N. 59 - 2020 | SETTEMBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.59 - SETTEMBRE 2020
www.giroinfoto.com
Arches Park ALL AMERICAN REPORT BAND OF GIROINFOTO
MONTEMAGNO MONFERRATO ASTIGIANO Band of Giroinfoto
TERRE SICANE SICILIA Band of Giroinfoto
H.C.ANDERSEN DA ODENSE A SESTRI LEVANTE Band of Giroinfoto Photo cover by Giancarlo Nitti
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la redazione | Giroinfoto Magazine
Seattle skyline by Giancarlo Nitti
Benvenuti nel mondo di
Giroinfoto magazine
©
Novembre 2015,
da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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on-line dal
11/2015 Giroifoto è
Giroifoto è
Editoria
Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
Attività
Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
Giroifoto è
Promozione
Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
L E G G I L A G R AT U I TA M E N T E O N - L I N E www.giroinfoto.com Giroinfoto Magazine nr. 59
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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI
Progetto editoriale indipendente
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ANNO VI n. 59
Issuu
20 Settembre 2020
giroinfoto magazine
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RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Giancarlo Nitti Monica Gotta Adriana Oberto Barbara Lamboley Manuel Monaco Roberto Giancaterina Adelio Debendetti CAPI SERVIZIO Giancarlo Nitti Redazione Mariangela Boni Redazione Barbara Tonin Redazione Barbara Lamboley Redazione
LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.
PARTNERS Instagram @Ig_piemonte, @Ig_valledaosta, @Ig_lombardia_, @Ig_veneto, @Ig_liguria @cookin_italia SKIRA Editore Urbex Team Old Italy
CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.
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C O N T E N T S
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QUEYRAS
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FRIDA KAHLO
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ARCHES PARK
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ARCHES PARK All American Report Band of Giroinfoto
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SULLE ORME DI HC ANDERSEN Odense e Sestri Levante Band of Giroinfoto
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FORTE DI QUEYRAS Scorcio Occitano Di Adriana Oberto
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FRIDA KAHLO Leonet Matiz Espinoza Fabbrica del Vapore Milano
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GAMBATESA La miniera Band of Giroinfoto Liguria
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TERRE SICANE
TERRE SICANE Per chi suonano le campane Band of Giroinfoto Sicilia
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MONFERRATO ASTIGIANO Montemagno Band of Giroinfoto Piemonte
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LA PIETRA PECE Ragusa Di Rita Russo MALKOVICH MALKOVICH MALKOVICH!
Sandro Miller Skira Editore
LE TUE FOTOEMOZIONI Questo mese con: Paolo Gentili Rita Russo
BOOK
LA PIETRA PECE
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GAMBATESA
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MONTEMAGNO
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I NOSTRI
REPORTS Pubblicazione delle statistiche e i volumi relativi al report mensile di: Settembre 2020
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A cura di Barbara Tonin
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Fotografie di Barbara Tonin e Giancarlo Nitti
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ARCHES NATIONAL PARK UTAH
Una delle tappe che più ci ha entusiasmato durante il nostro USA road trip è stata quella all’Arches National Park in Utah. Già dall’ingresso il paesaggio si presenta maestoso e ricco di formazioni rocciose dalle sfaccettature più fantasiose. Dalla terra rossa si ergono più di 2000 archi di roccia e centinaia di pinnacoli di tutte le forme e dimensioni. Con l’auto ci addentriamo tra imponenti pareti rocciose e massi in bilico, immaginandoci di vedere da un momento all’altro Road Runner e Wile E. Coyote.
Manuela Albanese Photography
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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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milioni di anni fa, il parco di Arches era un interminabile fondale marino prosciugato.
Le forze poi dei movimenti tellurici hanno compresso e innalzato cumuli di arenaria, creando delle anticlinali, ovvero delle pieghe rocciose stratificate. Le fratture create dalla deformazione e l’erosione per mezzo del vento, della sabbia e dell’acqua, infine, hanno dato la forma che oggi possiamo vedere. L’acqua è la principale causa dei lenti cambiamenti del paesaggio. La pioggia, infatti, erode la superficie e trasporta sedimenti tra le insenature fino al fiume Colorado. Nei periodi più freddi, inoltre, l’acqua si insinua e si accumula nelle crepe e nelle cavità e, ghiacciando, si espande creando nuove fratture.
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Barbara Tonin Photography
La pioggia è l’artefice anche delle caratteristiche striature nere e rosse, tipiche delle rocce delle regioni aride: la cosiddetta “vernice del deserto”. Tale patina è composta da materiali argillosi, ossidi e idrossidi di manganese e ferro, assieme a sabbia ed altri oligoelementi. Questo aggregato viene poi cementato alla roccia, grazie all’azione dei batteri che ne popolano la superficie. La vernice del deserto si forma principalmente dal deflusso dell’acqua che cade da alte formazioni rocciose. Gli archi tendenzialmente si formano dalla frattura di una roccia che, erosa, si modella fino a diventare una sorta di pinna o aletta e infine un arco. In altre condizioni, possono essere formati anche quando cavità in prossimità di pareti rocciose vengono scavate sempre più profondamente fino ad essere forate. Un’altra formazione caratteristica dell’Arches Park sono i “tafoni”. Conosciuti anche con il nome di “roccia a formaggio svizzero” o “a nido d’ape”, il tafone si forma su superfici rocciose inclinate o verticali, protette dal deflusso dell’acqua. L’umidità che penetra attraverso la superficie porosa delle rocce di arenaria scioglie la calcite presente in essa, creando delle piccole cavità lisce ed arrotondate, come i fori di una spugna. Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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La diversità e la moltitudine di rocce del parco è straordinaria da ogni sua angolazione. Personalmente, ritengo che sia uno dei luoghi più incantevoli degli Stati Uniti occidentali. Le alte formazioni si fondono con ampie distese aride, alberi e arbusti, la cui forma ben si integra con la bizzarra conformazione delle rocce. Ne risulta un paesaggio incantevole, indubbiamente singolare, dal fascino impareggiabile. Gli animali che fanno capolino al tramonto, infine, ne conferiscono una nota quasi fiabesca. Descrivere la moltitudine di archi e pinnacoli è impossibile. Quelli maggiormente visitati sono i più alti, i più lunghi e i più bizzarri.
Balanced Rock
è la formazione più curiosa. Alta circa 39 metri, è una roccia apparentemente appoggiata in bilico sopra un picco. In realtà è parte di un unico pinnacolo levigato dagli agenti atmosferici. Si stima abbia un peso di circa 3,6 tonnellate.
Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
IGiancarlo Nitti Photography
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BALANCED ROCK Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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DELICATE ARCH Giancarlo Nitti Photography
L’attrattiva principale è il
Delicate Arch
Con una campata alta 18 metri e un’apertura di 14 metri, per la sua posizione attira e affascina visitatori da tutto il mondo. I punti panoramici per vederlo sono diversi, tuttavia il migliore è tramite un sentiero che porta direttamente sotto l’arco. Si tratta di un percorso abbastanza semplice di circa 2,5 km
che sale per 148 metri tra rocce e arbusti. Poco lontano dal parcheggio, lungo il tragitto, si fiancheggia la capanna del Wolfe Ranch, costruita Manuela Albanese Photography all’inizio del ‘900 da John Wesley Wolfe, e un muro di petroglifi degli indiani Ute. È consigliabile affrontare il percorso in orari non vicini al mezzogiorno, soprattutto d'estate, quando le temperature superano con facilità i 45 gradi. Cartelli ed avvisi vari in brochures, danno questa informazione con il consiglio di portarsi a seguito almeno 2 litri d'acqua. Altri sentieri più semplici e corti conducono a punti panoramici che permettono di vedere il Delicate Arch, ma offrono una vista più lontana o parzialmente ostacolata. Il Delicate Arch è diventato il simbolo dello stato dello Utah, infatti lo troviamo sulle targhe automobilistiche, sui francobolli commemorativi e in ogni "insegna" dedicata alle attività locali. Sono tante le interpretazioni che si danno a questa singolare forma, ma la più usata sembra essere le gambe di un cowboy, con i suoi tipici pantaloni da caballeros.
DELICATE ARCH Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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DELICATE ARCH Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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DOUBLE O ARCH Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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LANDSCAPE ARCH Giancarlo Nitti Photography L’arco con l’apertura più alta è il
Double O Arch
e misura 34 metri. È anche uno dei più ampi ed ha un diametro di circa 13,4 metri.
Landscape Arch
, invece, è l’arco con la portata più lunga di tutti gli archi del Nord America. Si trova nell’area del Devils Garden e ha un’apertura di ben 93,3 metri. Dopo quelli cinesi, è il quinto arco naturale più grande del mondo.
Purtroppo negli anni ’90 ha subito dei cedimenti di alcuni suoi segmenti, ma per il momento ancora resiste ai fenomeni d’erosione, nonostante sia molto sottile. Devils Garden, nonostante il nome, offre un panorama ineguagliabile. È ricco di archi, guglie e strette pareti rocciose, dette “pinne”, che tra migliaia di anni diverranno archi. È il luogo ideale per osservare le stelle e avvistare qualche animale. Oltre a condurre fino al Landascape Arch, dal sentiero del Devil Garden è possibile raggiungere il Double O Arch, Pine Tree Arch, Tunnel Arch, Navajo Arch e Partition Arch.
DEVILS GARDEN Barbara Tonin Photography
LANDSCAPE RARCH Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Altri punti panoramici molto interessanti sono la Window Section (dove possiamo ammirare North Window, Turret Arch, Garden of Heaven Elephant Butte e Parade of Elephants), Park Avenue e Courthouse Towers, quest'ultime ricche di massicci monoliti e mura imponenti, come nelle metropoli. Non solo le formazioni rocciose sono affascinanti in Arches Park. Se abbassiamo lo sguardo al terreno noteremo un suolo composto da materiali diversi e nerastri. È la crosta biologica, chiamata così perché formata da organismi viventi, che costituiscono il fondamento della vita vegetale del deserto. In essa, infatti, convivono licheni, muschi, alghe verdi, microfunghi e soprattutto cianobatteri, che cementano assieme particelle di sabbia e roccia e consentono alle piante di crescere fornendo loro umidità e sostanze nutritive. Giancarlo Nitti Photography
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Barbara Tonin Photography
I cianobatteri (o alghe verde-blu), quando si spostano sul terreno, lasciano delle fibre appiccicose che formano un substrato reticolato resistente all’erosione e che immagazzina l’acqua. Su questo tutti gli altri organismi possono crescere e sopravvivere. Le croste più giovani sono piatte e di colore marrone, mentre quelle più antiche, che possono risalire anche a più migliaia di anni fa, sono irregolari e nere e a volte possono essere cosparse di licheni e di muschi più chiari.
Barbara Tonin Photography
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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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L’aspetto del deserto del sud-est dello Utah non si presenta con dune sabbiose proprio grazie alla crosta biologica, che impedisce l’erosione del terreno. Non solo è di sostentamento per le piante, ma addirittura anche per gli animali e gli esseri umani, che altrimenti difficilmente riuscirebbero a sopravvivere in un ambiente fortemente arido. La crosta biologica, tuttavia, è un ecosistema molto fragile e minacciata dal continuo calpestio e, per questo, è molto importante seguire i sentieri indicati. Per rigenerare uno strato sottile, infatti, impiega qualche anno. Licheni e muschi, invece, impiegano centinaia di anni per riprendersi. In casi peggiori potrebbe addirittura danneggiarsi in modo irreparabile. Arches Park è un sito unico nel suo genere. Un luogo ideale per evadere in una “dimensione alternativa”, dove tutto è sospeso nel tempo e la forza di gravità non ha potere.
Barbara Tonin Photography
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SULLE TRACCE DI
DA ODENSE A SESTRI LEVANTE Come nella più tradizionale delle favole si comincia così: “C’era una volta” … un ragazzo non molto attraente, alto e dinoccolato, con un naso importante, come dire “un brutto anatroccolo”, nato e cresciuto fino all’età adolescenziale in povertà, come “la piccola fiammiferaia”, in una cittadina della provincia danese sull’isola di Fyn: Odense. La sua vita tra difficoltà, fantasia, viaggi e la paura della follia proseguirà con grandi soddisfazioni e riconoscimenti. Hans Christian Andersen diventerà lo Shakespeare dei bambini fino ad affermarsi uno degli scrittori più importanti di fiabe, tanto che oggi, dal 1988, a Sestri Levante (GE), si svolge l'Andersen Festival, concepito con laboratori, incontri, letture e mostre dedicate a lui.
A cura di Laura Rossini, Monica Gotta , Remo Turello e Stefano Zec
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Odense Odense è una antica città della Danimarca con una storia millenaria. Sorge al centro dell’isola di Fyn e si può raggiungere via terra dalla penisola dello Jutland attraversando il “New Little Belt Bridge” oppure percorrendo l’imponente Storebæltsbroen, uno dei ponti sospesi più lungo di tutto il nord Europa, se si giunge da Copenaghen da cui dista un paio d’ore. Si può arrivare anche via mare dal fiordo di Odense, un ampio canale costruito nell’800 che permise alla città di svilupparsi commercialmente e di dar avvio a numerose industrie tessili. Oggi la città conserva in modo impeccabile quel fascino ottocentesco, in cui la vita sembra trascorrere lentamente a misura d’uomo, e si presta ad essere facilmente percorribile a piedi o in bicicletta. Nel centro storico si rende ancora più evidente questa caratteristica della città: le case piccole, coloratissime e vivaci si affacciano su stradine e viottoli fioriti, parchi e aree verdi pullulano qua e là. Odense, che vanta un passato culturale e artistico apprezzabile, è ricca di musei e gallerie d’arte e nel suo centro si erge maestosa la Sankt Knuds Kirke (Cattedrale di San Canuto), una imponente chiesa in stile gotico che certifica la ricchezza di cui godeva la città in epoca medievale.
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La città natale di H.C. Andersen
Nella cripta, sotto l’altare, sono conservati i resti di Re Knud II, il Santo Patrono danese, vittima di una rivolta di contadini nel XII secolo. Secondo la narrazione del tempo fu ucciso mentre, inginocchiato, era raccolto in preghiera. La sua canonizzazione avvenne senza evidenti miracoli ma servì allo stato Pontificio a rafforzare i legami con la terra di Danimarca. A fianco della Cattedrale si trova l’Eventyrhaven, uno spazio verde completamente circondato da un canale di acqua. Nel parco, all’ombra di grandi alberi è posto il castello delle fiabe, una struttura nella quale in estate va in scena lo spettacolo della HC Andersen Parade, ovvero 24 fiabe in 24 minuti presentate da 24 personaggi dei racconti. Si tratta di una bella rassegna di fiabe popolari di HC Andersen in un piccolo spettacolo musicale, con giovanissimi attori che si alternano sul palco a un narratore nelle vesti di Andersen. Lo spettacolo è gratuito e viene ripetuto ogni giorno, al termine di ogni rappresentazione i personaggi delle fiabe si mettono in fila per le fotografie e i bimbi amano farsi fotografare con i loro personaggi preferiti. Da qui si scopre un’altra Odense, quella dei piccoli, e così ci apprestiamo a scoprire il fantastico mondo di Andersen.
Remo Turello Photography
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Laura Rossini Photography
Hans Christian Andersen scrisse fiabe inventandole di sana pianta, introspettive ed autobiografiche, dando al lettore la possibilità di riflettere su aspetti della propria vita, viaggiando nei pensieri più intimi e rappresentando con ironia e delicatezza le relazioni amorose e non solo. Fu uno dei pochi a ricevere onori e festeggiamenti quando era ancora in vita, compresa la posa di una statua a lui dedicata nella città natale. Questo evento, seppur contestato, non fu casuale, ma disegnato nel suo destino come predisse una vecchia strega del paese alla madre quando ancora era piccolo.
Nella sua casa natale, invece, ci sono le vettovaglie, i bauli, la tavola apparecchiata, gli attrezzi da ciabattino del padre e altri oggetti in una suggestiva ricostruzione. Questo non è l’unico luogo del passato, perché in una piccola via del centro si trovano le case di quello che era il quartiere più povero. Le case sono contrassegnate da una targa “Kig Ind” che vuol dire passa (entra e guarda). Qui il tempo sembra essersi fermato: tutto come allora, le foto, gli arredi e le suppellettili dell’epoca. Gli spazi sono veramente stretti, angusti e con poca luce.
Diventato orfano ed abbandonato a se stesso, all’età di 14 anni decise di trasferirsi a Copenaghen in cerca di fortuna. Lì ebbe inizio la sua “vita da cigno” con viaggi colmi d’ispirazione per racconti e diari. Una vita piena per alcuni aspetti, ma pur sempre solitaria. A Odense, in onore del suo cittadino più famoso, le vie ed i vicoli del centro sono stati disseminati di orme una dietro l’altra a formare un percorso che segna i luoghi in cui l’artista visse. Una vera e propria caccia al tesoro, perché in alcuni punti le orme sono così consumate da non essere quasi più visibili. Si comincia dal museo a lui intitolato. Due piani su cui sono distribuite le statue a lui dedicate e gli oggetti a lui appartenuti: dai diari di viaggio fino alla ricostruzione con visore in 3D dello studio di Copenaghen. Giroinfoto Magazine nr. 59
Remo Turello Photography
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LA CASA NATALE DI ANDERSEN Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Continua la nostra passeggiata, ogni tanto per strada si incontra una statua di Andersen mentre siede su una panchina o sbuca dal pavimento. Durante il nostro percorso scopriamo la statua del “soldatino di stagno” e “Pollicina” che fa capolino da un tulipano. Ci mettiamo alla ricerca del FyrtØjet (scatola dell’acciarino), un centro culturale dedicato ai bambini, che prende il nome da una delle favole più famose dell’autore. La porta di accesso ha la caratteristica di essere incastonata in un tronco d’albero proprio come nella favola. Possiamo dire che forse è il luogo che più ci ha colpito. Purtroppo, quando si parla di bambini, non riusciamo spesso ad abbinare le parole silenzio, compostezza, ordine e rispetto, eppure è possibile. Ci accolgono due ragazze e ci chiedono di togliere le scarpe, ci augurano un buon divertimento chiedendoci solo, dopo aver giocato, di rimettere tutto al proprio posto così come l’abbiamo trovato. Entriamo nella prima grande stanza con luci soffuse come se fossimo in un bosco, sulla destra delle rientranze a formare angoli di gioco. Siamo esterrefatti: pensavamo di essere soli, dal silenzio che c’è invece pian piano ci accorgiamo che in ogni spazio,
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cucina, mercato, teatro delle marionette c’è un bambino che gioca tranquillo utilizzando tutto ciò che può trovare a portata di mano. Tutto soffuso: luci, voci ed ognuno immerso nel mondo che ha scelto. Persino gli adulti possono trasformarsi in re, regine, sirenette o damigelle. Dovrebbe essere la normalità eppure il rispetto che regna sovrano ha reso ancora più magica l’atmosfera dandoci l’opportunità di divertirci e giocare con nostra figlia in totale libertà. Odense è molto suggestiva, ma se si parla di Andersen non si può lasciare la Danimarca senza aver fatto un giro sul “baule “della giostra a lui dedicata al Tivoli di Copenaghen, il parco divertimenti in cui lui in età adulta passeggiava e traeva ispirazione. Un viaggio tra i personaggi delle sue favole più famose; viene spontaneo ad ogni cambio di scenografia fare a gara per essere i primi a riconoscere la favola: I vestiti nuovi dell’imperatore, La principessa sul pisello, L’acciarino, La regina della neve; ed infine lui che ci saluta così, curvo sul suo scrittoio, con la penna in mano come se stesse scrivendo un altro capolavoro, come se la sua poesia non dovesse finire mai.
TIVOLI
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ACCIARINO
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ACCIARINO
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TIVOLI Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Sestri Levante L’Andersen Festival è una manifestazione promossa dal Comune di Sestri Levante (GE) dedicata allo scrittore Hans Christian Andersen, concepita con laboratori, incontri, interviste, letture, mostre e spettacoli. Nacque nel 1988 e negli anni si è affermato come uno dei più importanti festival dedicati alle fiabe e al teatro non convenzionale. Il festival è teso ad esaltare sensibilità e passione nelle arti, sperimentare e giocare e indirizzare l’attenzione a questi luoghi fantastici essendo privi di pregiudizi. È stato dedicato spazio ai teatri di strada, al teatro di performance ma anche al teatro classico. Una manifestazione che è anche volta alla promozione della cultura, del turismo e del territorio e che vuole invitare tutti a continuare la sperimentazione e a divertirsi nelle strade di Sestri Levante.
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Le giornate dell'Andersen Festival
Il viaggio verso sud, lungo il mare, è uno dei viaggi più belli che si possono fare. In questa sua prima visita in Italia la natura e l’arte furono incontri entusiasmanti di rara bellezza. Il suo viaggio lo porta a passare da Genova e successivamente da Sestri Levante, dove alloggiò in una locanda che lo mise di fronte ad altre bellezze affascinanti, le baie e il mare azzurro, il mare che significa amore e vita così importante per i danesi. Molti direbbero che questa autobiografia è la più bella fiaba che abbia mai scritto. Ci lavorò tutta la vita e divenne quasi un’idea fissa che portò lo scrittore a lasciare precise istruzioni di pubblicazione nel caso non fosse tornato dai suoi viaggi.
Vi chiederete come mai Andersen a Sestri Levante? È Andersen stesso che ci racconta il suo primo viaggio in Italia e lo inserisce nell’autobiografia La fiaba della mia vita.
SESTRI LEVANTE Stefano Zec Photography
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Stefano Zec Photography
Adriana Oberto Photography
H.C. Andersen Festival Sono occasioni speciali per le famiglie, gli adulti e bambini che hanno culminato nella cerimonia di consegna del 53° Premio Hans Christian Andersen – Baia delle Favole ore 17.00 di sabato 5 settembre 2020, il concorso letterario per la fiaba inedita che si tiene a Sestri Levante dal 1967.
Valentina Pericci è la vincitrice per la sezione adulti con la fiaba “Il nuovo regno”. Francesco Russo è il vincitore per la sezione professionisti con la fiaba “Dentro l’uovo”. La sezione fiaba straniera è stata vinta da Fedor Kulikov.
Questo appuntamento fisso nello scenario della letteratura dell’infanzia ogni anno vuole premiare le migliori fiabe inedite nella splendida cornica della cittadina di Sestri Levante. Nel Convento dell’Annunziata, alla presenza di Lidia Ravera, Presidente della Giuria del Premio, della sindaca Valentina Ghio, degli altri giurati e di Enrico Lo Verso, vicino a Medici Senza Frontiere, charity partner della manifestazione è stato consegnato il premio al vincitore di quest’edizione. Quest’anno sono arrivate oltre 500 opere, tra cui anche scrittori professionisti, nuova categoria inserita quest’anno.
Il trofeo “Baia delle Favole” è stato conquistato dallo scrittore Roberto Piumini con la fiaba inedita “Nel regno di Bistoria”. Altri premi sono stati consegnati per le sezioni “Scuola Materna”, “Bambini” e “Ragazzi”.
Dichiara Lidia Ravera “Mai come in questi tempi oscuri, di generico disagio e ansia politica, è necessario ricominciare a raccontare l’eterna fiaba del bene e del male, dei buoni e dei cattivi, della paura e del sollievo, della dura realtà e della magia che la trasforma. Mai come in questo momento è importante far posto alla nostra parte bambina, quella che sa inventare e credere a quello che ha inventato. Cercatelo, se non l’avete a portata di mano, quel vostro io dismesso, l’io piccolo, di quando eravate all’inizio della vita. È urgente. È ricostituente. È una salvezza”. Giroinfoto Magazine nr. 59
Il Comune di Sestri Levante, in collaborazione con Mediaterraneo Servizi s.r.l., ha già pubblicato il bando per la partecipazione alla 54ª edizione del Premio “Hans Christian Andersen - Baia delle Favole” per la fiaba inedita. Si potrà concorrere inviando una fiaba inedita a tema libero, mai veicolata sul web e che non risulti già premiata in altri concorsi o inviata per partecipazione ad altri concorsi concomitanti con il Premio “H.C. Andersen – Baia delle Favole”. Si può scaricare il bando all’indirizzo: www.andersensestri.it
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In onore del centenario della nascita di Gianni Rodari, sono stati dedicati alcuni appuntamenti allo scrittore e pedagogista Gianni Rodari. Quest’anno la sezione dedicata alle graphic novel ha voluto porgere omaggio proprio a Gianni Rodari. Ai partecipanti è stato chiesto di raccontare una storia ispirandosi proprio alle opere del grande scrittore oppure a ciò che Rodari rappresenta. Lo scopo è creare delle opere nuove prendendo spunto dalle emozioni originate proprio dal scrittore piemontese, interprete riconosciuto del “fantastico” e autore di “Grammatica della Fantasia” – Introduzione all’arte di inventare storie - la sua più importante pubblicazione. Le serate e gli spettacoli sono stati molteplici e sono stati messi in scena in diverse location di Sestri Levante tra cui la Baia del Silenzio. Per citare solamente alcuni dei protagonisti di queste serate magiche ci saranno Teresa Mannino, in un reading inedito ispirato a Rodari e alle fiabe, Giobbe Covatta in una divertente riscrittura della Divina Commedia. In tema musicale si sono esibite due eccellenze genovesi ai Ruderi di Santa Caterina Eugenia Post Meridiem, la band che propone psichedelia, rock, soul, pop alternativo e il chitarrista Marco Tindiglia con Masa Kamaguchi, contrabbassista giapponese tra i più richiesti a livello europeo. Non sono mancati i Boccanegra e Karls Stets, artisti di fama internazionale.
I Teatri Mobili sono tornati a Sestri Levante con la versione en plein air per il 2020. Il Camion Teatro si forma con 2 spazi teatrali dedicati ai Teatrini Emozionali, lo spettacolo “Antipodi” della Compagnia Dromosofista e “Manoviva” della compagnia teatrale Girovago & Rondella che rappresentano un progetto artistico innovativo, nuovo nel panorama italiano. Un teatro alla portata di tutti, arte che si dispiega in strada.
I concerti e alcuni momenti delle serate sono anche trasmessi in diretta streaming sulle pagine Facebook di Andersen Festival e Premio e del Comune di Sestri Levante per poter dare accesso agli eventi ad un pubblico più vasto date le restrizioni di posti disponibili in presenza.
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Sestri Levante dedica ogni anno una manifestazione dedicata proprio allo scrittore danese. In questa manifestazione, dedicata ad adulti e bambini, sono disponibili laboratori e spettacoli per i bambini. Esempi di questa modalità interattiva per i visitatori, grandi e piccini, sono Tu che mi guardi, tu che mi racconti a cura di Andersen Lab è un laboratorio artistico, è un viaggio insieme ai bambini della città utilizzando il linguaggio dei disegni e della pittura e porta alla creazione di un taccuino, un quaderno di appunti.
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Un altro laboratorio che ha suscitato tanta curiosità nei piccoli partecipanti è La Favola della Fotografia che racconta ai bimbi come è nata la fotografia e spiega, in modo ludico, le antiche tecniche di ripresa e di stampa fotografica. La curiosità di piccoli partecipanti aspiranti fotografi è stata coinvolgente e appassionante!
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A causa dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 la manifestazione di quest’anno è stata programmata in modo diverso e il Festival, nella sua programmazione completa, è stata rimandato al 2021. Questo ha voluto essere un momento di apertura e gioia per dare vita ad una delle manifestazioni più conosciute ed amate della Liguria e dare una dimostrazione di resilienza in un delicato momento sociale e storico. Grazie all’Andersen Festival, alle fiabe e alle favole dei grandi e dei meno conosciuti scrittori, c’è sempre un po' di magia che pervade l’incantesimo della vita! “Mondi possibili che partono dal mondo in cui viviamo – un mondo in crisi, alle prese con le sfide gravose e complesse del cambiamento climatico che oggi impongono urgenti scelte globali di ordine materiale e urgenti scelte culturali, etiche, politiche, economiche – per arrivare a mondi immaginari e immaginifici, tutti da inventare. Lavorare alla programmazione di un Festival che nasce attorno alla letteratura per l’infanzia apre a molte domande. Ogni anno Andersen Festival cerca di tracciare una rotta verso Mondi Possibili, distanti dal grigiore e dalla mediocrità a cui ci costringe spesso la realtà difficile di un tempo quotidiano accelerato dalla frenesia dell’apparire, del produrre, dell’esprimersi. La programmazione del Festival sarà legata da un filo rosso che percorrerà le diverse declinazioni di questa tematica”. [ andersenfestival.it ] Ringraziamenti Ringraziamo il Comune di Sestri Levante e Mediaterraneo Servizi S.r.l. per averci invitato all’Andersen Festival. [ comune.sestri-levante.ge.it ] [ mediaterraneo.it ]
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Il forte di Queyras, denominato anche Castello di Queyras (toponimo che richiama anche il paese Château Vieille Ville, nelle vicinanze del forte) è una fortezza medievale della seconda metà del XIII secolo, ristrutturato ed allargato da Vauban nel XVIII, che domina l’alta valle Queyras in Francia.
A CURA DI ADRIANA OBERTO
TRA LE VALLATE PIÙ ANTICHE DELLE ALPI Giroinfoto Magazine nr. 59
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VALLE QUEYRAS l Queyras (Cairas in occitano) è una vallata nel dipartimento delle Alti Alpi in Francia. E’ una valle stretta creata dal fiume Guil, affluente della Durance, al di là delle Alpi al confine con l’Italia, da cui si arriva attraverso il colle dell’Agnello. La valle è stretta e così lo è ancora la strada che la attraversa. Si tratta di una delle zone più antiche delle Alpi, e aperte al turismo solo nel XIX secolo. Questo ha in qualche modo protetto la zona dal turismo di massa, mantenendone vive le caratteristiche e proteggendone la natura, che è ancora in gran parte incontaminata. Fa parte infatti del Parco del Queyras, uno dei parchi regionali francesi.
Adriana Oberto Photography
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Risalendo la Valle per la “Route des Grandes Alpes” D902 ci si trova, poco dopo il bivio verso il colle dell’Agnello, davanti ad uno sperone roccioso in prossimità del paese di Château Vieille Ville. Si tratta di una soglia glaciale, ovvero un rilievo sporgente all’interno di un alveo glaciale (la stretta valle scavata nel corso dei millenni dal ghiacciaio); qui il ghiacciaio ha sovraescavato l’alveo e accumulato detriti in contropendenza.
Torino
Questo tipo di formazioni rocciose sono state sfruttate nel corso dei secoli per la loro inaccessibilità come luoghi di controllo e difesa della valle circostante. Le pendici della soglia sono molto scoscese, tranne sul versante nord, dove sorge il paese. È in questo ambito che nasce e si sviluppa in primo luogo il castello medievale e che viene poi progettata la fortezza.
Fort Queyras
FRANCIA
Cuneo
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Manuela Albanese Photography
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Si hanno notizie del castello di Queyras a partire dal XIII secolo, quando era di proprietà del Delfino. Si trattava di un’opera fortificata eretta a scopo di difesa dai saccheggiatori, nonché simbolo delle autorità locali. La zona faceva parte della Repubblica degli Escartons, un insieme di territori montani al di qua e al di là delle Alpi (erano compresi territori degli attuali comuni di Torino e Cuneo – Oulx, Casteldelfino, Val Chisone – e del dipartimento francese delle Hautes Alpes – Briançonnais e Queyras), che godevano di uno statuto fiscale e politico privilegiato; tali privilegi si rifacevano alla Carta delle Libertà, rilasciata dal conte di Albon, Ghigo VII nel 1244, ma ratificata solo nel 1343 da parte del Delfino Umberto II il vecchio. E interessante sapere che il titolo di Delfino dato ai signori d’Albon proviene dallo stemma del casato su cui era rappresentato tale animale. Quando, il 30 marzo 1349, Umberto II, per pagare i suoi debiti, vende il Delfinato a Filippo VI Valois, re di Francia, lo fa con la promessa che da quel momento tutti i primogeniti della casa reale francese portino il titolo di Delfino. E il castello di Queyra sarà da allora sempre di proprietà del Delfino di Francia. Una descrizione del castello all’epoca menziona un torrione centrale con alcune cantine e stalle e una muraglia che lo circonda. Si tratta di una costruzione alquanto diversa da quella attuale, poiché il castello verrà rimaneggiato nel corso dei secoli. Conosce fasti e ricchezze e persino due Delfini vi dimorano per un certo tempo; nello stesso tempo, però, è anche luogo di pena e prigione per quelle donne che erano accusate di stregoneria. Nel XVI secolo, durante le guerre di religione, il castello fu assediato dai protestanti capeggiati dal duca di Lesdiguières; oppose un’accanita resistenza, ma fu costretto a capitolare; i vincitori maltrattarono la popolazione cattolica e uccisero il castellano. Questa fu la prima volta che il castello dovette arrendersi. Di conseguenza la fortezza rischiò di essere dimenticata e addirittura demolita nel 1633 per ordine del re Luigi XIII, il quale temeva che potesse servire come avamposto per i protestanti.
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Per fortuna ciò non avvenne; nel frattempo fu promulgato l’Editto di Nantes, che sanciva la libertà di culto per le religioni protestanti in quei territori dove erano già presenti prima del 1597. L’editto fu revocato nel 1685, quando ai protestanti era già stato vietato di possedere delle roccaforti, e 7 anni più tardi, nell’agosto 1692, il forte resistette agli attacchi di truppe protestanti, inglesi e del ducato di Savoia. La guarnigione rifiutò di arrendersi e si salvò grazie all’incendio di trentaquattro case del paese (sacrificate con l’inganno dal comandante del castello), cosa che mise in fuga il nemico.
In seguito a questo avvenimento al marchese di Vauban viene chiesto di ispezionare la frontiera delle Alpi. Nel dicembre 1692, dopo aver partecipato alla progettazione della fortezza a Mont-Dauphin, a soli 25 km di distanza, arriva a Fort Queyras e vi progetta un’estensione della cinta muraria, che viene però realizzata solo in parte. Vi ritorna nel 1700 per completare il progetto; costruisce nuove mura a nord ovest con una mezza luna, bastioni uniti da spesse mura e fossati di “scarpa” e “controscarpa”,
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Il forte rimane nei secoli avamposto e luogo di difesa; nel XVIII e XIX secolo vengono aggiunte casematte, a cui fanno seguito altre migliorie e la costruzione di caserme nel XX secolo. Nel 1940 serve da guarnigione per un battaglione di Alpini cacciatori.
pace, sia in caso di assedio.
Poiché situato in zona demilitarizzata, viene disarmato nel periodo tra il 1940 e il 1944; negli anni ’50 viene utilizzato come colonia vacanze, per poi passare ad un proprietario privato. Ciò che risulta da questa lunga vita e insieme di rimaneggiamenti è un complesso composito, di cui è difficile avere una visione d'insieme.
Il tutto costruito in epoche diverse, con rifacimenti e a volte anche variazione della destinazione d’uso, così che è possibile allo stesso tempo ammirare le murature alte e stondate medievali, le costruzioni interrate e angolari della fine del XVII secolo e quelle in mattone degli anni ’30 del secolo scorso.
Ciò che colpisce, a prima vista, è il vecchio torrione, di forma quadrangolare, che presenta ancora, sotto il tetto, i supporti dei vecchi spalti; è sempre stato la costruzione più importante. Gli altri edifici sono quelli adibiti alla guarnigione e che ne soddisfacevano i fabbisogni sia durante la vita in tempo di
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Ci sono pertanto le caserme, le casematte, una polveriera, un piccolo arsenale, un’officina per la manutenzione, un ospedale, la cappella e diversi magazzini per i viveri e il materiale del Genio e dell’artiglieria.
Un particolare di interesse è il sistema di approvvigionamento dell’acqua, che avviene in due maniere. Esiste una cisterna, costruita tra il 1398 e il 1420, che raccoglie l’acqua piovana; a questa si affianca un canale, proveniente dalla frazione Meyries, installato nel 1700, che raccoglie l’acqua in canalizzazioni di larice; questa scende per gravità da Meyres per poi risalire al castello.
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Le fortificazioni di
Vauban
Si tratta di un gruppo di fortificazioni lungo le frontiere occidentale, settentrionale e orientale della Francia e che son state costruite o migliorate dall’ingeniere Sebastien Le Prestre, marchese di Vauban, nel corso del XVII e primissimi anni del XVIII secolo. Vauban fu un ingeniere militare francese durante il regno di Luigi XIV, il re Sole. Fu anche Maresciallo di Francia e grande stratega. A lui si devono le fortificazioni “alla moderna” e la teorizzazione del metodo delle “parallele”, che rimarrà in uso fino alla seconda guerra mondiale. Dodici delle fortificazioni da lui progettate sono entrate a far parte della lista dei Patrimoni dell’Umanità UNESCO il 7 luglio 2008.
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Dopo una salita alquanto ripida, si entra al castello dalla porta Delfina, dopo aver superato la mezzaluna in corrispondenza del bastione di nord-est. Da qui si giunge al fossato; al ponte lavatoio in zona nordovest e ad una serie di edifici più nuovi (dal XVIII secolo in poi). Man mano che si procede nella visita è possibile godere della vista sulla valle e di apprezzare la ripidezza delle scalinate atte alla difesa del forte. Si arriva in seguito alla parte più antica ed interna, col torrione e le sale del castello. Dirigendosi verso l’uscita, si passa dal cortile dell’artiglieria, per poi attraversare di nuovo a porta Delfina e scendere verso il paese. In fondo alla stradina c’è ancora la garitta, a testimonianza dei tempi più recenti di vita del forte. Sul castello svettano e bandiere di Francia e del Delfinato.
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PORTA DELFINA Adriana ObertoPhotography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Apre a Milano negli spazi della Fabbrica del Vapore la mostra Frida Kahlo, Il caos dentro, un percorso sensoriale altamente tecnologico e spettacolare che immerge il visitatore nella vita della grande artista messicana, esplorandone la dimensione artistica, umana e spirituale.
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MOSTRE
"Vi dico: bisogna ancora portare in sé un caos per poter generare una stella danzante” Friederich Nietzsche
LA MOSTRA Prodotta da Navigare con il Comune di Milano, con la collaborazione essenziale e fattiva del Consolato del Messico di Milano, della Camera di Commercio Italiana in Messico, della Fondazione Leo Matiz, del Banco del Messico, della Galleria messicana Oscar Roman, del Detroit Institute of Arts e del Museo Estudio Diego Rivera y Frida Khalo, la mostra è curata da Antonio Arèvalo, Alejandra Matiz, Milagros Ancheita e Maria Rosso e rappresenta una occasione unica per entrare negli ambienti dove la pittrice visse, per capire, attraverso i suoi scritti e la riproduzione delle sue opere, la sua poetica e il fondamentale rapporto con Diego Rivera, per vivere, attraverso i suoi abiti e i suoi oggetti, la sua quotidianità e gli elementi della cultura popolare tanto cari all’artista. Frida Khalo rappresenta una figura centrale dell’arte messicana e certamente la più celebre pittrice latinoamericana del XX secolo. Con il marito Diego Rivera, tra i più importanti muralisti del Messico, formano una delle coppie più emblematiche della storia dell’arte mondiale. Nata nel 1907, a sud di Città del Messico, eredita e fa suoi i valori della Rivoluzione messicana, tra cui l’amore per la cultura popolare.
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“Le canzoni, gli abiti indigeni, gli oggetti d'artigianato e i giocattoli tradizionali, insieme all'influsso religioso della madre e alle nozioni tecniche sulla fotografia acquisite dal padre – afferma Arèvaldo - creano un legame profondo tra la sua produzione artistica – e dunque la sua esistenza – e la storia del Messico”. Come noto, Frida, da bambina, fu colpita dalla poliomielite, una malattia che l'avrebbe resa per sempre claudicante dalla gamba destra; più tardi, a 18 anni, fu vittima di un incidente: l'autobus sul quale viaggiava si scontrò con un tram, e lei subì diverse fratture alla colonna vertebrale, alle vertebre lombari e all'osso pelvico, oltre a una ferita penetrante all'addome. Fu durante la lunga convalescenza che iniziò a dedicarsi alla pittura. I postumi dell'incidente ne resero l'esistenza piuttosto tormentata. Frida ebbe infatti diversi aborti e dovette affrontare oltre trenta operazioni, tutti eventi infausti che rappresentò nei suoi dipinti, dai quali trapelava inoltre l'immenso dolore interiore provocatole dai continui tradimenti di Diego Rivera. “L'opera di Frida - prosegue Arèvalo - affonda le proprie radici nella tradizione popolare, ma anche nelle sue esperienze di vita e nelle sofferenze patite, che riesce a esprimere con straordinario talento: il caos interiore e il travaglio esistenziale sono espressi attraverso una produzione artistica eccezionale, capace di trascendere ogni epoca e frontiera”.
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Leo Matiz Frida Kahlo Coyoacàn, Città del Messico, 1944 Fotografia a colori © Fondazione Leo Matiz
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Leo Matiz Frida, Cristina Kahlo, Diego Rivera ed un’amica Città del Messico, 1941 ca. Fotografia B/N © Fondazione Leo Matiz
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La mostra, dopo una spettacolare sezione multimediale con immagini animate e una avvincente cronistoria raccontata attraverso le date che hanno maggiormente segnato le vicende personali e artistiche della pittrice, con sue frasi e citazioni alternate a fotografie celebri, entra nel vivo con la riproduzione minuziosa dei tre ambienti più vissuti da Frida a Casa Azul, la celebre magione messicana costruita in stile francese da Guillermo Kahlo nel 1904 e meta di turisti e appassionati da tutto il mondo: la camera da letto, lo studio realizzato nel 1946 al secondo piano e il giardino. Qui è ricostruita l’intera stanza con il grande letto a baldacchino con lo specchio che utilizzava per potersi ritrarre anche quando costretta a letto dalla malattia e dove morì il 13 luglio del 1954; la camera è arredata con oggetti tipici della cultura messicana, tra cui sculture di pietra e pupazzi di cartapesta, con quadri e fotografie, libri, mobili e le stampelle personali. Lo studio riproduce lo scrittoio e la scrivania con tutte le boccette dei colori ed i pennelli, il diario di Frida, la sedia rossa impagliata, la sedia a rotelle e il grande cavalletto. Nel giardino ci si immerge nell’area lussureggiante di vegetazione che Frida curava e nel quale abitavano vari animali come scimmie e pappagalli.
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Leo Matiz Frida Kahlo Xochilmico, Messico, 1941 Fotografia B/N © Fondazione Leo Matiz
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Segue la sezione I colori dell’anima, curata da Alejandra Matiz, direttrice della Fondazione Leo Matiz di Bogotà, con i magnifici ritratti fotografici di Frida realizzati dal celebre fotografo colombiano Leonet Matiz Espinoza (1917-1988). Quella di Matiz, che con la sua inseparabile Rolleiflex, ha creato immagine iconiche delle personalità culturali dell’epoca, è una prospettiva esclusiva e ravvicinata, atta a cogliere con spontaneità le sfumature espressive dell’amica Frida. Colta in questi ritratti fotografici, Frida è ormai più che trentenne. Il fotoreporter la immortala in un momento della sua vita in cui ha maturato piena fiducia in sé stessa. Sono gli anni in cui la Kahlo non solo ha raggiunto la fama quale pittrice, ma come donna è riuscita ad ottenere la piena indipendenza, sia dal punto di vista economico che da quello sentimentale dal marito Diego Rivera. Leo Matiz, considerato uno dei più grandi fotografi del Novecento, immortala Frida in spazi di quotidianità: il quartiere, la casa ed il giardino, lo studio.
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Lo sguardo di Frida, fieramente puntato verso l’obbiettivo, agisce da autentico campo magnetico all’interno dell’inquadratura. “La Kahlo – ci spiega Alejandra Matiz - era consapevole del valore artistico dell’operato di Leo Matiz e lui, a sua volta, nelle istantanee non mirava ad esaltare la Frida pittrice, bensì il suo lato intensamente femminile. Matiz la considerava una donna molto interessante, ne riconosceva l’intelligenza e una forza fuori dal comune, e questi tratti straordinari sono quelli che con maggiore enfasi sono stati evidenziati dalle inquadrature e dalla luce catturata dal fotografo. Frida possedeva ed indossava abiti particolari, si ornava con accessori estrosi e ricercatissimi. In maniera eccentrica amava inoltre acconciarsi i capelli con fiori o nastri, in fogge sempre diverse. Questi particolari dello stile di Frida sono stati esaltati nelle sedute di posa fotografica che la pittrice concedeva all’amico Leo, quindi eternati nei suoi scatti e resi ormai iconici”.
Al piano superiore la mostra prosegue con una sezione dedicata a Diego Rivera: qui troviamo proiettate le lettere più evocative che Frida scrisse al marito. E una stanza dedicata alla cultura e all’arte popolare in Messico, che tanta influenza ebbero sulla vita di Frida, trattate su grandi pannelli grafici dove se ne raccontano le origini, le rivoluzioni, l’iconografia, gli elementi dell’artigianato: gioielli, ceramiche, giocattoli. Esposti alcuni esempi mirabili di collane, orecchini, anelli e ornamenti propri della tradizione che hanno impreziosito l’abbigliamento di Frida. Il focus sulla tradizione messicana procede con la sezione dedicata ad alcuni dei più conosciuti murales realizzati da Diego Rivera in varie parti del mondo. Nella sezione Frida e il suo doppio, sono esposte le riproduzioni in formato modlight di quindici tra i più conosciuti autoritratti che Frida realizzò nel corso della sua carriera artistica, tra cui Autoritratto con collana (1933), Autoritratto con treccia (1941) e Autoritratto con scimmie (1945) A conferma della grande fama globale di cui la pittrice messicana gode, la mostra prosegue con una straordinaria collezione di francobolli, dove Frida è stata effigiata, una raccolta unica con le emissioni di diversi stati.
Leo Matiz Frida davanti la Casa Azul Coyoacàn, Città del Messico, 1944 Fotografia a colori © Fondazione Leo Matiz
Lo spazio finale è riservato alla parte ludica e divertente dell’esposizione: la sala multimediale 10D combina video ad altissima risoluzione, suoni ed effetti speciali ed è una esperienza sensoriale di realtà aumentata molto emozionante, adatta a grandi e piccoli.
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A CURA DI MONICA GOTTA
Dario Truffelli Monica Gotta Stefano Zec
L’arrivo alla miniera di Gambatesa è un’emozione già quando si imbocca la strada provinciale che si addentra nell’entroterra. Ricca di vegetazione, montagne, piccoli paesi e frazioni abitate che sembrano vivere in una bolla di tempo fermo ad un attimo nel passato.
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Se si alza lo sguardo verso la cima del monte si nota una lunga scalinata che porta alla struttura principale dalla quale parte il trenino dei minatori. La scelta sta tra salire direttamente dalla scalinata oppure seguire il tortuoso sentiero alla sinistra della scalinata. Sempre nell’area del parcheggio ci sono diverse installazioni descrittive che spiegano ai visitatori molte curiosità su questa zona e sulla miniera di Gambatesa. Alcune di queste informazioni sono anche di carattere geologico e aiutano a meglio comprendere come si sia formato questo sito e le zone circostanti la miniera. In Val Graveglia infatti esiste un patrimonio geologico di grande valore scientifico formatosi in più di 200 milioni di anni. Una volta arrivati all’edificio principale, oltre al locale bar, si trovano la pensilina e il trenino costruito con i vagoncini per il trasporto del materiale, ora adibiti al trasporto delle persone. Qui siamo stati accolti dagli operatori della miniera, che ci hanno fornito i caschetti protettivi per l’ingresso in miniera e tutte le informazioni necessarie per iniziare il nostro viaggio all’interno delle gallerie in tutta sicurezza.
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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Ci è stato spiegato di fare attenzione alla volta delle gallerie che spesso è piuttosto bassa, il piano di calpestio è umido e in terra battuta. Inoltre l’illuminazione è mantenuta al minimo ma sufficiente a permettere gli spostamenti. È stato utile avere con noi delle piccole torce per illuminare i punti più bui e aiutarci con il lavoro fotografico. Come scoprirete nella vostra futura visita alla miniera di Gambatesa la temperatura è piuttosto bassa, tra i 13 e i 15°C e ve ne sveleremo il motivo nel corso dell’articolo. Pertanto sarà sicuramente utile avere con sé una felpa oppure una giacca e indossare scarpe da trekking antiscivolo. Una volta preparata l’attrezzatura fotografica e indossati i caschetti, saliamo sul trenino dei minatori con la nostra guida. Inizia così la nostra visita entrando in miniera attraverso la Galleria Cadorin, ossia il livello 550, dedicata a colui che fu direttore della miniera a partire dal 1928. Sappiate che il nome dei livelli fa riferimento alla quota sul livello del mare.
COME ARRIVARE La miniera di Gambatesa si trova nel Parco Regionale dell’Aveto, in Liguria. Da Genova, prendendo l’autostrada A12/E80 verso Livorno, si esce a Lavagna e da lì si segue prima la strada provinciale 33 e successivamente la strada provinciale 26. Da Lavagna ci si addentra nell’entroterra e ci sono frequenti cartelli che indicano la direzione da seguire per arrivare alla miniera. Per la precisione è nella Val Graveglia sulla strada provinciale 26 che porta a Varese Ligure (SP) e al Passo della Biscia, nel comune di Ne. La valle è famosa per i paesaggi, la natura, la storia e la buona cucina. E questo lo abbiamo potuto constatare di persona andando a pranzo all’agriturismo Villa Rosa in località Arzeno – Ne (GE). Indirizzo: Via Botasi, 10, 16040 Campo di Nordest (GE).
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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Mn Il manganese o braunite A Gambatesa non si estraevano oro o diamanti, ma manganese. La sua abbreviazione chimica è “Mn” – numero atomico 25, si presenta solitamente in forma di ossido e il suo nome tecnico è braunite. È di colorazione nero-grigio con una lucentezza metallica, di aspetto simile al ferro e, nella miniera, è possibile vederlo chiaramente. La formazione geologica di questa zona risale niente di meno che al periodo Giurassico quando esisteva un antico oceano ligure-piemontese. La braunite era contenuta all’interno dei diaspri e si depositò sul fondale del nostro oceano. Dato il suo peso elevato, il manganese tendeva a scivolare, quando non ancora del tutto consolidato, verso le aree più ribassate. La nascita dell’appennino fece sì che si formassero alcune pieghe dove il minerale si concentrò nelle zone di cerniera. Queste masse chiamate lenti sono spesso molto voluminose. Una di queste, la Lente Nord, si trova proprio a Gambatesa e ha fornito circa 600.000 tonnellate di materiale. Il manganese è duro, ma molto fragile, ossida facilmente assumendo un aspetto iridescente, si fonde con difficoltà e diventa ferromagnetico solo dopo un trattamento specifico. Giroinfoto Magazine nr. 59
Il manganese è essenziale per la produzione di ferro e acciaio in virtù delle sue proprietà desolforanti, deossigenanti e leganti. Serve per pulire l’acciaio, renderlo più duro e stabile. Per dare un’idea a livello storico la nostra guida cita il Titanic e il suo affondamento. Nei rivetti, nei chiodi che tenevano insieme le paratie del famoso transatlantico fu utilizzato acciaio povero di manganese. O così si dice … una leggenda? Un altro utilizzo del manganese è nella lavorazione del vetro. Il vetro è trasparente, almeno così lo conosciamo. Ma non è il suo colore originale. Nasce di colore verde e, aggiungendo il manganese, che fa da saponetta e da igienizzante, il metallo raccoglie il colore verde e lascia spazio alla trasparenza. Viene utilizzato nell’industria delle vernici, come attivatore per fertilizzanti e, altro utilizzo piuttosto comune è quello del manganese all’interno di integratori di sali minerali e di ferro e negli shampoo per capelli. In sostanza questo metallo purifica il nostro corpo sia dentro che fuori. Ciò che veniva estratto a Gambatesa era utilizzato al 99% per l’acciaio e il resto per gli elettrodi da saldatura in quanto questo minerale purifica anche la saldatura.
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La storia Sembra strano, pensando alla corsa all’oro negli Stati Uniti e ad altre rimembranze sulle miniere in tutto il mondo che quest’attività, pur in modalità ridotta, sia stata attiva fino al 2011. L’estrazione mineraria dà più la sensazione di essere legata alla storia, al passato ma effettivamente ancora oggi si estraggono minerali e pietre preziose dalle miniere in tutto il mondo. Già nel 2001 fu aperto il Museo della Miniera e le due attività vissero affiancate. Il museo ci offre uno spacco di vita dei minatori ai tempi che furono come se fosse rimasto congelato in quel preciso istante. Così la montagna racconta la sua storia e quella delle vite passate all’interno delle gallerie a combattere contro l’umidità, le difficoltà, il pericolo e il buio per portare a casa lo stipendio. Nel 2016, dopo cinque anni di chiusura e grazie ad una legge regionale e all’impegno del Parco dell'Aveto per rendere nuovamente fruibile questo sito, la miniera è stata riaperta al pubblico con visite guidate diventando una delle attrattive di questa zona e della Liguria. Per fare ciò sono stati necessari investimenti per la messa in sicurezza in modo da poter permettere nuovamente l’accesso al sottosuolo ed ora adulti, famiglie e bambini possono
godere di questo pezzo di storia ligure. La miniera inizia la sua attività circa 140 anni prima di diventare museo, ossia nel 1876. 140 di storia, 140 anni di gallerie e soprattutto 140 anni di uomini, di minatori all’interno delle gallerie e di donne all’esterno delle gallerie. Le donne non avevano accesso alle gallerie, avevano un altro compito di cui parleremo più tardi. Gambatesa era la miniera di braunite più importante d’Italia con una media di circa 50.000 tonnellate all’anno di minerale estratto. Fu ad opera di un ingegnere francese, Augusto Fages, che si scoprì la ricchezza nascosta nel sottosuolo della Val Graveglia. Egli ottenne il primo permesso di ricerca ed avviò la ricerca di diaspri cercando il manganese, minerale necessario per alcune produzioni dell’industria siderurgica. Il primo atto ufficiale risale al 1878 quando venne data concessione proprio ad Augusto Fages, il suo scopritore. Alla morte di Fages la concessione passò ai suoi eredi e, successivamente alla Società Ferriere di Voltri. Negli anni la produzione aumentò ma restava comunque difficoltoso trasportare il materiale a destinazione per via della mancanza di un’adeguata rete stradale che fu realizzata solo all’inizio del 1900. Durante il secondo conflitto mondiale
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la produzione della miniera calò per mancanza di manodopera e, alla fine dello stesso conflitto, passò di nuovo di mano per poi essere presa in carico dall’Italsider. Fu proprio questa società che decretò la chiusura di Gambatesa a causa dell’alto costo di estrazione contro quello più contenuto del minerale proveniente dall’estero. Venne tuttavia rilevata nuovamente da un’altra società che continuò a sfruttare la miniera e fu ad opera del suo fondatore che s’inaugurò il percorso turistico alla fine degli anni ’90. Proprio a proposito di percorsi turistici: ciò che attualmente è visitabile risulta essere solo una parte della miniera. Lo sfruttamento delle lenti ha dato luogo a grandi camere o caverne, delle cavità che si chiamano vuoti di coltivazione. La Lente Nord, quella da cui venne estratta la maggior parte di manganese di Gambatesa, diede luogo a uno dei vuoti di coltivazione più grandi d’Europa. La nostra guida lo chiama il Grande Vuoto. La speranza è quello di renderlo nuovamente visitabile una volta messo in sicurezza e ottenuti i permessi dagli enti competenti. Ad un altro livello c’è una seconda zona che si spera di riaprire al pubblico, la zona delle botti. A questa si accede attraverso una scala ancora in legno e dall’aspetto estremamente scenografico.
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Un viaggio nel cuore della miniera Gambatesa si estende su 25 km. La parte di miniera che abbiamo visitato si estende per 5 km, mentre i restanti 20 km stanno nei 4 piani sopra e nei 2 piani sottostanti. Quindi Gambatesa è suddivisa in 7 piani, ogni piano dista in verticale 25 metri, ovvero dalle nostre teste al 4° piano ci sono 25 metri. In questo modo si dava maggiore stabilità alla miniera e si riusciva ad attaccare, ossia si riusciva ad estrarre, blocchi di manganese sia da sopra che da sotto. Un sistema intelligente per rendere più redditizia l’estrazione. Man mano che i minatori scavavano i piani li facevano diventare paralleli in alcuni punti scavando gallerie verticali tra un piano e l’altro.
Con ciò risparmiavano tempo e la fatica di trasportare il materiale e sollevarlo per metterlo nei carrelli. La galleria che si percorre con il treno è quella principale, quella da dove veniva effettivamente estratto il manganese. Durante la corsa in treno, a lato, si vedono spesso delle altre gallerie buie. Queste servivano al minatore per non “andare a caso”. Immaginate semplicemente un panino … fette di pane ai lati e un gustosissimo ripieno in mezzo. La parte migliore in effetti sta in mezzo giusto? A Gambatesa la parte gustosa è quella che ci circonda, quella rossa, il diaspro. Ciò che sta ai lati sono rocce prive di manganese, il pane. Quindi le gallerie laterali servivano a fare capire al minatore che era sempre in mezzo al filone di diaspro principale.
Poi, dall’alto, buttavano giù il minerale e lo facevano cadere direttamente all’interno dei carrelli.
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Esistono altri tipi di gallerie che si chiamavano discenderie o rimonte e venivano divise a seconda di come venivano scavate. Manuela Albanese Photography Nelle rimonte il minatore scavava e andava ad intercettare il piano superiore, mentre nelle discenderie il minatore scendeva verso il basso fino ad incontrare il piano sottostante. Questo tipo di gallerie ha due cose in comune: una pendenza del 100% che non favoriva il lavoro dei minatori. Cosa succedeva nelle discenderie? Il minatore lavorava, per così dire, dall’alto verso il basso, caricava l’esplosivo e lo faceva detonare. I lavoratori andare poi giù con le ceste di vimini, le gerle come erano chiamate un tempo, caricavano 25 / 50 kg di materiale sulle spalle, andavano avanti e indietro, finché non avevano terminato la pulizia. Ultimo tipo di galleria sono quelle verticali. Il primo tipo serviva a scaricare il minerale dentro ai carrelli come detto in precedenza, e si chiama fornello. Alcune di queste gallerie verticali, quando non servivano più, venivano intonate a Santa Barbara, protettrice dei minatori, dei pompieri e dei marinai. Era una vita dura quindi i minatori inventavano modi per alleggerire un po' lo spirito. Quando un giovane minatore veniva introdotto nella miniera gli si diceva di lanciare una monetina in una di queste gallerie verticali dedicate a Santa Barbara così da affidare i suoi sogni e desideri proprio alla santa. C’era anche un secondo motivo per tutto questo: i minatori Giroinfoto Magazine nr. 59
anziani scendevano poi sotto e recuperavano la propria percentuale! Il secondo tipo di galleria verticale è di estrema importanza: permetteva di respirare. Entrando a Gambatesa ci rendiamo conto che mancano due cose. Per prima cosa mancano i puntelli, quelli che reggono la volta e se ne vedono pochi, in verità solamente due. Seconda cosa mancano i ventilatori o le tubature che portano l’aria all’interno. Perché questo? Gambatesa in effetti respira con noi. In inverno l’aria fredda entra dalle gallerie, si riscalda ed esce dalle gallerie fino in cima alla montagna che sono poi dei pozzi di areazione. D’estate invece l’aria calda, che sta in alto, viene aspirata all’interno dall’umidità si raffredda fino a 13-14°C e, diventando più pesante, esce automaticamente dalle gallerie. Questo avviene per sei mesi in un senso e per sei mesi nell’altro senso. In due giorni in particolare, aria fredda e aria calda entrano, si mischiano con l’umidità e creano dei banchi di nebbia che, ai tempi, non permettevano ai minatori di lavorare. La nebbia, trattenendo all’interno delle gallerie le polveri, creava un ambiente di lavoro ostile, non permettendo di respirare ma neanche di vedere. Questi due giorni particolari sono i due solstizi, quello d’inverno e quello d’estate durante i quali la temperatura dell’aria cambia repentinamente.
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Le condizioni eccezionali che si verificavano in questi due giorni facevano sì che, spesso e volentieri, i minatori dovessero tornare alle loro abitazioni pur avendo percorso a piedi grandi distanze per arrivare al lavoro. Considerando che venivano pagati a cottimo, ossia più minerale estraevano più venivano pagati, in quei due giorni camminavano per 4 / 6 ore senza poter lavorare ed essere pagati. Ora ci chiediamo … come venivano create le gallerie? Non certo a colpi di pala e piccone perché il diaspro è piuttosto duro. Venivano create con 25 cariche di esplosivo da far denotare. I buchi venivano fatte con punte e mazzotto, ovvero punte d’acciaio spinte nella roccia da un martello da 2/3 kg. L’introduzione in miniera dell’aria compressa favorì l’ampliamento delle gallerie fino agli attuali 25 km e vi spieghiamo perché. Si facevano 25 fori, partendo da quello centrale detto “cuore”, poi altri 4 intorno a forma di quadrato detti “fori di tappo”, 8 di corona interna e 12 di corona esterna. Non si facevano esplodere tutti insieme, ma si facevano detonare in sequenza. Sappiate che il cuore era il foro più importante ma era anche senza esplosivo. I primi a detonare erano i 4 fori di tappo, crollavano sul cuore e venivano fuori a tappo di spumante. Con pochissimo ritardo esplodevano gli 8 fori di corona interna e
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infine i 12 fori di corona esterna. E così di creavano man mano le gallerie. A un certo punto della nostra visita veniamo colti di sorpresa … Si spengono tute le luci mentre noi siamo all’interno della miniera e restiamo nel buio totale. E qui ci chiediamo anche come vedevano minatori all’interno della miniera. Se escludiamo l’illuminazione che ora c’è all’interno, si può capire quanto fosse buia. Per vedere i minatori avevano le lampade ad acetilene, composte da due serbatoi. Nel serbatoio in basso c’è il carburo, sopra l’acqua. L’acqua cade a gocce nel carburo (carburo di calcio), genera gas e genera luce. Così i minatori potevano vedere. Teniamo presente che la lampada durava circa 4 ore. Certo che i minatori avevano con sé i fiammiferi ma questi, spesso e volentieri, diventavano inutilizzabili a causa dell’umidità. Quindi … come in questo momento noi siamo al buio, anche i minatori dovevano uscire dalla miniera immersi nel buio. Allo stesso tempo la durata della lampada ad acetilene scandiva il tempo di lavoro dei minatori. Una volta terminata una carica della lampada sapevano che erano passate circa 4 ore di lavoro.
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Una delle cose che ancor oggi si ammirano nelle gallerie della miniera sono i carrellini. Manuela In tempiAlbanese passati Photography i carrelli venivano trainati dentro e fuori la miniera dai muli e cavalli. Gli animali potevano trainare circa 10 – 15 carrellini alla volta. Poi negli anni ’40 arrivò il primo locomotore a Gambatesa. E arrivò a dorso di mulo, perché in Val Graveglia non c’era ancora la strada carrabile che fu costruita fino in cima solamente negli anni ’70. Questo locomotore a diesel portava circa 20-25 carrelli, andava più veloce del traino animale ma creava il problema delle polveri sottili. Quest’inquinamento prodotto dal locomotore veniva portato all’esterno dal riciclo di aria, ma una parte restava comunque intrappolata dall’umidità, rimaneva all’interno delle gallerie e si attaccava alle pareti. Negli anni ’80 vennero acquistati due locomotori elettrici. Questi erano meno inquinanti ma avevano costi di manutenzione più elevati. I precedenti locomotori venivano manutenuti e riparati dai minatori stessi, mentre il locomotore elettrico aveva bisogno di una manutenzione più attenta e diversa. I locomotori furono poi relegati al secondo piano e dal 2000 furono utilizzati per il trasporto dei visitatori quando aprì il primo museo. Sempre negli anni ’40 a Gambatesa arrivò anche l’aria compressa. Questa diede nuova linfa vitale alla miniera ma, soprattutto, diede alla miniera la possibilità di arrivare ai suoi 25 km. Giroinfoto Magazine nr. 59
L’aria compressa mette in moto la pala meccanica, quella che sembra una piccola ruspa, il primo macchinario che aiutò effettivamente i minatori. Quindi il minatore poteva caricare e ribaltare i carrelli muovendo semplicemente delle leve risparmiando grandi energie. Tuttavia per utilizzare la pala meccanica si rese necessario alzare ed allargare le gallerie per permettere ai bracci meccanici di avere lo spazio per lavorare. Se in passato le gallerie erano fatte a misura d’uomo – 1.60 / 1.70 m – con l’introduzione di queste attrezzature le gallerie furono portate a circa 2.50 m di altezza e larghezza.
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Un tipo di carrello in particolare inventato per le miniere di carbone in Inghilterra, venne utilizzato anche in Italia dandogli un nome particolare ossia carrellino basculante. In sostanza la cassa del carrello si ribaltava agevolando di molto il lavoro di scarico del minatore. Il minerale ribaltato e scaricato veniva così messo a disposizione delle donne che lavoravano all’esterno della miniera. Le donne avevano il compito di dividere i minerali rossi da quelli neri. Esse venivano chiamate anche “pernici”. Vi domanderete come mai!! Dividendo appunto i minerali le loro mani assumevano il colore rosso delle rocce che dividevano, poi strofinando le mani sulle gambe la pelle assumeva appunto un colorito rossastro. Furono così denominate pernici perché questo piccolo volatile ha le cosce rosse, viene spesso cacciato ed è tipico della zona della miniera. I carrelli venivano utilizzati anche come “pegno d’amore”. Se un minatore s’innamorava di una pernice, caricava un carrello di manganese e lo portava fuori proprio per quella donna.
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Secondo voi quale era la pernice che guadagnava di più in miniera? Ovviamente la più bella! Pur essendo il lavoro all’interno della miniera molto difficile, faticoso e logorante, i minatori avevano un tetto sulla testa, mentre le donne non lo avevano. Lavorando sempre all’esterno, le donne erano soggette ai cambiamenti climatici delle stagioni, al sole, al vento, alla pioggia, al caldo e al freddo estremo. Specialmente d’inverno, dovevano resistere spesso a temperature rigidissime a causa del vento che spazza questa valle e che a Gambatesa raggiunge facilmente gli 80 - 90 km / h. Le donne rischiavano il congelamento! Per evitare o, almeno cercare di evitare questa possibilità, studiarono un sistema che permetteva loro di resistere più a lungo. Si bagnavano con acqua fredda le gambe oppure le ampie gonne lunghe che indossavano e aspettavano che l’acqua creasse una sottile crosta di ghiaccio sulla pelle e sugli indumenti. A questo punto erano isolate e protette dal ghiaccio e non sentivano più il freddo … o così si dice che fosse …
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Non sono solo le gallerie nelle viscere della montagna a far parte del sito della miniera. Ci sono altre installazioni interessanti. Proprio di fronte all’edificio principale sul crinale del monte si vedono due costruzioni. Queste erano adibite a deposito e conservazione dell’esplosivo e di ciò che era necessario al lavoro dei minatori. Per usare una terminologia marinaresca erano le Santa Barbara della miniera.
Sono stati raccolti anche compressori di altre miniere nelle zone limitrofe e ciò fa sì che questa sia una collezione di compressori più unica che rara. Le curiosità sono ancora molte e vi lasciamo un po' di suspense in modo che possiate scoprire altri misteri della miniera durante la vostra visita. Terminato il nostro giro di esplorazione anche all’esterno, torniamo al locale bar dove Roberto ci aspetta. Restituiamo i caschetti e ci sediamo con lui ad ascoltare alcune storie di miniera e di vita.
Prendendo un sentiero che sale verso la vetta della montagna, al di sopra della Galleria Cadorin, si arriva invece su una terrazza panoramica dalla quale si può comprendere meglio il complesso della miniera. È un piccolo quartiere composto da alcune costruzioni come ad esempio il locale pompe, la cabina elettrica, deposito esplosivi e detonatori, uffici, sala compressori, officina locomotori, etc.
Veniamo così a conoscenza del fatto che alcuni minatori, anche se pochi, sono ancora in vita. Pare anche una pernice, tutti di veneranda età. Roberto ama frequentare la valle, conoscere ed ascoltare le loro storie. Questo non è più un lavoro per lui, si è appassionato a questo posto e alla storia che racconta.
La cabina elettrica era inizialmente posizionata al livello 550 – quello del centro visitatori – e trasformava l’energia da 10.000 a 360 volt. Nel 1956 fu spostata nella sua attuale posizione. Nel locale amministrativo veniva consegnato il salario ai minatori e la sua caratteristica unica è una finestrella a forma di mezzaluna. La sala compressori invece è il cuore della miniera. Contiene diversi modelli di compressore con i quali veniva prodotta la forza motrice necessaria all’estrazione.
Spesso, quando si trova solo nelle gallerie, dice che sente chiaramente di non essere solo. Può essere la suggestione del posto, può essere che questo luogo trasmetta ancora ciò che tante persone hanno vissuto, provato e anche lasciato in queste gallerie. Fatto sta che ascoltare queste storie ci lascia con il desiderio di poter conoscere le poche persone che hanno vissuto direttamente quest’esperienza. Chissà che un giorno non si possa incontrarle e ascoltare dalla loro viva voce questa storia affascinante.
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RINGRAZIAMENTI Ringraziamo Roberto ed Andrea che ci hanno accolto e guidato nella visita della miniera! Buon lavoro! Per conoscere tutti gli eventi proposti dalla miniera di Gambatesa, vi invitiamo a consultare il loro sito ufficiale www.minieradigambatesa.com e la pagina Facebook minieradigambatesa.
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Per chi suonano le campane A cura di Rita Russo
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Avere ricevuto l’invito dall’Associazione per la Promozione Sociale “Via delle Rondini” a partecipare ad una insolita passeggiata tra le campagne sicane seguendo un gregge di pecore ed il suo pastore, è stato per me, senza ombra di dubbio, meglio di un invito a nozze. L’idea di poter vivere un’esperienza di gran lunga lontana dalla normale routine quotidiana mi ha affascinato subito, e l’immaginazione di quali sarebbero state le sensazioni e le emozioni derivate da quest’ultima, ignara delle sorprese cui avrei assistito, mi ha accompagnata fin quando tutto non ha avuto inizio.
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Così nel primo pomeriggio di un caldo ed assolato giorno di fine agosto, dopo esserci presentati puntuali al raduno previsto a Piazza Castello, nel comune di Santo Stefano Quisquina (AG), sede, peraltro, della APS “Via delle Rondini”, raggiungiamo la meta da cui avrà inizio la passeggiata.
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Arriviamo così in Contrada Melia, che ricade nel territorio del Comune di Castronovo di Sicilia, tra i Monti Sicani, ed è sede dell’azienda agricola “Arcobaleno” di Michele Mirabile, che diverrà, da questo momento, insieme ad i suoi animali, il protagonista principale del nostro evento.
Rita Russo Photography
Lo scenario che si presenta ai nostri occhi, sia lungo la strada percorsa durante lo spostamento, sia quello sul quale ricade l’azienda in questione, è costituito da un territorio nel quale morbide colline argillose del colore dell’oro - per quel che resta della trebbiatura, (restucce o stoppie) - lasciano il passo a serre (montagne ad andamento lineare) e pizzi di natura carbonatica, le cui cime sono spesso di colore verde cupo per la presenza di fitti boschi. Tra questi ampi spazi non si può fare a meno di notare la presenza di un grosso invaso, il lago Fanaco, che con i suoi colori, diversi a seconda della luce, completa l’ambiente come l’ultima pennellata di un pittore può completare il suo dipinto.
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Dopo esserci resi conto che parte delle terre dell’azienda lambiscono le aree di massimo livello del lago, la prima sorpresa che ci aspetta è vedere che la figura che accompagna il gregge, e che ci raggiungerà di lì a poco, non è, come ci si potrebbe aspettare, quella di un anziano signore che, ricurvo sul suo bastone, compie con difficoltà il suo lavoro giornaliero, bensì di un giovane agile e snello, sorridente, gentile, ma un po’ intimidito dalla nostra presenza; si tratta di Michele, che, avendo rilevato l’attività del padre ben undici anni fa, oggi a soli 29 anni, gestisce da solo e con grande senso di responsabilità un’azienda agricola nella quale l’attività prevalente è costituita dall’allevamento di ovini, da latte e da carne, ed in parte alla coltivazione di grano ed affini. Iniziamo a seguire Michele ed il suo gregge, costituito da 140 pecore di razza “belicina”, alcune femmine delle quali possiedono un paio di corna che ricordano quelle di un ariete, al contrario dei maschi che ne sono privi. La restante parte del gregge, costituito da 40 femmine gravide, resta a riposo in ovile. Seguendo il gregge compiamo una mini transumanza nel senso più stretto del termine (transumanza, infatti, deriva dal verbo transumare, ossia attraversare, transitare sul suolo) per portare gli animali a pascolare sui lotti di terreno aziendale che ancora offrono un po’ di foraggio, nonostante il caldo estivo abbia ormai seccato quasi tutto.
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Si tratta, quindi, di una sorta di assaggio di una parte della giornata tipo che un pastore normalmente vive, anche se in realtà le giornate si differenziano per lunghezza e per impegno a seconda dei vari periodi dell’anno. Indispensabili, per la corretta conduzione in solitario del suo gregge, sono, per Michele, i suoi quattro fedelissimi ed addestratissimi cani pastore, due dei quali sono, insolitamente, femmine di pastore tedesco. Durante il cammino lungo le trazzere polverose attraverso le campagne assolate , lo scampanio ed il belato degli animali, insieme all’abbaiare dei cani, che riportano sulla retta via le pecore che di tanto in tanto cercano di tornare all’ovile per altri sentieri, interrompono il “suono” del silenzio che scandisce il tempo del pastore. I pastori, in generale, durante i solitari cammini al seguito delle loro greggi, circondati dalla bellezza della natura e dei boschi, diventano i custodi di un tempo lento, durante il quale imparano a riconoscere il vento, danno valore al silenzio e vedono senz’altro più albe di chiunque altro. Una volta raggiunto il pascolo, costituito da una delle tante colline dorate sulla sponda opposta del lago, là dove le pecore lasciate libere si allontanano immediatamente dal controllo diretto di Michele, ma non da quello dei suoi cani, ecco che ci attende la seconda sorpresa. In cima al promontorio si scorge la presenza di tre
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sedie che preannunciano un momento non solo di sosta ma anche di riflessione. Infatti, dopo poco, le sedie vengono occupate da due giovani chitarristi e da uno degli esponenti dell’APS “Via delle Rondini”, Salvatore Presti, professore di filosofia. Tra brani di Lennon e di Simon and Garfunkel, sapientemente arrangiati dai due strumentisti, con il sottofondo del suono lontano ma costante delle campane delle pecore al pascolo, traendo spunto da tutte le sensazioni ricevute fino a quel momento durante il cammino (colori, odori, suoni) e supportato da una lettura tratta da un libro di Luigi Veronelli (“La sovversione necessaria. Battaglie civili e impegno politico”) e da una breve poesia di Esiodo, il Prof. Presti ci invita a riflettere sui danni causati oggi dalla globalizzazione e dal consumismo, inneggiando alla riscoperta della terra ed al ritorno alla vita contadina ed ai frutti del suo lavoro, come mezzo di ribellione contro l’omologazione e l’uniformità impostaci dal sistema in cui viviamo.
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La riflessione va a segno, sopratutto se si ripensa alla scelta di vita fatta da Michele che, fin dall’età di 18 anni, ha deciso di dedicare la sua vita al lavoro contadino, caricandosi di pensieri e responsabilità, e di essere per questo, però, un uomo libero, pur rinunciando ai piaceri ed agli svaghi tipici della sua giovane età. La pausa di riflessione termina con la tappa al lago, che offre, da questo punto, una visione quasi completa di se stesso, alla luce calda del tramonto.
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E’ il momento in cui l’esperienza volge al termine ed è l’ora di raggiungere l’azienda, sia per noi che per le pecore, senza però prima aver visto da vicino una struttura tipica dei sicani, un pagliaio in ristrutturazione. In azienda ci attende, oltre ad un ricco buffet pieno di formaggi e di altri prodotti di fattura locale, anche l’ultima gradita sorpresa della giornata, ossia
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assistere alla produzione del formaggio e della ricotta, entrambi rigorosamente realizzati con latte di pecora. Ad attenderci in azienda, infatti, troviamo il sig. Mirabile, il papà di Michele, che ci offre una dimostrazione, con annessa degustazione, del miracolo che avviene dentro una pentola colma di latte, in due fasi distinte.
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LA LACCIATA Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Nella prima fase si ottiene il formaggio aggiungendo al latte il “caglio“ (un enzima estratto dallo stomaco degli agnelli) e portandolo ad una temperatura di circa 36°/37°. Dopo poco tempo, grazie agli enzimi, il latte coagulando forma la cosiddetta “cagliata”, che risalendo in superficie, viene frammentata per favorire lo spurgo del siero e, una volta estratta, viene riposta negli appositi contenitori. Il prodotto così ottenuto, che ha una consistenza semi dura, si chiama “tuma”.
Nella seconda fase, assistiamo alla “zabbinata”, ossia al procedimento grazie al quale si ottiene la “zabbina” (il cui termine deriva dal nome arabo del formaggio sia nella forma dialettale giaban, sia dall’arabo classico jubn), che altro non è che ricotta non ancora rassodata, insieme al suo siero. Questa si ottiene aggiungendo alla “lacciata”, ossia la parte di siero che avanza dopo la caseificazione, una quantità di latte pari al 10% circa di quest’ultimo, insieme al sale, e portando il tutto ad una temperatura di 80°. Dopo circa 35/40 minuti, senza cessare mai di mescolare il liquido nella pentola, avviene il miracolo: la superficie del liquido si rapprende e ciò che si ottiene è proprio la zabbina che, recuperata con un mestolo insieme al siero, va mangiata calda e gustata accompagnandola a pane, preferibilmente raffermo. La parte di zabbina rimasta, posta nella "fascedda", cioè l'apposita forma bucherellata, oggi realizzata in plastica (mentre un tempo era di vimini intrecciato a mano), lasciata sgocciolare diventa ricotta e consumata per altre preparazioni. Essendo la ricotta prodotta con il siero e non direttamente dal latte, non è definibile come formaggio. Piuttosto per essa si parla di latticino.
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LA ZABBINA Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Dopo aver gustato, oltre alla Tuma e alla zabbina, una serie di altri formaggi prodotti localmente ed altre leccornie come il pane “cunzato” con acciughe, pomodoro secco, olive, miele e tanto altro, avere innaffiato tutto con del buon vino ed aver goduto dell’ottima compagnia di chi ci ha ospitato, non resta altro che tornare al proprio mondo sazi, non solo del buon cibo, ma di tutto ciò che questa esperienza ci ha regalato. In conclusione, mi preme ringraziare il presidente dell’APS “Via delle Rondini”, Elisa Chillura che è stata ben lieta di averci invitato allo scopo di far conoscere i luoghi visitati e l’attività svolta oltre i confini della Regione Sicilia. L’Associazione, infatti, si occupa prevalentemente di promozione territoriale, e tra le righe di presentazione di quest’ultima si legge, tra le altre, la seguente frase: “Dal cuore della Sicilia, ci occupiamo di territori, di saperi e di persone. Di come averne cura e di come farne un bene condiviso”.
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Si ringrazia, inoltre, Michele Mirabile e la sua Azienda, per l’ospitalità e per l’esempio di vita che ci ha regalato, grazie ai quali abbiamo vissuto momenti, sensazioni ed emozioni ai più sconosciuti e si ringraziano, infine, tutti coloro che hanno contribuito con la loro collaborazione all’impeccabile riuscita dell’evento.
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Castronovo di Sicilia ed i Monti Sicani Ci troviamo nel territorio del Comune di Castronovo di Sicilia, che dista circa 80 km da Palermo e ricade, insieme a quello di Santo Stefano Quisquina, con il quale confina, all’interno dei Monti Sicani, sebbene tra di essi ricada il limite amministrativo tra le province di Palermo ed Agrigento. I monti Sicani sono una catena montuosa che occupa parte della Sicilia centro-meridionale, all’interno della quale ricadono comuni appartenenti alle due province suddette, Palermo ed Agrigento. Il territorio sicano, è caratterizzato da morbide colline di natura argillosa e argillosoarenacea, normalmente adibite a pascolo, che raggiungono quote intorno ai 600 m s.l.m., sulle quali poggiano morbidamente i rilievi di natura calcareo-pelagica di età mesozoica, le cui Il Lago Fanaco quote, che si attestano generalmente intorno Il Fanaco, come viene semplicemente chiamato, realizzato ai 900 m, raggiungono la quota massima di tra il 1951 ed il 1953 mediante lo sbarramento del fiume oltre i 1500 m su Rocca Busambra e su Monte Platani, occupa la parte meridionale di un'ampia vallata, al Cammarata. centro di un'immensa concavità naturale frapposta a due Il territorio dei Monti Sicani custodisce lunghe catene di montagne dall’andamento quasi parallelo. anche in alcune aree archeologiche i segni Esso che è lungo 3,5 km e largo 1 km nel suo punto di della presenza dell’antico popolo dei Sicani. maggiore ampiezza e può ospitare 20,7 milioni di metri Di grande interesse sono alcuni elementi cubi d’acqua alla quota di massimo invaso; raccoglie caratteristici dell’antica civiltà rurale: il pagliaio le acque delle montagne circostanti (Serra Leone, (esempio di abitazione destinata agli allevatori Pizzo Stagnataro, Monte Gemini e Pizzo Lupo) e la sua nomadi) ed il baglio (struttura abitativa più realizzazione ha modificato nel tempo il microclima complessa, utilizzata dai contadini stanziali). dell’area, rendendolo più dolce e migliorandone anche il Sui Monti Sicani la Regione Sicilia ha istituito paesaggio. numerose aree protette allo scopo di tutelare la natura e le biodiversità che in esse sono Nelle acque di questo lago si trova una fauna mista presenti. costituita oltre che da anguille, anche da trote, persico reale e persico trota e per questo esso si presta anche alla pesca sportiva. Le acque sono rese potabili nell'omonimo impianto ed immesse nel sistema dell’acquedotto interconnesso che è gestito attualmente dalla società Siciliacque, concessionaria del servizio di captazione, accumulo, potabilizzazione e adduzione per la Regione Sicilia. Giroinfoto Magazine nr. 59
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Andrea Zanatta Barbara Tonin Elisabetta Cabiddu Fabrizio Rossi Gianluca Fazio Giancarlo Nitti Lorenzo Rigatto Maddalena Bitelli Mariangela Boni Remo Turello
A Cura di Maddalena Bitelli e Lorenzo Rigatto
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Il territorio del Monferrato si sviluppa all'interno delle due province piemontesi di Alessandria e Asti e, a partire dal 2014, è entrato a far parte della lista dei territori Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO. Il paesaggio si presenta perlopiù collinare ed è caratterizzato da vari borghi storici, come ad esempio Montemagno, la meta del nostro reportage.
Montemagno è un piccolo borgo situato nella zona del Monferrato Astigiano; il primo insediamento è databile tra l’XI e il XII secolo. Il nome “Montemagno” deriva dal latino: mons, ovvero monte, e magnus, ovvero grande, per indicare l’elevazione e le dimensioni del colle su cui sorse il primo villaggio abitato. Il paese è sormontato da un castello dal quale si sviluppano 12 vicoli, parte integrante del nucleo originario e contrassegnati con la numerazione romana, che formano una struttura a raggiera. E’ tuttora possibile osservare i resti del nucleo medievale originario, da cui si accede attraverso un portale della cinta muraria, costruito intorno al XIV secolo, passante sotto un antico palazzo.
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Durante la nostra visita siamo stati guidati attraverso le stradine del borgo da Maurizio, giovane e appassionato, guida della Pro Loco di Montemagno. Dopo aver varcato la porta del centro storico, ci siamo diretti verso la prima tappa, ovvero la Chiesa Parrocchiale dei Santi Martino e Stefano, situata nel cuore del nucleo medievale. La chiesa, edificata in epoca medievale, è stata riprogettata tra la fine del Settecento e l'Ottocento: l'edificio è a pianta centrale con un piccolo campanile laterale, mentre la facciata è in stile neoclassico. L'accesso è costituito da una scalinata barocca in pietra, che delimita una delle piazze più belle del Monferrato Astigiano. Sulla destra del portone troviamo una statua di Don Bosco. Maurizio ci ha raccontato che proprio in questo luogo, secondo la tradizione, il giorno della festa di Maria Assunta nel 1864 avvenne il cosiddetto "Miracolo di Don Bosco": durante la celebrazione della Messa, infatti, egli proclamò che la siccità, che perdurava da diverso tempo, sarebbe di lì a poco terminata; all'uscita i fedeli rimasero sorpresi nel vedere la pioggia cadere, come era stato predetto. Scendendo verso la piazza e svoltando a destra, ci siamo poi ritrovati di fronte a una piccola entrata, che porta ai voltoni che sorreggono l’antica scalea barocca della chiesa di San Martino.
Andrea Zanatta Photography
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Barbara Tonin Photography
Successivamente, risalendo a piedi i vicoli, siamo giunti al castello, simbolo del paese. Esso sorge sull'originario nucleo fortificato e nel corso del tempo ha subito delle modifiche: le prime intorno al XIII-XIV secolo e le ultime, che hanno portato all'odierno aspetto, intorno al Settecento. È circondato da un giardino terrazzato, anch'esso settecentesco. Tali modifiche hanno cambiato la natura stessa del castello: dapprima utilizzato anche per scopi militari dalla Signoria locale, è diventato, grazie alla soppressione del feudalesimo in Piemonte, un'elegante residenza di campagna. I resti di epoca medievale sono tuttora visibili nel lato sud-occidentale, il lato più imponente del castello. Attualmente è una residenza privata, pertanto non è visitabile; abbiamo però avuto modo di visitare il giardino panoramico che permette la vista delle colline limitrofe.
Maddalena Bitelli Photography Cinzia Carchedi Giroinfoto Magazine nr. 59
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VISTA DAL CASTELLO Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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CHIESA DI SAN VITTORE Andrea Zanatta Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Ridiscendendo verso la porta principale del borgo, chiamata anche Casa sul Portone, Maurizio ci ha condotti alla scoperta di alcuni pregevoli edifici del nucleo originale del paese, caratterizzati da ballatoi lignei a graticcio, di retaggio tipicamente medievale. Queste case donano un aspetto peculiare ai vicoli di Montemagno e sono elementi tipici e caratteristici dell’architettura locale. La Casa sul Portone è un edificio risalente al XIII secolo e un tempo era l’ultima porta della cinta muraria del nucleo medievale; al suo interno è presente una mostra permanente che illustra le varie parti del restauro avvenuto a partire dal 2004. La costruzione si sviluppa su due piani: uno sotterraneo, dove sono presenti una ghiacciaia ed un’ex macelleria, e un salone al primo piano, che ospita la mostra del restauro ed una piccola sala per le conferenze. La nostra visita per il borgo ci ha condotti presso la piccola chiesa di Santa Maria della Cava, edificio medievale a pianta quadrata, edificato intorno alla fine del 1400 sopra ad un impianto preesistente. Al suo interno racchiude un pregevole ciclo di affreschi, probabilmente datati tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. L’edificio è incastonato tra fabbricati rurali recentemente ristrutturati e alcune testimonianze storiche descrivono questo luogo come un punto privilegiato, in epoca medievale, per la comunicazione tra Asti, centro del ducato, e Pavia, capitale del regno longobardo.
CASA SUL PORTONE - Barbara Tonin Photography
SANTA MARIA DELLA CAVA - Elisabetta Cabiddu Photography
Infine, Maurizio ci ha condotto nei pressi del cimitero, dove sorge la Chiesa di San Vittore, di cui oggi rimangono solamente l’abside e il campanile. L’edificio si erge sopra il colle omonimo situato a sud-est del centro abitato. Le prime tracce di questo edificio risalgono al 1145, anche se i primi documenti scritti sono datati 1345; nel corso dei secoli sono stati effettuati interventi di restauro, l’ultimo in occasione del Grande Giubileo del 1999. Per molto tempo, a causa dell’assenza di coperture e del suo sviluppo verticale, la chiesa ha generato presso gli abitanti di Montemagno, l’errata denominazione di “Torre di San Vittore”.
CASA SUL PORTONE - Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Mariangela Boni Photography
Per l’ora di pranzo ci siamo recati presso Tenuta Montemagno Relais & Wines, poco distante dal borgo di Montemagno, di proprietà della famiglia Barea, originaria di Varese. Arrivato nel Monferrato nel 2005, Tiziano Barea fu subito colpito da una dimora del XVI secolo, testimonianza delle antiche architetture del Monferrato, immersa in una meravigliosa cornice naturale.
www.tmwines.it
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Per l’occasione ha preparato un antipasto a base di battuta di Fassona e una pasta al pomodoro condita con erbe dell’orto; i piatti sono stati abbinati a due vini prodotti in loco: il TM Brut 24 mesi Metodo Classico e il Solis Vis.
All’interno della tenuta convivono due realtà caratteristiche della zona: la cantina, dove vengono prodotti vini d’eccellenza, e il Relais, con le camere, la Spa e il ristorante. Il Relais di Tenuta Montemagno è considerato tra le residenze più esclusive dei Boutique Hotels d’Italia, ossia un insieme di strutture di lusso caratterizzate da un’alta qualità dei servizi offerti, oltre che da un ambiente intimo e servizi esclusivi. Il Boutique Hotel Tenuta Montemagno fonde la cura dei dettagli nella scelta degli arredi a esperienze e servizi di altissimo livello, come l’Experience degustativa e la Suite SPA, il tutto affacciati sui meravigliosi territori del Monferrato, patrimonio dell’UNESCO.
Il TM Brut 24 mesi è uno spumante Metodo Classico rosato, prodotto da uve Barbera raccolte con vendemmia precoce e lasciato affinare in bottiglia 24 mesi; il suo aroma ai petali di rosa e frutti rossi lo rende un vino ideale per un aperitivo, anche se, grazie alla struttura della Barbera, risulta un vino adatto per accompagnare l’intero pasto. Il Solis Vis Monferrato Bianco D.O.C. è invece un vino ottenuto dalle uve di Timorasso, il cui nome significa “forza del sole”, per indicare la necessità di questa tipologia di uva di molta luce per completare in modo ottimale la maturazione; si caratterizza per la spiccata mineralità e il profumo caldo e intenso, con note di frutta bianca e pietra focaia.
Il nostro pranzo si è svolto presso il ristorante del Relais, La Civetta sul Comò, dove “la cucina classica piemontese si sposa con i profumi mediterranei”. Lo Chef Executive, Giampiero Vento, è infatti siciliano e, prima di raggiungere il Piemonte, è passato per diverse città italiane e dell’Europa mediterranea. La sua cucina mescola quindi la cucina classica e tradizionale piemontese con un pizzico di sperimentazione, al fine di valorizzare al meglio le materie prime del territorio, accostandole ai vini della cantina Tenuta Montemagno.
Lorenzo Rigatto Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Giancarlo Nitti Photography Nel primo pomeriggio, Simone, il figlio del proprietario, ci ha accompagnati nella visita della location. Ci ha raccontato che Tenuta Montemagno, un terreno di circa cento ettari totali, si trova in un territorio che tocca quattro comuni (Montemagno, Viarigi, Altavilla e Casorzo) e due province, Asti e Alessandria. Le vigne si trovano tutte nel territorio di Montemagno, a parte quella con cui producono il Barolo, che si trova a La Morra (CN).
Le tipologie di uva utilizzate per la produzione sono per la maggior parte tipicamente piemontesi, come la Barbera, il Grignolino, il Ruchè (uno dei più antichi vitigni piemontesi, che si trova solamente nel territorio del Monferrato astigiano), la Malvasia e il Timorasso. Tuttavia, vengono utilizzate anche uve internazionali come Sauvignon e Syrah, in purezza o in blend con varietà piemontesi, per produrre vini a carattere più internazionale.
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Ci siamo poi spostati verso la cantina, luogo centrale della vinificazione. Il metodo di produzione di Tenuta Montemagno, caratterizzato da una lavorazione a mano e dall’utilizzo tecnologie all’avanguardia, è sinonimo di eccellenza. La struttura della cantina, interamente collocata su un unico piano, affaccia direttamente sui vigneti, dove si trova la pressa. Durante la vendemmia i grappoli vengono selezionati e raccolti a mano; in seguito, una volta pressati, vengono trasportati all’interno dell’edificio e inseriti nelle botti (la maggior parte in acciaio, a parte le barriques e quelle utilizzate per il metodo classico) per la vinificazione. Una delle caratteristiche principali e valore aggiunto dei
vini prodotti alla Tenuta Montemagno è la bassissima percentuale di solfiti, addirittura al di sotto dei limiti imposti dalla certificazione “Bio”, che prevede un valore massimo di anidride solforosa di 150 mg/l. Insomma, la posizione dei vigneti, la lavorazione a mano e la bassa percentuale di solfiti fanno sì che i vini prodotti dalla famiglia Barea siano considerati tra i migliori vini italiani. Per concludere il tour della location, Simone ci ha condotti nella sala degustazione, dove ci ha presentato uno dei loro cavalli di battaglia: Mysterium, una Barbera d’Asti Superiore D.O.C.G. prodotta con uve delle più antiche vigne della tenuta.
Lorenzo Rigatto Photography
RINGRAZIAMENTI Ringraziamo Maurizio Robella della Proloco di Montemagno e Simone Barea di Tenuta Montemagno che ci hanno guidato in questa giornata alla scoperta del Monferrato Astigiano.
Gianluca Fazio Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Elisabetta Cabiddu Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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Elisabetta Cabiddu Photography Giroinfoto Magazine nr. 59
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LA MINIERA DI ROCCE ASFALTICHE “STREPPENOSA” Notoriamente ricca di innumerevoli bellezze di ogni genere, la Sicilia, per le sue caratteristiche geologiche e geomorfologiche, è ricca anche di molte risorse naturali sfruttabili. Tra queste gli idrocarburi di vario genere, che sono stati, ma in alcuni casi lo sono ancora (come nel caso della Piattaforma petrolifera Vega al largo delle coste di Gela) oggetto di estrazione. È il caso del giacimento minerario asfaltifero che ricade, in un territorio di circa trecento ettari, tra Modica e Ragusa. Quest’area mineraria è stata sfruttata industrialmente sin dalla metà del XIX secolo per estrarre la cosiddetta “pietra pece”, come viene localmente chiamata la roccia asfaltica, attraverso la realizzazione di numerose miniere, tra le quali le più importanti sono quelle di Castelluccio e di Streppenosa. Due miniere, oggi dismesse, che per le differenti profondità dei livelli di mineralizzazione sono state realizzate la prima (Castelluccio) a cielo aperto lungo il greto del fiume Irminio, mentre la seconda (Streppenosa), in sotterraneo, e prende il nome dall’omonima contrada.
A cura di Rita Russo
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Rita Russo Photography
Attraversando un paesaggio apparentemente arido ed assolato, caratterizzato da altipiani calcarei, spesso marcatamente incisi dai corsi d’acqua che, nel tempo, hanno scavato nelle rocce profonde valli come quella del fiume Irminio, percorrendo un sentiero carrabile sterrato, si raggiunge l’area di pertinenza della miniera Streppenosa, che, ancorché non più attiva da molti anni, mostra tutto il suo fascino a chi ha la fortuna di visitarla. In quest’ultima, l’estrazione delle rocce asfaltifere è avvenuta attraverso la realizzazione di una rete di gallerie della lunghezza complessiva di 1600 m, tutte tagliate a maglie grossolanamente ortogonali e con le volte sostenute da pilastri molto irregolari e di sezione diversa. INGRESSO
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Prima di raggiungere l’attuale accesso alla miniera, l’attenzione del visitatore viene attirata da un vecchio rudere, accanto al quale si trovava l’ingresso principale di quest’ultima, costituito da un grande pozzo, profondo circa 50 metri, di pianta quadrangolare, nel quale era alloggiato l’ascensore azionato da una caldaia a carbone e che consentiva la discesa agli operai; i resti della caldaia sono visibili all’interno del rudere; mentre all’ esterno di esso si trova ancora il traliccio che sorreggeva gli ascensori. L’areazione delle gallerie era garantita, invece, da un secondo pozzo posto più a Sud.
Lasciato il rudere, dopo poche decine di metri, si raggiunge l’imboccatura della galleria orizzontale, che si apre sulla vallata del fiume e che costituisce attualmente l’unica entrata agevole alla miniera. E’ attraverso tale galleria che il materiale estratto veniva portato all’esterno tramite vagoncini su rotaie, ancora visibili di tanto in tanto sul pavimento della miniera.
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Poco dopo l’ingresso si notano da subito le caratteristiche pareti di calcare impregnato di bitume, con colate di pece solidificata, che brilla particolarmente alla luce delle torce. Visione che si ripropone di tanto in tanto lungo tutte le gallerie che si sviluppano su un unico livello ed hanno lunghezza ed andamento piuttosto irregolare, con ampiezze che vanno da pochi metri a 5/7 m ed altezze fino a una decina di metri. Sono sovente visibili sulle pareti tracce di piccoli fori, utilizzati per inserire bastoni di legno inumiditi, allo scopo di creare fratture, per asportare più agevolmente la roccia. Parte della miniera, che segue verso il basso il filone bituminoso principale, è interessata da un fenomeno di allagamento per l’accumulo dell’acqua che percola dal soffitto. Tale fenomeno ha creato un’affascinante sequenza di laghetti, profondi in alcuni punti anche tre metri, che con i loro colori, unitamente a tutto il resto, rendono la visita a questo sito un’esperienza unica.
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TREK IN SCAMPIA RAGUSA E LA PIETRA PECE
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A fianco alle colate di nerissimo bitume si nota spesso la presenza di depositi di calcite, di vari colori, originatisi dalla precipitazione del carbonato di calcio sulle pareti, a testimonianza dei fenomeni carsici, ancora allo stato embrionale, formatisi per effetto dell’infiltrazione e circolazione delle acque meteoriche nel substrato calcareo fratturato. I colori di tali concrezioni vanno dal bianco della calcite pura, al giallo, al rosso, per la presenza di ossidazioni ferrose. Ulteriori morfologie che richiamano, più che un ambiente sotterraneo scavato artificialmente, quello di una grotta carsica naturale, sono date dalle stalattiti sul soffitto e le stalagmiti sul pavimento.
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Per il visitatore le occasioni di restare a bocca aperta, proseguendo il cammino, sembrano non finire mai. È necessario, infatti, fare attenzione a non calpestare altre forme carsiche che via via si palesano sul pavimento, alla luce delle lampade, come le “vaschette” concrezionate, alimentate da acqua di stillicidio, che si susseguono con lieve pendenza le une dalle altre e numerosi piccoli noduli di forma pseudosferica, chiamati “pisoliti” , noti anche come “perle di grotta”, originati per avvolgimento successivo di microveli di calcite su un nucleo detritico. Ed ancora sulle pareti si notano vele e cortine di calcite e tante altre suggestive morfologie.
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A parte l’interessante testimonianza di archeologia industriale offerta da tale miniera, la fusione fra le regolari e fredde geometrie di quest’ultima, frutto del duro lavoro umano, e le forme naturali originatesi per i processi carsici legati alla infiltrazione delle acque meteoriche nell’ammasso roccioso carbonatico fessurato, rendono la miniera Streppenosa un ambiente di notevole interesse, anche da un punto di vista geospeleologico, che andrebbe valorizzato e tutelato. Essa, sebbene sia di proprietà della Regione Siciliana,
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è attualmente aperta solo a qualche associazione speleologica, nonostante con legge regionale 15 maggio 1991 n.17 sia stato istituito il Museo regionale naturale e delle miniere di asfalto di Castelluccio e della Tabuna, in provincia di Ragusa, che però non è mai partito. Si spera, pertanto, che il museo possa nascere quanto prima a seguito di un progetto di recupero, salvaguardia e fruizione di questo bene, prima che il tempo e l’incuria dell’uomo possano definitivamente cancellarlo dalla memoria.
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CENNI STORICI SULLO SFRUTTAMENTO INDUSTRIALE DEL GIACIMENTO ASFALTIFERO RAGUSANO Sebbene nell’area ragusana, siano state trovate testimonianze dell’uso di tale roccia, sia a scopo artistico e decorativo (sarcofagi, lastre e statue ritrovate nelle principali chiese della zona), sia per l’edilizia in genere (pavimentazione di case, ecc.), dall’età ellenistica fino alle porte dell’800, la storia industriale dell’asfalto ragusano inizia nei primi decenni di quest’ultimo, quando alcuni imprenditori di differenti nazionalità tra inglesi, tedeschi e francesi si interessarono alla particolare pietra che, se riscaldata, oltre ad esalare un particolare odore, diventa malleabile, per tornare dura appena scende la temperatura. Infatti la roccia asfaltica risultò interessante non solo per l’uso edilizio che se ne era fatto fino a quel momento, ma sopratutto per le possibilità di estrarre il “bitume” (idrocarburo utilizzabile sia come lubrificante, sia come carburante) e, quale diretta conseguenza, la possibilità' di "bitumare", appunto, le strade che fino allora erano in terra o lastre pietrose. Le grandi società industriali di varia nazionalità interessate all’estrazione ed alla distillazione della roccia asfaltica, che avevano acquistato i terreni dai massari locali (ignari della fortuna custodita sotto le loro terre, che loro credevano
all’azienda italiana che più' di ogni altra ha segnato la storia dell'asfalto ragusano: la A.B.Co.D., acronimo per Asfalti Bitumi Combustibili liquidi e Derivati, che convisse con la società inglese fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, garantendo il lavoro a quasi duemila tra lavoratori semplici, apprezzati minatori, stimati conduttori di impianti e schiere di carrettieri, meccanici, garzoni, carpentieri, ecc. La guerra costrinse l’azienda a ridurre al minimo gli impianti, anche a causa dell’arruolamento di molti operai come soldati, i quali al ritorno da reduci trovarono l’A.B.Co.D. in gravi difficoltà finanziarie, con la conseguente impossibilità di riavere il proprio lavoro. Ne seguirono lotte sindacali che raggiunsero l'apice nel 1949 con l'occupazione delle miniere da parte
adatte forse solo al pascolo brado) impiegarono migliaia di lavoratori (picconieri, minatori, ragazzini che in altre miniere siciliane si chiamavano "carusi", carrettieri e sorveglianti) per estrarre da cave e miniere centinaia di migliaia di tonnellate della roccia scura, parte della quale veniva frantumata per essere trasportata sui carretti a Mazzarelli (attuale Marina di Ragusa), dove veniva imbarcata per varie destinazioni, quali Gran Bretagna, Francia, Germania e resto d'Europa. La parte rimanente della roccia veniva lavorata sul posto per estrarne l'idrocarburo. Una citazione popolare, documentata sul piano storico, ricorda che la prima strada ad essere stata asfaltata, come oggi vediamo tutte le strade del mondo, fu la Rue Bergère di Parigi, seguita da alcune strade di Londra e Amsterdam. Lo sfruttamento dei giacimenti di Castelluccio e Streppenosa fu gestito agli inizi del XX secolo dai tedeschi "Fratelli Kopp”, i quali ritenevano l’asfalto ibleo di gran lunga migliore di quello estratto dalle loro miniere o da quelle abruzzesi di Scafa, in provincia di Pescara. Allo scoppiare della prima guerra mondiale, i possedimenti dei tedeschi vennero requisiti per essere dati in concessione
delle famiglie dei “picialuori”. Fu quello l’anno della svolta per l’industria dell’asfalto ragusano, grazie agli accordi tra Regione Siciliana e la Calce e Cementi di Segni, che rilevò tutte le cave e le miniere della A.B.Co.D., dando origine alla A.B.C.D., ovvero la Asfalti Bitumi Cementi e Derivati e trasformò radicalmente la lavorazione dell’asfalto utilizzando il proprio brevetto, secondo il quale il bitume estratto dalla roccia veniva utilizzato come combustibile di un alto forno nel quale veniva lavorato il calcare "esausto", ossia privo di bitume, che prima finiva in discarica, per farne cemento pozzolanico, venduto a caro prezzo perché ritenuto ottimo per la moderna edilizia, sia in Italia che all’estero. Si trattava di una lavorazione industriale a ciclo chiuso, che
garantiva ottimi ricavi e soprattutto il lavoro a migliaia di ragusani tra il diretto e l’indotto. La produzione continuò con ulteriori migliorie, apportate sia ai metodi di lavorazione che in termini di tutela sindacale per le maestranze occupate, fino al 1968, quando la società passò all’Eni che garantì gli stessi livelli occupazionali e gli stessi investimenti solo per un altro decennio, scegliendo poi di non lavorare più la “pietra pece”, e decretando in tal modo la fine di un’epoca: quella dell’industria dell’asfalto ragusano. Della pietra pece si occupa ormai solo qualche artigiano, incoraggiato da architetti che utilizzano questa roccia non solo nei lavori di restauro, ma anche in nuove costruzioni.
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LE ROCCE ASFALTIFERE E BITUME. Una roccia calcarea impregnata di bitume è detta asfalto. La roccia asfaltica e’, infatti, un calcare tenero impregnato, secondo percentuali diverse, di bitume. Il bitume e' sostanzialmente un idrocarburo. Gli idrocarburi sono composti organici che contengono soltanto atomi di carbonio e di idrogeno. Ampiamente usati come combustibili, la loro principale fonte in natura è di origine fossile. Una prima distinzione tra i vari idrocarburi si riferisce al loro stato fisico, nelle condizioni di pressione e di temperatura ambientali. In natura troviamo idrocarburi sia liquidi (petroli), sia gassosi, sia solidi. Gli idrocarburi solidi derivano dall’ossidazione dei precedenti e prendono il nome di bitumi. Il processo che porta alla trasformazione della materia organica in idrocarburi è un processo analogo a quello della carbonificazione ed è detto naftogenesi. Un ambiente favorevole alla naftogenesi è costituito da acque più o meno stagnanti: in queste acque non
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ossigenate le spoglie degli organismi animali e vegetali si depositano sul fondo, mescolandosi a sedimenti argillosi e costituendo una melma putrida chiamata sapropel. Attraverso complesse reazioni connesse alla diagenesi, il sapropel si trasforma in roccia compatta, detta sapropelite, dove hanno origine gli idrocarburi. In particolare, i calcari bituminosi affioranti nel ragusano, di età miocenica, devono la loro origine presumibilmente ad imbibizione da parte dei depositi petroliferi esistenti nel sottosuolo ed emigrati dalle profondità lungo le superfici di minor resistenza dei sistemi di discontinuità e delle fratture profonde dell’intero ammasso roccioso. Il contenuto in bitume della roccia asfaltica dipende principalmente dalla permeabilità della roccia incassante e dalla concentrazione originaria degli idrocarburi, nonché dalle condizioni tettoniche dell'area che ne determinano le caratteristiche chimico-fisiche.
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WORKING GROUP 2020
BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project
PIEMONT
ITALIA
E
LIGURIA
A
LAZIO
ORINO ALL AMERICAN
REPORT
Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 59
L OMBARDI
STORIES
GIROINFOTO MAGAZINE
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COME FUNZIONA
Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.
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CHI PUÒ PARTECIPARE
Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Compila il form di iscrizione sul nostro sito ufficiale dal menu area relazioni, "iscrizione a Band of Giroinfoto". L’organizzazione sarà felice di accoglierti.
PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Whatsapp, dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. Gli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremo le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.
Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse tecniche di ripresa. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubblicati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork legati al brand Giroinfoto magazine.
SEDI OPERATIVE La sede di coordinamento dei working group di Band of Giroinfoto si trova a Torino con sezioni operative a Alessandria, Genova, Milano, Roma e Palermo. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi. Giroinfoto Magazine nr. 59
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Malkovich Malkovich Malkovich! fotografie di Sandro Miller John Malkovich e Sandro Miller rendono omaggio alle icone della fotografia che hanno cambiato il nostro immaginario. Meryl Streep è un mito, anche senza il celebre ritratto scattato da Annie Leibovitz nel 1981. John Malkovich non è da meno e sa rendere un sentito omaggio al suo talento, con la complicità di Sandro Miller e di un progetto nato per far rivivere le opere dei grandi fotografi che hanno cambiato il nostro immaginario. In questo originale progetto, il fotografo Sandro Miller ha infatti usato il noto attore americano per rifare alcuni dei più famosi ritratti di sempre. Malkovich Malkovich Malkovich! Una sorta di formula magica, che non ha alcun bisogno di Photoshop, ma deve molto al talento camaleontico dell’attore per schiudere i portali dell’immaginazione.
Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Annie Leibovitz. Meryl Streep, New York City (1981), 2014
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Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Herb Ritts. Jack Nicholson, London (1988), 2014
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Grazie ad accurate sedute di trucco, travestimenti e messa in scena, seguite da mesi di ricerca, Malkovich diventa Albert Einstein che mostra la lingua a Arthur Sasse (1951), il Che Guevara di Alberto Korda (1960) e il maestro del brivido ritratto con ironia da Albert Watson, ma anche Jack Nicholson dietro il trucco di Joker per Herb Ritts (1988). A tutto il resto provvede il gran talento per l’illuminazione e l’editing di Miller. Entrando in sintonia con soggetti e autori, stili e linguaggi dell’arte, Malkovich anima il trasgressivo Self di Robert Mapplethorpe. Insieme al crocifisso di plastica di Andres Serrano (1987), la pop art di Andy Warhol e la fragranza dell’estro frizzante di Jean Paul Gaultier immortalata da Pierre et Gilles (1990).
Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Arthur Sasse. Albert Einstein Sticking Out His Tongue (1951), 2014
Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Andy Warhol. Green Marilyn (1962), 2014
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Indossando un pellicciotto intorno al volto, Malkovich diventa il Mick Jagger di David Bailey (1964) o ancora, nudo e coperto di api, si trasforma nel celebre Beekeper di Richard Avedon. Analoga versatilità gli permette di abbracciare la sua Yoko Ono, mettendosi a nudo come John Lennon per l’obiettivo di Annie Leibovitz, in quello scatto pluripremiato realizzato qualche ora prima del suo assassinio. Sandro Miller (1958), considerato uno dei fotografi più importanti al mondo in ambito pubblicitario, è noto per le sue immagini espressive e per il suo stretto lavoro con l’attore John Malkovich e gli altri membri dell’ensemble della Steppenwolf Theater Company di Chicago.
Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
David Bailey. Mick Jagger, Fur Hood (1964), 2014
Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Andy Warhol. Self Portrait (Fright Wig) (1986), 2014
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Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Philippe Halsman. Salvador DalĂ (1954), 2014
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Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Patrick Demarchelier, Christy Turlington, British VOGUE, New York (1992), 2017 Giroinfoto Magazine nr. 59
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Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Dorothea Lange. Migrant Mother, Nipomo, California (1936), 2014
26 × 32 cm, 144 pagine 60 colori, cartonato ISBN 978-88-572-4400-6 LA MOSTRA Trieste Magazzino delle idee 31 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021
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Malkovich Malkovich Malkovich Homage to Photographic Masters Sandro Miller SKIRA editore
Man Ray. Tears (1932), 2017
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Salinelle San Biagio Autore:Matteo Pappadopoli Belpasso (CT) Giroinfoto Magazine nr. 59
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The 99 Domes Close Up Autore: Ronald D. Palandie South Sulawesi, Indonesia
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Campeggio vista lago
Autore: Riccardo Berton, editing Giorgia Parravicini Brenzone sul Gardai
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ARRIVEDERCI AL PROSSIMO NUMERO in uscita il 20 Ottobre 2020
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Conoscere il mondo attraverso un obbiettivo è un privilegio che solo Giroinfoto ti può dare veramente.
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Delicate Arch - Arches Park Utah Barbara Tonin
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