemorativo riportante la nuova data della sagra. Ma a Carrù non esiste solo la fiera del Bue grasso. Questo ridente paese, denominato Porta della Langa, posto in cima a una collina e affacciato sulla vallata sottostante attraversata dal fiume Tanaro, nasconde tanti piccoli angoli da ammirare e visitare. Partiamo proprio dalla prima piazza che incontriamo entrando in paese, la stessa piazza in cui viene montato il ”Palabollito” della ProLoco per gli eventi enogastronomici collegati alla Fiera. Sulla piazza troviamo un bellissimo e curato giardino dove è sistemata una delle famose Panchine Giganti del designer Chris Bangle, attorniata da altre quattro copie in miniatura dedicate ai più piccoli. Vicino possiamo osservare il particolare monumento al quale abbiamo già accennato prima, la Scultura al Bue Grasso di Carrù, statua in pietra inaugurata nel giugno del 2002.
Rita Russo Photography Lorena Durante Photography
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Monica Pastore Photography
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Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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Maria Grazia Castiglione Photography
L’opera, realizzata dal maestro Raffaele Mondazzi da un progetto dell’Architetto Danilo Tomatis, è costituita da sei scene a bassorilievo in bronzo strettamente collegate alla “storia contadina e alla figura del bue”, dalla nascita del vitellino, all’allevamento, alla macellazione, alla tavola e da un’ulteriore scultura in marmo raffigurante due buoi aggiogati.
Sono da notare la gabbietta con l’uccellino, il vaso di fiori, i vetri rotti dipinti e soprattutto la sorridente figura della dama che si affaccia da una finestra con la rocca e il fuso tra le mani.
La Scultura del Bue Grasso di Carrù è nata dal desiderio comune che ha unito i voleri dell’amministrazione, dei commercianti, degli artigiani del paese, dei coltivatori diretti e degli allevatori. Un modo artistico ed evidente per riconoscere l’importante ruolo che l’animale ha avuto nella storia del paese, e per celebrare nel contempo l’attività degli agricoltori, degli artigiani e dei viticoltori del territorio. Viene commemorata insomma proprio quella passione per il proprio lavoro così sentita in queste terre di Langa e che si “respira” nel giorno della fiera. Nella piazza vicino alla biblioteca civica si affianca invece uno dei più ben conservati immobili storici carrucesi, Palazzo Boschetti Avagnina con la sua facciata affrescata ricca di fascino e di storia. La decorazione pittorica del palazzo risale al XVII secolo, ma il gusto e l’impostazione rimandano a formule tardo cinquecentesche. Vi furono poi interventi pittorici successivi eseguiti nel corso del Settecento e dell’Ottocento e una ristrutturazione del 2006 che ha riportato il palazzo al suo splendore originale. Gli affreschi accostano finti elementi architettonici, come le cornici delle finestre e il bugnato d’angolo, a delicati elementi naturalistici.
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Samuele Silva Photography
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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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Da questa chiesa si può partire per una visita del centro storico tra le viuzze rivestite di porfido, dove incontriamo alcuni dei monumenti principali del paese prendendo la piccola via Mazzini, la più antica strada del concentrico. La strada ha un’impostazione medioevale, lunga e stretta, e presenta edifici sviluppati in altezza. Nei secoli successivi è stata risistemata, ma esistono ancora antichi frammenti di stretti passaggi, archi gotici, caratteristiche cantine in mattoni. Proprio a metà di via Mazzini sorge il palazzo che fu della nobile famiglia del notaio Pietro Antonio Massimino che ospitò il Quartier Generale di Napoleone Bonaparte: nella notte del 23 aprile 1796 Napoleone, con il suo seguito, pernottò nella casa del Massimino, dove perfezionò il testo del trattato di Cherasco e scrisse un’appassionata lettera d’amore a Giuseppina. Ma questo non è l’unico palazzo importante che si può osservare tra le strade di Carrù. Poco più avanti ci sono infatti Palazzo Lubatti che, purtroppo, è attualmente in stato di abbandono, e il palazzo del comune, edificio del Settecento con ricchi soffitti affrescati. Proseguendo si arriva nella piccola piazza Caduti della liberazione, dove sorge la chiesa parrocchiale dedicata a Maria Vergine Assunta.
Remo Turello Photography
Samuele Silva Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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Il progetto di questa chiesa venne affidato al giovane architetto-ingegnere Francesco Gallo (1672-1750), divenuto famoso negli anni successivi per la costruzione della Cupola ellittica del Santuario di Vicoforte. Una curiosità sulla costruzione di questa chiesa è che furono utilizzati mattoni e pietre provenienti dalla demolizione degli edifici più antichi e di parti delle mura di cinta del paese.
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Dalla piazza della Chiesa, scendendo una scalinata, si può raggiungere velocemente il Castello, attuale sede della Banca Alpi marittime. Il Castello di Carrù è un piccolo scrigno che protegge cose preziose: mobili, quadri, affreschi e stucchi ancora perfettamente conservati.
Per la sistemazione e la decorazione interna della Chiesa, proseguite anche negli anni dopo l’inaugurazione, si succedono numerose maestranze: marmorari, stuccatori, falegnami, pittori, scultori, fabbri e vetrai famosi della zona. Tra le opere più importanti della chiesa c’è l’altare maggiore commissionato nel 1729 dall’arciprete Carlo Tomaso Badino, una sontuosa mensa barocca festosa di angeli e putti, realizzata dal marmoraro genovese G. A. Ponsanelli, ma fortemente influenzato dall’opera di G.L. Bernini. L’arciprete committente è sepolto ai piedi dell’altare decorato da marmi policromi. Bellissime le decorazioni del presbiterio: sulla parete di fondo spicca il quadro dell’Assunta, copia della celebre Assunta del Tiziano conservata a Venezia nella chiesa dei Frari; nella parete di destra guardando l’altare maggiore si ha l’affresco dell’Ultima Cena del Milocco, a sinistra la Natività del pittore Dalle Ceste (XX sec.); nella grande cupola centrale invece si può ammirare l’affresco raffigurante un manto stellato in parte sollevato su una visione paradisiaca, dove tra un turbinio di angeli e putti la Vergine accoglie gli omaggi di Carrù, che offre prodotti della terra in sembianze femminili. Successivamente, Fava, nel 1900 dipinse i quattro Evangelisti nei peducci che la sostengono. Nel quarto decennio dell’Ottocento viene realizzata anche dal saviglianese Gardet la balconata per l’organo e il coro, un’opera lignea con parti scolpite e dipinte, che è sistemata sopra la bussola del portone d’ingresso. Maria Grazia Castiglione Photography
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Purtroppo, a causa della pandemia, non possiamo visitare gli interni ma sappiamo che gareggia con le altre residenze sabaude del Piemonte per lo sfoggio di bellezza e sontuosità.. Le prime notizie del Castello si hanno intorno all’anno mille: nel 1250 il comune di Mondovì, che lo possedeva, lo vende ad Amedeo VI di Savoia che investe i Marchesi di Ceva della titolarità del feudo. Nel 1418 il conte Ludovico Costa, tesoriere e luogotenente del Principe d’Acaja e poi consigliere di Amedeo VIII di Savoia, viene investito del feudo di Carrù.
e Artigiana di Carrù, che intraprende un grande lavoro di ristrutturazione e vi stabilisce la sua sede centrale. Per concludere la visita di questa splendida cittadina non si può assolutamente tralasciare La casa della Piemontese, presso il Centro Anaborapi, poco fuori dall’abitato carrucese.
L’edificio viene, nel corso dei secoli, più volte rimaneggiato: nel XVII secolo si fanno grandi interventi, il Castello diventa dimora di piacere e di caccia di Gerolamo Maria della Trinità e di sua moglie Paola Cristina del Carretto. Nell’Ottocento diviene luogo di villeggiatura della Contessa Costanza di Rorà (moglie di Paolo Costa della Trinità) che, nel 1872, vende il Castello e la proprietà ai Curreno. L’ultima proprietaria, nel 1977, cede il castello alla Cassa Rurale
Remo Turello Photography
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L’Anaborapi è il centro di selezione e miglioramento genetico dell’associazione italiana allevatori bovini della razza piemontese che si è costituito nel 1960 e che, da allora, ha sede a Carrù. Gli obiettivi della selezione sono il miglioramento della razza nell’attitudine alla produzione della carne e la riduzione delle difficoltà di parto. Proprio per questo, nel centro, sono stati creati un libro genealogico, il centro genetico per la selezione e un centro tori. Accanto alla sede dell’Anaborapi troviamo la Casa della Piemontese, il primo museo dedicato ad una razza bovina realizzato in Italia, ed il secondo assoluto in Europa, dopo la Maison du Charolais di Charolles. Non si tratta di un semplice museo ma più di un percorso multimediale che guida il visitatore alla scoperta dei segreti e delle tradizioni che hanno portato l’allevamento bovino ad un livello di eccellenza in questa zona.
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Il percorso proposto ci racconta di questa razza unica, dalla sua storia antica fino alle moderne tecniche di allevamento, dal lavoro in stalla alle eccezionali qualità della sua carne. Grazie a numerosi contributi multimediali interattivi la visita si adatta a tutti i tipi di pubblico, spaziando dagli argomenti tecnici a quelli più divulgativi. Il piano terra è dedicato al mondo degli allevatori e al rapporto secolare tra uomini e bovini: nella prima sala possiamo trovare una collezione di modellini in gesso fatti a mano originali del 1930 che rappresentano le varie razze bovine che erano stati commissionati da Vittorino Vezzali, fondatore dell’istituto sperimentale della zootecnica con sede a Torino, perché gli studenti avessero uno strumento di studio che consentisse loro di vedere le differenze morfologiche degli animali secondo le zone di provenienza. La collezione era molto più ampia, ma i modellini che vediamo sono quelli meglio conservati e donati dal ministro dell’agricoltura.
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Si prosegue poi alla scoperta di momenti di vita contadina e con la suggestiva riproduzione della stalla "di una volta", che vuole ricreare l’ambiente di allevamento di questa razza negli anni 30/40 per far vedere soprattutto alle nuove generazioni come gli animali venivano allevati e utilizzati sia per la carne che per il latte, ma anche per il lavoro nei campi, utilizzo che con l’avvento della meccanizzazione in agricoltura è stato abbandonato. Continuando si può scoprire l’alimentazione di questi animali, con le differenze tra le femmine e i vitelli maschi che vengono usati per la carne, quello che sarà poi il famoso Bue grasso. Si accede al primo piano tramite tornanti disseminati di monitor, accompagnati dal suono dei campanacci, quasi a simulare una salita in alpeggio. Alla fine del rampa c’è un’installazione che ci ricorda tutti i prodotti che si possono ottenere da un bovino: le setole dei pennelli con i peli degli animali, la pelletteria, i bottoni fatti con le ossa e le corna, il grasso, la colla fatta con le cartilagini impiegata nel restauro dei mobili d’epoca, la fiele di bue che opportunamente trasformata viene utilizzata come fissativo per i quadri ad acquerelli, poi il sangue secco usato come fertilizzante insieme al corno d’unghia prodotto con gli zoccoli e infine la racchetta da tennis vintage perché venivano costruite le corde con il budello del bovino negli anni 80. Quindi del vitello si può dire non si butta via nulla. Nella sala più in alto troviamo alcuni documenti storici che ricordano la fiera e alcune vecchie locandine. Purtroppo non possiamo concludere la visita con la degustazione che era prevista prima della pandemia per ragioni di sicurezza. Peccato, sarebbe stato un finale degno!
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LA RICETTA DEL
Bollito NGREDIENTI carne di bue o manzo di razza piemontese punta di petto 700 g scaramella (biancocostato) 700 g muscolo 500 g testina 600 g lingua 400 g sottopaletta 500 g 6 nodi di coda gallina 1/2 cotechino 2 cipolle carote zucchine verdure per il brodo: carote cipolla sedano sale grosso PREPARAZIONE In una casseruola stretta e alta inserire acqua fredda fino a metà del suo livello di capacità; salare q.b. con sale grosso e portare ad ebollizione aggiungendo le verdure per il brodo precedentemente tagliate a pezzi e soprattutto accuratamente lavate. Quando il liquido sarà portato ad ebollizione sistemare con la maggior cura possibile i tagli di carne del Bue: la Punta di Petto, la Scaramella (Bianco Costato), il Muscolo, il Sottopaletta, (Cappello del Prete), la Testina e la Lingua. Lasciare cuocere per circa 3 o 4 ore a fuoco moderato. Si consiglia di controllare con la forchetta la cottura dei singoli pezzi. n.b. In altre casseruole sistemare in cottura: la Coda e la Gallina o il Cappone in casseruole separate con lo stesso procedimento utilizzato per i bolliti di Bue; mentre per i cotechini aggiungere solamente acqua fredda. Per gli ultimi si consiglia di bucherellarli con una punta affilata per eliminare gran parte del loro grasso in eccesso. Al momento del servizio disporre il bollito su un tagliere di legno, tagliando davanti ai commensali i vari pezzi, secondo il gusto e l’appetito degli ospiti. Accompagnarlo con le verdure bollite e saltate in padella. Per gustare i sapori della carne, condire con sale grosso macinato e un buon olio extravergine di oliva. Massima importanza avranno anche le salse che accompagnano il gran bollito: salsa verde, salsa rossa, cugnà, salsa dij Aviè, senape e rafano.
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RITRATTE DIRETTRICI DI MUSEI ITALIANI FONDAZIONE BRACCO
© ph. Gerald Bruneau Flaminia Gennari Santori Gallerie Nazionali Barberini Corsini Roma
Fondazione Bracco MILANO Palazzo Reale dal 3 marzo al 3 aprile 2022.
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Fondazione BRACCO presenta
RITRATTE
GLI SCATTI FOTOGRAFICI DEL CELEBRE GERALD BRUNEAU IN UNA MOSTRA DI FONDAZIONE BRACCO PER RACCONTARE LE DONNE CHE GUIDANO PRIMARIE ISTITUZIONI CULTURALI DEL NOSTRO PAESE.
Apre il 3 marzo 2022 nelle Sale degli Arazzi a Palazzo Reale di Milano la mostra fotografica “Ritratte – Direttrici di musei italiani”. La mostra promossa e prodotta da Palazzo Reale, Comune di Milano Cultura e Fondazione Bracco sarà visitabile gratuitamente fino a domenica 3 aprile 2022. Con questa mostra Fondazione Bracco continua nel proprio impegno per valorizzare l’expertise femminile presentando le professioniste che dirigono i luoghi della cultura italiani. Il progetto artistico con gli scatti d’autore del fotografo Gerald Bruneau si colloca nell’impegno della Fondazione per valorizzare le competenze femminili nei diversi campi del sapere e contribuire al superamento dei pregiudizi, così da incoraggiare una sempre più nutrita presenza di donne in posizioni apicali.
© ph. Gerald Bruneau Emanuela Daffra Musei della Lombardia
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RITRATTE - DIDA
La mostra illumina vita e conquiste professionali di 22 donne alla guida di primarie istituzioni culturali del nostro Paese, una sorta di Gran Tour che tocca 14 importanti città italiane da Nord a Sud: da Trieste a Palermo, da Napoli a Venezia per citarne solo alcune. Il soggetto principale di “Ritratte” è la leadership al femminile. I musei, “luoghi sacri alle Muse”, sono spazi dedicati alla conservazione e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico, custodi del nostro passato e laboratori di pensiero per costruire il futuro. Inoltre, sono anche imprese con bilanci e piani finanziari, che contribuiscono in modo cruciale alla nostra economia. Dirigere tali istituzioni comporta competenze multidisciplinari, un connubio di profonda conoscenza della storia dell’arte e di capacità gestionali e creative. Tra le protagoniste della mostra figurano i ritratti di Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese di Roma; Emanuela Daffra, Direttrice Regionale Musei della Lombardia; Flaminia Gennari Santori, Direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini di Roma; Anna Maria Montaldo, già Direttrice Area Polo Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Milano; Alfonsina Russo, Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo; Virginia Villa, Direttrice Generale Fondazione Museo del Violino Antonio Stradivari di Cremona; Rossella Vodret, Storica dell’arte, già Soprintendente speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Roma; Annalisa Zanni, Direttrice del Museo Poldi Pezzoli di Milano.
© ph. Gerald Bruneau Alfonsina Russo Parco Archeologico del Colosseo Roma
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© ph. Gerald Bruneau Eva Degl'Innocenti Museo Archeologico Nazionale di Taranto
Fondazione Bracco da tempo è impegnata per contribuire alla costruzione di una società paritetica, in cui il merito sia il criterio per carriera e visibilità. Nel 2016 è nato a questo scopo il progetto “100 donne contro gli stereotipi” (100esperte.it) ideato dall’Osservatorio di Pavia e dall’Associazione Gi.U.Li.A., sviluppato con Fondazione Bracco, grazie alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. La banca dati online raccoglie profili eccellenti di esperte, selezionate con criteri scientifici, in vari settori del sapere, strategici per lo sviluppo del Paese, allo scopo di aumentarne la visibilità sui media: l’ambito STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics – dal 2016), le esperte di Economia e Finanza (dal 2017), Politica Internazionale (dal 2019), Storia e della Filosofia (dal 2021). Basti pensare che secondo il Global Monitoring Project 2020 in Italia nei media tradizionali le donne interpellate come esperte sono solo il 12%, contro il 24% dell’Europa. Accanto alla banca dati online, Fondazione Bracco ha deciso di sviluppare una narrazione complementare. Nel 2019, sempre grazie alla collaborazione con Gerald Bruneau, è stata realizzata la mostra fotografica “Una vita da scienziata” con i ritratti di alcune delle più grandi scienziate italiane, da allora esposta in numerose sedi italiane e internazionali, tra cui Milano, Roma, Todi, Washington, Philadelphia, Chicago, Los Angeles, New York, a febbraio sarà a Città del Messico e il prossimo 8 marzo a Praga. In ottica di continuità e dialogo, l’esposizione “Ritratte”, dedicata al settore dei beni culturali, aggiunge un importante tassello all’intervento di lotta agli stereotipi di genere e di promozione delle competenze, unico discrimine per qualsiasi sviluppo personale e collettivo.
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© ph. Gerald Bruneau Tiziana Maffei Museo Reggia di Caserta
“Questa mostra si chiama programmaticamente “Ritratte” per più di una ragione” sottolinea Diana Bracco, Presidente di Fondazione Bracco. “Nella storia dell’arte a essere raffigurati erano soprattutto i potenti, membri di famiglie nobili, aristocratici e regnanti. In questa galleria l’obiettivo di Gerald Bruneau ha fissato l’immagine di professioniste che hanno raggiunto posizioni apicali nel loro settore. Il soggetto principale di “Ritratte” è proprio la leadership di queste donne. Riconoscere le competenze, renderle visibili, è il primo passo per alimentare percorsi analoghi, da parte di bambine e ragazze, tanto nell’arte quanto nella scienza. Con il progetto #100esperte e con molte altre iniziative di taglio formativo facciamo proprio questo, valorizziamo il merito e incoraggiamo nuove vocazioni. Le donne offrono contributi straordinari al progresso umano, non possiamo più permetterci di limitare o disconoscere questo apporto.”
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© ph. Gerald Bruneau Virginia Villa Fond Museo del Violino Antonio Stradivari Cremona Giroinfoto Magazine nr. 76
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© ph. Gerald Bruneau Francesca Cappelletti Galleria Borghese Roma
“Il mio intento è stato quello di mettere in risalto, insieme all’incommensurabile vastità e bellezza del patrimonio artistico italiano, la bellezza di queste donne che si impegnano quotidianamente per rimettere i musei al centro di una proposta culturale elaborata in rete insieme ai soggetti più rappresentativi delle realtà in cui sono immerse, invitano alla partecipazione, stimolano confronto e pensiero critico” afferma il fotografo Gerald Bruneau. “Donne che vogliono rendere i musei nuovi luoghi di incontro e di riflessione, di conoscenza e di comunicazione, valorizzando i capolavori storici e accogliendo nuove esperienze artistiche. E che, per questo, sperimentano nuove e creative modalità di proposta culturale. Se abbiamo la speranza che la bellezza possa salvare il mondo, tocca anche a noi, insieme a loro, salvare la bellezza.”
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Fondazione Bracco
è nata dal patrimonio di valori maturati in 95 anni di storia della Famiglia e del Gruppo Bracco, in primo luogo dalla responsabilità sociale d’impresa. La Fondazione sviluppa progettualità per migliorare la qualità della vita della collettività e la coesione sociale, privilegiando un approccio innovativo e misurando risultati e impatto degli interventi. Particolare attenzione viene riservata all’universo femminile e al mondo giovanile. La multidisciplinarità e l’integrazione tra diversi saperi sono criteri qualitativi importanti sia nella progettazione, sia nella selezione delle attività, che spaziano nelle aree dell’arte, della scienza e del sociale. www.fondazionebracco.com
© ph. Gerald Bruneau Anna Maria Montaldo già Area Polo Arte moderna e contemporanea Comune di Milano
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Monica Gotta Manuela Albanese
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Monica Gotta Photography
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Solo coloro che tentano l’assurdo raggiungeranno l’impossibile. La splendida cornice di Palazzo Ducale a Genova ospita più di 200 opere del grande illustratore Maurits Cornelis Escher. La sua arte si intreccia con scienze esatte come la matematica e la fisica strizzando l’occhio al disegno e all’armonia che regolano madre natura. Gli osservatori ripercorrono la vita di Escher partendo dai suoi primi lavori e, sala dopo sala, affrontano un viaggio spazio – temporale in Europa, calandosi anche attivamente nelle opere di Escher grazie ad installazioni interattive. Manuela Albanese Photography
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Maurits Cornelis Escher
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nato il 17 giugno 1898 a Leeuwarden (Paesi Bassi), viaggia, fin da bambino, con la famiglia al seguito del padre ingegnere civile. Intraprende gli studi di architettura ma, dopo poco, li abbandona per seguire la carriera di grafico ed illustratore. Tra il 1925 ed il 1926 Escher si occupa dell’illustrazione della creazione del mondo e la xilografia sulla divisione delle acque è presto considerata uno dei primi capolavori di Escher. Tra il 1922 ed il 1935 Escher compie parecchi viaggi in Italia, in particolare nel sud del Belpaese, dove i suoi disegni, una volta tornato a Roma dove si era stabilito, vengono trasformati in xilografie e litografie. Nel 1931 viene pubblicato un racconto sulla “pesa delle streghe – Heksenwaag” dello scrittore Jan Walch illustrato con le xilografie di Escher (6 grandi e 13 più piccole). L’opera ha un grande successo ma, nonostante ciò, decide di non dedicarsi più all’illustrazione in quanto non vuole più adattare le sue opere alle idee di terzi, ma esprimere, attraverso la sua arte, sé stesso. Nel 1932 lavora ad Emblemata, un testo illustrato con le sue xilografie a commento di 24 massime dello scrittore G.J. Hoogerlwerff scritte in latino e commentate in olandese. Gli “Emblemi” sono una combinazione di testi e immagini didattico-moraleggianti con lo scopo di far riflettere il lettore sulla propria vita. Si tratta di un genere molto popolare nel XVIII secolo.
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Abbiamo fin qui ripercorso le tappe della biografia di Escher in quanto la mostra che abbiamo avuto il piacere di visitare si sviluppa secondo una cronologia temporale del lavoro dell’artista. Fin dalle prime sale è chiara la visione dell’autore che si sviluppa nel corso degli anni con l’approfondimento delle tecniche di stampa e i molteplici viaggi intrapresi.
Infatti l’artista spesso riesce ad ingannare l’occhio dell’osservatore grazie sia al Principio della Continuità, per il quale se una figura si ripete in serie nel momento in cui questa venga interrotta l’occhio nonostante l’inganno percepisce la continuità dell’immagine, sia mediante l’uso di superfici riflettenti, escamotage usato spesso per adattare la realtà ai suoi scopi.
La sua tecnica si affina sempre di più, sino a diventare una machiavellica celebrazione dell’ordine, della geometria e della perfezione matematica. I lavori più noti al pubblico nascono dallo studio matematico di un tema a cui si sommano l’estrema definizione e la cura dei dettagli. L’insieme porta l’occhio dello spettatore a compiere un viaggio che da una situazione iniziale definita tende all’infinito in un percorso armonico.
Il gioco e lo stupore sono il fil rouge della mostra, alle opere si alternano momenti interattivi in cui anche lo spettatore diventa protagonista calandosi fisicamente all’interno delle opere stesse.
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L’universo di Escher è caratterizzato anche dalla metamorfosi degli oggetti e degli animali. Spesso le forme astratte si trasformano in oggetti animati. Questo processo mette in luce la graduale trasformazione di uccelli in pesci o di lucertole in parti di un alveare rendendo complementari elementi tra loro antitetici (opposti) all’interno della stessa opera. Sempre collegato all’idea di metamorfosi è il concetto di chiaro e scuro, di giorno e notte, luci ed ombre ed ovviamente di pieno e vuoto come si può vedere dal vaso di Rubin, dove le parti piene evidenziano un vaso, mentre le parti vuote fanno emergere dallo sfondo chiaro dei lineamenti umani.
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Nel 1957 la Fondazione De Roos commissionò ad Escher la stesura di un testo sulla divisione regolare dei piani. Per l’autore si trattava di un mezzo per catturare l’infinito, infatti, come lui stesso afferma “un piano, che immaginiamo si estenda in tutte le direzioni, può essere riempito o diviso all’infinito, seguendo un numero limitato di sistemi, con figure geometriche simili che siano contigue in tutti i lati senza lasciare spazi vuoti”. Da qui nasce anche il concetto di buona forma, con cui si vuole indicare la capacità percettiva che tende ad organizzare gli elementi collocati su un piano, in modo da ottenere un risultato che sia il più armonico e semplice possibile, anche a costo di far scomparire l’elemento iniziale che ha dato vita all’immagine. Esempio classico sono le forme a coda di rondine che, in un susseguirsi di chiari e scuri, scompaiono facendo percepire all’occhio dell’osservatore forme diverse come rombi e quadrati.
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La vita di questo artista è scandita da una continua evoluzione del suo esprimersi sempre a seguito delle esperienze fatte e conoscenze acquisite durante i suoi viaggi. Nel 1936 il suo secondo viaggio nel sud della Spagna segna un cambio artistico importantissimo. A seguito delle visite dei monumenti di Granada e di Cordoba trae ispirazione per i suoi studi metodici dei motivi utilizzati dagli artigiani del XIV secolo. Le forme geometriche erano molto utilizzate all’epoca, la religione musulmana impediva la rappresentazione di figure animate, pertanto gli artisti usarono la tecnica della tassellatura per ricoprire le pareti dell’Alhambra. Escher, affascinato da questa tecnica lavora in modo meticoloso a 137 acquerelli, raccolti in un libro di esercizi, allo scopo di rappresentare tutti e 17 i modi possibili per riempire una superficie piana applicando le 4 regole base della tassellatura. Buona parte della produzione artistica di Escher è dedicata al tema-problema della divisione periodica del piano, detta tassellatura. Le leggi che regolano la tassellatura sono in sostanza quattro, ovvero la simmetria bilaterale intesa come riflessione, la simmetria radiata o rotazione, che ad esempio regola la forma di una margherita o di una stella marina, la simmetria di traslazione, ovvero quando si trasporta un elemento da una parte all’altra del piano e la glisso-riflessione che è una combinazione dei punti di riflessione e traslazione, come accade nella disposizione delle foglie di un ramo di ulivo. La combinazione di questi movimenti di base può produrre una serie di combinazioni pressoché infinita ed è proprio su questo principio di ripetizione infinita che si basano moltissime opere di Escher. Monica Gotta Photography
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Un capitolo a parte meritano i viaggi in Italia di Escher. Nel Belpaese trascorre circa 12 anni. Una prima visita avviene nel 1921 con i genitori e, da allora, seguono una serie di viaggi che lo portano ad esplorare il centro ed il sud del Paese. L’artista nel periodo romano aveva l’abitudine di passeggiare per le vie della città di notte, ritenendolo il momento migliore per osservare le architetture dei suoi monumenti. Dal suo girovagare sono nate una serie di xilografie che prendono il nome di Roma Notturna, caratterizzate da un'unica tipologia di tratto che a seconda della diversa densità conferisce vita alle ombreggiature. Dai viaggi in Italia Escher trae grande ispirazione e non mancano le frequentazioni con altri artisti. come, ad esempio, Joseph Haas Triverio che lo introduce nel giro delle gallerie d’arte. Escher si lascia ispirare dalla natura e lo scrive anche in una lettera spedita dalla costiera amalfitana, da Ravello, in cui dichiara testualmente “… Voglio trovare la felicità nelle cose più piccole, come una pianta di muschio … voglio copiare questi soggetti minuscoli nel modo più minuzioso possibile…“. E’ proprio in Italia che lo studio dei paesaggi e della natura rigogliosa portano Escher a concentrarsi sulle strutture geometriche che sono alla base di molti panorami ed elementi della natura.
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L’allontanamento dal Belpaese avviene solo nel 1935 a causa dell’avvento del fascismo. Escher in quell’anno si trasferisce in Svizzera perché considera il contesto politico pericoloso. Come spesso accade ai grandi artisti la notorietà non arrivò subito ma solo negli ultimi anni della sua vita. Ciò lo portò spesso a dover accettare anche lavori su commissione per poter mantenere la famiglia, eseguì progetti modesti come curare ex-libris o progettare le copertine di programmi concertistici, ma progettò anche banconote e francobolli e nel 1967 realizzò una incisione lunga ben 7 metri intitolata Metamorfosi III per l’ufficio postale dell’Aia, opera considerata ancora oggi come un vero e proprio capolavoro. Le tassellature di Escher sono anche state messe in rapporto con le fughe di Johann Sebastian Bach, l’autore stesso dichiarò di essere stato ispirato dal musicista.
Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
Nel 1956 lascia incompleta una litografia intitolata “Galleria di stampe” tentando di disegnare un’immagine che si ripetesse in sé stessa all’infinito. Solo cinquant’anni dopo un gruppo di matematici della prestigiosa Università della California, Barkeley, riuscì a completare il disegno non senza fatica. Al giorno d’oggi possiamo trovare richiami all’opera di Escher negli ambiti più diversi, dal mondo artistico alla cultura popolare alla musica pop e rock. Molti pittori contemporanei ed artisti dell’epoca digitale sono stati influenzati dal minuzioso lavoro fatto dall’incisore olandese, in molti hanno reinterpretato il suo lavoro rendendolo proprio. Molti gruppi e musicisti degli anni Sessanta hanno usato le sue immagini nelle copertine dei loro LP e anche i più blasonati stilisti come Chanel o Alexander McQueen hanno portato sulle passerelle internazionali le sue perfette geometrie.
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ESCHER
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Manuela Albanese Photography
L’ultima parte della mostra è un vero e proprio tributo internazionale al genio di Escher, le sue tassellature e la ricerca della perfezione nelle metamorfosi attraversano in modo trasversale i più disparati campi artistici, dal mondo dei fumetti alla moda, dalla musica alla pubblicità, dai film alle opere d’arte Luca Barberis Photography contemporanea. Il modo di interpretare le forme di Escher ha contagiato tutti i settori creativi e ancora oggi giorno è fonte di grande ispirazione per molti artisti.
Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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ESCHER
Giuseppe Tarantino Photography
Questa splendida esperienza all’interno di Palazzo Ducale si conclude nella Cappella del Doge. Qui è possibile ammirare gli affreschi di Giovanni Battista Carlone che rappresentano la Vergine, i Santi Protettori e gli eroi genovesi come Cristoforo Colombo e Guglielmo Embriaco, sul fondo della sala gli affreschi in trompe l’oeil di Giulio Benso che abbracciano la statua della Vergine Regina di Genova. La cappella custodisce tre sfere di diverse misure, che riflettono spettatori ed affreschi, Escher spesso utilizzava specchi convessi per i suoi studi prospettici La potenza di questo artista sta nella capacità di meravigliare un pubblico eterogeneo e di continuare con la sua fantasia a stupire generazioni diverse di artisti, matematici, designer e architetti. E’ impossibile non rimanere stupiti di fronte alla facilità con cui Maurits Cornelis Escher gioca con le forme.
Giroinfoto Magazine nr. 76
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Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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A cura di Adriana Oberto In fondo al cortile di via Alfieri 20, al primo piano, ha sede la bottega artigiana della famiglia Rosadelli. Qui dal 1959 si creano gioielli fatti a mano con cura e rigore. Il risultato è sempre unico e mai scontato – frutto di un’esperienza che è arrivata alla terza generazione.
Adriana Oberto Giancarlo Nitti Mariangela Boni
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Giancarlo Nitti Photography
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La bottega IIl cortile di via Alfieri è uno di quei tipici cortili del centro di Torino con il portone carraio e i vecchi depositi per le carrozze trasformati già da tempo in botteghe, magazzini, garages. Sulla destra, e salendo le scale, si arriva al laboratorio della famiglia Rosadelli. Sono sei stanze – ognuna con la propria “destinazione d’uso”, per così dire. Ci accoglie Paolo, che insieme a Roberto, rappresenta la seconda generazione della famiglia. Ci accoglie anche, e prima di tutto, un murale sulla parete destra del corridoio d’ingresso: rappresenta, in silhouette e in colori diversi, i membri delle tre generazioni, a partire dal nonno Enzo che tiene teneramente appoggiato al petto il capo di nonna Lidia.
Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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ROSADELLI ORAFI
Non possiamo che ammirare i gioielli nelle teche. Si tratta, come giustamente ci fa notare Paolo, di oggetti unici, ma certamente non di marchi registrati. La loro unicità risiede nel modo in cui vengono creati ed interpretati da chi li crea e non dal fatto che siano esclusivi di questo luogo. Chi viene al laboratorio della famiglia Rosadelli sa che qui troverà un oggetto personalizzato, del quale potrà scegliere la dimensione, il colore, la forma – che insomma avrà la soddisfazione di “progettare”, se lo vorrà, insieme al suo interlocutore, e non certo un oggetto prodotto in serie. I ciondoli con le iniziali, per esempio, così come gli anelli con il nome, sono prettamente artigianali, non perché non producibili in serie a priori, ma perché difficilmente proponibili in quantità, vista la caratteristica personale dell’oggetto stesso. La medaglia rotonda che viene personalizzata con i nomi dei membri della famiglia, per esempio, è una derivazione – frutto dell’intuizione degli artigiani – della medaglia con il giorno e mese di nascita sopra, il nome della persona nel mezzo e l’anno di nascita sotto, che veniva prodotta già 70/80 anni fa ed era un lavoro che faceva anche nonno Enzo per alcuni orafi di Torino. L’idea è stata mutuata dalla famiglia e sviluppata nel corso degli anni fino ad includere più nomi, ad intrecciarli, ad usare forme diverse, tra cui il cuore, ad utilizzare pietre preziose. Anche l’anello-nome è un’intuizione non esclusiva (di certo il laboratorio Rosadelli non ne è l’unico produttore), ma di certo un’intuizione vincente che mantiene da anni la sua popolarità.
Adriana Oberto Photography
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La produzione di un gioiello artigianale, insomma, non possiederà mai la perfezione di un oggetto fatto a macchina, ma si tratta – quella – di una perfezione “sterile”, per così dire, e non necessaria. Soprattutto il gioiello artigianale possiede quello che i piemontesi chiamano il “gëddo” (si pronuncia [‘gəddu]), cioè il garbo, la grazia – quel “non so che” che dà quel qualcosa di più ad un oggetto e lo rende godibile, piacevole, apprezzabile, distinguendolo da una semplice forma: per esempio, l’anello non è altro che un tubo di metallo e tale rimarrebbe (e chi vorrebbe mai indossare un pezzo di tubo al dito) se non possedesse la grazia.
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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 76
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UNA TRADIZIONE DI FAMIGLIA Enzo, il capostipite.
Nonno Enzo è mancato purtroppo qualche mese fa, ma la sua presenza è ovunque, così come il suo ricordo. Per me, che conosco la famiglia da quando ero bambina, fa un certo effetto non vederlo seduto al bancone mentre lavora. Paolo ci racconta la sua storia. Enzo era figlio di Giovanni, che lavorava come maggiordomo presso una famiglia di marchesi. Al tempo i dipendenti venivano trattati veramente bene, considerati in un certo qual modo come persone di famiglia e li si aiutava volentieri, quando possibile, nei percorsi di vita. Quando Enzo compì 14 anni si pose il problema della scelta lavorativa: la marchesa suggerì che divenisse orafo e lo portò dal suo orafo di fiducia perché ne diventasse apprendista. Ad Enzo la scelta piacque e, anzi, si ritrovò portato per quel lavoro; studiò alla scuola orafi, che al tempo era serale e dove si diplomò con ottimi voti. Amava la scuola, che rappresentava il meglio dell'insegnamento. Vinse nel frattempo molti concorsi di disegno. Al tempo, infatti, tutti i progetti venivano disegnati e dipinti a mano; molti di questi disegni sono ancora qui e vengono conservati gelosamente nella cassaforte di famiglia. La scuola orafi rimase un punto fermo nella sua vita: al tempo chi vi insegnava era non solo maestro nel proprio mestiere, ma lo faceva per passione e per il dovere/piacere di tramandare il proprio sapere alle nuove generazioni. Lo stesso Enzo faceva parte del corpo insegnante e, negli ultimi anni, ne fu anche il presidente.
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Adriana Oberto Photography Enzo cominciò a lavorare come orafo nel 1948/49. Aprì il suo laboratorio nel 1959 con i soldi presi in prestito dalla moglie Lidia per comprare abbastanza oro con cui incominciare e utilizzando quel poco che aveva per acquistare l’attrezzatura. A quei tempi si faceva così e ci si aiutava: non era difficile trovare negozi o altri orafi che, sapendo che avevi bisogno di lavorare e conoscendo le tue abilità e il tuo livello, ti tenevano del lavoro da parte. Lui lavorava in una soffitta che aveva preso in affitto lì vicino e a poco a poco si fece il nome e guadagnò abbastanza per comprare casa e crescere la propria famiglia. Si lavorava al tempo poco per i privati e molto per i negozi, ma Enzo fu lungimirante nello scegliere, quando poté, di lavorare e crearsi la propria clientela, rifiutando anche un posto in un negozio dove sarebbe stato alla guida di un laboratorio e avrebbe avuto personale sotto la sua supervisione. La clientela, che all’inizio era costituita in parte dagli amici della Marchesa, crebbe e si fidelizzò. Non venivano magari “tutti e per tutto”, nel senso che ci si rivolgeva a diversi artigiani a seconda dell’importanza del lavoro da eseguire, ma nel corso degli anni il laboratorio orafo della famiglia Rosadelli si sviluppò e si specializzò. Enzo, infatti, all’inizio era esclusivamente un orafo: tutte le altre attività (lucidatura, rodiatura, incastonatura, incisione, l’esecuzione di catene) erano al tempo attività satellite; ognuno faceva la sua parte nella creazione del gioiello finito.
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Paolo e Roberto gli attuali titolari
Con l’entrata nel laboratorio dei figli Paolo e Roberto, che si sono specializzati anche in questi mestieri, si è riuscito ad evitare di affidare questi lavori a persone esterne. È stata una scelta vincente, non solo perché ha permesso di mantenere il lavoro in famiglia e abbassare i costi, ma anche perché al giorno d’oggi questi mestieri non esistono praticamente più e sarebbe dunque impossibile lavorare come si faceva un tempo. Se è vero che entrambi conoscono il proprio mestiere e sanno gestire la lavorazione dall’inizio alla fine, ognuno ha il suo campo di preferenza: per esempio Roberto è un esperto nell’incastonatura a granino e filetto e Paolo in quella battuta o all’inglese.
La terza generazione
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Alessandro è entrato nel laboratorio subito dopo aver terminato gli studi al liceo artistico e vi lavora ormai già da 10 anni; anche Federico si è aggiunto alla squadra subito dopo il diploma. Chiara è arrivata alla fine di un percorso più lungo, ma è bello pensare che tutti e tre portino avanti il lavoro della famiglia. L’unico a non essere presente fisicamente è Stefano, 24 anni, che studia al Politecnico e in ogni caso non manca di contribuire con idee e conoscenze tecniche. La famiglia Rosadelli porta avanti la sua passione da più di sessant’anni. Insieme hanno attraversato periodi propizi e altri di crisi. Ora le cose stanno, in effetti, nonostante il periodo in cui ci troviamo, andando meglio. Questo perché questo tipo di lavoro artigiano sta diventando sempre più raro e di conseguenza apprezzato. Ciò che si fa nel laboratorio torinese è stato tramando tra i membri della famiglia ed è sempre rimasto in questo ambito.
Oggi siamo alla terza generazione; così come Roberto e Paolo non sono mai stati forzatamente “coinvolti” da papà Enzo nel lavoro di famiglia, ma hanno scelto di parteciparvi per passione, ora anche i loro figli portano avanti la tradizione. Sono Chiara, Alessandro e Federico, rispettivamente di 33, 29 e 19 anni.
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I processi di lavorazione Paolo ci accompagna e ci mostra i macchinari e i processi di lavorazione. Passiamo così nelle stanze sul retro, dove troviamo molta dell’attrezzatura usata per la lavorazione dell’oro. Uno dei macchinari è quello per il bagno galvanico. Questo serve a far diventare più bianco e brillante l’oro bianco; infatti, questo è composto da oro puro – giallo – unito ad una lega che lo fa diventare bianco, ma il risultato ottenuto è in realtà grigio. Il bagno galvanico lo rende brillante. Il metodo, chiamato rodiatura, è un trattamento superficiale, che usando un sale del rodio e tramite elettrolisi riveste uniformemente l’oro di un sottilissimo strato di questo metallo (il rodio appartiene al gruppo del platino). A questo si deve la brillantezza.
Il macchinario successivo è un iniettore di cera. Serve a creare i modelli di cera senza farli a mano e viene utilizzato per oggetti massicci che non si potrebbero realizzare altrimenti. Non mancano il pantografo, l’affilatrice (per i bulini, per esempio), il buratto (che girando lucida). Un macchinario moderno, che ha migliorato di molto il metodo della pressofusione è quello che esegue la colata del metallo in ambiente controllato. Oggi i giovani non pensano di creare un oggetto a partire dal pezzo grezzo, girandolo e saldandolo per ottenere il lavoro finito, ma lo immaginano, per esempio, scavandolo dalla cera, e quindi per fresatura di un tubo, oppure creato in 3D, cioè stampato da disegno CAD. Con questo metodo si ottiene un’immagine 3D in resina o materiale “castabile”, da cui viene creato il gioiello tramite il metodo della pressofusione. Una volta, invece, si colava a mano l’oro fuso dentro un cilindro che conteneva il calco di gesso dell’oggetto da ottenere. La macchina usa un’atmosfera modificata per evitare l’ossidazione e ne controlla la pressione per evitare imperfezioni nella colata (evita eventuali e indesiderati pori). Certo non è come colare, come si faceva anni fa e metodo di cui ha avuto esperienza Paolo quand’era ragazzo, nell’osso di seppia. L’osso di seppia agisce come calco, essendo malleabile: stringendo fortemente la forma da replicare tra due ossi di seppia, ne rimaneva la sagoma; qui veniva colato il metallo fuso (con il fortissimo e conseguente odore emanato dall’osso stesso), che richiedeva, una volta solidificatosi, un lungo lavoro di limatura e correzione per ottenere l’oggetto finito. Al giorno d’oggi non si usa più l’osso di seppia, ma sì il calco di gesso, che viene inserito nei cilindri di metallo. Il gesso viene miscelato tramite altro macchinario, che ne permette una miscelatura sottovuoto e lo inserisce nei cilindri.
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La lavorazione artigianale inizia dalla fusione del metallo. Assistiamo così alla creazione di un lingotto. Il metallo viene portato ad alta temperatura grazie ad una miscela comburente formata da gas propano e ossigeno; l’ossigeno permette di accentuare la fiamma generata dal cannello, in modo da velocizzare il processo di fusione del metallo. Nel laboratorio della famiglia Rosadelli non ci sono bombole di ossigeno, per ragioni di sicurezza (visto che l’ossigeno è altamente infiammabile). Si usa invece un concentratore di ossigeno, che produce il gas nel momento in cui viene usato. Il processo di fusione è forse uno dei più apprezzabili dal punto di vista fotografico, per i colori che si sprigionano dalla fiamma al di sopra del metallo rovente. Il metallo, che si trova nel piccolo crogiolo, viene colato inclinando lo stesso e facendolo scivolare nella forma. Ne risulterà un lingotto.
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Dal lingotto di metallo si procede al laminatoio, che lo schiaccia, oppure lo trasforma in un filo quadrato, più o meno spesso. Un laminatoio si trova proprio al centro della stanza ed è composto da coppie di rulli a vite senza fine, con passo di dimensione diversa, attraverso le quali viene fatto passare il metallo. Se si desidera invece ottenere una lastra i rulli accoppiati sono lisci. Il laminatoio può essere ovviamente a mano (come questo), oppure a motore. Laminare a mano può sembrare una cosa semplice, ma in realtà non lo è, perché far passare pezzi di metallo piuttosto spessi richiede molta forza; dipende anche dal tipo di metallo: per esempio l’oro bianco è molto più duro. Una volta passato nel laminatoio, la barretta di metallo può essere trafilata, per farla diventare, appunto un filo di sezione rotonda. Nella stanza attigua c’è proprio una macchina trafilatrice che “tira”, allungandola, la barretta di metallo, facendola passare attraverso i fori della filiera (anche chiamata trafila e costituita da materiale molto duro, tipo la ghisa), dal più grande e fino a raggiungere lo spessore desiderato. L’oro è un metallo molto duttile, che viene lavorato a freddo, ma che ogni tanto viene di nuovo riscaldato. Questo processo si chiama “ricottura”: lo si riporta a 600/700 gradi, in modo che torni “morbido”, cioè duttile. Dicono che con un grammo di oro puro si possa ricavare un filo di due chilometri di lunghezza. Ovviamente qui non si arriva a tanto: si parla, più realisticamente, di qualche metro. Giancarlo Nitti Photography
Lorena Durante Photography
Giancarlo Nitti Photography
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Nel laboratorio ci sono anche pezzi “storici”, come lo strumento per l’imbutitura con cui si batte il metallo per dargli una forma, o le castoniere, che aiutano, per esempio, a fare un castone quadrato o rettangolare. A questo punto si passa al banchetto, dove si lavora il metallo per dargli la forma desiderata e creare il gioiello che si desidera. Uno dei lavori fatti al banchetto è la saldatura. A differenza del metodo di pressofusione, che restituisce un oggetto in gran parte finito, qui assistiamo alla produzione di un oggetto a partire dal materiale grezzo. Paolo sta creando un anello (per esempio una fede) lavorando un pezzo che è stato in precedenza laminato e piegato su se stesso; lo taglia poi con una sega nel punto voluto e procede alla saldatura per unire i due punti finali. Per fare ciò si usa il metodo della brasatura: viene applicata una lega, interposta tra le parti da saldare. Il calore applicato è quello del gas metano (attraverso il cannello) e per fondente viene usato il borace, che consente l’abbassamento del punto di fusione del metallo e svolge allo stesso tempo una funzione antiossidante, sciogliendo quegli ossidi eventualmente presenti sul metallo; come comburente si usa l’aria soffiata da un mantice a pedale.
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Una macchina che ha rivoluzionato l’oreficeria è la saldatrice a laser. Basta avvicinare due oggetti, puntare esattamente il luogo da saldare, e la macchina esegue. È ovviamente “molto poco artigianale” (eufemismo con cui la definisce Paolo), ma permette di fare velocemente le puntature, che una volta venivano fatte con il metodo delle legature, che era sì molto bello da vedere, perché col fil di ferro andavi a costruire degli accrocchi per tenere due pezzi attaccati, ma molto più laborioso. Con questa macchina queste si possono evitare: si avvicinano i due oggetti, si dà un piccolo punto di saldatura, che può essere rimosso e ripetuto se non soddisfacente, e poi si salda a fiamma come ci è stato mostrato. Non si perde il carattere di artigianalità dell’oggetto, ma se ne aiuta e sveltisce la produzione. La macchina permette inoltre di effettuare riparazioni che sarebbero altrimenti impossibili o molto costose; un esempio è la necessità di allargare un anello con una o più pietre incastonate e delicate come lo smeraldo che non tollerano alte temperature: con la saldatura a fiamma sarebbe necessario rimuovere prima le pietre e poi incastonarle di nuovo (cosa tra l’altro altamente difficile se si tratta di oro bianco), il che renderebbe il lavoro troppo costoso per una semplice allargatura. Con questa macchina è sufficiente tagliare, aggiungere un tassello e unire i due pezzi; una volta si consigliava al proprietario, che sarebbe stato altrimenti obbligato a pagare un prezzo troppo alto, di indossare semplicemente l’anello su un altro dito.
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Una volta saldato, l’anello viene battuto, limato, o può essere lavorato col traforo (per esempio se si tratta di un anello con nome). Oppure può essere incastonato. Ce lo fa vedere Roberto, che usa un microscopio per vedere con precisione il luogo dove inserire il brillante. Il microscopio è così preciso che in realtà viene usata una lente che dimezza l’ingrandimento effettuato dalla macchina. È necessario all’inizio adattare l’occhio, perché la profondità di campo è molto bassa, ma una volta che ci si abitua è possibile apprezzare la precisione acquisita. Consente inoltre di individuare eventuali minuscole imperfezioni, che non sono percepibili all’occhio umano. C’è ancora un locale nel laboratorio: è quello che viene usato per accogliere magari un cliente importante e che ospita alcuni oggetti storici relativi alla professione. Ci sono, per esempio, un trapano a mano, un cannello a bocca, che veniva usato per la saldatura, una bilancia e un misura-dito antico, compassi, soffietti ed attrezzi vari della tradizione orafa; si tratta insomma di un piccolo museo di attrezzi antichi. C’è anche una bellissima cassaforte di fattura spagnola del XVIII secolo che contiene, tra l’altro, i bellissimi disegni a colori dei gioielli, tra cui quelli realizzati dal nonno Enzo nel corso degli anni. Anche da questi, come dalle mani che tagliano, battono, limano, lucidano, si intuiscono la passione e la cura che vengono posti nella creazione artigiana. Tradizione che è stata e viene ancora tramandata di padre in figlio, di generazione in generazione, e che costituisce un patrimonio inestimabile che meriterebbe di essere supportato e valorizzato. [foto delle mani che tagliano, battono limano, lucidano…]
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A cura di Mariangela Boni
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Barbara Tonin Fabrizio Rossi Giancarlo Nitti Mariangela Boni Maria Grazia Castiglione Massimo Tabasso
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“In tutte le cose della natura c’è qualcosa di meraviglioso” sosteneva Aristotele. Meraviglia e stupore sono proprio i sentimenti che ci colgono di fronte alle colonne di erosione o, come dicono in piemontese, “ciciu ‘d pera” ovvero “fantocci di pietra”, della Riserva Naturale nel Comune cuneese di Villar San Costanzo. Si tratta di un’area protetta istituita nel 1989 dalla Regione Piemonte che si estende per 64 ettari a un’altitudine tra i 670 m e 1350 m, in Val Maira, ed è visitabile tutto l’anno. La natura qui si è sbizzarrita a “scolpire” una serie di piramidi di terra, la cui forma ricorda dei funghi, di varie dimensioni, singole o in gruppo. Da un censimento effettuato nel 2000 da Alberto Costamagna, ricercatore dell’Università di Torino, risultano ben 479 formazioni rocciose con un’altezza che varia dal mezzo metro ai 10 m e un diametro che oscilla tra uno e 7 m.
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I cappelli sono costituiti da massi erratici di gneiss occhiadino (una roccia metamorfica a composizione quarzosofeldspatica di origine magmatica tipica del Massiccio DoraMaira) che si sono distaccati dal monte San Bernardo e sono franati, molto probabilmente, a causa di eventi sismici. Mentre i gambi sono composti dai depositi alluvionali compatti costituti da ghiaia in matrice sabbiosa e limosa che virano verso un colore rossiccio per via della presenza di ossidi e idrossidi di ferro.
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Ma come e quando si sono formati i ciciu? Partiamo dalla versione scientifica. Siamo alla fine dell’ultima era glaciale, circa 12.000 anni fa, i ghiacciai si sciolgono e, conseguentemente, il torrente Faussimagna esonda erodendo le pendici del monte. Un’enorme massa di detriti viene portata a valle, formando un conoide alluvionale. Si susseguono frane e terremoti e dalla montagna si staccano massi di gneiss. Il Faussimagna inghiotte anche quelli. Ma, nel Pleistocene superiore, violenti movimenti tettonici sconvolgono nuovamente la fisionomia del territorio. Il terreno si innalza e il fiume si ritrova più in basso. Riaffiorano i massi di gneiss, levigati e arrotondati dall’acqua, e fungono da protezione al terreno sottostante, preservandole dall’azione erosiva del fiume e delle piogge. E così emergono progressivamente delle “colonne incappucciate”: i ciciu.
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Ancora oggi è in atto l’azione erosiva ma in modo quasi impercettibile. Certo, quando le colonne di terreno si assottigliano troppo, il cappello rovina al suolo lasciando il gambo scoperto ed esposto a un’erosione più rapida. Il masso di gneiss caduto proteggerà una nuova colonna di terreno che darà vita a un nuovo ciciu. I Ciciu del Villar sono gli unici esemplari conosciuti al mondo di strutture morfologiche formatesi in ambiente di conoide alluvionale. Altre strutture simili sono i camini delle fate in Cappadocia dove le rocce sono di origine vulcanica e l’agente erosivo prevalente è il vento.
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Oltre alla versione scientifica ci sono anche diverse leggende sulla loro origine che hanno per protagonisti streghe e santi. Alcune narrano che i ciciu siano opera delle “masche”, la versione della strega nel folklore piemontese, che li creano nottetempo grazie a degli incantesimi. A ltre che siano delle masche stesse trasformatesi in pietra per via di un sabba finito male a causa di un uragano che lo ha interrotto. Versione quest’ultima che non collima con la tradizione secondo la quale le masche, a differenza delle streghe, non comunicavano con il demonio e non si dedicavano a sabba.
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Ma le leggende più diffuse sono quelle che riguardano San Costanzo, un soldato romano della legione tebea, inviata nel 286 d.C. dall’imperatore d’Oriente Diocleziano nel territorio tra Colonia e il versante settentrionale delle Alpi. Cristiani di origine egiziana si rifiutarono di eseguire il comando di uccidere alcuni abitanti dell’attuale Canton Vallese convertiti al Cristianesimo. Il gesto di insubordinazione scatenò l’ira dell’imperatore che ne ordinò la decimazione. Costanzo si rifugiò in Val Maira dove fu tra i primi evangelizzatori nelle vallate cuneesi. Mentre stava fuggendo dai suoi persecutori, giunto alla Costa Pragamonti, si voltò urlando: “Oh empi incorreggibili, oh tristi dal cuore di pietra! In nome del Dio vero vi maledico. Siate pietre anche voi!”. E così cento soldati romani furono trasformati in pietra. San Costanzo venne martirizzato tra il 303 e il 305 d.C. sulla collina che sovrasta Villar.
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Un’altra versione è che un giovane Costanzo volesse costruire una chiesa per gli abitanti della zona. Per farlo, di notte utilizzava i buoi del padrone per trasportare pietre e legname, su in cima alla collina che domina Villar. Alcuni spioni riferirono al padrone il quale lo seguì di sottecchi e vide, con sommo stupore, che durante il suo tragitto il ragazzo faceva comparire un ponte sul fiume Maira con il semplice tocco di un bastone. Ciononostante, in prima battuta, proibì al ragazzo di utilizzare i suoi buoi. Gli animali dimagrirono improvvisamente e il padrone cambiò idea. Altri tentarono di ostacolarlo, impedendogli di raccogliere le pietre dal fiume. Costanzo per difendersi lanciò loro una manciata di sabbia e si pietrificarono. Il giovane riuscì a portare a termine la costruzione arrivata ai giorni nostri e che ovviamente porta il suo nome: il Santuario di San Costanzo al Monte.
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Spiegate le origini dei ciciu, torniamo alla visita. Esiste il percorso turistico e didattico “Ciciuvagando”, della durata di 45 minuti, lungo il quale sono disseminati diversi pannelli illustrativi. Da questo percorso se ne dirama uno escursionistico più impegnativo che si snoda lungo la Costa Pragamonti della durata di due ore. Per chi vuole spingersi oltre, aggiungendo un’ora di cammino, può raggiungere il Colle della Liretta da dove i più impavidi si lanciano con deltaplani e parapendii. C’è anche la possibilità di praticare il bouldering, ovvero un’arrampicata libera di pochi passaggi ma estremamente difficoltosi che, ovviamente, non si pratica sui ciciu ma su rocce ai confini della riserva. Passeggiando lungo i sentieri apprendiamo che il territorio, un tempo oggetto di coltivazioni, sta vivendo un periodo di ricolonizzazione. E così si possono osservare specie arboree quali: acero montano, betulla, castagno, pioppo tremulo e quercia. Oppure la vegetazione termofila, come la ginestra, favorita dall’esposizione a sud con estati secche e inverni miti. Sono stati piantati piccoli boschi di conifere, piante da frutto e ornamentali.
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Diversi gli animali presenti nel territorio. Tra i mammiferi, se avete fortuna, potreste imbattervi in volpi, cinghiali, caprioli, tassi, faine, donnole e scoiattoli. Ma non dimenticate di guardare anche ai vostri piedi, potreste scorgere qualche serpente come il biacco, la natrice dal collare, la vipera comune e la coronella. Scrutate anche i ruscelli e le pozze d’acqua, dove potreste vedere che effetto si prova a camminare in mezzo ai giganti intravedere degli anfibi come la salamandra o il tritone. Infine, di pietra. per gli amanti del bird-watching, si possono avvistare diverse specie di uccelli. E se visitando questo luogo si accende in voi il desiderio di vedere altri luoghi simili con piramidi di terra sappiate che ce Per citarne alcuni: il picchio muratore, il picchio rosso minore, ne sono sia in Italia, a Segonzano (Trento), Cislano (Brescia) il picchio verde, il codibugnolo, il fiorrancino, il regolo e la e Postalesio (Sondrio), sia all’estero come i camini delle fate cincia. della Capadocia o la Ciudad encantada nei pressi di Cuenca. Non mancano i rapaci quali: la poiana, il falco pellegrino, la civetta, l’allocco e il barbagianni. Una passeggiata quindi adatta a tutti, per gli amanti della natura e della geologia o per semplici curiosi, che vogliono
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CICIU DEL VILLAR
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A cura di Giacomo Bertini
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Storia e arte contemporanea
Giacomo Bertini Luca Bonuccelli
Le prime testimonianze della presenza di un insediamento umano sul colle che domina la valle dell’Era, risalgono al primo millennio a.C. e sono riferibili a popolazioni etrusche. Solo nel 793 d.C. si hanno le prime attestazioni certe del nome dato al luogo grazie al ritrovamento di una pergamena dove si legge il nome di Petiole, che deriva probabilmente dal termine latino “picea” che indica una qualità di pino selvatico. Informazioni storiche più esaurienti si hanno dopo la prima metà del sec. XI, in un documento datato 1061, in possesso della badia di Poggibonsi, nel quale si parla di una donazione del Marchese Alberto del fu Obizzo, dove si fa riferimento anche alla località Petiole posta sull’Era. Come di consueto anche per altri agglomerati abitativi, lo sviluppo del borgo iniziò intorno al castello, proprietà dei Conti della Gherardesca, i quali, oltre al castello stesso, vantavano molte altre proprietà nei dintorni. Giroinfoto Magazine nr. 76
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Nel XII secolo il borgo fu ceduto al vescovo di Volterra, il quale, in lotta contro l’espansionismo pisano, trasformò il paese in un baluardo difensivo della vicina città di Volterra, con la creazione di solide fortificazioni. Nei decenni successivi divenne un luogo animato da contrasti politici e militari fino a quando venne riconsegnata ai pisani sotto la condizione dell’abbattimento delle mura. Nel 1406, alla capitolazione della repubblica pisana, Peccioli si sottomise alla repubblica di Firenze sotto il cui dominio rimase fino all’unità d’Italia, condividendo le sorti di quello che nel frattempo era divenuto il granducato di Toscana. quali, oltre al castello stesso, vantavano molte altre proprietà nei dintorni.
Durante il periodo granducale, oltre a continuare a essere lacerato da contrasti e lotte politiche relative al governo cittadino, la cittadina fu interessata da modifiche e ampliamenti edilizi di rilevante importanza, che, ancora oggi, attraggono l’interesse di tecnici e storici. La costruzione della gran parte delle fortificazioni è attribuita al condottiero lucchese Castruccio Castracani, signore di Lucca dal 1316 al 1328, durante il breve periodo in cui egli dominò anche su Pisa.
Giacomo Bertini Photography Tra gli altri interventi va ricordata la costruzione della rocca sul poggio della "Castellaccia", probabilmente sulle stesse fondamenta di quella che i Pisani avevano fatto abbattere circa due secoli prima. La nuova fortificazione era costituita da due imponenti torrioni in cotto, collegati tra loro da un solido ponte in muratura. Col passare del tempo l’importanza strategica del borgo di Peccioli e delle sue fortificazioni andò sempre più scemando fino ad annullarsi, come è facilmente intuibile. Tuttavia, durante la Seconda guerra mondiale, la cittadina si trovò purtroppo coinvolta in vicende belliche ben più sanguinose.
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Furono infatti gravissime le perdite di vite umane e pesanti furono i danni materiali. A memoria di quei tragici eventi si trovano, sparsi un po’ ovunque, molte lapidi e monumenti che riportano date e nomi dei caduti.
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Benché negli ultimi secoli Peccioli sia stato un comune con una popolazione sostanzialmente stabile di circa 5000 abitanti, il territorio gode di una florida economia propria, basata sulla produzione agricola e in particolare sulla coltivazione dei cereali, della vite e dell’olivo. Altre risorse, di particolare importanza nel passato, erano costituite dall’allevamento di ovini e dall’apicoltura. Un testo del XVIII secolo mette in risalto proprio l’apicoltura come attività significativa della cittadina che, proprio per questo, veniva considerata come uno dei centri più importanti del vicariato di Lari.
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Nonostante la profonda crisi del settore primario registrata negli ultimi decenni, ancora oggi Peccioli rimane un importante centro agricolo dove, però, si registra anche un incremento nel settore manifatturiero in cui è impiegata più della metà della popolazione attiva. Infatti, molte sono le industrie presenti: dalla trasformazione dei prodotti agricoli, ai calzaturifici, alle aziende produttrici di capi di abbigliamento e, soprattutto, numerosissimi i laboratori per la lavorazione del legno e la produzione del mobile. All’interno del centro storico si trova un'unica via centrale popolata da piccole botteghe e negozi, frequentata da numerosi turisti, oltre che dagli abitanti del posto. Tra i prodotti più caratteristici e ricercati vi sono carni ed insaccati di altissima qualità, vendute dalle piccole macellerie locali che si riforniscono negli allevamenti vicini. Sempre nella scia della tradizione che viene tramandata nei secoli, si trovano aziende agricole che producono vino e olio extravergine d’oliva, esprimendo al meglio l’eccellenza della Toscana grazie ai marchi DOC e IGT.
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A Peccioli non mancano buone strutture ricettive, ma la cittadina ha qualcosa in più: è anche quello che potremmo definire un luogo d’arte. Un luogo dove artisti di ogni genere e di varie nazionalità si sono impegnati a realizzare le loro opere collocate in tutto il contesto urbano, creando un rapporto di arte e cultura in piena armonia con il contesto sociale del posto, facendo a buon diritto conquistare a questo comune il titolo di “piccola capitale italiana dell’arte contemporanea”.
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A Peccioli non mancano buone strutture ricettive, ma la cittadina ha qualcosa in più: è anche quello che potremmo definire un luogo d’arte. Un luogo dove artisti di ogni genere e di varie nazionalità si sono impegnati a realizzare le loro opere collocate in tutto il contesto urbano, creando un rapporto di arte e cultura in piena armonia con il contesto sociale del posto, facendo a buon diritto conquistare a questo comune il titolo di “piccola capitale italiana dell’arte contemporanea”.
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Passeggiando per il centro del paese e percorrendo gli angusti “chiassi” (termine che indica gli stretti vicoli del borgo) ci si può imbattere nelle opere degli artisti Elisabetta Cardella, Massimiliano Precisi e Luca Serasini, si sono espressi rivisitando in chiave contemporanea alcune antiche opere locali, utilizzando a complemento anche “fili di luce” che si illuminano al nostro passaggio. Questa espressione artistica, non di facile intuizione, la si comprende molto bene solo addentrandosi, senza fretta, all’interno di queste viuzze, che inizialmente appaiono come luoghi bui e privi di particolare attrattiva, ma che, a poco a poco, si illuminano grazie a delle fotocellule rendendo così visibili tutte le opere esposte.
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Un’importante opera che conquista lo sguardo anche solo di chi passa in auto è Endless Sunset realizzata nel 2020 da Patrick Tuttofuoco, ideata per valorizzare e dare valore artistico alla passerella panoramica in acciaio che collega il borgo medievale con la parte nuova del paese. Attraversandola la vista domina su tutta la piana e nelle giornate ventose, arrivati all’estremità più lontana che si affaccia sulla vallata, si vivono anche sensazioni più forti.
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Nel 2013 il Comune acquisisce la proprietà di un edificio storico, inaugurato nel 1927 dagli impresari edili Oreste e Dino Passerotti, che diedero vita al Cinema Passerotti che divenne fin da subito il riferimento culturale del paese ospitando anche rappresentazioni teatrali. Grazie a questa acquisizione il comune ha potuto dare il via ad un’opera di restauro e valorizzazione, riportando il vecchio cinema a essere nuovamente uno spazio fruibile da tutta la comunità, arricchendolo con le opere dell’artista Dai Yujie. Persino il parcheggio multipiano non è sfuggito alla tendenza alla valorizzazione artistica dei luoghi che caratterizza il paese. L’artista Federico De Leonardis interviene nel tessuto urbano di Peccioli con l’opera Fessura e Contravvento che si può ammirare sia da vicino, attraversando i piani del parcheggio per raggiungere la passerella panoramica, che dall’alto, da dove è possibile cogliere tutta la complessità dell’opera nelle sue caratteristiche di realizzazione. Grazie a quest’ultimo angolo visuale si vede molto bene un muro diagonale inclinato che fende il terreno e l’architettura del parcheggio e grandi lastroni di cemento, con l’aspetto di pietra lavica, che appaiono fagocitare cavi d’acciaio così come farebbe la colata di un’eruzione vulcanica. La struttura in mattoni dell’ascensore, ideata come una torre medievale, è anch’essa caratterizzata da linee interrotte e frastagliate; nella parte alta sono inseriti due lastroni e in una parete è visibile uno squarcio.
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Salendo dal parcheggio multipiano ci si trova di fronte a una parete che guarda sulla vallata, opera di Vittorio Corsini, il quale ha tratto ispirazione dalla vastissima letteratura e dalla ricerca scientifica dedicata all’importanza dello sguardo: sulla struttura, infatti, sono collocate delle tavolette di legno di diverse dimensioni, che raffigurano occhi con diverse caratteristiche: azzurri, marroni, giovani, saggi, brillanti, allegri, astuti, malinconici, provati e speranzosi. Come in ogni forma di lettura artistica non resta che posizionarsi di fronte alla parete e dare una propria lettura a questa meravigliosa opera : Lo sguardo di Peccioli.
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Tra le opere d’arte disseminate nel paese se ne trova una che, al di là del suo valore artistico, è nel cuore dei cittadini per essere un omaggio allo scomparso artista ed ex assessore comunale Giorgio Gremignai. Si tratta di una tela di dieci metri che raffigura in modo casuale i simboli della civiltà rurale e contadina legata all’antica tradizione mezzadrile. L’opera Con gli occhi di Giorgio Gremignai è stata realizzata per volontà dell’Amministrazione comunale con Vittorio Corsini e collocata sulla terrazza del Centro Polivalente.
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In modo sorprendente e inaspettato, alla fine di un vicolo, sul lato est del paese, si viene accolti da una terrazza panoramica che si affaccia nel vuoto della vallata, costruita in stile moderno, ma inserita molto bene nel paesaggio circostante. Si tratta del Palazzo Senza Tempo, un palazzo ristrutturato su disegno dell’architetto Mario Cucinella che ospita numerose mostre temporanee e permanenti. Storicamente alcuni documenti datano alla prima metà del 1400 la nascita della fattoria e del palazzo di via Carraia, di cui era proprietario Giovanni Falcucci, procuratore della nobile famiglia fiorentina Salviati.
Dopo essere stato rilevato nel corso del tempo da altre famiglie importanti e da varie società, nel 2004 fu acquisita dal Comune di Peccioli e dalla Fondazione Peccioli per - Belvedere S.p.A., che insieme hanno realizzato questa importante opera di riqualificazione, permettendo di donare un luogo destinato a iniziative culturali e artistiche a disposizione della collettività.
Nella vicina frazione di Ghizzano un progetto, realizzato nel 2019, ha permesso all’artista, fotografo e scultore David Tremlett di realizzare una serie di disegni murali sulle facciate delle case, con la prevalenza dei colori marrone e verde che ben si amalgamano ai colori delle dolci colline che circondano il paese. Questo, progetto di arte contemporanea a cui è stato dato il nome della via che lo ospita, cioè Via di Mezzo, ha dimostrato anche il grande coraggio degli abitanti che vivono nelle case coinvolte nell’iniziativa, nel sacrificare le proprie preferenze estetiche a vantaggio di un’unica modalità di espressione collettiva. Le opere d’arte che il comune di Peccioli ospita, sia all’aperto che in luoghi chiusi, sono ancora molte: tra esse possiamo ricordare Il tempio del vento, Biblioteca Comunale e Archivio Fonte Mazzola, Il silenzio delle piante, Light Mood, Anfiteatro di Fonte Mazzola e Welcome to Peccioli a firma di Giugiaro oltre a molte altre ancora che fanno di Peccioli una vera e propria piccola capitale italiana dell’arte contemporanea.
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