WEL COME
Benvenuti nel mondo di Giroinfoto magazine©
Novembre 2015,
da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta.
È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage.
Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti
Oggi
Ed ecco entrati nel sesto anno di redazione di Giroinfoto Magazine. Le difficoltà degli ultimi due anni relative alla pessima gestione sociopolitica sono cresciute, intralciando il libero sfogo editoriale limitando le prerogative della rivista nello sviluppo culturale e turistico in aiuto dei territori.
Nonostante tutto, e grazie all'impegno di tutti i nostri collaboratori, il progetto Giroinfoto.com non si arresta, anzi, combatte con tutte le proprie forze per pubblicare articoli utili alla valorizzazione dei territori bisognosi di visibilità.
In questo periodo storico, dove tutto è ormai convertito al mondo digitale, risulta talvolta anacronistico volersi concentrare su un progetto cartaceo, sia per motivi di convenienza economica che di divulgazione. Da qui la decisione di mantenere il magazine con un format "tradizionale" per il mantenimento della qualità comunicativa, evolvendolo alla digitalizzazione favorendo la fruizione.
In ultimo, vorrei ringraziare anche tutti i nostri lettori che crescono continuamente sostenendo il progetto Giroinfoto.
Director of Giroinfoto.com
Giancarlo NittiRESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ
Barbara Lamboley (Resp. generale)
Adriana Oberto (Resp. gruppi)
Barbara Tonin (Regione Piemonte)
Monica Gotta (Regione Liguria)
Manuel Monaco (Regione Lombardia)
Gianmarco Marchesini (Regione Lazio)
Isabella Bello (Regione Puglia)
Rita Russo (Regione Sicilia)
Giacomo Bertini (Regione Toscana)
Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna)
COORDINAMENTO DI REDAZIONE
Maddalena Bitelli
Remo Turello
Regione Piemonte
Stefano Zec
Regione Liguria
Silvia Scaramella
Regione Lombardia
Laura Rossini
Regione Lazio
Rita Russo
Regione Sicilia
Giacomo Bertini
Regione Toscana
PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com
DISTRIBUZIONE:
Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.
CONTATTI
email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com
Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.
DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni LAYOUT E GRAFICHE Gienneci StudiosFOTOGRAFA
SCRIVICI
CONDIVIDI
Scegli un tuo viaggio che hai fatto o una location che preferisci.
Seleziona le foto più interessanti che hai fatto.
Componi il tuo articolo direttamente sul nostro sito.
L'articolo verrà pubblicato sulla rivista che potrai condividere.
DIVENTA REPORTER DI GIROINFOTO MAGAZINE
Leggi il regolamento sul sito www.giroinfoto.com Ogni mese a disposizione tante pagine per le tue foto e i tuoi articoli.
Residenza Sabauda
Il Castello di Moncalieri è un castello fortilizio situato in posizione dominante sulla collina di Moncalieri, alle porte di Torino.
In quanto residenza della casa reale dei Savoia, è iscritto dal 1997 nella lista Patrimonio Mondiale dell’UNESCO insieme alle altre Residenze Sabaude e fa parte della cosiddetta Corona di Delizie
A cura di Adriana Oberto
Adriana Oberto
Barbara Lamboley
Barbara Tonin
Domenico Ianaro
Elisabetta Ramondini
Gerardo Rainone
Giancarlo Nitti
Con il trasferimento della capitale del Ducato di Savoia a Torino nel 1563 nasce il desiderio di Casa Savoia di circondarsi di una serie di residenze sontuose che, al pari di quelle delle altre famiglie reali europee, ne celebrassero l’importanza e il potere assoluto.
Il progetto inizia quindi con il duca Emanuele Filiberto, ma è in Carlo Emanuele I e la moglie che trova ampio sviluppo.
A Torino viene conferito un forte carattere barocco; al suo esterno vengono fatti costruire castelli, palazzine di caccia e regge, progettati dai migliori architetti dell’epoca.
In questo modo al centro del potere all’interno della città ‒ la cosiddetta area di comando, che gestiva gli aspetti politici, amminsitrativi e culturali, vengono affiancate sontuose maisons de plaisance che la circondano come una vera e propria corona.
L’insieme delle residenze è unificato sia da una rete stradale uniforme, sia dallo stile architettonico e dalla scelta dei materiali usati.
La Corona di Delizie, in quanto parte delle Residenze Sabaude, è iscritta dal 1997 nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO.
La storia del castello di Moncalieri parte da lontano. È infatti intorno al 1200 che il conte Tommaso II di Savoia ha la necessità di controllare il passaggio a Moncalieri, che costituiva la porta di accesso a Torino dalla via di Asti.
La collina di Moncalieri costituisce un luogo ideale, perchè guarda il Po, in un luogo dove il fiume non è ancora eccessivamente largo, poichè non vi sono ancora sfociati nè il Sangone nè la Dora Riparia.
Sul luogo sorge già una roccaforte, in cui le genti di Testona avevano trovato riparo quando, durante le lotte tra Asti e Chieri, le loro case vennero distrutte. Vi fa costruire pertanto un fortilizio con una torre e una porta merlata.
Dalla seconda metà del 1400 l’edificio viene fatto ampliare dalla duchessa Jolanda, moglie di Amedeo IX di Savoia, che lo rende dimora ducale e villa di delizie.
In questo momento il castello ha quattro torrioni circolari. Nel 1475 vi si firma il Trattato di Moncalieri tra la duchessa, Carlo duca di Borgogna e il duca di Milano Galeazzo Sforza.
Nel XVI secolo il castello divenne dimora saltuaria di Emanuele Filiberto, ma fu il suo successore, Carlo Emanuele I, che diede il via a lavori di ristrutturazione ed ampliamento. Questi andarono avanti per circa sessanta anni per volere di Vittorio Amedeo I e di Cristina di Francia, la prima Madama Reale; vi lavorarono architetti del calibro di Amedeo di Castellamonte, Andrea Costaguta e Carlo Morello e il castello ottenne la configurazione attuale.
Delle quattro torri circolari rimasero le due, rivestite in mattoni, in facciata (oggi è possibile vedere parte della terza dagli appartamenti di Maria Letizia); venne ampliato il parco superiore con l’aggiunta di duecento alberi e realizzati i giochi d’acqua a cura del Vignon.
L'interno fu arricchito di prezioni capolavori d’arte e mobili. Nel XVII secolo vi risiedette Vittorio Amedeo II, che ne fu anche prigioniero insieme alla seconda moglie, la duchessa di Spigno, quando il figlio Carlo Emanuele III ve lo rinchiuse a seguito del suo tentativo di riprendere il trono dopo aver abdicato.
Carlo Emanuele III decise molti interventi di abbellimento, seguiti da Benedetto Alfieri, prima, ed in seguito da Francesco Martinez nel 1775.
Fu costruita la cappella vicino allo scalone principale, modificata la facciate interna, e progettato il giardino delle rose.
Fu inoltre ingrandito il parco soprastante.
Il castello si circondò di altri edifici di pregio. Nel 1776 vi morì Vittorio Amedeo III.
Durante la rivoluzione francese l’edificio divenne caserma, ospedale militare e carcere e fu severamente danneggiato; parte del parco superiore fu adibita a cimitero.
Tornò in mano dei Savoia con la restaurazione; nel 1817 Vittorio Emanuele I diede il via ad altri nuovi lavori, che interessarono le maniche laterali (arredate con quadri che raffiguravano le gesta dei regnanti), lo scalone principale (furono costruite le tre rampe che si vedono attualmente), modificati gli appartamenti vicini e costruita la cavallerizza in fondo al cortile principale.
Nel castello soggiornò Carlo Felice di Savoia e, in seguito all’estinzione del ramo principale di casa Savoia, Carlo Alberto di SavoiaCarignano.
Questi lo scelse come residenza reale e lo fece ulteriormente ammodernare; il castello divenne anche residenza dei principi. Anche Vittorio Emanuele II lo preferì a Torino e lo mantenne come residenza dei figli negli anni di studio (il vicino Real Collegio era scuola di eccellenza per l’istruzione dei nobili e ricchi borghesi); la consorte Maria Adelaide D’Asburgo-Lorena fece arredare i suoi appartamenti secondo il gusto eclettico dell’epoca.
Il 20 novembre 1849 al castello di Moncalieri venne firmato il famoso Proclama: il re scioglieva la Camera dei Deputati, chiedeva agli elettori di appoggiare Massimo d’Azeglio come Presidente del Consiglio e di approvare il trattato con l’Austria.
Fu questo un periodo di nuovi lavori: Fu demolita e poi ricostruita la scala del padiglione sud-est, cambiata la destinazione d’uso di vari ambienti, realizzato un nuovo atrio nella parte est, costruita la “Torre del Roccolo”, ampliato il ninfeo, costruita una grande cisterna al centro del cortile per la raccolta delle acque e creato un laghetto.
Tra l’Ottocento e il Novecento vi risiedettero regine madri e principesse reali, come Maria Clotilde e la figlia Maria Letizia Bonaparte, che vi morì nel 1926.
Nel 1927 il castello divenne sede della Scuola Allievi Ufficiali di complemento Artiglieria del corpo d'armata di Torino; durante la Seconda Guerra Mondiale venne usato come base per le forze, prima fasciste e poi da quelle partigiane, per ospitare in seguito gli sfollati, cosa che ne determinò una decadenza.
Alla fine della guerra il castello fu destinato ai Carabinieri. Oggi è sede del 1º Reggimento Carabinieri "Piemonte", che ne occupa una gran parte, ad esclusione degli appartamenti reali, che sono stati restaurati ed aperti al pubblico nel 1991. A seguito dell’incendio del 5 aprile 2008, uno dei torrioni è stato fortemente danneggiato, inclusa la sala del Proclama di Moncalieri.
Dopo un lungo lavoro di restauro e aperture “a singhiozzo” il castello è di nuovo visitabile nella sua parte museale.
Giancarlo Nitti PhotographyRiccardo Vitale
E’ laureato in architettura al Politecnico di Torino. Dal 2008 lavora come funzionario architetto del Ministero della cultura; in questo ambito è stato dapprima operativo sul fronte della tutela dei beni architettonici e paesaggistici per poi orientare i suoi interessi sulla gestione del patrimonio.
In qualità di direttore del Castello di Racconigi, incarico che ha mantenuto per sei anni, si è impegnato per la valorizzazione della residenza, realizzando numerosi progetti per far conoscere le collezioni e ampliare i percorsi museali; tra questi vi sono il recupero del Giardino delle Foglie, il restauro e l’allestimento del Fregio Palagiano, nonché il cantiere per il restauro dei suggestivi spazi dei Bagni di Carlo Alberto.
Dal 2020 è direttore del Forte di Gavi; qui, oltre ad aver attivato un percorso di valorizzazione particolarmente incentrato sull'arte contemporanea, ha avviato diversi cantieri finalizzati a migliorare l'accessibilità e l’integrazione della struttura con il territorio.
Nel 2021 ha assunto anche la direzione del Castello di Moncalieri e ha promosso un percorso di maggiore integrazione con il territorio e con il primo Reggimento Carabinieri Piemonte, presente all’interno della residenza, anche aprendo a mostre ed eventi di forte interesse.
La struttura del castello è a ferro di cavallo; è rivolto verso nord e possiede agli angoli quattro torrioni a forma di parallelepipedo.
I corpi sui lati sono a cinque piani con pareti in laterizio e contrafforti.
A questo corpo centrale vanno aggiunti due corpi di fabbrica laterali a paralleli, che creano altrettanti corti adibite in origine a scuderie o alloggi per la servitù.
La facciata a sud, quella dell’ingresso,‒conserva le due torrette cilindriche risalenti al castello di epoca medievale e guarda su un giardino all’italiana. All’esatto opposto troviamo, invece, il belvedere dell’ingresso nord.
Oltre ad esso il giardino all’inglese si estende per circa dieci ettari sulla collina, comprende la Cavallerizza, la Casa del Vignolante, la Torre del Roccolo e il laghetto delle ninfee. Il castello è attualmente suddiviso in due consegnatari: l’Arma dei Carabinieri e la Direzione Regionale Musei Piemonte. Inoltre l’area esterna, che comprende i giardini e il parco, è gestita dal Comune di Moncalieri, che vi organizza eventi.
Ciò che rappresenta oggetto di visita è la parte storica e monumentale, ubicata sul lato ovest del castello, che ospita gli appartamenti reali e la cappella.
A differenza di altre residenze sabaude, dove emerge il carattere nobiliare della famiglia, qui l’atmosfera è quella della quotidianità e gli alloggi sono spazi di vita famigliare.
Si accede al castello da piazza Baden Baden e superando una breve rampa di scale che porta ad un primo spazio aperto destinato a parco.
Da qui è possibile osservare - al di là di un cancello di protezione - il Giardino delle Rose
Questo è ubicato proprio ai piedi del castello, a livello della piazza e con entrata dal viale della Rimembranza, e si trova perciò ad un livello inferiore a dove ci troviamo.
Il luogo aveva in origine la funzione di accesso e deposito carrozze; fu la principessa Maria Letizia a volerne fare un giardino e piantarvi, appunto, le rose.
Adriana Oberto Photography Giancarlo Nitti Photography Barbara LamboleyPoco più avanti troviamo l’ingresso al castello.
Si tratta di una porta che immette in un androne. Questo conduce, sulla sinistra, agli appartamenti che furono abitati anche dalla principessa Maria Letizia e, sulla destra, salita una rampa di scale, allo scalone monumentale e agli appartamenti reali.
Al piano terreno sulla destra si trova la cappella. La corte che si vede sul fondo dall’entrata del castello è ad uso del 1º Reggimento Carabinieri "Piemonte", come attesta la bandiera italiana che vi sventola.
Una volta entrati ci si trova in un androne con orientamento est-ovest, che conduce ai diversi appartamenti.
Ai lati alcune nicchie ospitano sei grandi busti in marmo raffiguranti Marco Polo, Galileo Galilei, Dante Alighieri, Antonio Canova e Michelangelo Buonarroti, fatti realizzare tra il 1864 e il 1866 per il Palazzo Reale di Torino e in seguito trasferiti qui.
Erano quattro e ne rimangono due.
Sono le torri che si vedono inserite ai lati dell’arco di ingresso al centro del corpo rivolto a sud.
Costruiti ai tempi del fortilizio che dominava la piana del Po, hanno funzione, appunto, di vedetta e di difesa.
La costruzione al tempo non era particolarmente grande, come si può notare dalla luce tra le due torri.
È possibile vedere anche ciò che rimane di un terzo torrione, i cui resti sono stati trovati inglobati nel resto dell’edificio durante lavori di restauro.
Giancarlo Nitti Photography Adriana Oberto PhotographyPoco oltre l’androne e verso il cortile sulla destra, troviamo la Cappella Reale. Questa risale ai tempi di Vittorio Amedeo III (1726-1796) e fa parte dei lavori di trasformazione dell’architetto Francesco Martinez, che era nipote di Filippo Juvarra.
Sorge nel punto dove si alzava il quarto torrione medievale, che fu demolito.
Ha un’unica aula; la volta è dipinta a finti cassettoni, con ovali e stucchi, con un andamento curvilineo molto particolare.
Non c'è marmo - è tutto legno - e si fa ampio uso di trompe-l'oeil per ampliare lo spazio.
Sull’altare la pala raffigura l'educazione della Vergine Maria, non c'è un'attribuzione certa dell'autore, ma è stata avvicinata alla produzione di Claudio Francesco Beaumont; la cornice lignea dorata è riccamente decorata.
Dal piano superiore è possibile accedere al palco reale, dal quale la famiglia assisteva alla messa.
La cappella è attualmente in uso da parte dei Carabinieri, sia per la celebrazione della messa, sia per altri eventi, quali battesimi, matrimoni e funerali.
Elisabetta Ramondini PhotographySul lato sinistro dell'androne (parte a ponente) si trovano gli appartamenti delle principesse.
L’appartamento di Maria Letizia è ubicato al piano terra, quello della madre, Maria Clotilde, al piano superiore.
Quest’area fu riallestita nel 1788-89 dagli architetti G. Battista Piacenza e Carlo Randoni.
L’occasione fu il matrimonio di Vittorio Emanuele I, Duca d’Aosta, con Maria Teresa d’Asburgo d’Este, ma sono conosciuti col nome delle principesse, rispettivamente nipote e figlia di Vittorio Emanuele II, che vi abitarono a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.
Tutte le stanze al piano terreno costituivano gli appartamenti di M. Letizia.
Le prime tre sale avevano una funzione di “anticamera” e sono quelle dove troviamo la Foresteria; qui c’è anche l’appartamento di Umberto I, figlio di Maria Letizia e del duca Amedeo d’Aosta, che morì in giovane età di Spagnola sul Monte Grappa durante la Prima Guerra Mondiale; sono le stanze che il conte usava quando andava a trovare la madre.
Le stanze sono arredate in stile liberty; particolare è la sala da pranzo, di forma allungata e di dimensioni ridotte che non fanno pensare a tale destinazione. A testimonianza dello spirito generoso e altruista della principessa-spirito ereditato dalla mamma Maria Clotilde, va anche ricordato che nel castello era stato allestito un ospedale che si occupava dei mutilati di guerra e gli invalidi; in questi locali era stato riservato un piccolo laboratorio in cui queste persone confezionavano giocattoli, in modo da rendersi in qualche modo utili alla società.
Maria Letizia era la figlia del principe Gerolamo Napoleone e della principessa Mari Clorilde di Savoia. Sposa nel 1888 nella cappella della Sindone di Torino lo zio Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, padre di Emanuele Filiberto, che le era stato precedentemente promesso. Rimane vedova a due anni dalle nozze e con un unico figlio, Umberto I, duca di Salemi.
Può essere considerata una sorta di femminista ante-litteram; era una persona che aveva una propria ricerca della libertà, ma sempre con attenzione verso il prossimo.
E infatti si dedicava alla carità e all’attenzione verso i deboli.
Il suo stile di vita all’epoca veniva visto come particolarmente emancipato.
La principessa era una donna vivace e allegra e poco osservante del protocollo; mostrava una grande curiosità per le novità della scienza e della tecnica ed amava frequentare le corse automobilistiche, alle quali spesso faceva da madrina.
Alla sua morte nomina erede un giovane ufficiale con cui aveva avuto una lunga relazione.
Barbara Tonin PhotographyGli ambienti sono quelli che potrebbero definirsi alto borghesi e assolutamente “non pretenziosi”, se si pensa allo stile di vita di una famiglia reale.
La decorazione dei soffitti risale al tardo ottocento, così come alcuni camini e sovrapporte; gli arredi invece sono frutto del gusto di chi li ha di volta in volta abitati.
Gli altri vani dell’appartamento sono la sala da ricevimento, la camera da letto, il gabinetto cinese e un grande salone. Nei giorni della nostra visita questi locali hanno ospitato la mostra di arte contemporanea “Nulla più che Scrivere” dell’artista nipponica Fukushi Ito.
Alcuni pannelli luminosi hanno messo in relazione gli scritti della prima donna scrittrice al mondo, Murasaki Shikibu, e della prima scrittrice professionista dell’era moderna, Higuchi Ichiy. Si tratta in generale di un omaggio alle donne e la scelta di questi locali non è avvenuta a caso, ma è stata voluta proprio come omaggio alla principessa M. Letizia.
Il soffitto del Salone da Ricevimento risale alla seconda metà del Settecento; i dipinti sono à grisaille; negli angoli è sempre presente lo scudo con le iniziali di Vittorio Amedeo III; il lampadario, le boiserie e le porte sono dell’Ottocento; il pavimento è in legno di noce a motivi geometrici.
Gli arredi sono quelli commissionati all'epoca di Carlo Alberto e il gusto si rifà nei particolari al mondo greco e romano, che tanto piacevano al sovrano (all'epoca in ritrovamenti negli scavi di Pompei ed Ercolano avevano suscitato particolare scalpore e tali decorazioni erano diventate di moda).
La Camera da Letto presenta un ampio servizio in stile “neo Luigi XVI” intagliato, laccato e dorato, che risale al 1910.
La volta è decorata con intrecci a ghirlande e rosone al centro e risale al 1788-89.
Lungo il perimetro sono dipinti 16 medaglioni, ognuno con una testa cinta di alloro.
Gli elementi in legno (porte, chiambrane, boiserie e il cornicione) sono anch’essi di quegli anni e opera del falegname Giuseppe Ghigo.
Il mobilio è quello che la principessa ha usato negli ultimi anni di vita, richiamano lo stile neoclassico e sono in legno intagliato, laccato e dorato; risale al 1910 e reca il marchio del mobiliere di Torino Giacomo Borra.
Il pavimento è in legno di ciliegio con disegni a rombi. Da notare il letto piuttosto corto - come tutti quelli del periodo. Questo perché non solo le persone erano in media più basse, ma perché si dormiva reclinati su cuscini e in posizione semiseduta, in parte per ragioni di digestione o di respirazione, ma anche più prosaicamente per scaramanzia: i morti, infatti, giacciono in posizione orizzontale.
Agli inizi del Novecento nei locali del castello viene introdotta l'illuminazione elettrica, il che lo rende il primo edificio per lo meno nella zona di Torino con tale caratteristica.
Ciò fu voluto dalla mamma della principessa, Maria Clotilde, sempre attenta alle comodità.
Il soffitto del Gabinetto Cinese è l’unico elemento dell’apparato decorativo originario. Nella prima metà dell’Ottocento fu trasformato in sala da bagno di gusto rococò, come testimonia il lavabo con specchiera in legno dorato che fu trasformato in consolle; in lampadario è in stile rocaille; la porta laccata alla cinese e i pannelli sono del XVIII secolo e provengono da Venaria: trasferiti qui nel 1817, quelli non utilizzati vennero in seguito mandati a Roma per realizzare nel 1888 il salotto cinese del palazzo del Quirinale.
Prima di salire al piano superiore, troviamo un locale di passaggio, che in realtà costituita al tempo l'entrata agli appartamenti delle principesse.
Qui c'è una collezione di ritratti equestri appesi alla parete; si tratta dei principi della Real casa di Savoia vissuti nel XIV e XV secoli.
Tali dipinti facevano parte della quadreria della galleria grande, poi demolita per voler di Napoleone, che collegava Palazzo Reale a Palazzo Madama, rappresentano il desiderio della casa reale di ricostruire la propria storia attraverso i personaggi della dinastia.
Barbara Tonin PhotographyQuello che però merita menzione è l'ascensore, uno dei primi ascensori privati installati in Piemonte, voluto dalla principessa Maria Clotilde per potersi spostare facilmente da un piano all'altro. Venne realizzato, come quello del castello di Racconigi, utilizzando il brevetto dell'ingegnere svizzero Augusto Stigler.
La cabina è in legno intagliato e verniciato e conserva la pulsantiera originale e le porte scorrevoli in vetro molato. È perfettamente funzionante e viene usato attualmente nel percorso di visita del castello per i visitatori che lo necessitano. Nella stanza adiacente si può ammirare il divano originale che si trovava al suo interno.
Barbara Tonin PhotographyUna scala a tenaglia ci porta al piano superiore, dove si trova l'appartamento della principessa Maria Clotilde.
Qui si trova un locale guardaroba, con una stufa di Castellamonte, passamaneria originale e un armadio dell'Ottocento, tipico locale di servizio annesso ai locali più nobili.
Nei locali di Maria Clotilde l'arredamento è meno sontuoso, anche se sempre elegante e raffinato, a testimonianza del carattere della principessa che, dove Letizia era vivace, libera e indipendente, era invece religiosa, silenziosa e seria.
I locali, situati al piano nobile, sono stati oggetto di restauro perché fortemente compromessi sia dalle infiltrazioni, ma soprattutto dall'uso più recente (alcuni locali erano stati adibiti a caserma e armeria).
Quello che si vede ora è un arredamento riportato a quello che era agli inizi del XX secolo.
Maria Clotilde era la figlia di Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide.
A soli sedici anni andò in sposa, per sua scelta, ma in realtà costretta dalle necessità della politica, a Gerolamo Napoleone, che aveva già quasi quarant'anni.
Ebbe due figli, Vittorio e Luigi, e la figlia Maria Letizia. Visse a Parigi fino alla fine della dinastia napoleonica, per poi trasferirsi prima sul lago di Ginevra e poi definitivamente al castello di Moncalieri, dove visse separata dal marito, col quale però ebbe sempre buoni rapporti.
Da sempre molto religiosa, si dedicò ad opere di bene. Morì terziaria domenicana (cioè come membro laico dell'Ordine Domenicano) nel 1911 ed è sepolta nella Basilica di Superga. Detta ”la Santa di Moncalieri” è in attesa di beatificazione.
Elisabetta Ramondini Photography Giancarlo Nitti PhotographyLa Camera da Letto, con tappezzeria verde molto ampia e luminosa, conserva più di tutti gli arredi dell'epoca.
La principessa aveva fatto sostituire i camini con stufe di Castellamonte; inoltre qui troviamo l'angolo toilette e un inginocchiatoio che la principessa usava spesso.
Su di esso c'è la copia in gesso di lei inginocchiata.
L'originale, opera dello scultore Piero Canonica, si trova nella collegiata di Santa Maria della Scala e Sant'Egidio (nel centro storico di Moncalieri) nel luogo in cui era solita pregare. Il tessuto delle pareti non è del tutto originale. Al vellutino presente è stata affiancata una versione stampata nelle pareti di fianco.
Questa camera, come quella adiacente, dà sul parco del castello che si affaccia sul paese e la piana del Po.
La stanza vicina, più piccola, è attualmente l'ufficio del direttore.
Di nota il tavolino rotondo da gioco con piano ribaltabile: da un lato è di legno intarsiato con stella al centro, dall'altro è ricoperto di velluto verde.
Gerardo Rainone PhotographyDalla parte destra dell'androne, saliti alcuni scalini, troviamo lo Scalone monumentale. Frutto degli intervenuti di restauro intrapresi da Vittorio Emanuele I dal 1820 e opera di Carlo Randoni, è in marmi policromi. Porta al piano degli appartamenti della coppia reale.
Situati nella porzione ad est del castello, gli Appartamenti Reali sono gli appartamenti dove hanno vissuto Vittorio Emanuele II e la consorte Maria Adelaide e l’arredamento ne rispecchia i gusti. Il castello di Moncalieri è forse l'unica residenza sabauda in cui è visibile la presenza dell'ultima regina di Sardegna, morta di parto a trentasei anni dando alla luce l'ottavo figlio e moglie di un marito spesso infedele.
Lui è non solo l'ultimo Re di Sardegna (dal 1849), ma anche il primo d'Italia (dal 1861 al 1878); a Maria Adelaide lo lega un sincero affetto, ma questo non gli impedisce di avere varie relazioni extraconiugali. È uno spazio vissuto appieno (a differenza, per esempio del castello di Racconigi, dove Vittorio Emanuele II occupava giusto una stanzetta ad angolo), dove la coppia reale veniva volentieri, anche perché in quel periodo la zona era un luogo felice dal punto di vista climatico: venire a Moncalieri significava andare fuori porta, lontano dalla città, e, in effetti, anche adesso in estate, affacciandosi sui terrazzi, si gode di una ventilazione costante che rende il soggiorno molto piacevole.
La prima sala che si incontra è la sala degli staffieri. Da notare il mobile appendiabiti e portabastoni su uno dei lati della stanza. È opera di Henry Thomas Peters, l'ebanista britannico attivo prima a Genova e poi al castello di Racconigi. Piace così tanto da ottenere l'appellativo di ”ebanista di corte”. Nella sala sono anche presenti una serie di quadri di personaggi illustri.
La sala da pranzo presenta un magnifico soffitto dipinto a tempera, opera del pittore bolognese Domenico Ferri, che dal 1854 era passato al servizio dei Savoia e aveva curato decorazioni e restauri in più di una residenza sabauda. Qui lo stile è Secondo Impero.
La sala di passaggio dopo la sala da pranzo è un locale guardaroba, con un letto ribaltabile che scompare nel mobile, ad uso dei servitori di camera; l’armadio è ottocentesco e contiene una collezione di stoffe e tappezzerie d'epoca, così come pomoli e fermatenda in materiali diversi (latta dorata, bronzo, legno dorato).
Da questo locale si passa all'elaborato Salotto Blu. La boiserie è in legno palissandro e bois de rose con inserti ovali di porcellana dipinta, eseguiti secondo modelli della porcellana di Sèvres. È l'unica sala della residenza, insieme alla camera da letto della regina, che conserva L’aspetto originale.
La Camera da Letto della Regina è di colore rosso e conserva particolari dell'ebanista Gabriele Capello, detto il Moncalvo. Di nota il baldacchino del letto con lo stemma di Casa Savoia e la ricca nicchia pregadio. Una piccola cappella, sempre sulle tonalità del rosso, fa parte di questi vani.
Gerardo Rainone PhotographyQuesta parte del castello fu vittima, il 5 aprile 2008, di un disastroso incendio (a testimonianza si vedono ancora alcune parti di arredo, come i montanti di alcune porte, completamente inceneriti).
Nonostante gli accurati restauri, non è stato possibile recuperare le finiture originarie di alcuni locali, tra cui la Camera da Letto del Re e la Sala del Proclama.
È possibile invece visitare la singolare Stanza da Toeletta del Re, che vediamo arredata come una tenda da campo con stoffe in cinz a fiori.
Per le altre stanze che non si è potuto ricostruire, si è optato per un recupero "evocativo" attraverso l'inserimento di sistemi di pannellature in Barrisol e velari autonomi e distaccati dalle pareti, il tutto corredato da un particolare sistema di illuminazione, che permette di apprezzare sia le pareti distrutte, sia le decorazioni perse.
Proseguendo la visita è possibile ammirare le ricche decorazioni e i soffitti a padiglione della Sala del Convegno.
A questo punto non ci resta che tornare sui nostri passi, scendere lo Scalone e dirigerci verso l'uscita, non prima di aver scattato ancora qualche foto a questa parte del parco.
Ringraziamo per questa visita Il Ministero della Cultura e la Direzione regionale dei Musei Piemonte, nella persona del direttore del castello, dott. Riccardo Vitale, e le nostre guide, tra cui l'esperta storico dell'arte Elisabetta Silvello, che ci hanno gentilmente e piacevolmente condotto alla scoperta dei suoi tesori.
Un monumento da vivere
Nel cuore di Padova, tra piazza Cavour e piazza Garzeria e a due passi dall’antico Palazzo Bo, antica sede dell’Università, si trova un caffè che non è solo un salotto per i Padovani e i turisti, ma soprattutto un prezioso frammento di storia per la città: il Caffè Pedrocchi.
È un luogo raffinato ed elegante, però apre le porte a chiunque, così come voluto dal suo ideatore Antonio Pedrocchi, caffettiere di origini bergamasche dei primi dell’Ottocento.
Al suo interno si incontrarono intellettuali e letterati, uomini d’affari e viaggiatori, ma anche studenti o chi semplicemente desiderasse avere un ristoro.
In contrapposizione ai salotti privati dei nobili e con la diffusione del caffè anche in Italia, tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, si vide crescere sempre più l’esigenza di un punto d’incontro aperto a tutti.
La bottega del caffè di Francesco Pedrocchi, padre di Antonio, oltre ad essere in centro città, era anche a pochi passi dall’Università, dal Municipio, dai mercati, dalle Poste e dalla piazza da cui partivano le diligenze. Un luogo strategico per un caffè.
Antonio Pedrocchi, che ereditò la bottega dal padre, decise perciò di acquistare i locali attigui e farne “il caffè più bello della Terra”. Commissionò, pertanto, il progetto a Giuseppe Jappelli, noto architetto e ingegnere veneziano che, in virtù della sua visione laica e illuminista della società, creò un edificio monumentale, unico nel suo genere.
Costruito su due piani in stile neoclassico, con un corpo aggiuntivo neogotico, il caffè mostra un’architettura rappresentativa ma, allo stesso tempo, funzionale. Divenne ben presto di fama internazionale e simbolo della città di Padova, al punto che gli venne dedicato un foglio settimanale.
Barbara Tonin PhotographyNella stesura del progetto Jappelli ebbe non poche difficoltà, in quanto il complesso acquisito era di forma quasi triangolare e le facciate dei vari corpi erano troppo disomogenee. Forse proprio grazie a tali complicanze nacque alla fine un edificio decisamente insolito e innovativo, che conquistò immediatamente i padovani.
Dal lato dove sorgeva la scuola di S. Giobbe, oggi piazzetta Cappellato Pedrocchi, due corpi con logge doriche sono unite visivamente da un’altra loggia corinzia al piano superiore, chiamato piano nobile. Alla base del colonnato, quattro leoni in pietra scolpiti da Giuseppe Petrelli imitano quelli in basalto del Campidoglio a Roma.
Una loggia analoga alle precedenti, ma priva di leoni, crea una sorta di simmetria sulla facciata sud.
Il pianterreno fu ultimato e inaugurato nel 1831, mentre il settore neogotico (il Pedrocchino) fu realizzato nel 1838.
Il primo ospitava locali destinati alla torrefazione, alla preparazione del caffè, alla "conserva del ghiaccio" e alla mescita delle bevande, il secondo l’offelleria, su ispirazione dal viaggio effettuato da Jappelli a Londra nell’anno precedente.
Il piano terra è suddiviso in tre ambienti principali separati che sono riconoscibili dai colori verde, bianco e rosso degli arredi, scelti dopo il 1866 in omaggio al tricolore nazionale, quando il Veneto fu annesso al Regno d’Italia.
La Sala verde era quella aperta a tutti, senza obbligo di consumazione e ha l’accesso da piazzetta Pedrocchi. Destinata alle persone meno abbienti (forse deriva da qui il detto “essere al verde”?), era frequentata da studenti o da chi volesse semplicemente ripararsi dalle intemperie.
Un luogo sicuro dove sostare e trovare ristoro.
Tuttora studenti e visitatori possono accedervi liberamente e concedersi comodamente un momento di relax, senza essere disturbati. In questa sala, inoltre, il Caffè Pedrocchi offre la possibilità ad artisti e ad autori di esporre i loro quadri o presentare i loro libri.
La Sala bianca inizialmente era detta nera per il colore del mobilio.
Le sedie, infatti, erano in legno di pero dipinto di nero e la seduta era in tessuto di crini anch’essi colorati con la stessa cromia.
Dell’aspetto originario rimangono solo il pavimento in marmo rosso e bianco e la decorazione in stucco dipinto in tinta avorio e oro sulla fascia superiore delle pareti.
Il lampadario, invece, è stato riprodotto come il precedente, a seguito del crollo parziale del soffitto nel 1962.
Nelle pareti principali, si possono notare due piccole mensole in marmo semicircolari, sorrette da teste di leone egizio di pietra dipinta.
La Sala bianca è collocata verso Palazzo Moroni (il Municipio) e Palazzo Bo (Università).
Attualmente è destinata a zona ristorante come anche, d’estate, la parte esterna tra i due loggiati.
Nella parete finestrata si può leggere la famosa citazione di Stendhal, assiduo frequentatore del Pedrocchi che nel suo romanzo “La certosa di Parma” scrive:
“È a Padova che ho cominciato a vedere la vita alla maniera veneziana, con le donne sedute nei caffè. L’eccellente ristoratore Pedrocchi, il migliore d’Italia”.
Barbara Tonin PhotographyTale stanza è purtroppo stata testimone di un evento nefasto avvenuto l’8 febbraio del 1948. Era un periodo di forte tensione politica e si faceva sempre più intenso il sentimento anti-asburgico tra studenti e cittadini. Quel giorno, una delegazione di notabili, cittadini e studenti sottopose al comando austriaco una serie di richieste, che vennero rigettate.
La tensione era palpabile, anche per le provocazioni al governo austriaco avvenute il giorno prima, e scoppiò una guerriglia.
I soldati Austriaci aprirono il fuoco e lo indirizzarono anche verso quegli studenti che si rifugiavano nel Caffè Pedrocchi e a Palazzo Bo.
I feriti si contarono a decine e ci furono anche alcuni morti, tra i quali gli studenti Giovanni Leoni e Giambattista Ricci.
Quella è una data significativa per Padova.
Si tratta della prima insurrezione spinta da motivi politici, in cui gli studenti si pongono in prima linea diventando protagonisti, e che porterà a una vera e propria stagione di rinnovamento.
A memoria dell’evento, in via Cesare Battisti, è affissa una lapide commemorativa (l’originale è al Museo del Risorgimento e dell’Età Contemporanea) che recita “8 febbraio 1848 / Alle irruenti orde straniere / studenti e popolani / per improvvisa concordia terribili / il petto inerme opponendo / auspicarono col sangue / il riscatto d’Italia”
Ma ben più commovente è il foro di proiettile rimasto nella parete della sala bianca.
Il corpo centrale, il principale e più spazioso, è rappresentato dalla Sala rossa, originariamente detta Sala grande o tripartita, in quanto suddivisa in tre ambienti separati da colonne doriche.
Nella zona più ampia, quella centrale, presenta un bancone marmoreo, disegnato da Jappelli, a forma ellittica e con sei zampe leonine alle cui spalle, in alto, c’è un orologio ancora funzionante.
A destra e a sinistra di questo, due bassorilievi in stucco (forse riconducibili al Petrelli), rappresentanti “L’aurora” e “La notte” che, assieme all’orologio, probabilmente vogliono simbolizzare lo scorrere del tempo, a voler ricordare agli avventori che quello era il “Caffè senza porte”, aperto a tutti 24 ore su 24 (fino al 1916, dopodiché le luci vennero spente, per non permettere al nemico di individuare un riferimento).
Nelle pareti opposte alle finestre, la superficie è interamente ricoperta da due dipinti dell’ingegner Peghin, rappresentanti i due emisferi di mappamondo in proiezione stereografica, le cui caratteristiche sono il settentrione in basso e la nomenclatura in lingua francese.
Completavano il pianterreno una stanza di servizio e, in origine, una sala ottagonale adibita a borsa, rimaneggiata nel 1950 e nel 1999, ora bar pasticceria.
Del piano superiore possiamo dire che si tratta di un’opera indiscutibilmente magnifica e originale.
Inaugurato nel 1842 durante il “IV Congresso degli scienziati italiani”, era interamente dedicato agli spettacoli e alle feste (e a volte alle riunioni massoniche), mentre oggi ospita il Museo del Risorgimento e dell’Età Contemporanea.
Vi sono comprese ben nove sale, tutte diverse, ognuna ispirata a una cultura differente.
Ci si accede dal loggiato destro di Piazzetta Pedrocchi, salendo uno scalone d’onore che conduce sia alla grande nicchia, decorata a stucco e con l’immagine di muse danzanti, sia al vestibolo etrusco.
Barbara Tonin PhotographyIl Vestibolo etrusco presenta dipinti a olio sul soffitto e sulle pareti e, negli angoli, quattro rocchi di colonna a sezione ellittica con altrettanti vasi decorati, per occultare le porte di ripostigli e passaggi.
Ispirati in senso lato alla pittura vascolare greca, le decorazioni sono di colore nero su fondo rosso (rosso su nero sui vasi) e ai quattro lati del soffitto sono rappresentate quattro tripodi con citarede alate.
Da questo locale si prosegue verso la Sala greca, decorata da Giovanni De Min con “L’incontro tra Diogene e Platone”, che permette l’accesso alla sala più spaziosa del piano nobile.
La “Sala Rossini” (detta anche sala napoleonica) è il locale principale e su di essa ruotano attorno le altre stanze. Si tratta di un ampio salone (doppio anche in altezza rispetto agli altri) dedicato per l’appunto a “Gioacchino Rossini splendore e forza del canto italiano”.
Tale dedica è decorata in stile impero in bianco e oro ed è posta alla base del palco. Lire in stucco e api anch’esse dorate omaggiano la musica e Napoleone.
La sala Rossini è tutt’ora utilizzata per cerimonie, convegni ed eventi vari.
Barbara Tonin Photography Barbara Tonin Photography SALA ROSSINIDa qui si può accedere alle due stanze più singolari: la Sala egizia e la Sala moresca.
La Sala egizia si distingue dalle altre per l’intenso colore blu (azzurro in origine), trapunto di stelle dorate, del soffitto e delle pareti.
Queste presentano nella parte inferiore un alto basamento di marmorino lucido, con effetto porfido.
Ai quattro angoli, alti rocchi di colonna a sezione rettangolare sorreggono statue in stucco raffiguranti la dea Sachmet. Tra le finestre, invece, si trovano statue di divinità femminili, sormontate da sfingi e urne cinerarie.
Motivi egizi decorano gli stipiti delle porte e i vetri delle finestre poste più in alto. Si ritiene che le decorazioni della stanza possano essere attribuite a Giuseppe Petrelli e Antonio Gradenigo, mentre lo stile è frutto di Jappelli, in omaggio all’amico GianBattista Belzoni, noto esploratore e pioniere padovano.
Il soffitto originariamente presentava anche un gran lampadario in bronzo, decorato con figure egizie e teste di chimere.
Dalla sala è possibile accedere al terrazzo nord che si affaccia alla Piazzetta Pedrocchi e alla loggia con colonne in stile corinzio che collega la stanza con lo scalone d’ingresso.
Barbara Tonin PhotographyLa Sala moresca è completamente diversa dalle altre. Interamente ricoperta da vetri e specchi decorati da De Min, mostra la figura di un personaggio in abito arabo, uccelli e vegetazione di vario tipo.
Intarsi variopinti in legno e la fascia superiore delle pareti in stile arabeggiante completano la decorazione della stanza, dedicata probabilmente come la precedente a Belzoni.
Attigua alla greca, troviamo la Sala romana È distinguibile dalle altre per la forma circolare e i dipinti in tempera ripassata a olio del bellunese Ippolito Caffi. L’opera raffigura il Foro romano e Castel Sant’Angelo nelle pareti più ampie, la Colonna di Traiano e il Foro di Augusto con il Tempio di Marte Ultore in quelle minori.
In quest’ultimo dipinto si può notare l’indicazione della data in cui è terminato il lavoro, ovvero il 1841.
I dettagli e l’aderenza alla realtà inducono nell’osservatore un forte impatto scenografico e denotano l’approfondito studio del Caffi.
Restauri recenti hanno rivelato gli originali colori che la spessa patina del tempo, i numerosi ritocchi e i numerosi restauri antecedenti avevano alterato.
Sopra le porte e sul soffitto si possono rilevare elaborati fregi in stucco dorato: teste leonine nello stile di Jappelli, figure femminili, fogliame e serpi.
All’epoca due sedili grandi e due più piccoli di forma curvilinea arredavano la stanza.
Prima di proseguire nella visita e sbirciando attraverso le porte a vetri, si può vedere lo stanzino barocco, un piccolo vestibolo a cui si accede anche attraverso l’antica scala a chiocciola, che conduce in alto sulla torre ottagonale.
Dell’arredamento originale rimane soltanto una mensola sorretta da un putto e sormontata da una cornice dorata intagliata a fogliami.
Barbara Tonin PhotographyTorniamo nella stanza romana e varchiamo l’ultima delle tre porte.
Ci troviamo nella Sala ercolana
Decorata dal pittore Pietro Paoletti con soggetti mitologici sulla parte superiore delle pareti e sul soffitto, mostra otto figure dedicate alle “Feste di Diana” e a episodi della sua vita. Tra le finestre, “Diana ed Endimione”, in cui la dea, nella sua forma lunare, sorge all’orizzonte per raggiungere il suo amato.
Verso destra “Il bagno di Diana”, “Diana ascolta Pan che suona”, “Diana con la ninfa alla caccia del cervo”, “Diana pescatrice”, “Diana con le ninfe si esercita al tiro con l’arco”, “Giochi di ninfe” e sul soffitto “Diana dispensa premi alle sue alunne”.
La parte inferiore della parete è in marmorino dipinto con effetto porfido.
Le pitture, invece, furono eseguite con tempera a uovo. Stucchi dorati, raffiguranti grifi, cavalli alati e racemi, completano la decorazione.
La stanza ha quattro tavoli rotondi su base ottagonale con zoccoli caprini e su ognuno è posizionata una lampada con basamento e stelo decorati.
Le porte sono incorniciate da colonnine e timpani in legno in stile pompeiano.
Proseguendo sulla destra entriamo nella Sala rinascimentale, che colpisce per gli stucchi dorati e il grande dipinto del soffitto.
L’opera allegorica, al centro del soffitto, è del padovano Vincenzo Gazzotto: “La Civiltà dispensa al mondo i suoi doni e scaccia l’Ignoranza”.
La Civiltà è raffigurata in sembianze di donna ed è seduta su un trono.
Di fronte a lei il Tempo in volo, ai suoi piedi, invece, i quattro continenti conosciuti (Europa, Asia, Africa e America) e sullo sfondo, a sinistra, l’Ignoranza che fugge.
Quattro mensole, con sostegni a forma di testa d’ariete con girali in legno dorato e sormontate da specchiere con anfore anch’esse in legno dorato, fanno parte dell’arredamento originale.
Il caminetto in marmo di Carrara, viceversa, fu aggiunto soltanto nel 1935. Purtroppo anche la tappezzeria non è originale, ma rifatta su un campione dell’epoca, a causa dei numerosi restauri e del crollo del settembre del 1977 del lato ovest.
Dalla stanza è possibile accedere al terrazzino che guarda verso Palazzo Moroni.
La stanza successiva è la Sala gotica e fa parte del Pedrocchino.
Caratterizzata dallo stile neo-medievale, è riconoscibile dagli stemmi delle famiglie nobili di Padova, che decorano le pareti, e dalle finestre dipinte con figure di cavalieri in costume medioevale.
Il soffitto, per contro, mostra gli stemmi di Padova e di altre cittadine della provincia.
L’autore dei dipinti non è certo, ma potrebbe essere Antonio Gradenigo che tra il 1837 e il 1839 eseguì gli ornamenti del prospetto del Pedrocchino.
Da notare la carta topografica di Padova e territorio in marmorino bianco, posta tra la stanza gotica e quella rinascimentale, copiata dalla pergamena del 1465 di Francesco Squarcione.
Il Museo del Risorgimento e dell’Età Contemporanea è collocato nella Sala gotica e prosegue in ulteriori sei stanze. Racchiude al suo interno un secolo e mezzo di storia padovana, che viene suddiviso secondo i più importanti avvenimenti.
La Sala gotica raccoglie reperti del periodo che va dal 1797 al 1847, ovvero dal tramonto della Repubblica di Venezia agli eventi che poi portarono all’insurrezione. La stanza successiva ricorda il triennio 1859-61, in cui si susseguirono sanguinose battaglie che culminarono più tardi con la fondazione del Regno d’Italia. Si prosegue la visita visionando le testimonianze relative allo sviluppo economico, politico e sociale di Padova dal periodo post-risorgimentale fino al 1914.
Le ultime stanze approfondiscono gli eventi, i personaggi e il ruolo di Padova durante le due Guerre Mondiali, terminando l’esposizione con documenti e immagini relativi all’insurrezione padovana del 28 aprile 1945, al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e ai padovani eletti alla Costituente.
La vivace storia del Caffè Pedrocchi si conclude con la morte di Domenico Cappellato Pedrocchi nel 1891. Il figlio adottivo di Antonio, infatti, decise di lasciare il Caffè in dono al Comune di Padova e ai suoi concittadini, con un preciso impegno: «Faccio obbligo solenne e imperituro al Comune di Padova di conservare in perpetuo, oltre la proprietà, l’uso dello Stabilimento come trovasi attualmente, cercando
di promuovere e sviluppare tutti quei miglioramenti che verranno portati dal progresso dei tempi mettendolo al livello di questi e nulla tralasciando onde nel suo genere possa mantenere il primato in Italia» (dal testamento di Domenico Cappellato Pedrocchi).
Ancora oggi, entrando al Pedrocchi, si respira quell’atmosfera di fine Ottocento e non è difficile immaginarsi Stendhal seduto a un tavolino della Sala bianca a sorseggiare un caffè o un gruppo di filosofi che discutono di politica nella Sala rossa.
Ma se è la prima volta che varchi la soglia del Caffè e ti senti un po’ intimidito dalla sua eleganza, accomodati nella Sala verde e avvertirai quella calorosa accoglienza che Antonio e Domenico Pedrocchi avevano desiderato per tutti.
Il Douja D’Or è una manifestazione nata nel 1967 ed è da sempre sinonimo di festa del vino che, come da tradizione, prevede il coinvolgimento della città di Asti. È un viaggio enogastronomico-culturale nel Monferrato e nei sapori della tradizione piemontese, alla scoperta delle eccellenze del territorio, del cibo e della storia, dove il vino rimane il protagonista indiscusso.
La Band di Giroinfoto ha partecipato alla serata finale del “Wine Masterclass”, che ha avuto come tema “2022: l’anno del vitigno Freisa” e che ha rappresentato uno degli appuntamenti più importanti del programma.
Un percorso di avvicinamento ai vini piemontesi e ai loro territori di origine. Un approfondimento sulle denominazioni della regione Piemonte, sui vitigni e sulle uve da cui si producono, un viaggio tra i territori che sono culla del patrimonio enoico regionale.
Guidati da un sommelier professionista, si sono svolte presso la Camera di Commercio di Asti, sei serate dedicate all’approfondimento delle tematiche territoriali legate ad un vino, con la possibilità di imparare a degustarlo.
Il progetto della Regione Piemonte “Vitigno dell’anno” nasce dall’idea di raccontare e valorizzare i vitigni storici della regione.
Nel 2019 il protagonista era il Dolcetto, nel 2020 il Cortese - le cui attività promozionali sono state approfondite anche nel 2021 - questo, invece, è l’anno della Freisa.
Le origini dei vitigni freisa risalgono al 1500 circa. Dalla documentazione storica, viene citato per la prima volta nel 1517, riguardo un carico di uve fresearum, che a quei tempi erano considerate di grande qualità.
La sua coltivazione, poi, si diffuse velocemente nell’area nord-occidentale del Monferrato, tra le province di Asti e Torino, come attestano i documenti nei catasti del Comune di Chieri del secolo sedicesimo.
Successivamente, il vitigno attecchisce in tutto il Piemonte, in quanto è una pianta molto resistente (anche alla peronospora, a differenza degli altri arbusti) e si adatta facilmente a qualsiasi terreno, sia calcareo che argilloso.
La prima descrizione ampelografica dedicata alla "Freisa" risale alla fine del 1700.
Esistono almeno due varietà di questo vitigno: la Freisa Piccola, presente soprattutto in zona collinare e la Freisa Grossa, detta anche Neretta Cuneese o Freisa di Nizza, coltivata soprattutto nel Pinerolese e nel Saluzzese.
Le date della vendemmia erano stabilite da leggi comunali; la raccolta non poteva avvenire prima di S. Matteo (21 settembre) per la pianura e di S. Michele (29 settembre) per la collina.
Domenico Ianaro PhotographyTra le caratteristiche del vitigno, c’è quella di adattarsi alla produzione di diverse tipologie di vino, tra cui:
La Freisa Vivace è ottenuta con una leggera rifermentazione degli zuccheri, con un residuo zuccherino abbastanza basso. È poco frizzante, con una percezione di profumo di lampone che è tipica del vitigno. Ha un colore rubino con gusto fruttato e floreale;
Chiaretto di Freisa, caratterizzato da una svinatura precoce e vinificazione in bianco danno al vino un colore leggermente rosato, contraddistinto dal tipico profumo fruttato di frutti rossi e dal sapore aromatico e fresco;
Secco e superiore sono le tipologie che oggi vanno per la maggiore, infatti i produttori hanno cominciato a investire e studiare sulla Freisa, come vino fermo prima e poi da invecchiamento.
Il secco ha un colore rubino intenso e brillante, profumi di rosa e viola, lampone e ciliegia, con tannini morbidi.
Il Superiore in particolare, ha bisogno di un anno di affinamento in legno.
È stato frutto di ricerca e sperimentazione, ha un colore rosso rubino intenso tendente al granato, profumo intenso, sentori di confettura, frutta matura e spezie. Piacevolmente tannico, equilibrato, di struttura e longevo;
Spumante sia nella versione “Charmat” che “Metodo Classico” sono le interpretazioni più moderne di questo vino, che danno buon gusto al palato e piacevolezza nel berlo.
“Charmat” ha un colore rosso ciliegia quasi rosato dal profumo fruttato intenso di fragola, morbido e fresco. "Metodo Classico" ha colore rosato, con sentori di lampone, ribes e fragola, fresco e asciutto.
Elisabetta Ramondini PhotographyParlando di Freisa, non possiamo non ricordare il vitigno di Villa della Regina, uno dei più importanti e dei pochissimi insediamenti metropolitani a livello europeo.
Altri vitigni di tal pregio si trovano a Napoli, a Brescia, nei pressi di Parigi e a Vienna, ma nessuno di questi vanta quella meravigliosa e suggestiva vista sulla città, come quella che possiamo ammirare qui a Torino.
Alla degustazione del “Wine Masterclass”, abbiamo avuto il piacere di assaggiare molti di questi vini e imparare a riconoscere le varie sfumature di colore, profumo e gusto tra le varie tipologie di Freisa.
All’evento erano, inoltre, presenti anche Marco Protopapa, assessore alla cultura e al cibo del Piemonte, Erminio Renato Goria, vicepresidente della Camera di Commercio di Alessandria e Asti e Filippo Mobrici, vicepresidente “Piemonte Land of Wine”.
Maurizio Anfossi PhotographyAltra situazione che ha attirato la nostra attenzione, è stata la performance del Circo Bipolar in Cafè Rouge. In programma all’interno dell’Asti Vibe Events al Douja D’Or, i Circo Bipolar si sono esibiti con un divertente spettacolo energetico e dinamico, il Cafè Rouge. Cafè Rouge è uno show circense con esibizione teatrale di strada.
Un’elegante acrobata e un eccentrico giocoliere, Costanza e Shay, si sono esibiti a Palazzo Gastaldi, in numeri di equilibrismo su scala libera e contorsionismi in aria a diversi metri di altezza e stupefacenti dimostrazioni di prestidigitazione.
Il Douja D’Or è ricco di numerosi eventi, che non solo trasporta il visitatore tra i sapori enogastronomici del territorio e il divertimento, ma che permette anche di apprendere e approfondire tradizioni e cultura con i molteplici convegni e le masterclass.
Fra tutte le regioni italiane, la Sicilia, insieme al Lazio e alla Lombardia, è quella che possiede ventitré comuni riconosciuti come Borghi più belli d’Italia dall’omonima associazione.
Quest’ultima nasce, nel 2001, dall’esigenza di valorizzare il grande patrimonio di storia, arte, cultura, ambiente e tradizioni presente in quei piccoli centri italiani, che per varie motivazioni, restano fuori dal tradizionale flusso turistico, rischiando per questo lo spopolamento e il conseguente dissesto economico anche a causa dei mancati introiti connessi agli interessi legati al turismo e al commercio.
Tale riconoscimento non intende, però, effettuare solamente una semplice operazione di promozione turistica ma serve a garantire il mantenimento di monumenti e memorie che, senza la loro continua tutela, recupero e valorizzazione, andrebbero altrimenti irrimediabilmente perduti.
Alla luce di ciò, questo mese siamo andati a visitare il maestoso borgo medievale di Troina che, oltre ad essere entrato nel 2019 a far parte del circuito dei borghi più belli d’Italia, vanta anche il primato di essere il comune più alto della provincia di Enna, essendo ubicato ad una quota di 1120 m sul livello del mare e di essere il secondo più popoloso comune d’Italia posto al di sopra dei mille metri di altitudine.
Il territorio di Troina, in prevalenza montano, si trova nell’estrema zona nord orientale della provincia ennese, al confine con quelle di Messina e Catania e ricade, per una piccola parte, nel Parco dei Nebrodi.
Dal centro storico, punto più alto della cittadina, si gode di uno straordinario panorama a perdita d’occhio sull’Etna, sui boschi e sulle ampie vallate che circondano la cittadina, con la particolare veduta della Diga Ancipa, che, sita a circa cinque chilometri da essa, realizzata negli anni cinquanta, sbarra il fiume Troina e dà origine a un grande bacino artificiale, il Lago Sartori, che è il più alto dell’isola, essendo ubicato a quota 950 metri.
L’ampia superficie lacustre, originariamente utilizzata solo per la produzione di energia elettrica, è stata, poi, usata anche per l’approvvigionamento idrico di gran parte della Sicilia centrale, costituendo una tra le più importanti risorse idriche dell’isola, sia per uso irriguo che potabile.
L’imponente costruzione artificiale realizzata nella stretta gola formata tra la Rocca Mannia e la Rocca D’Ancipa, permette allo sguardo di spaziare tra paesaggi di differente bellezza e suggestione, anche a seconda dei periodi dell’anno.
Rita Russo PhotographyDallo strapiombo sulla stretta valle del fiume Troina si passa alle fitte aree boschive che arricchiscono le sponde del lago, i cui colori variano da quelli brillanti dei mesi primaverili a quelli bianchi dei rigidi inverni.
Il lago, immerso tra i boschi dei Monti Nebrodi, nel tempo, ha dato origine ad un ecosistema d’importanza rilevante. Infatti, l’interesse naturalistico di questo bacino è legato alle specie che è possibile avvistare nel suo intorno, come i rapaci, tra cui l’aquila reale e il nibbio, gli uccelli acquatici e le tartarughe palustri, oltre a trote, anguille e carpe.
Per la sua splendida ed elevata posizione, inoltre, Troina, nel 2021, è stato il primo borgo del meridione ad avere ottenuto la certificazione di qualità "I cieli più belli d’Italia" - livello gold da Astronomitaly, la Rete del Turismo Astronomico che, dal 2014, identifica, in Italia, i luoghi più belli dove osservare le stelle.
Questo prestigioso riconoscimento viene assegnato ai luoghi che godono di un cielo stellato di qualità o che, in un percorso di riqualificazione e miglioramento, come quello compiuto negli ultimi anni da questo comune, desiderano valorizzarlo offrendo esperienze e servizi dedicati all’astroturismo.
Il Turismo Astronomico è, infatti, una tendenza sempre più diffusa oggi tra i viaggiatori che cercano nuove esperienze. Ma quando si pratica l’astroturismo, trovare un cielo non offuscato dalle luci artificiali è il maggiore ostacolo.
Per questo motivo la certificazione è una garanzia e un motore per questo affascinante settore turistico in espansione. Due sono stati i siti d’interesse che hanno permesso al comune di Troina di ottenere questo primato, il Lago Sartori e C.da Sambuchello, un’area naturale, presente all’interno del Parco dei Nebrodi, in cui sorgerà un Ecoresort che potrà accogliere, sotto le stelle, i suoi clienti.
Oltre a ciò, ulteriori innovazioni che l’Amministrazione Comunale ha in programma di realizzare, come il miglioramento degli impianti di illuminazione al fine di ridurre al minimo l’inquinamento luminoso, garantiranno il mantenimento del riconoscimento già ottenuto.
Rita Russo PhotographyTroina nella storia
Troina è una realtà urbana la cui storia millenaria s’intreccia con le più importanti vicende che hanno riguardato l’intera Sicilia e non solo e, dunque, come gran parte delle realtà siciliane, anch’essa vanta origini antichissime, i cui primi insediamenti risalgono al periodo preistorico e in particolare al Neolitico, come dimostra la necropoli ritrovata sul Monte Muganà.
Dopo essere successivamente stata abitata, fin dall’età del bronzo, dai Siculi e dai Sicani, quindi colonizzata dai Greci e dai romani, di cui restano i ruderi di un’imponente fortificazione muraria a blocchi megalitici (datata IV sec. a.C. – III a.C.) e conquistata, poi, dai Saraceni, Troina conobbe il suo massimo splendore con l’arrivo dei Normanni, nel 1061, tanto da valerle il titolo di prima Capitale della Contea di Sicilia.
Essa, infatti, fu scelta dal Conte Ruggero d’Altavilla, sia come sua dimora, sia come roccaforte per la conquista dell’isola, vista la sua posizione strategica. A proposito della conquista normanna di Troina, esiste una leggenda secondo la quale il Gran Conte utilizzò uno stratagemma per conquistare l’inespugnabile castello saraceno, liberando così Troina dal dominio arabo. Si narra che Ruggero, venuto a conoscenza del fatto che il castello veniva rifornito nottetempo da un mugnaio accompagnato dal suo cane, il cui abbaiare rappresentava il suo segnale di riconoscimento, si accordò con l’uomo e la notte di Natale del 1061, lo seguì.
Raggiunto il castello, il mugnaio fece abbaiare il suo cane e all’apertura delle porte, i Normanni, guidati dal Conte, sorprendendo gli ignari Saraceni, irruppero nel castello espugnandolo.
Questa leggenda ha, peraltro, ispirato la raffigurazione riportata sullo stemma municipale della città. Le scelte di Ruggero influirono inevitabilmente sull’assetto politico e religioso della città che divenne, sin dall’inizio, un vero e proprio “laboratorio“ di politica ecclesiastica dei nuovi governanti.
Essa divenne, infatti, prima sede vescovile dopo la costruzione del primo luogo di culto cattolico, costituito dalla cattedrale normanna dedicata alla Virgo puerpera.
Nel 1098, Papa Urbano II ricompensò lo sforzo bellico dei normanni contro le forze saracene con lo speciale privilegio dell’Apostolica legazia, un istituto religioso e politico, attraverso il quale venne data ai re di Sicilia la dignità di legato pontificio, ossia il potere di nominare direttamente i vescovi siciliani e la libertà di avere voce nel giudizio di questioni ecclesiastiche.
I Normanni costruirono chiese e conventi e diedero decoro urbanistico e architettonico alla cittadina. La città - castello normanna fortificata aveva una lunghezza di più di un chilometro e una larghezza di poche decine di metri, con mura di difesa da tutti i lati, intervallate da torrioni.
La difesa era resa più facile dallo strapiombo in quasi tutti i punti. Queste dimensioni sono state mantenute fino ad oggi e coincidono con l’attuale centro storico della città.
Le sorti di quest'ultima cambiarono dopo la dominazione sveva, subendo in epoca angioina, come tutto il resto dell’isola, un grave declino politico ed economico.
Cacciati gli Angioini, con la dominazione aragonese, Troina fu venduta dal re Federico III d’Aragona al nobile catalano Matteo d’Alagona.
Successivamente passò sotto il dominio feudale di alcune nobili famiglie tra le quali quella dei Moncada che la ebbero come baronia.
Ma essa fu demanializzata nel 1398 dal re Martino I di Sicilia che la confiscò al barone Moncada e concesse a Troina definitivamente lo status di città regia.
La città, tranne in due brevi periodi, occupò sempre il tredicesimo posto come città demaniale del Parlamento siciliano, il più antico del mondo, fondato da Ruggero II nel 1129 e, dunque, posta sotto le dipendenze dirette della corona.
Tra il XV ed il XVI secolo, la cittadina conobbe una forte espansione urbana, perdendo il suo rilievo militare e divenendo un centro d’interesse culturale e religioso.
Successivamente, nel 1575, Troina fu messa a dura prova da un’epidemia di peste che causò numerosi morti e nel secolo successivo, nel 1643 e nel 1693, due terremoti bloccarono l’espansione della cittadina e causarono crolli e devastazione.
Rita Russo PhotographyEssa riprese i suoi splendori nel XVIII secolo, quando arricchitasi di ville e palazzi nobiliari, riprese impulso l’attività culturale.
Nel secolo XIX, la società a Troina era caratterizzata dalla presenza di un’ampia realtà rurale e di una élite politico religiosa che deteneva vasti possedimenti.
Ma dopo l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia e la successiva emanazione da parte del neo Stato Italiano delle leggi eversive, a causa delle quali si ebbe la soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose e la liquidazione dell'Asse ecclesiastico, i possedimenti vennero acquistati dalla borghesia terriera locale causando un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini che, nel 1898, sfociò in una rivolta dal tragico epilogo.
Il permanere delle difficili condizioni di vita per la classe contadina comportò l’abbandono della propria terra in cerca di miglior fortuna, innescando, soprattutto a partire dai primi anni del 1900, il fenomeno dell’emigrazione di massa che proseguì anche nei decenni successivi, con un periodo di pausa legato ai lavori per la diga Ancipa.
Troina, che, come abbiamo già visto, soprattutto durante i periodi bellici, è stata sempre un avamposto di notevole importanza per la sua posizione strategica, non mancò di esserlo nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale. Infatti, nel 1943, dopo lo sbarco in Sicilia delle forze Alleate, conosciuto con il nome in codice di Operazione Husky, che favorì la destituzione di Benito Mussolini e la caduta del fascismo, Troina fu teatro di una storica battaglia contro le forze terrestri dell’Asse, tra l’1 ed il 6 agosto dello stesso anno. La città, infatti, proprio per la sua posizione, divenne la chiave di volta del sistema di difesa, denominato “Linea dell’Etna”, creato dalle forze armate italo-tedesche, nel tentativo di arrestare l’avanzata delle truppe anglo-americane verso Messina.
Quindi, in quei giorni, gli Americani furono impegnati a contrastare la resistenza di un nucleo di militari tedeschi che si erano ritirati a Troina. I cruenti giorni della battaglia causarono più di 300 vittime troinesi e la distruzione di gran parte del suo centro abitato per opera dei bombardamenti.
Quando ci si appresta a raggiungere il cuore più antico di Troina, si è obbligati ad attraversare l’ampia e ordinata area d’espansione che occupa le pendici del monte omonimo, sull’acrocoro del quale si sviluppa il suo centro storico.
Ma una volta raggiunto quest’ultimo si ha la netta sensazione di tornare indietro nel tempo. Infatti, il borgo medievale corrisponde, come già detto, alla città - castello normanna e ne ha mantenuto le originarie dimensioni.
Tra i suoi stretti vicoli, che s’intrecciano tra loro come in una casbah araba, sembra che riecheggino ancora antiche storie e leggende medievali.
Le chiese e i palazzi che s’incontrano percorrendo le sue strade e che presentano differenti stili architettonici, sono i testimoni della millenaria storia del borgo, che si è sviluppato, con un impianto urbanistico tipicamente medievale, lungo il principale asse viario dedicato al Conte Ruggero.
Rita Russo PhotographyQuesto corso è intersecato da stretti e tortuosi vicoli, che per seguire l’andamento orografico della rocca sulla quale fu creata la città - castello, sono caratterizzati spesso da ripide pendenze.
Dunque, il borgo è un pittoresco insieme di viuzze, slarghi irregolari, piccole scale, rampe, cortili e sottopassaggi ad arco, attraverso i quali spesso si vedono scorci di panorama mozzafiato.
Il corso principale termina nell’omonima Piazza Conte Ruggero, la più alta piazza monumentale della Sicilia, dove un tempo sorgeva il Palazzo comitale di Ruggero d’Altavilla, che era compreso nel recinto fortificato esterno, impostato sui cigli dei dirupi e circondato da mura dotate di quattro porte e di tre alte e robuste torri.
Inizialmente di ridotte dimensioni, la piazza venne ampliata, all’inizio del 1920, con la demolizione di una parte del monastero femminile benedettino del 1300, che durante il periodo normanno fu sede del palazzo del Gran Conte.
Molti sono stati gli illustri personaggi come, prelati, alti politici, scrittori e artisti che, durante i secoli, hanno attraversato questa piazza.
Tra questi figurano il Papa Urbano II che, nel 1088, giunse nella prima capitale normanna per discutere di questioni religiose con il Gran Conte; l’Imperatore Carlo V d’Asburgo, nel 1535, in viaggio verso Messina e nel 1943 anche il noto fotografo Robert Capa.
Oggi questa piazza è il più alto e suggestivo belvedere architettonico della Sicilia che domina, dall’alto del Monte Troina, la vallata che conduce alla Piana di Catania e dal quale, nei giorni in cui il cielo si presenta terso, è possibile vedere l’Etna e raggiungere con lo sguardo anche il Golfo di Augusta.
Rita Russo PhotographyAffacciati sulla piazza, che ospita oggi una statua realizzata in memoria dei caduti in guerra, si trovano, oltre al municipio, anche tre chiese: la Cattedrale, l’Oratorio del SS. Rosario e la Chiesa di San Giorgio.
La Chiesa Madre, dedicata a Santa Maria Assunta, è sita sul punto più alto del crinale roccioso di Monte Troina. Prima Cattedrale normanna in Sicilia, fu costruita tra il 1067 ed il 1078.
Essa divenne dapprima regia cappella in seguito all’istituzione del primo vescovado nell’isola e poi cattedrale vescovile nel 1082.
La chiesa presenta una pianta a croce latina a tre navate e custodisce al suo interno opere di grande valore, tra statue, dipinti e arredi, oltre ad una ricca collezione di paramenti sacri e argenti, risalenti ai secoli compresi tra il XII e il XIX.
Nel corso del tempo, la chiesa ha subito dei rimaneggiamenti che ne hanno modificato l’antica struttura: il primo risale al Quattrocento, il secondo all’età tardo barocca e l’ultimo al 1927.
Testimonianza di tali lavori sono sia la torre campanaria, cuspidata e a cono rivestito di piastrelle di maiolica, sia la facciata della chiesa.
Di recentissima costruzione è il nuovo portone d’ingresso, un’opera in bronzo in cui sono scolpiti gli eventi principali della storia di Troina, della Chiesa e della vita del santo patrono San Silvestro. In particolare, il campanile corrispondeva, in origine, ad una delle torri della città - castello.
L’Oratorio del SS. Sacramento è situato sotto la Chiesa Madre e corrisponde alla cripta della chiesa ed al transetto dell’antica cattedrale normanna. Era destinato a cappella palatina e deputato al servizio religioso del Conte e della sua famiglia. Secondo la tradizione, nel 1088, Papa Urbano II celebrò la messa in questo Oratorio.
Mentre la Chiesa di San Giorgio è posta in adiacenza al campanile dal lato opposto alla Chiesa Madre e fu edificata nel XIV secolo. In origine era la cappella dell’antico monastero delle Benedettine, oggi non più esistente.
A pochi passi dalla piazza Conte Ruggero, di fronte al Municipio, l’antico Palazzo Pretura ospita, dal 2021, l’interessante museo dedicato alla fotografia di Robert Capa, grande innovatore del fotogiornalismo.
Questa prestigiosa esposizione permanente, resa possibile dalla collaborazione tra il Comune di Troina e la Fondazione Famiglia Pintaura, che ha acquistato le foto dall’International Center of Photography di New York, dona rilevanza internazionale alla cittadina che può vantare, così, il prestigio di custodire alcune tra le più significative testimonianze della storia della fotografia mondiale.
Infatti, nel museo che, si sviluppa su due piani, sono esposte 62 foto, stampate da negativo originale e in buona parte inedite, che il noto fotografo ungherese ha scattato in Sicilia, nel 1943, durante l’Operazione Husky e in particolare a Troina.
Il modo in cui Capa raggiunse la Sicilia, durante questo periodo, è piuttosto singolare oltre che rocambolesco.
Egli, infatti, si fece paracadutare il giorno prima dello sbarco degli Alleati, la sera del 9 luglio del 1943, partendo da una base aerea di Tunisi.
Cadendo nell’entroterra deserto dell’isola, restò appeso ad un ramo di un albero per l’intera notte. La mattina seguente fu aiutato a scendere da tre paracadutisti che erano con lui.
Il gruppo raggiunse una fattoria dove fu accolto da un anziano contadino siciliano che li ospitò per tre giorni, fin quando non arrivarono i soldati della I divisione.
Capa, che si unì a loro, privo di alcun accredito giornalistico essendo stato da poco licenziato dalla rivista per la quale lavorava, rischiò di essere rispedito a New York.
Soltanto l’amicizia con il gen. Theodore Roosevelt jr., figlio del’omonimo 26° Presidente degli Stati Uniti d’America, comandante in seconda della I divisione, gli consentì di rimanere nell’isola e muoversi liberamente al seguito dell’esercito.
Capa restò in questa situazione di precarietà per quasi un mese.
Ma nei primi giorni del mese di agosto, dopo aver fotografato la violenta battaglia che si svolse a Troina, ricevette il telegramma di assunzione da parte della rivista Life, che gli permise di muoversi su tutti i fronti.
Capa morì, a quarant’anni, proprio a causa della guerra, calpestando una mina antiuomo durante quella d’Indocina.
Le immagini, elegantemente esposte nelle due sale site su due piani differenti, fanno parte della collezione “Fragments of War in Sicily” del noto fotografo, che trascorse gran parte della sua vita a documentare realtà belliche e che, per questo, nel 1938, fu acclamato dalla rivista britannica Picture Post come “più grande fotografo di guerra del mondo”.
Le foto di questa collezione documentano la visione che Capa ha della guerra. Infatti, così come durante i conflitti bellici, le città vengono ridotte in frammenti e le vite di molte persone vanno in pezzi, allo stesso modo Capa estrapola idealmente frammenti di guerra e porzioni di storia, restituendoli con uno stile unico e personale.
Un dettagliato racconto visivo che mostra gesti, sguardi ed emozioni profonde, di civili e soldati, colti dal fotografo, nell’istante dello scatto, con grande sensibilità ed empatia.
Allontanandoci sempre più dalla piazza e ritornando sui nostri passi lungo il corso, attraversiamo il quartiere di San Procopio, dove viveva una comunità ebraica, la cui prima attestazione risale al 1444.
La comunità, composta da circa 80 persone, sebbene fosse presente nelle liste della tassazione della corte viceregia, per la sua modestia veniva computata insieme a quelle delle vicine città di Cerami e San Marco d’Alunzio.
Come in altri contesti, anche a Troina gli ebrei vivevano in un quartiere separato ma non esclusivo. La giudecca si estendeva nella parte sud-occidentale della città fortificata, dove era presente anche una Sinagoga.
Gli ebrei di Troina erano conciatori di pelli e commercianti di lana e svolgevano le loro attività in alcuni opifici situati nel quartiere Cunziria sito sotto la Torre Capitania, a breve distanza dal quartiere San Procopio.
Questo imponente edificio a pianta quadra, ubicato lungo la Via Conte Ruggero, è ricavato dalla torre centrale dell’antico castello.
Nei vari secoli è stato adibito a diversi usi: fu sede del Capitano di Giustizia nell’alto medioevo, custodia con regio castellano in epoca aragonese e carcere mandamentale in epoca borbonica.
Successivamente ha subito ulteriori modifiche e ristrutturazioni e oggi ospita il Museo civico della città.
Sfruttando il poco tempo rimastoci, lasciato il centro storico, scendiamo nella parte nuova della cittadina per dare uno sguardo da vicino ad altri tre luoghi che hanno attratto il nostro interesse sin da quando siamo arrivati.
Si tratta dei ruderi di due monasteri dedicati a San Michele Arcangelo (Il Vecchio ed il Nuovo) siti nella periferia sud orientale del centro abitato e del Monastero e della Chiesa di Sant’Agostino, siti a nord di esso.
Il Monastero di San Michele Arcangelo “il Vecchio” sorge su una collinetta a circa 3 km dal centro abitato. Fu il primo monastero edificato in Sicilia dai Normanni, voluto dal Conte Ruggero in seguito alla vittoria contro i Sarceni.
La chiesa del monastero, ispirata allo stile benedettino, era circondata da una cinta muraria eretta a scopo difensivo. Qui visse il monaco basiliano Silvestro, Patrono di Troina. Il monastero fu abbandonato nel 1700, in seguito al trasferimento dei monaci in una nuova struttura e di esso oggi sono rimasti soltanto i ruderi.
Il “Nuovo” monastero di San Michele Arcangelo fu edificato verso la metà del XVIII secolo, su commessa dei monaci benedettini, nell’area di una necropoli ellenistica nei pressi della città.
L’imponente struttura abbandonata, ridotta oggi in ruderi da un inesorabile degrado, mostra, attraverso la pericolante testimonianza, la grandiosità dell’architettura barocca che la caratterizzava.
Il complesso occupava una superficie di oltre 8000 mq ed era costituito da una grande chiesa, mononavata, oggi priva di copertura e da un monastero che ruotava intorno ad un chiostro quadrangolare realizzato con arcate, tutto arricchito da decorazioni e ornamenti tipici dello stile barocco.
Presso l’archivio storico del comune è conservato il plastico della struttura originaria.
La Chiesa di Sant’Agostino, annessa all’omonimo convento dei Padri Agostiniani, sorge, a nord del centro abitato, su un pianoro anticamente chiamato Piano di San Pietro, perché in corrispondenza di esso, nel 170 d.C., vi sorgeva una chiesa dedicata ai Santi Pietro e Paolo.
Alla fine del Quattrocento, il patriziato urbano di Troina accolse i frati agostiniani e concesse loro non solo l’uso della chiesetta di San Pietro ma anche il terreno circostante e i proventi delle rendite, per potervi costruire un convento.
I lavori iniziarono nel 1491 ma la modestia degli introiti e l’austerità dei monaci fecero prolungare i tempi di realizzazione dell’edificio.
I lavori terminarono a metà del XVI secolo. In quel periodo il viceré, per consentire il loro sostentamento, autorizzò i frati ad organizzare, nel mese di luglio, una fiera nell’area adiacente al monastero.
Successivamente, la corte viceregia autorizzò lo spostamento della fiera nella prima decade del mese di settembre, in concomitanza con la celebrazione della festa per San Nicolò da Tolentino, protettore dell’Ordine.
Nel 1700 la chiesa venne demolita e ricostruita con pianta ottagonale regolare e il resto del convento subì molti rimaneggiamenti.
Risale al 1800 la realizzazione del grande loggiato che chiude il piano antistante la chiesa ed il convento.
Nel 1866 a causa delle leggi eversive, il complesso conventuale venne messo all’asta e acquistato dal Comune di Troina.
Rita Russo PhotographyTerminata la nostra breve ma intensa visita di questa straordinaria realtà siciliana, lasciamo il suo centro abitato senza trascurare di vedere, a poco più di quattro chilometri di distanza, uno dei monumenti simbolo della sua identità, il Ponte Faidda, lungo m 42,50.
Quest’ultimo, realizzato sul fiume Troina, fu fatto costruire dai Normanni per consentire l’attraversamento del corso d’acqua ad un’antichissima via regia che collegava Palermo con la sponda ionica dell’isola e risale alla prima metà del XII secolo.
Il ponte, per secoli, è stato attraversato non soltanto da pastori, pellegrini, eremiti e viandanti ma anche da grandi personalità della storia, come il re Pietro d’Aragona (1282), la regina Bianca di Navarra (1411) e l’imperatore Carlo V d’Asburgo (1535).
Situato in un contesto agricolo ricco di mulini, alcuni dei quali ancora esistenti, frantoi e fondaci, consentiva il passaggio di uomini, animali e merci, collegando il borgo con i boschi circostanti.
Come la gran parte dei ponti medievali, questo è stato realizzato con una struttura a schiena d’asino, tipica dell’architettura di quel tempo, a due arcate disuguali, di cui quella più grande a tutto sesto alta m 6,50 e l’altra ogivale, alta m 1,50 dal letto del fiume.
Le due rampe che formano la carreggiata, munite di parapetti, sono costituite da un selciato ad opus incertum, realizzato con blocchi eterogenei di natura fluviale, mentre la struttura portante è stata realizzata con blocchi di pietra arenacea locale.
Il ponte è stato sottoposto ad un restauro di tipo conservativo che ha avuto lo scopo di salvaguardare e ridonare il bene alla fruizione.
Troina è ricca oltre che di folklore e tradizioni religiose, tra le quali la più importante è quella dedicata al patrono San Silvestro, anche di tradizioni culinarie.
La cucina troinese, infatti, tipicamente rustica e montana, comprende molte specialità eno-gastronomiche tipiche della zona che risentono delle influenze delle dominazioni che si sono avvicendate nella zona.
Una ragione di più per consigliare un soggiorno, possibilmente in periodo estivo, per apprezzare e godere appieno oltre che di tutte le bellezze (artistiche, storiche e naturalistiche) di questa cittadina anche di aria pulita, mitigata dalla frescura naturale dovuta alla sua posizione geografica.
Africa
Viaggio nei grandi parchi nazionali a cura di Massimo Zanella. Una sola cosa allora volevo: tornare in Africa. Non l’avevo ancora lasciata, ma ogni volta che mi svegliavo, di notte, tendevo l’orecchio, pervaso di nostalgia.
[Ernest Hemingway]
30 × 35 cm, 240 pagine cartonato
L’Africa è il secondo continente più grande del mondo, ed è la terra della fauna selvatica più spettacolare del pianeta: savane, foreste pluviali, deserti, paesaggi vulcanici, montagne e coste; a ciò si aggiunge l’incredibile ricchezza degli animali.
L’Africa ospita un numero sor- prendente di parchi nazionali, che aiutano a preservare le diverse specie che vivono in queste aree, molte delle quali rischiano l’estinzione; con questo libro visiterete alcuni di questi straordinari parchi e avrete la possibilità di ammirare la loro straordinaria fauna selvatica nel proprio habitat naturale attraverso meravigliose immagini che possono, solo in parte, restituirci la bellezza selvaggia di un continente tanto vario quanto affascinante.
Da nord a sud, dalla Tunisia al Sudafrica, il volume presenta trenta grandi parchi nazionali del continente africano, caratterizzati da una grande diversità di animali selvatici e di paesaggi mozzafiato: dal Parco dei Vulcani in Ruanda al Parco delle Cascate Vittoria in Zimbabwe, dal Serengeti in Tanzania all’Amboseli in Kenya, dal Santuario degli uccelli di Djoudj in Senegal al Parco degli Elefanti di Addo in Sudafrica.
Massimo Zanella, laureato in Storia dell’arte, è un esperto di iconogra- fia, curatore di collane editoriali di architettura contemporanea e arti applicate. Autore di libri e contributi di storia e critica d’arte, con Skira ha recentemente pubblicato Montagne. I giganti della Terra (2021).
Attraverso un ricco repertorio di immagini spettacolari, Africa. Viaggio nei grandi parchi nazionali presenta le schede dei singoli parchi intro- dotte da brevi testi sulla storia del parco e sulla fauna selvatica presente in esso.
Parco nazionale impenetrabile di Bwindi Uganda ©Shutterstock Parco nazionale di Amboseli KenyaIl salone del gusto nasce nel 1996 ed è organizzato da Slow Food Italia.
La prima edizione si tiene a Torino in una piccola area dell’ex-fabbrica del Lingotto.
L’evento viene replicato ogni due anni con sempre maggiore successo ed è in continua evoluzione.
Nel 1998 assume la connotazione del mercato, ovvero un incontro tra consumatori e produttori, con una presenza di circa 130.000 visitatori.
La successiva edizione del 2000 è, poi, caratterizzata dalla presenza dei primi 90 presidi slow food italiani e dalla partecipazione di 11 parchi nazionali e 4 regionali, che presentano i prodotti tipici dei loro territori a sostegno dell’economia e delle attività tradizionali.
L’evento seguente, invece, si arricchisce con la partecipazione dei primi slow food internazionali.
L’idea di Terra Madre nasce nel 2004, progetto, che mira alla salvaguardia del patrimonio agroalimentare tradizionale nel mondo. Per l’importanza degli argomenti trattati e per darne più visibilità, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini invita alla manifestazione l’allora Principe Carlo d’Inghilterra.
Il tema è molto sentito e si arriva al 2006 con l’identificazione di 3 parole chiave: buono, pulito e giusto, con l’ambizione di spiegare come piccole imprese di nicchia possano alimentare la crescita economica e intellettuale.
In continuo aumento inoltre, rispetto agli anni passati, è la presenza del pubblico che, per questa edizione, ha raccolto oltre 170.000 visitatori con oltre il 20% di stranieri.
L’edizione del 2008 continua all’insegna della cultura gastronomica, l’amore per il cibo e il ritorno alla tradizione, in cui la ricerca del buono e dell’ecosostenibile sono sempre al centro.
Non sono mancati anche numerosi dibattiti sulla biodiversità, tesi a valorizzare e conservare nella cultura alimentare quante più razze possibili tra animali, piante e i buoni prodotti di un tempo.
Il 2010 consacra definitivamente la vocazione internazionale dell’appuntamento che fa incontrare nello stesso luogo artigiani, contadini e grandi cultori dell’enogastronomia. Cibo e territorio, questo il tema principale dell’evento, in cui viene lanciata la campagna per la realizzazione di “Mille orti in Africa”, che coinvolge comunità del cibo e condotte slow food.
Nel ripercorrere la cronologia degli eventi Slow Food Italia, si arriva finalmente al 2012, anno in cui per la prima volta il “Salone del Gusto” di Torino incontra “Terra Madre”, network mondiale tra le comunità agroalimentari.
Il leitmotiv dell’edizione diventa “Cibi che cambiano il mondo” e i numeri al Lingotto Fiere, dove si svolge l’evento, sono sempre più importanti: oltre 1.000 espositori da oltre 100 Paesi e circa 220.000 visitatori.
Il 2014 vede un grande aumento nella presenza dei presidi: oltre 300 tra Italia e altri 50 Paesi del mondo; un grande mercato del cibo, luogo d’incontro e aggregazione di cultura gastronomica e di consapevolezza etica e sociale.
Ancora al centro l’”Arca del Gusto”, progetto di Slow Food per la tutela della biodiversità, lanciato al Salone del gusto del 1996, per identificare i prodotti a rischio e l’agricoltura familiare; progetto che si combina con il lavoro di Slow Food e Terra Madre, che trattano anche argomenti come la lotta alla fame, la malnutrizione e il rapporto tra cibo e ambiente con il rispetto di territori e tradizioni.
Siamo all’anno 2016 e si decide per una grande novità in merito alla location.
Viene, infatti, abbandonata per questa edizione il Lingotto Fiere per preferire l’evento all’aperto, in diversi luoghi della città di Torino.
Il bellissimo parco del Valentino ospita il mercato, mentre piazza Castello e via Roma ospitano i presìdi Slow Food.
Viene posto al centro l’anima rurale, per mettere sempre più in risalto i produttori di piccola scala che producono ogni giorno cibo buono, pulito e giusto per tutti.
La campagna “Food for Change” è stata il filo conduttore dell’edizione 2018, che ha fatto nascere nuovi progetti e spazi tematici.
Terra Madre - Salone del Gusto torna al Lingotto con numeri da record: sono presenti 170 presidi italiani e 140 internazionali, con il debutto di sei nuovi presìdi Slow Food dall’estero (Africa, Europa e Americhe) e 900 espositori provenienti da 100 Paesi.
Nel 2020 la pandemia non ferma Terra Madre - Salone del Gusto. Saranno oltre 200 gli eventi che in sei mesi animeranno la città.
Conferenze in presenza e incontri online, laboratori del Gusto e “appuntamenti a tavola”, degustazioni e cene a tema, visite guidate nelle aziende dei Presìdi Slow Food.
Gerardo Rainone PhotographyQuest’anno
, il 2022, Terra Madre - Salone del Gusto torna dopo un biennio di pausa. Si è svolto al Parco Dora con circa 3.000 delegati arrivati da 130 Paesi, che per cinque giorni hanno portato a Torino uno spirito di festa.
La 14esima edizione di Terra Madre ha visto la partecipazione di circa 350.000 visitatori nell’ex area industriale, oggetto di un processo di riqualificazione ancora in corso.
Più di 550 eventi, oltre 700 espositori da tutta Italia e dal mondo e decine di ospiti italiani ed internazionali. Decine di migliaia di ragazze e ragazzi sono stati protagonisti di Terra Madre: hanno creato il cartellone delle attività dello spazio di Slow Food Youth Network e dell’Area Giovani Turismo Agricoltura, condotto conferenze e tavole rotonde, organizzato momenti di formazione rivolti a coetanei e studenti in ambito agricolo, allestito palcoscenici dell’attivismo e delle politiche rivolte alle giovani generazioni, il tutto nel cuore di Parco Dora.
Molti giovanissimi hanno contribuito al successo di questa manifestazione, in particolare studenti dei licei torinesi Cattaneo, Cottini e Lagrange impegnati a curare la parte ecologica.
Studenti del Gioberti e del Mazzarello hanno accompagnato i delegati, ragazze e ragazzi dell’istituto alberghiero Colombatto hanno messo a disposizione la loro esperienza nei “Laboratori del Gusto”.
Ovviamente al Salone del Gusto il cibo è protagonista e inteso come driver per la transizione e la rigenerazione.
Il presidente di Slow Food Italia, Barbara Nappini ha, infatti, dichiarato che «Terra Madre è una festa popolare, la dimostrazione che il cibo buono, pulito e giusto è un elemento di gioia e un ponte di pace tra i popoli.
Ma questa edizione riafferma con forza la consapevolezza che la produzione alimentare è anche uno straordinario strumento di contrasto alla crisi climatica e alle ineguaglianze sociali».
Gerardo Rainone PhotographyIl fondatore di Slow Food, Carlo Petrini, inoltre punta il dito contro lo spreco alimentare esortando a cambiare abitudini.
Nasce da Terra Madre il progetto “Food regenerAction” che si fonda su quattro punti: Non sprecare, un terzo del cibo che viene prodotto viene buttato via;
Consumare meno carne, più
verdure
“L’eccedenza delle proteine animali nelle diete occidentali è fuori da ogni logica e ha conseguenze enormi sul clima e sulla salute”, questa la dichiarazione del fondatore di Slow Food, Carlo Petrini
Scegliere la biodiversità a tavola, preferire frutta e verdura meno diffuse, pane con farine di grani antichi, formaggi a latte crudo;
Seguire la stagionalità, consumare alimenti locali, nella stagione giusta, che tra le altre cose sono più gustosi e meno costosi.
Manuela Albanese PhotographyIl tema centrale del Salone del Gusto, il cibo, è stato fulcro ed elemento di connessione tra diversi temi importanti, come la rigenerazione delle relazioni e delle città, i diritti e le uguaglianze, l’importanza e la necessità di salvare la biodiversità, la sostenibilità delle economie.
Il tema della rigenerazione a 360° coinvolge tutti noi, mettendoci in gioco, impegnandoci e confrontandoci in modo costruttivo. Terra Madre è anche mercato, dove vi è la possibilità di incontrare migliaia di produttori di tutto il mondo, concedendo ai nostri sensi di esplorare la diversità gastronomica del mondo.
Il Salone del Gusto è stato un evento che ci ha anche consentito di viaggiare attraverso il cibo, permettendoci di incontrare e conoscere le diverse realtà enogastronomiche nazionali e internazionali.
Ringraziamo Slow Food e il Gruppo Affini di Torino. Gerardo Rainone Photographycura
Rainone
REGGIA DI VENARIA FLOWER EXHIBITION
I fiori piacciono a tutti. Accompagnano la vita di ogni giorno e assumono un ruolo da protagonisti quando organizziamo un evento importante.
Che siano di campo, coltivati, da recisione, freschi, secchi o “finti”, adornano ogni momento della nostra quotidianità: una tavola imbandita, un salotto accogliente, un balcone, un giardino, un doppiopetto o una gonna, una scrivania in ufficio, una sala d’attesa, una cerimonia, una festa. Li troviamo riprodotti sui vestiti, sulla biancheria per la casa, sui muri, nei souvenir, nei profumi, nell’artigianato e nelle opere d’arte.
Un fiore regala allegria, conferisce eleganza o vivacità e parla al nostro posto quando lo doniamo.
Ogni tipologia, ogni colore, da solo o in un bouquet racconta qualcosa di noi e porta un messaggio alla persona che lo riceve.
È così che comunicano con noi gli artisti di Corollaria, attraverso le loro composizioni, trasformate in opera d’arte.
Corollaria
nasce nel 2021 dal desiderio di far scoprire e riscoprire la bellezza del mondo floreale, con un focus particolare sul fiore reciso, e per sostenere il comparto florovivaistico, particolarmente colpito durante questo difficile periodo.
È una rassegna dedicata all’arte floreale e al giardino, che anche quest’anno, viene ospitata in una delle meravigliose
residenze sabaude torinesi, parte del sito seriale UNESCO, iscritto alla Lista del Patrimonio dell'umanità dal 1997: la Reggia di Venaria.
Perfettamente integrata nel contesto monumentale barocco, Corollaria dona arte all’arte, immergendo il visitatore in una realtà di massima bellezza.
La cultura e la tradizione della composizione floreale ha discendenze antichissime.
L'arte floreale viene riconosciuta come disciplina autonoma, però, soltanto intorno al 1920 e trae la sua storia dall'osservazione dell'importanza dei fiori nell'epopea del genere umano.
I fiori venivano donati agli Dei per ringraziarli o pregarli, venivano utilizzati per enfatizzare le feste, oppure, grazie al loro significato, per portare fortuna a uno sposalizio o a una nascita, e percorrono insieme all'uomo la sua storia fatta di tradizioni, religioni e stili di vita, nonché mode. Come l'abbiamo conosciuta?
Ovviamente attraverso le raffigurazioni pittoriche delle tombe dei faraoni d'Egitto, nelle pitture e mosaici dell'antica Roma e in numerosissime altre testimonianze antiche. Ogni regione e periodo porta avanti il suo modo individuale di composizione floreale. Inoltre, ogni paese ha il suo significato unico per i fiori.
Quando esplori il design floreale attraverso la sequenza temporale della storia, acquisisci una comprensione più profonda e arricchita non solo dei fiori, ma delle culture di tutto il mondo.
Domenico Ianaro PhotographyLe scuole di arte floreale classica, per la realizzazione delle composizioni, insegnano il rispetto di regole che messe insieme conferiscono bellezza al lavoro: proporzione, equilibrio, ritmo, gradualità, ripetitività, armonia e contrasto.
Devono essere contemplate tutte queste caratteristiche se si vuole creare una realizzazione ad arte. Di particolare importanza, è il rispetto delle proporzioni tra gli elementi compositivi, che spesso sono molto vicini nella forma alla sezione aurea, il rapporto della perfezione naturale. Così come scriveva Terri Guillemets “Il fascino di un fiore sta nelle sue contraddizioni – così delicato nella forma così forte nel profumo, così piccolo nelle dimensioni così grande nella bellezza, così breve nella vita così lungo il suo effetto”.
Come ci racconta il fondatore e presidente di Orticola Piemonte, il Sig. Giustino Ballato, l’idea di Corollaria nasce dalla collaborazione tra Orticola, Federfiori (Federazione Nazionale dei fioristi italiani), Asproflor e l’Associazione di Produttori Florovivaisti italiani, che lavorano con il fiore reciso.
Per la realizzazione e l’allestimento della mostra, Orticola ha collaborato anche con il gruppo Flauerpauer, composto da vivaisti e fioristi, i quali utilizzano solo prodotti a km zero, piante prodotte da loro e coltivate con metodi biologici, dove l’eco-sostenibilità, portata all’estremo, è l’elemento fondamentale.
Maurizio Anfossi PhotographyNella passata edizione hanno lavorato, alla realizzazione delle opere, solo fioristi piemontesi, mentre in questa edizione erano presenti, sia in maniera diretta che indiretta, fioristi da tutta Italia, ma l’obiettivo prefissato è quello, per le prossime, di far diventare questa rassegna la vetrina più importante dell’arte floreale italiana anche a livello internazionale.
Gli artisti, tra fioristi, flower designer e florovivaisti, che hanno progettato e ideato le opere esposte sono stati una decina e con la loro creatività e maestria hanno realizzato opere con un’esplosività di colori e profumi, inebriando le varie sale della Reggia.
L’allestimento della mostra ha richiesto quattro giorni e circa una trentina di fioristi, ma la Reggia ha acquisito nuova veste arricchendosi di meravigliosi progetti floreali, che hanno avvolto, decorato e impreziosito le sue magnifiche geometrie e sculture.
Grazie alla loro maestria, le installazioni artistiche e decorative assumono forme di straordinaria bellezza, con un’intensa profusione di profumi e colori, che con la loro presenza riescono a rallegrare gli animi e scaldare i cuori.
La passata edizione si svolgeva sia all’esterno che all’interno della Reggia di Venaria, ma data la grandezza dei giardini, queste opere rischiavano di perdersi un po’, pertanto per la II edizione è stato deciso di esporre le opere soltanto all’interno delle sette sale: La Cappella di Sant’Uberto,
Domenico Gervasi Photography Domenico Ianaro Photographyl’Anticamera dei Valletti a piedi, la Sala di Diana, le sale 17, 19, 31 ed il Rondò Alfieriano. Ma vediamone alcune…
Il Rondò Alfierano ha ospitato l’esplosiva installazione “Booommm!!!” a cura di Flauerpauer.
Quest’opera vuole raccontare il difficile momento che stiamo vivendo, cercando di creare nello spettatore il desiderio di vita attraverso i fiori e la loro bellezza. Così l’artista ci racconta come è stata ideata la sua creazione:
“Viviamo giorni che sembrano sospesi sull’orlo del precipizio. Crisi climatica, pandemie, guerre. La convergenza di tutti questi fattori critici può far pensare a un momento in cui esploderanno i precari equilibri a cui è giunta l’umanità nell’antropogene?
È l’approssimarsi a qualcosa di definibile come apocalisse? Vogliamo cogliere e mettere in scena questi tempi da un punto di vista positivo: l’esplosione di nuove possibilità; raccogliere le sfide che gravano sul futuro e trovare nuovi modi di convivere tra le persone e con la natura. Esploda il desiderio di mettersi sulla via dei fiori: attenzione, cura, bellezza!”.
Alcune opere esposte erano inedite, progettate e realizzate per Corollaria, mentre altre erano già state esposte in altre mostre o competizioni.
Tra le varie creazioni c’erano anche le opere che hanno partecipato alla “Coppa Italia” e quelle che hanno preso parte alla fase finale del Campionato Europeo in Polonia.
All’interno della Cappella di Sant’Uberto, abbiamo trovato diverse opere dell’artista Cecilia Serafino. Una tra tutte ha esaltato la bellezza del soffitto a volte, in quanto l’opera è stata installata al medesimo con una discesa luminosa di fiori.
Cecilia Serafino è un’artista torinese molto apprezzata. Su di lei hanno scritto in molti e le sue opere stupiscono ed emozionano.
Di lei e dei fiori, piace raccontare di un legame quasi “umano”:
“I fiori sono la mia materia prima; dopo tanti anni di conoscenza reciproca, abbiamo instaurato un rapporto di reciproco rispetto e fiducia. Loro mi danno molto lasciandosi trasformare per diventare di volta in volta romantici, gioiosi, sbarazzini, classici, inusuali, tradizionali, moderni, coloratissimi, verdissimi, impalpabili, sferici, alti-alti, ricadenti, sontuosi, semplici… e io regalo loro la gioia di chi li guarda. Con loro compongo ogni cosa.
La cosa che i miei fiori amano di più è quando con loro costruisco scenografie per esaltare un colpo d’occhio sul paesaggio o quando entro nell’architettura in modo da sollevare il dubbio se l’elemento sia parte integrante della struttura o semplice decorazione, quando con il loro aiuto realizzo un’invenzione scenica portando l’attenzione su un particolare suscitando emozioni”.
Le altre sale erano allestite con le opere degli artisti di Federfiori “Emozioni floreali tra arte e musica”, in cui i visitatori potevano immergersi e avvolgersi in un ensemble di emozioni, colori, Natura e musica.
Le opere hanno disegnato un percorso multisensoriale, dove vista e olfatto hanno potuto inebriarsi di tanta bellezza e profumo, creando nei visitatori emozioni indimenticabili.
Il connubio tra la maestosità della Reggia di Venaria e l’arte della composizione floreale hanno potuto rendere questa mostra uno spettacolo unico per il visitatore.
L’appuntamento sarà per il prossimo anno e stavolta ci aspetteremo la sfida nella sfida, quella di provare ad allestire “La Galleria Grande”, una galleria tanto immensa negli spazi quanto nella bellezza e magari anche la “Citroniera”.
Si ringrazia la Reggia di Venaria per l’ospitalità e tutti coloro che hanno partecipato alla creazione di Corollaria Flower Exhibition.
Maurizio Anfossi PhotographyA cura di Simone Bravo
Qual è stata la prima capitale d’Italia?
Beh, si tratta di una domanda piuttosto facile e che ci tocca da vicino, per cui rispondere Torino non sarebbe difficile per molti italiani.
Ma qual è stata invece l’antica capitale della Danimarca prima di Copenaghen?
Ovviamente chi non conosce la risposta la può immaginare dal titolo di questo articolo, si tratta proprio di Roskilde
Situata sull’isola di Sjælland, all’imbocco di uno dei rami del fiordo Isefjord, Roskilde è una vivace cittadina di circa 50.000 abitanti. Lungo la maggior parte dell’anno è un luogo tranquillo, che attira i turisti per la sua bellezza naturale, ma che viene invasa da una folla di persone tra la fine di giugno e l’inizio di luglio.
In questo periodo, infatti, ha luogo il Roskilde Festival, il più grande e partecipato festival di musica ed arte di tutto il Nord Europa, nonché uno dei più grandi di tutta Europa.
È anche uno dei più longevi: la prima edizione risale al 1971!
Hanno calcato il palco di questo festival personaggi chiave dello scenario musicale internazionale che vanno dai Nirvana a Bruce Springsteen, da Bob Marley agli U2, dai Metallica ai Radiohead, solo per citarne alcuni.
Si tratta di un festival all’insegna della sostenibilità e dell’attivismo, gestito da una organizzazione nonprofit, la Charity Roskilde Festival. Tuttavia, Roskilde non è importante solo per la musica e l’arte moderna, ma è una cittadina ricca di storia e dal passato importante.
Uno dei luoghi simbolo del paese è sicuramente la cattedrale.
Entrata a far parte della lista dei siti Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO nel 1995, riflette i cambiamenti verificatisi in 800 anni di storia e di architettura.
Costruita tra il XII e il XIII secolo fu la prima cattedrale gotica a venire edificata in mattoni e proprio la sua costruzione diede un forte incentivo alla diffusione nell’Europa Settentrionale di questo stile, detto gotico laterizio.
Eppure, la sua storia inizia ancora prima della costruzione.
Intorno all’anno 960 Roskilde diventa capitale dell’appena creato regno di Danimarca e il suo re Harald Gormsson (Aroldo I “Dente Azzurro”) fa erigere una piccola chiesa in legno dedicata alla Santa Trinità, luogo in cui verrà sepolto dopo la morte.
Con la crescita della città la chiesa diventa sede vescovile; un edificio in legno non è più adatto a questo scopo e viene perciò costruito un nuovo edificio in stile romanico con archi a tutto tondo, completato nel 1080. Il regno di Danimarca è in piena espansione e così la sua chiesa.
Dei monaci giungono a risiedere nella città e per loro e per i loro bisogni vengono aggiunti intorno alla chiesa un monastero in pietra e altri edifici di uso comune. E poi vengono portate anche delle reliquie: prima il cranio di Papa Lucio I e poi le spoglie di San Canuto Lavard.
Si entra così in un circolo virtuoso in cui sempre più fedeli vengono attratti verso la chiesa e grazie alle loro offerte e donazioni diventa possibile rendere la cattedrale sempre più maestosa e affascinante.
La chiesa ancora una volta diventa insufficiente ad accogliere la folla dei fedeli e a testimoniare la grandezza dei re vichinghi. Per questo motivo nel 1200 il vescovo Peder Sunesen decide di iniziare una grande espansione della cattedrale, prendendo a modello quella di Tournai, in Belgio, dove era stato abate.
Mancando, però, le pietre adatte alla costruzione, vengono utilizzati grossi mattoni rossi; in realtà vengono fabbricati parecchi mattoni rossi per l’edificio: è stato stimato che ne siano stati usati più di tre milioni per completare la chiesa. Nasce così, come dicevamo, lo stile gotico laterizio, che verrà ripreso in molti edifici religiosi e pubblici della Scandinavia e della Germania settentrionale. La nuova cattedrale è alta il doppio della precedente, grazie all’uso degli archi a sesto acuto gotici e viene realizzato un nuovo transetto, per dare la tipica forma a croce alla navata.
Vengono anche aggiunte due torri ai lati della facciata occidentale per rendere tutta la struttura ancora più monumentale e slanciata in alto verso il cielo e il divino. Le dimensioni della nuova chiesa diventano finalmente sufficienti ad accogliere tutti i fedeli, però le decorazioni non sono ancora all’altezza della situazione, anche perché, dalla fine del ‘400 in poi, i sovrani danesi iniziano a farsi seppellire all’interno della cattedrale.
Tra i sarcofagi più antichi troviamo quello del principe Cristoforo, duca di Lolland, e della regina Margherita I, una sovrana di notevole bellezza, ma antiche testimonianze raccontano che anche re Harald Gormsson vi sia sepolto.
Laura Rossini PhotographyRoskilde diventa una consuetudine della casa reale danese.
Per questo motivo nei secoli sono stati aggiunti abbellimenti con stili diversi che ripercorrono i differenti gusti artistici dei vari periodi. Le cappelle dedicate a Santa Brigitta, San Cristoforo e Sant’Andrea prima, quella dei Tre Re e Cristiano IV in seguito vennero erette all’interno della chiesa e poi ornate in epoche successive, anche sovrapponendo nuove decorazioni a quelle già presenti originariamente.
La cappella dei Tre Re, ad esempio, contiene anche una strana pietra, chiamata “Colonna del Re” sulla cui superficie sono incisi i nomi di molti membri della famiglia reale danese e di importanti personaggi e visitatori, come Edoardo VII d’Inghilterra, Pietro il Grande e re Chulalongkorn di Thailandia.
Tra tutte le bellezze e le curiosità presenti all’interno della chiesa, meritano ancora di essere ammirati sicuramente lo splendido altare, scolpito ad Anversa, e il pulpito in pietra arenaria, marmo e alabastro del 1610.
All’esterno della cattedrale spicca il famoso orologio di San Giorgio, aggiunto nel 1500: allo scoccare di ogni ora San Giorgio attacca il drago suo nemico, mentre ad ogni quarto d’ora e alla mezz’ora altri due personaggi suonano la campana.
Anche le due torri sono state modificate nel tempo: nel 1600 vennero aggiunte le guglie e le campane furono rinnovate nel corso dei secoli, l’ultima volta nel 1968 a seguito di un incendio.
A metà del ‘500, con il passaggio della Danimarca dal cattolicesimo al luteranesimo, le proprietà della cattedrale, guidata dall’ultimo vescovo cattolico, vengono confiscate dal re.
Inoltre, con lo spostamento del soprintendente luterano dello Sjælland a Copenaghen, il declino di Roskilde diventa rapido e i monasteri, le chiese e le canoniche vengono chiusi dalle famiglie nobili che ne confiscano tutti i beni.
Laura Rossini PhotographyLa cattedrale è quindi strettamente legata alla storia della città e del regno di Danimarca, ma un altro luogo rigorosamente legato alla storia della nazione è il museo delle navi vichinghe.
Situato nella parte finale del fiordo di Roskilde, a pochi passi dal centro cittadino, questo museo viene costruito nel 1969 proprio per custodire cinque navi vichinghe, ritrovate pochi anni prima.
La loro storia è molto lunga e travagliata ed è stato difficile ricostruirla con esattezza. Inizialmente, dopo il ritrovamento sul fondale vicino alla località di Skuldelev, zona che si trova una ventina di chilometri a nord di Roskilde, da cui ovviamente deriva il nome di “Navi di Skuldelev”, si pensava si trattasse di sei imbarcazioni.
Solo dopo attente ricostruzioni ed analisi e a seguito dei lavori di restauro è stato possibile identificare le loro tipologie e stabilire che in realtà i pezzi della sesta nave erano solamente parti mancanti di una delle altre.
Remo Turello PhotographyMa cosa si è scoperto riguardo alla loro storia?
A partire dalla creazione del regno vichingo di Danimarca, da parte di Aroldo I Dente Azzurro, la situazione di Roskilde non è stata facile: nonostante la felice posizione all’estremità interna di un lungo fiordo che la collega col mare del Nord, il pericolo di scorrerie ed invasioni era sempre all’ordine del giorno.
Più i danesi si espandevano e razziavano i paesi vicini più l’elenco dei loro nemici aumentava.
La situazione peggiorò col tempo e alla fine dell’XI secolo i vichinghi decisero di proteggere stabilmente la loro capitale con un curioso sistema.
Osservando attentamente tutto il percorso del fiordo individuarono il punto più stretto del canale che unisce la città al mare, il ramo Peberrenden, corrispondente proprio al punto di fronte al villaggio di Skuldelev.
Vennero scelte tre navi di grandi dimensioni, ormai consumate dall’utilizzo, che furono portate al largo e riempite di massi, in modo da farle affondare e ostruire il passaggio alle navi nemiche.
Il sistema venne poi ripetuto una ventina di anni più tardi, aggiungendo altre due navi alla ‘barricata’ e completando così l’apparato difensivo.
Si trattava sicuramente di un’opera efficace, in quanto i nemici, non potendo immaginare la presenza della barriera sott’acqua, rimanevano incagliati tra le acque del fiordo a poca distanza dalla costa e cadevano facilmente preda degli assalti dei difensori.
Allo stesso tempo, però, proprio questo sistema difensivo diventò uno dei motivi che portano i vichinghi a preferire Copenaghen come capitale, distante da Roskilde solo circa 35 chilometri.
Infatti, raggiungere Roskilde diventava più difficoltoso anche per gli stessi danesi che, per evitare la loro stessa fortificazione erano costretti a lunghe deviazioni attraverso i canali laterali.
Con il declino della città a favore della nuova capitale, il passaggio effettivo avviene nel 1443, si perdono nei secoli le tracce di queste navi, che vengono portate faticosamente alla luce solo nel 1962.
Per farlo è stato necessario un lungo lavoro archeologico durato alcuni mesi. Infatti, per prima cosa è stata creata una paratia in metallo tutto intorno alla zona in cui erano stati individuati i relitti. In seguito, isolata la zona, si proseguì drenando l’acqua, facendo attenzione a non procedere troppo velocemente: il repentino cambiamento delle condizioni di temperatura, umidità e pressione del legname, rimasto sott’acqua per secoli, poteva portare ad un rapido deterioramento del materiale stesso.
Completata questa operazione tutti i frammenti vennero recuperati e trasportati nella vicina Roskilde, dove vennero sottoposti a lunghi anni di analisi e restauri, al termine dei quali venne inaugurato il museo.
Remo Turello PhotographyQuesto lungo lavoro, però, non servì solamente a restituire alle cinque navi la loro forma originale, o almeno quello che ne rimane, ma anche di ottenere un numero notevole di informazioni riguardo alle tecniche di costruzione, ai materiali e agli strumenti utilizzati dai loro originari utilizzatori.
Proprio grazie a queste informazioni gli artigiani del museo sono riusciti a costruire alcune riproduzioni delle navi, usando le stesse metodologie impiegate mille anni prima dagli antenati vichinghi.
Il fatto che queste cinque navi siano di tipologie molto diverse, si passa da navi da guerra a pescherecci e a navi da carico, tutte di dimensioni differenti, ha permesso di ottenere una quantità enorme di informazioni e di poter ricostruire imbarcazioni molto simili a quelle che potevano essere le originarie navi.
Affini non solo nella costruzione, ma anche nell’utilizzo: con alcune di esse sono state ripercorse alcune delle rotte vichinghe e con una di queste gli studiosi del museo hanno navigato fino a Dublino.
Gli ampi spazi del museo, con le loro grandi vetrate che si aprono direttamente sul fiordo, permettono di immaginare come dovessero essere le navi nel loro ambiente naturale. Del resto, tutto il complesso aiuta la fantasia a vagare lontana.
All’interno della struttura si possono osservare video e pannelli illustrativi sulla storia dei vichinghi, sulla loro cultura e sul loro modo di vivere.
All’esterno, sull’acqua, le riproduzioni delle navi sono lì attraccate, ci si può salire e anche prendere parte a brevi escursioni guidate sul fiordo, immaginando un tuffo nel passato vichingo.
Infine, sono stati allestiti laboratori artigianali dedicati a grandi e piccini che permettono di conoscere come i vichinghi costruissero i loro attrezzi e le loro imbarcazioni, in modo da approcciare un’esperienza completa ed immersiva nella storia e nella vita di quel popolo.
Con questo racconto abbiamo presentato Roskilde, una cittadina dalla grande storia, una storia non scolpita e bloccata nel passato, ma ancora viva e sperimentabile nel presente.
Lo stretto legame con le sue origini non è immerso nei rimpianti dell’antica grandezza, bensì è proiettato verso la modernità.
Un ulteriore aspetto fondamentale che rende questo luogo assolutamente unico e da visitare è l’ambiente naturale in cui si trova, l’Isefjord.
La sua conformazione ha probabilmente reso possibile la costruzione di Roskilde in una posizione poco adatta alla navigazione, ma allo stesso tempo protetto e non direttamente affacciato sul mare tanto da esser scelta come capitale del regno di Aroldo I “Dente Azzurro”.
L’Isefjord è una stretta insenatura che si estende per una lunghezza di circa 40 chilometri arricchita da una trentina di isole e isolotti che formano canali e passaggi più o meno larghi.
L’ambiente incontaminato che lo circonda è da sempre l’habitat naturale di numerose specie di animali e di una ricca vegetazione.
Pescatori e cacciatori abitavano questa zona già seimila anni fa, durante l’età della pietra; da quell’epoca sono giunti fino a noi cumuli di ossa di animali e conchiglie, oltre che utensili, come punte di frecce e coltelli di pietra.
Si tratta di prove concrete che dimostrano come molto prima dell’arrivo dei vichinghi questa zona fosse già stata scelta per la sua posizione strategica e per le risorse che il territorio metteva a disposizione.
E come si può visitare questa meraviglia della natura?
Partendo proprio dal museo delle “Navi di Skuldelev” è possibile percorrere a piedi, in bici o a cavallo lunghi tratti della costa del fiordo su percorsi, sentieri e piste ciclabili che si articolano per più di 270 chilometri.
Si alternano aree di natura incontaminata, zone sul ciglio del mare e altre più all’interno. Appena nascosta da un’insenatura si apre un porticciolo e fanno capolino alcune case di pescatori che partono o tornano dalle loro fatiche.
Scorci pittoreschi si susseguono, accompagnando i visitatori e gli sportivi del luogo o semplicemente chi vuole perdersi nella natura per ammirare un tramonto da sogno in cui i colori del cielo e dell’acqua si fondono a creare un tutt’uno d’incanto.
Harald o Haraldr o Aroldo, a seconda delle lingue, fu il primo re ad unificare il regno di Danimarca sia dal punto di vista politico che da quello religioso.
Sua madre Thyre, da cui ricevette la formazione, era devota alla fede cristiana, mentre il padre Gorm il Vecchio aveva saccheggiato e distrutto numerose chiese cristiane durante il suo regno.
Anche da questa contraddizione interna alla sua famiglia capì che per creare una base comune, su cui fondare l’unità politica del regno, doveva unire prima le fedi religiose.
Si dedicò quindi a ricostruire le chiese distrutte dal padre e avviò un processo di conversione che durò circa trent’anni e che portò, tra le altre cose, ad edificare intorno al 960 la chiesa di Roskilde, che diventerà poi la cattedrale di cui abbiamo parlato.
Durante il suo regno intraprese numerose campagne militari contro i vari regni germanici e riuscì a riunire tutti i territori dello Jutland sotto il suo comando. Non soddisfatto, e spronato dalla sorella Gunnhild di Norvegia, conquistò parte della Norvegia e poi si diresse verso la Gran Bretagna, occupando i territori dell’Anglia orientale e della Northumbria.
Morì nel 987 e venne sepolto sotto la chiesa che aveva fatto costruire nella sua nuova capitale, Roskilde.
Durante il suo regno fece incidere su una grande pietra runica un testo in memoria dei suoi genitori; questo scritto è giunto intatto fino a noi ed è uno dei più antichi in cui viene citata la Danimarca come regno.
Le parole usate sono all’incirca queste: “Harald il re fece costruire questi monumenti per Gorm suo padre e Thyre sua madre, Harald che vinse tutta la Danimarca e la Norvegia e convertì i Danesi al Cristianesimo.”
Si tratta di un personaggio centrale nella storia della Danimarca e del cristianesimo, ma che ha un significato particolare anche ai giorni nostri. Il suo soprannome Blatand, Dente Azzurro, all’inglese Bluetooth, forse ci ricorda qualcosa…e non è un caso!
Il bluetooth che usiamo oggi per collegare ad esempio casse o auricolari ai nostri cellulari o più in generale per il passaggio di dati tra telefoni, computer e tablet è stato introdotto dall’azienda svedese Ericsson ed è stato chiamato così proprio in onore di Harald Gormsson Blatand
Probabilmente gli inventori di questa tecnologia hanno voluto richiamare le grandi abilità diplomatiche del re che è riuscito ad unire popoli diversi e a condividere tra i suoi sudditi la religione cristiana augurandosi allo stesso modo di riuscire a mettere in comunicazione strumenti e dispositivi diversi, condividendo tra tutti il passaggio dei dati.
Anche il logo del Bluetooth, quella specie di B stilizzata con due trattini sulla sinistra è un rimando diretto a questo sovrano.
Il simbolo è stato creato dall’unione di due rune nordiche:
(hagall) (berkanan)
che corrispondono alle nostre H e B, proprio le iniziali di Harald Blatand.
Forse senza saperlo, ogni volta che andiamo sulle impostazioni del nostro telefono stiamo guardando un simbolo vecchio almeno di mille anni, che ci rimanda al mitico sovrano dei vichinghi e alla sua capitale, Roskilde.
A
cura di Giacomo Bertini
fenomeno fumetto
Tutti conoscono l’evento che si tiene a Lucca ogni anno generalmente tra la fine di ottobre e i primi di novembre chiamato «Lucca Comics & Games», ma in pochi ne conoscono la sua storia e i suoi retroscena.
Difficile pensare che tornando alle origini non solo è necessario cambiare città, ma addirittura regione. Ci spostiamo a Bordighera sulla riviera ligure, dove il 21 e 22 febbraio del 1965 fu organizzato il 1° Salone Internazionale dei Comics, una manifestazione nella quale esordiva il tema dei fumetti e che ebbe un importante successo.
Spinto dai vertici dell’Ente per il Turismo, che avevano presenziato al salone di Bordighera, l’allora Sindaco, dott. Giovanni Martinelli, decise di trasferire l’evento a Lucca, inaugurando il 24 e 25 settembre 1966, il 2° Salone Internazionale dei Comics, con addirittura la presenza dell’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, utilizzando il teatro del Giglio per le tavole rotonde e i sotterranei del baluardo San Girolamo delle Mura urbane per le mostre espositive.
Nelle prime edizioni gli organizzatori, il direttore Romano Calisi e il suo vice Rinaldo Traini, si concentrarono principalmente sulla ricerca storiografica e sull’analisi del fenomeno comics, valorizzando quegli autori che rappresentassero al meglio il costume, il linguaggio e i cambiamenti nella società contemporanea.
Dopo qualche aggiustamento di date e luoghi, dal 1969, la manifestazione assunse la sua collocazione temporale pressoché definitiva: fine ottobre-primi di novembre, inglobando sempre il ponte di Ognissanti.
Considerato l’anno non poté mancare l’argomento dedicato allo sbarco dell’uomo sulla luna, dando ampio spazio alle precognizioni di illustratori e cartoonist, e sempre in questa edizione, il famoso illustratore americano David Pascal, realizzò il manifesto ufficiale dell’evento riscuotendo grande entusiasmo dal pubblico e dagli organizzatori, tanto da esserne incaricato fino agli anni Novanta.
Nel corso delle manifestazioni successive, altri personaggi, autori, editori italiani o stranieri trovarono uno spazio all’interno dell’evento, come il fumettista statunitense Richard Felton Outcault con la creazione del bambino vestito di giallo «Yellow Kid», che dal 1970 divenne il simbolo e la mascotte del Salone, e, trasformato in una statuetta, il premio riservato alle varie categorie del settore.
Sicuramente è necessario sottolineare che questa manifestazione è caratterizzata dai molti cambiamenti nel tempo, che probabilmente ne hanno rafforzato il valore.
Nel 1972 divenne «8° Salone dei Comics e del Cinema di Animazione» e si svolse dal 29 ottobre al 4 novembre, variandone la durata, inoltre furono introdotti i cartoni animati, mentre al Teatro comunale del Giglio venne allestita una sala cinematografica.
Nella attigua piazza Napoleone venne allestito un grosso pallone pressostatico per ospitare stand di espositori, collezionisti e organizzatori culturali.
Grazie all’enorme successo ottenuto in pochi anni, il Salone cambiò faccia e attirò l’attenzione anche della stampa estera e di conseguenza degli editori e autori di tutto il mondo.
Una caratteristica che spinse la successiva edizione del 1973, a prolungare il periodo espositivo a sette giorni, suscitando per questo alcune lamentele tra gli espositori, costretti a soggiornare a Lucca per un tempo maggiore, gravando sulle spese aziendali.
Sempre durante questa edizione la Walt Disney festeggiò i primi cinquant’anni di Topolino e l’ASIFA (Associazione Internazionale del Cinema di Animazione) scelse Lucca per realizzare la riunione annuale del suo direttivo, conferendo così ulteriore lustro alla manifestazione lucchese.
Negli anni successivi la fama e i numeri acquistavano sempre maggiore importanza, permettendo all’organizzazione di raggiungere le grandi istituzioni internazionali, come l’UNESCO e
Questo effetto di crescita mise allo scoperto il rovescio della medaglia, facendo riflettere gli organizzatori e l’Amministrazione comunale sul problema che si stava creando: il successo lievitava di pari passo alle spese per l’ospitalità.
A quel tempo le strutture ricettive erano molto poche e quasi tutte, per le tempistiche di pagamento, preferivano offrire ospitalità ai comuni visitatori, piuttosto che agli ospiti della manifestazione. Questo costrinse gli organizzatori e il Comune a prendere la decisione di trasformare l’evento in un appuntamento biennale, rimandando la 13° edizione al consueto periodo di fine ottobre, inizi di novembre del 1978.
A quei tempi il cinema di animazione e dell’illustrazione prese sempre più spazio negli interessi degli amatori, costringendo la manifestazione a occupare, oltre al Teatro del Giglio, il cinema Astra e il Centrale, presentando una prestigiosa selezione di cortometraggi proposti anche ai festival di Annecy, Zagabria, Varna e Ottawa, mentre altri del tutto inediti.
L’ennesimo cambiamento avvenne nel 1982, quando a causa di una norma emanata dal Governo, gli organizzatori furono costretti a utilizzare padiglioni che richiedevano tempi più lunghi per la messa in opera.
Questo fatto provocò ai commercianti del centro un enorme disagio economico, e suscitò le loro proteste che raggiunsero gli uffici del Sindaco, costringendolo ad effettuare un trasferimento dell’evento il Palasport situato fuori dalle Mura urbane.
I continui cambiamenti della manifestazione non si fermarono in nessuna delle edizioni successive, come
l’introduzione del biglietto a pagamento nel 1982; la costituzione dell’Ente Autonomo Max Massimino Garnier alla guida del salone nel 1989; un doppio appuntamento annuale dell’evento nel 1991; l’introduzione dei Games nel 1993; la messa in liquidazione dell’Ente Garnier nel 2000, su decisione dell’allora Sindaco Pietro Fazzi, a causa di una serie di sfortunati eventi che provocarono notevoli disagi economici, che suggerirono di riportare la manifestazione sotto il diretto controllo del Comune di Lucca, con la cancellazione del secondo appuntamento tenuto a marzo e, sempre nel 2000, l’assegnazione di un nuovo nome all’evento che da allora è noto come «Lucca Comics & Games»; nel 2004 il trasferimento dal Palasport all’area adiacente con tensostrutture appositamente installate nei paraggi; il debutto nel 2005 di un’edizione coordinata e organizzata da una società partecipata le cui quote erano detenute interamente dal Comune, con il nome di «Comics & Games srl»; il ritorno nel centro storico di Lucca nel 2006.
Con quest’ultimo evento, cioè il ritorno nel centro storico, la manifestazione cambiò faccia e assunse una cornice nuova valorizzata dalle eleganti architetture degli edifici storici che caratterizzano il centro cittadino.
Da quel momento in poi i visitatori furono in costante aumento, rendendo negli anni necessario una ricerca costante di nuovi spazzi espositivi e strutture sempre più grandi, spingendosi anche in alcune aree fuori dalle Mura urbane, come il Campo Balilla di viale Carducci e il Polo Fiere di Sorbano, distante pochi km dal centro.
Edizione dopo edizione, con la partecipazione ogni anno di grandi ospiti nel 2014 furono venduti 255.646 biglietti e si registrarono 490.000 presenze in città in soli 4 giorni. Questo fatto, oltre a fare della manifestazione il più grande esperimento cross-mediale del continente, attirò necessariamente l’attenzione degli organizzatori e degli addetti alla sicurezza pubblica sull’esigenza di progettare le successive date con modalità diverse dal solito, aggiungendo un tetto massimo sul numero dei biglietti giornalieri venduti, che venne fissato a 80.000 e a rivedere le procedure di controllo dei flussi di folla.
Il Comune di Lucca nel 2015 fu autore di un ulteriore cambiamento negli assetti societari di Lucca Comics & Games.
A causa di una scarsa potenzialità economica del Polo Fiere, gestito dalla partecipata Lucca Fiere e Congressi, venne deciso di accorpare le due società creando «Lucca Crea», sfruttando così al meglio le potenzialità del Polo Fiere.
Il successivo 28 ottobre 2016 la nuova società Lucca Crea diede il via all’edizione del cinquantenario, che, ritornata a cinque giorni, riuscì a superare ogni record mai realizzato nella storia della manifestazione, raggiungendo la cifra di 271.208 biglietti venduti.
Il successo rimase stabile nelle successive edizioni, con l’espansione nel centro storico della superfice occupata dagli stand e l’allestimento di un numero sempre maggiore di punti destinati a ospitare eventi e concerti, permettendo ai visitatori di ammirare anche gli angoli più nascosti della città, arricchite dai colori e dalle fantasie dei costumi dei cosplayer e delle maschere. Solo la pandemia diede un fermo all’evento nell’edizione del 2020, e costrinse gli organizzatori a realizzare in forma ridotta anche quella del 2021.
Chiamata dagli organizzatori «il festival della ripartenza», quest’ultima edizione del 2022 ha superato ogni aspettativa con 319.926 biglietti venduti e circa 800mila presenze in città.
Definita dalla stampa «l’edizione dei record», ha visto partecipare molti ospiti di rilevanza internazionale, tra cui il grande regista Tim Burton con la presentazione in anteprima europea della sua nuova serie TV «Mercoledì», che ha attirato nello stand in piazza San Michele 8 mila suoi fan, tra cui molti cosplayer di Mercoledì Addams, che lo hanno visto affacciarsi dal terrazzo di un edificio storico porgere loro i dovuti ringraziamenti.
Il successo è stato così grande da oltrepassare i confini della terra, raggiungendo anche lo spazio.
Infatti, per la prima volta nella storia di questa manifestazione c’è stato un collegamento con l’astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), Luca Parmitano, direttamente dal Centro di controllo di Houston.
LUCCA CREA Giacomo Bertini PhotographyIl successo è stato così grande da oltrepassare i confini della terra, raggiungendo anche lo spazio. Infatti, per la prima volta nella storia di questa manifestazione c’è stato un collegamento con l’astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), Luca Parmitano, direttamente dal Centro di controllo di Houston.
Una cosa è certa, partecipare a questa manifestazione offre una grande emozione, ti senti trasportato dalla folla e contagiato dalla passione che molti mettono nella realizzazione di maschere e costumi, ma soprattutto non si percepisce il peso e lo sforzo che gli organizzatori, il Comune e tutti gli Enti, sin dall’inizio dell’anno, devono fare per renderla sicura, piacevole e divertente.
Merito anche di questo pubblico che, in modo straordinariamente rispettoso ed educato, si concentra nelle piazze in lunghissime code per accedere ai padiglioni, nonostante la stanchezza e l’ingombro di accessori o gli articoli acquistati.
Il direttore di Lucca Comics & Games Emanuele Vietina afferma:
“è stata un’edizione davvero speciale, unica, la visione che si è avverata non solo per le grandi anteprime, o per la presenza di tantissimi autori e artisti italiani e stranieri, o per le numerose novità editoriali, o ancora per la ricchissima offerta culturale, ma soprattutto per l’atmosfera magica che abbiamo respirato, per i volti degli amici ritrovati e di quelli appena conosciuti nelle piazze lucchesi.
Il festival è stato lo specchio di un mondo fantastico, che però esiste davvero, è contemporaneo, ed è abitato dalle migliori community di fan che qualsiasi festival potrebbe sperare di avere".
Appuntamento a Lucca dal giorno 1 al 5 novembre 2023.