N. 58 - 2020 | AGOSTO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.58 - AGOSTO 2020
www.giroinfoto.com
I Forti di Genova LE ANTICHE MURA BAND OF GIROINFOTO
LA MORRA LANGHE Band of Giroinfoto
RUMIÀGE LA TRASUMANZA Di Adriana Oberto
SAN PIETRO AL MONTE CIVATE Band of Giroinfoto Photo cover by Monica Gotta
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WEL COME
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la redazione | Giroinfoto Magazine
Seattle skyline by Giancarlo Nitti
Benvenuti nel mondo di
Giroinfoto magazine
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Novembre 2015,
da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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on-line dal
11/2015 Giroifoto è
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Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
Attività
Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
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Promozione
Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI
Progetto editoriale indipendente
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ANNO VI n. 58
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20 Agosto 2020
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I N D E X
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C O N T E N T S
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CITTADELLA
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LA MORRA
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I FORTI DI GENOVA
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I FORTI DI GENOVA Le antiche mura Band of Giroinfoto
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ROUMIÀGE La Trasumanza in Alta Valle Stura Di Adriana Oberto
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CITTADELLA Fortezza Padovana Di Barbara Tonin
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LA MORRA Langhe Band of Giroinfoto
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VIAGGIO IN TERRA SANTA Parte III Di Lorenzo Rigatto, Maddalena Bitelli,Remo Turello
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SAN PIETRO AL MONTE
ANTICO MONASTERO San Pietro al Monte Band of Giroinfoto
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FORTEZZA DI KUMBHALGARH Rajasthan Di Monica Gotta
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AERO CLUB Torino Band of Giroinfoto
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LE TUE FOTOEMOZIONI Questo mese con: Paolo Gentili Rita Russo
BOOK
KUMBHALGARH
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TERRA SANTA
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AERO CLUB TORINO
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FORTI DI GENOVA
Adriana Oberto Dario Truffelli Davide Mele Isabella Nevoso Luca Barberis Manuela Albanese Monica Gotta Silvano Rossi
E LE ANTICHE MURA A Cura di Monica Gotta
Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Genova
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città di mare, nasconde bellezze e sorprese anche sui monti. Salendo ci si trova in un paesaggio che ha poco di marino, ma regala i profumi della macchia mediterranea che si intrecciano con il sapore di sale. Godiamo di un’invidiabile vista sulle colline retrostanti e sul mare che lambisce la costa ligure. Entriamo nel Parco delle Mura che copre un’area naturale protetta d’interesse locale di circa 876 ettari di paesaggio, che possiamo definire come polmone verde della città. Ci immergiamo nella natura e nella storia della nostra città che comprende diversi forti militari costruiti tra il XVII e il XIX secolo, assaporando un passo alla volta la sensazione di libertà. Questa passeggiata permette di tornare in contatto con l’ambiente circostante, lontano dai rumori cittadini tornati ad essere dominanti dopo la riapertura delle attività e il ritorno alla vita normale terminato il lock down. Qui si ascolta la natura, la voce della brezza marina che arriva a lambire le fronde degli alberi, il canto degli uccelli, il ronzio delle api che volano di fiore in fiore e, a volte, anche la voce di qualche altro escursionista. Questa modalità slow ci permette anche di notare ed assaporare i dettagli che a volte sfuggono alla nostra attenzione e, questi particolari, li abbiamo potuti catturare nelle immagini che accompagnano il nostro reportage. Un esempio onnipresente in quest’escursione sono le ginestre fiorite che, con il loro sfavillante colore giallo, illuminano il verde delle colline stagliate contro un cielo blu intenso.
Manuela Albanese Photography
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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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FORTI DI GENOVA
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PARCO DELLE ANTICHE MURA
I forti di Genova sono raggiungibili da diversi punti della città e con diversi mezzi tra cui l’auto, gli autobus, le funicolari e i treni. La funicolare Zecca-Righi si trova in centro città e collega Largo della Zecca, nel cuore del centro storico genovese, al Righi. L’inizio lavori della funicolare Zecca-Righi risale agli anni 1895-1897 con un primo collaudo verso il 1912. Nel periodo tra le due guerre mondiali affrontò dei rinnovamenti e nel 1942 subì forti danni durante il bombardamento e riprese servizio solo negli anni ’60. Ad oggi ha subito altri adeguamenti e rinnovamenti per ottemperare alle normative ed essere revisionata periodicamente. Il percorso si svolge in circa 12 minuti su un unico binario che si sdoppia solo nella stazione intermedia di San Nicola. Nel periodo estivo del 2020 resterà chiusa per altri lavori di adeguamento con prevista riapertura verso la fine del mese di agosto. Arrivati a destinazione troverete anche l’Osservatorio del Righi dal quale si può partire per iniziare uno degli itinerari alla scoperta dei forti. Da segnalare anche il Parco Avventura del Righi, un ambiente naturale dedicato a famiglie e ragazzi. Utilizzando invece la ferrovia a scartamento ridotto Genova-Casella, anch’essa pezzo storico della città, inaugurata nel 1929, si passa attraverso tre valli, Bisagno-Polcevera-Scrivia, tra panorami eccezionali. Dalla stazione Trensasco si intercetta il percorso dei forti che porta a Forte Diamante e da lì ci si collega ai
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vari sentieri del parco che portano a tutti gli altri forti. La salita a Forte Diamante è denotata da una forte pendenza. Esiste anche un altro sentiero, il sentiero dell’acquedotto, che rimanendo in quota si collega alla fitta rete dei sentieri del parco dei forti oppure conduce, senza deviazioni, al Righi. La cremagliera o tramvia di Granarolo parte invece vicino alla Stazione FFSS di Principe e le sue storiche vetture rosse vi porteranno al capolinea in Salita Superiore di Granarolo. Proprio per il colore caratteristico delle antiche vetture viene spesso chiamata La Signora in Rosso. Anche questa ferrovia, del tipo “a dentiera”, risale al 1901. Fu costruita con questo sistema per via della forte pendenza presente sulla collina di Granarolo ed è una delle poche ancora funzionanti in Italia. Questi sono solo alcuni dei punti da cui iniziare il giro dei forti, quelli che possiamo unire ad altre curiosità storiche della città come le funicolari e le antiche ferrovie. Il Parco delle Mura comprende diversi percorsi pedonali che portano dalla città alle colline. Questi sentieri che partono da vari quartieri della città conducono ai forti ed è proprio questa caratteristica a renderlo un “parco urbano”. Dal capolinea di Granarolo, in pochi minuti a piedi, si arriva ad uno dei forti, Forte Begato, che è stato anche il punto di partenza della nostra escursione nella natura e della visita ad alcune di queste antiche strutture storiche genovesi.
Una curiosità da segnalare è il Sentiero delle Farfalle. Arrivando al Righi si va per Via delle Baracche, sotto le mura di Forte Sperone, e si prosegue verso l’Ostaia de Baracche. Giunti qui si prosegue su un falsopiano e si imbocca il sentiero contrassegnato da una X. Lungo questo sentiero troverete dei cartelli che illustrano le varie specie di farfalle che nidificano in questa zona. Al giungere della primavera e con l’inizio delle fioriture, tutto inizia a colorarsi di vita e diventa l’ambiente ideale per la vita delle farfalle. Per gli amanti della natura e della fotografia è un percorso di sicuro interesse.
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FORTI DI GENOVA
Monica Gotta Photography
La storia delle mura di Genova affonda le sue radici in epoche storiche molto antiche. In città se ne possono vedere ancora diverse parti insieme alle porte, oggigiorno inglobate nel tessuto cittadino. Già in tempi antichi Genova era una delle città meglio fortificate d’Italia. Le mura nuove di Genova, concepite per la difesa della Repubblica prima e del Regno Sabaudo poi, fanno parte di un sistema difensivo importante, uno tra i più imponenti in Europa. Ma non sono solo le mura settecentesche a difendere Genova, nella storia della città sono apparsi altri sistemi difensivi, dai crinali appenninici alle postazioni di tiro sulla costa ligure.
Lungo le nuove mura furono anche costruite altre postazioni difensive, alcune distaccate altre comprese nella cinta stessa. Parliamo appunto dei forti. Il punto difensivo più importante fu individuato nel Monte Peralto che divideva naturalmente i due spartiacque della Val Bisagno e della Val Polcevera. Dal Peralto una catena di forti si spinge verso nord. Da Forte Sperone le mura scendono verso Ponente fino a Forte Begato e, continuando a scendere verso l’agglomerato cittadino, si incontrano altri forti come ad esempio Forte Tenaglia e Forte della Crocetta.
La cinta muraria fu iniziata negli anni ’30 del Seicento, fu ampliata nel Settecento per poi essere completata nell’Ottocento durante il Regno Sabaudo con la costruzione dei forti. I forti che proteggono Genova sono visibili da diversi punti della città a testimoniare la loro funzione ancor oggi. Una parte della cinta abbraccia anche la Lanterna, simbolo di Genova.
Verso la Val Bisagno troviamo Forte Richelieu e Forte Santa Tecla. Forte Quezzi, dominante sulla Val Bisagno doveva servire come collegamento delle due catene. Genova fu ceduta ai Savoia che diedero molta importanza a queste fortificazioni. Furono quindi costruiti altri forti: Begato, Puin, Fratello Minore, Fratello Maggiore raso al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale, Tenaglia e infine il portentoso Forte Ratti (Forte Monteratti).
Questa cinta di mura è chiamata Mura Nuove e si estende per quasi 20 km di cui circa 7 km lungo la linea di costa, mura che dovevano ulteriormente rafforzare quelle già esistenti.
Così si raggiunse quella che oggi è la dotazione dei forti genovesi.
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FORTE DIAMANTE
FRATELLO MINORE
FORTE PUIN
E LE ANTICHE MURA
FORTE SPERONE FORTE BEGATO
FORTE MONTERATTI CASTELLACCIO
FORTE TENAGLIA
FORTE QUEZZI
FORTE RICHELIEU
FORTE DELLA CROCETTA FORTE SANTA TECLA
PORTO DI GENOVA
Con l’evolversi della potenza distruttiva e di gittata delle armi, i forti diventarono però bersagli facili. Cambiò così la loro destinazione d’uso e divennero magazzini, prigioni e caserme fino ad essere completamente abbandonati, cosa che ne causò il graduale deterioramento. L’attuale Parco delle Mura è gestito dal Comune di Genova che sta operando per ripristinare e migliorare i percorsi e le aree di sosta congiuntamente ad interventi sulle aree boschive. I forti di Genova erano e sono ancora, in parte, area demaniale. Il Comune di Genova ha avviato un programma di valorizzazione di quest’area e, attraverso un accordo tra Agenzia del Demanio, Mibact Liguria e Comune di Genova, alcune di queste antiche strutture stanno passando all’amministrazione comunale. Il programma “promuove la conoscenza del patrimonio culturale e assicura migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso attraverso la
costituzione e organizzazione stabile di risorse, strutture e reti” … L’idea è di dare in gestione – provvisoria - ad organizzazioni e/o associazioni, anche private, alcune di queste strutture per valorizzarle oppure riqualificarle con progetti anche più complessi. Sempre nell’ambito della valorizzazione del sistema delle fortificazioni, è stata anche creata una banca dati delle fortificazioni genovesi che si estende dal ponente genovese (Arenzano) fino a Punta Chiappa nel levante genovese, banca dati che è confluita nel nuovo geoportale del Comune di Genova. Sono iniziati anche lavori di ristrutturazione per rendere nuovamente fruibili al pubblico alcuni forti che attualmente non sono visitabili all’interno.
Questi sono interventi di difficile realizzazione specie perché alcune di queste strutture non sono facilmente raggiungibili. Sostenere però la divulgazione della conoscenza riguardo a queste strutture potrebbe rivitalizzare quest’area e suscitare l’interesse turistico. Si tratta infatti di un patrimonio dal potenziale turistico enorme per il valore storico ed architettonico dei manufatti e per il valore ambientale e paesaggistico. A tal proposito, ha preso forma anche un progetto per la realizzazione di una cabinovia che dal mare, dalla Lanterna, porterà ai monti e al Parco delle Mura, un progetto di valorizzazione culturale e di rilancio del turismo.
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Un’escursione per ammirare Genova da una prospettiva inusuale. Siamo arrivati a Forte Begato, attesi dai volontari della Protezione Civile di ALFA GROUP che presidiano e si prendono cura della struttura. Quest’associazione si occupa da tempo degli spazi di Forte Begato con vera dedizione e moltissimo impegno. Ad esempio, da gennaio a giugno ci sono state diverse operazioni di taglio del verde, attività che impegna i volontari in maniera rilevante in termini di fatica e, soprattutto, a livello economico. Per saperne di più sul loro impegno sociale, ambientale ed assistenziale li trovate sulla loro pagina Facebook oppure sul loro sito internet. Per l’affidamento degli interventi manutentivi per l’accessibilità del forte sono state emesse gare d’appalto e pubblicate manifestazioni d’interesse per i soggetti che intendevano proporre progetti mirati al presidio, cura e sostegno nonché alla realizzazione di attività coerenti con lo sviluppo dell’ambiente e del territorio, valorizzazione del territorio.
Forte Begato
Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
Isabella Nevoso Photography
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Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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FORTE BEGATO Luca Barberis Photography Manuela Albanese Photography
Come ipotesi di riutilizzo, sia del forte che delle aree circostanti, ci si augura che possa diventare un luogo per la realizzazione di eventi. Alcune zone del forte sono utilizzabili per futuri fini ristorativi, altri spazi potranno essere destinati ad associazioni con finalità di promozione territoriale, difesa e valorizzazione dell’ambiente, promozione turistica nonché presidio e difesa per scoraggiare altri atti vandalici. Forte Begato si erge in un’area estremamente vasta e comprende 5 fabbricati. Dalla sua posizione domina la Val Polcevera e, dai suoi bastioni, si vede in tutta la sua lunghezza il tanto chiacchierato nuovo ponte autostradale della città, il ponte Genova San Giorgio, alcuni quartieri cittadini del ponente e, dall’altro lato, il Porto Antico e il porto genovese. Compreso sul versante esterno delle Mura Nuove che difendevano la città di Genova, fu costruito su un’area pianeggiante, compresa nelle mura seicentesche, lungo la cinta difensiva che da Forte Sperone si snodava verso la Val Polcevera. Il suo nome deriva dall’antico paese di Begato situato sulla collina che ospita il forte. Essendo stato abbandonato, negli anni, ha subito diversi atti di vandalismo. Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI secolo è stato ristrutturato col contributo della Comunità Europea ma la
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riqualificazione non è mai decollata ed è stato vandalizzato. Uno dei 5 edifici è una grande caserma di forma quadrangolare che conta in parte due piani e, in altri punti, tre piani. Ha un cortile centrale e quattro bastioni. La struttura poteva ospitare 340 soldati per arrivare a 800 in caso di necessità. In merito ad artiglieria comprendeva 14 cannoni, 5 obici e altri pezzi di dimensioni minori. Alcune opere di restauro hanno riportato la struttura alla sua completezza. Fu il governo sabaudo a farla costruire a partire dal 1817/18, fu poi completato anche il recinto bastionato che lo isolò dalla città. Questo recinto si affaccia sull’attuale strada. Nella guerra 1915/1918 ospitò prigionieri austriaci. In un altro degli edifici di Forte Begato si può vedere una piccola mostra di fotografie riguardanti i vari forti della città di Genova. Ogni pannello riporta brevi descrizioni e informazioni generali utili per riconoscerli e raggiungerli. Esistono proposte progettuali per la riqualificazione di questo forte in modo da restituire il suo valore storicoculturale ai futuri visitatori e alla città stessa.
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Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Silvano Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Uscendo da Forte Begato ci dirigiamo verso il sentiero che ci porterà a passare accanto a Forte Sperone, poi Forte Fratello Minore e infine Forte Puin. Attraverso il Cancello dell’Avvocato ci immettiamo nel sentiero che ci porterà alla nostra prossima tappa. Lungo il sentiero si vede la grande struttura di Forte Sperone, posto sul punto più alto delle mura nuove. Forte Sperone è imponente, le sue mura ci riportano a reminiscenze medievali. Infatti esistono testimonianze in questo luogo di una fortezza ghibellina già all’inizio del 1300, chiamata Bastia del Peralto.
È una struttura con diverse altezze e livelli proprio per la posizione che occupa. Fu eretto nel XIV secolo e successivamente ampliato in diversi momenti storici. Come altri, fu ad opera dei Savoia che venne completato facendone una fortificazione estremamente complessa che ancor oggi presenta un certo rigore militare. È circondato e protetto da un fossato, un tempo collegato al complesso e al portone da un ponte levatoio. L’ingresso del forte è sormontato dallo stemma dei Savoia.
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Oltre al valore storico Forte Sperone possiede anche un alto valore scenografico, per la sua struttura e per la sua posizione. Sarebbe infatti un’ottima location da utilizzare per spettacoli, rappresentazioni teatrali, eventi e/o spazi espositivi da dedicare alla cultura e al turismo specialmente nei mesi estivi. Dall’altro lato di Forte Sperone si costeggiano nuovamente le sue mura per scendere al Peralto dove ci si ritrova nei pressi dell’Osservatorio Astronomico, della funicolare RighiZecca e di Forte Castellaccio.
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Fratello Minore Raggiungiamo Fratello Minore situato sulla vetta di Monte Spino. Iniziato nei primi anni dell’Ottocento fu terminato verso il 1832 e gode di una posizione strategica nonché panoramica. È posizionato sulla direttrice di alcuni itinerari che conducono ai quartieri di Begato e Geminiano che, in passato, furono centri agricoli. Il progetto originale fu oggetto di diverse modifiche come la costruzione di due recinti bastionati, in cui è inserita la torre quadrata. La guarnigione standard era di 12 uomini e poteva essere aumentata in caso di necessità. Si notano le feritoie ad uso dei fucilieri, rialzate rispetto al pavimento, alle quali si accedeva tramite una piattaforma in legno ormai scomparsa.
Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
Isabella Nevoso Photography
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Dario Truffelli Photography
Al piano interrato era ospitato il deposito delle munizioni, al quale di può accedere con cautela. Anche Fratello Minore era dotato di un ponte levatoio come Forte Sperone, ponte che fu probabilmente asportato alla fine degli ’20. Ad oggi si notano ancora i resti di due postazioni per cannoni. Dall’alto dei suoi bastioni si domina tutta la Val Polcevera, si può vedere in lontananza il Santuario della Madonna della Guardia le cime dei monti intorno al passo della Bocchetta e uno spicchio della Riviera di Ponente. Le sue rovine si possono visitare liberamente. Adriana Oberto Photography
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FORTE DIAMANTE Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Da qui la strada entra nella Val Bisagno e si può proseguire verso Forte Diamante, incastonato nella sua posizione privilegiata in cima alla collina. Venne realizzato verso il 1758 e il suo affascinante nome lo deve al monte sul quale sorge, Monte Diamante. A cavallo tra due valli era la prima difesa della città contro le invasioni proveniente da nord.
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Probabilmente deve il suo nome da un’allocuzione dialettale “du Puin” ossia del Padrino riferita ad una baracca settecentesca sottostante, che oggi potremmo ricondurre all’attuale Ostaia de Baracche.
La caserma di tre piani è contornata da un terrapieno pentagonale. Fu abbandonato dal demanio militare nel 1914. Si raggiunge esclusivamente a piedi passando dai due fratelli oppure utilizzando il Trenino di Casella seguendo poi un sentiero piuttosto ripido che raggiunge la vetta in circa 40 minuti di cammino. Parlando di Forte Diamante e dei Due Fratelli - Minore e Maggiore - ricordiamo che un grande poeta, Ugo Foscolo, spese parole di prosa su alcuni avvenimenti storici di cui i forti furono il teatro. In questo momento gli interni del forte non sono visitabili. Si prosegue lungo il sentiero fino ad arrivare a Forte Puin, chiuso come molti altri. Per arrivare al cancello che delimita l’accesso al forte si sale una scalinata abbracciata dalla vegetazione e dalle ginestre. Costruito anch’esso tra il 1815 e il 1828 / 1832 sui resti preesistenti del 1742, occupa un’altra posizione panoramica, ma anche strategica in quanto riempì il vuoto tra Forte Sperone e Forte Diamante.
FORTE DIAMANTE Dario Truffelli Photography
FORTE PUIN Davide Mele Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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La sua torre quadrangolare domina in questo punto del Parco delle Mura. Conta 3 magazzini sotterranei e una breve scalinata conduce alla torre centrale. L’accesso era garantito da un ponte levatoio che consentiva di passare oltre il fossato e poteva ospitare una guarnigione di 28 soldati. In tempi recenti il Comune ha emesso un bando volto alla ricerca di volontari per aprire il Forte e renderlo visitabile. Attualmente un’associazione di promozione sociale gestisce una pagina Facebook e un account Instagram dedicati a Forte Puin e sono già state organizzate alcune iniziative ad esso dedicate. Riprendiamo la strada per scendere verso Peralto. Scendendo si costeggiano nuovamente le imponenti mura di Forte Sperone e si gode si scorci unici sulla città e sul mare. Giunti in fondo al sentiero ci dirigiamo verso l’Osservatorio Astronomico e la funicolare RighiZecca dove concludiamo la nostra escursione nel verde con un meritato momento di relax in un bar!
Isabella Nevoso Photography
Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Ringraziamo Alfa Group Genova Protezione Civile e i volontari per averci accolto a Forte Begato
ALFA Group Protezione Civile Genova
Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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ROUMIÀGE
ALTA VALLE STURA Ci troviamo in alta valle Stura e qui si parla l’Occitano. L’occitano non è altro che la lingua d’Oc, così chiamata da Dante nel suo De Vulgari Eloquentia, in cui afferma che sono tre le lingue volgari provenienti dal Latino e classificate a seconda del modo in cui veniva espresso l’avverbio di affermazione, in questo caso il latino “hoc est”, divenuto semplicemente “òc”. Prima di salire con i margari in alta valle avevo fatto una semplice ricerca online, per non essere impreparata sul termine da usare riguardo la transumanza. Non avevo tenuto conto del fatto che l’Occitania, il cui territorio si sviluppa da alcune enclavi nei Pirenei centrali catalani (Spagna) ad est, passa per un’ampia regione della Francia meridionale e arriva fino alle vallate italiane in provincia di Cuneo (e in piccola parte di Imperia) ad ovest, include popoli che hanno sì condiviso nel corso dei secoli, e ancora lo fanno, una lingua pressoché comune; questa lingua è però talmente varia, che il termine “roumiàge” viene usato solo in queste valli, ed ha un’eccezione più ampia, che definisce la traversata, di uomini e non solo delle greggi, che da qui si muovevano verso il versante francese e viceversa.
A cura di Adriana Oberto
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FOTOGRAFIE Adriana Oberto Alessandro Panerati
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LA TRANSUMANZA IN ALTA VALLE STURA La partenza per la transumanza ha sempre il suo fascino. Ci parla di tradizioni lontane, di una vita a stretto contatto con gli animali, nonchĂŠ della cultura delle valli che ne sono interessate.
Sara Morgia Photography
Adriana Oberto Photography
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Adriana Oberto Photography
Nel dicembre 2019 la transumanza è stata iscritta, all'unanimità, nella lista rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale dell'Unesco. E, a ragione, visto l’importanza storica e culturale di questa tradizione millenaria che vede gli allevatori e il loro bestiame percorrere strade di montagna alla ricerca di nuovi pascoli.
Dubbio per fortuna fugato dalla Regione Piemonte stessa che ad aprile si è espressa in maniera favorevole alla transumanza purché, ovviamente, fossero prese le necessarie precauzioni. I malgari però non hanno mai avuto dubbi sulla partenza, come ci racconta Andrea:
Qui nelle Alpi si tratta della cosiddetta transumanza verticale, in cui il bestiame, che durante l’inverno pascola nel fondovalle o viene foraggiato nelle stalle, sale in alpeggio dove pascola fino a settembre. Per tradizione la transumanza parte nella settimana della festa di San Giovanni (24 giugno) e termina in quella di San Michele (il 27 settembre), anche se la data esatta può variare e dipendere, tra l’altro, anche dal meteo. Ma non solo.
“La transumanza è in sostanza una migrazione e fa parte dello scorrere delle stagioni; così come, nonostante il CoVid-19, le rondini a primavera sono comunque ritornate, ero profondamente convinto che anche le vacche avrebbero comunque raggiunto i loro pascoli in quota”.
L’emergenza CoVid-19 dei mesi scorsi aveva messo in dubbio la possibilità di portare gli animali in alpeggio.
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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Arriviamo a Vinadio in una soleggiata mattina d’inizio estate, preludio perfetto per ciò che verrà. È la prima volta che partecipo ad un evento del genere e non so esattamente cosa aspettarmi: penso alle vacche e al loro numero, all’idea che ho nella mente di movimento, forse anche un po’ caotico, della mandria. Soprattutto mi immagino di vederla comparire da lontano, il suono dei campanacci che precede l’arrivo degli animali. E invece no. Saliamo con la macchina per un tratto della strada che porta al Colle della Lombarda; ci dà il benvenuto una meravigliosa vista sul Santuario di Sant’Anna dall’altro lato della valle e, mentre siamo lì che parliamo e scattiamo alcune foto, arrivano i camion che trasportano gli animali. Le vacche vengono fatte scendere e viene loro attaccato il campanaccio. I campanacci hanno un grande valore. Vengono regalati in occasione di eventi importanti per la
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famiglia o la mandria, quali un matrimonio, un battesimo, un particolare alpeggio. A leggere le scritte si potrebbe ricostruire la storia della famiglia che possiede gli animali. Le ciòche più grandi, inoltre, i rudùn, che vengono portati solo durante la transumanza, non fanno per tutte, perché sono pesanti ed ingombranti e vengono attaccati solo alle vacche più forti e dall’aspetto più maestoso. Si tratta di una sorta di rituale che si ripete da tempi immemori, in cui gli allevatori imparano fin da piccoli ad osservare i propri animali. I campanacci vengono lucidati, le cinghie oliate e rimesse a nuovo, ed è così che nasce l’aspettativa dell’imminente partenza e si sviluppa la passione per il proprio lavoro. Ce lo racconta il margaro Andrea dell’azienda agricola Fiori dei Monti, che fin da piccolo aveva la responsabilità della scelta.
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Da questo momento le vacche sono libere di muoversi e pascolare liberamente.
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La loro felicità è percettibile. Dopo mesi e mesi chiuse nelle stalle, sono finalmente libere in campo aperto e corrono felici nel prato. E ovviamente hanno fame: “sbranano” letteralmente la montagna con una velocità incredibile. Si tratta esclusivamente di vacche, con l’eccezione di alcuni vitelli al seguito. La maggior parte di loro sono di razza piemontese; sono una razza destinata alla macellazione, ma il latte delle vacche in alpeggio viene in ogni caso usato per la produzione; si riconoscono per il loro colore chiaro, bianco o fromentino chiaro con sfumature fino al grigio o al fromentino; i vitelli sono solo leggermente più scuri. Ci sono poi vacche della razza valdostana, che sono pezzate nere o bianche e marrone. Ci sono anche due regine valdostane castane, la cui razza è famosa per la battaglia delle regine che si svolge ogni anno in Valle d’Aosta e non solo e si riconoscono perché sono di un solo colore.
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I tori non ci sono, per ragioni di controllo e benessere degli animali. Verranno però portati in alpeggio una volta arrivata la mandria.
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LA RAZZA PIEMONTESE E’ la razza per eccellenza della regione Piemonte, conosciuta ovunque per la qualità delle carni. Usata appunto per questo, è stata selezionata per le sue qualità di resa e facilità di allevamento. Si adatta bene ai vari ambienti, anche in condizione di alimentazione modesta, e ha una buona produzione di latte per il vitello. Ha il petto ampio e muscoloso, garrese ampio, lombi muscolosi, tronco lungo, groppa e coscia di buon sviluppo muscolare. La carcassa presenta poco grasso e la carne è di eccellente qualità con bassa percentuale di osso. Nei tori il mantello è grigio o fromentino chiaro con sensibile accentuazione dei peli neri su testa, collo, spalle e sulle regioni distali degli arti; nelle vacche il mantello è bianco o fromentino chiaro con sfumature fino al grigio o al fromentino; i vitelli alla nascita hanno il mantello fromentino carico. Sono neri il musello, le labbra, le mucose orali, le ciglia, i margini delle palpebre e dell'orecchio, parte delle zone sessuali, gli unghioni e gli unghielli. Le corna, nere sin verso i 20 mesi di età, si presentano negli adulti giallastre alla base, più chiare nel terzo medio e nere all'apice.
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Noi siamo gli spettatori e ci troviamo letteralmente circondati dal bestiame, che non è per nulla intimorito dalla nostra presenza. Se ci avviciniamo o ci fermiamo di fronte ad una di loro, la vacca in questione cambia semplicemente direzione o si sposta per non entrare in diretto contatto con noi. E’ un fluire continuo e noi ne siamo parte. Arrivata l’ora del pasto ci allontaniamo al margine del prato, dove ci aspetta il pranzo offerto dal Consorzio Vallestura Experience. Si tratta di cibi semplici, che ben presto vengono arricchiti dalle altrettanto semplici e gustose pietanze che hanno portato i margari che prendono parte alla transumanza. Questi sono attrezzatissimi e ci offrono crostini, carne salata, diversi tipi di formaggi e gli immancabili Barbera, Barbaresco e Arneis – quest’ultimo spumantizzato metodo Charmat. I formaggi sono il pezzo forte e costituiscono la massima espressione di questa produzione a chilometro zero. E così assaggiamo il Raschera, la toma, il nostrale e il Tajarè, che prende il nome dall’omonimo monte. Il tutto offerto dal ristorante A l’UBac di Festiona, che ha organizzato un vero e proprio catering in alta quota. Da queste parti ci sanno fare.
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Terminato il pranzo è ora di muoversi. Le vacche hanno infatti quasi esaurito l’erba e i fiori del campo ed è ora di andare. Vogliamo precederle per vederle poi arrivare dopo di noi. Saliamo così verso il colle della Lombarda, sulla strada che più avanti scende verso Nizza ed in prossimità del lago. Si tratta di un paesaggio mozzafiato, da cui la strada che sale a zig zag è ben in vista e facilmente fotografabile. Ci hanno detto che la mandria ci metterà circa un’ora ad arrivare, ma si sbagliano di grosso: queste sono vacche da Formula 1 e presto sentiamo i campanacci da lontano. Lasciamo che salgano e ci sorpassino, per poi fermarsi attorno al lago.
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Sono proprio un gruppo nutrito, che attira anche l’attenzione di chi, in macchina o in moto, si appresta a varcare il colle. Sono anche forse più tranquille; qui il luogo è più ampio, c’è acqua con cui dissetarsi e i vitelli ne approfittano per bere il latte. Ben presto (e purtroppo) è ora di tornare. Le vacche rimarranno lì per la notte, insieme ai margari che le hanno accompagnate. Sono in tutto due famiglie di margari, con 180 capi in tutto. Si dirigeranno sul versante francese, verso il colle Mercière e il vallone di Mollières, nel parco nazionale del Mercantour; seguiranno il percorso a ritroso quando sarà ora di tornare. Noi ci dirigiamo a valle.
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Il Margaro Margaro è una parola usata in Piemonte (chi parla il dialetto conosce i marghè), variante regionale di malgàro, a sua volta derivato dalla parola malga. È il termine usato per l’allevatore di bestiame, che sia bovino od ovino, e il produttore di latte. Per estensione è anche quello che produce il formaggio dal latte delle sue vacche.
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Ringraziamenti Desidero ringraziare l’ATL Cuneese per il gradito invito a partecipare; la guida Luca Franco di Valle Stura Experience per l’assistenza durante l’intera giornata; il margaro Andrea per averci permesso di fotografare le sue vacche ed aver condiviso con noi la sua passione; tutti i margari per l’eccellente pranzo in quota. Ultimo, ma non meno importante, il mio compagno di avventure Alessandro Panerati, (alias Hari Seldon) che ha collaborato al materiale fotografico presente in questo articolo.
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A CURA DI BARBARA TONIN
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CITTADELLA è un comune del padovano, forse poco conosciuto, ma che vanta un primato addirittura europeo. La sua cinta muraria infatti, alta ben 15 metri, è una tra le poche in Europa a possedere un camminamento di ronda risalente al Medioevo. Fondata in “tempi recenti”, non si hanno prove certe dei suoi primi insediamenti, ma sembra risalgano all’era del paleolitico. La documentazione comprovante la sua esistenza come nucleo abitativo, invece, risale al II secolo d.C., periodo durante il quale venne realizzata la strada Postumia, che collegava Aquileia a Genova.
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Ideata in un periodo di contrasti tra Padova, Vicenza e Treviso, Cittadella nasce nel 1220 su ordine del comune di Padova per controllare i confini. A causa delle sue campagne espansionistiche, per tutta risposta, nel 1195 Treviso edifica un piccolo avamposto militare a Castelfranco Veneto, al confine con il territorio padovano. Cittadella, tuttavia, non sarebbe stata una semplice base difensiva dai signorotti locali e dai comuni limitrofi, ma anche un vero e proprio centro amministrativo ed economico.
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Alcune fonti non attendibili attribuiscono il progetto al padovano Benvenuto da Carturo, ma si pensa sia invece frutto di un’opera collettiva sia dal punto di vista progettuale che esecutivo, i cui lavori si sono protratti per tutto il Duecento e parte del Trecento. Cittadella viene edificata con una cinta muraria a forma ellittica irregolare e al suo interno nascerà una città dotata di autonomia di governo e di propri statuti, rilasciati nel 1236 da Padova. La cinta ha una lunghezza di 1461 metri, uno spessore medio di 2,10 metri ed è attraversata da due traverse perpendicolari, che collegano le quattro porte con il centro. Al suo interno, la città è divisa pertanto in quattro parti e ognuna di queste è organizzata con stradelle a reticolato romano. Esternamente, alimentato da acque risorgive, un largo fossato doppio di quello attuale sia in larghezza che in profondità, circonda le mura. Quattro ponti levatoi, in origine in legno ma dal XVI secolo in muratura, permettono l’accesso attraverso le porte. Ognuna di queste è rivolta verso un punto cardinale e, pertanto anche in direzione di Bassano del Grappa, Treviso, Padova e Vicenza, da cui prendono il nome.
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Le mura sono intervallate da 36 torri di varie dimensioni, distanziate tra loro di circa 40 metri: i 4 torrioni in corrispondenza delle porte di accesso, 12 torri a pianta rettangolare di 6×4 metri e con un’altezza di circa 22 metri e 16 torresini di base più ridotta di 6×3 metri per un’altezza di 15. Fra le torri, le mura sono coronate da un parapetto con 10 merli guelfi a due spioventi lisciati. In alcuni punti sono presenti anche merli ghibellini (o a coda di rondine), inseriti in restauri recenti. La muraglia sostanzialmente non ha fondamenta, ma poggia su un basamento di sabbia e ghiaia. È sostenuta da terrapieni, composti da materiali di riporto delle fosse ed è costruita con muri a cassetta (grossi pezzi lapidei riempiti con abbondante malta) o a sacco (due strati di pietra riempiti di conglomerato) con materiali provenienti dal fiume Brenta. Numerosi sono stati nei secoli i cedimenti di alcune sue parti, dovuti sia alla scarsa o assente manutenzione sia al fatto che gli abitanti sottraevano materiale al terrapieno per coprire avvallamenti e buche del terreno in città. In particolare un crollo sul settore nord-ovest non è mai stato ricostruito. Un restauro completo è stato realizzato tra il 1998 e il 2013. Per riportare a nuova vita la magnifica muraglia sono stati impiegati materiali e procedure costruttive compatibili e il più possibile simili a quelli utilizzati storicamente. Quest’ultima purtroppo era infatti caratterizzata da dissesti statici diffusi, da crolli generalizzati a livello del cammino di ronda e delle merlature e dal progressivo deterioramento delle murature. Nel settore nord-ovest invece, nel punto di discontinuità, è stata realizzata una scala in legno e acciaio, che permette la prosecuzione del camminamento di ronda.
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I lavori per la costruzione della muraglia si svolsero gradualmente, attraverso diverse fasi. Si pensa che in principio vennero edificati prima i quattro torrioni e una cortina difensiva, utilizzando materiali quali terra e legno; solo successivamente vennero edificati in muratura i torrioni, le porte, le torri, i torresini e una cinta di 8-9 metri, sostituendo quindi tutti i materiali facilmente deperibili. L’opera si concluse alla fine con i merli e gli archetti, fino a raggiungere l’altezza attuale.
Nei secoli seguenti viene fortificata maggiormente a causa dei conflitti bellici. Dal 1387 viene vietata ogni tipo di struttura in legno o in paglia, per evitare incendi e favorire così il nemico. Vengono inoltre ampliate le strade, viene realizzato un sistema di smaltimento delle acque e dei servizi igienici, vengono costruiti sei pozzi in pietra e un recinto fortificato all’esterno di porta Padova al fine di ospitare soldati, cavalli, armi e macchine da guerra. Nella piazza centrale, invece, vengono edificate la sede del Comune, del Podestà e la Chiesa di San Prosdocimo.
PORTA BASSANO Barbara Tonin Photography Il camminamento di ronda percorre l’intero perimetro della cinta muraria; è sito ad un’altezza di 12 metri ed è largo dai 60 agli 80 centimetri. Era attrezzato per far fronte a qualsiasi tipo di attacco nemico: scale retrattili, parapetti, pannelli, tetti, porte, stendardi, botole, finestre, pennoni, ponti levatoi pedonali e argani. Il parapetto con o senza merli fungeva da barriera di protezione per le scorte e i difensori. I merli sporgono leggermente attraverso beccatelli o mensolature ad archetto e sono costituiti da feritoie sguanciate e nicchie.
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Tra merlo e merlo, nelle zone aperte sarebbero dovuti esserci pannelli o mantellette mobili di protezione; inoltre dai fori-caditoia era possibile far cadere materiale infiammabile e sassi. Le torri invece, erano ricoperte da solai o da tetti spioventi. Al camminamento si poteva accedere dai torrioni, ora solo da porta Bassano, porta Vicenza e da porta Padova.
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PORTA BASSANO Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Le quattro porte di accesso presentano dimensioni differenti, ma sono tutte dotate di diversi e complessi elementi difensivi: un ponte levatoio per i carri a cui è affiancato uno pedonale per i pedoni e i cavalieri, che accedevano tramite una piccola porta dedicata, la “pusterla”. Gli accessi erano inoltre difesi da portoni ad ante di ferro e legno e da saracinesche calate dall’alto anch’esse in ferro, che una volta chiusi creavano dei cortiletti interni per intrappolare il nemico.
PORTA VICENZA Barbara Tonin Photography
Il cammino di ronda e la torre, in aggiunta, grazie a finestre, feritoie, piattaforme aggettanti e trabocchetti, assicuravano protezione all’interno. I ponti levatoi vengono sostituiti da quelli in muratura nel 1516, al termine della guerra tra la Repubblica di Venezia e i federati della Lega di Cambrai e l’accesso viene regolato da dei portinai. Nel 1787 vengono eliminate anche le saracinesche e tra il 1851 e il 1857 vengono abbattute le baracche a ridosso delle mura, vengono ricostruite le parti mancanti e rinforzate le altre. È in questo periodo che vengono inseriti i primi merli ghibellini, in sostituzione di alcuni merli guelfi. Porta Padova è l’ingresso principale. Nel sottarco, infatti, è presente lo stemma dei Carraresi e nella facciata esterna possiamo vedere quelli di Padova e di Cittadella. La struttura è la medesima delle porte Vicenza e Treviso, ma si distingue da queste per la presenza di una scala a chiocciola nel primo cortile d’armi, ma soprattutto per due importanti strutture: la Chiesa di Santa Maria del Torresino e la Torre di Malta, ora museo.
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PORTA PADOVA Barbara Tonin Photography
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PORTA VICENZA Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Adibita ad oratorio, la Chiesa di Santa Maria del Torresino sfrutta la cinta muraria come parete sud e il torresino come torre campanaria. Nel Settecento il tetto viene innalzato fino al camminamento di ronda e la facciata sud viene forata per creare delle grandi finestre. La Torre di Malta, un tempo chiamata anche “Torrazzo”, viene costruita su ordine di Ezzelino III da Romano nel 1251 a ridosso del torrione, che viene inglobato. Alta 21 metri, poggia su un basamento spesso 5 metri ed è strutturata su più piani. Utilizzata come prigione e per l’alloggiamento delle guarnigioni e dei secondini fino al 1256, non se ne conosce la destinazione nei secoli successivi. La sua fama, tuttavia, venne descritta nella Cronica di Rolandino e cantata anche da Dante Alighieri nel IX Canto del Paradiso (versi 52-54) della Divina Commedia. Così proferiva Cunizza da Romano, sorella del crudele Ezzelino III: “Piangerà Feltro ancora la difalta dell'empio suo pastor, che sarà sconcia sì, che per simil non s'entrò in Malta” (Anche Feltre piangerà per colpa del suo empio Vescovo, la cui opera tanto turpe sarà, che per un delitto simile mai nessuno entrò in prigione). Si narra, infatti, che i nemici del signore di Padova, fossero anche donne o bambini, subissero crudelissime torture: trascinati da cavalli per i piedi, venivano condotti alla
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prigione, lasciati senza acqua e cibo e torturati. Poi quando si rimettevano, nuovamente torturati più e più volte, fino al loro suicidio o all’esecuzione. Porta Vicenza e Porta Treviso sono molto simili nella struttura. Entrambe munite di torrioni da 22-25 m, sovrastate da merli, vengono realizzate con un triplice sistema di arcate. Analogamente alle altre, sono dotate di magazzini sotterranei e vani cella. La prima viene costruita dopo circa un secolo rispetto alle mura e, purtroppo, viene gravemente danneggiata in epoca napoleonica. La parte esterna è andata distrutta, anche per agevolare il transito; nella parte interna sono visibili resti di affreschi risalenti ai secoli XVII e XVIII. Porta Vicenza attualmente presenta un accesso all’adiacente torrione anche dal basso, mentre inizialmente era possibile solo dalle mura. Internamente è suddivisa in sei diversi piani (non alle quote originali): al secondo e al sesto è possibile vedere la posizione degli antichi livelli e la travatura a vista originale. Il terzo piano presenta una porta che tramite un passaggio, distrutto in epoca napoleonica, conduceva alla cinta muraria. Dal quarto, invece, si può raggiungere il camminamento di ronda tramite una porta. Un ingresso è presente anche al quinto livello. L’ultima rampa di scale porta in cima al torrione, che presenta un coronamento con merli ghibellini.
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La quarta porta, Porta Bassano, fu la più importante dal punto di vista difensivo. Può essere definita una sorta di castello nel castello. Alta 30 metri e quindi molto più grande rispetto alle altre, assicurava un’eccellente difesa in caso di attacco, grazie anche alla struttura con cinque ordini di arco e al fossato che la circondava, ottenuto dalla deviazione di quello principale. Sulle sue facciate sono ancora ben visibili gli stemmi dei signori carraresi. Adiacente alla porta, è presente la casa del capitano della guardia, ora ufficio del turismo e museo. Disposta su tre piani, presenta al primo livello dei caratteristici affreschi risalenti ai sec. XIII e XVI con gli stemmi delle famiglie che governarono la città. La cinta muraria di Cittadella con le sue porte e i torrioni è sicuramente un’opera che vale la pena vedere, ma sono di sicuro interesse anche il Palazzo Pretorio, il Duomo e il Palazzo della Loggia o le ancor più antiche pievi di S. Donato e di Santa Lucia di Brenta nelle vicine frazioni, gioielli medievali rispettivamente del VI e XII secolo. Oppure ci si può semplicemente perdere tra le stradelle e i negozi del piccolo centro storico. Barbara Tonin
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La Morra (CN) è un piccolo borgo del Piemonte di circa 2800 abitanti situato nelle Langhe, a pochi chilometri da Alba. Dal 2014 “I Paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe-Roero e Monferrato" sono stati dichiarati patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO. La Morra è anche stata definita “Bandiera Arancione” del Touring Club che premia i piccoli borghi d’eccellenza dell’entroterra italiano.
CALA ANDREANI Manuela GiuliaAlbanese Migliore Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Adriana Oberto Photography Una visita al centro storico di La Morra è indispensabile prima di iniziare il nostro tour. Partendo da piazza Martiri e percorrendo Via Umberto ci si addentra nel cuore del centro storico: incontriamo per prima la chiesa della Confraternita di San Sebastiano risalente al XVIII secolo, e a sinistra della facciata, un campanile in mattoni del 1766. Proseguendo si arriva in Piazza Castello dove si erge la Torre campanaria del 1700, costruita con i resti del castello, distrutto nel XVI secolo. Poco distante si può ammirare il monumento in bronzo al Vignaiolo d’Italia, l’opera dell’artista Antonio Munciguerra inaugurata nel 1972, che evoca la fatica e il lungo lavoro del contadino che lavora nei vigneti tutto l’anno. Adiacente la scuola, si trova il busto in marmo di Giuseppe Gabetti, compositore del primo inno d’Italia. Il pezzo forte della piazza è sicuramente la balconata del
Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
Belvedere: da qui il panorama è mozzafiato e la vista sulle colline delle Langhe e del Roero è ineguagliabile. Godendo di una posizione molto privilegiata, in mezzo alle colline delle Langhe, La Morra offre agli amanti dell’escursionismo la possibilità di scoprire il territorio attraverso 7 sentieri a tema realizzati dall’associazione Eventi e Turismo per promuovere il territorio. Molti tour operator offrono la possibilità di percorrere i sentieri inserendoci una serie di tappe enogastronomiche che permettono di scoprire i maggiori produttori locali. Le stradine, non solo conducono il visitatore vicino agli estesi vitigni, ma permettono anche di scoprire piccole frazioni di La Morra, panchine giganti, alberi secolari e punti panoramici. Di diversa lunghezza e altimetria, questi sentieri sono adatti a tutti.
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Tra le varie possibilità di escursionismo molto conosciuta è diventata la Mangialonga: una camminata enogastronomica che prevede, in alcune tappe, degustazioni di prelibatezze locali e attira a La Morra migliaia di turisti e appassionati ogni anno. Tornando ai percorsi enogastronomici, il nostro è stato pensato da LoveLanghe, che ci ha messi in contatto con produttori e aziende di grande livello. Love Langhe è un tour operator di Alba con esperienza decennale sul territorio, si occupa di turismo esperienziale per privati e aziende e del comparto team building e incentive. Per Love Langhe, il turismo significa prima di tutto passione per il proprio lavoro e impegno verso chi decide di affidarsi alle loro mani. Si occupano di organizzare una proposta su misura, partendo dalle esigenze del cliente e costruendo passo dopo passo l’esperienza da cui potranno ottenere la massima soddisfazione. Oltre all'organizzazione di business meeting, incentive travel, team building ed eventi aziendali, supportati da professionisti, Love Langhe fornisce consulenze in ambito turistico, sia per le aziende – in cui l'accoglienza rappresenta una delle attività principali -, sia per coloro che hanno fatto dell’incoming il valore aggiunto al proprio business principale. Inoltre, stanno sviluppando, in collaborazione con formatori
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professionisti, un ramo di attività legate al concetto di ''mens sana in corpore sano'', che prevedono esperienze per privati e aziende, che mettono in connessione l'alimentazione, il cibo, l'ambiente e il proprio corpo. In questi ultimi anni, La Morra è diventata famosa a livello mondiale per il turismo enogastronomico e soprattutto per la produzione del vino Barolo. La sua posizione e la sua particolare esposizione al sole fanno sì che sulle colline del territorio si ottengano pregiatissimi vitigni; tra questi il più rinomato in assoluto è il Nebbiolo da cui si producono il Barolo e il Nebbiolo d’Alba. Il Barolo, coltivato nel Monferrato da secoli, è oggi un vino riconosciuto DOCG. Ritenuta tappa obbligatoria per gli amanti del buon cibo ma, soprattutto, per gli intenditori di vini, il turismo è diventata l’attività principale del paese; in ogni via si possono trovare cantine e locande tipiche dove poter degustare non solo il famoso vino, ma anche i pregiati prodotti locali. Non dimentichiamo che qui viene anche coltivata la nocciola trilobata, marchio IGP. La nocciola, che deve la sua qualità all’aria collinare e prealpina in cui cresce, è usata in diverse preparazioni culinarie e ovviamente in pasticceria. E proprio da lì inizia il nostro percorso enogastronomico, con la visita alla Pasticceria di Giovanni Cogno.
Stefano Tarizzo Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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La pasticceria tradizionale di Giovanni Cogno è nata nel 1986 e vanta l’utilizzo di materie prime esclusivamente a km 0, che vengono sottoposte a un’attenta ricerca della qualità. Una volta arrivati in azienda abbiamo avuto l’opportunità di ricevere una spiegazione approfondita riguardo la lavorazione all’interno del laboratorio, circondati da un intenso profumo di nocciola e cioccolato. La Nocciola Piemonte, anche chiamata “Tonda Gentile delle Langhe”, è una particolare varietà di nocciola IGP (Indicazione Geografica Protetta), che ha delle caratteristiche ben specifiche: il guscio è molto sottile, il frutto ha una forma tonda che favorisce la sgusciatura mantenendo intatto il seme, infine, la caratteristica che le contraddistingue è quella di avere una pellicola che avvolge il seme, che è facilmente asportabile in seguito alla tostatura.
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Ma come funziona la produzione dei famosi dolci di nocciole nella Pasticceria di Giovanni Cogno? Dopo aver comprato le nocciole IGP già sgusciate, le sottopongono alla tostatura. In seguito, effettuano la pelatura a mano, oppure utilizzando una speciale “rete” in legno e metallo grazie alla quale eliminano la pellicola che avvolge il seme. L’ultimo passaggio è un’attentissima e rigorosissima ricerca della qualità, attraverso la scelta dei frutti “più belli”. Alla fine della visita abbiamo avuto modo di assaggiare alcune delle loro eccellenze: nocciola ricoperta di cioccolato, torta alle nocciole, tartufi dolci, meringa alla nocciola, biscotti alla nocciola e Lamorrese al barolo. Tutti questi prodotti si possono comprare in loco.
Monica Pastore Photography
Cosimo Nardone Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Ci dirigiamo quindi alla seconda tappa del nostro tour: l’Azienda vitivinicola della famiglia Oddero. Durante la visita abbiamo avuto modo di approfondire la storia e la tradizione della cantina a conduzione famigliare e di degustare alcuni loro vini. «Abbiamo un paese, un territorio e soprattutto profonde radici che risalgono al XVIII secolo che racchiudono come in uno scrigno una piccola grande storia da raccontare». Questo è il bellissimo messaggio che viene trasmesso dalla famiglia Oddero a tutti gli appassionati che visitano la loro tenuta, degustandone i prodotti. La genesi della cantina Oddero e delle tradizioni famigliari è nata nei vigneti delle Langhe, quando, sul finire del Settecento, Giovanni Battista Oddero iniziò la vinificazione dai vigneti ubicati a La Morra, tramandando ai figli Lorenzo e Luigi l’antica tradizione. Il vino, dapprima venduto in piccoli fusti e damigiane soltanto nell’ambito locale, venne apprezzato a tal punto
che la sua eco si diffuse e, grazie agli sforzi del primo Giacomo Oddero, venne esportato nel mondo e, alla fine del XIX secolo, persino in America. In Italia i vini hanno ricevuto importanti riconoscimenti: ad esempio, nel 1911 il Barolo di questa casa fu protagonista all’Esposizione Internazionale di Torino, durante una degustazione organizzata dal Circolo Enofilo Subalpino, in occasione del 50° anniversario dell’Unità d’Italia. La storia contemporanea dell’azienda è invece legata alla figura di Giacomo Oddero, il nipote che ereditò lo stesso nome del nonno, e negli anni Cinquanta rinnovò l’impostazione agricola iniziando una lunga battaglia per elevare la qualità ed il prestigio dei vini, sia quelli di produzione propria sia quelli dell’intera provincia di Cuneo. Il suo impegno lo vide altresì ricoprire importanti incarichi pubblici: fu assessore provinciale all’Agricoltura e questo compito gli permise di firmare gli storici disciplinari che concessero la sigla DOC e, successivamente, la DOCG ai vini di Langhe e Roero.
Lorenzo Rigatto Photography
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Grazie alla sua guida i poderi e le cantine di famiglia assunsero l’attuale configurazione produttiva, ampliando i vigneti, la produzione e sostenendo una politica di qualità che ancor oggi è una virtù riconosciuta a livello internazionale.
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in primo luogo, la volontà di preservare la qualità della produzione in caso di danni a un vigneto; in secondo luogo, l’obiettivo di creare un sapore che rispecchi carattere e memoria del territorio.
Attualmente, questo patrimonio è gestito e portato avanti dalla figlia Mariacristina e dai nipoti Isabella e Pietro, che rappresentano la settima generazione di una famiglia con oltre un secolo e mezzo di tradizione vitivinicola. Con loro l’azienda ha conquistato altri riconoscimenti, ottenuti anche grazie a un tocco di giovinezza e innovazione che hanno saputo donare ai prodotti. Le materie prime maggiormente utilizzate per la produzione sono le uve del Nebbiolo, vitigno principe della zona, con cui producono vini come ad esempio il Langhe DOC Nebbiolo e diversi tipi di Barolo. Da non dimenticare quello Classico DOCG, chiamato così perché rispecchia il modo più tradizionale di produrlo, mediante l’utilizzo di uve 100% Nebbiolo provenienti da diversi vigneti, come il Brico Chiesa adiacente alla tenuta, il Capallotto a La Morra e il Brico Fiasco a Castiglione Faletto. Questo Barolo è il vino più rappresentativo dell’azienda, quello che si produce in quantità maggiore e che ha reso questa casa famosa non solo in Italia ma soprattutto all’estero. La tradizione di utilizzare uve di differenti vigneti ha un retaggio antico e ha principalmente due motivazioni:
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Della produzione fanno inoltre parte vini molto limitati e di nicchia: il Barolo DOCG Brunate, il quale prende il nome dal vigneto, il Barolo DOCG Rocche di Castiglione e il Barolo DOCG Villero dalla zona di Castiglione Faletto, il Barolo Manuela Albanese Photography Vignarionda dalla zona di Serralunga d’Alba ed infine il Barolo DOCG Bussia Vigna Mondoca dalla zona di Monforte d’Alba. Una gamma molto rappresentativa di tutta la zona delle Langhe. Infine, la famiglia Oddero produce: il Barbaresco DOCG Gallina da un vigneto singolo e altri vini classici della zona, come il Barbera d’Alba DOC Superiore, il Dolcetto d’Alba DOC e il Moscato d’Asti DOCG Cascina Fiori (una produzione su scala ridotta, ma tradizionale e storica). L’unico vino bianco secco prodotto dall’azienda è il Langhe DOC Riesling, con uve tipiche dell’area del Nord Europa. La famiglia Oddero ha piantato il vigneto Riesling a La Morra nel 2006, vicino a un vigneto di Chardonnay; tale posizione ha contribuito a far sì che i primi anni il vino fosse un blend tra Riesling e Chardonnay, che si è modificato con il tempo, fino a diventare dal 2016 un vino 100% Riesling. Ultimo vino presentato durante la visita è stato il Barbera d’Asti DOCG Superiore Nizza, non tipicamente langarolo ma astigiano, frutto di una lavorazione storica realizzata negli anni Ottanta. Già sul finire del 1970 la famiglia aveva acquistato il vigneto nella zona di Nizza Monferrato, rinomata per la produzione di Barbera di alta qualità; un’altra testimonianza di quanto la casa Oddero abbia sempre avuto interesse e lungimiranza nel perseguire il connubio tradizione-innovazione. Giroinfoto Magazine nr. 58
Il rispetto profondo per l’ambiente, per il territorio, per la terra in cui non solo si produce ma in cui si vive ha portato questa storica famiglia ad attuare scelte sempre più orientate verso il biologico, di cui è stata riconosciuta la certificazione BIO nel 2008. Un riconoscimento che incarna perfettamente la filosofia aziendale: «In cantina cerchiamo da sempre il massimo rispetto dell’integrità della materia prima, che rappresenta davvero la ricchezza e la versatilità del nostro suolo. Cerchiamo di lavorare affinché le nostre bottiglie di vino “siano” i vigneti che coltiviamo. Abbiamo la virtù di possedere alcuni tra i più belli ed importanti vigneti delle Langhe del Barolo e del Barbaresco, si tratta “talenti” che non vanno sprecati».
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Domenico Gervasi Photography
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All’ora di pranzo ci siamo spostati in frazione Annunziata Ciotto, a pochi passi da La Morra, dove abbiamo incontrato Alessandro Rivetto, omonimo proprietario di una azienda agricola di vini eccellenti di Langa DOC. Alessandro, discendente da una famiglia con più di cent'anni di tradizione vitivinicola ed ha ereditato, con i suoi fratelli, i vigneti e la passione per la viticoltura dal padre e prima ancora dal nonno. Ben presto ha deciso di continuare l’attività in proprio estendendo le sue proprietà con nuove acquisizioni. La compravendita dei vigneti ha avuto tutto una sua particolare trafila che richiede spesso il tempo di un’intera generazione. Alessandro ha avuto la fortuna di potersi ingrandire con l’acquisizione di terreni dai cui vigneti si ottengono vini piemontesi pregiati come la Barbera, il Barolo ed il Barbaresco.
Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
Sono vini cosiddetti “fini” di cui Alessandro ha scoperto il sapore nell’infanzia, quando seguiva il nonno nella sua attività agricola. Oggi i suoi vigneti si estendono su una superficie di 15 ettari nel cuore della Langa tra i comuni di La Morra, Serralunga d’Alba e Sinio; di questi, 7 ettari si trovano in località Montersino, nei pressi di Alba, zona DOCG del pregiatissimo Barbaresco di Montersino, che Alessandro Rivetto produce. Queste terre sono particolarmente adatte per la coltivazione delle viti per tre importanti motivi: la composizione del terreno, la sua conformazione e la posizione. Rivetto ci racconta che già ai tempi dell’Unità d’Italia fu Cavour a credere che gli impiantamenti di vigneti in queste zone avrebbero dato risultati eccellenti, non da meno delle zone francesi più rinomate.
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Per quanto riguarda la composizione del terreno, questo risulta essere particolarmente calcareo e argilloso e per questo adatto alla coltivazione della vite. Manuela Albanese Photography In secondo luogo, l’esposizione al sole sulle colline delle langhe, con le loro basse quote, è ideale per ottenere vini di qualità pregiate. Infine, le brezze che dalla Liguria si muovono verso l’entroterra creano un microclima particolare, caratterizzato da poca umidità. L'alta qualità dei vini prodotti in questa regione è dovuta, non solo alla zona in cui crescono i vigneti, ma anche grazie ai metodi ed ai materiali utilizzati per la produzione. Le barriques, ad esempio, piccoli carati di rovere francese che hanno una capacità di 225 litri, oltre alle botti più grandi, sempre di rovere, prodotte con legno di Slavonia (zona boschiva della Croazia orientale). Il produttore ci spiega che il legno delle sue barriques ha una tostatura media, che conferisce un sapore leggermente vanigliato ammorbidendo così i tannini del vino, utili per l’invecchiamento. Questo accostamento dona al vino una struttura più aromatica e quindi gradevole al palato, senza alterarne il gusto. Alessandro Rivetto è un personaggio molto loquace, carico di simpatia, e amabilmente ci racconta l’origine della Nascetta, un vino bianco prodotto in queste zone negli ultimi anni.
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L’idea è nata nel 2002 quando Daniele Savio, un suo ex compagno di scuola, gli confidò di aver ritrovato una vite particolare cresciuta in mezzo ai vitigni dei vini rossi. Questa produceva un’uva bianca dall’aspetto vermentino. Fu così che provarono a farne del vino, con risultati assai sconfortanti. Inviarono un grappolo ad un laboratorio di Basilea per ottenere l’isotopo, ovvero l’esatta origine della pianta. Dall’analisi risultò un vermentino incrociato con una favorita. Il vermentino, una vite di provenienza sarda, giunse nel Piemonte quasi certamente nel periodo del Regno di Sardegna quando gli scambi tra l’isola e le terre sabaude erano frequentissimi. La favorita invece era dai tempi più antichi un vitigno autoctono.
Complessivamente la produzione Alessandro Rivetto supera le 100.000 bottiglie l’anno. Tra i vini rossi spiccano le 25.000 bottiglie di Langhe Nebbiolo, 20.000 di Barolo e i 12.000 di Barbaresco a cui si aggiungono 15.000 bottiglie di Barbera d’Alba e 6000 di Dolcetto d’Alba. La produzione del bianco si completa con 5.000 di Langa Arneis e 15.000 bottiglie annue di moscato d’Asti. Bottiglie di vini pregiati che Alessandro Rivetto esporta in tutto il mondo. Da questa zona di Langa divenuta patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO i suoi vini raggiungono varie parti
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La vite poi, non potendo godere dell’escursione termica che gli era necessaria si era persa nel tempo e solo poche piante erano sopravvissute. I viticoltori decisero di farne produrre altre da un vivaio specializzato padovano, viti esigentissime che necessitavano un trapianto in vaso e un’attenta cura prima di essere impiantate nei terreni langaroli. Dopo la vendemmia, per ottenere quel sapore peculiare che ha la Nascetta, i produttori dovettero aggiungere del ghiaccio secco nelle botti, durante la fermentazione delle uve, per ricreare quell’escursione termica indispensabile per la resa finale. E così è nata la Nascetta. Oggi, l’azienda agricola di Rivetto ne produce circa 3.000 bottiglie l’anno.
d’Europa; dalla Svizzera alla Francia, a diversi paesi del nord Europa e passando per Hong Kong e per il Brasile arrivano nel Nord America, Canada e Stati Uniti su tutti, rigorosamente marchiati Alessandro Rivetto. Ringraziamo, inoltre, “Orto Smeraldo” che ci ha gentilmente fatto assaggiare la sua torta di nocciole. Orto Smeraldo è un’azienda agricola che produce frutta e verdura; l’azienda è nata nel 2009 da un’idea di Borio Enzo, nel settore ortofrutticolo da ormai sessant’anni. L’azienda, tramandata da padre in figlio, sorge in frazione Vaccheria del comune di Guarene, paese situato nel cuore del Roero.
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A cura di Maddalena Bitelli, Remo Turello e Lorenzo Rigatto
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ERUSALEMME, CITTÀ PRINCIPALE DELLO STATO DI ISRAELE, SI TROVA AL CENTRO DELLA GIUDEA A MILLE METRI D’ALTITUDINE ED È CONOSCIUTA NEL MONDO PER EVENTI STORICI DI NATURA RELIGIOSA. È infatti la città santa per le tre principali religioni monoteiste: Cristianesimo, Ebraismo e Islamismo. All’interno della città vecchia, nucleo storico della città, sono custodite tre “pietre”, simboli delle tre religioni: il Calvario e il Santo Sepolcro per i cristiani, il Muro Occidentale (conosciuto anche come Muro del Pianto) per gli ebrei e la Roccia Sacra per i Musulmani. Gerusalemme, in ebraico Jerushalayim, significa “città della pace”, tuttavia nel corso della storia è stata scenario di guerre e distruzioni ed è tuttora al centro di tensioni politiche e religiose.
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La città è suddivisa in tre parti ben distinte: la città vecchia dentro le mura, la Gerusalemme Ovest e la Gerusalemme Est. La città vecchia è rimasta immutata nel tempo ed è divisa in quattro quartieri: cristiano, musulmano, ebraico e armeno. Essi sono separati dalle strutture dell’antica città romana: il Cardo Massimo, che divide la città da Nord a Sud, collegando la Porta di Damasco e la Porta di Sion, e il Decumano, che divide la città da Est a Ovest, dalla Porta di Giaffa fino all’Area del Tempio.
Le mura che delimitano la città vecchia sono state distrutte e ricostruite più volte nel corso dei secoli; quelle attualmente visibili e percorribili vennero fatte edificare dal sultano ottomano Solimano il Magnifico raggiungono i 13 metri di altezza e sono munite di 34 torri e 8 porte.
Maddalena Bitelli Photography
Remo Turello Photography
Esse sono state costruite tra il 1538 e il 1542 e ancora oggi utilizzate, fatta eccezione per la Porta Dorata, che si trova all’interno di un cimitero musulmano e che un tempo immetteva direttamente al Tempio. La Porta Dorata è attualmente chiusa, ma secondo la tradizione si riaprirà al momento della venuta del Messia. Abbiamo visitato la Terra Santa e Gerusalemme a inizio gennaio: dopo due giorni in Galilea (Giroinfoto magazine n.54), una giornata nel deserto e un tuffo nel Mar Morto (Giroinfoto magazine n.56), siamo approdati nella Città Santa. Per una visita approfondita consigliamo un soggiorno della durata di circa tre giorni.
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Il primo giorno ci siamo recati nei luoghi sacri della religione Cristiana. Per i cristiani la città di Gerusalemme è il luogo della redenzione, della morte e resurrezione di Gesù, nonché luogo dell’istituzione della Chiesa. Nell’arco della mattinata ci siamo concentrati sui luoghi all’esterno delle mura della città vecchia, per poi spostarci nel pomeriggio alla Chiesa del Santo Sepolcro all’interno del quartiere cristiano. La prima tappa del nostro pellegrinaggio è stata al Monte degli Ulivi, nella parte orientale della città, dove fin dai primi secoli furono costruiti chiese e monasteri. In cima al monte si trovano i resti di una basilica bizantina detta dell’Eleona, ovvero dell’uliveto, dove Gesù avrebbe insegnato la preghiera del Padre Nostro ai discepoli. Qui attualmente sorge un convento carmelitano nel cui chiostro si trovano tavole con la suddetta preghiera scritta in tutte le lingue del mondo, compresi alcuni dialetti. Poco distante sorge la chiesa Dominus Flevit, costruita a forma di lacrima; secondo la tradizione, infatti, in questo luogo è ambientato l’episodio evangelico del pianto di Gesù su Gerusalemme. Scendendo lungo il monte, ci siamo fermati presso il Getsemani, detto anche orto degli ulivi, luogo in cui Gesù si fermò a pregare dopo l’ultima cena con alcuni discepoli e nel quale avvenne il tradimento da parte di Giuda.
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Oggi quest’area di circa 1200 mq è gestita dai frati francescani che invitano i visitatori al silenzio, alla meditazione e alla preghiera; immaginate di sedervi all’ombra di un albero millenario, con la meravigliosa vista delle mura e della città vecchia di fronte a voi. Nell’orto si trovano ancora ulivi risalenti all’epoca di Gesù. Per l’ora di pranzo ci siamo spostati verso il Monte Sion, a Sud-Ovest di Gerusalemme. Qui abbiamo visitato la chiesa di San Pietro in Gallicantu e il Cenacolo. La piccola chiesa di San Pietro in Gallicantu (che significa “al canto del gallo”) venne edificata agli inizi del Novecento dai padri assunzionisti francesi, sul luogo in cui secondo la tradizione, San Pietro avrebbe rinnegato tre volte Gesù prima del canto del gallo. Durante gli scavi, nella cripta sotto l’attuale chiesa, vennero alla luce strutture dell’epoca romana scavate nella roccia; una di esse ha le caratteristiche di una prigione e pertanto viene denominata “la prigione di Cristo”. Poco distante un terrazzo panoramico da cui è possibile ammirare tutta la città antica e i colli intorno ad essa. Ultima tappa al di fuori delle mura è stata al Cenacolo, che si trova poco lontano dalla Porta di Sion. La tradizione vuole che in tale sito si sia svolto l’episodio evangelico dell’ultima cena.
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Nel pomeriggio abbiamo continuato il percorso all’interno delle mura e siamo giunti alla Basilica del Santo Sepolcro, il luogo più importante della religione cristiana. Essa si trova al centro del quartiere cristiano e sorge dove si ritiene che sia stato sepolto e in seguito sia risorto Gesù. Si presenta come una variegata alternanza di stili, in quanto è luogo di culto per tutte le professioni cristiane: ortodossi, cattolici e armeni. Per la visita all’interno abbiamo seguito le ultime cinque stazioni della Via Dolorosa, ovvero la via percorsa da Gesù prima di essere crocifisso; le prime nove tappe si trovano all’esterno della basilica. Entrando dalla porta principale, sulla destra si trova una scala che porta al Calvario, ossia il luogo della crocifissione di Gesù.
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Questo spazio è diviso in due cappelle: una di proprietà cattolica detta “della crocifissione” e l’altra appartenente agli ortodossi detta “del calvario”. L’altare di quest’ultima venne costruito sulla roccia in cui fu piantata la croce di Cristo. Da una ripida scala sulla sinistra, siamo tornati nel vestibolo della basilica, dove ci siamo fermati davanti alla Pietra dell’Unzione, che ricorda gli oli di cui fu cosparso il corpo di Gesù prima della sepoltura. Proseguendo in senso orario si arriva alla Rotonda dell’Anastasis (che significa “resurrezione”), al centro della quale vi è l’Edicola del Santo Sepolcro, dove ogni giorno fin dalle prime luci del mattino migliaia di fedeli si recano per la preghiera e la contemplazione.
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Alle 19 ci siamo fermati all’esterno, di fronte al portone principale della chiesa, per assistere al caratteristico rito di chiusura. I riti di apertura e di chiusura della basilica sono immutati dal 1192, quando il sultano Saladino, a capo della città di Gerusalemme, affidò il controllo del portone a due famiglie musulmane, per risolvere i contrasti tra i cristiani per la gestione della basilica. Da quel momento, ogni giorno, alle 4 del mattino e alle 19, un membro della famiglia Joudeh porta la chiave della porta, che viene aperta e chiusa da un membro della famiglia Nusseibh.
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Il secondo giorno del nostro tour lo abbiamo dedicato ai luoghi della tradizione ebraica, ovvero il Memoriale dello Yad Vashem, il Museo della Torre di Davide e il Muro del Pianto. Il Memoriale dello Yad Vashem, sulle pendici della Collina del Ricordo, è il più importante monumento ebraico in ricordo delle vittime del nazismo. L’idea di istituire un luogo di memoria per i milioni di ebrei uccisi nei campi di sterminio, risale a dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Il suo nome, che significa “un monumento e un nome”, fa riferimento a un’espressione del Profeta Isaia in cui si legge “io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome, darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”. In realtà, la struttura attuale risale al 2005. Oltre al museo storico, che racconta la storia della Shoah attraverso foto, video e documenti, al suo interno il visitatore può percorrere il Viale dei Giusti delle Nazioni ed entrare nella Sala del Ricordo, dove brucia la Fiamma Eterna, simbolo del ricordo costante, e sul cui pavimento sono incisi i nomi dei principali campi di concentramento. Infine, il luogo più straziante è sicuramente il Memoriale dei Bambini, costruito per ricordare l’uccisione di un milione e mezzo di bambini ebrei: un lungo corridoio buio circondato da specchi, nel quale sembra di camminare in mezzo a milioni di fiammelle al suono di una voce che legge i singoli nomi.
Il Museo della Storia di Gerusalemme della Torre di Davide si trova all’interno della cittadella medievale, uno dei luoghi più interessanti della città vecchia, a pochi passi dalla Porta di Giaffa. All’interno del museo, aperto al pubblico nel 1989, viene raccontata la storia di Gerusalemme. Sono percorribili quattro diversi itinerari, di cui noi abbiamo scelto quello panoramico sulle mura della cittadella e quello storico. Dalla cima delle torri è visibile un imperdibile panorama a 360° su tutta la città.
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Il luogo sacro principale per la religione ebraica è invece il Muro Occidentale, conosciuto in tutto il mondo come Muro del Pianto; tuttavia tale nominativo non viene utilizzato dagli ebrei che preferiscono la denominazione “Muro della Preghiera”. È quanto rimane del muro fatto costruire da Erode il Grande, nel 20 a.C. per sostenere la spianata del Tempio di Salomone, distrutto completamente dall’imperatore Tito nel 70 d.C. Da allora, gli ebrei vi si recano per la preghiera. In quanto luogo sacro, è importante che il visitatore vi si accosti con rispetto e seguendo le norme e le tradizioni religiose. Come ogni sinagoga è suddiviso in due parti distinte: a Nord quella riservata agli uomini, che devono entrarvi con il capo coperto, mentre nella parte a Sud possono entrare solamente le donne. Il Muro del Pianto è innanzitutto un luogo di preghiera e di silenzio.
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È interessante osservare le donne mentre pregano in piedi, appoggiate al muro con la Torah in mano, gli uomini in abiti tradizionali danzare in cerchio, o il rito del Bar Mitzvah, attraverso cui i ragazzi di 13 anni vengono inseriti ufficialmente nell’Ebraismo. Durante il nostro soggiorno a Gerusalemme abbiamo avuto la fortuna di entrare in contatto con la cerimonia dello Shabbat, la “festa del riposo” che si celebra dal venerdì dopo il tramonto al sabato. Tale festività sembra avere due funzioni, che vengono citate nei libri ebraici: il ricordo della fuga del popolo ebraico dall’Egitto e il ricordo della Creazione. Nella giornata del sabato, gli ebrei sono tenuti a pregare, studiare la Torah e consumare tre pasti
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completi che includano la Challah (il pane tipico del sabato) e carne; sono vietate invece dal Talmud, un altro libro sacro, ben 39 azioni che riguardano il retaggio delle antiche attività per il Tempio. L’idea di fondo è che ci sia un momento della settimana in cui il primato non è del fare, ma di Dio, della famiglia e dello stare insieme.
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Il nostro terzo giorno a Gerusalemme lo abbiamo dedicato al quartiere islamico, a nostro avviso il più caratteristico della città. Entrando dalla Porta di Giaffa, facendoci strada tra le viuzze acciottolate ci siamo inoltrati nel Souk, ossia il mercato della città vecchia. Abbiamo assaporato i profumi delle spezie, delle tisane e degli incensi, gli aromi dei vasi di terracotta e dei vari tipi di olio che si alzavano dalle botteghe. Ci siamo persi nella bellezza delle stoffe, finemente decorate con colori accesi, delle ceramiche e dei gioielli. Abbiamo perso tempo a chiacchierare con i venditori che ci invitavano a fermarci e a contrattare sui prezzi dei prodotti. E siamo giunti alla Spianata delle Moschee. Essa è il luogo sacro per i musulmani, tuttavia sorge sul Monte Moriah che un tempo era occupato dal Tempio di Salomone. Al suo interno si trovano due moschee: la Cupola della Roccia e la Moschea Al-Aqsa. La Cupola della Roccia, anche chiamata Moschea di Omar, venne completata nel 691 da importanti artisti bizantini ed è considerata l’edificio islamico più antico del mondo attualmente esistente. Venne costruita sulla roccia sacra, dove la tradizione ebraica e cristiana, ritiene che Abramo stesse per sacrificare
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il figlio Isacco; secondo la tradizione araba, invece, venne costruita per ricordare l’ascesa al cielo di Maometto. Finemente decorata con mosaici colorati, la moschea è considerata uno dei simboli di Gerusalemme. La Moschea Al-Aqsa, invece, è la moschea più sacra per la religione musulmana, dopo quelle della Mecca e Medina, dove tuttora si svolge la preghiera comunitaria ufficiale. È importante sottolineare che i visitatori non musulmani, non possono visitare l’interno delle moschee. Per concludere, Gerusalemme è una città impregnata di storia, cultura e religione, dove ogni angolo nasconde edifici di grande rilevanza storica. È incredibile come, in uno spazio così piccolo, convivano e si amalgamino quattro culture così differenti tra loro che, nonostante le fatiche legate alla storia del paese, sono riuscite a trovare un loro particolare equilibrio. Come scrive Susan Abulhawa nel suo libro “Ogni mattina a Jenin”: “Gerusalemme trasmette un senso di dolcezza. Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di civiltà antiche. È stata conquistata, distrutta e ricostruita tante volte. Eppure, in qualche modo, trasmette umiltà”.
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ANTICO MONASTERO DI
SAN PIETRO AL MONTE A CURA DI SILVIA SCARAMELLA E MANUEL MONACO
Immaginiamo di fare un salto indietro nel tempo e di trovarci in un territorio che è stato abitato fin dal Neolitico. Un crocevia di civiltà che, in un modo o nell’altro, hanno tutte lasciato tracce del loro passaggio. In epoca romana, ad esempio, ci saremmo trovati sulla via che da Aquileia arrivava fino a Como.
Alessia Sangalli Manuel Monaco Mari Mapelli Riccardo Citterio Sandro D'Angelo Silvia Scaramella Stefano Scavino
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La strada, superata Lecco, transitava per un passaggio obbligato: un ponte sopra l’emissario del lago. Questo era un punto strategico, denominato Clavis, ed era, di conseguenza, sorvegliato.
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CIVATE
L’importanza era tale che anche l’insediamento sorto nei suoi pressi ne prese il nome. Nel corso dei secoli poi, come spesso accade, il nome subì delle variazioni: Clavate, Clivate, Ciavate, per diventare, infine, Civate. Cambiando epoca, ma rimanendo in questi luoghi, avremmo assistito all’arrivo dei Longobardi, alla loro integrazione con le popolazioni locali e alla loro conversione al cristianesimo che favorì la nascita di diversi monasteri. Ed è proprio qui, a Civate, durante il regno Longobardo, sulle pendici del monte Cornizzolo (allora chiamato Pedale), che venne edificato il Monastero di San Pietro al Monte. I primi documenti che trattano la costruzione del Monastero risalgono al Basso Medioevo e, nonostante riportino datazioni differenti, sono tutti concordi nell’attribuire a Desiderio, ultimo re longobardo, la volontà di edificare il convento.
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Il principe, rimasto cieco, invocò allora l'aiuto di S. Pietro promettendo, come tributo in cambio della vista, la costruzione e la dedica al santo di una magnifica chiesa. L’edificio, col passare dei secoli, subì diversi interventi: nel IX secolo fu ampliato dall’imperatore carolingio Lotario, che vi portò dei monaci benedettini dal nord Europa; nell’XI secolo vi fu un’ulteriore riedificazione e ridecorazione. In seguito, il complesso rimase disabitato fino al 1800 quando iniziarono le prime opere di restauro, continuate poi nel ‘900 prima da Monsignor Polvara e poi da don Vincenzo Gatti e dall’Associazione Amici di San Pietro. Sono proprio i volontari dell’associazione ad accogliere e ad accompagnare i visitatori nel complesso.
In merito, una leggenda narra che Algiso (o Adalgiso), figlio di re Desiderio, perse la vista durante una battuta di caccia al cinghiale proprio dove oggi sorge il monastero.
La nostra visita inizia imboccando l’erto sentiero lastricato che da Civate, in un’ora di cammino per i più allenati, porta all’ingresso del complesso: un arco su cui si può notare il famoso motto benedettino “Ora et labora”. Una volta imboccato il vialetto d’ingresso, non si può non rimanere colpiti dalla scena che si presenta agli occhi dei visitatori che, diciamocelo, ripaga completamente la fatica della salita.
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Il complesso è costituito da tre edifici: l’oratorio di San Benedetto, la Basilica e il Monastero, di cui rimangono solo le rovine. Lo stile architettonico è quello romanico, molto lineare, ma non privo di elementi simbolici. L’occhio viene subito catturato dall’Oratorio di San Benedetto che, a causa delle norme di sicurezza sanitarie, non è al momento visitabile.
un bellissimo pronao semicircolare realizzato durante l’ampliamento dell’XI secolo e impreziosito da elegantissime bifore che si affacciano su uno splendido panorama: il Resegone, il Monte Barro, la Stella morenica di Galbiate e il Campanone della Brianza fanno da cornice al Lago di Annone.
L’interno dell’edificio è a pianta a croce greca con tre absidi semicircolari, mentre l’esterno si presenta con pietre a vista e monofore. Dagli studi effettuati sembra che l’Oratorio sia stato costruito per sostituire la cripta della chiesa durante le funzioni funebri e di orazione. Immediatamente adiacente all’oratorio vi è lo scalone che porta alla Chiesa. Il numero di gradini che lo costituiscono non è affatto casuale e la simbologia cristiana è la chiave di lettura: i gradini sono in totale 30 e, se i primi 24 rimandano alle Tribù di Israele e agli apostoli, gli ultimi 6 hanno una simbologia ancora più forte. Salendo, troviamo infatti due gradini che rappresentano Cristo nella sua duplice natura e che conducono al gradino successivo, Dio. Gli ultimi 3 gradini simboleggiano invece Padre, Figlio e Spirito Santo. Giunti in cima allo scalone, ci si trova avvolti in
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SCALONE Sandro D'Angelo Photography
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Non c’è da stupirsi che il pronao e l’ingresso della Basilica siano semicircolari: quello che oggi costituisce l’accesso era infatti, nella prima chiesa longobarda, l’abside. L’ingresso attuale è stato aperto a fine XI secolo, in seguito all’ampliamento che ha spostato l’altare a Ovest. Il pronao, ora in pietra nuda, era un tempo intonacato e affrescato. Ancora oggi, il portale che introduce alla basilica è sovrastato dalla scena di Cristo il cui corpo si fonde con l’ingresso e in cui consegna, sulla destra, le chiavi del potere spirituale a S. Pietro e, sulla sinistra, il libro della parola a S. Paolo. I rimandi religiosi e la metafora tra la salita al monte e la ricerca della salvezza sono fondamentali per comprendere appieno anche gli affreschi e gli stucchi che incontriamo varcando la soglia della Basilica.
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Varcando il portone, siamo accolti, da entrambe le parti, da due papi: Papa Marcello, colui che ha riaccolto nella chiesa i fedeli scismatici, e Papa Gregorio, colui che ha convertito i popoli germanici. Accoglienza e conversione portano i fedeli fino alla Gerusalemme celeste, raffigurata nello splendido affresco ancora conservato sulla volta a crociera sovrastante, in cui è rappresentato il capitolo 21 dell'Apocalisse. La particolarità dell’opera risiede nel fatto che è stata dipinta come se fosse su una superficie piatta. Proseguendo verso l’interno, tra bellissime colonne che fanno da cornice, troviamo, a destra e a sinistra, due stucchi da non trascurare.
Sandro D'Angelo Photography
Ancora perfettamente conservati, raffigurano due creature dell'immaginario medievale, il grifone e la chimera, rivolte all’uscita dalla chiesa che simboleggiano il male che fugge. Spostandosi al centro della Basilica e dando per un attimo le spalle all’Abside, si possono vedere, ai fianchi del corridoio d’ingresso, due absidiole. Nella Cappella dei Santi, a sinistra, sono ancora ben visibili i simboli degli Evangelisti: l’uomo (Matteo), il leone (Marco), il bue (Luca) e l’aquila (Giovanni). Sulla parete restano tracce dell’affresco raffigurante il martirio di S. Giacomo Maggiore e S. Giacomo Minore, mentre nell’abside compaiono alcune trilogie di santi. Nella Cappella degli Angeli, a destra, si possono vedere sette angeli che suonano lunghe trombe d’argento chiamando i vivi e i morti al Giudizio universale. Al centro del catino absidale troviamo il Cristo pantocratore sorretto da Cherubini e Serafini, rappresentati con 6 ali e il corpo costellato di occhi, così come li descrive il profeta Ezechiele.
Manuel Monaco Photography
Riccardo Citterio Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Sandro D'Angelo Photography
L’abbazia ha pianta rettangolare semplice con un tetto a capriate scoperte. La navata un tempo era interamente affrescata e aveva una fascia decorata in stucco lavorato, che correva lungo le pareti. Oggi restano solo poche tracce di quegli affreschi. Quelli tuttora visibili sulle pareti sono affreschi votivi realizzati tra il 1400 e il 1700 e molti rappresentano santi che hanno a che fare con la guarigione della vista, come a confermare la leggenda riguardante Algiso accennata in precedenza. La presenza di questi affreschi è la testimonianza che la chiesa ha continuato a essere frequentata nel corso dei secoli. A completamento della navata, troviamo al centro della controfacciata l’affresco della vittoria del bene sul male. Questo affresco, che rappresenta il dodicesimo capitolo
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dell’Apocalisse, si può considerare senza dubbio uno dei gioielli più significativi del romanico lombardo. Il racconto inizia sulla sinistra: una donna partorisce al cospetto del Sole e della Luna, ma un drago rosso con sette teste e dieci corna minaccia il nascituro. Arrivano così in suo soccorso le schiere angeliche comandate dall'arcangelo Michele che sconfiggono il mostro alato che in precedenza, con la coda, aveva spento, facendole precipitare, le stelle del firmamento. Il neonato, Vincitore del Male, viene quindi presentato al cospetto di Cristo. Lo vediamo infatti all’interno della mandorla. Una particolarità di questo affresco così ben conservato è la mancanza del volto di Cristo che, probabilmente realizzato in stucco o in pietra, è andato perso.
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Rivolgendo le spalle all’ingresso, al centro della navata, è possibile ammirare il ciborio, gemello stilistico di quello che copre l’altare di Sant’Ambrogio a Milano, ergersi slanciato su quattro colonne, un tempo decorate in stucco lavorato. I capitelli corinzi furono ricostruiti tra il XVI e il XVII secolo, mentre sono originali i simboli antropomorfi degli Evangelisti, che troviamo al di sopra di essi.
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Qui, una pausa ristoratrice è d’obbligo. Incamminandosi sulla via del ritorno, non si può non pensare a quante storie sono custodite da questo luogo.
Il ciborio, sui 4 frontoni, ci racconta il Mistero della fede: la Crocifissione, la Resurrezione, l’Attesa e la Venuta di Cristo. All’interno del cupolino è rappresentato il capitolo 7 dell’Apocalisse, mentre sotto la piccola volta affrescata si trova l’altare moderno, al cui interno è conservata l’ultima reliquia rimasta: delle chiavi di fattura alto-medievale, che sarebbero state a contatto, o addirittura conterrebbero le catene della prigionia di San Pietro. Sulla destra della navata è possibile intravedere una scala originale del periodo romanico che conduce alla cripta e che, purtroppo, a causa delle norme di sicurezza sanitarie, non è al momento visitabile. Sappiamo comunque che è divisa in tre piccole navate e che, in origine, aveva pareti decorate in altorilievo; oggi però, per via dell'incuria dei secoli passati e dell'umidità, è rimasto poco. Terminata la visita alla chiesa si ritorna all’esterno, sul grande prato che circonda il complesso.
Desideriamo ringraziare don Gianni e gli Amici di San Pietro per averci permesso di visitare il complesso. Grazie anche per il lavoro che svolgete per tutelare e conservare questo sito di straordinaria bellezza e importanza. Ulteriori informazioni sul sito degli Amici di San Pietro:
www.amicidisanpietro.it
Sandro D'Angelo Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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LA FORTEZZA DI KUMBHALGARH
LA FORTEZZA DI
A cura di Monica Gotta
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Monica Gotta Photography
Conosciuto con il nome di “Terra dei Re”, questa è la terra dei Raja o Maharaja. Una terra magica intrisa di note dal sapore antico, dal profumo speziato e satura di romanticismo. La denominazione “Rajasthan” deriva dai principi guerrieri Rajput che regnarono per più di mille anni sull'India nord-occidentale. I loro domini erano ai limiti del deserto, dove ancora oggi si raccontano storie e leggende di antichi regni, bellissimi principi e splendidi palazzi. E oggi, nel Deserto del Thar, i cammelli calcano ancora la sabbia dorata lasciando traccia delle loro impronte mentre ci portano ad ammirare il tramonto del sole in mezzo alle dune dorate.
RAJASTHAN
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CURIOSITÀ Sappiate che esiste un festival del deserto, il Desert Festival di Jaisalmer che promuove la diffusione della cultura, del patrimonio e delle tradizioni millenarie di questa regione con svariate manifestazioni e gare tra cui le corse con i cammelli. Solitamente dura tre giorni in corrispondenza della luna piena di febbraio.
RAJASTHAN Kumbhalgarh
CLIMA
ARRIVARE IN INDIA Per arrivare in India dall’Italia ci sono svariate soluzioni aeree, dalle compagnie di bandiera alle compagnie low cost. È un viaggio mediamente lungo, quindi è una decisione personale se investire qualche euro in più in un volo diretto dall’Italia oppure se provare l’ebbrezza di una serie di scali in posti impensati prima di arrivare a destinazione. Essendo uno dei più grandi paesi al mondo in fatto di estensione geografica, è opportuno pianificare con cura la nostra prima destinazione in questo stato dopo aver programmato con cura il nostro tour a casa, a tavolino. Ciò significa anche informarsi dettagliatamente sul clima dei luoghi che andremo a visitare. Giroinfoto Magazine nr. 58
Nella regione del Punjab, nel Rajasthan e in poche altre parti dell’India le temperature possono scendere anche sotto lo zero. Sembrerà strano, ma personalmente ho fatto quest’esperienza di persona arrivando a New Delhi. In Italia faceva molto più caldo pur essendo appena passato Natale. New Delhi avvolta dalla nebbia alla temperatura di 1°C tuttavia ha il suo fascino. Organizzate con cura la vostra valigia o zaino facendo attenzione ad avere tutto il necessario per affrontare notevoli sbalzi di temperatura. Questa situazione metereologica, come ho avuto occasione di scoprire durante il mio soggiorno parlando con diverse persone del posto, è stata piuttosto rara per questo periodo dell’anno. Il freddo e la nebbia sono stati spesso compagni di molte giornate durante questo viaggio, regalandomi fotografie di splendide location avvolte da un sottile manto nebbioso color latte come altre sono state toccate da uno splendido sole e cieli molto tersi come vedremo a Kumbhalgarh.
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Durante il mio soggiorno in questo splendido paese ho fatto molte tappe, ma concentriamoci su Kumbhalgarh. Atterrando a New Delhi possiamo scegliere se continuare con un secondo volo verso Udaipur, che dista circa 650 km dalla capitale, oppure se optare per un qualsiasi mezzo di terra, dai treni agli autobus oppure scegliere di affittare una macchina. Ciò dipende molto dal tempo che avete a disposizione nonché dal vostro desiderio di immergervi più o meno nel tessuto sociale indiano, conoscere da vicino questo popolo e ammirare chilometro dopo chilometro il panorama che si dispiegherà generoso sotto i vostri occhi. Del resto anche la nostra destinazione ha un tocco di mistero, quello di arrivare in un posto sconosciuto a molti e che vi lascerà a bocca aperta appena scorgerete le sue mura. Un’antica fortezza e la sua cittadella fortificata sono racchiuse da un’imponente muraglia che è conosciuta da pochi nel mondo pur essendo lunga circa 36/38 km. Parlo di Kumbhalgarh, antica fortezza Mewar ossia dell’antico Stato o Regno di Udaipur. La prima capitale di questo regno fu Chittorgarh, dove si può ammirare una fortezza simile a questa, anzi fu più importante dal punto di visto storico. Monica Gotta Photography
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Udaipur
Kumbhalgarh è situata nella parte ovest dei Monti Aravalli, una bassa catena montuosa lunga circa 500 km che attraversa il Rajasthan con direzione Sud-Ovest a Nord-Ovest.
Fare tappa ad Udaipur è vivamente consigliato. Personalmente la ricordo come il luogo più romantico ed affascinante che ho visitato in questo viaggio. Non a caso James Tod, agente politico degli Stati Occidentali Rajput, la definì nel suo libro Annals and Antiquities of Rajasthan come “il luogo più romantico del continente India”.
Costruita nel XV secolo da Rana Kumbha, la fortezza è riconosciuta anche come luogo di nascita di un grande guerriero e re dei Mewar, Maharana Pratap.
Sicuramente Udaipur, la perla del Rajasthan, vi offrirà innumerevoli sistemazioni alberghiere nelle quali soggiornare in attesa di visitare la città e i suoi dintorni meravigliosi.
Potrete utilizzare Udaipur come punto di partenza per la visita a Kumbhalgarh.
Questa costruzione unica per la sua bellezza ed imponenza si trova a poco più di 80 km da Udaipur, conosciuta anche con il nome di Città Bianca oppure Città dei Laghi e sono solo due degli innumerevoli soprannomi che porta questa meravigliosa città.
Personalmente ho avuto la fortuna di soggiornare in un piccolo hotel che dava su Lake Pichola. Con ciò intendo che affacciandosi da una finestra della camera, finestra a forma di tempio, si potevano quasi toccare le placide acque del lago. Un’altra esperienza da fare ad Udaipur è cenare in uno dei tanti ristoranti che si trovano lungo le rive del lago. Non di rado troverete allestimenti di luci e di candele molto particolari.
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Kumbhalgarh Kumbhalgarh ha più le sembianze di una cittadella fortificata e, ad oggi, fa parte delle fortezze collinari del Rajasthan. Oltre a ciò, nel 2013, è anche stata dichiarata patrimonio dell’umanità dell’Unesco quando, a Phnom Penh, si riunì il Comitato che dichiarò Kumbhalgarh ed altri 5 forti del Rajasthan patrimonio dell’umanità. Gli altri cinque forti sono Chittor o Chittorgarh, Ranthambore, Gagron, Amber e Jaisalmer. Fino alla fine del XIX secolo è stato occupato, mentre ora è aperto al pubblico e visitabile. Ogni sera viene illuminato per pochi minuti, se qualcuno volesse attendere questo momento magico per fotografarlo. La storia antica della fortezza rimane immersa nell’incertezza e nell’oscurità per la mancanza di fonti certe. Le ipotesi riguardo alla sua nascita sono diverse.
La più accreditata sembra essere quella secondo cui sia stata costruita per via della sua posizione strategica. L’attuale struttura si fa risalire a Re Kumbha, sovrano a cui è attribuita la progettazione di ben 32 forti tra cui Kumbhalgarh, il più imponente tra questi. La fortezza è provvista di 7 porte, quella principale di ingresso viene chiamata Ram Pol (ossia Porta Ram) oppure Hanuman Pol. A proposito delle mura esterne, che presentano una forma rotondeggiante molto particolare, viene raccontata una leggenda secondo la quale fu necessario consultare un maestro spirituale e compiere un sacrificio umano per permetterne la costruzione. La porta principale contiene infatti un piccolo tempio in onore e commemorazione di questo sacrificio.
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TREK LA FORTEZZA IN SCAMPIA DI KUMBHALGARH
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Entriamo e iniziamo la visita della fortezza. Il sentiero ci porta verso l’alto, verso l’apice della fortezza. La prima impressione è che sia un cammino piuttosto lungo e tale effettivamente si rivelerà. Si nota immediatamente la precisione nella posa delle pietre che costituiscono le mura e la loro compattezza. Ciò che lascia altrettanto stupefatti sono i colori che si intersecano nei merli di questo serpente di pietra. Un’altra delle curiosità del forte è il Lakhola Tank, un serbatoio che rappresenta la più grande riserva d’acqua della fortezza e fu costruito da Rana Lakha.
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Arrivare “in vetta” significa arrivare al Palazzo delle Nuvole. Il Badhal Mahal è il palazzo situato sulla collina più alta del forte. Costruito nel XIX secolo è composto di due diversi mahal e vanta un creativo sistema di “aria condizionata” per mantenere freschi gli ambienti. Le pareti sono decorate a colori pastello così come anche alcuni archi esterni. Dalla cima della collina la vista sui monti e sulla pianura sottostante è indescrivibile a parole.
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LA FORTEZZA DI KUMBHALGARH
Il panorama circostante Kumbhalgarh, dalle pianure ai Monti Aravalli fino alle dune del Deserto del Thar, mozza il fiato specialmente quando la giornata è abbastanza limpida. Dall’alto si vede anche un piccolo agglomerato abitativo. All’interno della struttura troviamo anche molti templi conservati decorosamente come il Neelkanth Mahadev Mandir Temple. Altri importanti templi giainisti sono il Parsva Natha, sul lato orientale, il Bawan e il Golera. Appartengono per la maggior parte alle religioni giainista e induista. Stupefacente è il loro numero: circa 300 sono giainisti e i restanti 60 sono induisti. Pare che il primo tempio ad essere costruito nel forte fosse un tempio induista, dedicato a Ganesh, figlio primogenito di Shiva, raffigurato con una testa di elefante, ventre pronunciato e 4 braccia. Ganesh è il simbolo di colui che ha scoperto la Divinità in se stesso. Anche gli edifici residenziali della zona sono in ottimo stato di conservazione. Finita la visita al forte è difficile non girarsi indietro ad ammirare questo miracolo architettonico, ma il viaggio continua.
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Un viaggio di 16 giorni in questo grande paese è un’esperienza unica. Un viaggio nella miriade di colori del popolo indiano, un viaggio alla scoperta di templi, religioni e credenze in parte poco conosciute dai noi che veniamo dall’Occidente. Tutti sappiamo le poche cose che leggiamo nelle guide, sui siti internet e che ci raccontano i nostri amici che ci sono stati prima di noi. Kumbhalgarh è solamente una goccia nel mare di meraviglie che ci aspettano in questo continente … augurandoci di potervi tornare presto!
Monica Gotta Photography
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WORKING GROUP 2020
BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project
PIEMONT
ITALIA
E
LIGURIA
A
LAZIO
ORINO ALL AMERICAN
REPORT
Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 58
L OMBARDI
STORIES
GIROINFOTO MAGAZINE
SICILIA
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COME FUNZIONA
Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.
Impara Condividi Divertiti Pubblica
CHI PUÒ PARTECIPARE
Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Compila il form di iscrizione sul nostro sito ufficiale dal menu area relazioni, "iscrizione a Band of Giroinfoto". L’organizzazione sarà felice di accoglierti.
PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Whatsapp, dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. Gli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremo le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.
Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse tecniche di ripresa. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubblicati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork legati al brand Giroinfoto magazine.
SEDI OPERATIVE La sede di coordinamento dei working group di Band of Giroinfoto si trova a Torino con sezioni operative a Alessandria, Genova, Milano, Roma e Palermo. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi. Giroinfoto Magazine nr. 58
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LE ORIGINI DELL’AVIAZIONE A cura di Andrea Barsotti e Barbara Tonin
Andrea Barsotti Barbara Tonin Chiara Borio Fabrizio Rossi Giuliano Guerrisi Lorena Durante Ludovico Claudio Giorgioni Maria Grazia Castiglione Massimo Tabasso Silvia Petralia
Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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È una giornata ideale per volare. Il dott. Danilo Spelta, la nostra guida, ci attende all’aeroporto Torino-Aeritalia di Strada della Berlia, per raccontarci della storia dell’Aero Club Torino e per farci visitare gli hangar. Prima del nostro arrivo, notiamo già in lontananza la torre di controllo, che spicca tra gli alberi del vialetto d’ingresso al Club e l’ampia distesa erbosa che circonda le piste di decollo e atterraggio. L’Aero Club Torino viene fondato nel 1908 e può essere considerato uno dei principali fautori della diffusione dell’aviazione in Italia. Nasce senza fini di lucro, col solo intento di divulgare la cultura aeronautica, la didattica, l’attività sportiva e turistica del volo a motore (compresa l'acrobazia), del volo a vela, del volo con velivoli ultraleggeri e del volo da diporto o sportivo. Numerosi sono anche gli eventi dimostrativi e di promozione dell’aviazione.
L'Aero Club è dotato di quattro hangar, di cui uno messo a disposizione per il Servizio di Elisoccorso 118, altri due per gli alianti e di tre piste adibite al traffico a motore, al volo a vela e all'atterraggio degli alianti. Tra gli hangar, notiamo anche una scultura commemorativa del Grande Torino. Il campo sarebbe stato il punto di atterraggio della squadra dopo la partita del 4 maggio 1949. Ma i tifosi purtroppo attesero invano. La flotta dell’Aero Club dispone di aerei a motore, alianti e moto-alianti, che possono essere noleggiati con o senza la guida di un pilota. Danilo Spelta ci accompagna negli spazi aeroportuali per mostrarci alcune caratteristiche principali di questo campo volo.
Lorena Durante Photography
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Barbara Tonin Photography
TORINO Gli aerei a motore disponibili sono principalmente Piper e Cessna. La principale differenza tra i due modelli è la posizione dell’ala sulla fusoliera: ala bassa per il Piper e ala alta per il Cessna. L’ala bassa rende il velivolo più maneggevole, mentre l’ala alta conferisce più stabilità. Un elemento importante, inoltre, è il fattore visibilità. Per i voli turistici, ad esempio, è preferibile l’ala alta, che permette di godere meglio del panorama sottostante. Oltre a ciò, con l’ala bassa si è costretti a passare dall’ala stessa per accedere alla cabina, mentre con l’ala alta si entra praticamente come su un pulmino. In uno degli hangar, è presente anche un aereo privato particolarmente sofisticato. Si tratta di un Piper con ali ed elica in carbonio e titanio, equipaggiate di micro-fori sul profilo di attacco per il passaggio del liquido decongelante. Giroinfoto Magazine nr. 58
Stefano Zec Photography L’aereo è provvisto anche di un paracadute (non obbligatorio per questo tipo di aeroplano) per i casi di estrema emergenza. In presenza di un’anomalia, invece, nel caso si riesca a far atterrare l’aereo, il carrello fisso sarà in grado di assorbire parte dell’urto con il terreno. L’aereo sarà quindi irrimediabilmente danneggiato, ma pilota e passeggeri potranno essere messi in salvo. Una curiosità sui carrelli fissi e retrattili: il carrello fisso abbassa il premio assicurativo dell’aereo, non tanto perché elimina un apparato meccanico che potrebbe avere malfunzionamenti, ma perché il pilota non deve “ricordarsi” di estrarlo in fase di approccio alla pista di atterraggio. Sembra infatti che, nonostante i sistemi di allarme, sia capitato anche a piloti esperti.
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L’Elisoccorso 118 ha una gestione distinta dall’Aero Club, ma ha trovato in tale aeroporto gli spazi ideali per il decollo e per il ricovero dei due elicotteri. La complessità e, di conseguenza, il costo di gestione di un elicottero rispetto ad un aereo da turismo è notevolmente maggiore. Relativamente alle prestazioni, inoltre, l’elicottero è più sensibile alla perdita di potenza del motore all’aumentare dell’altitudine (circa il 10% ogni 1.000 metri), quindi per poter raggiungere l’altezza massima ed assorbire così la diminuzione della potenza disponibile, il motore è “sovradimensionato” per il volo al livello del mare. In questa circostanza, pertanto, non è possibile utilizzarne tutti i cavalli, perché metterebbero a rischio gli organi di trasmissione dell’elicottero stesso.
Maria Grazia Castiglione Photography
Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Giuliano Guerrisi Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Andrea Barsotti Photography
Ci dedichiamo successivamente alla visita degli hangar destinati al Volo Libero. La nostra guida, esperto aliantista, ci ha illustrato le peculiarità del volo a vela, soffermandosi particolarmente sul parallelismo con la navigazione su barche a vela, dove il vento e l’esperienza del pilota la fanno da padroni. Mentre è comune il totale affidamento alle condizioni meteo, la differenza si trova nel fatto che nella navigazione marittima si sfrutta lo spostamento orizzontale dell’aria, mentre per il volo si vanno a cercare le correnti ascensionali per acquistare altitudine e riuscire a spostarsi. A volte capita che, proprio a causa delle sfavorevoli condizioni meteorologiche, non si riesca a tornare al campo base e, quindi, si sia costretti a cercare un atterraggio di fortuna.
Ludovico Claudio Giorgioni Photography
Ed è qui che la passione del pilota non è più sufficiente, ma è necessaria anche la collaborazione di una persona fidata. Con mezzo equipaggiato di gancio traino, è necessario che quest’ultimo recuperi il carrello di trasporto, si rechi sul luogo dell’atterraggio, aiuti allo smontaggio dell’aliante (per i più esperti sono sufficienti una quindicina di minuti) e riporti pilota e velivolo alla base. Con un aliante a motore si risolve il problema, ma si perde parte della magia di un volo silenzioso, in cui l’unico suono è quello dell’aria sulle ali. Giroinfoto Magazine nr. 58
Maria Grazia Castiglione Photography
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Fondamentale nel volo a vela è l’efficienza totale, espressa con un numero che indica il numero di chilometri percorsi ogni 1.000 metri di perdita di quota in aria calma. Un’alta efficienza (i modelli più sofisticati possono arrivare fino ad un valore di 60) permette di restare in aria più a lungo, ma è un vantaggio che diventa invece un nemico durante le fasi di atterraggio. In questo caso, si usano dei freni aerodinamici posizionati sulle ali permettendo atterraggi in spazi brevi. Lo strumento più importante per il pilota di alianti è il “filo di lana”; un vero e proprio cordino incollato sulla capottina trasparente e che permette al pilota di capire istantaneamente la direzione del moto dell’aliante rispetto alla direzione dell'aria.
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Tramite il filo, quindi, si hanno le giuste indicazioni per riportare l’aliante in posizione corretta. Uno strumento più “sofisticato” ma meno efficace è il virosbandometro, detto anche Pallina o Paletta, presente sul cruscotto. È un indicatore che ha più o meno la stessa funzione del filo di lana, ma rispetto a quest’ultimo soffre di un intrinseco ritardo nell’indicazione e non è altrettanto preciso. Nulla però sostituisce l’esperienza e la passione dell’aliantista che, diventando tutt’uno con il velivolo, ne riceve sensazioni e indicazioni per rimanere in volo il più possibile.
Andrea Barsotti Photography
Silvia Petralia Photography
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Gli autori dell’esperimento, ripetuto pubblicamente il giorno successivo, furono Robert De Paul cav. De Lamanon, il cav. Carlo Antonio Napione e il dott. Costanzo Benedetto Bonvicino.
TORINO L’Aero Club Torino vanta un’esperienza ben radicata e la sua nascita coincide con gli albori dell’aviazione. Vediamo nel dettaglio come tutto è iniziato. In principio fu una mongolfiera. Era il 1783 quando i fratelli Montgolfier “scoprirono l’aria calda” (chiamata allora gas Montgolfier) e che questa era più leggera dell’aria a temperatura ambiente. La prima mongolfiera si alzò in volo il 4 giugno, mentre a dicembre dello stesso anno, Jacques Alexandre César fece innalzare un pallone riempito di idrogeno (chiamato charliere). Una nuova era stava per iniziare e Torino sarebbe stata una dei protagonisti. Preceduta di poco dal cavalier Landriani a Monza, organizzatore del primo volo in Italia, l’11 dicembre 1783 la neonata Accademia delle Scienze di Torino sollevava dai Giardini di Palazzo Carignano un pallone aerostatico a idrogeno senza passeggeri.
Foto Archivio Aero Club Torino Delagrange
Foto Archivio Aero Club Torino Mongolfiera 1909
Qualche anno dopo, nel 1908, l’Italia non si fece attendere e l’Associazione Pro Torino invitò l’aviatore Ferdinand Léon Delagrange, che in quell’anno aveva battuto diversi record con un Voisin (un biplano a motore). I primi voli si svolsero a Roma in onore del Re e successivamente a Milano, ma con poco successo. Delagrange ebbe miglior sorte però a Torino e il 27 giugno alle 19.30 in Piazza d’Armi riuscì a far volare il suo Voisin a circa 5 metri di altezza e per una distanza di 250 metri. Nei voli successivi, a luglio, Delagrange portò a bordo dei passeggeri: Thérèse Peltier, che diventò in seguito la prima donna a pilotare un aereo, e l’ing. Carlo Montù, il primo italiano su un velivolo a motore.
Questi gli albori dei primi voli con mezzi “più leggeri dell’aria”. Invece, i primi tentativi con velivoli “più pesanti dell’aria” furono effettuati nel secolo successivo. Ricordiamo tra i molti Sir George Cayely e Otto Lilienthal che progettarono i primi prototipi dei moderni alianti, fino ad arrivare al 17 dicembre 1903, giorno di svolta decisiva per l’aviazione. I fratelli Orville e Wilbur Wright fecero volare per 59 secondi il primo velivolo a motore, che coprì 260 metri.
Foto Archivio Aero Club Torino Carlo Montù passeggero Giroinfoto Magazine nr. 58
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Laureato in Ingegneria Elettrotecnica al Politecnico di Torino, Carlo Montù fu Generale d’Artiglieria, deputato al Parlamento, presidente del Coni e di numerose associazioni per la promozione del canottaggio, del calcio, della scherma e per lo sviluppo del territorio. A lui si deve il colore azzurro della maglia nazionale, scelto in onore dei Savoia. L’ing. Montù fu un personaggio poliedrico e ricco di iniziative. L’entusiasmo per le prodezze di Delagrange, lo portarono non solo a farsi promotore delle sue esibizioni, ma soprattutto a sancire la diffusione e lo sviluppo tecnico e sportivo dell’aviazione, senza finalità di lucro. In collaborazione con l’avv. Cesare Gatti, fondò nel 1908 l’A.P.I.A. – Associazione Promotrice Italiana di Aviazione. Nell’anno successivo l’A.P.I.A. divenne poi S.A.T. – Società Aviazione Torino, per diventare definitivamente, con Regio Decreto del 1927, Aero Club d’Italia, in cui tutte le società o associazioni sportive aeronautiche italiane avrebbero dovuto confluire, mantenendo il nome della provincia. La presidenza fu data al conte Carlo Nicolis e la vicepresidenza al dott. Edoardo Agnelli. Un’altra figura da ricordare è l’Ing. Aristide Faccioli. Questi, grazie alla sua profonda conoscenza dei motori a scoppio, fu progettista e direttore tecnico presso la F.I.A. (poi F.I.A.T.), che aiutò a imporsi sul mercato. Progettò diversi modelli di motori e automobili, ma viene ricordato anche per aver ideato e costruito presso la S.P.A. – Società Piemontese Automobili, il primo velivolo interamente italiano: un triplano a doppia elica. Il primo volo si svolse a porte chiuse nei pressi dell’ippodromo di Mirafiori il 13 gennaio 1909, per opera del figlio di Faccioli. Purtroppo non ebbe molta fortuna, riuscì a volare per 60 metri e poi si verificò un incidente. Il progetto fu quindi modificato e nei mesi successivi volarono pubblicamente a Venaria con più successo diverse versioni di biplano, chiamate Faccioli 1, 2, 3 e 4. Sulla scia della bravura e dell’entusiasmo dei Faccioli, cominciano a diffondersi piccoli laboratori e officine di più o meno fortunati progettisti. La prima vera industria di velivoli più pesanti dell’aria fu, però, quella fondata nel 1909 dal messinese Franz Miller in via Legnano a Torino. L’attività prevedeva la costruzione di aeroplani, ortotteri, elicotteri e dirigibili, anche su semplice schizzo. Nelle Officine Miller, su progetto Miller-Ponzelli, fu costruito il primo aerocurvo e il primo monoplano italiano che riuscì a volare.
Foto Archivio Aero Club Torino
Si diffuse anche la produzione dei motori per velivoli. La F.I.A.T. che dedicò un settore all’aeronautica, la S.P.A. – Società Ligure-Piemontese Automobili, l’Itala, la Simger e la Lancia, per citarne alcune. Negli anni successivi furono organizzate molteplici competizioni ed esibizioni e presero il via le prime scuole di volo. L’Aeroporto di Mirafiori venne ufficialmente inaugurato nel 1911 e diventò negli anni successivi il più importante d’Italia. Comprendeva un’area di 300.000 metri quadrati e ospitava inizialmente gli hangar-officina di Faccioli e quelli dell’Asteria. Tra i primi aeroporti ricordiamo anche quello a Venaria, a Cameri nel novarese, a San Carlo Canavese e a Bruino.
Foto Archivio Aero Club Torino Schieramento Mirafiori
Tra le altre fabbriche torinesi e piemontesi, ricordiamo anche la Fabbrica Torinese Velivoli Chiribiri, Asteria, la S.I.T. - Società Italiana Torinese, la S.I.A. – Società Italiana Aviazione, Gabardini di Galliate e Cesare Bobba nel Monferrato.
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L’aeroporto Torino-Aeritalia, invece, ha una storia un po’ diversa. È il 1917 e in corso Francia nasce una nuova azienda, la Società Anonima Costruzioni Aeronautiche ing. O. Pomilio, una delle più importanti industrie durante la Prima Guerra Mondiale. Con la collaborazione dell’Ing. Umberto Savoia e dell’ing. Corradino D’Ascanio, “padre” italiano degli elicotteri e progettista della Vespa, Ottorino Pomilio progettò aerei da caccia e da bombardamento, utilizzati contro la flotta austriaca. Il collaudo dei velivoli venne fatto proprio sul terreno adiacente allo stabilimento che, dal 1945 al 1953, diventò il principale aeroporto di Torino, il Torino-Aeritalia. Dove un tempo c’era la fabbrica dell’Ing. Pomilio, ora troviamo uno dei più importanti siti aerospaziali europei, dove operano in cooperazione Thales Alenia Space, ALTEC, ASI Leonardo-Finmeccanica e il Politecnico di Torino.
Foto Archivio Aero Club Torino Stabilimento Polmilio
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In collaborazione con la NASA, vengono sviluppati sistemi abitati come la Stazione Spaziale Internazionale, satelliti, sonde interplanetarie, sistemi di rientro, attrezzature e centri di supporto a terra e vengono svolti esperimenti scientifici. A questo proposito, è rilevante ricordare anche il ruolo svolto dall’Università che, agli inizi del 1900 per merito dei professori Jacob Molechhott, Angelo Mosso e Amedeo Herlitzka, svolse importanti studi di fisiologia aeronautica e stabilì le tecniche di selezione psico-attitudinale per i piloti. Nel 1912 poi nasce al Politecnico anche il Laboratorio di Aeronautica, la cui cattedra è del prof. Modesto Panetti, consigliere dal 1927 dell’Aero Club Torino. Questi gli albori dell’aviazione, nata per sfida dall’intraprendenza e dall’ambizione di pochi, vissuta per diletto o per agonismo da molti e impiegata di lì a poco, già dal 1911, per scopi militari, ovvero nella guerra italo-turca e nelle due Guerre Mondiali.
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Foto Archivio Aero Club Torino Pubblicità Pomilio Giroinfoto Magazine nr. 58
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Facciamo ora un salto nel tempo per descrivere la nascita del volo a vela (per chi volesse approfondire la storia dell’aviazione, è disponibile gratuitamente sul sito dell’Aero Club Torino l’interessantissimo libro di Angelo Moriondo). Abbiamo accennato poco sopra che i primi prototipi di aliante furono di Sir George Cayely e Otto Lilienthal. Tuttavia, per i rapidi progressi ottenuti nella progettazione dei motori e degli aeroplani, il volo senza motore fu messo da parte. Nuovi tentativi di volo furono poi ripresi da alcuni studenti dell’Università di Darmstad nel 1917 sulla Wasserkuppe. Fu però il trattato di Versailles del 1919 che, impedendo alla gioventù tedesca di dedicarsi all’aviazione con aerei a motore, spinse seriamente i progettisti a riavvicinarsi al volo “silenzioso”. I risultati ottenuti dai tedeschi furono mostrati nel 1924 durante un raduno organizzato dalla Lega Aerea Nazionale, che permise agli italiani di verificarne i progressi progettuali. I primi piloti italiani, i pavesi Segré e Cattaneo sorvolarono le pendici del Sisemol, sull'altipiano di Asiago, sui loro alianti "Goliardia" e "Febo Paglierini". Ma fu un evento isolato. Tuttavia, dal Bollettino mensile di comunicazioni ai Soci dell'Aero Club d'Italia dell'anno 1927 n. 2 leggiamo: "Per Record di volo a vela: medaglia di bronzo al dott. Franco Segré con la seguente motivazione: `Per aver battuto il 1° record nazionale di durata con aeroplano senza motore, dando fecondo esempio per Io sviluppo del volo a vela in Italia. Monte Mazze (Altipiano d'Asiago) 22-12-1924". E ancora analoga ricompensa è assegnata sempre al dott.
Segré per il primo record di distanza in linea retta con aeroplano senza motore per il medesimo volo. Questi voli di Segré, premiati tardivamente dall'Aero Club d'Italia, furono un riconoscimento delle precedenti imprese compiute in agosto durante il raduno internazionale. I veri inizi del volo a vela, tuttavia, risalgono al 1926 a Bologna, dove il ten. Nannini compì alcuni voli librati con un aliante costruito da Luigi Teichfus. Per merito di Nannini, poco dopo, nacquero le prime scuole di volo senza motore e nel 1927 vennero assegnati i primi brevetti. A Torino il volo libero comparve soltanto dal 1933, quando l’Aero Club invitò il campione di acrobazia aerea Robert Kronfeld, un luminare della tecnica del volo a vela e di meteorologia. In tale evento conobbe il barone Piero Casana che, colpito dalla tecnica e dall’eleganza dell’aliante, fondò la sezione “Volo a Vela” dell’Aero Club Torino. A Casana si devono anche le scuole di volo e i numerosi eventi sia agonistici che dimostrativi. Successivamente gli succedettero i fratelli Piero e Alberto Morelli, docenti del Politecnico, piloti e progettisti di alianti. Per loro merito, negli anni successivi al dopoguerra, la progettazione di alianti e il volo a vela agonistico ebbero un importante incremento. Fu così che Torino, con l’ambizione e l’audacia dei suoi personaggi, fu protagonista nella nascita e nello sviluppo dell’aviazione e dell’aeronautica spaziale e l’Aero Club Torino ne porta testimonianza ed eredità sia per la storia piemontese che per quella italiana.
Foto Archivio Aero Club Torino 1941
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Infatti, i successi piemontesi che nella storia dell’aviazione hanno dato lustro all’Italia sono numerosi. Tuttora, l’aeroporto Torino-Aeritalia vanta una posizione di primato nelle attività aeree non di linea.
Ludovico Claudio Giorgioni Photography
In relazione al numero di ore di volo e ai movimenti di traffico aereo annui, infatti, è al secondo posto in Piemonte, dopo quello di Caselle, e può essere paragonato ad altri importanti aeroporti d’Italia. Un progetto, per ora in fase di bozza, mira al potenziamento dell’aeroporto per un suo sviluppo e valorizzazione. Il disegno prevede la creazione di una piattaforma polifunzionale per i servizi di pubblica utilità, ovvero Vigili del Fuoco, Protezione Civile, Guardia Forestale e Polizia di Stato, oltre all’Elisoccorso 118. Tale polo permetterebbe efficaci sinergie e significativi risparmi, come immediata conseguenza della unificazione di servizi, quali l’antincendio aeroportuale, la torre di controllo, i controlli di sicurezza aeroportuale, il servizio di rifornimento carburante, l’officina di manutenzione, il magazzino ricambi e il servizio mensa.
Giuliano Guerrisi Photography
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Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 58
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Foro di Traiano Autore:Paolo Gentili Roma Giroinfoto Magazine nr. 58
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Grande Moschea Bianca Autore: Rita Russo Abu Dhabi
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Parco delle Antiche mura di Genova Manuela Albanese
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