WEL COME
Benvenuti nel mondo di Giroinfoto magazine©
Novembre 2015,
da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta.
È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage.
Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti
Oggi
Ed ecco entrati nel sesto anno di redazione di Giroinfoto Magazine. Le difficoltà degli ultimi due anni relative alla pessima gestione sociopolitica sono cresciute, intralciando il libero sfogo editoriale limitando le prerogative della rivista nello sviluppo culturale e turistico in aiuto dei territori.
Nonostante tutto, e grazie all'impegno di tutti i nostri collaboratori, il progetto Giroinfoto.com non si arresta, anzi, combatte con tutte le proprie forze per pubblicare articoli utili alla valorizzazione dei territori bisognosi di visibilità.
In questo periodo storico, dove tutto è ormai convertito al mondo digitale, risulta talvolta anacronistico volersi concentrare su un progetto cartaceo, sia per motivi di convenienza economica che di divulgazione. Da qui la decisione di mantenere il magazine con un format "tradizionale" per il mantenimento della qualità comunicativa, evolvendolo alla digitalizzazione favorendo la fruizione.
In ultimo, vorrei ringraziare anche tutti i nostri lettori che crescono continuamente sostenendo il progetto Giroinfoto.
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Giacomo Bertini
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La forza dell’acqua per lavorare il ferro
L'ULTIMO
Nella frazione di Pescaglia artigianale le cui origini risalgono a ben prima del 1700. Conosciuto come «Ferriera Galgani», o popolarmente chiamato “distendino”, da distendere il ferro, questo laboratorio artigianale è ben lontano dall’immaginario collettivo che oggi potremmo avere pensando a queste attività.
L'ULTIMO
della fucina che fuoriesce dalle finestre più ed è attraversato da un torrente artificiale annesso alla struttura.
Proprio grazie alla presenza dell’acqua corrente questa ferriera gode di una particolarità che la rende unica nel suo genere.
Nonostante i secoli trascorsi dalla sua costruzione, il laboratorio si inserisce in un contesto di sostenibilità ambientale secondo i parametri oggi tanto auspicati dalla cultura ambientalista.
Giacomo Bertini PhotographyL'ULTIMO
Qui tutto funziona grazie alla forza dell’acqua che viene raccolta in una grande vasca situata sul retro dell’edificio e collegata a un complesso sistema idraulico che aziona una turbina collegata ad un generatore che produce l’energia elettrica necessaria per il funzionamento di alcuni attrezzi da lavoro, come la saldatrice elettrica.
Sempre grazie alla forza dell’acqua e per mezzo di valvole manuali per il dirottamento dei flussi in tubazioni diverse, vengono azionati macchinari come il pesantissimo maglio, le mole di varie misure e funzioni, il trapano a colonna e la forgia. In sostanza non ci sono né motori inquinanti, né utenze da pagare.
Questo edificio oggi sarebbe definito come una struttura sostenibile, uno spazio autosufficiente dal punto di vista energetico e se non per qualche segno evidente del tempo trascorso, si potrebbe affermare che la ferriera di Carlo Galgani è un luogo sospeso al di fuori del tempo.
Arrivato in questo luogo fantastico, ad accogliermi tra un colpo di martello e il rumore dell’acqua, in un ambiente scuro, dalla luce fioca, con pareti annerite dal tempo e dalla fuliggine della forgiatrice a carbone, c’è Carlo, un signore con indosso l’abito da lavoro portato con grande fierezza ed eleganza e i segni della fatica di molti anni di lavoro.
A chi gli chiede da quanto tempo lavora come fabbro, Carlo dà sempre la stessa risposta che ha ereditato dal padre: «Ho visto passare tanti carnevali», come per dire: nonostante la mia età sia oltre gli ottant’anni, sono ancora col martello in mano a battere sull’incudine, a domare il fuoco e il ferro.
A proposito dell’incudine, lui ne ha due ben visibili e ancora ben utilizzate.
La prima, quella che lui definisce «nuova», con un concetto che oggi sarebbe di difficile comprensione, risale infatti al 1910 e a comprarla fu suo nonno; l’altra, quella «vecchia», - ricorda Carlo - apparteneva alla sua famiglia già dal 1700, ma sicuramente risale ancora più addietro nel tempo, perché sa che è stata ereditata dalla sua famiglia.
Anche l’imponente maglio che domina la stanza principale ha una storia tutta da raccontare.
Costruito dal padre nel 1928 con una struttura in legno ben ancorata al terreno con oltre un metro di scavo, dopo 43 anni, e precisamente ad ottobre del 1971, Carlo decise di ristrutturarlo ingabbiando in una struttura di acciaio ben ancorata ad una base di cemento, che gli permette di raggiungere circa 200 battiti al minuto.
Da quel giorno ha subito solo un intervento straordinario per la rottura dell’albero principale, che prontamente Carlo ha riparato rimettendo in funzione lo strumento.
La storia della ferriera ha quindi origini ben lontane nel tempo: pare che già nel Rinascimento la sua famiglia fosse dedita al mestiere di fabbro e che operasse nella frazione di Piegaio, fino a quando, nel 1794, data riportata su alcuni documenti presenti nella chiesa di San Martino poco distante, si trasferì nel vecchio mulino ad acqua dismesso di Piè Lucese, oggi sede della ferriera.
Carlo ha cominciato a frequentare la ferriera nel dopoguerra, quando aveva a malapena otto anni. Inizialmente non andava tutti i giorni e come poteva utilizzava la bicicletta prestata dal padre per svolgere le commissioni necessarie alla famiglia.
Col tempo anche lui, come suo padre e suo nonno prima di lui, ha iniziato a percorrere a piedi tutti i giorni quella distanza di circa quattro chilometri che separa la casa dal lavoro.
A volte da solo, altre volte in compagnia del ciuco, che utilizzava per trasportare il ferro risparmiandosi un po’ di fatica.
L'ULTIMO
Dall’età di 25 anni ha vissuto in ferriera giorno dopo giorno, dall’alba al tramonto, sia in estate che in inverno e come se non bastasse, da sempre al suo rientro a casa costruisce macchinari e attrezzi in quello che lui definisce «ufficio accanto a casa».
Oltre a essere un artista del ferro, Carlo è anche costruttore di macchine di vario genere. Tra le varie macchine ideate, progettate e costruite con materiale quasi sempre riciclato, ce n’è una che ora giace addormentata fuori della sua porta, coperta malamente ed esposta alle intemperie.
Un macchinario realizzato per tagliare i binari della ferrovia, che, nonostante la ruggine e il più che ventennale inutilizzo, funziona ancora. Un complesso incastro di ruote e ingranaggi permette di passare da 1400 a 2 giri e mezzo al minuto. Una riduzione meccanica perfetta.
Un tempo i clienti di Carlo erano i contadini con i loro attrezzi da aggiustare o affilare, ma il lavoro nei campi, laddove resiste, è profondamente cambiato. Tecnologia e meccanica hanno ridotto l’utilizzo degli strumenti “antichi” come zappe, vanghe e picconi. Per questo da un po’ di tempo a questa parte realizza anche coltelli, mezzelune, pennati e perfino spade per le rievocazioni storiche, come quelle esposte all’interno della Fortezza delle Verrucole di San Romano in Garfagnana.
Permanendo in bottega un pomeriggio intero ci si rende conto quanto la sua fama sia diffusa, vengono a trovarlo scolaresche di ogni età o amanti della lama e del ferro da ogni parte d’Italia o d’Europa. Mentre realizzavo il mio servizio è giunta una coppia di tedeschi, che approfittando del periodo di vacanza nella vicina città di Lucca e sentito parlare della ferriera, sono venuti ad acquistare il suo famoso coltello artigianale chiamato “dei Vichinghi”.
Come molte delle sue opere, che sono nate da un suggerimento o da uno spunto, anche il coltello dei Vichinghi nacque da un disegno portato da un Tedesco, trasferito nel paese di Ghivizzano per amore. Questo coltello, afferma Carlo, è uno dei suoi prodotti più ricercati e che addirittura non fa in tempo a preparare che è subito prenotato.
Durante la mia permanenza ho appreso anche un’altra cosa molto importante che fa riflettere. A causa della siccità di questo periodo, la vasca di raccolta dell’acqua che, come dicevamo viene alimentata da un torrente artificiale, impiega più tempo a riempirsi: quindi spesso Carlo si trova costretto a decidere di sacrificare l’illuminazione artificiale lavorando alcune decine di minuti solo con la luce naturale che entra dalle finestre, per permettere il funzionamento del pesantissimo maglio.
Da qualche anno alla bottega bazzica il nipote Nicola, un giovane di poco più di vent’anni che nelle ore libere, trascorre il suo tempo al fianco del nonno per carpire i segreti del mestiere e i tanti amanti della Ferriera Galgani si augurano che sia lui l’erede della bottega storica e ne continui l’attività.
Carlo Galgani, l’ultimo fabbro a distendere il ferro con la forza dell’acqua.
L'ULTIMO
Giacomo Bertini Photography Giacomo Bertini PhotographyL'ULTIMO
Le magnifiche sculture di Sean Guerrero INGEGNO
Opera dell'ingegno, prodotto della creatività, protetto dal diritto d'autore ed esente da alcune imposte.
(dal dizionario Hoepli 2018).
La parola “ingegno” nel titolo è pertanto sinonimo di “congegno”, “marchingegno” e “arnese” e come tale va qui interpretata. Perché le sculture che si trovano nel laboratorio e adiacente salone espositivo di Sean Guerrero, ma anche in giro per il Colorado e gli Stati Uniti, in locations private e pubbliche, vanno oltre la nostra immaginazione e ci portano a quel confine con l'immaginario che fa parte anche del nostro vissuto.
Ho incontrato Sean nel giugno di quest’anno a Paonia, una tranquilla cittadina in Colorado. Ovvero sono passata un giorno di fronte alla sua galleria e ho visto la fusoliera di un aereo. Sono una location scout e ho fotografato l’aereo, per la semplice ragione che era lì e ci faceva una bella figura; la sera stessa la porta della galleria era aperta e dentro ci ho trovato, tra le altre cose, la macchina del tempo.
Ho capito di essere entrata in un posto magico, pieno di novità, ingegno, ma anche riferimenti al nostro passato e a quel bagaglio di informazioni, racconti e immaginazione, che ci portiamo dietro.
Adriana Oberto PhotographyHorse Cow 57
Warehouse
All’angolo tra la terza strada e la Grand Avenue è difficile non notare un edificio basso, adibito in origine a magazzino, dalle proprietà particolari: è, come viene definito sul sito web dell’artista, il “luogo sacro interiore dell’arte”.
Ci dà il benvenuto, di fronte all’entrata sulla terza strada, la fusoliera di un aereo della Seconda guerra mondiale; poco più a destra, girato l’angolo, ci sono un vecchio bus, una scultura che potrebbe assomigliare a una piccola navicella spaziale, e il murale di un robot col corpo da slot machine e vicino la scritta: “leggi il futuro nella polvere”.
L’interno dell’edificio è suddiviso in due aree principali: espositiva e di lavoro.
Adriana Oberto PhotographyIl laboratorio di Sean, sul retro, è spazioso e luminoso. Almeno tre ampi piani di lavoro si alternano alle macchine utensili che utilizza per la sua arte.
Mi offre l’immancabile biscotto americano con gocce di cioccolato mentre scatto qualche foto in giro.
Gli elementi del suo lavoro sono gli scarti, le cose rotte, i rottami di un incidente o di un oggetto abbandonato.
Molti sono cartelli stradali in parte arrugginiti o bucati da proiettili, ruote di bicicletta – ce n’è anche una integra –carrelli, pese, marmitte, basi di legno.
Molte sono le sculture appena abbozzate; di altre si indovina la forma, come per quella dalla testa a becco, che a me fa venire in mente la maschera di Leach ne Il Fantasma del Palcoscenico.
Non mancano vecchi mobili, specchi, appendiabiti.
Sul fronte dell’edificio un ampio spazio mette in mostra le opere finite e in vendita, nonché quelle che in vendita non sono (come la macchina del tempo), ma che fanno parte dello spirito stesso dell’artista.
Molte sono luminose; alcune “parlano” al pubblico attraverso piccole scene create al loro interno. Altre rappresentano il desiderio di migliorare ciò che ci sta attorno (come il distributore di bibite con un viso sorridente). E non manca la scritta “arte” a lettere cubitali sopra quelle che sembrano le porte di un garage.
C’è anche l’immagine di Salvador Dalì, da cui Sean trae ispirazione per alcuni dei suoi lavori.
Gran parte delle sculture di Sean – quelle che appartengono a collezioni private o fanno mostra di sé negli spazi aperti del Colorado – sono di acciaio cromato, ma non è questo l’unico “look” delle sue creazioni: spesso, infatti, la ruggine, il colore originale di un pezzo, o il nome del brand o della marca dell’oggetto da cui proviene sono ben visibili, così come lo sono il legno – per esempio quello che il mare riporta sulla spiaggia.
Numerosi sono gli animali: cavalli, orsi, tori, aquile, cervi, alci, ma anche un drago (che, insieme all’immancabile cavaliere, aveva creato nel 1994 per l’amministratore delegato della Columbia Films), due giraffe, pesci (tra cui lo scheletro di un’immensa tilapia fatta di legname marcio trovato in spiaggia e scarti arrugginiti di un tetto di caravan degli anni ‘50).
E poi c’è l’orfanotrofio dei robot, che aspettano di essere adottati; le sedute fatte di legno e lamiera, o il retro di una macchina (o semplicemente il suo paraurti), o ancora con gli scheletri di sedili di aereo.
Molte sculture sono antropomorfe, con facce, occhi, bocche.
Ci sono poi quelle sculture a cui è difficile attribuire una categoria, e che vengono da Sean stesso considerate eclettiche oppure collages surrealisti.
È anche possibile acquistare stampe fine art delle foto di alcune delle sue opere.
Adriana Oberto PhotographySean Guerrero
Sean è uno scultore. Nipote di artisti (il nonno materno era secondo clarinetto nell’orchestra filarmonica di Philadelphia) ha in sé il sangue “caldo” degli italiani e quello “ancora più folle” (le parole sono sue) degli antenati catalani (la Catalogna è stata la patria di Salvator Dalì – ulteriore controprova, sempre per voce di Sean, del suo sangue “folle”).
Nato a Philadelphia, si trasferisce all’età di quattro anni a Denver per ragioni di salute (gli era stata diagnosticata la tubercolosi). Cresce perciò negli spazi sconfinati del West americano, con un padre che si occupa di logistica nel comando aereo strategico dell'Aeronautica ed in seguito lo porta con sé a recuperare i resti di velivoli e veicoli incidentati.
Ha sempre amato i rottami e la nuova vita che può scaturire da essi.
Di indole “turbolenta” (si definisce un “bambino combina guai” e non nasconde alcuni episodi di vandalismo quando era adolescente), ha sempre fatto volare la sua immaginazione per creare cose che avessero l’abilità di stupire e al tempo stesso raccontare una storia.
Mi accoglie nel suo atelier, dove sono stati posizionati strategicamente alcuni divani, in modo da poter parlare col pubblico che lo viene a trovare. Gli piace parlare di sé e trovare un senso – attraverso il suo passato – per le cose che fa.
Adriana Oberto Photography“Da parte di madre eravamo italiani. Il nome della nonna era Mafalda Serpentini; il nonno era Jules Serpentini e suonava il clarinetto nell’Orchestra Filarmonica di Philadelphia; il cognome da nubile della nonna era Scarpa.
Era una persona mondana; la gente veniva a trovarci perché mio nonno era conosciuto; il nonno era un tipo calmo, ma la nonna no: era chiassosa, esuberante; se ne combinavo una (ed io sono sempre stato un bambino particolarmente vivace), me le dava col mattarello. Io ero incuriosito dal suo cognome e le chiedevo cosa significasse, ma lei mi diceva sempre che dovevo scoprirlo da solo.
Così un giorno andai a cercarlo sul vocabolario e, uno volta scopertone il significato, ne rimasi per sempre segnato: io ero una scarpa, o forse il tipo che era stato colpito in testa da una scarpa!
Questi erano i miei geni e io lo presi come un destino avverso. Un giorno però creai una scultura: era una sorta di aeroplano, ma del tipo di quello disegnato da Leonardo da Vinci, e una volta terminato sembrava più ad un pesce.
La scultura aveva bisogno di un basamento e decisi di fargliene uno di cemento; quando fu quasi pronto, presi un paio di scarpe da tennis che avevo e le misi nel cemento fresco, in modo che vi rimanessero bloccate.
Non si trattava di un gesto qualsiasi o di uno capriccio da artista: stavo a livello inconscio facendo quello che la mafia faceva con i suoi nemici per farli scomparire per sempre; stavo prendendo la maledizione del cognome di mia madre e me ne stavo liberando in un modo platealmente italiano”. La nonna paterna era della Catalogna – la patria di Dalì, per cui era ancora più fuori di testa della mia parte italiana”.
“Certo mi servono soldi per vivere. Però se sono qua (a Paonia N.d.R.), e ci sono ormai da quasi sette anni, è perché c’è spazio per stare da soli a pensare; puoi uscire, andare all’aperto senza vedere anima viva per chilometri e immergerti nella natura.
E non c’è gente snob come su ad Aspen, tra la quale, sì, è bello fare come una mosca di tanto in tanto e dare fastidio, ma che ti guarda dall’alto in basso e si chiede chi tu sia e che cosa ci faccia in mezzo a gente di alto rango come loro.
Prima di trasferirmi ho vissuto in Montana per un po’ perché mi prendevo cura di mio padre che era malato. Il Montana fa parte del West americano, con i suoi modi di fare e i suoi valori piuttosto conservativi.
Ed è per questo che i film western sono così popolari in America: perché c’è ancora questo mito delle locations di Sergio Leone; del modo in cui lui immaginava questi ampi spazi aperti, tutta questa maestosità, e la coniugava con la colonna sonora; era semplicemente fantastico.
Quando queste situazioni vengono romanzate ritornano e rimangono con te. E così c’è quella che io chiamo la borghesia di Los Angeles, formata da chi si trasferisce e cerca di essere un moderno Lee Van Cleef o Charles Bronson; puoi trovare tutti i personaggi dei vecchi western che cercano di recitare la loro parte nel loro piccolo teatro e poi rimangono bloccati nella sabbia con il loro cavallo moderno (la macchina) e non sanno come uscirne.
Ma è per questo che amo il West: i paesaggi sconfinati, i vecchi edifici in rovina, l'illusione, il chiedersi che tipo di storia sia successa in un posto; i tramonti. Quando sei bambino e cresci con queste cose, ti entrano dentro e rimangono con te, e adesso che sono più vecchio mi rendo conto di essere fortunato di avere queste cose nella mia vita.”
"Quando ero a Los Angeles chiedevo a chi lavorava nell'ambiente del cinema cosa fosse ciò che li rendeva ciò che erano – che cosa li facesse diventare persone speciali.
E un giorno ho incontrato Kirk Douglas e gliel’ho chiesto. La sua risposta è stata che, quando ti approcci a qualcosa, devi sempre usare gli occhi di un fanciullo, anche se mitigati (o in questo caso migliorati) dalla conoscenza ed esperienza della maturità.
Ed è ciò che faccio con gli oggetti che creo.
Sono sempre stato così; cerco di includere spirito e satira negli oggetti che cerco di reinterpretare e trasformare in qualcosa che ha nuova vita.
Non è una cosa semplice e non succede sempre; anch’io a volte mi “perdo per strada”, ma quando ti trovi in un posto dove riesci a lasciarti alle spalle tutta la negatività e a concentrarti, allora puoi permetterti di seguire direzioni interessanti e ascoltare la creatività che ti parla.
É così che mi vengono in mente le cose che creo; sono come canzoni o libri: una minima quantità di quello che produci è veramente buona; alcuni sono mediocri; il resto forse non è granché.
Niente sarà mai corretto al 100%; siamo imperfetti ed è questa la ragione per cui mi piacciono i grandi artisti e pensatori, come Da Vinci: queste persone ci hanno costretto ad andare oltre alla nostra percezione delle parole “creatività” e “creativo”.
Sean non dà titolo alle sue opere; ovvero alcune delle sue sculture hanno un titolo e altre no. Crede che alcune non vogliano avere un nome, sebbene sia lui a cercare di dargliene uno.
A questo punto gli chiedo di descriverne alcune.
E sebbene ce ne siano a decine – alcune poco più che abbozzate – me ne descrive tre.
Adriana Oberto PhotographyExtreme Makeover Gone Extremely Wrong.
Il titolo è preso dal reality show degli anni Duemila “Extreme Makeover – Belli per Sempre”, ma in questo caso il cambio di look è andato veramente male.
“Tutto parte da quando vivevo a Denver e sono incominciati quei reality show così stupidi in cui le persone vengono umiliate; pensa per esempio a “Extreme Makeover – Belli per Sempre”; è un po’ la storia del brutto anatroccolo: prendi una persona che non si sente bella e promettile davanti alle telecamere e a un pubblico in studio che verrà trasformata in qualcosa di migliore.
Sappiamo tutti, però, che ciò che viene fatto avviene a scopo di intrattenimento.
Per cui qui abbiamo un uomo che non si sente propriamente bello e si rivolge perciò ad un chirurgo estetico, chiedendogli di trasformarlo in un Adone, di dargli un aspetto che nessun altro uomo abbia mai avuto.
“Voglio essere così “uomo” – dice – da andare oltre la mascolinità e rappresentare quindi la dualità tra uomo e donna”.
Però questa persona non ha abbastanza soldi per pagare un chirurgo estetico di fama mondiale e si rivolge perciò ad un chirurgo straniero, che non lo faccia pagare troppo. Gli chiede di alzare gli zigomi, aumentare la distanza tra gli occhi e di dargli un petto virile.
Così i dottori lo operano, magari una delle operazioni non va come dovrebbe e la devono ripetere; perdono un occhio e si ricordano dopo dove avrebbero dovuto metterglielo – cose del genere.
Quando finalmente tolgono le bende e lo mostrano alle telecamere, sono un po’ spaventati, perché sanno di aver sbagliato in più di un’occasione.
Gli danno uno specchio, in modo che si possa vedere (e infatti la scultura aveva uno specchio al posto della macchina fotografica, che è stata aggiunta in tempi recenti a rappresentare il dilagare del selfie) e tutti ormai sanno che sembra un moderno Frankenstein, ma alla fine, lui si vede, si rende conto che, sì, la cosa è scappata di mano e anche tanto, ma ha un petto virile, il seno, e di sicuro ha un aspetto che nessun altro ha e si piace proprio per questo!”
Le due sculture che seguono sono forse le più significative, oltre ad essere probabilmente le più attraenti, anche solo da un punto di vista della curiosità che evocano.
Adriana Oberto PhotographyLa macchina del tempo
“Quando ero piccolo i miei genitori si sono trasferiti da Philadelphia a Denver.
C’erano i Drive-In e la gente veniva e si ritrovava, si sedeva in macchina e guardava il film.
Un giorno – era agli inizi degli anni Sessanta – mio padre ci prese con sé (eravamo io, mia sorella e la mamma), ci mise nel retro di un pick-up e ci portò a vedere il film L’uomo che visse nel futuro (The time machine in lingua originale, N.d.R.), basato sul racconto di H.G. Wells.
Il protagonista della storia costruisce una macchina del tempo con la quale viaggia nel futuro e incontra due popolazioni diametralmente opposte – gli Eloi, docili e gentili, e i Morlok, aggressivi e spietati.
Si innamora di una donna della razza degli Eloi e le salva la vita, ma è costretto a tornare indietro senza di lei nel suo tempo perché i Morlok glielo impediscono.
Dopo aver raccontato la sua storia ai suoi amici e aver dimostrato loro l’esistenza della sua invenzione, decide di tornare nel futuro per provare a mettere fine a guerra e odio proprio insieme alla donna amata. “
“Quante persone vorrebbero andare indietro nel tempo? Quante avanti nel futuro?
Per correggere qualcosa, o vedere quella cosa come si è evoluta.
Questo è stato il genio di H.G. Wells quando ha scritto “la Macchina del Tempo”: questa idea di cambiare il futuro non sarebbe possibile senza l’esistenza della macchina e questo per me divenne, col passare degli anni e il progredire della mia carriera di scultore, un punto focale fisso. Ho sempre desiderato ricreare la macchina del tempo, ma mi è sempre mancato il tempo.
Poi mi sono trasferito in Montana quando mio padre non stava bene ed è in seguito deceduto ed è in quel periodo che ho trovato un tavolo in un centro di recupero e l’ho portato nel mio laboratorio di Bigfork.
Ho preso una delle poltrone di velluto rosso che avevamo; ce n’erano due e io mi ricordo che mi ci sedevo e guardavo mia madre, mio padre e sua sorella venuta dall’Argentina mentre creavano un mosaico di vetro che sarebbe diventato un contenitore per la frutta.
La poltrona, messa sulla tavola di legno, mi faceva pensare alla macchina del tempo e così mi venne in mente di creare tale macchina come omaggio a mio padre che mi aveva sopportato da bambino.
Mio padre, anche lui un creativo, ha sempre cercato di fare il meglio per la propria famiglia, anche se ovviamente aveva i suoi problemi.
Non ho creato la macchina del tempo per nessuno, se non come regalo in sua memoria; ci ho messo la mia anima e il mio cuore e l’ho fatto per gratitudine verso di lui.
É fatta di pezzi trovati in giro messi insieme in un momento triste della mia vita, ed è forse per questo che ha un’anima anch’essa, che è tutta sua; e ovviamente ci sono io – il bambino che andava in giro per le campagne e trovava pezzi sconclusionati che riportava a casa; ci sono la mia fantasia di bambino e il mio desiderio di tornare indietro nel tempo e cambiare chi ero in rapporto a mio padre: sarei stato un figlio migliore?
L’avrei trattato meglio?”
E tutto porta a quando ho conosciuto Kirk Douglas e le persone che interpretano ruoli differenti.
Alla fine, è quello che fanno i bambini: giocano a fare il pirata, il marinaio, così come gli attori recitano una parte, ma la recitano così bene che “sono” quella parte, al punto che a volte non riescono ad uscirne.
Devi avere quella parte fanciullesca che include gioco e recitazione, insieme al tuo essere adulto, in modo da stare in entrambi i mondi: poter vivere da adulto e fare le cose da persona adulta, usando però la fantasia, in modo da non sentirti in colpa quando ti sembra di essere diventato troppo bambino.”
Adriana Oberto Photography"Negli anni Settanta mio padre recuperava aerei dismessi allo scopo di metterli a posto e rivenderli, se ancora in buone condizioni, sul mercato dell’usato.
Avrò avuto quattordici o quindici anni ed eravamo io, mio padre e un suo aiutante di colore con un braccio solo.
Era primavera e andammo su in montagna, dove lui aveva visto questo relitto; non trovammo corpi dentro, perché vengono in genere recuperati dalla Civil Air Patrol; in seguito, però, le compagnie assicurative affidano il recupero a persone esterne e tante volte ne vale veramente la pena.
Fu così che una delle mie prime escursioni nell’area dei Maroon Bells sulle Montagne Rocciose attorno ad Aspen fu proprio con mio padre e aveva a che fare con il recupero di un aereo da guerra.
A mio padre non piaceva avventurarsi in luoghi poco accessibili, magari perché stretti oppure in cima ad un albero, e così mandava me; succedeva anche che qualcuno venisse prima che avessimo portato a termine il nostro lavoro e rubasse parte di quello che era stato assegnato ad altri. Ricordo di aver bevuto la mia prima birra in un bar di Woody Creek (vicino ad Aspen, N.d.R.), quando questo non si chiamava ancora the Woody Creek Tavern, mentre mio padre parlava con lo sceriffo riguardo proprio questo problema.
Mio padre era uno che sapeva fare un po’ di tutto; l’aereo che vedi viene da Denver e da quello che era un suo concorrente; sarà stato il 2008 e mio padre mi chiamò, dicendomi che la
persona che aveva recuperato al tempo questo aereo era morta e che l’aereo sarebbe stato distrutto per venderne le parti. E così – abitavo in Montana al tempo – sono andato a Denver e l’ho recuperato.
La mia intenzione era – come per la maggior parte delle cose che faccio – di costruirmi un “giocattolo”, una sorta di missile o navicella spaziale con cui andarmene in giro.
Ho tagliato il pavimento e l’ho ribassato; ci ho aggiunto qualche mio tocco personale – incluso il quadro di fronte al divano, nella parte posteriore della fusoliera.
Ho trovato il quadro in una cantina in Montana; la figura della ragazza col cane mi ha sempre fatto venire in mente il film di Stanley Kubrick Il Dottor Stranamore; alla fine della pellicola Vera Lynn canta “ci incontreremo ancora, non so quando, non so dove…”; non sapevo chi fosse la cantante, ma un giorno, quando vivevo in Francia, trovai, in un mercato delle pulci, un tot di suoi dischi e ho così scoperto il nome.
Cantava per le truppe durante la guerra e direi possa essere considerata la versione inglese della nostra Doris Day; mi piace pensare sia lei la ragazza del quadro.
Se guardi bene la scena, nell’angolo in alto c’è un aereo: direi il quadro abbia trovato il posto giusto.
Inoltre, sempre verso il retro del velivolo, laggiù in fondo, c’è uno specchio: ti ci vedi riflesso, ma sei molto piccolo; la sera, poi, con le luci accese che luccicano sembra quasi un tunnel del tempo – è come se tornassi indietro, per cui anche l’aereo diventa una sorta di macchina del tempo.”
Aereo -Rimorchio un BEECHCRAFT C-18 del 1944 rimodernato e messo a lustro.L’aereo di Sean viene portato a sagre, festival ed eventi culturali e attrae sempre molte persone. Sean ne ha fatto il suo “salotto” e vi invita i cantanti, gli attori, nonché ovviamente gli amici; c’è persino un ventilatore all’interno; ci sono le luci e la musica; e così la gente si siede all’interno dell’aereo che non vola, così, tanto per passare il tempo.
Può essere considerato un posto in cui pensare, discutere, darsi alla contemplazione e magari pensare alle donne rivettatrici (si chiamavano “Riveting Rosies”), che a Wichita, KS, lavoravano sui bombardieri della Seconda guerra mondiale e il cui lavoro è stato recuperato da Sean, prima che qualcuno distruggesse del tutto l’aereo.
Quando viene parcheggiato lungo la strada, magari di fronte ad una galleria d’arte, la gente si avvicina incuriosita. Lui lo considera il modo migliore di “rompere il ghiaccio” col pubblico.
I bambini sono i primi ad avvicinarsi e così il bambino che c’è in Sean può parlare con loro; Sean adulto parla con i bambini e mostra loro la sua parte di fanciullo. Per gli adulti, se sono particolarmente simpatici, Sean ha anche una piccola sorpresa: la punta dell’aereo si apre e nasconde un piccolo bar, dal quale l’artista offre ai suoi amici qualcosa di fresco.
L’aereo non ha ancora un nome vero e proprio. Sono stati suggeriti nomi anche fantasiosi come “la nuvola d’argento”, e altri più banali, ma Sean aspetta il giorno in cui a qualcuno verrà in mente un nome speciale che vada a pennello; per ora l’aereo non ha ancora trovato il nome da apporre al suo certificato di nascita.
L’aereo può che essere affittato per eventi.
Adriana Oberto PhotographyUn momento "dada"
Quando l’ho incontrato, Sean stava pensando di costruire una base per la sua macchina del tempo, in modo che fosse facilmente trainabile.
Ogni anno all’inizio di agosto, infatti, il museo d’Arte di Aspen, rinomata località sciistica del Colorado con una forte tradizione artistica d'élite, organizza l’evento “Aspen Art Crush”, in cui opere d’arte di artisti famosi vengono messe all’asta.
Accompagnata da un gruppo di comparse vestite da contadini Rom, la macchina sarebbe dovuta arrivare ad Aspen e venire parcheggiata davanti al museo durante i giorni dell’evento.
L’idea, di chiaro stampo dadaista – e perciò in opposizione alle idee d’élite che gli esperti di arte di Aspen possono avere – vuole essere, per definizione di Sean, “un momento dadaista fuori dal tempo che avviene durante un evento elitario nella città che Hunter Thompson definì “la città grassa”.
Hunter Thompson, giornalista e scrittore statunitense creatore del cosiddetto “giornalismo Gonzo”, cercò negli anni Settanta e inizi Ottanta di cambiare la cocciutaggine e ostinatezza degli investitori che andavano ad Aspen, compravano larghe porzioni di terreno e vi costruivano case
da sogno, chiudendo però di fatto la strada alle persone comuni, che non potevano più raggiungere un certo posto per la semplice ragione che la strada si trovava su proprietà privata.
Fu a volte protagonista di azioni di dimostrazione/ribellione a volte al limite della legalità, sempre mirate a quell’élite che non permette, appunto, a chi non ne fa parte di entrarvi o parteciparvi.
In realtà Sean non è riuscito a mettere in atto il suo proposito. Tuttavia ha portato una sua opera di minori dimensioni ad Aspen in occasione di “Intersect Aspen” – un evento di arte e cultura che precede i giorni dell’”Aspen Art Crush”. L’opera, un vecchio segnale stradale con su scritto “siate pronti a fermarvi” avvolto in carta da pacchi, non ha ricevuto il permesso dagli organizzatori di essere posizionato vicino all’ingresso della fiera.
Sean ha pertanto dovuto spostarla e, ironia della sorte, l’ha dovuta collocare vicino ad un segnale di divieto di parcheggio.
Ha così dimostrato che un artista del suo calibro, che lavora con oggetti trovati in giro e materiale di riciclo, non verrà mai considerato dal mondo elitario di Aspen come un artista vero e proprio.
“Se dai a qualcosa nuova vita, questa continuerà a vivere e sarà per la gente un incentivo alla creatività.
Abbiamo bisogno di questo tipo di atteggiamento nella nostra società, di cose positive come queste, in mezzo a tutta la negatività che c’è.
www.chromesean.com
Sean Guerrero Photography“La Sicilia è il paese delle arance, del suolo fiorito la cui aria, in primavera, è tutto un profumo… Ma quel che ne fa una terra necessaria a vedersi e unica al mondo, è il fatto che da un’estremità all’altra, essa si può definire uno strano e divino museo di architettura.”
Questo è ciò che scrisse Guy de Maupassant nel suo Viaggio in Sicilia nel 1885 e per dar forza alla definizione
citata dal noto scrittore e poeta francese dopo il suo viaggio nell’isola, questo mese andremo alla scoperta di due dei tanti tesori architettonici custoditi nel cuore di questo magnifico e divino museo di architettura che è la Sicilia.
Il primo è un sito archeologico di notevole interesse scientifico che custodisce, peraltro, un enigma ancora irrisolto, comprendente una necropoli e i resti di una fortezza araba scavata nella roccia, posto sulla sommità del Monte Guastanella, un rilievo alto 609 m sul livello del mare che si erge sulla valle del Fiume Platani, l’antico Halykos, a circa 5 km dal piccolo centro abitato di Santa Elisabetta.
Il secondo, distante poco più di 11 km da quest’ultimo, è costituito dalla più grande e suggestiva tomba protostorica della Sicilia, la “Tomba del Principe”, che insieme a numerose altre sepolture ritrovate nel territorio di Sant’Angelo Muxaro, rendono questo piccolo borgo uno dei centri più importanti della Sicilia pre e protostorica. Ci troviamo, dunque, nella porzione centro meridionale dell’isola, nel libero consorzio comunale di Agrigento, sulle propaggini meridionali dei Monti Sicani.
Ancor prima di raggiungere le nostre mete, lungo la strada che ci porta verso questo lembo di territorio agrigentino, ci rendiamo subito conto della straordinaria bellezza del paesaggio che si attraversa, le cui forme aspre o, talora, arrotondate, spesso solcate da profonde incisioni vallive che convogliano le loro acque nell’ampio e tortuoso letto del fiume Platani, sono strettamente legate alla costituzione geologica dell’area.
Infatti, le rocce che affiorano in questa zona della Sicilia appartengono ad una delle serie stratigrafiche più importanti e conosciute dell’isola, la Serie Gessoso Solfifera, che affiora prevalentemente tra le provincie di Agrigento, Caltanissetta ed Enna.
Domenico Ianaro PhotographyL’importanza di tale serie è legata alla presenza, al suo interno, di strati altamente produttivi che, a partire dall’Ottocento, sono stati, e in parte continuano ad esserlo, diffusamente coltivati costituendo, per lungo tempo, uno dei principali interessi economici dell’isola: i giacimenti di zolfo (oggi non più produttivi) e quelli di sali, per l’estrazione dei quali attualmente restano attive solo tre miniere.
La genesi di questa serie è legata ad una “crisi di salinità” del Mediterraneo, verificatasi circa 6,9 milioni di anni fa, nel Messiniano (Miocene superiore), a causa della temporanea chiusura dello Stretto di Gibilterra per l’avvicinamento della Spagna all’Africa.
A causa di ciò, quasi tutta l’area mediterranea fu interessata da una radicale variazione ambientale.
Il Mar Mediterraneo, infatti, per il mancato collegamento con l’Oceano Atlantico, perse le caratteristiche di mare aperto divenendo, a tutti gli effetti, un bacino chiuso nel quale, per il conseguente aumento della temperatura e della concentrazione delle acque, iniziarono a depositarsi potenti spessori di sedimenti evaporitici.
A seguito dell’evaporazione dell’acqua, le sostanze precipitarono al fondo del bacino in relazione al proprio grado di solubilità, partendo da quelli meno solubili fino a quelli più solubili, dando così origine alla serie stratigrafica formata, dal basso verso l’alto, da: tripoli, calcare di base, gessi e sali, con varie e variabili intercalazioni di strati argillosi.
In particolare, il Tripoli, è una roccia costituita prevalentemente da organismi e alghe a scheletro siliceo (radiolari e diatomee), che spesso a causa della notevole presenza di sostanza organica è impregnata di bitume; il Calcare di base, è costituito da calcare di colore bianco o grigio chiaro, sottilmente stratificato, che contiene all’interno dei suoi vacuoli lo zolfo; i potenti banchi di Gessi si presentano distinti in varie forme a seconda della loro qualità: gessi macrocristallini costituiti da grossi cristalli di gesso geminati “a ferro di lancia”; gessi balatini costituiti da microcristalli di gesso intercalati a sottili strati argillosi; gessi alabastrini o alabastri gessosi, microcristallini, caratterizzati da scarso contenuto di argilla; gessi anidri o anidriti, che si presentano compatti, tenaci e di colore bianco neve.
Infine, la forte concentrazione delle acque, in alcuni punti del bacino, ha permesso la formazione di enormi accumuli di Sali di sodio e potassio, detti domi salini.
L’inizio della successiva epoca pliocenica (5 milioni di anni fa) fu segnato da fenomeni tettonici che provocarono l’abbassamento della soglia di Gibilterra e ristabilirono, nel Mediterraneo, le originarie condizioni di mare profondo e aperto, di nuovo in comunicazione con l’Oceano Atlantico. Ciò determinò la fine del processo evaporitico e la conseguente deposizione di sedimenti calcareo marnosi di mare pelagico, denominati Trubi Successivi fenomeni tettonici hanno smembrato e piegato i terreni della serie gessoso solfifera dando origine all’attuale morfologia articolata dei luoghi.
Dopo avere attraversato il piccolo centro abitato di Santa Elisabetta e raggiunto il cimitero, ci incamminiamo, da questo punto lungo una strada sterrata, verso Monte Guastanella, attraversando colline costituite prevalentemente da potenti strati gessosi, spesso verticali o tormentati da grosse pieghe, evidenti segni della tettonica avvenuta in questi luoghi.
E restando ammaliati dai colori di ciò che ci circonda, come il verde dei campi di grano, il bianco abbacinante delle anidriti, il brillio dei grandi cristalli di gesso in mezzo ai quali la natura, incurante della scarsa ospitalità di tali rocce, manifesta la sua ostinata presenza attraverso la bellezza di una di coloratissima vegetazione,raggiungiamo la base di una di queste colline, formata proprio da una grossa piega nei terreni gessossi, a fianco della quale una scalinata di 350 gradini ci permette di iniziare la salita verso la cima di Monte Guastanella, raggiungendo dapprima una vera e propria sella tra i due rilievi e da questa terrazza, su uno stretto tratto di sterrato a mezza costa sul ripido pendio, raggiungiamo la sommità di quest’ultimo.
I resti di insediamenti appartenenti ad epoche e fasi diverse rinvenibili lungo il rilievo sono costituiti da frammenti di strutture murarie e tombe, scavate entrambi nella roccia gessosa cristallina, che riluce in un caleidoscopio di natura e suggestioni.
Il primo insediamento, collocato sul fronte meridionale del monte, è rappresentato da due tombe, risalenti con buona probabilità all’età del bronzo (1000 a.C. circa).
Sulla sommità della vetta, invece, troviamo i resti di un fortilizio attribuito al periodo di dominazione araba di evidente importanza strategica per la sua posizione, ma con molta probabilità edificato originariamente dai bizantini, i quali per difendere l’isola dalle incursioni arabe avevano eretto fortilizi e baluardi su gran parte delle alture siciliane. Questo forte venne conquistato dai Saraceni una prima volta nel 839 d.C. e la seconda nell’860-861.
Proprio per la sua posizione geografica, i nuovi conquistatori vi insediarono una guarnigione militare posta a controllo e a presidio del territorio circostante, che rese questa fortezza praticamente inespugnabile. Due secoli dopo arrivarono in queste contrade i Normanni che posero fine all’egemonia saracena.
Infatti, dalle notizie riportate dal monaco benedettino Goffredo Malaterra, cronista ufficiale del Conte Ruggero, sceso dalla Normandia alla corte di Sicilia, il castrum di Gastaiel o Guastanella fu tolto ai musulmani, nel 1086, proprio dal Gran Conte Ruggero d’Altavilla, insieme a numerosi altri castelli siciliani. In quel periodo, tutti gli ultimi domini arabi rimasti nell’isola subirono continue scorrerie da parte dei Normanni, costituendo a loro volta focolai di vendette e violenze.
Proprio a Ruggero toccò affrontare l’ultimo signore della Sicilia musulmana, Hamúd, che si dice fosse di nobilissima stirpe e che aveva scelto di risiedere nella città di Girgenti che fu attaccata, assediata, oppressa, incendiata e derubata.
La stessa sorte toccò, di lì a poco, ai castelli vicini e quindi anche a quello di Guastanella, nonostante la sua posizione strategica.
Durante l’avvicendarsi dei successivi re normanni, i rapporti con i Saraceni subirono alti e bassi in funzione del sovrano al governo, alternando periodi di larga tolleranza a feroci e crudeli repressioni.
Fino all’epoca di Enrico VI di Svevia (1194-1197) in cui la Sicilia conobbe nuovamente crudeltà e terrore, piombando nell’anarchia alla morte del sovrano.
I Saraceni perseguitati fuggirono sulle montagne fortificate dell’interno e la situazione di pericolo e il malcontento favori il nascere di condottieri di alto livello, sotto la cui guida costituirono un vero e proprio emirato ribelle nel cuore della Sicilia.
Il clima di rivalità e di lotte durò fino a quando il figlio di Enrico e Costanza, il futuro imperatore Federico II, non raggiunse la maggiore età e non consolidò il suo potere.
In particolare, nel 1220, anno in cui avvenne la solenne incoronazione di Federico II, Ursone, vescovo di Girgenti dal 1191, fu catturato dai Saraceni e imprigionato per quattordici mesi, proprio nel castello di Guastanella, dal quale fu liberato dietro un riscatto di 5000 tarì d’oro.
La Chiesa Girgentina fu spogliata dei privilegi e dei beni dai Saraceni che, dunque, occuparono la cattedrale e il campanile, oltre a cacciare chierici e seminare il terrore tra i cristiani.
Solo nel novembre del 1221, Federico II di Svevia arrivò ad Agrigento, compì una ricognizione generale intorno al terreno dello scontro, prima di sferrare l’attacco in grande stile contro il castello di Guastanella, che cadde.
E soltanto dopo il 1225, Federico II riuscì a sottomettere tutte le fortezze musulmane in Sicilia.
Dopo questi fatti, non sono state più ritrovate ulteriori notizie su questo castello, del quale oggi restano poche porzioni murarie sul lato est, nord e nord ovest, appartenenti alle antiche mura di cinta.
Al loro interno si riscontra la presenza di due camere ipogee ben conservate, passaggi e cisterne, tutti scavati nella roccia gessosa, che dovevano costituire un complesso fortificato di notevoli dimensioni.
Gli studi archeologici sugli insediamenti presenti nel territorio di Agrigento compreso tra San’Angelo Muxaro, Raffadali e Santa Elisabetta risalgono ai primi anni del 1900 grazie all’attività dell’eminente archeologo roveretano, Paolo Orsi, pioniere nell’individuazione dei rapporti tra la Sikania e le civiltà egee.
Ma ciò che per lui restò un enigma fu proprio l’insediamento scoperto, nel 1931, sul Monte Guastanella. Nel 2017, la studiosa di archeologia Rosaria Rita Lombardo, riportando alla luce una ricca e inedita documentazione di Orsi sull’argomento e prendendo spunto da una millenaria tradizione orale del luogo e da alcune evidenze toponomastiche di esso (il nome Guastanella potrebbe derivare dall´antico Wuastanedda di matrice minoica, costituito dal prefisso wa-, abbreviazione di wanax (re) e da stan (dimora, luogo, città), radice del verbo cretese στανύομαι, ossia città del re) ha avanzato sull’insediamento in oggetto un’ipotesi archeologica di grande fascino e mistero, secondo la quale essa ritiene che la città sicana di Camico, di cui narrano le fonti classiche (Diodoro Siculo nella “Bibliotheca historica“) e la tomba di Minosse, siano entrambe identificabili con il suggestivo insediamento agrigentino di Monte Guastanella, sinora ritenuto di esclusiva matrice araba, considerato, invece, dalla stessa studiosa, come un superbo santuario - sepolcro di vetta, di verosimile origine minoico-micenea, per molti anni negletto e quasi sconosciuto.
Secondo il racconto ripreso da Diodoro Siculo, la storia di Minosse si sarebbe conclusa in Sicilia ed in particolare nella città di Camico, impenetrabile roccaforte del re Kokalos.
Dopo il mito del Minotauro e le gesta di Dedalo, Teseo, Arianna e Icaro, Minosse, infatti, accettò di recarsi a Camico come ospite del re sicano, dopo aver scoperto che Dedalo vi aveva ottenuto rifugio dopo essere evaso da Creta in volo, per sottrarsi alle sue ire, nel tentativo di arrestarlo nuovamente. Il re Kokalos, pur temendo la potenza dell’esercito cretese, ma non volendo tradire Dedalo, giocò la carta dell’inganno.
Così fingendo di riconsegnargli quest’ultimo, invitò il re straniero Minosse a recarsi nella sua casa, dove, durante il bagno, lo fece uccidere dalle proprie figlie, seppellendolo proprio sulla montagna.
Tuttavia, fino ad oggi, non è stata condotta alcuna campagna di scavi in loco che possa avvalorare o sconfessare quest’ipotesi e sciogliere, così, l’enigma di Monte Guastanella.
Rita Russo PhotographyRipresa l’auto, lasciamo questi luoghi per dirigerci verso il centro abitato di Sant’Angelo Muxaro, un piccolo borgo posto su un colle dai fianchi scoscesi, alto 335 metri sul livello del mare, che si erge sulla riva sinistra del Fiume Platani.
Dopo la conquista romana e fino agli ultimi anni del Basso Medioevo, per questo centro fu un periodo scuro e poco conosciuto.
Durante la dominazione araba in Sicilia, la rocca fu scelta come sede di controllo del territorio circostante prendendo il nome di Musharia, termine che è rimasto in parte nell’attuale denominazione del comune (Muxaro).
Alla fine del ‘400, il feudo del Mussaro passò alla famiglia “De Marinis” di origine spagnola che, nel 1507, ottenne dal re Ferdinando il Cattolico, la licenza per la fondazione di un nuovo borgo nel feudo stesso, che doveva essere denominato Sant’Angelo.
Con il tempo il nome del feudo mutò in Sant’Angelo del Mussaro, fino all’odierna denominazione di Sant’Angelo Muxaro.
Il centro abitato, che ha un impianto a scacchiera irregolare, si sviluppò intorno ad una grande piazza centrale, l’odierna piazza Umberto I sulla quale si affacciano alcuni palazzi signorili in parte rimaneggiati. Di grande interesse culturale sono le due chiese settecentesche, la chiesa della Madonna dell’Itria e il Duomo, intitolato al patrono Sant’Angelo martire di Sicilia, entrambe non lontane dalla piazza. Anche il basolato che ricopre le strade del paese contribuisce a mantenere a quest’ultimo un’aura di antichità.
Il borgo è uno tra i più importanti della Sicilia protostorica per i reperti archeologici rinvenuti nelle centinaia di tombe scavate nella roccia gessosa e prevalentemente macrocristallina di cui è costituito sia il colle sul quale sorge la città che il territorio circostante ad esso, grazie anche in questo caso, all’attività di scavo e studio condotta, nei primi anni del 1900, da Paolo Orsi. Questa vasta necropoli stabilisce che in questo luogo, nell’età del bronzo e del ferro, si sviluppò un importante, florido e predominante centro sicano, grazie anche alla sua posizione geografica.
Una delle particolarità di questa necropoli è la presenza di un determinato tipo di struttura tombale, diffusa proprio nella valle del Platani: la tomba a “tholos” (tomba a cupola e pianta circolare), la cui scoperta in Sicilia creò un filum diretto con un modello architettonico greco di età micenea, estraneo alla tradizione indigena.
In questo tipo di sepoltura, rispetto alle tradizionali tombe a grotticella, la camera funeraria si monumentalizza arricchendosi di allestimenti stabili come letti e banchine fisse.
La cupola presenta un profilo ogivale allungato che può avere alla sommità un incavo a forma di scodellino rovesciato.
Tra le tombe ritrovate in questo territorio, vi è la “Tomba del Principe”, la più suggestiva e monumentale tra tutte quelle ritrovate nella zona e la più grande di tutta la Sicilia protostorica, che fu definita così da Orsi perché probabilmente servì da mausoleo per un ignoto principe dell’antica cittadina sicula di Muxaro.
Questo sepolcro, che è ubicato a circa metà del colle alla sommità del quale si estende l’odierno abitato di Sant’Angelo Muxaro, viene chiamato anche “Grotta Sant’Angelo”.
Infatti, la leggenda racconta che, nel periodo bizantino l’antro divenne ricovero per gli eremiti e successivamente fu abbandonato perché infestato da spiriti maligni. Un santo misterioso venuto dal mare, Angelo, mise in fuga i demoni scegliendo la grotta per il suo eremitaggio nel XII sec. d.C..
In seguito, quest’ultima fu trasformata in chiesa rupestre e divenne per lungo tempo il centro di grandi pellegrinaggi. Questa tomba è formata da due camere a pianta circolare comunicanti.
La prima, più grande, che costituiva il vestibolo della sepoltura ed in essa venivano effettuate celebrazioni periodiche, presenta circa 9 m di diametro e 3,5 m di altezza e mostra una bassa banchina che gira tutto intorno alle pareti.
La camera più interna e comunicante con la prima, quella funebre vera e propria, è ben conservata, misura circa 6 metri e presenta sulla sinistra un grande letto funebre ricavato nella roccia, largo m 1,10 e lungo m 2,25, in ottimo stato di conservazione.
Sebbene questa tomba rivesta un ruolo di primo piano nel complesso della necropoli protostorica di questa cittadina, le altre tombe non hanno minore importanza per via dei numerosi reperti di altissimo valore archeologico ritrovati durante gli scavi condotti da Paolo Orsi.
In una in particolare furono ritrovati numerosi corredi funerari ceramici e furono scoperti al dito di alcuni scheletri in essa contenuti due grossi e pesanti anelli d’oro intagliati, oltre a gioielli in bronzo, che oggi sono custoditi in diversi musei della Sicilia, quali i Musei Archeologici di Agrigento, Palermo e Siracusa.
Remo Turello PhotographyGli oggetti d’oro ritrovati nelle tombe, databili intorno al VII sec. a.C., sono frutto di una stessa mano ossia quello di un ignoto toreuta che è stato denominato come il “maestro degli ori di Muxaro”.
Si tratta, probabilmente di un artista autoctono che ebbe modo di apprendere questa tecnica nella colonia rodio - cretese di Gela.
Anche la cospicua quantità d’oro ritrovata nei corredi funebri di Sant’Angelo Muxaro fa pensare ai rapporti intrattenuti con una colonia greca o come ricompensa per un favore ricevuto o come dono per l’elite della città indigena.
Qualunque sia la verità su Monte Guastanella e sulla necropoli di Sant’Angelo Muxaro resta il fatto che, i luoghi di cui abbiamo parlato nelle righe di questo articolo non sono interessanti solo dal punto di vista archeologico e storico ma anche da quello paesaggistico e naturalistico.
Infatti, dalle loro alture e non solo, si gode la vista mozzafiato di un paesaggio articolato di spettacolare bellezza e fascino, come la Sicilia è in grado di offrire e meritano, comunque, di essere visitati.
Rita Russo PhotographyUna giornata on the railroad
Appuntamento ore 9.00 alla stazione di Sulmona Il piazzale antistante la stazione sembra deserto, in realtà sono già tutti sulla banchina in attesa del segnale.
Gente di tutte le età, musicisti, personale viaggiante, ognuno cerca il proprio vagone e via: tutti in carrozza, si parte!
Vorremmo raccontarvi un’avventura multidimensionale nello spazio e nel tempo, multidirezionale dentro e fuori noi stessi, multidisciplinare dalla geografia alla filosofia.
In realtà è (solo) una giornata di vita piena e da ricordare.
Salite a bordo.
Il percorso prevede 118 KM di binari da Sulmona a Carpinone e ritorno, tra Abruzzo e Molise. Ci accompagneranno due persone speciali, il capotreno Marcello D’Amico e Nicola Malcangio l’addetto alla chiusura delle porte.
Le carrozze sono degli anni ’30 e per la sicurezza di tutti noi prima di ogni partenza Nicola si assicura che le porte siano serrate.
Ma non si limita a questo, durante il viaggio, passa in ogni vagone e, con gli occhi che brillano, racconta ciò che vediamo dai finestrini, sia a destra che a sinistra, perché non dobbiamo perderci nulla di questi paesaggi meravigliosi.
La Maiella, l’altopiano, le faggete, la Val di Sangro, il parco nazionale d’Abruzzo. Riesce a catturare l’attenzione di tutti, in ogni carrozza i gruppi cambiano, ci sono famiglie con bambini, coppie di giovani, una associazione che accompagna persone diversamente abili, un gruppo di signore Toscane, c’è anche un cagnolino. Un piccolo mondo o un mondo in piccolo, dipende dai punti di vista.
In ogni carrozza racconta una storia, lo ascoltiamo incantati è la storia di chi negli ultimi 100 anni ha vissuto su questi binari come pendolari, come lavoratori. L’ltalia della provincia, quella delle nostre radici…
Guglielmo Vio Photography Sulmona Roccaraso Castel di SangroAttinge dal libro di Riccardo Finelli Coi binari tra le nuvole (cronache della Transiberiana d’Italia), pubblicato da Neo Edizioni nel 2012, “un diario di viaggio clandestino per riflettere su quello che eravamo e su quello che forse non siamo più”.
È il racconto di chi a piedi, ha calpestato le 320 traversine delle rotaie di questa tratta. Ritengo doveroso, per rispetto verso quella fatica, raccontare quello che oggi stiamo ammirando con le stesse parole, proponendone tre brevi estratti.
La transumanza:
“Verso Campo di Giove a noi bastano pochi belati rincorsi da grida antiche per chiudere li occhi e immaginare la ferrovia di un altro tempo, quando, in estate, sui pascoli che stiamo attraversando adesso, era più il bianco delle pecore che il verde dei campi…. “
Il treno fermava a Palena, Rivisondoli, i vagoni erano carri bestiame che trasportavano gli animali verso gli alpeggi.
La casa cantoniera:
“Ogni casa era una sorta di fortino autonomo, dove teoricamente era possibile vivere giorni e giorni senza contatti con il resto del mondo: pollaio forno a legna….”.
E chissà se le madri raccomandavano di non andare sui binari! In queste abitazioni in mezzo al niente sono cresciute generazioni di ragazzini.
Le gallerie:
“Dentro la galleria il tempo sembrava non passare mai e ogni tanto la terra tremava, quando comincia a farsi timidamente largo il cono di luce dell’uscita, un po’ eroi ci sentiamo. All’uscita della galleria, la linea si stiracchia in una esse, che battezza il tracciato alla sua montuosità. Inizia qui la vera pendenza della ferrovia, ventotto millimetri di ascesa ogni metro percorso, da qui e per 27 chilometri, fino alla Galleria di Monte Maiella”
Laura Rossini Photography Gianmarco Marchesini PhotographyMentre anche noi attraversiamo le gallerie, al buio, guardiamo fuori, le pareti scorrono, dalle feritoie tutto passa in fretta e hai solo pochi attimi per cercare di capire dove sei.
Rimani lì a pensare cosa ci sia fuori…pensi anche che ognuno di noi può vivere questi attimi con ansia che trattiene come il respiro finché non arriva quello spiraglio di luce, un po’ come nei momenti peggiori della nostra vita o come nella canzone di Caparezza quando siamo Fuori da tunnel.
Ti guardi intorno e non potrai mai immaginare cosa pensa la persona che ti sta accanto, ma la guardi sorridi e continui a fissare il finestrino, perché qualcosa là fuori scorre e per ognuno è diverso.
Arriva il momento di scendere alla stazione di Palena, un mercatino di prodotti tipici, un gruppo di musicisti che viaggia con noi ci allieta con qualche brano.
Riprende il viaggio. La lunga sosta è nel parco nazionale per chi vuole, oppure a Carovilli
Noi non ci siamo organizzati per il pranzo. I diversi gruppi si distribuiscono ordinatamente nei ristoranti di questo piccolo borgo dove hanno prenotato. Noi chiediamo indicazioni per capire dove c’è ancora disponibilità e ci incamminiamo.
Finiamo in un ristorante che non si aspettava così tanta gente.
Il servizio è arrangiato, ma che dire il vino è sincero e la burrata è una delle migliori che abbia mai mangiato. Ancora oggi me la sogno.
Come dice Piero Angela nel suo libro Il mio lungo viaggio: “Nella mia adolescenza: un mondo diverso, non solo per le sue grandi e piccole scomodità; credo che all’ epoca ci fosse un maggiore allenamento a adattarsi alle situazioni, ad accettare più facilmente le rinunce..”.
Mi ritengo fortunata perché è ciò che i miei nonni mi hanno sempre raccontato.
Viviamo un mondo di recensioni, ma dobbiamo essere in grado di capire cosa valutare. Non tutto ha lo stesso peso.
Il caso, il tempo, forse il vino, hanno reso questi momenti indimenticabili e vi spiego perché.
Guglielmo Vio PhotographyA Carovilli, prima di ripartire abbiamo un po’ di tempo ed ognuno di noi cammina per le stradine del borgo per cercare ispirazione. Io entro nella chiesa Santa Maria dell’Assunta. Una chiesa del XV secolo.
E’ semplice e piena di spiritualità. Al centro sopra all’altare la scritta Domus Domini Est. Questo effettivamente è il senso della chiesa e della cristianità.
Sono sola e giro intorno all’altare. Davanti a me due affreschi opera di artisti locali a sinistra il Processo a Gesù, mentre a destra un momento di vita quotidiana di Gesù da bambino in casa, mentre Giuseppe lavora e Maria gli insegna a leggere.
Esco, e per esprimere le mie sensazioni prendo in prestito ancora le parole di Piero Angela: “Nella vita con le persone sono importanti non solo le parole, ma forse ancora di più i comportamenti, i fatti, gli esempi.”
Le parole non dette…onestà assoluta, senso del dovere, libertà di pensiero e schiena dritta.
Laura Rossini Photography Guglielmo Vio PhotographyTorniamo in stazione.
Nicola ci presenta Marcello D’Amico il capotreno che comincia a raccontare la sua storia.
La sensazione che si ha è quella di essere ancora in chiesa, per l’onestà delle sue parole, la dedizione al lavoro, le sue idee, l’orgoglio per la sua divisa.
Ci mostra il suo cappello, tratto distintivo ed identitario del ferroviere. Una volta non c’erano le divise. Andavano al lavoro con i propri abiti.
Ci mostra tutte le caratteristiche della locomotiva e delle carrozze. Gli strumenti previsti e la tecnologia con la quale sono stati pensati.
Alcune opere di ingegneria ancora all’avanguardia.
Racconta come una notte di Natale è rimasto da solo bloccato in una stazione dalla neve, senza cibo e con la sola acqua della fontanella per bere e lavarsi.
Non a caso il giornalista Luciano Zeppegno battezzò questa tratta delle FS come “la piccola Transiberiana” in un articolo del 1980.
Sono tante le storie raccontate e da raccontare per ciò che hanno vissuto passando su questi binari le persone che viaggiavano e quelle che ci lavoravano.
Ci fa vedere l’impianto del freno d’emergenza, ci racconta a cosa servono le bandiere.
Ci spiega che ad ogni stazione deve scendere per fare una telefonata di controllo e solo dopo si può ripartire.
Un punto di riferimento per i macchinisti e per il personale viaggiante.
Laura Rossini PhotographyAlla stazione di Cansano è obbligatoria “la foto davanti alla mole di ghisa della pompa del rifornimento idrico” che serviva per i treni a vapore.
Fa mettere in funzione solo per noi un vecchio passaggio a livello manuale, uno dei pochi rimasti. Ma di una cosa va particolarmente orgoglioso.
E anche qui sono le parole di Finelli a dirlo: Come cos’è?
È un segnale ad ala di seconda categoria! E’ stato concepito negli anni Venti proprio per le ferrovie minori ed è una rarità ormai.
Venivano appassionati da tutta Europa per vederlo in azione. Serve a proteggere la stazione. Se il braccio sporge fuori, significa che il treno deve fermarsi con la coda appena oltre il segnale .
Tra una disposizione ed un controllo nel suo andare avanti e indietro nei vagoni ci porta con lui.
Ad un certo punto si accorge che non ho ancora scattato la foto del segnale.
Cominciamo a correre tutti verso la coda del treno per poterlo prendere in corsa.
Ed eccolo lì.
Da sola non lo avrei mai notato.
La cura e la dedizione che mettono in questo progetto le persone che ci lavorano è oltre ciò che siamo abituati a riscontrare giornalmente.
Sono le persone come Nicola e Marcello che lo rendono speciale.
Dietro a loro c’è anche tanta storia tanto studio e tantissima cura.
Guglielmo Vio PhotographyCi dispiace di non poter riprodurre anche parte del materiale custodito nel museo della Fondazione. Fotografie su lastre di vetro in bianco e nero. Ludici dei progetti delle locomotive e dei vagoni gelosamente custoditi affinché possano rimanere in buono stato.
Il grande lavoro di catalogazione fatto in questi anni testimonia che dalle piccole cose si costruiscono le grandi. Si recupera la storia per viverla nel presente. Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio.
Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo, una sorta di On the Road, alla Jack Kerouac. “Si può sempre andare oltre, oltre – non si finisce mai.”
Jack KerouaC – "On the Road" (Sulla Strada)
MAST. Bologna
La mostra IMAGE CAPITAL, curata da Francesco Zanot, allestita negli spazi espositivi del MAST, è frutto della collaborazione tra il grande fotografo Armin Linke e la storica della fotografia Estelle Blaschke, ricercatrice dell’Università di Basilea.
Un progetto visivo e di ricerca che ha richiesto oltre quattro anni di lavoro e racconta una storia della fotografia diversa dal solito, mettendo al centro i suoi innumerevoli utilizzi pratici e la sua funzione come tecnologia dell’informazione.
La mostra IMAGE CAPITAL, al MAST di Bologna dal 22 settembre all’8 gennaio 2023, è un ambizioso progetto artistico che investiga la fotografia come sistema di creazione, elaborazione, archiviazione, protezione e scambio di informazioni visive: un vero e proprio capitale per cui, il suo possesso, corrisponde all’acquisizione di un autentico vantaggio strategico.
Armin Linke, CERN, ALICE (A Large Ion Collider Experiment), modello del sensore di eventi per le presentazioni al pubblico, Ginevra, Svizzera, 2021.
Courtesy: l’artista e Vistamare Milano/Pescara
Il fotografo Armin Linke e la storica della fotografia Estelle Blaschke, ricercatrice dell’Università di Basilea, esplorano attraverso immagini, testi e altri materiali le diverse modalità attraverso cui la fotografia viene utilizzata all’interno di differenti tipologie di processi di produzione, in particolare in ambito scientifico, culturale e industriale: grazie alla fotografia, infatti, i sistemi di comunicazione e di accesso alle informazioni sono migliorati esponenzialmente fino a consentire lo sviluppo delle industrie globali e di vasti apparati governativi.
“Dentro questo circuito – spiega Francesco Zanot – le immagini fotografiche assumono un peculiare valore descrivibile come una vera e propria forma di capitale. La spinta all’utilizzo della fotografia come tecnologia dell’informazione è avvenuta intorno alla metà del Novecento, quando i processi gestionali e amministrativi di aziende e istituzioni si stavano espandendo e necessitavano di essere ottimizzati”.
Con la fotografia digitale c’è stato un vero e proprio salto di scala. “Anziché essere soltanto i soggetti delle fotografie – prosegue Zanot –, gli oggetti del nostro mondo vengono oggi costruiti sulla base delle fotografie stesse e delle loro rielaborazioni, invertendo un rapporto precedente unidirezionale.
Queste trasformazioni portano con sé alcune fondamentali ricadute sul piano economico e politico: le grandi masse di immagini che alimentano questo sistema hanno acquisito un valore straordinario, conferendo a coloro che le possiedono e le gestiscono poteri ugualmente sterminati. Nella società capitalista la fotografia non domina soltanto l’immaginario, ma molto di più”.
IMAGE CAPITAL esplora questi processi in un percorso che parte dall’inizio della loro storia e arriva fino alle tecnologie più recenti e aggiornate. La mostra è suddivisa in sei sezioni dedicate ad altrettanti temi essenziali:
Memory: sulla capacità delle fotografie di raccogliere e immagazzinare informazioni. A partire dall’idea di riproducibilità meccanica, viene qui investigata l’intrinseca natura della fotografia come strumento di registrazione, le cui potenzialità si esprimono a livelli sempre più alti con l’avvento della tecnologia digitale.
Access: sulle modalità di archiviazione e indicizzazione delle immagini. L’associazione tra fotografia e testo (o metadati) è alla base del successo di questo medium come tecnologia dell’informazione.
I metadati (parole chiave, geodati, didascalie...) non sono utili soltanto per organizzare le immagini in sistemi ordinati, ma anche per poterle ritrovare e utilizzare.
Protection: sulle strategie per la conservazione a lungo termine delle immagini e delle informazioni che contengono.
Se le immagini possono essere considerate come depositi di informazioni potenzialmente deteriorabili, a loro volta devono essere protette per non venire disperse.
Qui si investigano le strategie per la protezione delle immagini, dagli archivi, che possono arrivare a dimensioni monumentali, ai sistemi di back-up.
Aimé Girard, Ricerca sulla coltivazione industriale della patata. Portfolio con sei eliografie, 1889. Courtesy: Estelle Blaschke & Armin Linke
Movimenti di particelle catturati nella LExan Bubble Chamber (LEBC) installata nella zona nord dell'acceleratore noto come Super Proton Synchrotron, 09.12.1981, CERN, Ginevra, Svizzera. Courtesy: CERN
per la scansione e misurazione
la
delle fotografie) di fotografie generate in una camera a bolle, CERN, Ginevra, Svizzera, 08.03.1963. Courtesy: CERN
Mining: sull’analisi delle immagini e il loro utilizzo nelle tecnologie per il riconoscimento automatico. Se è vero che le fotografie contengono una grande quantità di informazioni, allo stesso modo si rendono necessari sistemi per poterle estrarre (mining). Questa sezione è dedicata a questi processi e alla conseguente possibilità di utilizzare grandi quantità (cluster) di immagini simili (da cui vengono estratte informazioni simili) per lo sviluppo di tecnologie di riconoscimento automatico, le cui applicazioni sono oggi fondamentali, particolarmente nei settori dell’industria e della sicurezza.
Imaging: sulla fotografia come sistema di visualizzazione dell’esistente o di un suo progetto. La fotografia viene qui osservata come sistema di visualizzazione, a partire dalla sua capacità di andare oltre i limiti dell’occhio umano fino al suo utilizzo per lo sviluppo di tecniche di rendering e modellazione digitale.
Dopo essere stata a lungo considerata una prova di realtà, la fotografia costituisce in questo senso la base di partenza da cui la realtà viene progettata e costruita.
Currency: sul valore delle immagini.
Dall’associazione tra fotografia e valuta al capitalismo informatico, qui si osservano i processi di attribuzione di valore alle immagini, oggi legati particolarmente alla capacità di accumularne grandi quantità e, soprattutto, di associare ad ognuna ampi set di informazioni.
A partire dai testi di Estelle Blaschke e dalle opere fotografiche di Armin Linke, ideatori del progetto IMAGE CAPITAL, la mostra comprende una vasta selezione di interviste, video, immagini d’archivio, pubblicazioni e altri oggetti originali.
Nonostante la loro diversità, tutti questi materiali sono disposti negli spazi espositivi del MAST su uno stesso piano, senza gerarchie né priorità, con l’obiettivo di offrire agli spettatori una narrazioneesperienza tanto immersiva quanto stratificata.
IMAGE CAPITAL è un progetto di ricerca promosso da Fondazione MAST e dal Museum Folkwang di Essen.
La mostra sarà esposta in un tour internazionale al Museum Folkwang (9 settembre - 11 dicembre 2022) e nel 2023 al Centre Pompidou, Parigi e alla Deutsche Börse Photography Foundation, Francoforte/Eschborn.
La mostra è accompagnata da un opuscolo informativo gratuito.
A cura di Manuela Albanese
L’idea di organizzare un fine settimana fotografico nasce dalla passione per la fotografia notturna; è proprio quando le ombre della notte si allungano che le città cambiano volto, le luci e le ombre diventano protagoniste.
La conoscenza della tecnica e della propria reflex diventano fondamentali.
L’idea di fare un viaggio tra amici appassionati fotografi ci accarezzava da parecchio tempo, il problema più grande era determinato dall’assoluta incertezza del momento storico che stiamo vivendo.
Sera dopo sera nascono proposte, si individuano mete fotograficamente interessanti ma anche a portata di “viaggio”.
Vince Venezia, La Serenissima, La Dominante, La Regina dell’Adriatico, una delle Repubbliche Marinare, una meta agognata dai turisti italiani e stranieri per il fascino che trasuda, per i suoi scorci mozzafiato, per la sua unicità di città sospesa sull’acqua.
Sera dopo sera il sogno prese forma, buona parte della Band of Giroinfoto Liguria desiderava fare un’esperienza fuori porta. Nell’arco di poco arrivò il giorno della partenza sembravamo un gruppo di liceali pronti per la gita di fine anno! Il sogno era diventato realtà.
Venezia … cosa possiamo scrivere di Venezia che già non sia stato scritto! Stiamo parlando di una città magica, sospesa in una bolla temporale, a seconda del luogo si passa dal XVIII al XXI secolo.
La maggior difficoltà incontrata in fase organizzativa è stato individuare gli spot fotografaci in base alle diverse ore della giornata; volevamo ottimizzare tramonti, albe, ora blu senza tralasciare l’esplorazione della città e magari la possibilità di fare un po’ di street photography.
Questa “fame” di scatti e spot perfetti ha fatto sì che in tre giorni percorressimo poco meno di 60 km a piedi interrotti da poche ore di riposo per catturare ogni attimo, ma ne è valsa la pena!
In origine era una rampa d'accesso dalle sale dei magistrati al Palazzo delle prigioni, dove venivano trasportati i detenuti appena giudicati e condannati.
Secondo la tradizione popolare, a dare al ponte il nome “Dei Sospiri” fu il poeta inglese Lord Byron, che a Venezia soggiornò per alcuni anni trovando rifugio dai debiti
e dagli scandali che lo avevano costretto a scappare dalla madrepatria.
Attraverso le finestre del ponte i condannati avrebbero visto per l'ultima volta il cielo prima di essere rinchiusi in carcere, da cui probabilmente non sarebbero più usciti. I sospiri alla vista del panorama, sarebbero stati il loro ultimo desiderio di libertà.
Il Ponte di Rialto è il più antico dei quattro ponti del Canal Grande. È famoso sia per la propria architettura che per la sua storia. Il nome "Rialto" deriva da "Rivus altus", che in italiano significa "canale profondo", indicando che si tratta di una zona libera da inondazioni.
Le stradine limitrofe al mercato hanno i nomi delle corporazioni che occuparono la zona.
Detto anche ponte della Costituzione; il quarto sul Canal Grande, una delle poche opere di architettura moderna realizzate a Venezia, nonostante si tratti di un ponte estremamente scenografico e moderno le voci contro sono state molteplici, in primis i problemi strutturali e gli errori di progettazione della scalinata che, a causa della scivolosità e del deterioramento dei gradini in vetro, è risultata pericolosa per i passanti.
Ciò non toglie che si tratti di un ponte dal grande fascino realizzato da un vero e proprio archistar come Santiago Calatrava, le cui opere sono contraddistinte da un forte accento identitario ed esprimono una ricerca estetica e architettonica che si ispira alle forme della natura, basti pensare all’ampio uso di forme sinuose e di doppie eliche, che rispettivamente ricordano le onde elettromagnetiche e il dna.
Un esempio lo sono il famoso Oculus di NYC o la stazione ferroviaria di Reggio Emilia.
Luca Esposito PhotographyNell’esplorazione diurna della Serenissima non ci siamo fatti mancare una visita alla famosissima libreria Acqua Alta, una delle più belle del mondo. I libri sono stipati in arredi alternativi, quali vasche da bagno, gondole, canoe e su scaffali rialzati in modo da non essere mai a rischio, addirittura sono usati come elemento di arredo.
Infatti, sul retro, ci accoglie una scala interamente formata da libri, la parte in assoluto più bella della libreria Acqua Alta.
Centinaia di tomi enciclopedici destinati al macero che sono stati sapientemente disposti a formare, un gradino dopo l’altro, una scala che si affaccia sulla calle.
Manuela Albanese PhotographyUno degli spot fotografici individuati era lo “Squero di San Trovaso” nel sestiere di Dorsoduro. Si tratta del tipico cantiere veneziano dove si creano, si costruiscono e si riparano le imbarcazioni di dimensioni contenute come gondole, pupparini, bragozzi e altre barche tipiche della tradizione lagunare veneziana. Il termine squero deriva dalla parola "squara" che indica una squadra di persone che cooperano per costruire le imbarcazioni.
Lo squero di San Trovaso sorge lungo il rio omonimo e risale a prima del Seicento. Ogni barca è un'opera a sé e ogni maestro d'ascia custodisce i suoi segreti.
Le gondole ancora oggi vengono costruite interamente a mano!
La loro costruzione richiede otto tipi diversi di legno e mesi di lavoro.
Lo squero di San Trovaso è uno dei pochissimi squeri ancora in funzione a Venezia. L'edificio che lo ospita ricorda una baita di montagna, forma atipica per Venezia.
Il motivo è duplice: da una parte tanto i carpentieri quanto il legname da costruzione in passato provenivano dal Cadore, dall'altra l'inclinazione del piazzale antistante e la tettoia che in parte lo ricopre erano utili in caso di pioggia, oltre che come deposito per gli strumenti di lavoro.
In questa zona della città il flusso dei turisti è meno accentuato, si riesce a camminare potendo osservare il sestiere e le sue case colorate che si affacciano sul canale. Forse uno dei luoghi più affascinanti della città.
Manuela Albanese PhotographyIl vero obiettivo del viaggio era immortalare questa città magica nel momento in cui scende la calma tra canali, calle e campielli.
Quando i turisti abbandonano i percorsi più famosi e il silenzio e la pace avvolgono la città come un soffice mantello, questo è il momento perfetto per cominciare a esplorare Venezia con l’occhio della reflex, con l’idea di scattare in qualche spot “famoso” ma anche con il desiderio di andare di perdersi tra i canali scoprendo luoghi magici.
Non si può non immortalare piazza San Marco libera dalla folla; sebbene i lavori di restauro delle Procuratie vecchie non fossero ancora terminati e una pioggia incessante abbia reso difficile seguire la tabella di marcia, siamo comunque riusciti a fare qualche notturna anche qui.
Sono seguite poi le notturne presso i 4 ponti che attraversano il Canal Grande, Ponte dell’Accademia, Ponte di Rialto, Ponte della Costituzione ed il Ponte degli Scalzi accanto alla stazione.
Il Ponte dei Sospiri sembrava aspettarci, il silenzio della notte era interrotto solo dai click degli scatti, lontani dalla pazza folla come avrebbe detto T.S.Elliot, un silenzio ovattato in una gelida notte di inizio primavera .
Quando le ombre della notte si accorciano e si ha la fortuna di essere in una città che ci invidia tutto il mondo non si può non aspettare l’alba. Il punto migliore per ammirarla è proprio in Riva degli Schiavoni alle spalle di Piazza San Marco, affacciati sul canale di fronte all’isola di San Giorgio Maggiore. Qui il panorama sull’isola è incorniciato dal movimento delle gondole che quasi sembrano fantasmi avvolte nel drappo blu con cui vengono chiuse la sera.
La luce del giorno sale velocemente, ogni scatto è pura magia, ogni dondolio delle gondole ormeggiate tra i pali sembra voler raccontare un’avventura. Noi fotografi sebbene stanchi e provati dalla mancanza di riposo nutriti dalla bellezza che ci circondava, con un cuore gonfio d’amore e di passione per questa meravigliosa arte che è la fotografia, abbiamo ripreso a scattare anche dopo l’alba.
La sensazione provata era paragonabile all’emozione vissuta da un bambino a Natale, non sapevo se concentrarmi sui parametri di scatto e sull’immagine proposta dal live view oppure se gustarmi il sorgere del sole in un contesto fiabesco, avrei voluto avere anche un drone per riprendere dall’alto questo affresco che stavamo vivendo en plain air.
Manuela Albanese PhotographyNon si può non fare la più classica delle escursioni, la gita alle isole più note della Laguna, Murano e Burano.
L’affascinante storia del Vetro di Murano nasce nel 1291, quando si decise che le vetrerie di Venezia fossero trasferite a Murano.
Questa decisione, che si rivelò ben presto importante per gli abitanti dell’isola di Murano, fu presa perché i forni dei laboratori a Venezia erano la causa principale di gravi incendi.
Concentrare tutte le vetrerie a Murano fu utile a Venezia per controllare l’attività dei mastri vetrai e per custodire quell’arte che l’aveva resa famosa in tutto il mondo.
Gelosa della fama acquisita, Venezia obbligò i mastri vetrai a vivere sull’isola e impedì loro di lasciarla senza un permesso speciale.
Approdando sull’isola ci accoglie il faro di Murano realizzato in marmo d’Istria.
Grazie a un gioco di specchi, riesce a proiettare la sua luce proprio al centro della Bocca di Porto del Lido.
A Murano è possibile assistere a una dimostrazione di lavorazione del vetro presso la vetreria Emmedue, operativa dal 2003.
Non è facile esplorare tutte le meraviglie della laguna quando si fanno i conti con l’orologio, il tempo a disposizione è stato tiranno ed a Murano abbiamo solo potuto scorgere in lontananza l’insenatura dove sorge il borgo originario.
A cura di Maurizio Anfossi
Il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri è stata un’istituzione prestigiosa nella cittadina di Moncalieri, alle porte di Torino, dal momento della sua fondazione e fino alla sua chiusura nel 1998, rappresentando un luogo unico dove i figli dei nobili e delle famiglie importanti del territorio potevano ricevere un’istruzione di alto livello.
Il Real Collegio Carlo Alberto nasce proprio per volontà del sovrano di cui l’istituto porta il nome e viene ufficialmente aperto nel 1838.
Re Carlo Alberto sale al trono 7 anni prima e il suo desiderio è quello di ripristinare quell’istituzione che era l’antico Collegio dei Nobili, la scuola di formazione per i figli della nobiltà non solo piemontese, ma anche europea.
Il fatto che l’istituto originario del 1600 risiedesse a Torino e avesse già iniziato a ospitare la collezione del Museo Egizio fa sì che si debba trovare una nuova collocazione e le ragioni della scelta di Moncalieri sono molteplici. Innanzi tutto si riteneva che già da oltre 200 anni fosse una zona salubre; infatti dall’epoca della Duchessa Cristina i figli di Casa Savoia venivano cresciuti proprio a Moncalieri, e questo fece sì che il legame con la città fosse da sempre molto forte; ne è riprova il fatto che, a differenza della Reggia di Venaria, che fu ceduta all’esercito, i Savoia dopo la restaurazione mantenessero il Castello di Moncalieri e vi facessero ritorno.
Definita la città, si pone il problema di trovare l’edificio; viene scelto quello che era un antico convento di frati Francescani, che erano una delle realtà religiose più antiche e presenti già dal 1200, e cioè prima ancora che la città venisse fondata nel 1230. Una trentina di anni prima fu infatti attestato il passaggio di San Francesco che arrivava da Testona, che già preesisteva, ed è probabilmente in quell’occasione che si colloca la fondazione del convento.
Lo stesso Napoleone Bonaparte, che sopprime gli ordini religiosi per evitare sollevazioni popolari, decide di non mandare via i frati Francescani; esproprierà sì il convento, ma l’uso della chiesa verrà loro lasciato. L’esproprio del convento fa sì che già all’epoca di Napoleone lo stesso venisse utilizzato come scuola. Si presume quindi che Re Carlo Alberto prenda spunto da quanto fatto in precedenza e continui con lo stesso progetto; il problema sarà la presenza dei Francescani, con i quali verrà avviata una trattativa che porterà l’ordine a trasferirsi ad Avigliana.
Matteo Martini PhotographyA questo punto, trovati la città e l’edificio, rimane la decisione a chi affidare l’istruzione. La scelta cadrà sui Padri Barnabiti, in quanto questi erano già gli istitutori dei Savoia e infatti gli stessi Vittorio Emanuele e Ferdinando erano educati al castello proprio da un padre Barnabita. Nel 1838 viene ufficialmente aperto il collegio.
I Barnabiti arrivano a Torino nel 1609 quando il Duca Carlo Emanuele I concede loro l’uso della chiesa di San Dalmazzo in via Garibaldi, della quale si sono occupati fino all’anno prima.
I padri andranno poi nel corso del 1700 a sostituire i Gesuiti nel Collegio dei Nobili a Torino. Questo perché avevano una formazione didattica molto particolare ed efficace, apprezzata dalla borghesia di allora. Al momento dell’apertura nel Collegio erano presenti circa 15 padri barnabiti, il resto degli insegnanti erano docenti anche laici.
Oggi a Moncalieri ci sono soltanto 2 Padri Barnabiti e l’ordine conta circa 350 padri nel mondo.
La struttura originaria era a forma di C, con un braccio principale e due laterali; sulla base di questo vengono progettate delle trasformazioni cercando di acquisire le due proprietà adiacenti, ma soltanto l’acquisto di una andrà inizialmente in porto.
Per la seconda occorrerà aspettare gli inizi del 1900, quando l’edificio prenderà la forma definitiva di una E. Al termine dei lavori verrà aperto l’odierno ingresso e lo stesso sarà poi decorato dal pittore Angelo Moia con la rappresentazione delle materie di studio offerte: la geografia, la matematica, le scienze e la musica. Angelo Moia fu anche l’artista che decorò la Biblioteca Reale di Torino.
Elisabetta Cabiddu Photography Domenico Ianaro PhotographyCon i lavori di trasformazione alcuni locali furono destinati ad altri usi; in particolare la Sala Rossa, che è quella dove precedentemente c’era la cappella e che originariamente era dipinta in stile neogotico, nella nuova destinazione acquisì uno stile neo-rinascimentale.
Sono presenti ancora oggi immagini dell’apparizione di San Paolo Apostolo a un gruppo di convittori e la chiamata di Gesù ai bambini. In questa sala troviamo i cimeli appartenuti a Re Carlo Alberto e donati nel 1938 da Re Vittorio Emanuele III e dalla consorte Regina Elena del Montenegro per i 100 anni dall’istituzione del Real Collegio; si tratta di cimeli particolari rappresentati dalla bandiera, la spada, nonché dalla camicia e le forbici per tagliare i baffi.
Sempre qui sono presenti mobili dell’epoca Carloalbertina realizzati da Gabriele Capello su disegno di Pelagio Palagi, che molto probabilmente arrivano dal castello di Moncalieri; è presente anche un ritratto della principessa Maria Letizia donato nel 1908 quando si è diplomato suo figlio il Conte di Salemi, Umberto.
In questa sala, ma non solo, sono inoltre presenti oltre 100 ritratti che raffigurano i cosiddetti “Principi degli Studi”: chi tra gli studenti del collegio, la cui frequentazione al collegio era di otto anni (cinque di scuola elementare e tre di scuola media), eccelleva in tutte le materie, aveva l’onore e l’onere di far realizzare un proprio ritratto da collocare all’interno del Real Collegio.
Tra questi spicca quello realizzato da Pellizza da Volpedo.
Domenico Ianaro PhotographyNella Sala Gialla troviamo nella prima parte decorazioni ottocentesche con stile parzialmente neo-barocco, mentre sul fondo le ultime due campate presentano decorazioni con elementi più moderni, come sci, ciaspole, elica e sistema radio per aviazione e dal lato opposto decorazioni rappresentanti gli sport più moderni, quali golf, tennis e tiro con arco; sul fondo della sala troviamo un trittico della fine del 1800 che rappresenta le tre sedi a disposizione del Collegio Carlo Alberto: la casa marina a Novi ligure, lo stesso edificio di Moncalieri prima dell’acquisizione delle proprietà adiacenti e la residenza di Montaldo, che era la cascina agricola.
A Montaldo venivano anche mandati gli studenti che risultavano indietro con l’apprendimento.
Cinzia Carchedi PhotographyNella Cappella troviamo le tre lunette situate nell’abside che risalgono alla seconda metà dell’ottocento e sono opera di Enrico Reffo; un’acquasantiera; una grande tela ovale che raffigura Sant’Antonio Maria Zaccaria, che nel 1530 aveva fondato, insieme ad altri confratelli, la congregazione dei Chierici regolari di San Paolo poi chiamati Barnabiti dalla chiesa di San Barnaba a Milano.
Nel collegio sono inoltre presenti il teatro, la palestra, la sala da biliardo, campi sportivi nelle aree sul retro, nonché le camere, che erano singole e ubicate su 2 piani (gli alloggi erano su due livelli e al piano inferiore si trovava anche l’aula di studio comune), in cui soggiornavano gli studenti le cui famiglie abitavano lontano dal collegio.
Gerardo RainonePhotographyAi piani superiori troviamo nelle varie vetrine gli strumenti scientifici che venivano utilizzati durante le lezioni; infatti era prassi di studio che non fosse insegnata soltanto la teoria, ma che la stessa venisse legata alla pratica.
Per questo sono presenti anche varie collezioni, tra le quali una mineralogica, entomologica, di conchiglie da tutto il mondo, nonché una collezione ornitologica di circa 500 esemplari che fu donata al Collegio dal principe Re Umberto II; non manca la collezione archeologica di padre Bruzza, che però non si trova al Collegio, ma nella residenza accanto dei padri Barnabiti.
Cinzia Carchedi Photography Anna Gadaleta PhotographySempre nell’ambito dell’uso della dimostrazione pratica nell’insegnamento è da rilevare quello che costituisce une vera sorpresa all’interno ai locali del Collegio: in fondo al magnifico scalone principale, si trova un pendolo di Foucault perfettamente funzionante; grazie ad esso gli studenti potevano constatare il moto terrestre e la sua rotazione intorno all’asse.
Salendo ancora nell’edificio si arriva alla Specola di padre Francesco Denza; questi, appassionato di meteorologia, diventa già a 20 anni maestro al Real collegio e da subito istituisce un osservatorio meteorologico; dal 1866 comincia la pubblicazione del bollettino che ancora oggi viene pubblicato.
Data la continuità nel tempo e la costante spaziale, esso costituisce una delle rilevazioni più affidabili in materia. Nella torretta è possibile ammirare lo studio e la biblioteca di padre Denza e salendo ancora troviamo gli strumenti di misurazione e poi ancora la terrazza.
Ancora oggi la specola è attiva e il Dott. Luca Mercalli, che si occupa della misurazione a distanza da Roma, ogni tanto viene al Collegio per verificare la calibrazione degli strumenti.
Elisabetta Cabiddu Photography Cinzia Carchedi PhotographyNei vari corridoi troviamo varie esposizioni, tra cui una lapide che ricorda gli studenti caduti nella seconda Guerra d’Indipendenza, la guerra d'Africa e la Prima Guerra Mondiale; una dedica a Papa Giovanni XXIII, che fu ospite del collegio nel maggio del 1950, nonché le fotografie di classe dell’ultimo anno di corso dal 1858 al 1987.
Con la crisi arrivata dopo la Seconda Guerra Mondiale il Collegio è stato aperto anche alle ragazze e agli studenti anche solo per la frequentazione delle classi elementari. Chi scrive infatti ha frequentato parte di queste classi presso il Collegio, con un ricordo di un ambiente molto austero e diligente e di un’intransigente severità da parte dei docenti.
Il Real Collegio chiuse definitivamente nel 1998.
Con la chiusura i Padri Barnabiti si trasferirono nella residenza accanto portando con loro la biblioteca e la collezione archeologica.
L’unico collegio Barnabita ancora oggi in attività è a Lodi.
Allo stato attuale il Real Collegio è di proprietà dei Padri Barnabiti, che hanno stretto un accordo con l'associazione Amici del Real Castello e del Parco di Moncalieri per la gestione delle visite. Noi lo abbiamo visitato grazie a Giulia, guida dell’associazione, che ci ha accompagnato lungo le sue sale, e che ringraziamo.
Nella settimana dell'11 luglio all’interno del Real Collegio è stata inaugurata una mostra dedicata ai Carabinieri durante l’epoca monarchica, vale a dire dalla data di fondazione dell’Arma nel luglio 1814 fino al 2 giugno 1946; la mostra, terminata il 10 settembre, ha quindi arricchito il percorso di una interessante serie di divise d’epoca.
Maurizio Anfossi Photography Anna Gadaleta Photography INFOSpesso non bisogna allontanarsi tanto dalla propria zona di comfort per vedere delle curiosità a cui non si sarebbe pensato se non si fosse a gironzolare in buona compagnia.
La Liguria, oltre a splendidi scorci paesaggistici di mare e monti, offre anche curiosità culturali a portata di mano di qualunque turista che si rispetti.
E’ questo il caso di Villa Grock, situata a Imperia a pochi passi dalla zona centrale della città in posizione sopraelevata rispetto al mare. La villa si raggiunge a piedi e in auto, ma il mezzo più comodo è la navetta gratuita messa a disposizione dall’organizzazione che gestisce il Museo del Clown La navetta parte da Piazza Dante e fa servizio continuo durante gli orari di apertura della struttura.
Il tragitto in navetta dura pochi minuti e si arriva all’ingresso, dove è situato il botteghino per comprare il biglietto.
Da questo punto inizia il percorso nel giardino fiabesco nato dal genio di Adrien Wettach, in arte Grock.
Nel parco sono presenti diverse varietà di piante e alberi tipici dei giardini storici della Riviera, dai cedri del Libano alle magnolie, dagli abeti agli olivi, per finire con le palme.
Tutti i sentieri del parco portano verso la villa, ma in primis, si viene attirati da una terrazza da cui si può ammirare un piccolo lago, al cui centro si trova un’isoletta.
Attraverso un ponticello ad arco si raggiunge il piccolo tempio di foggia esotica ornato da decorazioni minuziose e particolari. Non mancano i giochi d’acqua che ravvivano il laghetto e creano una scenografia in perenne movimento intorno all’isoletta.
Già dopo pochi minuti Villa Grock incanta il visitatore. A lato del laghetto c’è una struttura che sorregge il palco della terrazza.
E’ ornata da finestre di vetro colorato e, al suo interno, nasconde opere che si possono ammirare solo attaccando il naso al vetro.
A fianco alla scalinata che porta alla villa si apre un porticato con colonne dalle forme simili alle clave dei clown. Finemente decorato, attira l’attenzione per il cesello sul muro e per i disegni stilizzati sulla destra delle scale.
Non rimane altro che salire l’imponente scalinata, dalla base della quale si vede Villa Grock in tutta la sua magnificenza.
A lato, sulla nostra destra, ci accoglie un’immagine in bianco e nero del clown; se guardiamo in alto, poi, scorgiamo un’altra faccia clownesca sotto la cupola della torretta.
Due scale dalla forma ellittica abbracciano un dipinto che annuncia al visitatore di essere arrivato al Museo del Clown.
L’architettura e le decorazioni sono cariche di simbolismi, sono intrinsecamente legate alla personalità di Grock e indissolubilmente connesse alla storia del suo proprietario.
Salendo le scale della villa si arriva all’ingresso della fantastica dimora di Grock.
Girandosi verso il parco lo scorcio del verde e del laghetto offre al visitatore una visione a più livelli del luogo. Entrando si scoprono gli altri livelli.
Ma, prima di fare il primo passo all’interno della villa, si deve alzare lo sguardo al soffitto del porticato.
Pur non essendo perfettamente mantenuto l’affresco assomiglia a una notte stellata.
Potrebbe anche raffigurare qualcosa di più misterioso, potrebbe avere un significato esoterico nascosto?
Uno dei misteri della villa e del suo proprietario enigmatico.
Varcata la soglia ci troviamo nel foyer, che ospita foto e immagini di clown, nonché un busto di proprietario della villa; si entra così nel Museo del Clown, con i suoi percorsi interattivi che portano adulti e bambini a immergersi nel fantastico mondo di Adrien, nell’arte di Grock.
Villa Grock risorge grazie a un percorso museale e culturale unico al mondo, un percorso immersivo basato sulle nuove tecnologie. Alla base del percorso sono state tenuti in considerazione alcuni concetti fondamentali: l’interattività, l’immersività e l’autonomia del visitatore.
La creatività è l’anima della villa; l’espressività è padrona di questo luogo inaspettato dove spalancherete gli occhi come se foste Alice nel paese delle meraviglie.
Adriana Oberto PhotographyOgni sala è stata concepita con una sua logica ed è dedicata a un argomento caratteristico, sia questo un trucco o una magia.
Sala del Cinema
Si inizia dalla Sala del Cinema, dove si possono visionare spezzoni di film e interviste fatte a diversi clown famosi.
E’ qui che il visitatore riceve le prime informazioni ed entra, per così dire, nell’atmosfera necessaria alla continuazione della visita.
Sala della Musica
La Sala della Musica ospita una postazione interattiva, una base ovale suddivisa in 4 porzioni.
Su ognuna si trova la riproduzione degli strumenti musicali suonati da Grock, che, come detto in precedenza, era anche un abile musicista.
Attraverso alcuni pulsanti si attivano le melodie suonate da quel particolare strumento.
E’ possibile premere più di un pulsante, cosa che darà vita a una sinfonia.
Delle sfere colorate si accendono in sincronia alle melodie.
Le sfere ricordano i lampioni nel parco della villa.
Adriana Oberto PhotographySala delle Meraviglie
La Sala delle Meraviglie ci stupisce con una Wunderkammer. E’ una struttura a pianta ottagonale con due lati aperti che permettono il transito dei visitatori.
Il pavimento è concepito come superficie illusoria su cui si proiettano luci colorate che cambiano di continuo. Il livello di immersività non termina qui: sulle pareti esterne sono posizionate delle “serrature”, che altro non sono che aperture da dove si può spiare avvicinando l’occhio. Si vedranno immagini animate del mondo dei clown.
All’interno invece sono presenti specchi magici che modificano le figure che vi si specchiano … un modo per far ridere il visitatore.
Sala del Re Giullare
La Sala del Re Giullare, che altro non è che un pianerottolo, rappresenta l’antitesi tra un re e un pagliaccio.
In sostanza il clown può diventare il re della festa, fingersi uomo di potere e far diventare reale ciò che in effetti è immaginario.
Su un telo viene proiettato il film “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin che impersona una figura terrificante della nostra storia, sapientemente messa in ridicolo dal famoso attore.
Monica Gotta PhotographySala del Baule
La Sala del Baule ci presenta la trasformazione del clown attraverso la vestizione.
Il baule è il contenitore del mondo magico.
Alcuni specchi multimediali riconoscono le immagini e i movimenti dei visitatori e riproducono una figura vestita da clown.
Sala del Trucco
La Sala del Trucco fa provare l’emozione dello scambio di volto. Il nostro viso diventa quello truccato di un clown.
Anche qui degli specchi multimediali e la presenza di una tecnologia di realtà aumentata proiettano sul volto del visitatore varie tipologie di trucco clownesco.
Sala della Scatola Magica
La Sala della Scatola Magica ospita una riproduzione della macchina del folioscopio, antesignano del cinema moderno (1894).
Un rullo, dove sono fissate delle fotografie di un soggetto, azionato meccanicamente dà l’impressione del movimento. Guardando nella scatola magica si vedrà l’espressività del clown.
Teatro dei Simboli
Il Teatro dei Simboli è un’ambiente misterioso, dedicato alla personalità esoterica di Grock.
L’installazione ha forma di spirale e è un percorso da percorrere. Ogni opera è un’immagine olografica che rivela un simbolo e la sua rispettiva interpretazione iconografica nel mondo dell’arte.
Anche questa è magia, una magia che rivela anche una forma di conoscenza, una magia legata all’arte.
Sala del Riso
Nella Sala del Riso c’è una struttura a pianta rettangolare che riproduce le sagome stilizzate di pagode ispirate allo stile dell’architettura di Villa Grock.
Nelle aperture pendono dei fili con attaccate delle palline colorate. Tirando il filo si attiva un effetto sonoro che riproduce una risata. In questo caso l’esperienza immersiva è di genere sonoro.
Monica Gotta Photography Monica Gotta PhotographyGiostra Magica
La Giostra Magica, in un display sotto vetro, espone alcuni modelli di giostra perfettamente funzionanti.
Sala del Circo
La Sala del Circo riproduce la pista circolare del circo.
I visitatori sono invitati a focalizzare la propria attenzione sulle pareti che si animano riproducendo scenari con la tecnica delle ombre cinesi.
Adriana Oberto Photography Monica Gotta PhotographyTutto il percorso all’interno delle sale, alla fine, porta alle terrazze sulla sommità della villa dove si apre una vista davvero unica su Imperia.
Considerando gli orari di apertura della villa durante l’estate e, in particolare, durante il fine settimana, si arriva sulla terrazza all’ora del tramonto la cui luce rende ancora più emozionante l’attimo in cui il panorama della riviera ligure si apre sotto i nostri occhi.
Questo è un motivo in più per scegliere quest’orario e l’attesa dell’accensione delle luci nel parco.
Si potrà in tal modo procedere alla visita alla luce del giorno e godere poi dell’atmosfera creata dalle luci artificiali nel parco in una sola visita.
Villa Grock portava un altro nome, Villa Bianca. I lavori di costruzione durarono dal 1927 al 1930 e richiesero molta mano d’opera. Durante i lavori Adrien Wettach realizzò anche un efficiente sistema idrico privato, degno di una mente ingegneristica e il primo impianto termico con generatore alimentato a diesel in Liguria.
La villa divenne e fu dimora di Adrien, il più grande clown del '900. Grock le donò questa veste creativa che oggi vediamo, mista a un’atmosfera da circo che testimonia la sua straordinaria personalità. La villa porta in sé influenze di stile Liberty che si amalgamano con le idee eclettiche del proprietario. Non sfuggono infatti i dettagli architettonici di colonne, balaustre e lampioni che richiamano fortemente il mondo circense. L’eccentricità non manca neanche negli arredi, testimoni del particolare gusto di Grock per gli oggetti rari e inusuali – per l’epoca.
La morte di Grock nel 1959 segnò l’inesorabile degrado della villa. I costi per il mantenimento dell’imponente villa erano eccessivi per la vedova del “Re dei Clown”. Per nascondere al mondo il decadimento della proprietà furono innalzati dei cancelli pensati per evitare il turbamento che ne derivava, per celare ai vicini ciò che rimaneva della “fu grandiosità” della villa.
Nel 1974 la figlia Bianca affidò l’immobile e quanto in esso contenuto a una società immobiliare che mise tutto all’asta. Ciò segnò la fine della leggenda del grande clown. Passarono molti anni a alla fine la Provincia salvò l’immobile acquistandolo nel 2002. Ne seguì una lunga ristrutturazione: prima furono riaperti al pubblico i giardini (2006) dopodiché anche il palazzo fu nuovamente visitabile (2010). Attualmente nelle stanze non esiste più il mobilio originale, andato perso all’asta o forse trafugato.
Nel 2013 fu allestito il Museo del Clown, un museo interattivo che guida il visitatore nella magia del circo e lo porta a conoscere la figura del clown, un personaggio sempre più raro al giorno d’oggi. Sarebbe un peccato perdere una tradizione che alcuni dicono essere nata durante le grandi feste – le Dionisie - in onore del Dio greco Dionisio.
Tuttavia l’origine della figura del clown, dal buffone al giullare, è ancora imperscrutabile … è una storia che attraversa i secoli, la storia dalle sue origini più remote, una storia che vale la pena di scoprire e avvalora il mistero che circonda la villa del grande Grock!
Chi è Grock
Adrien Wettach nacque in Svizzera nel 1880.
“Ero solo un ragazzino, avevo appena sei anni. Mia zia mi portò al circo. Vidi un clown balzare dal tavolo con un salto mortale. E così fu. Divenni clown...”
Di lui si sa che fu un artista dai mille talenti.
Fu giocoliere, acrobata, musicista in grado di suonare ben 14 strumenti ed edotto nelle lingue straniere, di cui ne parlava ben 8. la sua attività di clown ebbe inizio a Budapest, dove lavorava come accordatore di strumenti e musicista.
Nel 1919 al Teatro Olympia di Parigi fu consacrato "Re dei clown". Durante i suoi spettacoli Adrien incantò ed entusiasmò il suo pubblico e divenne presto una leggenda in tutto il mondo.
La sua fama duratura resistette finché non diede l’addio alle scene nel 1954. I suoi partner di scena duravano ben poco a causa del suo carattere “burrascoso”. Nel 1923 sposò la cantante d’opera italiana Ines Ospiri; sempre in quegli anni arrivò a Imperia per caso in occasione di una visita ai suoceri e se ne innamorò tanto da acquistare una casa con il terreno circostante. Inizialmente lo scopo era quello di acquistare una dimora per le vacanze. Demolì la casa originaria, progettò quella nuova personalmente e nei minimi dettagli. Fu il geometra genovese Armando Brignole a realizzare le fantasie di Adrien. La villa divenne poi la sua residenza stabile fino al momento della sua morte avvenuta nel 1959. Ancor oggi Adrien sorride a tutti i visitatori della sua dimora.
Grazie alla sua fama, Grock venne contattato dai sovrani, politici, artisti e sportivi del suo tempo. Re Giorgio V lo nominò “Artista della Reale Corte Inglese”; Wiston Churchill “ lo chiamava “il Nostro Grande Grock”; si esibì per il re Vittorio Emanuele II e Alberto I del Belgio; incontrò Hitler e Goebbels, conobbe artisti del calibro di Dalì e Picasso e addirittura Charlie Chaplin gli disse: “Se io sono il migliore sullo schermo, tu sei il più grande sul palcoscenico!”
“Il genio dell’essere Clown è di trasformare i piccoli fastidi quotidiani in qualcosa di strano... Far nascere l’allegria dal niente e con meno di niente”
“...Il mio nome di nascita non conta più. Io sono Grock.
L’altro è il nome degli anni oscuri…”
Per concludere sveliamo una curiosità. Chi non conosce Michael Jackson?
Direi che tutti sappiamo di chi si tratta e tutti ricordiamo uno dei suoi più grandi successi – “Thiller”.
La villa è un luogo talmente affascinante e particolare che ha ispirato l’idea di ambientare qui la coreografia di un pezzo tra i più famosi al mondo.
Nel 2015, infatti, Villa Grock è stata scelta come set per il remake ufficiale del grande successo del cantante statunitense.
Le aiuole della villa hanno ospitato le tombe del cimitero e gli zombi dai vestiti laceri hanno ballato sulle note del celebre pezzo musicale.
Villa Grock custodisce ancora i suoi misteri. Se la si guarda da fuori porta una “maschera”; se la si guarda da dentro la visione cambia radicalmente. Questa “maschera” riflette forse una persona con le sue emozioni, contraddizioni e sicuramente segreti non ancora svelati.
La villa, come il suo creatore, porta in sé una duplice chiave di lettura. Una chiave esteriore, visibile negli elementi architettonici, e una seconda più fiabesca ed esoterica che si rivela in alcuni elementi di natura filosofica. Visitatela e ognuno scelga la chiave che preferisce.
Vicende e dipinti della cupola ellittica più grande al mondo
Le varie sfumature dei verdi della campagna cuneese, dei bianchi e dei rosa della fioritura collinare, dei gialli dei campi dorati dal sole rallegrano ancor più i nostri cuori, già palpitanti per la straordinaria avventura che stiamo per affrontare.
Ė poi sufficiente voltarsi all’indietro per restare abbagliati dalla neve che ancora brilla sulle cime delle Alpi, sebbene la curiosità, l’attesa sia tutta rivolta alla nostra meta, quel capolavoro del Barocco piemontese che è il Santuario di Vicoforte.
Stiamo ancora ammirando la folta vegetazione che attornia cascine e greggi quando, al di là di una macchia di tigli, ci appare, svettando in tutta la sua fastosità, il Monumento che ci preannuncia l’impresa assolutamente unica a cui stiamo per dare inizio.
È stata battezzata “Magnificat”, perché mirabile è il percorso che effettueremo, gradino dopo gradino, in quell’opera costruita, a partire dalla fine del XVI secolo, con l’intenzione di ospitare le tombe dei Savoia.
Indossando elmetto e imbrago, saliremo difatti di 60 metri sino alla sommità di quell’eccezionale struttura, ammirando da vicino gli affreschi della maestosa cupola, la più grande al mondo di forma ellittica.
E sarà proprio a quell’altezza, su quella cima, che più tardi avremo modo di emozionarci di fronte a… no, forse è preferibile non lasciarci travolgere dall’entusiasmo e non descrivere ciò che ci attende alla fine, procedendo per ordine senza anticipare i tempi.
Narreremo pertanto un po’ di storia del Santuario, passo dopo passo, gradino dopo gradino…
Se si considera che la più grande cupola circolare si trova nel Pantheon di Roma, la seconda in Vaticano, la terza a Firenze in Santa Maria Maggiore, e la quarta in India, stupisce che la quinta sia quella di Vicoforte, ed è ancora più sorprendente che, mentre le prime quattro sono a base circolare, la sua sia ellittica (l’asse maggiore è di 37 metri e il minore di circa 25), e che un’opera di queste levatura e dimensione si trovi in una cittadina di 5000 abitanti sperduta nella valle di Cuneo.
Non ci si meraviglierebbe, però, se si sapesse che quando, nel Cinquecento, il Santuario è stato costruito, Vicoforte godeva di notevoli vantaggi di natura sia culturale sia commerciale, soprattutto perché confinava con Mondovì - sotto la cui diocesi sorgeva la prima università - e che, per importanza, era la seconda città del Ducato di Savoia.
Lorena Durante PhotographyTrovandosi inoltre sulla Via del Sale, costituiva una tappa obbligata per le merci che dal mare dovevano raggiungere l’entroterra per raggiungere le Alpi e la Francia; per tale ragione, essendosi il Duca Carlo Emanuele I di Savoia interessato e attivato per il fiorire di questo commercio, una sua statua è stata eretta nella piazza prospiciente al Santuario.
Esiste anche un altro motivo per cui si è inteso onorare con questo monumento il Duca, il quale, al di là di questi aspetti commerciali, rivolgeva i propri interessi anche verso la cultura e nel 1596, in virtù del suo primo testamento redatto alla fine del Cinquecento, aveva disposto la trasformazione di quella che doveva essere una piccola cappella di campagna nel mausoleo di famiglia.
In realtà, i suoi successori avrebbero poi spostato tale destinazione alla Basilica di Superga a Torino e soltanto il Duca resterà sepolto nel Santuario sino alla metà del Seicento, mentre dal dicembre del 2017 le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena riposano con la sua nella cappella di San Bernardo.
Siamo venuti a conoscenza delle origini del Santuario da una preparatissima Guida mentre, prima di cominciare la vera e propria avventura, ci concediamo una pausa non soltanto per ammirarne la struttura, ma per distinguerne in special modo le fasi costruttive, che hanno impiegato oltre trecento anni prima di essere ultimate.
Monica Pastore Photography Adriana Oberto PhotographyTutto ha quindi inizio nel 1596, e vent’anni dopo verrà finita la parte basamentale – 14 metri d’arenaria chiara con la sezione del timpano triangolare -.
Ci sarà poi un intervallo durato ben quasi un secolo, dopodiché fra il 1701 e il 1732 ci si dedicherà alla sezione in mattoni rossi in stile barocco che sostiene sia la cupola sia la lanterna.
Le interruzioni continueranno però a susseguirsi e il cantiere terminerà solamente a fine Ottocento, difatti dal 1882 al 1884 verranno completate le quattro torri e le retrostanti, identiche a quelle che abbiamo osservato dalla piazza. C’è un’unica differenza: la torre di destra che sta dietro ha le campane al suo interno, pertanto si tratta di una torre campanaria.
Un’ultima modifica ha riguardato il tetto, dove si nota una calotta azzurro-verdastra in rame, che in ogni caso non costituisce la copertura originale, perché il tetto settecentesco era in malta e coppi, molto simile a quella del monastero accanto al santuario della Palazzata da cui stiamo per partire.
Dal momento che la chiesa aveva subito problemi strutturali molto gravi, si è dovuti ricorrere, a fine Ottocento,
all’alleggerimento dei pesi superflui, che ha significato smantellare malta e coppi per sostituirli con un tetto in legno di castagno e rame.
Tali materiali leggeri hanno consentito alla Chiesa di mantenersi bene sino ai più moderni restauri avvenuti a fine Novecento, che l’avrebbero restituita non soltanto all’attuale splendore, ma anche e soprattutto alla presente stabilità strutturale.
Ė dopo questa “osservazione” avvenuta nella piazza, completata dalle suddette informazioni, che entriamo finalmente nel Santuario cosicché, come abbiamo detto prima, gradino dopo gradino, passo dopo passo…
… Ci troviamo a circa quindici metri d’altezza, che è un punto privilegiato per poter ammirare il fulcro devozionale del Santuario: il pilone votivo che si vede dalla finestra a cui ci affacciamo, incastonato nell’altare centrale della Chiesa.
Ed è proprio quest’atmosfera davvero magica che, avvolgendoci, fa affiorare un alone fiabesco, quindi…
Si racconta che l’origine del pilone sia legato a una leggenda e ci piace riferirla dandole il dovuto credito. Secondo la narrazione, alla fine del Quattrocento un uomo che possedeva una fornace di mattoni sul territorio non riusciva a mantenere acceso il fuoco del forno pertanto, disperato per la situazione in cui si trovava, si era rifugiato nella Fede facendo un voto alla Vergine Maria.
Ottenuta la grazia, il fuoco rimase sempre acceso quindi l’uomo, per sdebitarsi dal salvataggio avvenuto sia per l’attività che per la sua famiglia, con la prima cottura di mattoni buoni fece edificare questo pilone votivo (piloni simili li vediamo peraltro sparsi un po’ per tutta la campagna), a base quadrata, e su una delle facciate fece dipingere una Madonna col Bambino.
La leggenda vuole che per i primi tempi la famiglia del fornaciaio lo abbia curato e protetto, ma col passare del tempo e man mano che gli affari progredirono se ne occupò sempre meno, finché lo abbandonò. Dal momento che era stato costruito al centro di un bosco, in breve tempo venne ricoperto dalla vegetazione e si dice che persino la popolazione di Vicoforte se ne dimenticò. Verrà riscoperto dopo ben un secolo, quando il cacciatore Guido Sarzano, mentre sta inseguendo un animale, spara un colpo di archibugio, ma il tentativo di colpire la bestiola fallisce e, per cercare il proiettile, nel districare rovi e fogliame si accorge di aver colpito l’immagine sacra di Maria proprio al ventre.
Si può immaginare lo stupore del cacciatore quando, subito dopo, da quelle scalfitture vede uscire addirittura delle gocce di sangue.
Ovviamente, quando non si possiede alcuna prova, anche la Chiesa tentenna nel definire “miracolosi” questi prodigi passati di bocca in bocca, tuttavia, colpire l’immagine della Vergine al ventre pare assuma un forte significato simbolico, ed ecco che nasce la profonda devozione verso quel luogo, che nell’arco di pochi anni diventa meta di migliaia di pellegrinaggi.
Questo fenomeno spinge pertanto il vescovo Catrucci di Mondovì a far edificare accanto al pilone una piccola cappella che, se velocemente diventerà una chiesetta a tre navate, avrà però breve durata, in quanto il duca Carlo Emanuele I di Savoia, scoprendo l’importanza strategica del territorio - e intendendo ribadire il proprio controllo su quelle terre importanti e indipendenti -, appena quattro anni dopo la riscoperta del pilone votivo finanzierà un nuovo progetto, posando la prima pietra del Santuario nel 1596.
Ė con innegabile emozione che da quella finestra riusciamo a identificare il pilone votivo, uno dei pochi particolari illuminati nel Santuario; ciononostante, siccome una luce a led lo illumina dal basso verso l’alto, non possiamo vedere il volto di Maria, ma soltanto la parte centrale dell’affresco: la mano, il piede e soprattutto la scalfittura prodotta, secondo la leggenda, dal proiettile.
Se la prima sala è stata dedicata alle leggende e ai miracoli, l’austerità del luogo ci suggerisce di ripercorrere, anche se brevemente, altre tappe storiche.
Si è detto che a fine Quattrocento viene costruito il pilone votivo, dimenticato però per un secolo, sebbene non sia mai venuta meno la devozione, soprattutto perché le prime ondate di pestilenza e in particolare di colera che hanno invaso l’Europa a fine Ottocento hanno fatto sì che si sia cercato conforto e aiuto nella religione.
Non potevano certo mancare gli appelli alla Madonna del pilone, attribuendole grazie e miracoli e suscitando per tale ragione, come già detto, l’interesse dei Savoia che quando, nel 1596, hanno preso a cuore il progetto del Santuario l’hanno affidato all’architetto della Casa Ascanio Vitozzi.
Questa figura era sì esperta e competente, ma in quel periodo molto impegnata nel riprogettare l’impianto monumentale di piazza Castello e di via Roma.
Di conseguenza, non gli era possibile effettuare i necessari controlli su un cantiere “soltanto” di provincia e i lavori non andavano solamente a rilento, ma le problematiche soprattutto strutturali che presentavano venivano risolte in maniera inadeguata.
L’architetto muore nel 1615 e il cantiere si arresta quasi totalmente; purtroppo soltanto nel corso degli anni seguenti si tenterà di riaprirlo, ma senza fare i conti con quel secolo afflitto da disgrazie.
Difatti, dopo il Vitozzi nel 1630 muore anche il Duca, vittima di quella peste descritta dal Manzoni ne “I promessi sposi” che falcidia mezza Europa e non risparmia neppure Vicoforte.
Barbara Tonin PhotographyNegli anni ’80 e ’90 è poi la volta dello scoppio delle guerre del Sale, delle ribellioni contro tutti e i dazi delle gabelle che i Savoia impongono sui commerci di quei territori. L’ultimo conflitto sul sale termina nel 1699 e vi saranno soltanto due anni di pace in collaborazione con i nobili della Casata, che a onor del vero, al di là degli interessi che facevano loro gola, avevano odiato queste terre e ne erano stati odiati.
Un colpo di fortuna arriva però con la comparsa dell’architetto monregalese Francesco Gallo, ottenendone un grande vantaggio perché, contrariamente ai due controlli effettuati in vent’anni dal Vitozzi, questo nativo di Mondovì staziona costantemente nel cantiere. Nonostante ciò, i suoi contemporanei lo considerano troppo giovane per i suoi ventinove anni, pertanto inadatto e incapace a completare un’opera di tale portata. Gallo non intende tuttavia arrendersi, è caparbio e si reca a Roma, dove nel secolo precedente si erano costruite diverse cupole ellittiche che, pur essendo di minori dimensioni, gli possono dare un’idea su come erigerne una più grande.
Al rientro a Vicoforte modifica il disegno originale di Vitozzi, trasforma quella che il primo architetto considerava già una cupola ellittica, pur essendo piccola, mentre nei suoi calcoli la sezione già costruita avrebbe dovuto sostenere 37 metri per 25.
Nessuno fra i suoi collaboratori, fra i committenti, fra la manovalanza, crede possibile realizzare tale progetto, tuttavia i lavori procedono anche in ragione del fatto che nel 1728 i documenti attestano che si sia presentato Filippo Juvarra – allora architetto di casa Savoia – che controlla e valuta, nel corso di qualche giorno, i disegni di Gallo, senza riscontrarvi alcun difetto.
Il monregalese è quindi spronato a procedere nel costruire, all’interno dell’edificio, un gigantesco ponteggio costituito da sei pilastri in muratura che raggiungono i 30 metri - partendo dalla base della chiesa -, da cui 48 centine in legno vanno a riproporre la forma interna della cupola stessa, costruita sopra mattone dopo mattone. Il suo spessore, formato da mattoni pieni e malta, è talmente notevole da richiedere sei-sette mesi prima di far rimuovere il sottostante ponteggio che, essendo già terminata la cupola nell’ottobre del 1731, verrà stabilito per il 22 maggio 1732.
Quel giorno l’architetto Gallo arriva di prima mattina, ma non ha fatto i conti con i dubbi e le paure dei suoi uomini e non trova nessuno. Sono tutti terrorizzati dall’idea, e convinti, che la cupola crollerà su se stessa nel momento in cui verrà rimosso il ponteggio.
Si potrebbe definirlo uno sciopero ante litteram, perché gli operai si rifiutano di presentarsi al lavoro per non rischiare una morte decisamente violenta.
Si racconta che Gallo abbia infine convinto familiari e amici a posizionarsi sotto il ponteggio e lui stesso, armato di fede e di coraggio, si sarebbe trovato nella navata nel momento in cui impartiva l’ordine agli uomini, costringendoli a dare inizio ai lavori di smantellamento.
Dalle fonti dell’epoca risulta che, a cantiere animato, si udirono gli scricchiolii prodotti da assi e collanti, finché il tutto venne sovrastato da un boato terrificante.
A dire il vero, possiamo affermare trattarsi del boato di assestamento, dovuto al fatto che nel momento in cui la cupola non si è più appoggiata al ponteggio ha iniziato a scaricare i pesi sulle mura perimetrali.
Non è difficile mettersi nei panni di quegli uomini che, a metà Settecento, odono lo scricchiolio di una struttura sulle proprie teste. Si racconta di un fuggi fuggi generale, sebbene la cupola avesse retto, in virtù della serie di accorgimenti strutturali studiati da Gallo in fase di costruzione.
Ne abbiamo semplificato il disegno, rappresentandolo come se fosse una calotta, mentre in realtà la cupola, a livello strutturale, è più simile a una campana.
Tre gradoni la aiutano a scaricare i pesi sulle mura perimetrali per impedirle di gravare verso il centro della struttura.
Tecnicamente parlando, la si definisce rastremata, pertanto lo spessore murario si va restringendo e, pur superando i tre
metri alla base, nel punto in cui si innesta la lanterna si limita a 90 centimetri, un ulteriore aiuto a permettere di equilibrare il peso sulle mura perimetrali e non sul cuore della struttura.
Si può constatare che, all’interno, Gallo la lascia perfettamente liscia. Si tratta di 6032 metri quadrati di superficie che accoglieranno, negli anni successivi, il ciclo pittorico a tema unico più grande al mondo.
Prendendo in considerazione le date, può sembrare che siano occorsi vent’anni per ottenerlo, mentre in realtà di lavoro effettivo ce ne saranno soltanto sei, perché solamente nel 1746 verranno ingaggiati Felice Biella e Mattia Bortoloni che riusciranno, dopo una serie di fallimenti, a completare quella che si era cominciato a ritenere un’altra impresa impossibile per questo edificio.
Sarà poi a fine Ottocento che verranno effettuate altre modifiche, se si esclude che in quegli anni verranno completate e rimodernate le Quattro Torri e modificato il tetto.
Tutto ciò a causa dei problemi strutturali dell’edificio che erano diventati sempre più gravi ed evidenti, colpevole il terreno della piana su cui poggia il Santuario, che è umido e argilloso, perché nel sottosuolo esiste un torrente sotterraneo che riemerge proprio nella zona di Mondovì.
Quando si è parlato della leggenda del bosco e del cacciatore ci saremmo forse dovuti riferire a una palude, essendo qui il terreno troppo molle e inadatto a sostenere il peso dell’edificio.
Difatti, le 77500 tonnellate stimate poggiate su un terreno tanto molle hanno cominciato a sprofondare già a partire dal Seicento.
Mariangela Boni PhotographyNell’Ottocento, nella zona nord-ovest lo spostamento supera i 60 centimetri, e questo enorme disequilibrio sulla base provoca danni all’intera struttura.
Crepe lunghissime si sono aperte nella volta, la più lunga dalla base del cupolino arriva a quella della cupola: 22 metri all’interno, 13 all’esterno aperta di cinque centimetri, mentre altre sette stanno al loro passo, dal punto di vista della gravità e delle dimensioni.
Fortunatamente nel 1883 si provvede ad alleggerire il peso superfluo esistente nella struttura, smantellando la malta e i coppi che seguivano inoltre la forma a campana del tetto e della cupola, funzionali allo scaricamento del peso sulle mura perimetrali.
Occorre però tenere conto che, essendo ai piedi delle Alpi, la caduta abbondante di neve e il conseguente aumento di peso, aumenta anche il rischio di infiltrazioni e di umidità.
Ci si domanda se sia il caso di smantellare questa copertura. Quella volta si decide per il sì e si crea una semisfera, una calotta in legno di castagno ricoperta da sottili lastre di rame. I materiali sono più leggeri, la forma più funzionale per far scivolare la neve, quindi tutto ciò permette alla Chiesa di sopravvivere sino al 1986, quando le tecnologie moderne hanno prima di tutto stabilizzato le fondamenta con iniezioni di cemento alla base, mentre per la risoluzione delle situazioni a terra si è lavorato in alto, a 32 metri d’altezza, in quella che costituisce la fascia terminale del tamburo; si tratta peraltro di un punto critico, in quanto è lì che si scarica tutto il peso della cupola, che è però stato rinforzato con un sistema di cerchiaggio, costituito da quattro putrelle d’acciaio che, parallele le une alle altre, si trovano all’interno dei muri correndo lungo tutto il perimetro.
Da terra sono praticamente invisibili, sia dall’esterno che all’interno dell’edificio; contengono dei cavi, sempre in acciaio, regolabili con dei pistoni idraulici che sono letteralmente una cintura e una gabbia di contenimento che, sostenendo e contenendo la cupola, possono addirittura essere regolati in remoto dal Politecnico di Torino, in virtù delle sonde e dei sensori che dal 2002 gestiscono la stabilità strutturale dell’edificio.
Monica Gotta PhotographyQuesti sono posizionati in punti di interesse e, attraverso queste centraline, i dati arrivano costantemente al Politecnico di Torino, dove gli ingegneri possono decidere di stringere o allentare il cerchiaggio, a seconda di quanto viene percepito dai sensori in Chiesa.
C’è però una buona notizia, ovvero dal 2013 non si muove più, pertanto non è più necessario fare regolazioni; gli esperti tengono a sottolineare che probabilmente ciò è dovuto al fatto che la struttura ha trovato il suo equilibrio, nonostante gli sbalzi termici esistenti fra l’estate e l’inverno.
Tutto risulta stabile e si può azzardare a sostenere che nei prossimi 100 anni sprofonderà meno di mezzo centimetro. Oggettivamente, il 2015 è l’altro ieri, se raffrontato ai secoli di Storia, ma nel suo piccolo diviene una data simbolica perché si può iniziare a valorizzare il bene da un punto di vista culturale.
Questa idea è venuta a Kalatà, impresa con sede a Mondovì Piazza, che quell’anno studia questo progetto mettendo in sicurezza i tunnel prima riservati agli addetti ai lavori mentre adesso consentono di vivere, esplorare, scoprire quella che era e rimane una meraviglia del Barocco piemontese.
Finora abbiamo percorso, e superato, 137 gradini e possiamo ammirare ben 6032 metri quadrati di superficie di pittura, che costituiscono il ciclo pittorico a tema unico più grande al mondo, ed è proprio questa la particolarità che la caratterizza, il tema unico, in quanto a partire dalla parte bassa sino in cima al cupolino si riscontra una narrazione continuativa rappresentata dalla glorificazione di Maria, essendo tutta la Chiesa dedicata al culto della Vergine.
Barbara Tonin PhotographyLa devozione inizia dal pilone votivo raffigurato da una Madonna con Bambino e costituisce il più grande al mondo proprio perché, se si guarda in particolare la superficie della volta, Gallo, come si è già detto, la lascia perfettamente liscia. Non esiste alcuna architettura tridimensionale che spezza questa storia, realizzata completamente a livello pittorico con la tecnica del trompe l’oeil, che significa, letteralmente, “ingannare l’occhio” andando a giocare con colori e prospettive per dare l’impressione della tridimensionalità, pur essendo tutta totalmente liscia, piatta e dipinta.
I due artisti hanno accentuato i dettagli, facendo in modo che qualsiasi fiore, frutto, personaggio o architettura si guardi a livello prospettico funzioni, disegnando finanche le ombre degli oggetti.
Se si osserva la lancia ai piedi di San Tommaso – quel santo dalle braccia aperte che si trova alla destra del finestrone ovale con la ghirlanda – sembra tridimensionale, veramente appoggiata al gradino, mentre in realtà è del tutto piatta, esattamente come il gradino che le sta sotto.
Vi sono invece altri punti dove viene rubata l’idea a una scenografia teatrale, aggiungendo dei pannelli in legno in alcune parti strategiche. Un esempio facile che possiamo ammirare da questo livello è costituito dalla ghirlanda di fiori che attraversa il finestrone.
Se lo osserviamo sulla sinistra vediamo un angelo che pare avere le gambe a penzoloni oltre il limite della finestra, e anche più su, nel cupolino, Dio Padre, Gesù Cristo e l’angelo con l’abito blu sembrano delle statue in volo tridimensionali pronte a cadere verso di noi.
Lorena Durante Photography Fabrizio Rossi Photography Monica Pastore PhotographyLorena Durante Photography
Nella realtà, il loro spessore medio è di tre-quattro centimetri. Si tratta di sagome, pannelli in legno ritagliati, dipinti e infine agganciati con catene o fil di ferro, dando proprio l’impressione della tridimensionalità, quasi che la decorazione vada oltre il limite fisico della muratura raggiungendo il livello religioso; si potrebbe dire che vogliano far sfondare, da questo cielo divino, le pareti terrene dell’edificio.
La storia che viene narrata, la glorificazione di Maria, è un libro immenso, se si tiene conto che il fedele comune che in passato entrava nel Santuario non sapeva né leggere né scrivere, era quindi analfabeta, e il modo migliore e più diretto per raccontargli una storia era farlo attraverso le immagini. Nel raccontare, nel leggere pertanto questo edificio possiamo trovarvi tre capitoli principali: “Il momento dell’attesa, quello della vita terrena, poi di quella celeste”.
L’attesa corrisponde al livello intermedio e guardando i finestroni di questo c’è un’alternanza di medaglioni sulle tonalità del verde con dei busti maschili. Sono, questi, i profeti, ognuno dotato di un cartiglio con il proprio nome a rappresentare l’età pre-cristiana (l’Antico Testamento), coloro cioè che hanno predetto e atteso la venuta di Gesù Cristo, che si realizza attraverso la vita terrena di sua Madre, la Vergine Maria. Scegliendo uno di questi profeti e abbassando lo sguardo in corrispondenza della parte bassa, negli spicchi fra gli archi troviamo altri medaglioni sempre sul verde.
Raffigurano gli episodi principali della vita della Madonna e sono disposti in ordine cronologico.
Trovandoci in corrispondenza dell’ingresso principale la storia inizia sotto di noi, a sinistra, e con la natività di
Maria si muove, in senso orario, nell’altare centrale dove, in corrispondenza di Isaia, si riconosce l’Annunciazione. Infine, a destra ecco il momento della morte di Maria, il Dormitio Virginis.
A onor del vero, questa iconografia è piuttosto insolita, perché la Dormitio fa parte dei Vangeli apocrifi e sarebbe tendenzialmente eretica, rappresentata solitamente nelle Chiese ortodosse e, di conseguenza, un po’ fuori luogo in questo edificio, però è di certo un ottimo collegamento concettuale all’ultima fase della storia, perché Maria abbandona la vita terrena e diviene protagonista della Vita Celeste.
La Madonna è facilmente riconoscibile, in alto a sinistra, con l’abito rosso e il manto azzurro, circondata dalla luce giallodorata sotto al baldacchino e accompagnata da angeli; è in fase di Assunzione, pertanto sta salendo verso la Trinità che la sta attendendo nel cupolino, dove già si sono visti Dio Padre e Gesù Cristo sui pannelli in legno.
E lo Spirito Santo?
Ci si chiede… Lo si vedrà più tardi, dove a 60 metri d’altezza, nella volta, troveremo la colomba dello Spirito Santo, che da qui ancora non si vede.
I due artisti hanno rispettato il Suo dogma, che è sempre presente ma invisibile, e per tale motivo Gli hanno trovato un punto che fosse scomodo da scorgerlo, a livello prospettico, un po’ da qualsiasi parte. Occorrerà fare il percorso completo, sino in cima, per scoprirlo.
C’è una curiosità degna di essere menzionata, che riguarda i personaggi maschili che si alternano ai finestroni ovali, sempre a livello del Paradiso; sono testimoni dell’Assunzione di Maria e comprendono gli Apostoli, qui insolitamente rappresentati in tredici.
A dire il vero, esiste un significato simbolico per questo numero. Innanzitutto non c’è Giuda, il traditore di Cristo, poiché sono raffigurati come salvatori del Paradiso e non gli si può dare spazio fra di loro, quindi torniamo a undici, eppure esistono indubbiamente due intrusi di cui dobbiamo scoprire l’identità.
Si trovano entrambi nel gruppo costituito dalle tre figure a sinistra del finestrone con la ghirlanda, dove si trovano due uomini in piedi e uno inginocchiato davanti a loro, uno dei quali, sulla destra, è San Pietro, insieme ai dodici della tradizione e con le chiavi del Paradiso fra le mani.
Il primo intruso è in piedi accanto a lui, con barba bianca e spada; si tratta di Paolo, che sovente viene paragonato agli Apostoli per le sue gesta sebbene non ne abbia mai fatto parte; nella Bibbia viene al limite definito “Apostolo dei Gentili”, comunque un guerriero, un soldato Romano e ultimo
a convertirsi a Gesù, ed è proprio in ragione delle sue gesta pagane che ha una spada in mano.
L’uomo inginocchiato davanti a loro è ufficialmente il tredicesimo Apostolo, Mattia, il primo scelto dalla comunità cristiana per sostituire Giuda.
Non è quindi frutto di una scelta diretta di Gesù, che in questo momento della storia è già risorto.
A un attento osservatore salta all’occhio che è l’unico a essere dipinto in un atteggiamento umile, in ginocchio a guardare per terra, quasi a vergognarsi di essere tra i salvati.
Da notare il particolare che di Mattia non esiste soltanto l’Apostolo, anche uno dei due artisti pittori porta quel nome, ovvero il figurinista che si era specializzato nei personaggi di quel lavoro, Mattia Bortoloni, che ha sfruttato l’omonimia per eseguire un autoritratto e firmare la propria opera.
Questo dettaglio lo ha fatto accusare di falsa modestia dai suoi contemporanei, essendosi raffigurato in ginocchio con gli occhi rivolti alla terra, sebbene si sia inserito in Paradiso peccando di presunzione.
Secondo i suoi detrattori, la decisione di potersi salvare per i propri meriti artistici sarebbe spettata soltanto a Dio.
A completamento di queste elucubrazioni, si potrebbe anche suggerire di provare a entrare in un Santuario con gli occhi di un fedele e leggere quindi questa storia come se si trattasse della storia della Salvezza, in quanto dolori e sofferenze terrene significano la pace e la beatitudine eterne del Paradiso.
Esistono però due chiavi di lettura per identificare questa narrazione. Innanzitutto, prendendo in considerazione i colori, dalla balconata metallica in giù sono tenui, spenti, tinte pastello in cui domina il verde che Dante considera colore della speranza, proprio perché rappresenta la vita terrena e la sua caducità, sottolineata persino dalle immagini che ci sono sotto i piedi degli Apostoli in quella fascia, cioè tutte rovine della vita terrena.
Queste sono peraltro contrapposte, a livello di colori, alla luminosità e alla brillantezza dei gialli, rossi e viola dell’affresco che si trova sulla superficie della volta, perché la vita è eterna, è vita piena quella del Paradiso, se vogliamo anche in ragione dei colori.
A proposito invece di simbologia e di numerologia, si dice che il numero otto rappresenti quello della salvezza.
Otto sono gli uomini salvati dal diluvio universale nella Bibbia, l’ottavo giorno scompaiono le nubi del diluvio ed è qui che, dopo una ripetizione costante, troviamo otto archi, otto trittici dei finestroni dove ci troviamo, otto finestroni ovali e - nella parte alta - otto profeti, otto scene di vita di Maria, otto nicchie con otto gruppi di Apostoli e sessantaquattro stelle nella volta (otto per otto), e ogni stella ha otto punte ed è ovviamente dipinta in un soffitto a cassettoni ottagonali.
E non è proprio ruotando il numero otto che lo si collega facilmente al simbolo dell’infinito, pertanto ai concetti legati all’idea di vita eterna e di infinito cari alla religione cristiana?
Si disegni un otto a livello geometrico e, facendoci un giro intorno, non otterremo un cerchio bensì un’ellisse. Matematicamente parlando, la forma dell’otto è perfettamente inscrivibile, quindi contenibile, in quella ellittica.
Tornando invece alla pianta dell’edificio, è questo uno dei motivi che ha convinto prima gli architetti e poi gli artisti a ”giocare” con questa forma, quasi fosse un modulo, un modello da seguire un po’ in tutta la composizione.
Passo dopo passo, gradino dopo gradino, si va verso il tetto…
Quello originale poggiava proprio dove stiamo camminando seguendo la forma a campana che vediamo e che, se era ottima per lo scaricamento del peso della struttura, non lo era altrettanto per quello della neve.
Per tale ragione, visti i problemi procurati dalla precedente cupola, è stata smantellata e ricostruita utilizzando legno di castagno in centina e, in esterno, foglie di rame, materiali cioè leggeri, raggiungendo lo scopo di far scivolare la neve durante l’inverno.
La creazione di un microclima induce il caldo, tramite una camera d’aria perfetta che risolve i problemi legati a infiltrazioni e umidità sugli affreschi sottostanti. Il Santuario non ha sostenuto alcuna spesa per i materiali, essendo stato sempre oggetto di culto e di rispetto sia a livello civile che religioso, per cui il legno è stato donato dagli abitanti di Vicoforte insieme alla manodopera volontaria, anche perché da tre anni la Chiesa era stata dichiarata monumento nazionale e i fedeli e gli amatori volevano contribuire a migliorarla, abbellirla, in un certo senso addirittura a salvarla.
Persino il rame è stato ottenuto gratuitamente, in virtù di un lascito di un signorotto della zona che aveva donato ottanta mila lire per l’acquisto del rame in fogli. Potrebbe far soridere, ai giorni nostri, quella cifra, ma se ci si rifà all’Ottocento un palazzo del Centro di Torino ne costava cinquantamila.
Si sente, vivo e profondo, il profumo del castagno, così ricco di tannini ma poco appetibile per gli insetti, e più invecchia maggiore è la sua resistenza.
Di per sé ha fatto parte della ristrutturazione che ha interessato, negli anni ’80, tutto l’edificio, probabilmente con una serie di resine naturali servite a rinforzare le fibre, la struttura del legno.
I pali che vengono puntellati nella struttura non sono di castagno, servono soltanto a dare forma alla centina e contribuiscono a gestire la dilatazione dovuta alla temperatura sia del rame sia del legno; inoltre non hanno peso, che di per sé corre attraverso i costoloni e va a scaricarsi lungo le mura perimetrali; tutto quello che abbiamo sulla testa è castagno, è privo di tarli e risale al 1883.
Ed eccoci a 52 metri d’altezza, finalmente al cospetto della Trinità, di fronte a Dio Padre e Gesù Cristo sui pannelli di legno, mentre alzando gli occhi a 60 metri scorgiamo l’affresco più alto di tutta la Chiesa: la Colomba, lo Spirito Santo, a completare quello che Dante chiama l’Empireo: il punto più puro del Paradiso, sede della Trinità.
Degno di citazione è il colmo del tetto, che in esterno, con la Croce, raggiunge i 75 metri. A questo livello è curioso notare come non siano tanto le immagini, bensì la nostra esperienza di vita a essere posta in evidenza.
Nel 2015 Kalatà, nel mettere in sicurezza il percorso, ha ideato un’uscita di emergenza. Abbiamo difatti sperimentato personalmente che le scale sono troppo piccole per far passare una barella, e qualora qualcuno si facesse male e non fosse più in grado di scendere con le proprie gambe, avrebbe l’alternativa di poter scendere in circa quattro minuti tramite una piccola gru, per mezzo eventualmente di una barella spinale.
Per un concetto di inclusività, la si usa anche per consentire la visita a persone con disabilità fisica. Munite di una sedia a rotelle da ambulanze e imbrago, riescono a fare il giro dell’ellisse, per venire infine riagganciate e riportate al centro con doppia terna. In questi casi non sono sufficienti le guide facenti parte del personale di Kalatà, ma viene coinvolto personale specializzato.
Queste opportunità rendono l’edificio religioso più alto d’Europa accessibile a persone con disabilità.
Al termine della visita “in salita”, raggiunti i 60 metri della cima e già estasiati dalla meravigliosa esperienza appena vissuta, rimaniamo incantati dallo spettacolare panorama che si presenta ai nostri occhi, deliziati dalle Langhe e dall’arco alpino, mentre ci sentiamo avvolti, nonché parte, di emozionanti, coinvolgenti testimonianze di Fede e di Arti pittoriche e architettoniche.
Si ringrazia Kalatà per l’esperienza e in particolare le preparatissime guide.
Venerdì 21 ottobre ore 18.45 ha avuto luogo l’inaugurazione di TrapanInPhoto 2022 presso il Complesso Monumentale di “San Domenico”.
I lavori fotografici sono stati realizzati e curati dai componenti del Gruppo Scatto.
Quali personaggi di rilievo all’inaugurazione sono intervenuti Marilena GALIA, Presidente dell’Associazione “I colori della Vita" e Giacomo TRANCHIDA, Sindaco di Trapani.
Clemente
Arturo Safina, Direttore Artistico dell’Associazione “I Colori della Vita”, è un fotografo di lungo corso. Attraverso la sua passione ha sempre amato coinvolgere chi gli sta vicino e, per questo motivo, è di certo per Trapani e per la Sicilia occidentale, un punto di riferimento nel mondo della fotografia.
In collaborazione con i soci del circolo fotografico “Gruppo Scatto” e dell’Associazione “I Colori della Vita”, ha dato vita a un appuntamento annuale che calamita fotografi, critici, scrittori e artisti interessati al settore da diverse parti d’Italia.
Quest’anno si è giunti all’undicesima edizione della manifestazione.
Con l’hashtag #immaginidiluce si è voluto unire una serie di lavori eseguiti dai fotoamatori facenti parte del Gruppo Scatto.
Per la prima volta sono stati esposti in una mostra collettiva dove ognuno di loro ha portato un portfolio su un particolare tema.
I lavori sono stati selezionati da Sandro Iovine, direttore della rivista online di FPMag, dedicata alle tematiche legate alla comunicazione con le immagini.
TrapanInPhoto rappresenta oggi una vetrina per i fotoamatori e una passerella di autori e professionisti d’alto profilo. L’edizione 2022, nell’ampio programma articolato in tre settimane, è stato ricco di incontri ed è stata anche un’occasione ambita per presentare al pubblico mostre, eventi fotografici e diverse novità editoriali.
La prima proposta culturale in scaletta, sabato 22 ottobre, ha avuto luogo presso l’Hotel San Michele.
Massimo Cristaldi ha presentato il suo libro “Suspended” introdotto da Franco Carlisi, Direttore del periodico “Gente di Fotografia”.
Questo libro ci conduce in un insolito e, talvolta, surreale viaggio in Sicilia che si rivela un pretesto per ritornare alle origini, per ricercare l'essenza di luoghi, le tracce di una storia personale e collettiva, una relazione profonda che si stabilisce tra un popolo e la terra che lo ospita. Cristaldi decide di soffermarsi sugli aspetti dissonanti di quel paesaggio e racconta una Sicilia “sospesa” tra passato e presente e le sue immagini, proprio come le 'rovine' da lui immortalate, divengono una potente metafora.
Nel lavoro di Cristaldi, il viaggio si rivela un pretesto per ritornare alle origini, per ricercare l'essenza di luoghi. “…C’è uno splendido e tragico senso di vuoto, e un non so che di surreale…” (Joel Meyerowitz)
“…Un’opera incompiuta ci racconta del processo creativo, della smania del gesto autoriale che vuol giungere all’essenza…” (tratto dalla prefazione del libro a cura di Franco Carlisi).
MASSIMO CRISTALDI
Massimo Cristaldi è nato a Catania nel 1970. È stato premiato in numerosi concorsi fotografici internazionali come International Photography Awards, Sony World Photography Awards, Travel Photographers Of the Year. Massimo ha esposto in Europa, Stati Uniti, Canada e Brasile, in mostre personali e collettive e in festival di fotografia. Vive e lavora sia a Catania che a Roma. Le fotografie di Massimo fanno parte della collezione permanente della George Eastman House, International museum of photography and Film di Rochester, NY (USA).
“…Una singola immagine demarca, nell'attimo in cui viene realizzata, un confine tra quello che c'era prima, e che viene da essa catturato, e come quel luogo, momento, o situazione potrebbe evolversi e mutare nel Futuro. Così proprio una fotografia, in quanto oggetto "fisico”, diventa parte della mia “metafora dei confini”: è essa stessa confine tra prima e dopo.
E’ l’incarnazione del momento presente. Esistono, però, altri confini. Esistono altri limiti…” (tratto dal sito https://portfolio.massimocristaldi.com/about)
Il giorno seguente, domenica 23 ottobre, Piero Lazzari, noto fotografo trapanese, ha tenuto uno shooting fotografico con la partecipazione di una modella, ambientato nelle strade e tra gli angoli più suggestivi di Trapani con la partecipazione di diciotto fotoamatori componenti del “Gruppo Scatto” e de “I Colori della Vita”.
Per dare un valore aggiunto all’iniziativa, Lazzari ha chiesto l’elaborazione dei migliori dieci scatti da parte di ogni partecipante, destinati a diventare oggetto di discussione, con la supervisione dello stesso fotografo, promotore dell’iniziativa.
PIERO LAZZARI
Nasce in una famiglia dove nonno e padre erano fotografi e ha vissuto l’evoluzione della macchina fotografica e dell’elaborazione delle immagini.
Dalla famiglia eredita uno stile sobrio ed elegante, nel 1984 diventa fotografo matrimonialista. Il suo stile si può anche definire minimalista per via dell’uso essenziale e magistrale di luci ed ombre che si rincorrono con semplicità creando così il tratto distintivo del fotografo.
Per gli aspetti documentaristici e didattici, nel pomeriggio della stessa giornata, presso il Museo di Arte Contemporanea “San Rocco”, Michele Fundarò, con l’arricchimento di nuove immagini, ha intrattenuto gli intervenuti su “La fotografia a Trapani tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900”.
L’intervento è stato molto apprezzato e lo stesso Fundarò ha dichiarato…”Un pò come sentirsi a casa, in mezzo ad appassionati di fotografia…”
Di elevato spessore culturale e antropologico è stato l’appuntamento di mercoledì 26 ottobre, svoltosi presso la Prefettura di Trapani. Rispondendo al desiderio del Prefetto, Dott.ssa Filippina Cocuzza, è stato presentato l’ultimo lavoro editoriale dell’autore siciliano Giuseppe Leone dal titolo “Pausa Pranzo” edito da Plumelia.
Il protagonista delle fotografie è il cibo e della simbiosi che crea con le persone. In circa mezzo secolo Leone ha raccolto immagini sulla ritualità della tavola e, di conseguenza, sulle relazioni familiari e umane.
Le fotografie ci mostrano il cambiamento di un’epoca attraverso la pausa pranzo, un rito sacro e antico, ci mostrano anche un percorso sociale.
“Giuseppe Leone, grazie alla fotografia, racconta cangianti scenari di incontro per entrare nel variegato mondo dove ci muoviamo e interagiamo.
Nell’arco di circa un ottantennio è stato raccolto un lavoro significativo che ci restituisce immagini del cambiamento sociale in atto e della radice da preservare.
Questo lavoro sta proprio nell’unire e non nel dividere, donando allo sguardo bellezza e autenticità. La fotografia e la pratica del fotografare come sublimazione, quando tiene conto della presenza del fotografo che coglie la pienezza delle situazioni e ce le restituisce come scatti di memoria e testimonianza.”
Arturo Safina, punto di riferimento per molti fotografi che decidono di visitare la Sicilia, si adopera per portare a Trapani importanti personaggi del settore e autorevoli esperti dell’universo fotografico nazionale.
In quest’ottica, un appuntamento importante è stato anche quello di venerdì 28 ottobre svoltosi al Museo di Arte Contemporanea “San Rocco”, dove Valentina Greco e Pippo Pappalardo, con la partecipazione straordinaria ed estemporanea del fotografo Francesco Cito, hanno ricordato Letizia Battaglia a seguito della proiezione del film documentario “Amore Amaro” – Regia di Francesco Giuseppe Raganato - con la gentile concessione di Sky Arte.
Il filmato, pubblicato su YouTube, è ricco di spunti e denso di testimonianze dirette raccontate da chi l'ha frequentata e conosciuta.
Tra i tanti aneddoti narrati durante la serata, particolarmente toccante è stato quello di Cito che riguardava il suo ultimo incontro con Letizia nello scorso marzo, presso il Fiof di Orvieto.
Durante questo evento, dopo che lei ebbe acconsentito alla sua ennesima richiesta di allestirle una mostra personale al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, gli venne spontaneo rincorrerla, prima che andasse via, per baciarla ancora una volta con affetto.
Un gesto inconscio - e per lui forse anche inusuale - quasi intuendo lucidamente che quel saluto sarebbe stato l’ultimo fra loro.
Nel suo intervento Francesco Cito ha confermato a Valentina Greco - storica assistente di Letizia Battaglia e ora responsabile dell’attività culturale del Centro, la sua piena disponibilità ad allestire, quanto prima, una mostra nei locali dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, al fine di realizzare quell’impegno solennemente assunto con la nota fotografa, scomparsa il 13 aprile di quest’anno.
GIUSEPPE LEONE
Giuseppe Leone nasce a Ragusa nel 1936.
E’ noto per aver raccontato i paesaggi e i costumi della Sicilia dagli anni ’50 a oggi.
Ha pubblicato innumerevoli volumi e realizzato mostre in Italia e all’estero.
Predilige il bianco e nero perché …è l’interpretazione della natura e delle sue trasformazioni… Scatta le sue prime fotografie nel 1952, sarà Leonardo Sciascia a introdurlo nell’editoria.
Valido approfondimento sul vissuto di Letizia Battaglia è contenuto nel libro intitolato "Mi prendo il mondo ovunque sia”, editato nel novembre 2020 dalla Einaudi e scritto con Sabrina Pisu, nel quale la fotografa si racconta a 360 gradi, evidenziando i retroscena materiali e psicologici che l'hanno accompagnata per tutta la vita.
La mattina del 29 ottobre, presso l’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore a indirizzo Turistico “Sciascia e Bufalino”, sono stati presentati, con l’intervento di Sandro Iovine, i libri di Antonino Castiglione - “Non chiedermi il perché” e Giovanni Cusenza - “MuruMuru”.
Castiglione, nel constatare la presenza di opere private e pubbliche abbandonate e/o incompiute, catalogandole e individuandole fotograficamente nel territorio, s’interroga sulle risposte che potrà un giorno dare ai giovani per giustificare il degrado e l’abbandono di strutture iniziate e mai finite.
Il volume di Cusenza racconta, invece, una Erice fascinosa, focalizzandone una visione monumentale, con scelte di immagini dalle tonalità fredde, dal taglio compositivo e dettagli che trasudano la millenaria storia della cittadina medievale.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, al secondo piano del Museo di Arte Contemporanea “San Rocco”, si è svolto un evento altrettanto importante: la brillante e interessantissima Lectio magistralis del già citato Francesco Cito, che ha visto anche l’intervento del critico Maurizio Garofalo.
Con leggerezza e ricchezza di contenuti, suffragati da una variegata contemporanea proiezione di una moltitudine fra le più famose fotografie prodotte, i racconti di Cito hanno riassunto i suoi momenti di vita, le sue parentesi, le sue avventure, la sua affermazione come fotografo, dalle origini ad oggi.
Cito ha raccontato del suo arrivo a Londra nel 1972 e della pratica dei vari mestieri per sopravvivere nella capitale britannica, raccontando, senza alcuna enfasi, di quei classici casuali incontri che ti cambiano la vita (inizia come fotografo nel 1975 con l’assunzione da parte di un settimanale di musica pop-rock), delle scelte immediate collegate al raggiungimento del suo obiettivo che era quello di fare il fotografo free-lance, libero di spaziare e realizzare servizi per assecondare sempre quello che è stato continuamente il suo istinto. Il suo racconto, per come ce lo ha illustrato l’autore, sembra quasi simile a una bella favola.
A conclusione della lectio magistralis è stato consegnato a Maurizio Garofalo il Premio alla Cultura Fotografica “Salvatore Margagliotti”.
Le consuete e attese letture portfolio si sono svolte nella giornata di domenica 30 ottobre presso il Complesso Monumentale di “San Domenico”. Nell’invito a partecipare fatto agli autori dagli organizzatori si leggeva: “Passione, impegno, sacrificio, studio, confronto …. Un connubio imprescindibile per crescere.
Trapani ha anche bisogno di cultura fotografica … e noi, nel nostro piccolo, con le nostre capacità, attraverso l’aiuto e sostegno degli Amici fotografi professionisti, docenti, critici fotografici, ci impegniamo per diffonderla”.
Per le letture portfolio, ad Anna Fici, unica lettrice donna in questa undicesima edizione, si sono affiancati Fabio Florio, Sandro Iovine, Maurizio Garofalo e Pippo Pappalardo, che hanno dato l’opportunità a quattordici fotoamatori di proporre diciotto lavori, che hanno alimentato dialoghi proficui e interessanti, non sempre facili o condivisibili, ma indubbiamente utili come occasione e possibilità di confronto.
La giuria, coordinata da Laura Crocè e composta da Anna Fici, Sandro Iovine, Maurizio Garofalo e Fabio Florio, con il portfolio “Ritratto come memoria e identità culturale” ha indicato in Antonella Messina la prima classificata; mentre secondi ex equo sono stati giudicati Alessandro Ingoglia, Natale Trapani e Salvo Titoni, rispettivamente autori dei lavori intitolati “Punti di fuga!”, “Numeri” e “Nato a Trapani il 25.09.1980”.
Fra le mostre allestite durante l’evento di TrapanInPhoto, spicca al primo piano del Museo di Arte Contemporanea “San Rocco”, visitabile fino al 6 gennaio 2023, quella di Francesco Cito. Cito – classe 1949 - è considerato oggi uno dei più importanti fotoreporter italiani a livello internazionale, ha dedicato anni di appassionati scatti del Palio di Siena. Le foto in mostra, tutte rigorosamente in bianco e nero, immortalano numerosi momenti di quest’ultimo, con un particolare riferimento alla sua Contrada d’adozione, quella del “Nicchio”, in un rapporto integrato e viscerale, dove non si capisce bene chi per primo abbia adottato chi.
Presso il Complesso di San Domenico sono state allestite altre 13 mostre, con esposizioni personali di altrettanti autori, tutti soci dell’associazione organizzatrice “I Colori della Vita” di cui riportiamo i titoli: “Riscaldamento globale”, “Non chiedetemi il perché”, “Metafisica del paesaggio urbano”, “C.19”, “Paesaggio siciliano”, “Betlemme oggi”, “Murales”, “Oro bianco”, “Eucaristic festival of life”, “Pandy il clown”, “Petra”, Nato a Trapani il 25.09.1980” e “Km 0”.
Toti Clemente PhotographyUna mostra collettiva, allestita presso l’Hotel San Michele, ha compreso, inoltre, foto di Arturo Safina, Lorenzo Gigante, Mimmo Todaro, Simona De Togni e Claudio Masaracchia.
Un’altra iniziativa, perpetuata anche quest’anno a latere della manifestazione, è stata “Gocce – Foto in città”, con fotografie esposte in vetrine di attività commerciali nel centro trapanese.
Gli autori delle immagini sono i seguenti: Giovanni Cusenza, Giuseppe Di Giorgio, Nicolò Gervasi, Lorenzo Gigante, Giuseppe Gramignano, Alessandra Lombardo, Claudio Masaracchia Franco e Mariella Lombardo.
Sabato 5 novembre, si è tenuta la presentazione del libro “Luce e Memoria” di Tony Gentile, edito da Silvana Editoriale, che ha costituito l’evento conclusivo dell’undicesima edizione di TrapanInPhoto.
Il volume raccoglie molte fotografie scattate dall’autore negli anni terribili della guerra di mafia che a Palermo ha seminato centinaia di morti.
Ma il libro offre spazio anche alla quotidianità di Palermo, dalle processioni religiose fino allo stadio La Favorita.
Momenti di vita ordinaria che creano quasi un cortocircuito nella percezione del fruitore per rendere più esplicita la dicotomia tra i due volti opposti della città: la sua tragedia e la sua umanità.
Testimoniato dalla massiccia affluenza di pubblico nei vari appuntamenti di quest’anno, il successo della manifestazione è stato il giusto riconoscimento per gli ottimi allestimenti e l’impegno profuso dagli instancabili organizzatori.
ELENCO MOSTRE
Museo di Arte Contemporanea “San Rocco” Il Palio di Siena di Francesco CITO fotografo. Complesso Monumentale di “San Domenico” Riscaldamento Globale di Luciano BIANCO Non chiedermi il perché di Antonino CASTIGLIONE Metafisica del paesaggio urbano di Tonino CORSO C. 19 di Giovanni CUSENZA Paesaggio siciliano di Vito CURATOLO Betlemme oggi di Maria Luisa FARACI Murales di Lorenzo GIGANTE Oro Bianco di Francesco Paolo IOVINO Eucaristic Festival of Life di Arturo SAFINA Pandy il clown di Leonardo SAMANNÀ Petra di Franco SCALIA Nato a Trapani di Salvo TITONI Km 0 di Mimmo TODARO
Ringraziamenti
Associazione “I Colori della Vita” Gruppo Scatto – Trapani Comune di Trapani Assindustria Trapanimanifestazione è stato il giusto riconoscimento per gli ottimi allestimenti e l’impegno profuso dagli instancabili organizzatori.
Lorenzo Gigante Photography Lorenzo Gigante Photography Lorenzo Gigante Photography Toti Clemente Photography