N. 77 - 2022 | MARZO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.77 - MARZO 2022
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COLLEZIONE BRANCA Band of Giroinfoto PLANETARIO TORINO Band of Giroinfoto
YALA NATIONAL PARK SRI LANKA Band of Giroinfoto
CARNEVALE VIAREGGIO Band of Giroinfoto Photo cover by Isabella Cataletto
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Oggi Ed ecco entrati nel sesto anno di redazione di Giroinfoto Magazine. Le difficoltà degli ultimi due anni relative alla pessima gestione sociopolitica sono cresciute, intralciando il libero sfogo editoriale limitando le prerogative della rivista nello sviluppo culturale e turistico in aiuto dei territori. Nonostante tutto, e grazie all'impegno di tutti i nostri collaboratori, il progetto Giroinfoto.com non si arresta, anzi, combatte con tutte le proprie forze per pubblicare articoli utili alla valorizzazione dei territori bisognosi di visibilità. In questo periodo storico, dove tutto è ormai convertito al mondo digitale, risulta talvolta anacronistico volersi concentrare su un progetto cartaceo, sia per motivi di convenienza economica che di divulgazione. Da qui la decisione di mantenere il magazine con un format "tradizionale" per il mantenimento della qualità comunicativa, evolvendolo alla digitalizzazione favorendo la fruizione. In ultimo, vorrei ringraziare anche tutti i nostri lettori che crescono continuamente sostenendo il progetto Giroinfoto. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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ANNO VIII n. 77
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20 Marzo 2022 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
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COLLEZIONE BRANCA
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SISTEMA LINGOTTO
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CARNEVALE DI VIAREGGIO
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COLLEZIONE BRANCA Milano Band of Giroinfoto
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SISTEMA LINGOTTO Torino Band of Giroinfoto
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CELLENO Il Borgo fantasma Adriana Oberto
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VIAREGGIO Cittadella del Carnevale Band of Giroinfoto
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THE MAST COLLECTION Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia Fondazione MAST
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PALERMO STREGATA
PALERMO STREGATA Storie e misteri al tempo dell'inquisizione Band of Giroinfoto
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MUSEO DELLA CARTA Genova Band of Giroinfoto
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PLANETARIO TORINO E luce fu Band of Giroinfoto
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YALA NATIONAL PARK Sri Lanka Giancarlo Nitti
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MUSEO DELLA CARTA
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COLLEZIONE BRANCA
A cura di Isabella Cataletto e Mari Mapelli Giroinfoto Magazine nr. 77
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Isabella Cataletto Manuel Monaco Mari Mapelli
MILANO Già all’entrata di Via Resegone 2 a Milano, nei pressi dell’antico quartiere industriale e popolare della Bovisa, si ha l’impressione di ritrovarsi in un luogo di austero lavoro.
Non vi è una moderna reception realizzata da qualche famoso architetto o designer in sintonia estetica con i dettami della moda del nuovo millennio, ma una semplice guardiola con un cortese e vigile addetto che svolge il proprio lavoro. Solo di fronte alla guardiola è posta una sobria vetrina che mostra all’interno, in fila una dopo l’altra, le bottiglie dei famosi liquori prodotti dalla Fratelli Branca Distillerie.
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COLLEZIONE BRANCA
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Il Dr. Marco Ponzano, Responsabile della Collezione raccolta nel Museo Branca, riceve con cordiale cortesia e conduce all’interno dello stabilimento da un antico androne dove si arrampica un’elegante scala in marmo con le ringhiere in ferro battuto, al di sopra di un’anticamera sovrastata dallo striscione che celebra 170 anni delle Distillerie Fratelli Branca. Al termine della scala, in una piccola sala, è collocata una grande stampa che mostra lo stabilimento commissionato nei primi anni del Novecento dalla famiglia Branca all’Ing. Merlini ed edificato nel 1913 nella tipica architettura industriale lombarda di quell’epoca, ai limiti della città di Milano di una volta, al centro di un crocevia al confine del quartiere Bovisa con la campagna, dove correvano carrozze con tiro a quattro. Sopra la gigantesca stampa sono posti quattro ritratti dei fondatori delle Distillerie Fratelli Branca. Fu Bernardino Branca a volere la costruzione del grande stabilimento, che rispecchia la tradizione architettonica dei primi del Novecento, per dar vita ad un’impresa che divenne, nell’arco di pochi decenni, famosa in Italia e nel mondo per un prodotto unico e inconfondibile: il Fernet-Branca.
Isabella Cataletto Photography
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Sono inoltre visibili le antiche fotografie dei prosecutori dell’impresa che si sono succeduti di generazione in generazione sino ai giorni nostri e, in tempi recenti, l’attuale Presidente e Amministratore Delegato di F.lli Branca Distillerie, il Conte Niccolò Branca. Quest’ultimo ha voluto raccogliere strumenti di produzione, quali distillatori e alambicchi, oggetti e illustrazioni in una preziosa collezione che è ora aperta al pubblico per poter dare testimonianza di un luminoso passato industriale che si è snodato lungo tutti i decenni dell’Ottocento e del nuovo millennio. La collezione trasporta fino a noi, cittadini o turisti a Milano nel 2022, con un viaggio all’indietro nel tempo, lo spirito imprenditoriale di una famiglia del 1800 che, con le competenze e le facoltà di antichi speziali, mise a punto una ricetta basata sull’uso di erbe e spezie officinali per la produzione di un amaro, il Fernet Branca, che conquistò subito, con il gusto unico e particolare e con un inconfondibile aroma, i raffinati palati dei signori dell’epoca, per divenire l’emblema della bevanda maschile da sorbire nei salotti durante le conversazioni e i giochi di società. La collezione è allineata su due lati di un lungo corridoio, in base ad un sapiente e raffinato allestimento realizzato dal responsabile del Museo con la collaborazione dei molti dipendenti dell’azienda che hanno aiutato a restaurare i pezzi presenti negli scantinati della fabbrica, grazie alle specifiche competenze di ciascuno. Si vedono quindi alambicchi, piccoli e grandi distillatori in rame e autentici strumenti di lavoro in legno: una parete della mostra è occupata da una foto che mostra un maestro d’ascia che presenziò con commozione alla posa dell’opera. Giroinfoto Magazine nr. 77
Il dipinto lo ritrae mentre intaglia, con colpi d’ascia, parti dei legni di rovere che venivano impiegati dai bottai per costruire le grandi botti che tuttora conservano il Fernet Branca per la maturazione per un anno. È una parte emozionante della mostra perché solo in quel momento si scopre quanto duro e sapiente lavoro artigianale fu necessario per costruire un contenitore, considerato comune come una botte e che tuttavia costituisce tuttora una componente preziosa dell’intero ciclo produttivo, poiché la sua fattura e il pregiato legno di rovere con cui è costruita, consente la lenta ma progressiva profumata maturazione in un anno del liquore. Isabella Cataletto Photography
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Il lato sinistro del corridoio è riempito da strumenti di lavoro ma anche da “scene” che riproducono, come in un teatro, luoghi importanti di lavoro, come un vero e proprio ufficio con un’antica scrivania con penne e calamaio e un’agenda aperta e ferma sul mese di gennaio di un anno di tanto tempo fa. Più avanti si scorge la sartoria con la macchina da cucire con cui le sarte realizzavano le uniformi degli addetti. Sono scene vive, come se il tempo si fosse fermato e come se il lavoro di operai, impiegati, sarte, direttori, venisse ogni giorno riconosciuto nella sua concatenata importanza in ogni ruolo, vivificato e celebrato per il raggiungimento di un obiettivo di una comunità riunita in uno stabilimento industriale che custodisce nella sua “pancia” centinaia di enormi botti piene di Fernet- Branca.
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Isabella Cataletto Photography Se lo sguardo si sposta sul lato destro, ecco allora imporsi all’attenzione meravigliata del visitatore dapprima i busti in marmo dei fondatori delle Distillerie e poco dopo bellissime realizzazioni grafiche in cartone che riproducono scene di vita degli anni della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento.
italiana: preziosi monili, rasoi, ventagli diventano sempre più “moderni”, “attuali”, “vicini” alla società del Novecento. Non più attuali oggi, perché ogni consumatore di qualsiasi prodotto è riempito di “gadgets” e non più di monili.
Si tratta di calendari che venivano realizzati per farne dono agli importanti clienti della Branca. Sono opere grafiche mirabili realizzate da artigiani ma anche da famosi artisti in cui la protagonista della scena è sempre una donna raffigurata in un ruolo importante e attivo. È decisamente significativo notare come la prima protagonista del calendario sia il personaggio della “Bersagliera”, una figura popolare dell’immaginario maschile che allietava la vista per le sue fattezze attraenti e procaci e per l’atteggiamento vivace e seduttivo. I calendari avevano lo scopo di scandire momenti sereni durante l’anno, regalando istanti di bellezza e di svago mentale. È a questo punto della mostra che si inizia a intuire come i Fratelli Branca abbiano saputo, sin dall’inizio della loro impresa, fare uso attento e intelligente della comunicazione. L’era della pubblicità, così come la si può intendere oggi, dagli anni 1950 in poi, non era ancora iniziata. Gli americani non avevano ancora fatto apparire sul mercato, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le immagini con le bottigliette della Coca Cola, ma i Fratelli Branca avevano già iniziato nel secolo precedente ad utilizzare le immagini, i disegni e i bozzetti per affermare e tener vivo nella mente dei consumatori il loro inconfondibile marchio presente in tutte le opere grafiche: un’aquila che tiene fra gli artigli la bottiglia del Fernet-Branca sopra il globo terrestre. È proprio attraverso la visione dei calendari e di altri pregevoli oggetti regalo conservati nelle teche che si rivive e si comprende l’evoluzione dei costumi della società
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All’improvviso in uno spazio più ampio del corridoio appare un altro simbolo del passato, una “Balilla” rossa. Una vera e propria auto “Balilla” come molti di noi l’hanno solo potuta immaginare o vedere nei film degli anni ’30. Ecco riapparire davanti agli occhi del visitatore sprazzi di vita dei nonni che si fermavano a guardare con ammirazione quell’auto iconica, che mai avrebbero potuto possedere e che spuntava di tanto in tanto nelle strade, guidata da qualche gentiluomo di buona famiglia. Sulla parete che fa da cornice all’auto è raffigurata l’iconica aquila che tiene ben salda tra gli artigli la bottiglia di Fernet-Branca.
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Per chi è nato e vissuto in Italia dopo gli anni ’50 è impossibile non essere presi via via da ricordi familiari. Sul carrello di cristallo nel soggiorno di casa trovavano sempre posto le bottiglie di Fernet, di Carpano e di Punt e Mes accanto ai bicchieri in cristallo di Baccarat.
mentre in una vetrina poco distante sono conservate tutte le imitazioni di prodotti concorrenti che non hanno potuto eguagliare in qualità, gusto e proprietà mediche i distillati di Fratelli Branca.
Un uomo, il sabato sera, con un volto ormai disteso dopo una lunga settimana di lavoro, esortava sua moglie a servirgli il Carpano o il Punt e Mes. Era un rito sotto gli occhi di un bambino o di una bambina che assistevano al quieto inizio del fine settimana. Se poi il padre decideva di andare in Liguria a trovare i nonni vicino ad Andora, era bene portarsi dietro sulla Fiat 1100 bianca la bottiglia di Fernet: uno dei bimbi a bordo stava sempre male lungo le curve dell’Aurelia e il Fernet metteva a posto anche lo stomaco dei piccoli. È un ricordo dolce amaro quello che riaffiora in bocca e nelle narici di una signora, bambina in quei lontani anni ’60, che ora è pervasa dalla sensazione di un profumo e di un gusto indimenticabile. Proseguendo lungo il corridoio, si apre una saletta in cui è posizionato al centro un grande banco circolare diviso in sezioni. Alla vista appare subito come un cerchio diviso a spicchi colorati ma avvicinandosi si colgono le forme e gli aromi di varie spezie e erbe officinali provenienti da tutto il mondo. È il trionfo dell’anice stellato, dello zafferano, della menta, della curcuma e di quanto Madre Terra regala al mondo. Le ricette alla base del Fernet, del Brandy Stravecchio e delle altre bevande del marchio Branca sono state studiate selezionando, in modo sapiente e con la cultura speziale di Bernardino Branca e dei suoi successori, e sono custodite gelosamente nel cuore dell’azienda. Accanto alle preziose erbe e spezie multicolori vi è un tavolo su cui sono poste le bottiglie più antiche dei liquori Branca,
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Si procede verso la parte più moderna e attuale della collezione. Qua e là domina sempre l’Aquila con la bottiglia fra gli artigli. È rappresentata con disegni e grafiche ma anche realizzata con una scultura formata da verdi bottigliette di Fernet. Una vera opera d’arte. Ecco apparire ora i grandi manifesti del Punt e Mes e del Carpano. Tutte le opere sono a firma di grandi e famosi artisti. È il segno di una nuova comunicazione che è ora divenuta, secondo i canoni moderni, pubblicità. Sono i manifesti delle affissioni nelle strade delle città in cui ci siamo imbattuti tutti e più volte e che sono rimasti nella memoria collettiva per i colori assunti dalle aree urbane. È interessante notare come nuovamente l’immagine della donna sia centrale nella comunicazione Branca. Il manifesto del Punt e Mes mostra due giovani donne ai lati ed un uomo al centro. Le giovani donne sono vestite di rosso, le gonne sono sopra il ginocchio, hanno un atteggiamento sicuro e spigliato, sono protagoniste attive della loro vita. L’uomo appare altrettanto sicuro, determinato, disinvolto ma non “assistito” dalle due donne. Sono tre individui indipendenti, pieni di vita e capaci di proiettarsi ciascuno in libertà nel mondo. È la pubblicità in un’Italia degli anni ’60/70, gli anni del boom economico in cui tutto andava verso il nuovo, il moderno, il ricco e il facile: dal lavoro operoso per tutti, alle autostrade lungo la penisola, ai DC8 che solcavano i cieli e portavano in poche ore in altri continenti. I Fratelli Branca avevano già messo piede in tutti i Paesi
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del mondo, impiantando i propri stabilimenti in Argentina e in Francia e attivando la rete commerciale su scala internazionale. Ecco allora apparire i manifesti affissi negli Stati Uniti, nell’Unione Sovietica, in Francia e, dovunque, in bar o caffetterie le insegne del Fernet- Branca, i bicchieri con il marchio Branca connotavano luoghi di incontro e di mescita di liquori, ormai frequentati dalla società per una sosta di svago e di piacere. Documenti fotografici degli inizi del Novecento mostrano questi spaccati di società nei momenti di quell’epoca. Fernet -Branca, Brandy Stravecchio, Carpano, Punt e Mes, Branca Menta sono ormai prodotti di un marchio rinomato e presente in tutto il mondo.
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Si ringrazia per l’invito e la presentazione della Collezione e dello Stabilimento Fratelli Branca il Dr. Marco Ponzano, Responsabile della Collezione Branca e della Torre Branca. Museo Branca - 170 anni di storia delle Distillerie Fratelli Branca Via Resegone 2 - Milano +INFO:
www.museobranca.it
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La visita alla Collezione si conclude con ciò che costituisce una inaspettata sorpresa. Si torna a scendere dalla scala in marmo con le ringhiere in ferro battuto e si arriva alle cantine: l’occhio si perde nel rincorrere le file di enormi botti in rovere che emanano un profumo inconfondibile. Ecco migliaia di litri il Fernet- Branca posto a maturare per un anno in 500 botti costruite a mano dai bottai con il legno di rovere tagliato dai maestri d’ascia. Durante la visita alla Collezione, nel lungo e tranquillo corridoio, si erano posati i piedi su una realtà produttiva viva, costante e continuamente in fermento. L’antico stabilimento ha al centro della sua bellissima architettura una colorata, ruggente e fumante ciminiera che si erge nel cielo nebbioso della serata invernale milanese. Il cortile dello stabilimento è pavimentato in pavé, come antiche strade della vecchia Milano: ecco Milano e tutto il lavoro che la città rappresenta da sempre. Nasce nell’animo un sentimento di nostalgia per un mondo laborioso e ordinato, dove ogni cosa e ogni persona occupava il suo posto senza dubbi, confusione, sovrapposizioni o sottoposizioni. Senza disumanità. I datori di lavoro, gli imprenditori, come i Fratelli Branca, erano riferimenti sicuri, quasi padri di famiglia per i loro operai o impiegati, che ad essi guardavano come fonte d’ispirazione e di sicurezza sociale ed economica per il futuro. L’imprenditore considerava le persone della propria azienda come appartenenti a una grande famiglia, una comunità composta da persone con competenze e abilità preziose che meritavano riconoscimento, attenzione per le esigenze sociali, premi di produzione, aree di incontro e di ricreazione. Non era ancora l’epoca di asettici managers, il rapporto fra l’imprenditore, gli operai e gli impiegati era diretto e di stima reciproca. Questa l’etica sociale trasmessa dalla Famiglia Branca. Una famiglia che ha mostrato e conservato valori morali imprescindibili: lo spirito d’impresa, la competenza, la capacità di ricerca e di innovazione, la qualità unica del prodotto, l’ecosostenibilità. L’attenzione e la valorizzazione sociale degli addetti al lavoro. L’amore per la cultura e la bellezza, da trasmettere attraverso una comunicazione artistica efficace e sempre attuale. L’amore per la cultura ha indotto la Fratelli Branca a restituire a Milano, dopo un attento e lungo restauro, la Torre in ferro disegnata da Giò Ponti collocata all’interno di Parco Sempione e ormai conosciuta come Torre Branca, dalla cui sommità si domina a 360° la grande laboriosa moderna Milano con il nuovo skyline del 2022.
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UNA TORRE NEL PARCO Quella di salire sempre più su, raggiungere il cielo e dominare lo spazio è sempre stata un’ambizione dell’Uomo dai suoi albori, forse la più grande dell’Umanità. E senza scomodare la mitica Torre di Babele, a chi non piace, arrivando in una città sconosciuta o in un luogo ignoto, abbracciare l’interezza dello spazio dall’alto, per avere una totale conoscenza del nuovo ambiente e goderne il panorama?
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A Milano, tra le opportunità meno note, o forse solo un po’ dimenticate, c’è la Torre Branca, opera frutto della genialità progettuale di Gio Ponti, che la disegnò, e degli ingegneri Cesare Chiodi ed Ettore Ferrari che si occuparono dei calcoli strutturali. Immersa nel verde di Parco Sempione, la si vede svettare slanciata sopra la vegetazione, quasi un albero tra gli alberi, mentre si percorre il vialetto che fiancheggia la cancellata di delimitazione del Parco. E non è un caso che la preceda all’arrivo la cortina in clinker rosso del razionalista Palazzo dell’Arte, che fu sede nel 1933 della prima “Esposizione Triennale Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne e dell’Architettura Moderna” e poi di tutte le Triennali a seguire, sino ai giorni nostri. La Torre, infatti, nata col nome di Torre Littoria, fu fortemente voluta da Benito Mussolini in occasione della V Mostra delle Arti Decorative – quella che il Maestro Ponti definì la “sua” triennale - e fu realizzata e inaugurata, nel tempo record di sole 68 giornate lavorative, il 10 agosto 1933. Faceva parte, insieme ad altre strutture architettoniche temporanee, di un ambizioso progetto espositivo di cui è rimasta poi l’unica superstite. La Torre, oltre che un gioiello artistico, fu una sfida ardita per i tempi: era la realizzazione futuristica della città che sale, rappresentava la tensione innovativa del Paese, era l’emblema del dinamico sforzo tecnologico italiano. E fu accolta con incredibile entusiasmo dal pubblico! Essa si sviluppa su una base esagonale – sì quell’esagono simbolo del diamante, tanto amato dal Maestro Ponti e che su di esso ha impostato tutta la sua filosofia progettuale – e si eleva, rastremata verso l’alto, come un prisma, con l’apparente leggerezza di un intreccio di tubi in acciaio Dalmine, flangiati e imbullonati. La torre panoramica, allora come oggi, tocca i 108,60 metri di altezza, un metro sotto la Madonnina, per rispettare la regola ormai in disuso che nessun edificio potesse superare la guglia maggiore della Cattedrale. Alla quota di 97 metri si trovavano un piccolo ristorante e il belvedere, raggiungibili con un ascensore delle Officine meccaniche Stigler, e la lanterna rotante del faro, azionata da un moderno motore elettrico.
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A partire dagli anni della guerra, la Torre Littoria subì una progressiva trascuratezza, sino ad arrivare al totale abbandono: certamente anche a motivo del suo nome ingombrante e del suo legame col fascismo. Dichiarata inagibile al termine degli anni Sessanta per cedimenti strutturali, venne chiusa definitivamente nel 1972. Ma la rinascita non era poi così lontana, per fortuna. Diciotto anni più tardi la Fratelli Branca Distillerie – storica azienda milanese produttrice del celeberrimo Fernet – la rilevava, cambiandone il nome in Torre Branca e avviandone l’accurato restauro strutturale ed estetico, che l’ha riportata al passato splendore. Tale intervento ha comportato anche il rinnovo degli impianti tecnologici, tra cui l’installazione di un moderno ascensore panoramico Schindler, che permette la salita di cinque passeggeri alla volta fino al piano del locale belvedere coperto, percorrendo 99 metri in poco meno di 1 minuto. Dal 2002 la Torre Branca è stata poi restituita pienamente alla collettività.
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Oggi costituisce un palcoscenico eccezionale, e anche se nella classifica delle altitudini meneghine è scivolata al decimo posto, dalla sua terrazza esagonale offre ancora un panorama mozzafiato su Milano e il suo skyline, e sulla catena alpina e sulla vasta pianura lombarda. Dall’alto del suo belvedere, chiuso e protetto da vetrate in cristallo ad alta resistenza dalle quali non ci si può affacciare, la città si estende meravigliosa con il suo impianto urbano, i nuovi grattacieli e i monumenti antichi che sembrano divertenti miniature. Fra questi ultimi spiccano il sottostante Arco della Pace, l’Arena e il Castello con la sua Torre del Filarete, proprio con i quali la Torre Branca completa l’asse di orientamento ortogonale del Parco, mentre la fontana Bagni Misteriosi di De Chirico sembra un piccolo giocattolo metafisico color giallo ocra. Alla base della Torre una struttura portante metallica, a pianta semicircolare, ben si inserisce con la modularità del monumento, evidenziando l’ingresso all’ascensore, vicino a cui il simpatico furgoncino d’epoca sottolinea la nuova identità della Torre. L’idea di recuperare e rendere fruibile un pezzetto di orgoglio milanese è perfettamente riuscito, visto che il luogo attira oggi curiosi dei posti insoliti, di provenienza anche lontana. Salire alla Torre è molto semplice, pure nei tempi attuali che richiedono il rispetto delle normative Covid – 19: basta una prenotazione on line o telefonica. O presentarsi direttamente sul posto, se si ha fortuna… Tutte le visite, diversamente strutturate negli orari in base alla stagionalità estiva e invernale, durano 7 minuti e il mercoledì mattina dalle 10:30 alle 12:30 la salita è gratuita per i pensionati. Per informazioni: Tel. Biglietteria 02-3314120 – 3356847122 info@fps-eventi.it torre@branca.it Si ringrazia il Dr. Massimo Fontana, Responsabile di FPS Eventi, per il gentilissimo invito.
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Adriana Oberto Barbara Lamboley Barbara Tonin Domenico Ianaro Samuele Silva
A cura di Barbara Lamboley
TORINO Per Torino e i torinesi, il Lingotto rappresenta tanto. Per i più giovani, il Lingotto è un centro commerciale e fieristico dove svagarsi mentre per i più anziani è un pezzo di storia dell’industria italiana. Sì, perché il Lingotto è questo: la più grande fabbrica di automobili italiana riconvertita in un centro multifunzionale; il Lingotto è una bella storia di rinascita all’italiana resa possibile da investitori scaltri e dai migliori architetti del Bel Paese. Ma forse non tutti sanno che, prima di tutto, il Lingotto, è un quartiere a sud della città di Torino.
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Destino ha voluto che il quartiere nascesse nel XVII secolo da possedimenti terrieri della nobile famiglia dei Lingotti. L’area era caratterizzata dalla presenza di un castello al centro e, attorno, vari edifici rurali. All’epoca, la zona era particolarmente ricca di sorgenti e canali d’irrigazione propizi all’insediamento di molteplici cascine. Più che quartiere, si trattava di un vero e proprio borgo rurale.
Col passare degli anni, Il borgo subì vari mutamenti dovuti soprattutto alla costruzione della linea ferroviaria e così, il suo territorio si espanse sempre di più verso sud. Alla fine del XVIII secolo, il borgo aveva completamente cambiato volto ed era diventato un piccolo centro industriale che contava una cinquantina di attività produttive; ci si fabbricavano funi, sapone, acciaio, pasta e tutto ciò che richiedeva l’utilizzo di acqua in abbondanza. Nonostante il crescente espandersi delle attività industriali, fino all’inizio del ‘900, si potevano ancora censire decine e decine di cascine ed edifici rurali separati da campi e boschi nelle aree immediatamente adiacenti i fiumi Po e Sangone.
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Fu solo a partire dagli anni ’30 che il Lingotto iniziò a diventare quello per cui lo conosciamo con la demolizione sistematica delle cascine, la bonifica dei terreni lungo fiume e la costruzione di numerosi edifici pubblici e privati.
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In questo contesto di espansione, c’è chi non si è fatto sfuggire l’opportunità di usufruire dell’area industriale già esistente per farne qualcosa di decisamente più “moderno” e all’avanguardia: la FIAT. All’epoca, il suo primo stabilimento di Corso Dante era già diventato troppo stretto per le crescenti richieste produttive dettate dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, e così, nel 1915, decise di acquistare da diversi proprietari un’area di 378.000 mq nel quartiere del Lingotto per costruirci lo stabilimento produttivo più innovativo e rivoluzionario dell’industria automobilistica italiana. Per progettarlo, chiamò l’Ingegner Giacomo Mattè Trucco che mise 3 anni a realizzarlo (1917/1920). I torinesi assistettero alla nascita di un edificio di forma ovale, con scheletro di cemento armato rivestito da grandi vetrate con una pista di collaudo ubicata sul tetto. Il risultato era decisamente sorprendente agli occhi di tutti.
Una volta ultimata la struttura, iniziò il lungo lavoro di messa in funzione di tutta la catena produttiva delle autovetture: dalle fonderie fino ad arrivare al reparto di assemblaggio. Infine, le auto venivano collaudate sulla pista ubicata sul tetto dello stabile. Nel 1923, l’azienda è finalmente pronta ad inaugurare il nuovo gioiello dell’Industria Italiana alla presenza del Re Vittorio Emanuele III. L’apertura dello stabilimento del Lingotto segna l’inizio di una nuova era, non solo per la città di Torino, ma soprattutto per le aziende del settore.
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TORINO
Quartiere Lingotto
Sì, perché la FIAT fu la prima azienda italiana ad ispirarsi al modello americano per quanto riguarda le metodologie produttive del settore automobilistico: il fatto di contenere tutte le lavorazioni nello stesso posto e di automatizzare maggior parte delle lavorazioni creando così il montaggio “a catena” fa sì che anche la figura dell’operaio cambi totalmente. Il manovale di una volta diventa addetto alle macchine che non ha bisogno di muoversi, bensì aspetta di ricevere le parti a lui assegnate. Una rivoluzione nel mondo operaio dell’epoca.
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Su scala cittadina, l’avvento della FIAT al Lingotto crea un’offerta di lavoro mai vista prima. Chi faceva il contadino nelle cascine della zona, venne assunto in fabbrica ma ancora non bastava per soddisfare la grande quantità di lavoro venuta a crearsi. Così la manodopera arrivò anche da altre regioni d’Italia. I Veneti, conosciuti per i lavori di manovalanza nel settore edilizio, furono chiamati in un primo momento per costruire la struttura del Lingotto per poi essere assunti come operai all’interno dello stabilimento. In questo contesto di prosperità lavorativa, arrivarono anche i primi immigrati dal meridione portando l’organico della FIAT a raggiungere un totale di 12000 operai e 500 impiegati.
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Per Torino era iniziata un’era sociale completamente nuova rispetto al suo trascorso storico: convivenze nuove, profili lavorativi nuovi, panorama architettonico nuovo… Un susseguirsi di eventi che porta la città ad essere persino sottodimensionata per accogliere quest’afflusso di persone. Per ovviare al problema logistico dettato dall’arrivo di tanti nuovi abitanti in città, la FIAT, insieme alla città di Torino, instaura una serie di misure destinate ad agevolare la vita dei neoassunti: crea nuove linee di trasporto pubblico, nuovi collegamenti ferroviari e costruisce palazzi per accogliere la popolazione immigrata da altre regioni. La vita dei Torinesi cambiò radicalmente. Per più di 10 anni, lo stabilimento del Lingotto scandisce i ritmi della città; all’interno dell’azienda, comincia ad insidiarsi lo spettro della lotta operaia con la nascita di vari movimenti che rivendicano i diritti dei lavoratori. Siamo nel 1938 e l’industria automobilista cresce sempre di più. Il modello americano sul quale si era basato il Lingotto è cambiato ed esperti del settore spiegano alla proprietà che, ormai, il modello “verticale” sul quale è stato costruito lo stabilimento non è adatto a soddisfare le esigenze produttive di un mercato in continua espansione che aveva già raggiunto dei livelli del tutto inaspettati. È ora di pensare ancora più in grande e di identificare un sito che possa permettere alla FIAT di adeguarsi alle nuove esigenze del mercato.
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Alla fine degli anni ’30, la famiglia Agnelli individua il sito di Mirafiori come luogo idoneo per costruire il nuovo stabilimento ma il progetto viene rallentato dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Con lo scoppiare della guerra, il Lingotto diventa strategico e deve garantire la continuità della produzione nonostante lo smantellamento in programma. Dal 1940 al 1944, la struttura viene presa di mira dall’aviazione inglese e americana e lo stabilimento subisce danni ingenti. Alcune parti degli edifici vengono distrutti dalle bombe e le lavorazioni al loro interno vengono interrotte per causa di forza maggiore. Nel dopoguerra, viene ultimato lo spostamento della produzione a Mirafiori lasciando spazio ad una riqualificazione parziale del sito del Lingotto. Fino agli anni ’80 lo stabilimento rimane la sede produttiva di parti per auto nonché di elettrodomestici per poi, nel 1982, chiudere definitivamente.
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Oggi Il Lingotto è immutato esternamente ma, al suo interno, è stato completamente ripensato dal grande architetto Renzo Piano. Quello che era una volta la parte delle nuove officine, è stato sostituito da un polo multifunzionale; al suo interno sono stati creati: un Auditorium, un centro congressi, alberghi di lusso e un cinema multisala. All’estremità nord, la rampa che porta alla pista di collaudo è stata restaurata nel 2002 e dà accesso alla galleria commerciale “8 Gallery”, alla foresteria della città, alla clinica odontostomatologica dell’Università di Torino e al centro per la formazione e la ricerca del Politecnico di Torino. Quello che una volta era l’officina di smistamento (l’edificio più a sud delle nuove officine), è diventato spazio fieristico composto da diversi padiglioni in cui si vedono ancora gli insediamenti dei macchinari (vedi padiglione 2). Oggi gli spazi vengono usati per organizzare fiere ed eventi.
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La pista di collaudo, accessibile tramite due rampe elicoidali (una a nord e una a sud) è stata conservata e oggi accoglie un ristorante molto rinomato e un giardino pubblico unico nel suo genere. Quest’ultimo è stato pensato e realizzato dall’architetto Benedetto Camerana ed è il giardino pensile più grande d’Europa con oltre 40000 piante, aree relax, area jogging e zone per fare yoga o fitness. Sulla pista, inoltre, è tuttora presente “la Bolla” che è una struttura composta da vetrate di colore blu costruita nel ’94 per fungere da sala riunioni con eliporto adiacente. Infine, nel 2002, è stato aggiunto “lo Scrigno” che rappresenta una scatola metallica appoggiata sul tetto dell’edificio in cui sono conservate tutte le opere della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. A completamento della parte museale, a settembre 2021, è stata inaugurata “Casa 500” che ripercorre la storia della più famosa macchina della casa torinese. Per quanto riguarda la parte degli uffici di Via Nizza (sede dell’amministrazione centrale della FIAT per più di 80 anni), con lo spostamento della sede legale della casa automobilistica all’estero, la decisione ultima di vendere anche la palazzina uffici è stata presa nel 2021 quando ormai l’edificio era stato gradualmente svuotato già da qualche anno. Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Lo stabile è tuttora in attesa di conoscere il suo destino. Dalla parte opposta, andando verso la ferrovia, sono stati costruiti spazi verdi e una passerella (detta “olimpica” visto che è stata costruita per le olimpiadi del 2006) che collega il Lingotto all’area degli ex mercati generali. L’ultima zona soggetta a restyling in termini di tempo è stata l’area adiacente al centro commerciale (quella dell’ingresso principale per intenderci). Accanto all’ormai rinomato “Eataly”, il mercato enogastronomico fatto di eccellenze italiane, è nato un nuovo centro commerciale chiamato “Green Pea” centrato sull’ecosostenibilità. La scommessa di Green Pea è quella di responsabilizzare le persone sul tema dell’ambiente e del risparmio energetico.
Cristiana Catino e Negozi Blu Architetti già precedentemente autori del progetto Eataly. Questo è il classico esempio di riqualificazione esemplare di strutture importanti come quella della FIAT visto che copre la bellezza di 250.000 metri quadri. Il meccanismo di recupero è spesso messo in secondo piano quando si chiude uno stabile di vaste proporzioni. Con la maestria di grandi architetti e (senza ombra di dubbio), con la grande disponibilità di fondi, il risultato è più che ammirevole. L’auspicio è che il modello Lingotto si possa riprodurre sempre di più in futuro. La strada per salvaguardare il nostro territorio è riqualificare.
All’interno, il centro propone una serie di negozi, musei, ristoranti tutti pensati per offrire scelte “green” nonché autoprodurre l’energia necessaria al loro funzionamento. Il progetto è stato realizzato da ACC Naturale Architettura
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Celleno è un piccolo comune in provincia di Viterbo, nel Lazio. L’abitato attuale è costituito dal borgo nuovo, nato a partire dagli anni Trenta del Novecento con la borgata Luigi Razza. Il borgo vecchio, abbandonato a causa di continui dissesti idrogeologici, è diventato da allora un borgo fantasma.
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Siamo nella zona della Teverina, a est del fiume Tevere tra Orvieto e Orte. Si tratta di una zona ricoperta di materiali vulcanici originatisi dalle esplosioni dell’apparato Vulsinio, che 800.000 anni fa fu il protagonista di estesi e devastanti fenomeni di vulcanismo. Tale attività fu di origine prevalentemente esplosiva, con scarsa produzione di lava, ma in compenso una grande emissione di nubi ardenti, che sono all’origine delle formazioni tufacee che caratterizzano il territorio. Questi materiali si posano su di uno strato sedimentario argilloso-sabbioso, che le precipitazioni hanno man mano fatto affiorare. Il processo è comune alla zona ed è ben visibile, per esempio, nell’area di Civita di Bagnoregio e della limitrofa Valle dei Calanchi. Sebbene in modo minore, lo stesso processo ha interessato l’abitato originario del borgo di Celleno ed è osservabile sulle sue pendici. Le caratteristiche di questo territorio hanno favorito lo sviluppo di numerosi insediamenti sin dall’età preromana, così come hanno favorito la formazione di scenari straordinari e forre profonde. Purtroppo, però, sempre le stesse peculiarità, unite all’attività dell’uomo, hanno anche causato l’abbandono di alcuni degli abitati più sottoposti ad erosione e crolli. Attualmente questo territorio, stretto tra il lago di Bolsena e la media valle del Tevere, ha aspetto tipicamente rurale – come il resto della Tuscia, con colture arboree, come ciliegio, vite e olivo; erbacee, quali i cereali, e prati adibiti a pascolo. Rinomate sono proprio le ciliegie di Celleno.
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CELLENO
Celleno Vecchio sorge a 341 mt msl. su uno sperone di tufo tra due bacini idrografici le cui acque vanno gradatamente verso il fiume Tevere. Il borgo vecchio si trova a 1,5 chilometri dal nuovo centro abitato. Il terreno è soggetto a una lenta e progressiva erosione, che ne mette in serio pericolo la stabilità. A differenza di Civita di Bagnoregio, dove seri interventi di puntellamento ne hanno permesso, almeno, una parziale conservazione e una limitata abitazione, qui l’abitato è in completo stato di abbandono, se si eccettua l’uso della chiesa di san Carlo come centro espositivo e dei locali circostanti e sottostanti come percorso di visita riservato alla memoria e all'identità di Celleno. Alcune case sono in realtà state restaurate e appaiono vissute, ma ovunque regnano i cartelli “vendesi” e l’atmosfera è quella di un paese fantasma.
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Il nome deriva, secondo alcuni studiosi, dalle antiche civiltà etrusca e greca. Un dato riguardo la sua fondazione ci viene da Dioniso di Alicarnasso, che dice che la città fu fondata da Italo in memoria della figlia Cilenia, morta anni prima della fondazione di Roma. Altri rimandano il nome a Celeno, una delle tre arpie della mitologia greca che rappresentavano diversi aspetti della tempesta: il suo nome significava oscurità. Altri ancora si rifanno più prosaicamente al nome latino medievale di “cella”, facendo riferimento alle tante grotte scavate nel tufo e presenti lungo le pendici dello sperone che ospita l’abitato originario. Qualunque sia la verità, in tempi relativamente recenti, e di certo non prima dell’unità d’Italia, fu scelto come simbolo araldico sullo stemma del Comune un’arpia al naturale su campo azzurro, all'interno di uno scudo ornato da una lista svolazzante, a dimostrazione di quanto sia suggestiva, anche se chiaramente non provata, l’ipotesi mitologica.
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Come per tanti borghi antichi le origini si perdono nel tempo ed è difficile risalire alla data esatta della sua fondazione, anche se di certo si parla del IV-III sec. a.C., cioè del periodo tardo-etrusco. Il paese si trovava infatti lungo una storica e importante via di comunicazione – quella tra Orvieto, Bagnoregio e Ferento. Come tutte le città etrusche, anche Celleno fu in seguito sottomessa dai romani. Anche le informazioni sull’insediamento medievale sono abbastanza frammentarie. Si pensa che Celleno fosse uno degli abitati fortificati sorti tra il X e XI secc. ad opera dei conti di Bagnoregio, la cui signoria deteneva anche questa parte di territorio. Al tempo l’abitato occupava le parti più elevate dello sperone di tufo, era cinto da mura e aveva un’unica via di accesso protetta da un fortilizio. La prima fonte scritta risale al 1160 e ci dice che la giurisdizione sul castrum Celleni fu trasferita dal conte Adenulfo alla città di Civita di Bagnoregio.
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Quando poi Ferento venne distrutta (1170-1172), il comune di Viterbo si espanse rapidamente e mirò a controllare tutti i territori facenti parte della contea di Bagnoregio. È così che dal 1237 e fino alla fine del XIV secolo, l’abitato figurava tra i castelli del territorio viterbese governati da un podestà. In seguito, e per concessione papale, Celleno entrò a far parte dei possedimenti della potente famiglia viterbese dei Gatti. Fu allora che il fortilizio fu rinnovato e trasformato nella residenza – il castello – che vediamo tutt’ora. Il castello – e il borgo – rimasero di proprietà dei Gatti fino a che l’ultimo erede – Giovanni – fu fatto uccidere da papa Alessandro VI Borgia proprio perché non voleva consegnare il castello. Nel frattempo, il borgo si era allargato e occupava, oltre a tutta la rocca, anche una parte fuori le mura, attorno alla chiesa di san Rocco.
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Verso il 1500 il castello diventò proprietà degli Orsini, famiglia dalla quale prende il nome con cui è conosciuto tuttora. Alla fine del XVI secolo il borgo entrò a far parte dello Stato Pontificio e vi rimase fino all’unità d’Italia.
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Durante il 1932-33 un’epidemia di febbre petecchiale causò la morte di ben 40 abitanti; un altro forte terremoto, seguito da ben 54 scosse, si ebbe nel 1855.
Durante tutta l’età moderna il borgo di Celleno fu purtroppo oggetto di terremoti e frane. Già lo statuto del 1457 impediva ai cittadini di effettuare nuovi scavi lungo le pendici dello sperone e ordinava di mantenere le strutture sotterranee per evitare infiltrazioni.
Nei primi anni ‘30 del XX secolo nuovi terremoti resero ancora più pericoloso il centro abitato, soprattutto sul versante nord. Questo portò alla decisione, da parte delle autorità, di non tentare più il recupero di Celleno, che così si spopolò gradualmente: gli abitanti si trasferirono poco a poco nel nuovo centro abitato.
Tra i vari terremoti e frane vanno ricordati quelli del 1593 e 1695 (o 1696); questi provocarono ingenti danni, tra cui la distruzione del mastio del castello; si pensa inoltre che in occasione di quest’ultimo terremoto si sia formata la valle che lasciò isolato il centro antico dal territorio circostante.
Il borgo medievale, che oggi è diventato un suggestivo borgo fantasma e che viene anche conosciuto come Castello di Celleno (in cui la parola castello ha il significato di “borgo cintato e per lo più situato su un’altura”), fu completamente abbandonato a partire dalla metà del secolo scorso.
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Si raggiunge il borgo antico di Celleno tramite la via del ponte – una strada in salita che supera il ponte sopra il fossato del castello e arriva a una porta di accesso nelle mura; un altro varco di accesso, aperto nelle mura, si trova non molto lontano, verso sud-est. Si arriva così alla piazza del comune. Questa era la piazza principale del borgo e prende il nome dal ruolo che il castello ricopriva. Sulla nostra sinistra si staglia infatti il castello degli Orsini; si tratta della costruzione forse meglio conservata dell’intero borgo, sia perché sempre usato nel corso dei secoli, sia perché fatto restaurare nel 1973 dall’artista Enrico Castellani, che vi abitò fino alla sua morte nel 2017. Si tratta dell’antico fortilizio, già presente nei secoli X-XI e poi ampliato e restaurato. Di fronte ad esso, sulla piazza, ebbe luogo la tragica morte di Giovanni Gatti il 27 maggio 1496. Dopo anni di lotte tra le famiglie nobili, Giovanni, lasciata Viterbo per rifugiarsi a Celleno, si rifiuta di consegnare il castello a papa Alessandro VI Borgia. Questi gli manda contro l’abate di Alviano che, dopo averlo torturato per fargli rivelare il nascondiglio del tesoro di famiglia, lo uccide insieme ai suoi figli maschi. Di fronte al castello, sulla destra, c’è la chiesa di san Carlo. Anche questa è pienamente agibile e viene usata come sede in occasione di mostre. Presenta un portale in pietra basaltina lavorata. Fu fatta costruire a partire dal 1615 grazie alle donazioni della popolazione; ad essa era aggregata la Confraternita dedicata alla Madonna. Attualmente la chiesa ospita una mostra permanente di “macchine parlanti” e illustra, a partire dagli albori fino ai giorni nostri, lo sviluppo degli apparati audio e video.
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A sinistra della porta di accesso, invece, ci sono costruzioni già fortemente in rovina, tra cui il vecchio edificio delle Poste e Comunicazioni e la chiesa di san Donato.
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Costruita in periodo medievale, presenta un portale di stile romanico-gotico risalente ai secc. XIII-XIV. Fu più volte restaurata e rimaneggiata, anche a causa dei frequenti terremoti; l’ultimo di questi, nel 1941, ne causò il definitivo abbandono. Proprio di fronte al castello c’è un altro edificio in buono stato di conservazione; si tratta di un palazzetto a tre piani recentemente restaurato. Di fronte alla porta di accesso, e dall’altra parte della piazza, si dirama una delle due stradine principali del borgo (la seconda scende a destra a lato della chiesa di san Carlo). Questa prima strada conduce lungo il percorso chiamato “la piazzarella”. Le abitazioni del lato sinistro subirono gravi danneggiamenti causati dall’instabilità del suolo e furono abbattute nel corso del XVII e XIX secc. Quelle di destra sopravvissero un po’ più a lungo, ma caddero vittima del progressivo abbandono del borgo agli inizi del secolo scorso e della predazione degli elementi architettonici.
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A questo punto si può decidere se tornare dalla via presa in precedenza, oppure tornare in piazza dalla strada più esterna – quella che porta alla seconda stradina menzionata prima. Si passa così dal “Butto”: si tratta di un immondezzaio domestico di origine medievale, fatto costruire al di sotto di un’abitazione signorile. Vi venivano gettati i resti del pasto e gli oggetti di ceramica ormai inservibili. L’università della Tuscia effettuò degli scavi sotto questo palazzo e rinvenne circa 10000 frammenti di ceramica.
“Se qualcuno avesse fatto sporcizia, monnezza, paglia, o avesse svuotato i cassoni presso la porta altrui, o sulle vie, o nei casalini, o nelle grondaie, o nelle piazze, o nella piazzetta di Cencio Iohannis, entro il castello di Celleno, e nella via che scende a valle tra lo steccato e l’orticello di Gesuzio, o nei fossi, o nei borghi del castello di Celleno, paghi alla Curia 10 soldi per ogni volta e tolga ciò che ha gettato.” [dallo Statuto del 1457 – rubrica LXV – La pena per chi getta mondezza in Celleno]
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Proseguendo dopo il Butto e tornando verso la piazzetta centrale arriviamo ad alcuni locali, posti principalmente sotto la chiesa di san Carlo e nelle vicinanze, che sono stati adibiti al mantenimento della memoria e dell’identità di Celleno. Ci sono un plastico interattivo, alcune stanze arredate con mobili e oggetti di uso quotidiano del passato; le foto e le stampe alle pareti mostrano un borgo che non c’è più e restituiscono la vita della gente che viveva nel borgo nei secoli scorsi. A questo punto non ci resta che uscire dal paese attraverso la seconda porta e passando, così, presso il fossato, che è in parte visitabile. Fuori le mura e in basso si trovano la piazza del mercato e l’unica chiesa ancora consacrata – dedicata a san Rocco. La strada porta alla cittadina attuale di Celleno, situata ad un chilometro e mezzo di distanza.
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LE CILIEGIE DI CELLENO La “Ciliegia di Celleno” è riconosciuta come prodotto agroalimentare tipico. Infatti, il territorio è altamente adatto alla cerasicoltura, che ha origini antichissime. Tale attività nasce nel periodo romano e la ciliegia diventa importante nel Medioevo per i pellegrini e i viandanti che percorrevano la via Francigena, tanto che uno statuto del 1457 stabiliva le pene per chi “danneggia frutti e legumi altrui e altri prodotti della terra tra cui le Cerase". In anni più recenti, la ciliegia assume grande importanza a partire dal secondo dopoguerra; tale importanza era dovuta anche al fatto che il frutto era il primo a crescere – e di conseguenza ad apparire sul mercato – dopo l’inverno. La ciliegia viene coltivata secondo un disciplinare molto severo, per garantirne la qualità, e raccolta a mano, evitando così l’azione dei mezzi meccanici che potrebbero danneggiare il prodotto. Importante è la Sagra della Ciliegia, inaugurata nel 1960, ma interrotta sette anni dopo a causa della forte crisi del settore. La sagra fu ripresa a partire dal 1997 ed è da allora un successo, così come lo è la tipica gara dello “sputo del nocciolo”. Non mancano la sfilata dei carri allegorici e la crostatona di marmellata di ciliegie.
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La nascita del Carnevale di Viareggio risale al 1873 da un’idea di giovani viareggini ricchi e borghesi che, seguendo la scia di quanto fatto per le strade di Lucca, con carri adorni di fiori trainati da buoi, decisero di protestare mascherati contro le tasse sempre più salate.
A cura di Luca Bonuccelli
Letizia Angeli Luca Bonuccelli
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Ci vollero almeno dieci anni per ottenere un’esperienza visiva e allegorica più coinvolgente e dal 1883 gli artigiani, artisti viareggini, principalmente scultori e carpentieri, cominciarono a ideare e creare opere monumentali. I materiali principali erano juta, legno, gesso scagliola e colla: solo nel 1925 venne introdotta la "cartapesta". Il nome di Burlamacca ha origine da Buffalmacco, pittore fiorentino e personaggio del Decamerone. Questa celebre manifestazione ebbe un improvviso arresto per sei anni durante il periodo della Seconda guerra mondiale, ma questo non fermò lo spirito dei viareggini che nel 1946 ripresero con la manifestazione.
BURLAMACCA Letizia Angeli Photography
Nel 1887 a Natino Celli, celebre artista viareggino, venne commissionato il primo carro allegorico "elettorale" dal candidato al Parlamento nel Circondario di Pietrasanta, Vito Camillo Ventura Messía de Prado, principe di Carovigno: un triestino eccentrico, giunto a Viareggio alla ricerca di fortune politiche. Dal 1899 la creazione dei carri allegorici cominciò ad avere una connotazione sempre più politica e culturale, un modo spettacolare e plateale di protestare ed esprime il proprio dissenso sulle azioni svolte dalla classe politica o di celebrare degli avvenimenti importanti o, ancora, acclamare personaggi di fama internazionale. Durante il 1931 Umberto Bonetti, celebre artista viareggino, creò le due figure allegoriche più popolari della storia del Carnevale, Burlamacca, ritratto mentre giunge dal mare camminando sui moli paralleli di Viareggio, e Ondina, che rappresenta la tipica bagnante viareggina con indosso i caratteristici costumi degli anni '30. Il nome di Burlamacca ha origine da Buffalmacco, pittore fiorentino e personaggio del Decamerone.
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Questa celebre manifestazione ebbe un improvviso arresto per sei anni durante il periodo della Seconda guerra mondiale, ma questo non fermò lo spirito dei viareggini che nel 1946 ripresero con la manifestazione. Nel 1954 la prima diretta televisiva, prodotta dalla nascente Rai, garantì al Carnevale di Viareggio una visibilità ancor più grande tale da essere trasmessa in Eurovisione quattro anni dopo. Nel 1984 la Lotteria nazionale di Viareggio venne abbinata al concorso dei carri di prima categoria e nel biennio 1988-1989 il sabato sera televisivo degli italiani, su RaiUno, venne dedicato ai coriandoli di Viareggio.
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Nel 2001 venne inaugurata la "Cittadella del Carnevale", considerato il più grande centro tematico italiano dedicato alle maschere. In questo luogo sono tuttora presenti i laboratori che consentono ai costruttori di ideare e progettare i carri, si tratta di sedici hangar dove poi, grazie ad una squadra, i carri vengono costruiti e conservati. A completamento dei luoghi ci sono anche due musei in cui è possibile ripercorrere tutti gli avvenimenti più importanti del Carnevale di Viareggio, oggi considerato uno degli eventi in maschera più importanti al mondo e un Centro documentario storico. Il tutto attorno ad una straordinaria piazza ellittica che ospita eventi culturali di ogni tipo. Prima di questo incredibile complesso, i carri nascevano in vari luoghi della città: sotto le logge del mercato, nel teatro Politeama, tra una casa e l’altra. Tanta era la voglia di creare vere e proprie opere d'arte che i viareggini molte volte si trovavano a sfidare il freddo e la pioggia dentro baracche improvvisate. Poi, nel dopoguerra, vennero costruiti i baracconi di via Cairoli distrutti in un terribile incendio nel 1960. Subito dopo questo terribile evento vennero costruiti dei veri e propri hangar, in via Marco Polo, che fino alla nascita della Cittadella del Carnevale hanno costituito il luogo di produzione di queste mastodontiche opere d' arte. Luca Bonuccelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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CARNEVALE DI VIAREGGIO
Il Carnevale, dunque, costituisce per la città di Viareggio un evento di grandissima importanza, perché conduce inevitabilmente all’aggregazione del popolo e spinge gli artisti a sfide per l’assegnazione di un premio, ma soprattutto a godere del calore e della gioia che il loro pubblico sprigiona. Per pochi giorni tutti condividono lo stesso palcoscenico composto da musica proveniente dai carri, da ballerini che animano la scena, dagli attori pronti a impersonificare il soggetto del momento e da musicisti che si uniscono alle risate e allo stupore degli spettatori.
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Un lavoro di eccezionale maestria e genialità risulta essere quello del carrista: l'idea che si trasforma in materia. Una magia che si respira non appena si varcano le aree di accesso alla manifestazione sulla “Passeggiata” di Viareggio, un’area pedonale lunga circa due chilometri di incredibile fascino, dove è possibile, inoltre, ammirare edifici di grande pregio storico e bellezza in stile liberty. Passato e presente che si mescolano in un tripudio di colori e profumi. Come rintocchi d'orologio, tre colpi di cannone saranno il suono che darà il via ai festeggiamenti, che termineranno con uno spettacolo pirotecnico e altri tre scoppi. Una routine che per sei giornate, scandite in un mese, accompagnerà i corsi della mascherata. Ogni carro si presenta con allestimenti unici e allegorie incomparabili, una parata di figuranti inonda il corso.
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Luca Bonuccelli Photography
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È interessante anche scoprire che dal 1921 questa manifestazione è accompagnata da una lunga discografia: "Il Carnevale a Viareggio" di Sadun Maffei, primo brano e inno ufficiale che sancisce un'importante innovazione, in quanto la musica viene riprodotta direttamente dai carri grazie a diversi altoparlanti, con la funzione di alleggerire anche i temi più importanti, che vengono presentati da maestri e artisti durante il carnevale e che spesso tendono a denunciare atti di prepotenza sociale. Altri brani come "Maschereide" di Sadun Maffei o "Come un coriandolo" di Gian Luca Cucchiar, trascinano gli spettatori mascherati a festa in ore di spensieratezza e gioia. Al calar della sera i colori sgargianti delle maschere vengono illuminati da luci provenienti da ogni parte e, a ritmo di musica, questi carri tornano nelle proprie rimesse e tutto è silenzio. I grandi portelloni degli hangar si chiudono come un sipario in attesa del prossimo spettacolo e del prossimo pubblico. Su di essi, enormi figure futuriste catapultano indietro nel tempo. L’immagine iconica di Burlamacca si ripete in diverse aree della Cittadella del Carnevale, i colori bianco e rosso, che qui hanno una presenza costante, ci ricordano i tipici ombrelloni che adornavano le spiagge di tutto il litorale e ci rimandano ai colori che rappresentano la bandiera del Carnevale di Viareggio.
Adriana Oberto Photography
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È proprio in questi laboratori, gli hangar, che prosegue la lunga tradizione che accompagna nel tempo gli artisti e gli artigiani viareggini, grandi maestri modellatori della cartapesta. Le enormi figure sono il frutto di una incredibile progettazione ingegneristica, ore e ore alla ricerca del giusto compromesso tra estetica e funzionalità. Ogni elemento, minuziosamente progettato, andrà a costituire la scultura. Alcune parti verranno modellate con la cartapesta direttamente attorno ad un sostegno, altre invece verranno costruite saldando cavi di metallo a formare una maglia, sulla quale verrà modellata una figura in argilla. La figura verrà poi cosparsa di gesso in polvere, diluito con acqua, dal quale si ottiene una colata che, dopo un’essiccazione, fornirà degli stampi. All' interno di questi stampi, dei fogli di giornale bagnati con una colla naturale, ottenuta grazie all'ebollizione di farina e acqua oppure amido di mais, ci forniranno la cartapesta che, dopo l’asciugatura, verrà dipinta. Una tecnica che garantirà una leggerezza e praticità maggiore nello spostamento e nell'assemblaggio. Ogni artista, in base alle proprie necessità, userà le tecniche più affini. Alcuni si affideranno all'utilizzo di tecniche e materiali tradizionali, mentre altri faranno prevalere l 'innovazione e tecniche più sperimentali. Ma qual'è la particolarità di questo Carnevale che lo ha reso così celebre nel mondo? Le varie figure verranno dotate di capacità motorie, come per dare l’illusione che prendano vita per unirsi ai festeggiamenti. Il costruttore "dona" la vita ad un essere inanimato. Un' attività ludica atta ad unire divertimento e cultura, ad unire differenti generazioni che s' incontrano in un unico palcoscenico ben congeniato, dove l'arte si mostra in ogni suo aspetto.
Lorena Durante Photography
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Luca Bonuccelli Photography
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THE MAST COLLECTION
10.02/ 28.08.2022 MAST BOLOGNA
Addetta al magazzino (con olio che le cola dalle mani), 2013 © Brian Griffin, courtesy of the artist
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Fondazione MAST presenta
THE MAST COLLECTION
Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia È la prima esposizione di opere della Collezione della Fondazione: oltre 500 immagini tra fotografie, album, video di 200 grandi fotografi italiani e internazionali e artisti anonimi. La Collezione della Fondazione MAST, unico centro di riferimento al mondo di fotografia dell’industria e del lavoro, conta più di 6000 immagini e video di celebri artisti e maestri dell’obiettivo, oltre ad una vasta selezione di album fotografici di autori sconosciuti. Nei primi anni 2000 la Fondazione MAST ha creato questo spazio appositamente dedicato alla fotografia dell’industria e del lavoro con l’acquisizione di immagini da case d’asta, collezioni private, gallerie d’arte, fotografi ed artisti. Il patrimonio della Fondazione, che già conteneva un fondo che raccoglieva filmati, negativi su vetro e su pellicola, fotografie, album, cataloghi che negli stabilimenti di Coesia venivano prodotti fin dai primi del ‘900, si è così arricchito ed andato al di là dei parametri di materiale promozionale e documentaristico delle imprese del Gruppo industriale. La raccolta abbraccia opere del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo con un processo di selezione valoriale e un accurato approccio metodologico a cura di Urs Stahel.
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THE MAST COLLECTION
“The MAST Collection - A Visual Alphabet of Industry, Work and Technology”, curata da Urs Stahel, è la prima esposizione di opere selezionate dalla collezione della Fondazione: oltre 500 immagini tra fotografie, album, video di 200 grandi fotografi italiani e internazionali e artisti anonimi, che occupano tutte le aree espositive del MAST. Immagini iconiche di autori famosi da tutto il mondo, fotografi meno noti o sconosciuti, artisti finalisti del MAST Photography Grant on Industry and Work, che testimoniano visivamente la storia del mondo industriale e del lavoro. Tra gli artisti in mostra: Paola Agosti, Richard Avedon, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Margaret Bourke-White, Henri CartierBresson, Thomas Demand, Robert Doisneau, Walker Evans, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice, André Kertesz, Josef Koudelka, Dorotohea Lange, Erich Lessing, Herbert List, David Lynch, Don McCullin, Nino Migliori, Tina Modotti, Ugo Mulas, Vik Muniz, Walter Niedermayr, Helga Paris, Thomas Ruff, Sebastião Salgado, August Sanders, W. Eugene Smith, Edward Steichen, Thomas Struth, Carlo Valsecchi, Edward Weston. La mostra, proprio per la sua complessità, è strutturata in 53 capitoli dedicata ad altrettanti concetti illustrati nelle opere rappresentate. La forma espositiva è quella di un alfabeto che si snoda sulle pareti dei tre spazi espositivi (PhotoGallery, Foyer e Livello 0) e che permette di mettere in rilievo un sistema concettuale che dalla A di Abandoned e Architecture arriva fino alla W di Waste, Water, Wealth.
Robotic Arm with seven degrees of movement, dalla serie "Deep Blue" © Peter Fraser
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Pozzo petrolifero, Burhan, Kuwait © Sebastiao Salgado/ Amazonas Images/Contrasto
“L’alfabeto nasce per mettere insieme incroci tra lo sguardo lontano e quello vicino, testi e momenti dello scatto, portando l’attenzione all’interno delle opere – spiega il curatore, Urs Stahel -. Lo stesso accade con le immagini e i fotografi coinvolti. Questi 53 capitoli rappresentano altrettante isole tematiche nelle quali convivono vecchi e giovani, ricchi e poveri, sani e malati, aree industriali o villaggi operai. Costituiscono il punto di incontro delle percezioni, degli atteggiamenti e dei progetti più disparati. La fotografia documentaria incontra l’arte concettuale, gli antichi processi di sviluppo e di stampa su diverse tipologie di carta fotografica, come le stampe all’albumina, si confrontano con le ultime novità in fatto di stampe digitali e inkjet; le immagini dominate dal bianco e nero più profondo si affiancano a rappresentazioni visive dai colori vivaci. I paesaggi cupi caratteristici dell’industria pesante contrastano con gli scintillanti impianti high-tech, il duro lavoro manuale e la maestria artigianale trovano il loro contrappunto negli universi digitali, nell’elaborazione automatizzata dei dati. Alle manifestazioni di protesta contro il mercato e il crac finanziario si affiancano le testimonianze visive del fenomeno migratorio e del lavoro d’ufficio”.
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The Heavens. Annual Report, 2013 © Paolo Woods, Gabriele Galimberti, courtesy of the artists
Sul piano della scansione cronologica solo il XIX secolo è stato affrontato separatamente in una sezione dedicata alle fasi iniziali dell’industrializzazione e della storia della fotografia. Il filo conduttore è spesso costellato dai numerosi ritratti di lavoratori, dirigenti, disoccupati, persone in cerca di lavoro e migranti. “Il parallelismo tra industria, mezzo fotografico e modernità – prosegue Urs Stahel - produce a tratti un effetto che può disorientare. La fotografia è figlia dell’industrializzazione e al tempo stesso ne rappresenta il documento visivo più incisivo, fondendo in sé memoria e commento”.
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Saarland, paesaggio industriale 3, 1950 © Estate Otto Steinert, Museum Folkwang, Essen
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Elettricità. La casa, 1931 © Man Ray Trust by SIAE 2022
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La mostra documenta inoltre il progresso tecnologico e lo sforzo analogico sia del settore industriale sia della fotografia, rappresentato oggi dai dispositivi digitali ultra leggeri, in perenne connessione, capaci di documentare, stampare e condividere il mondo in immagini digitali e stampe 3D. Dall’industria, dalla fotografia e dalla modernità si passa all’alta tecnologia, alle reti generative delle immagini e alla post-post-modernità, ovvero a una sorta di contemporaneità 4.0. Dalla semplice copia della realtà alle immagini generate dall’intelligenza artificiale. La mostra “The MAST Collection – A Visual Alphabet of Industry, Work and Technology” condensa gli ultimi 200 anni di storia ricchi, folli, intensi, esplosivi in più di 500 opere che raccontano della nostra quotidianità.
Gli ultimi giorni del Kuomintang (crollo del mercato), Shanghai, China, 1948-1949 © Fondation Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos
FONDAZIONE MAST via Speranza 42, Bologna www.mast.org THE MAST COLLECTION A Visual Alphabet on Industry, Work and Technology 10 febbraio – 28 agosto 2022 Ingresso gratuito Martedì - Domenica 10:00 - 19 :00 Giroinfoto Magazine nr. 77
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PALERMO STREGATA
A cura di Rita Russo
Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Storie e misteri al tempo dell’Inquisizione Palermo, splendida città dal carattere multietnico grazie ai tanti popoli che l’hanno dominata, non deve la sua notorietà solo alla visibile ed indiscutibile bellezza dei suoi monumenti ma anche ai misteri, alle storie e alle leggende che caratterizzano ogni periodo della sua millenaria storia. Un’anima nascosta e talora tenebrosa che contribuisce ad accrescere il fascino e l’interesse per questa città.
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Così, prendendo spunto da una passeggiata organizzata dall’associazione culturale “Siciliando Style”, che si occupa di promuovere gli aspetti artistici, culturali e folkloristici della Sicilia, attraverso le righe che seguono conosceremo alcune delle terribili storie e dei luoghi che caratterizzarono Palermo al tempo dei Viceré spagnoli. Anni in cui la città pullulava di perseguitati e persecutori e in cui eretici e streghe riempivano le carceri e contribuivano, con lo spettacolo macabro della loro esecuzione, a movimentare la vita cittadina di quel periodo. Attraverso la passeggiata che, non a caso, ha inizio davanti a uno dei principali parchi pubblici della città, “Villa Giulia”, ripercorriamo a ritroso il cammino tracciato dai condannati di quell’epoca partendo da uno dei punti in cui si svolgevano le pubbliche esecuzioni capitali e gli autodafé (atti di fede), fino a raggiungere le antiche carceri dello Steri, passando per l’Oratorio dei Bianchi. Infatti, al posto di Villa Giulia, che nacque nel periodo compreso tra il 1775 e il 1778, vi era la piana di Sant’Erasmo, dove i marinai facevano asciugare le reti, che, insieme a Piazza Marina, al piano della Cattedrale e a quello dell’Ucciardone, era uno dei luoghi dedicati alla morte.
Rita Russo Photography
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A questo punto è opportuno fare un passo indietro per inquadrare il periodo storico di cui ci accingiamo a parlare. Era l’inizio del 1500 quando il Regno di Sicilia entrò in unione personale con l'Impero Spagnolo, il più esteso del suo tempo, tant’è che venne soprannominato "l'impero su cui non tramonta mai il sole”. Palermo diventò sede dei Viceré, i quali, condividendo il potere nell'isola con il Parlamento siciliano, regnarono in luogo dei re spagnoli fino al 1759. In questi anni, venne istituito, in Sicilia, il Tribunale della Santa Inquisizione Spagnola che ebbe l’obiettivo di promuovere l’ortodossia cattolica e tutelarla dalle teorie considerate ad essa contrarie, le cosiddette eresie. Nel contempo crebbero i privilegi nobiliari e la città vide rilanciare l’attività artistica con la costruzione di sontuosi edifici come la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, la ristrutturazione di Porta Nuova, l’apertura di Via Maqueda, la realizzazione dei Quattro Canti, della Fontana Pretoria e di robuste mura e bastioni per la difesa del territorio cittadino.
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Sebbene l’Inquisizione abbia origini che affondano le proprie radici nel Medioevo, quando si occupò prevalentemente dell'eresia catara e della valdese e si concluse a metà del Trecento, l’Inquisizione spagnola, a differenza di quella medievale, fu il risultato della politica di conversione dei musulmani e degli ebrei al Cristianesimo.
soprattutto, a confiscare i patrimoni dei condannati a favore dell'erario reale. Ad essere imprigionati non furono solo gli uomini ma anche le donne, che venivano per lo più accusate di stregoneria.
Essa fu istituita in Spagna con la bolla pontificia Exigit sincerae devotionis nel 1478 e fu fortemente voluta da Ferdinando II, nonostante le ritrosie papali. Ad essere perseguitati dal tribunale furono proprio gli ebrei, i protestanti e, in generale, tutti coloro che andavano contro i dettami della religione cattolica.
L’Inquisizione in Sicilia, gestita da indagatori che erano nominati e provenivano dalla Spagna, dipendeva direttamente dalla Corona spagnola e non dalla Santa Sede, in virtù di una bolla emanata da Papa Urbano II nel 1098, confermata da Papa Pasquale II nel 1117, in forza della quale i re di Sicilia erano ritenuti Legati Apostolici, come il Conte normanno Ruggero I.
Degni di accusa e di punizione furono anche gli stregoni, i bestemmiatori, i blasfemi, gli adulteri (o chi si macchiava di reati di natura sessuale in genere) e gli usurai. Il tribunale servì, comunque, a colpire anche gli oppositori politici e,
Dunque, in questo modo, tutta la materia ecclesiastica sull’isola era di esclusiva competenza dei re spagnoli e ogni sentenza pronunciata dal tribunale dell’Inquisizione era considerata inappellabile.
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L’organizzazione era composta da un Consiglio dell'Inquisizione Generale e Suprema, dai Tribunali e dai Familiari. Il primo dava le istruzioni ai tribunali e oltre ad esaminare i rapporti dei processi, ordinare le ispezioni e rivedere le cause, agiva anche come tribunale per i membri della stessa Inquisizione accusati di reati. Il presidente era l’Inquisitore Generale; mentre gli altri membri erano i requirenti provinciali (nominati dal re) insieme a prelati e avvocati. I Tribunali, che giudicavano gli accusati, erano formati da tre inquisitori, per la maggior parte autorevoli membri del clero, insieme ad altre figure, tra le quali i notai e un difensore dell’accusato.
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Quest’ultima doveva servire a indurre il presunto reo a confessare e, soprattutto, ad arrivare alla prova piena del reato, resa schiacciante dal potere indiscutibile dei giudici del tribunale, cui seguivano la condanna inappellabile e l’autodafè. Visto che la tortura veniva utilizzata per estorcere confessioni dai condannati e non per uccidere, le varie tecniche utilizzate erano estremamente dolorose e, generalmente, non letali e i differenti strumenti dipendevano dal tipo di tortura da infliggere.
Infine, i Familiari erano personaggi appartenenti al popolo con il compito di incoraggiare le delazioni, raccogliere le testimonianze e catturare gli accusati. Tali personaggi, odiati dal resto della popolazione, erano privi di salario fisso ma, per la loro appartenenza all’ordine, godevano di alcuni privilegi tra i quali quello di poter camminare armati e quello di essere esenti dai contributi fiscali. La “familiarità” con l’Inquisizione, dunque, era considerata prestigiosa e per questo il loro numero crebbe a dismisura nel tempo (solo a Palermo ne furono impiegati oltre quindicimila!). Le procedure per infliggere le condanne venivano svolte in segreto. La cattura del reo avveniva “ex abrupto” (senza preavviso) e tutte le prove, non sempre del tutto attendibili, erano raccolte servendosi di delatori e della tortura. Manuela Albanese Photography Rita Russo Photography
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La pena più diffusa, imposta dal tribunale dell’Inquisizione, era la morte al rogo. Ma vi erano anche altri tipi di condanne minori per chi si pentiva e confessava spontaneamente, anche in extremis, che prevedevano il remo sulle galere, la prigione perpetua, la pubblica fustigazione, l’esilio o solamente indossare l’infamante sambenito, uno scapolare con immagini e colore diversi a seconda della pena decretata: una croce di sant'Andrea se il reo si era pentito in tempo per evitare il supplizio, mezza croce se aveva subito un'ammenda, le fiamme se condannato a morte. Dopo l’emanazione della pena aveva luogo l’autodafé, un solenne cerimoniale che si svolgeva sulla pubblica piazza per lo più nei giorni festivi e durava diverse ore, al quale partecipavano autorità ecclesiastiche e civili. Esso prevedeva una messa, le preghiere, la processione dei colpevoli, condotti a colpi di sferzate e oltre alla lettura delle sentenze, potevano aver luogo le abiure e le riconciliazioni pubbliche. Quindi, i condannati a morte venivano consegnati alla giustizia ordinaria che, in un secondo momento, dava seguito all’esecuzione della sentenza. Lasciata alle nostre spalle Villa Giulia, iniziamo il percorso attraversando quel che resta di una delle porte della città, Porta Carolina, per entrare nella Kalsa (dall’arabo Al-Hālis “l’eletta”), uno dei più antichi quartieri di Palermo, risalente al periodo della dominazione islamica. Qui, tra il 937 ed il 938 d.C., in posizione strategica vicino al porto della Cala, gli arabi costruirono il loro quartier generale fortificato. Una vera e propria città nella città, nella quale vi aveva sede l’emiro e la sua corte.
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Seguendo l’itinerario che ci porterà a Palazzo Steri, attraverso i vicoli e le strade di questo quartiere, vale la pena dare un’occhiata a Santa Maria dello Spasimo che fu edificata insieme all’annesso convento, all’interno delle mura della Kalsa, nel 1506.
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Il committente fu Giacomo Basilicò che, per l’occasione, diede a Raffaello l’incarico di eseguire un dipinto che ritraesse il dolore della Madonna davanti alla croce. Quando la minaccia turca sulla città divenne più pressante, nonostante la chiesa non fosse stata terminata, si rese necessaria la costruzione di un nuovo bastione a ridosso di quest’ultima. Il complesso venne, quindi, trasformato in fortezza, poi in teatro, in lazzaretto (durante la peste del 1624), in ospizio per poveri (1835) ed infine in ospedale, fino al 1986, quando venne abbandonata. Oggi, dopo i necessari interventi di restauro, il Complesso monumentale dello Spasimo è sede della Fondazione The Brass Group che, oltre ad organizzare e gestire l’“Orchestra
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jazz siciliana”, provvede alla formazione musicale attraverso la sua “Scuola popolare di musica”. In prossimità della chiesa dello Spasimo, ci imbattiamo nell’Oratorio dei Bianchi, un magnifico edificio sia civile sia religioso, costruito nel 1542, per volere dell’omonima Compagnia. La costruzione incorporò la Chiesa della Madonna della Vittoria, realizzata, nel ‘400, nel luogo dove esisteva una delle quattro porte che avevano regolato l’accesso alla città fortificata (l’unica di cui si ha certezza) e dalla quale i condottieri normanni, nel 1071, penetrarono per espugnarla.
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La Compagnia del SS. Crocifisso, fondata nel 1541 e successivamente detta dei Bianchi per il colore dell’abito che indossavano, riuniva le figure più nobili e autorevoli di Palermo, sia laici sia ecclesiastici e aveva come compito istituzionale il conforto e l’assistenza dei condannati a morte da tutti i tribunali (ordinari e dell’Inquisizione). Tre giorni prima dell’esecuzione, infatti, i prigionieri, consegnati al Presidente di Giustizia che mandava il “biglietto d’avviso” alla Compagnia, con i ceppi ai piedi, venivano sottratti alle mani dei carnefici e affidati alle “cure spirituali” di quattro fratelli che, in quei giorni, vestiti con un saio bianco e un cappuccio in testa, li preparavano a una “buona morte”, invitandoli alla confessione e al pentimento. I membri della compagnia, inoltre, erano gli unici che, dopo avere accompagnato per tutto il tragitto il condannato che partiva dalle carceri, potevano varcare lo steccato che delimitava la forca durante le esecuzioni. Dal momento che i componenti della compagnia erano personaggi appartenenti alle più alte cariche politiche e religiose, essa acquisì nel tempo potere e numerosi privilegi, tra cui quello di poter concedere la grazia a un condannato, a suo insindacabile giudizio, durante il Venerdì Santo. Tal potere, seppur difeso come esclusivo, cadde in disuso nel 1580 perché lesivo della potestà reale, ma fu ripristinato molto dopo, nel 1707. L’accesso alla Compagnia non era facile e le domande degli aspiranti “Cavalieri bianchi”, esclusivamente nobili di alta estrazione ed ecclesiastici dottori in Teologia, erano esaminate da una commissione composta da diciannove ex Superiori e Consiglieri che, con voto segreto, esprimevano il loro parere in merito all’inclusione o all’esclusione dei candidati. Il complesso edificio dei Bianchi è il risultato di continui rifacimenti. Esso, infatti, dopo l’iniziale realizzazione, fu definito in parte nel 1686, dopo che un incendio all’inizio del secolo aveva distrutto i locali riservati alla compagnia.
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Solo nel 1987 la Regione Siciliana entrò in possesso dell’immobile restituendolo alla fruizione, in ogni sua parte, dopo una complessa opera di restauro terminata nel 2002. L’ingresso principale all’oratorio si trova su Piazzetta dei Bianchi e sulla facciata spicca lo stemma della famiglia Alliata, principi di Villafranca, che aveva finanziato questa parte di oratorio e vantava un membro della famiglia tra i fratelli della compagnia.
Ulteriori interventi di ampliamento e rinnovamento decorativo, che gli conferirono l’aspetto attuale, furono effettuati negli anni compresi tra il 1700 e il 1800. Dopo la soppressione della compagnia, avvenuta nel 1820, l’edificio fu lasciato all’incuria e al totale abbandono che causò il conseguente deterioramento e la perdita dei ricchi apparati interni.
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Oltre l’ingresso si può ammirare una maestosa scalinata in marmo bianco di Carrara che si sviluppa su tre livelli, con una rampa centrale al primo e al terzo (alla fine della quale spicca una statua del re spagnolo realizzata in stucco da Procopio Serpotta), lungo le pareti della quale, dentro delle nicchie vi sono statue e medaglioni a tema religioso. Questa scalinata porta al primo piano nel quale si trova l’oratorio vero e proprio, costituito da un grande salone dal pavimento in maiolica settecentesca, di cui restano integre solo poche parti, le cui pareti sono affrescate con scene che hanno per tema le Sacre Scritture. Sul presbiterio, invece, si trova una pala d’altare dipinta nel 1800 da Antonio Manno.
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Il fronte posteriore dell’edificio venne edificato su due ordini sovrapposti: il pianterreno presenta un grande portico composto da una serie di cinque archi bugnati, culminanti con mascheroni antropomorfi nella chiave dell’arco, sormontato al primo livello, da un ordine di paraste rilevate che terminano con capitelli corinzi. Tra i due piani si trova una balconata continua in ferro. L’ingresso a questa parte dell’edificio immette nell’aula dell’antica chiesetta, ormai sconsacrata, di S. Maria della Vittoria, che funge da vestibolo d’ingresso e da spazio espositivo oggi dedicato oltre che agli stucchi di Giacomo Serpotta che adornavano il monastero delle Stimmate, raso al suolo nel 1875 per permettere la realizzazione del Teatro Massimo, anche statue appartenenti ad altri oratori e chiese di Palermo. In questa parte del palazzo vi è conservata anche la storica porta araba “Bab el Fotik” dalla quale, secondo la tradizione, il normanno Roberto il Guiscardo, nel 1071, entrò vittorioso nella città sconfiggendo gli arabi ed è l’unico reperto ligneo di epoca islamica con una datazione certa (956 d.C) appartenente alla città di Palermo devastata dall’invasione normanna. Rita Russo Photography
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Imboccando la via Alloro, l’asse principale del quartiere della Kalsa, molto importante, soprattutto in passato, perché vi dimoravano le più alte cariche della città e vanta per questo un gran numero di palazzi nobiliari, raggiungiamo, dopo pochi metri, Piazza Marina e in particolare il Palazzo Steri. Questa piazza, anch’essa ricadente nel quartiere Kalsa, presenta al centro la Villa Garibaldi, progettata dall’architetto G. Battista Basile nel 1863, con i suoi magnifici esemplari di magnolie secolari. Lo stesso Basile fece sistemare la barocca Fontana del Garraffo, progettata da Paolo Amato e scolpita da Gioacchino Vitagliano, che fino a qual momento era posizionata nella omonima piazza del vicino mercato della Vucciria, di fronte al palazzo della Vicaria che, per lungo tempo, ospitò le carceri della città e che divenne in seguito il Palazzo delle Finanze. Fino al Medioevo, questa piazza, che era una palude collegata col porto cittadino della Cala, fu bonificata nel XIV secolo durante la dominazione angioina. La bonifica creò una spianata libera che fu teatro oltre che di spettacoli solenni come cavalcate, tornei e giostre anche delle esecuzioni capitali degli eretici provenienti dalle vicine carceri dello Steri, durante il periodo dell’Inquisizione spagnola. Qui vi sorgeva, infatti, permanentemente il patibolo e vi si svolgevano i roghi e gli autodafé.
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Il Palazzo Chiaramonte detto Steri (da Hosterium magnum che vuol dire “fortezza”) si trova nell’estrema parte sud orientale della piazza. Esso fu sede palermitana dell’Inquisizione e venne adattato al ruolo di struttura detentiva, a partire dal 1601. Alla fine del 1700, dopo l’abolizione dell’Inquisizione, per qualche anno fu sede del Rifugio dei Poveri di San Dionisio e in seguito della Regia Impresa del Lotto. Dal 1800 al 1958 il palazzo ospitò nei piani superiori gli Uffici Giudiziari e, al pianoterra, gli uffici della Regia Dogana. Dagli anni ’60 del secolo scorso è sede del rettorato dell’Università degli Studi di Palermo, che salvò il palazzo dalla demolizione per la realizzazione al suo posto di una strada come previsto dal Piano Regolatore. Il palazzo, edificato nel 1307, è il massimo esempio di stile chiaramontano, una corrente dell'arte gotica sviluppatasi in Sicilia durante il dominio della famiglia Chiaramonte, a lungo Conti di Modica, che mescola insieme forme islamiche, normanne e gotiche. Nel prospetto antistante la piazza è possibile, infatti, osservare gli elementi della tradizione architettonica trecentesca chiaramontana nelle ampie finestre, bifore e trifore, con le caratteristiche decorazioni ad intarsio in pietra lavica.
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Dal 1468 al 1517 il palazzo divenne residenza dei Vicerè. Infine, nel 1598 il Tribunale per l’amministrazione di giustizia ordinaria venne trasferito a Palazzo Reale e nel 1601 s’insediò quello dell’Inquisizione, con il Carcere dei Penitenziati, predisposto da Filippo III, le cui celle vennero per questo denominate “filippine”. Per adattarlo a questo scopo, il palazzo subì delle modifiche radicali. Furono così realizzate la camera della tortura, le prime celle di detenzione, la stanza del segreto, dove gli inquisitori si riunivano per emettere le sentenze, la camera delle udienze e tutti gli altri ambienti necessari al buon funzionamento del tribunale. Nel 1603 venne realizzata la porta monumentale sul piano della Marina e visto che le celle si rivelarono troppo piccole ed in numero insufficiente per accogliere la gran quantità di detenuti, fu costruito un nuovo edificio esclusivamente adibito a carcere con otto celle al pian terreno e tre al primo piano, con vani di collegamento tra i due edifici.
Alla fine del 1300, il re aragonese Martino il Giovane, dopo aver confiscato il palazzo per fellonia ai Chiaramonte, vi elesse domicilio e a tale scopo furono ridotti gli ambienti destinati a tribunale ordinario, che dal Castellammare, nei pressi della Cala, erano stati trasferiti in questa sede.
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I graffiti e i dipinti che si conservano oggi sui muri delle celle, scoperti nei primi anni del Novecento dallo studioso palermitano Giuseppe Pitrè, insieme a quelli venuti alla luce durante i più recenti restauri del palazzo, costituiscono una toccante ed autentica testimonianza storico - culturale delle sofferenze e della condizione in cui vivevano i condannati al tempo dell’Inquisizione, ma attestano anche l’origine di essi, alcuni dei quali erano artisti, poeti, studiosi e cartografi. Possibili detrattori di una religione che voleva dominare e che aveva trovato uno strumento infallibile per eliminare scomodi avversari e miscredenti. Tra le storie più note di eretici e streghe, nella Palermo del 1600, ne emergono due, tra leggende e verità, tramandate e arrivate fino ai giorni nostri grazie all’operato di illustri studiosi: una è quella di Fra’ Diego La Matina, l’eretico che da vittima divenne giustiziere uccidendo il proprio inquisitore, la cui storia lunga e dolorosa ha ispirato a Leonardo Sciascia il libro Morte dell’Inquisitore e l’altra è quella di Francesca Rapisarda, detta Peppa la Sarda, l’avvelenatrice.
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Diego La Matina era un frate agostiniano eremita e ribelle, originario di Racalmuto, un paese in provincia di Agrigento, definito anche “scorridore di campagna” dedito a “furtarelli” di poca importanza. Come accadde a molte persone di quell’epoca, ad un certo punto della sua vita venne accusato di eresia. Fu accusato anche di avere ucciso un uomo per salvare l’onore della sorella, ma di questo omicidio non è mai stata trovata alcuna testimonianza. Della sua effettiva eresia si sa poco o addirittura nulla. Ma è più facile che, vista la sua indole ribelle e il suo impegno nella difesa dei diritti dei più deboli, egli fosse considerato come un pericolo sociale, un elemento destabilizzatore scomodo per il potere sia politico che ecclesiastico.
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Subì ben cinque condanne. Fu arrestato per la prima volta, a soli 22 anni, nel 1644. Sia in quest’anno che nel successivo, subì due giudizi da parte del tribunale dell’Inquisizione ma fu assolto dopo avere scontato un anno di pena e aver pronunciato formale abiura. Ma nel 1646 non ebbe scampo e stavolta il tribunale punì l’ostinazione piuttosto che l’eresia, condannandolo a cinque anni di deportazione sulle galere. Ne scontò solo tre in virtù di un ordine dell’Inquisitore Generale che prevedeva un massimo di tre anni per la durezza di questo tipo di condanna. La vita di un “remiero” risultava, infatti, estenuante in quanto il condannato era costretto a vivere incatenato, soddisfacendo i propri bisogni sempre nella stessa postazione. Tornato in carcere, il ribelle Fra’ Diego La Matina riuscì a fuggire e a nascondersi nelle campagne della sua Recalmuto, dove fu presto catturato e portato nelle celle dello Steri. Gli anni successivi furono per lui durissimi. Infatti, fu murato vivo in perpetuo in una cella di questo carcere dalla quale usciva solo per subire atroci torture e dove vi restò sei anni, solo e ammanettato. A seguito delle atroci sofferenze inflittegli sotto tortura, Diego alla fine confessò. Ma a marzo del 1657, condotto a colloquio davanti all’Inquisitore di quel periodo, Juan López de Cisneros, che nonostante la confessione minacciava ancora di farlo torturare per l’ulteriore peccato di ribellione, sfinito e infuriato, lo colpì a morte con i ceppi, fracassandogli la testa. Cisneros morì alcuni giorni dopo non senza avere perdonato il suo assassino, rendendolo così ancora più colpevole. Quindi, una volta ucciso il proprio inquisitore torturatore, Diego fu condannato al rogo e incatenato a una sedia di castagnolo dove restò fino al giorno dell’autodafé e dell’esecuzione, che avvenne un mese dopo, il 17 marzo del 1658, dopo dodici anni dalla prima condanna.
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Si racconta che la notte prima dell’esecuzione, Diego, con la tenacia della sua volontà e la forza del suo pensiero, affermò ancora una volta la dignità dell’uomo nonostante le atroci prove da lui subite negli anni di prigionia, tenendo testa alle torture psicologiche di dieci teologi che cercarono di “salvargli l’anima” inducendolo invano al pentimento. Condotto il giorno dopo al piano di Sant’Erasmo, dove il popolo attendeva l’esecuzione sui palchi allestiti intorno alla pira, Diego fu protagonista di un estremo gesto, chiedendo al Vescovo Giuseppe Cicala di riavere la vita corporale in cambio della sua sottomissione alla chiesa cattolica. Alla risposta negativa di quest’ultimo, che ribadì l’immutabilità della pena, Diego replicò «a che dunque disse il Profeta “Nolo mortem peccatoris, sed ut magis convertatur, et vivat”? (Non voglio la morte del malvagio, ma piuttosto che si converta e viva)». La risposta del vescovo giunse immediata precisando che il Profeta intendeva “la vita spirituale e non quella corporale” e fu allora che Diego concluse rabbiosamente con la frase: «Dunque Dio è ingiusto». Un ultimo appello con il quale egli, pur non negando Dio, denuncia l’ingiustizia delle leggi e soprattutto quelle della Chiesa che si proclama misericordiosa e caritatevole e che, invece, opera contro Dio stesso. Sciascia, che ebbe non poche difficoltà a realizzare il suo libro a causa della perdita della documentazione relativa alle carceri seguita all’incendio successivo all’abolizione dell’Inquisizione, scrive che la colpa di Diego fu quella di porsi «il problema della giustizia nel mondo in un tempo sommamente ingiusto». All’età di 37 anni, il frate, che quel giorno fu arso con tutta la sedia sulla quale era stato incatenato dopo essere stato prima affogato, divenne per tutti l’esempio di resistenza al potere. Ben diversa fu la storia, compresa sempre tra verità e leggenda, di Francesca Rapisarda e di tutte le donne avvelenatrici di questo frammento di storia. Francesca fu condannata alla decapitazione dalla Regia Corte Capitaniale che avvenne il 16 febbraio 1633 a Piazza Marina, davanti una gran folla di popolani e signori, accalcati sui palchi realizzati per l’occasione, per essere stata la “fabbricatrice d’un veleno diabolico in acqua, della quale solo dandone una stilla in qualsivoglia cosa, faccia perdere il calore naturale, e fra tre giorni al più ne morivano le persone che la bevevano, così in Palermo, come nel Regno”.(Cit. da I veleni di Palermo, Rosario La Duca) “Peppa La Sarda”, dunque, faceva un mestiere che, a quel tempo, doveva fruttare parecchio ed era praticato da diverse donne. Si racconta che, durante il percorso che la condusse al patibolo, derisa dagli astanti, rispose loro dicendo che essi sarebbero morti come lei. E in realtà la sua maledizione si avverò quasi come una profezia perché, pochi minuti dopo la sua decapitazione, il legno dei palchi non resse il peso dei troppi spettatori e il crollo delle strutture causò tra questi numerose vittime.
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Peppa non fu l’unica avvelenatrice della Palermo del 1600, ma è con lei che il giro d’affari si espanse dalla città ai paesi vicini e non solo. Le richieste del suo potente veleno furono, a quel tempo, molto numerose, spesso provenienti da donne che, impossibilitate a ricorrere al divorzio, spinte dalla disperazione, cercavano di sbarazzarsi di un consorte indesiderato o violento ed essendo tale pozione incolore, insapore e inodore, non lasciava alcuna traccia. Così i crimini di questo tipo, che avvenivano tra la gente comune, restavano per lo più impuniti non destando alcun sospetto nelle autorità cittadine che in quel periodo erano messe sotto pressione dal terribile Vicerè Fernando Enriquez d’Afán de Ribera y Enríquez, soprannominato “vendicator severo dei delitti”. Fin quando però gli avvelenamenti non coinvolsero anche personaggi altolocati. A quel punto Francesca, una volta scoperta, venne arrestata e sotto tortura denunciò a sua volta due complici: Pietro Placido Marco e Teofania d’Adamo. Il primo venne arrestato, torturato e giustiziato in maniera terribile, a giugno dello stesso anno. Egli, infatti, fu squartato in quattro parti dopo essere stato legato a quattro cavalli. La seconda, che subì la stessa sorte un mese dopo, sembra, invece, avesse materialmente inventato la formula di questo veleno e che si fosse macchiata di numerosi delitti, tra i quali anche quello del marito. Il veleno, conosciuto come acqua tofana, che fu venduto anche a Napoli e a Roma, conteneva acqua, ossido arsenioso, limatura di piombo e di antimonio e succo di belladonna, le cui quantità sono rimaste sconosciute. Tali componenti, dopo la bollitura, davano luogo ad una soluzione completamente incolore, inodore e insapore, ma ad altissimo tasso di tossicità, che una volta somministrata causava una morte lenta (dopo circa quindici giorni) e un quadro clinico riconducibile a un disturbo intestinale, che allontanava eventuali sospetti di omicidio. Nonostante le storie fin qui raccontate si trovino, come già affermato prima, al confine tra verità e leggenda, è pur vero che durante il periodo compreso tra il 1500 ed il 1700 inoltrato, molte furono le condanne a morte non solo decretate dai tribunali civili, ma soprattutto da quelli dell’Inquisizione che, in nome di Dio, fecero anche grande uso della tortura. Per fortuna, almeno l’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione fu soppressa nel 1782 con un Regio decreto legge emanato dal Vicerè Domenico Caracciolo. Vennero di conseguenza chiuse le carceri dello Steri, distrutti gli stemmi, le insegne e gli strumenti di tortura. Mentre, il 27 giugno 1783, l’archivio del tribunale venne dato alle fiamme e con esso tutti i documenti relativi all’Inquisizione, ai processi e ai personaggi che ne erano stati coinvolti, sia inquisitori sia inquisiti. Oggi questi palazzi rimangono importanti monumenti del patrimonio architettonico di un vero e proprio museo a cielo aperto, ossia la splendida città di Palermo.
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MUSEO DELLA CARTA DI MELE
A cura di Gaia Cultrone e Stefano Zec
Si parla spesso, ma forse mai abbastanza, di quanto Genova sia una città ricca di sorprese, nella sua conformazione, nel clima, nella storia, nella quantità di aneddoti, luoghi e dettagli che nasconde. Si parla poco però di quanto di bello ci sia anche al di fuori del centro di Genova, più turistico e raccontato, come appunto ad Acquasanta, località nelle alture sopra a Voltri, nel ponente genovese. La zona è famosa per via dello stabilimento termale che vi sorge, ma c'è un'altra attrazione incredibilmente interessante: il Museo della carta di Mele.
Gaia Cultrone Giuseppe Tarantino
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GENOVA Il museo è stato inaugurato nel 1997, per raccontare una storia importante e che si tende a dimenticare: quella della rilevanza economica e sociale avuta dalla produzione della carta a Genova a partire dal XV secolo. La zona, detta valle Leira, era piuttosto comoda infatti per questa filiera, poiché sorgeva vicina a numerosi fiumi. Per questo motivo la produzione era molto concentrata (fino al XVIII secolo si potevano contare circa un centinaio di cartiere), tanto che per tutto il Cinquecento la carta utilizzata in Europa era tutta italiana, e particolarmente ricercata era proprio quella genovese, per via della sua qualità pregiata e dell'ottima resistenza, soprattutto ai danni degli insetti. Genova fu dunque, per circa tre secoli, il vero e proprio fulcro cartario d'Europa. La storia poi è all'incirca nota: l'avvento della Rivoluzione industriale porta all'invenzione di macchine che non richiedono più la forza manuale, alle produzioni su larga scala e dunque alla ricerca di tecniche e materiali che richiedano minor tempo e minor costo, a scapito della qualità. Progressivamente quindi le cartiere si riducono, arrivando ad essere circa 43 durante la Seconda guerra mondiale, e spariranno progressivamente quasi tutte. Ad oggi in Liguria quella del Museo della carta di Mele è l'unica a produzione artigianale in Liguria e una delle cinque rimaste in Italia a mantenere tali tecniche.
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MUSEO DELLA CARTA DI MELE
Una storia affascinante, dunque, che vale la pena di non dimenticare e di tramandare ed è questo che fa Giuseppe Traverso, titolare e mastro cartaio, attraverso la sua produzione tutt'oggi in essere ma anche attraverso le visite guidate al museo, che svolge anche per le scuole, i corsi e i laboratori. La particolarità del museo, innanzitutto, è quella di avere la sua sede in una cartiera effettiva, una delle ultime ad essere stata dismessa e risalente al 1756. Il luogo è stato ristrutturato poi negli anni Novanta con fondi che hanno permesso di incrementare anche la funzionalità dei macchinari e dell'accessibilità complessiva al posto. Tuttavia la vera peculiarità è proprio quella di essere in un opificio originale, che permette un tuffo nel passato ma anche una vera e propria esperienza artigianale, data la possibilità di toccare con mano i macchinari originariamente utilizzati per la produzione della carta e di vederli in funzione. Come Giuseppe stesso racconta, infatti, la bellezza del Museo della carta, e ciò che rende le visite da parte delle scuole così riuscite e affascinanti, è il fatto che non si tratta solamente di visite guidate, ma di vere e proprie esperienze: dopo aver visto le diverse stanze del museo, e dunque le fasi di produzione della carta, si ha la possibilità di fabbricare un foglio con i macchinari originali, di vedere quindi il prodotto lavorato e finito. Questo lascia al visitatore, e forse in particolare al bambino, una prova tangibile del fascino dell'artigianato, dell'amore che si prova per qualcosa che si realizza da zero, che si vede nascere tra le proprie mani e sotto i propri occhi. Giuseppe lavora con scuole di diverso ordine e grado e ha studiato attività differenti in base alla tipologia di studente e alla sua età, in modo da permettere a tutti di comprendere con facilità il fascino di questo mondo e di farlo divertendosi.
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Tutto ciò ovviamente può essere declinato anche in chiave adulta, e allora si può prendere parte ai laboratori in giornata fino ad arrivare a dei veri e propri corsi professionalizzanti, per chi volesse intraprendere un percorso concreto e fare di questa realtà un progetto lavorativo più ampio o semplicemente arricchire il proprio bagaglio professionale e culturale.
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D'altronde, la passione e il mestiere di Giuseppe sono nati proprio da un corso di questo tipo, che ha poi incontrato il progetto e i fondi del Provincia di Genova e della Comunità Europea, che miravano proprio a far riscoprire il fascino della produzione cartaria e a dare una nuova vita, e anche una nuova immagine, al Museo, che consolidasse tradizione e modernità. Giuseppe è riuscito proprio nell'intento, perché racconta sì la storia, i metodi di produzione artigianali e li mette in mostra, ma pone l'accento su un aspetto quanto mai attuale, ovvero la potenzialità delle risorse naturali come acqua e vento, indispensabili per la produzione della carta e del riciclo creativo: la carta infatti si può creare da numerosi materiali di scarto e proprio attraverso i laboratori viene mostrato come farlo, partendo da ritagli di giornali e scarti di altri lavori. Giuseppe ha anche sperimentato alcuni materiali particolari, come per esempio scarti di alimenti quali bucce di arancia e fondi di caffè o ancora alcune erbe come l'ortica, anche per venire incontro all'interesse crescente nei confronti del riciclo creativo.
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La lavorazione di carta di pregio però prevede l'utilizzo del cotone, ovvero la cellulosa pura al 100%, che è proprio ciò che ne garantisce la longevità che tanto veniva ricercata un tempo. Questo materiale, comunque, si ricavava da alcuni stracci e solo successivamente si è iniziato a ricavarli dal legno, diminuendo la qualità della carta ma incrementandone la produzione. Pertanto anche la carta di pregio nasce da un'attività di riciclo, nonché, come si diceva, da fonti di energia naturale. Persino l'acqua utilizzata veniva da un canale che altresì irrigava gli orti limitrofi, limitando dunque lo spreco. Dopo una fase preliminare di macerazione delle fibre, queste vengono inserite in dei cilindri olandesi (così chiamati perché inventati nei Paesi Bassi) che le raffinano, rendendole più resistenti, per poi portarle al tino di lavorazione nella quantità necessaria al tipo di prodotto che si vuole realizzare e procedendo all'eventuale fase di colorazione desiderata. Lo strumento fondamentale per questo passaggio, nonché il più iconico, è il telaio, costituito da un cascio che dà il formato alla carta e un setaccio in tela di bronzo che invece separa le fibre dall'acqua e forma effettivamente il foglio. L'artigiano esegue quindi un movimento nelle due direzioni in modo da creare il foglio in maniera uniforme.
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Il quantitativo di prodotto inserito nel telaio determina lo spessore della carta e qui sta l'abilità di artigiano di saper dosare il quantitativo di materiale corretto in base al tipo di lavoro da realizzare. Il prodotto che deriva da questa fase di lavorazione è comunque ancora al 90% acqua e dunque non si può rimuovere a mani nude; per questo passa attraverso uno strumento detto ponitore, che separa il foglio su un feltro. Fondamentale è la forma della base su cui si esegue il processo di ponitura, a schiena d'asino, perché la curvatura permette di esercitare la corretta pressione su tutti i lati. I feltri vengono dunque impilati e pressati, per rimuovere ulteriormente acqua, e solo allora sono effettivamente separabili dai fogli, che a quel punto passano attraverso il processo di asciugatura all'aria. Vi è una sala apposita dove per tutta la lunghezza venivano stese cinque corde di fogli di carta, che stavano lì qualche giorno a seconda dello spessore per poi venire pressati nuovamente un'ultima volta.
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La sala che oggi ospita lo shop, attivo dal 2015, era quella dove si eseguiva l'ultima pressatura per poi legare i fogli con il fil di ferro, pesarli (la carta veniva venduta al peso) e caricarli nel magazzino, odierna sala riunioni. Per quanto riguarda eventuali decori, essi venivano aggiunti nella fase di pressatura, dove era fondamentale la potenza del macchinario: tanto più forte è la pressata, quanti più fogli lavora contemporaneamente, ma non solo. Se la pressa è debole, infatti, i fogli non perdono abbastanza acqua e risultano fragili. Sempre a proposito di decori, alcuni venivano realizzati con cuciture a filo di ottone: esse creano un rilievo sul telaio, così che le fibre che ci si depositino creino un rialzo assottigliandosi. In questo modo, dopo la pressatura, sotto la luce si vede la filigrana come per le odierne banconote. Ma quindi cosa si realizza al Museo della carta e cosa si può acquistare? Si possono far realizzare biglietti di auguri e partecipazioni, carta personalizzata per corrispondenza, segnalibri, menù e vari accessori in carta per le cerimonie, prodotti di legatoria (quaderni e diari) e carte per artisti. Tutti le informazioni sono comodamente reperibili sul sito e gli ordini sono fattibili anche online.
Giuseppe Tarantino Photography
Lorena Durante Photography
Giuseppe Tarantino Photography
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102 Il prodotto di punta sono le partecipazioni per i matrimoni, settore dove è particolarmente sentita, ancora oggi, l'esigenza del prodotto artigianale in quanto mai uguale; al Museo della carta poi dispongono di una vastissima gamma di colorazioni e questo li rende particolarmente richiesti, complice poi il fondamentale passaparola tra i clienti. Quello che risulta davvero affascinante, come si evince da questo racconto, nel visitare un posto come il Museo della carta è il riscoprire l'amore per il prodotto fatto a mano, con tutta la pazienza, la cura, nonché l'unicità, che questo trasuda. Forse a raccontarlo meglio ancora sono le stesse parole di Giuseppe: “L'artigianato sta rinascendo in un suo modo, si sta riscoprendo questo interesse, per gioco o hobby ma anche per lavoro; penso che sia una doverosa risposta all'appiattimento sociale economico in un certo senso: si perde progressivamente la propria identità in un mondo fatto di digitalizzazione e omologazione, e quindi forse per questo si cerca un qualcosa che, per definizione ha una sua impronta unica e personale.”
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Rita Russo hotography Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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PLANE TARIO DI TORINO A cura di Andrea Barsotti
Andrea Barsotti Cinzia Carchedi Domenico Ianaro Edoardo Anfossi Giancarlo Nitti Maria Grazia Castiglione Massimo Tabasso Monica Pastore
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E luce fu
Un viaggio alla ricerca della luce
Dal primo bagliore accecante del Big Bang che generò lo spazio tempo, ai maestri della pittura, fino ai grandi fotografi la luce è la protagonista della storia dell’universo e quindi della vita stessa; fornendoci la percezione primaria di ciò che ci circonda dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Ed è con questa emozione subliminale che la Band di Giroinfoto ha fatto visita ad INFINI*TO; il Museo dell’Astronomia e dello Spazio; vero e proprio Science Centre situato sulla cima di una collina nel comune di Pino Torinese, a pochi chilometri dal centro di Torino. É attivo dal 27 settembre 2007.
Domenico Ianaro Photography
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Stiamo entrando in un museo interattivo posto su più livelli dove, grazie agli exhibit distribuiti su ogni livello, il fare e l’imparare rendono il visitatore protagonista in prima persona della storia dell’universo; come bambini dal passo incerto ci introduce ai misteri dello Spazio fino ai suoi aspetti più curiosi: dalla teoria del Big Bang ai Buchi Neri. La struttura è dotata anche di un Planetario digitale tra i più avanzati d’Europa. Tutta l’architettura richiama l’Universo, per l’esattezza un sistema binario formato da una Stella Gigante (il planetario) e il Buco Nero che viene alimentato dalla materia risucchiata dalla stella lungo il corridoio elicoidale che ci accompagna nella visita ai vari livelli; il cono di cristallo che si chiude nella Singolarità sul fondo della struttura rappresenta la radiazione residua del Buco Nero. Il Museo è dominato dalla cupola bianca dell’Osservatorio Astrofisico di Torino; struttura di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica la cui storia risale alla metà del settecento. Strutturato su 4 piani, di cui 3 interrati:
Piano 0 : Piano -1: Piano -2: Piano -3:
Alzando gli occhi al cielo Visibile e Invisibile Le mani sulla scienza L’universo che fugge Cinzia Carchedi Photography
Museo
Piano 0 Piano -1 Planetario
Piano -2
Barbara Tonin Photography
Piano -3
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Terrazza Spazio Attività
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Iniziamo la visita
VIETATO NON TOCCARE
Piano 0
Monica Pastore Photography
Gli albori dell’astronomia e le domande che da sempre noi umani ci facciamo alzando appunto lo sguardo oltre l’orizzonte e osservando ad occhio nudo le stelle ed i pianeti.
Ci guida Ipazia vissuta 1.500 anni fa ad Alessandria d’Egitto ed ancora oggi ricordata come simbolo della libertà di pensiero; scienziata e astronoma inventrice dell’astrolabio (il modello bidimensionale della sfera celeste), del planisfero (la raffigurazione piana della superficie sferica della terra) e dell’idroscopio (strumento per misurare il peso specifico dei liquidi). Sopra le nostre teste dei veri modelli di satelliti: il BeppoSAX e un Tethered (il celebre satellite al guinzaglio), messi a disposizione dalla Thales Alenia Space.
Fabrizio Rossi Photography
Andrea Barsotti Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Remo Turello Photography
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Piano -1 Galileo Galilei e la rivoluzione del suo cannocchiale avvicinano i corpi celesti all’uomo. Dai semplici strumenti ottici fino a quelli più complessi e attuali, l’evoluzione della strumentazione ha permesso di scandagliare tutta l’intera gamma dello spettro elettromagnetico, quindi non solo la luce visibile.
I Raggi Gamma, i Raggi X, le radiazioni ultraviolette e infrarosse, le Microonde e le onde Radio sono esposti nel pannello multimediale “Lo spettro elettromagnetico” che illustra le varie bande dello spettro e gli strumenti scientifici costruiti dall’uomo. Tale strumentazione è in grado di registrare le varie lunghezze d’onda sopperendo alle deficienze del nostro occhio e, in alcune situazioni, è diventata familiare anche nella vita quotidiana e domestica: la radio, il forno a microonde, il telefono cellulare e gli apparecchi per le radiografie. Ne “L’atmosfera” alcuni pannelli ci mostrano come gli strati della pellicola d’aria che ricopre la Terra assorbano le varie lunghezze d’onda e il perché, quindi, sia fondamentale andare nello spazio oltre l’atmosfera terrestre per intercettare tutti i segnali che l’universo ci manda. Spettacolare la postazione “Uno specchio sulla Luna”, che simula il tempo di percorrenza necessario alla luce per andare e tornare sul nostro satellite: per la precisione, viaggiando alla velocità di 300.000 chilometri al secondo, circa 1,3 secondi. Guardando attraverso un modello di un piccolo telescopio ci vediamo ripresi dall’occhio di una piccola telecamera posta dietro di noi, ma come eravamo 1,3 secondi prima; con questo semplice esperimento abbiamo simulato ciò che vedremmo se sulla Luna ci fosse uno specchio a rifletterci: la luce è lenta…?
Andrea Barsotti Photography
Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Piano -3 Tutto si allontana da noi verso il futuro dello spazio-tempo. Si parte dal Big Bang e non si sa… La guida virtuale è Edwin Hubble e ci introduce ai veri misteri dell’Universo come la sua nascita, la sua evoluzione, i buchi neri e il suo futuro.
“Le pieghe dello spazio-tempo” e “Le Lenti Gravitazionali” ci mostrano come la materia e l’energia deformano lo spazio e il tempo intorno a noi, secondo la Teoria della Relatività di Einstein: attraverso una telecamera ci vediamo modificati dalla simulazione delle onde gravitazionali come negli specchi deformanti dei Luna Park di qualche anno fa. Come sarà il futuro dell’Universo? Per avere una risposta a questa domanda occorrerà andare alla ricerca delle tracce fossili della sua nascita: una grande immagine della Radiazione di Fondo del grande evento primigenio: c’è abbastanza massa nell’Universo? Ne “I Tre Modelli di Friedmann” sono esposti appunto i tre possibili scenari del nostro lontano futuro: quello statico (come credeva Einstein); quello in contrazione o oscillanteciclico dove l’universo si espanderà fino a quando comincerà a contrarsi per ricominciare tutto da capo e quello che continuerà ad espandersi accelerando la sua fuga fino al disgregamento di tutta la materia: la fine della LUCE…! L’arbitro che stabilirà tutto questo è appunto la massa presente nell’Universo e la sua densità; si parla di massa oscura se consideriamo che quella visibile è appena il 14% del totale… Edoardo Anfossi Photography
Edoardo Anfossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Il Planetario Tutto si allontana da noi verso il futuro dello spazio-tempo. Si parte dal Big Bang e non si sa… La guida virtuale è Edwin Hubble e ci introduce ai veri misteri dell’Universo come la sua nascita, la sua evoluzione, i buchi neri e il suo futuro.
“Le pieghe dello spazio-tempo” e “Le Lenti Gravitazionali” ci mostrano come la materia e l’energia deformano lo spazio e il tempo intorno a noi, secondo la Teoria della Relatività di Einstein: attraverso una telecamera ci vediamo modificati dalla simulazione delle onde gravitazionali come negli specchi deformanti dei Luna Park di qualche anno fa. Come sarà il futuro dell’Universo? Per avere una risposta a questa domanda occorrerà andare alla ricerca delle tracce fossili della sua nascita: una grande immagine della Radiazione di Fondo del grande evento primigenio: c’è abbastanza massa nell’Universo?
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Ne “I Tre Modelli di Friedmann” sono esposti appunto i tre possibili scenari del nostro lontano futuro: quello statico (come credeva Einstein); quello in contrazione o oscillanteciclico dove l’universo si espanderà fino a quando comincerà a contrarsi per ricominciare tutto da capo e quello che continuerà ad espandersi accelerando la sua fuga fino al disgregamento di tutta la materia: la fine della LUCE…! L’arbitro che stabilirà tutto questo è appunto la massa presente nell’Universo e la sua densità; si parla di massa oscura se consideriamo che quella visibile è appena il 14% del totale…
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Domenico Ianaro Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Questo è quindi il Museo dell’Astronomia e dello Spazio di Pino Torinese; ma non solo se, come nel più classico dei modi di dire, il suo nome INFINI*TO “è tutto un programma”… Non si esce mai davvero dalla visita, la luce del Sole e delle Stelle ci accompagneranno ancora in ogni esperienza, spingendoci ancora a fare domande e a cercare risposte. Un ringraziamento a tutto il personale dello Staff del Museo; ragazzi sempre disponibili e pazienti nel rispondere anche alle nostre più ingenue domane. Divulgatori, istruttori e sperimentatori entusiasti che, anche se con il volto parzialmente coperto dalle mascherine (Covid docet), con la LUCE della parola e dei loro occhi ci hanno guidato trasformandoci in “BAMBINI-DELLE-STELLE” di kubrickiana memoria.
Maria Grazia Castiglione Photography
Monica Pastore Photography
Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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Andrea Barsotti Photography Giroinfoto Magazine nr. 77
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YALA
A cura di Giancarlo Nitti Giroinfoto Magazine nr. 77
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Immerso nell'angolo sud-orientale dello Sri Lanka, il Parco Nazionale di Yala è il principale parco nazionale dell'isola e offre la più grande diversità di animali e uccelli del paese. Gli habitat che si trovano nel parco sono di ampia portata, dai laghi d'acqua dolce alle spiagge, dagli affioramenti rocciosi alle pianure verdi e alla giungla. Questo crea un'area di immensa biodiversità ed è una delle destinazioni più popolari al mondo per avvistare l'inafferrabile leopardo, che ama oziare sugli enormi massi di granito del parco.
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PECCIOLI
La densità della popolazione di leopardi all'interno del parco garantisce gli avvistamenti di questo fantastico felino come un evento regolare, rendendo il parco Yala un'attrazione estremamente popolare solo per questo motivo.
Yala è una zona piuttosto selvaggia e aspra del paese, con lunghe spiagge battute dal vento con onde che si infrangono rendendo il mare pericoloso per la balneazione, molte delle quali sono adiacenti alle foreste e alle pianure che costituiscono uno dei Parchi Nazionali dello Sri Lanka. Nessuna visita a Yala rischia di deludere e la fauna selvatica, oltre ai famigerati leopardi include molti elefanti indiani, cinghiali, manguste, coccodrilli, cervi maculati, coccodrilli e rettili di ogni tipo. L'avifauna del parco è altrettanto varia, con oltre 230 specie che possono essere avvistate e questo include una serie di specie endemiche come l'uccello della giungla e il bucero grigio.
L'area è situata in una zona molto secca dello Sri Lanka, le precipitazioni annuali per la regione di Yala sono comprese tra 900 e 1300 mm a seconda della località, con dicembre e gennaio generalmente i mesi più piovosi e la siccità tra maggio e settembre. Nonostante ciò, avvistare il leopardo non è difficile, rendendo il parco un'ottima destinazione per la fauna selvatica e divertente in vari periodi dell'anno, anche se le strade tendono ad essere più accidentate dopo pioggia.
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Giancarlo Nitti Photography
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Il Parco Nazionale di Yala ha un'estensione di 980 chilometri quadrati ed è visitato da oltre 650.000 persone l'anno. Yala è composto da 5 settori diversi, di cui solo "il blocco 4" è chiuso al pubblico per garantire che gli animali e i paesaggi del parco siano protetti dal turismo di massa. La riserva naturale va dalla giungla interna alla costa dorata dell'Oceano Indiano e presenta terra rossa, laghi e vegetazione molto arida. Il periodo migliore per visitare il Parco Nazionale di Yala è durante i mesi più secchi da maggio ad agosto, ma può essere visitato tutto l'anno a causa del clima mite della stagione delle piogge. Da fare attenzione nei mesi di settembre e ottobre, in quanto il parco è in manutenzione chiudendo alcune zone. Dicembre e gennaio sono i mesi più affollati nel Parco Nazionale di Yala poiché turisti internazionali e nazionali si riversano nel parco in varie festività. Il tempo nel sud-est dello Sri Lanka oscilla solo di un paio di gradi (all'incirca tra 29 e 31 gradi centigradi), quindi si può visitare il Parco Nazionale di Yala in qualsiasi mese dell'anno.
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UNA STORIA ANTICHISSIMA Dalle scoperte archeologiche e testi ritrovati, la regione all'interno e intorno all'attuale Parco Nazionale di Yala è stata la dimora di civiltà antiche come la civiltà indo-ariana. Si ritiene che il re Ravana, il mitico tiranno e antieroe indù, abbia stabilito il suo regno qui con Ravana Kotte, ora sommerso dal mare. I commercianti marittimi portarono con sé la civiltà indo-ariana, poiché Yala si trovava sulla rotta commerciale, installando un gran numero di cisterne per la raccolta dell'acqua, testimonianza di una ricca civiltà idraulica e agricola risalente al V secolo A.C. nominata Situlpahuwa, che ospitava 12.000 abitanti. Essa si trovava all'interno dell'area del parco insieme a Magul Vihara, costruito nell'87 a.C. e Akasa Chaitiya, costruito nel II secolo a.C. L'agricoltura fiorì nell'area durante il periodo del regno di Ruhuna . Secondo Mahavamsa, il regno di Ruhuna iniziò a declinare alla fine del XIII secolo d.C.
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L'area dello Yala National Park, nel 1560, è stato menzionato nei resoconti di esploratori europei come Cipriano Sanchez e alcuni ufficiali britannici delle colonie dello Sri Lanka come il capo della giustizia di Ceylon, Sir Alexander Johnston. Durante il periodo coloniale Yala divenne un popolare terreno di caccia. Nel 1900, il Forest Ordinance ha creato una riserva forestale di 389 km, includendo la parte dell'area che sarebbe diventata il futuro Yala National Park nel settore di Palatupana dove solo lì era consentita la caccia agli animali. La foresta ricevette lo status di parco nazionale, noto oggi come Yala National Park nel 1938, con l'attuazione delle disposizioni dell'Ordinanza sulla flora e la fauna che si estese anche per altre aree naturali come la vicina Kumana e i santuari di Kataragama, Katagamuwa e Nimalawa.
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Il Safari Solitamente la meta dello Sri Lanka si raggiunge acquistando un pacchetto turistico compreso di accompagnatore (driver), quindi raggiungere il parco non è un problema. Volendo, si può anche noleggiare un’auto in aeroporto a Colombo che dista circa 280 km da Yala.
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Nei pressi del Parco di Yala, esiste la piccola città di Tissamaharama, dove si trovano moltissimi hotel e villaggi nonostante la zona non è ancora particolarmente turistica. Ce ne sono per tutte le tasche ed alcuni sono abbastanza lussuosi. Vi è anche la possibilità di alloggiare all’interno del parco in una piccolo campeggio che offre sia tende che bungalows. Yala è un parco enorme, visto che la sua estensione oggi è di 979 chilometri quadrati che comprendono le cinque aree, ma
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di queste solamente due sono accessibili al pubblico: Ruhuna National Park, e il Kumana National Park. I tour safaristici vengono organizzati in loco o venduti su prenotazione, il consiglio è di dedicare almeno un'intera giornata arrivando la sera prima nei pressi della partenza che solitamente avviene all'alba.
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La fauna all’interno del parco che si può avvistare è infinita, Yala vanta un ecosistema con una alta densità di animali, e le varietà che si possono incontrare sono parecchie. Ci sono ben 44 diverse specie di mammiferi; quella più facile da vedere è l’elefante, sia per il numero che per le dimensioni. Sono anche tantissime le specie di scimmie, soprattutto macachi ma anche cervi, orsi, bufali e il protagonista del parco: Il leopardo, che come già detto è quasi garantito incontrarlo nonostante sia un animale molto schivo e solitario che passa gran parte del tempo a sonnecchiare su pietre e alberi. Il parco, dal punto di vista dell'avifauna è la gioia di qualunque appassionato di bird watching: infatti, nel parco sono presenti 215 specie registrate e ben sei di queste sono endemiche e uniche dello Sri Lanka come il bucero di Ceylon , il gallo di Lafayette , il piccione di Ceylon , il bulbul barbuto dalla corona rossa, il bulbul dalla testa nera e l'akalat dalla corona marrone . 90 specie di uccelli acquatici vivono nelle zone umide di Yala e la metà di loro sono specie migratrici.
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Un'altra grande famiglia di animali presenti allo Yala National Park sono i rettili che contano circa 46 specie conosciute nel parco e cinque di loro sono endemiche dello Sri Lanka. Il Krait lo Sri Lanka , il parallelum amphiesma , chrysopelea taprobanica , labbra dipinte e lucertola agame di Wiegmann sono specie endemiche. La costa del parco è visitata annualmente nelle stagioni della riproduzione da cinque specie di tartarughe marine in via di estinzione ( liuto , l'olivo ridley , la tartaruga caretta caretta, il hawksbill e la tartaruga verde ) che visitano lo Sri Lanka. Le due specie di coccodrilli dello Sri Lanka, il coccodrillo di palude e il coccodrillo di mare , abitano il parco. Il cobra indiano e la vipera di Russell sono tra gli altri rettili. Ci sono 18 specie di anfibi che sono state registrate a Yala, e Duttaphrynus atukoralei (noto anche come "rospo di Yala") e Adenomus kelaartii sono endemiche dello Sri Lanka. Nei fiumi di Yala ci sono 21 specie di pesci d'acqua dolce. La popolazione ittica nei bacini idrici è composta principalmente dal pesce esotico invasivo Tilapia del Mozambico. I pesci Garra ceylonensis e Esomus thermoicos sono specie endemiche. Anche le farfalle nel parco hanno la loro importanza, infatti è possibile trovare un'ampia varietà di farfalle: Graphium sarpedon, Papilio demoleus, Atrophaneura hector, Delias eucharis e Papilio polytes .
www.yalasrilanka.lk
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Il Parco Nazionale di Yala è il più visitato dello Sri Lanka contando di media circa 150.000 turisti all'anno, soprattutto europei, che rappresentano il 30% del totale dei visitatori. Il Blocco uno è il settore più visitato. A causa del peggioramento delle condizioni di sicurezza durante la guerra civile, le entrate del parco sono diminuite drasticamente. Il parco nazionale di Yala fino al 2009 era a rischio di attacchi terroristici da parte dei gruppi di Liberation Tigers from Tamil Islam (LTTE).
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