Giroinfoto magazine 60

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N. 60 - 2020 | OTTOBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.60 - OTTOBRE 2020

www.giroinfoto.com

Street Food PALERMO

BAND OF GIROINFOTO

TERRE DI MARFISA ALTA TUSCIA VITERBESE Band of Giroinfoto

MAU - ARTE URBANA BORGO CAMPIDOGLIO Band of Giroinfoto

MONTE MORO 999+ 1 ALBERI Band of Giroinfoto Photo cover by Rita Russo


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WEL COME

60 www.giroinfoto.com OTTOBRE 2020

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la redazione | Giroinfoto Magazine

Seattle skyline by Giancarlo Nitti

Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

©

Novembre 2015,

da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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on-line dal

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Giroifoto è

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Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.

Attività

Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

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Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI

Progetto editoriale indipendente

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ANNO VI n. 60

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20 Ottobre 2020

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I N D E X

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C O N T E N T S

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R E P O R TA G E

999+1 ALBERI

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LERI CAVOUR

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TERRE DI MARFISA

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STREET FOOD PALERMO

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10

STREET FOOD Palermo Band of Giroinfoto Sicilia

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999+1 Alberi sul Monte Moro Band of Giroinfoto Liguria

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LERI CAVOUR STORIA DELLA GRANGIA Di Giuliano Guerrisi e Elisabetta Cabiddu

54

TERRE DI MARFISA Alta Tuscia Band of Giroinfoto Lazio

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MAST PHOTOGRAPHY GRANT ON INDUSTRY AND WORK AND INVENTION Le mostre da Ottobre MAST Bologna


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R E P O R TA G E

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MAU BORGO CAMPIDOGLIO

MAU BORGO CAMPIDOGLIO Arte urbana a Torino Band of Giroinfoto Piemonte

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STARS BOX Rifugi a milioni di stelle Di Claudia Lo Stimolo

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BORGO PARRINI La piccola Barcellona Di Rita Russo I TEMPLI IPOGEI Damanhur Band of Giroinfoto Piemonte LE TUE FOTOEMOZIONI Questo mese con: Marco Supino

R E P O R TA G E

STARS BOX

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102 114 130 R E P O R TA G E

114 DAMANHUR

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102 BORGO PARRINI

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299

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STREET FOOD PALERMO

A cura di Rita Russo

Rita Russo Salvatore Fiume

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STREET FOOD PALERMO

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è una splendida città che ha subito la dominazione di diversi popoli (fenici, greci, romani, arabi, normanni, francesi, spagnoli), le cui influenze sono visibili non solo a livello artistico e architettonico ma anche gastronomico. Come accade ormai per tutte le capitali europee anche a Palermo lo street food offre una grande varietà di prodotti tipici che hanno acquisito fama a livello internazionale, tant’è che una recente classifica redatta dal social network americano Virtual Tourist, pone Palermo al quinto posto nella classifica delle migliori città produttrici di "cibo da strada" in tutto il mondo.

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STREET FOOD PALERMO

La tradizione dello street food palermitano e delle sue produzioni si colloca in un ampio arco temporale durante il quale ogni comunità vissuta sul territorio ha avuto modo di contribuire alla sua varietà in qualche misura. Con il tempo ogni prodotto si è aggiunto all’altro e venditori ambulanti, mercanti arabi o ebrei inventarono lo street food nel momento in cui, non esistendo i ristoranti come li conosciamo oggi, si mangiava e si viveva materialmente per strada. Lo street food palermitano è, prevalentemente, basato su alimenti terrestri (tantissima carne e frattaglie) ma non

mancano alcune chicche ittiche, tantissime specialità fritte, prodotti di panetteria e, ovviamente, quelli di pasticceria. È difficile camminare attraverso i vicoli e le strade, soprattutto del centro storico della città, senza essere attratti ed inebriati dagli innumerevoli odori pungenti, talora speziati, delle più tipiche specialità del panorama gastronomico street palermitano. Sebbene oggi molti dei prodotti siano entrati nelle rosticcerie, è ancora possibile vedere come viene cucinata la specialità realmente “on the street”, come nel caso delle panelle e delle crocchè o del pane con la milza.

Salvatore Fiume Photography

I luoghi senz’altro più adatti per una full immersion nello street food sono i principali mercati storici della città, Capo, Ballarò, Borgo vecchio e quel che resta della Vucciria (dal francese boucherie - macelleria, mentre in palermitano significa “confusione”) e i quartieri popolari al loro margine. I mercati conservano intatte le radici arabe della cultura siciliana sia nelle caratteristiche abbanniate dei venditori, ossia le grida con le quali attirano l'attenzione dei compratori, sia nel modo di sistemare la frutta fresca, quella secca, ma anche la grande varietà di specie esotiche, le spezie provenienti dall'Oriente vicino e lontano e le olive, nella loro incredibile varietà. Giroinfoto Magazine nr. 60


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STREET FOOD PALERMO

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Salvatore Fiume Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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STREET FOOD PALERMO

Rita Russo Photography

Ed è proprio tra le coloratissime bancarelle piene di ogni ben di Dio, pesce compreso, che è possibile trovare friggitorie o addirittura ambulanti che sui loro carretti offrono spunti di ogni tipo per placare i morsi della fame che gli odori hanno stimolato. Tra le più note specialità dello street food palermitano, svetta di certo il pane con panelle e crocchè, queste ultime chiamate, nell’idioma locale, più comunemente cazzilli per la loro forma. Le panelle sono sottili frittelle di farina di ceci; mentre le crocchè sono cilindretti di purea di patate conditi con prezzemolo e pepe. Entrambi fritti in olio bollente, singolarmente o insieme, farciscono 3 tipi diversi di pane: la mafalda (chiamata così per Mafalda di Savoia), la scaletta (a forma di serpente) e la focaccia o vastidda, un panino rotondo a volte arricchito da semi di sesamo. Nelle friggitorie insieme a panelle, crocchè e melanzane fritte si trovano spesso anche verdure, come ad esempio cardi, carciofi e cavolfiori, in pastella (pastetta in dialetto, il cui ingrediente principale è costituito dalla farina ma la sua ricetta è variabile) e la rascatura, cibo che nasce dalla filosofia “non si butta via nulla” tipica dei periodi di povertà e carestia che hanno afflitto la città nel passato e che per questo è ottenuto, come suggerisce il nome, raschiando il fondo dei contenitori utilizzati per l’impasto delle panelle e delle crocchè, i cui residui vengono mischiati e fritti. Si crea così un delizioso mix di farina di ceci, patate e prezzemolo.

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Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Quando la tradizione palermitana viene rispettata, nelle friggitorie si trova anche il pani ca meusa. La forma di pane piĂš adatta per questo must dello street food palermitano è la vastidda, che accoglie al suo interno un ripieno di milza di vitello bollita, a cui spesso viene aggiunto il polmone e/o la trachea, tutti fritti dentro la sugna poco prima di consegnare il panino. La vastidda può essere schietta o maritata, a seconda che venga condita soltanto con del limone oppure con ricotta o formaggio cacio cavallo. L’origine di questo cibo sembra risalire al Medioevo quando gli ebrei che vivevano a Palermo e che lavoravano come macellai, per le loro credenze religiose, non potendo trarre guadagni dalla macellazione degli animali, venivano ricompensati con le relative frattaglie. Essi usavano, dunque, bollire e insaporire la milza, il polmone e la trachea nello strutto, che, insieme al formaggio, servivano da farcitura ai panini.

Salvatore Fiume Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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STREET FOOD PALERMO

Rita Russo Photography

La regina dello street food palermitano, conosciuta in tutto il mondo, è senza dubbio l’arancina, ossia una sfera di riso allo zafferano ripiena e fritta dopo essere stata impanata. Il ripieno oggi può essere realizzato con diversi tipi di condimento a seconda della creatività di chi le prepara. Esso può, infatti, essere agli spinaci, al salmone, alla salsiccia, ai funghi e persino alla nutella, ma la tradizione lo vuole accarne o abburro, ossia ripiena con ragù di carne o con burro e prosciutto.

La storia dell’arancina è antichissima di origine altoManuelaeAlbanese Photography medievale o araba, vista la presenza dello zafferano. Si racconta che un illustre siciliano d’adozione, Federico II di Svevia, abbia pensato alla panatura come semplice ma geniale tecnica per conservare il prelibato riso e trasportarlo a lungo durante le sue battute di caccia o le missioni diplomatiche. A Palermo il 13 dicembre si festeggia Santa Lucia con le arancine e la cuccìa, il dolce di grano bollito e ricotta di pecora. Sull’arancina si è sempre fatto un gran parlare a proposito del grande dilemma che da secoli divide in due la Sicilia intera, visto che nel palermitano si chiama “arancina”, mentre nel catanese si chiama “arancino” e per il quale si è pronunciata persino l’Accademia della Crusca a favore della prima versione. Secondo alcuni, è giusto arancina perché il nome deriva dalla forma di questa palla di riso impanata e fritta che ricorda l’arancia. Però in dialetto siciliano l’arancia è al maschile, arànciu e il dubbio rimane. Disputa etimologica a parte, ciò che unisce tutti è, in ogni caso, la bontà di questo simbolo del cibo da strada siciliano.

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Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Salvatore Fiume Photography

Un’altra leccornia tipica dello street food palermitano è lo sfincione che deve il suo nome alla parola latina spongia, ovvero spugna, oppure dall'arabo isfang, che significa frittella. L'impasto di questa specialità è, infatti, di consistenza porosa, proprio come una spugna. È costituito da un impasto simile sia a quello del pane sia a quello della pizza e a Palermo è condito con salsa di pomodoro, sarde salate, cipolla, formaggio cacio cavallo

e olio, a differenza di quello che si produce nella vicina Bagheria che è bianco. Sebbene oggi sia possibile trovare lo sfincione in tutti i panifici della città, quello più tradizionale è proprio quello venduto dagli ambulanti che, oltre ad essere una presenza fissa con piccole bancarelle nei mercati storici principali, si muovono da una via all'altra di Palermo a bordo di un’ape (lapino in palermitano).

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Un’altra particolarità tutta palermitana, esclusiva dei mercati e creata per sfruttare il più possibile ogni parte dell’animale macellato, è costituita dalla frittola e dal musso e carcagnoli. Per quanto riguarda la frittola è possibile affermare che sia, tra i cibi da strada palermitani, quello più misterioso ed estremo. Si tratta di un insieme eterogeneo di frattaglie di vitello (scarti di macellazione, "grassetti", piccole cartilagini, ossa…) che viene prima bollito. Quindi, il frittularu fa “rinvenire” la frittola friggendola con lo strutto e riponendola, caldissima, in un apposito grande cesto di vimini (u panaru), che, rimanendo sempre coperto da uno strofinaccio, nasconde la frittola alla vista degli acquirenti. Quest’ultima viene servita dal frittularu rigorosamente con le mani e senza mai alzare lo strofinaccio e riposta o su un foglio di carta oleata o all’interno di un panino morbido.

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Rita Russo Photography


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Rita Russo Photography

Per musso e carcagnoli si intende, invece, il muso del bovino e le cartilagini delle zampe, che vengono lessati in acqua salata, tagliati a cubetti e mangiati semplicemente con sale e limone spremuto ma, soprattutto presso le macellerie, si possono trovare con aggiunta della mascella e della lingua, talora conditi con una insalata di sedano, carote, cipolle rosse e olive verdi schiacciate. Non è da trascurare poi la presenza, oltre che tra le bancarelle dei mercati anche lungo le più grosse arterie

della città, dei cosiddetti stigghiulari, la cui presenza è riconoscibile dal denso fumo della brace che si alza dalla griglia a fianco al banchetto durante tutta la mattina e nel caso di quelli su strada anche nel pomeriggio. La stigghiola, altro cibo appartenente alla tradizione povera palermitana, deriva da un piatto greco, il kokoretsi, è di origine molto antica ed è costituita da budello di agnello o capretto, cotto sulla brace talora avvolto intorno ad un cipollotto.

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Salvatore Fiume Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Infine, non si può non tener conto di una delle chicche dello street food palermitano: il polpo bollito. I purpari sono una particolare categoria di venditori ambulanti capaci di rendere d’asporto e pronto da mangiare un cibo che normalmente non lo è. Anche in questo caso è tipico trovarli nei mercati storici dove, su bancarelle molto folcloristiche, troneggia una pentola di stagno fumante dalla quale, di tanto in tanto, con un forchettone viene estratto un polpo che, depositato sulla lastra di marmo, tagliato a grossi pezzi, condito con limone e messo nel piatto di carta, viene servito all’avventore del momento. A questo punto del nostro viaggio è possibile affermare, senza tema di smentita, che per “vivere” Palermo nella sua interezza, non può mancare un tour come quello fatto da noi. Quindi non resta altro che “gustare” presto questa città!

Salvatore Fiume Photography

Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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A cura di Manuela Albanese e Monica Gotta

Dario Truffelli Davide Mele Gianluca Cichellero

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A THOUSAND

TREES PROJECT Il progetto che ha preso vita nel mese di ottobre del 2019, per la piantumazione di nuovi alberi sul Monte Moro dopo il gravoso incendio.

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Davide Mele Photography

Per arrivare sul Monte Moro, si passa attraverso i quartieri residenziali salendo verso Apparizione. La strada, che diventa dopo poco una panoramica, è un punto di osservazione privilegiato sulla città. Con molta probabilità sarete completamente soli oppure in compagnia di poche altre persone. Sarete soli ad oltre 400 metri di altezza sul livello del mare, circondati dalla natura che sta tornando al suo antico splendore dopo un tragico evento avvenuto nel 2017, di cui parleremo dopo. Nel primo tratto di strada verso Monte Moro troverete case indipendenti, giardini rigogliosi, vecchie case rurali e ruderi abbracciati dalla vegetazione tipica della macchia mediterranea e delle alture genovesi. La strada si ferma al ristorante che in passato ospitava tantissimi genovesi durante i fine settimana. Oggi viene chiamato “il ristorante abbandonato”.

Arrivati alla fine della strada vi troverete davanti allo spettacolo indimenticabile del golfo di Genova disteso sotto i vostri occhi, quasi fosse un nastro colorato, da Nervi a Voltri. Ma non solo: in giornate particolarmente terse si vede la riviera di Ponente, Savona, Capo Noli e anche oltre sfiorando con lo sguardo le Alpi Marittime che d’inverno sono incappucciate dalla neve. Non è l’unico modo per arrivare sul Monte Moro. È anche possibile partire da Quinto e arrampicarsi a piedi fino in cima, esercizio riservato ai pochi veramente allenati vista la particolare pendenza. Tuttavia, partendo a piedi, potreste incontrare i vecchi bunker della guerra, un’altra attrazione di questa zona. Ma vi chiederete … perché siamo saliti fin qui?

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Monica Gotta Photography

La storia del Moro Genova subì due azioni di bombardamento, una nel 1940 da parte della flotta francese e la seconda nel 1941 da quella inglese. Ciò mise in luce che la città presentava delle carenze difensive. Già prima di questi avvenimenti fu discussa l’installazione di artiglierie di grosso calibro che non portò a nessun provvedimento.

Nel quartiere di Quinto esistono ancora oggi uno sbarramento anticarro formato da denti di drago, blocchi di calcestruzzo a forma di tronco di piramide e una casamatta, oggi sede di un’associazione.

Gli eventi degli anni ’40 portarono all’installazione di due torri armate, una ad Arenzano ed una a Monte Moro. Le due località furono scelte per permettere di difendere ampie zone di costa ma, dopo l’attacco inglese, non avvennero altre incursioni e le installazioni difensive non ebbero modo di essere collaudate.

Come detto in precedenza, parte di queste installazioni è ancora presente. Ad esempio, dalla strada lungomare, alzando lo sguardo verso Monte Moro, si vedono i diversi bunker. Inoltre, ponendo le spalle al mare, stando in cima al molo in Piazza Carristi d’Italia a Quinto e volgendo lo sguardo ai bunker si scorge ciò che resta della ferrovia verticale che durante la grande Guerra fu realizzata per trasportare l’artiglieria pesante, cannoni e materiali fino al Monte per potenziare la difesa della costa.

Il monte era comunque un caposaldo, il terreno intorno alle batterie fu minato, alcuni dei cannoni erano protetti dai bunker. Pare esistessero due teleferiche che, rispettivamente dal cimitero di Quinto e da Nervi, erano collegate telefonicamente con i comandi delle batterie.

Durante il secondo dopoguerra la vetta del Monte Moro fu oggetto di rimboschimenti con pini marittimi, più volte danneggiati da incendi dolosi. Alcune voci raccontano che i pini furono piantati per volontà del Duce, ma si tratta solo di racconti non avvallati da testimonianze scritte.

Archivio storico Banda Bassotti S.A.T. Giroinfoto Magazine nr. 60


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Il progetto ha preso vita nel mese di ottobre del 2019, anche se già a partire dal mese di agosto alcuni dei primi partecipanti avevano cominciato a studiare la fattibilità di un progetto di piantumazione.

Matteo ed Eugenio si incontrarono sul Monte Moro e parola dopo parola, nacque il progetto di rimboschimento. L’inizio della piantumazione degli alberi sul Monte Moro iniziò già prima della costituzione della futura associazione.

I fondatori sono: Matteo Ciappina, Eugenio Devena, Gaia Salvadori, Arianna Liconti e Manuela Albanese.

Il primo albero venne piantato infatti ad agosto 2019, più per senso civico che per la presenza di un’idea progettuale che sfocerà poi nella costituzione del Progetto A Thousand Trees Projects.

Ma scopriamo come è nato il progetto. In passato Matteo e Manuela avevano portato avanti varie attività di volontariato come ad esempio “Occupy Nervi”, riuscendo a fare ad esempio il primo Plogging del Levante Genovese e varie attività di pulizia di spiagge e strade, nonché l’importante raccolta fondi per l’acquisto nel 2019 del defibrillatore rubato al Porticciolo di Nervi. Eugenio da tempo abbracciava il desiderio di piantare alberi sul Monte Moro ed in passato aveva già messo a dimora alcuni agrumi.

Monica Gotta Photography

L’obiettivo iniziale era di piantare 100 alberi, ma presto l’idea cambiò e venne aggiunto uno zero per arrivare a 1000. I primi alberi vennero messi a disposizione da un vivaio di Nervi ad un prezzo calmierato. Chiunque poteva comprarne uno e piantarlo sul Monte Moro oppure veniva semplicemente acquistato e lasciato nel vivaio a disposizione dei fondatori del progetto.

Gianluca Cichellero Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Il progetto ottenne dal Comune di Genova l’assegnazione del terreno e la zona dove piantare gli alberi. Gli agronomi del Comune hanno dato indicazioni su che tipo di alberi piantare in modo da conservare l’ambiente e la macchia mediterranea indigena. In ottemperanza ai suggerimenti degli esperti le piante fino ad ora piantumate sono lecci, roverelle, frassini e corbezzoli. Successivamente iniziò la collaborazione con il Vivaio Regionale a Pian dei Corsi a Savona, che mette a disposizione le piante donandole a chi fa opera di riforestazione. Un altro step importante del progetto, che lo sta portando sempre a maggior diffusione sul territorio, ma anche ad una sempre maggior presenza mediatica.

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ad essere di pubblico dominio e sono nate collaborazioni importanti con altre associazioni. Nel tempo sono diventate sempre più numerose fino ad arrivare a 8. Si uniscono a A Thousand Trees Project, Occupy Nervi, Trip In Your Shoes, Surfrider Genova, Worldrise, Fridays For Future Genova, Cittadini Sostenibili e Circolo Nuova Ecologia di Lega Ambiente. In questo anno di vita di A Thousand Trees Project alla piantumazione degli alberi hanno partecipato liberi cittadini, gruppi di Scout e volontari di Green Peace, per citarne solo alcuni. E sono giunti da tutta la città di Genova, non solo dai quartieri che si vedono dall’alto di Monte Moro.

Attraverso la ferrea volontà dei fondatori, il passaparola, gli incontri casuali sul Monte Moro con altre persone e interventi attraverso i social media il progetto ha iniziato

Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Ogni domenica, prima di procedere alla vera e propria piantumazione, i volontari vengono informati su come procedere alla preparazione del terreno e della pianta affinché le percentuali di sopravvivenza della piantina salgano il più possibile. Ad esempio, ci si assicura che le piante non siano troppo vicine tra di loro, in modo che possano avere tutto lo spazio necessario per crescere, oppure si cerca di proteggere la piantina ponendola al riparo di un cespuglio di erica e al riparo dal sole caldo di mezzogiorno. La piantina poi va estratta delicatamente dal vaso e le sue radici vanno massaggiate, dopo di che la si mette nella buca precedentemente scavata avendo l’accortezza di creare delle canaline che facciano scorrere l’acqua piovana trattenendone una giusta quantità. Negli ultimi tempi hanno cominciato ad usare anche dei dischetti di juta che servono a trattenere l'umidità. In assenza di questi si può comunque procedere con una pacciamatura fatta con corteccia sbriciolata che serve a proteggere la pianta. Le pietre intorno servono a trattenere l'acqua piovana ed evitare lo smottamento del terreno. Manuela Albanese Photography

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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L'incendio del 17 gennaio 2017 Facciamo ora un passo avanti rispetto alla guerra mondiale e un passo indietro rispetto all’inizio della storia di A Thousand Trees Project. Questa storia nasce dal tremendo incendio di gennaio 2017 che ha distrutto il Monte Moro, la sua vegetazione e la sua immensa bellezza. Da mare, se si alzano gli occhi verso monte, si riconosce il Moro per via della sua forma, sembra un’onda verde stagliata contro il cielo blu. E lo si riconosce perché sulla gobba ci sono gli alberi che la seguono, tutti in fila. È unico, anche quando è incappucciato dalle nuvole gli alberi si vedono sempre. In seguito all’incendio la vista cambiò. Non c’era più il verde, non c’erano più gli alberi, c’erano solamente i loro scheletri anneriti, tutto il monte era nero. Il Moro era vestito a lutto per la morte di migliaia di alberi innocenti.

Manuela Albanese Photography

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Manuela Albanese Photography

Una giornata caratterizzata da un vento teso e tagliente tipico della città di Genova, un incendio di grandi dimensioni alimentato proprio dalle condizioni climatiche di quei giorni. Probabilmente furono 3 incendi di origine dolosa, che si unirono devastando le alture genovesi tra i quartieri di Apparizione, Quarto, Quinto e Nervi.

l’azione congiunta della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco fu determinante nello spegnimento delle fiamme che devastarono il polmone verde della Genova di Levante.

L’incendio arrivò a lambire le abitazioni, l’autostrada venne chiusa per via dei lapilli che cadevano sulle carreggiate;

Pertanto, invitiamo i nostri lettori alla sensibilizzazione in materia per non incorrere nuovamente nel pericolo di un

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Ancora oggi ci sono segni evidenti di persone che facendo un pic-nic sul Monte Moro creano piccoli incendi.


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grande incendio e la distruzione del patrimonio ambientale, non solo di Genova ma di tutta Italia e di tutto il mondo.

chilometri, complici il cambiamento climatico, l’intervento dissoluto dell’uomo e l’opera dei piromani.

Un esempio più recente sono stati gli incendi in Australia a cavallo tra la fine del 2019 e il 2020, evento che non ha paragone nella storia in merito al numero di animali deceduti e alla quantità di bruciata. Diverse volte negli ultimi anni anche gli Stati Uniti sono stati vittima di eventi simili che hanno reso l’aria irrespirabile per

A Thousand Trees Project e i suoi fondatori, ognuno a modo suo ancor prima di conoscersi, hanno deciso di ridare vita al nostro polmone verde, piantando il primo albero, probabilmente senza immaginare che sarebbero arrivati fino a qui!

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Manuela Albanese Photography

Adriana Oberto Photography

Il volontariato Thoudand Trees Project è un’azione di volontariato. Si parla spesso di volontariato, di istituzioni, di associazioni, di singole persone che offrono il loro tempo libero per migliorare l’ambiente nel quale viviamo, per aiutare le persone bisognose, i malati, gli animali. Il punto è che nel momento in cui aiutiamo gli altri, aiutiamo anche noi stessi, cresciamo e alimentiamo noi stessi con ciò che ci viene restituito dopo aver concluso una buona azione, un’azione volontaria resa in modo gratuito. Ma cosa spinge una persona a fare volontariato? Le ragioni possono essere la solidarietà, l’altruismo, il perseguimento della giustizia sociale oppure la filantropia, insieme ad altri mille motivi che sicuramente nascono dal vissuto personale di ciascun volontario. Nasce anche dalla sensibilità dei volontari verso problemi che non possono essere gestiti dallo Stato e da altre Istituzioni. Le attività di solidarietà trovano anche spazio nella nostra Costituzione che affida “la funzione della solidarietà alla comunità, mentre alla pubblica amministrazione affida l'organizzazione del modo di assolvere a tale funzione”. Con l’aumento graduale di questi interventi si è giunti alla Legge Quadro N. 266 del 1991 che sancisce la nascita del volontariato, definendone la struttura e gli obiettivi.

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Questa legge determina alcuni requisiti di base tra cui l’assenza di finalità di lucro e la gratuità delle prestazioni degli aderenti. Il volontariato si inserisce in quello che viene chiamato “Il Terzo Settore” che non risponde alle logiche del profitto e che segue regole diverse da quelle del mercato. Secondo i dati dell’ISTAT la popolazione di volontari in Italia è fatta di un numero di unità di tutto rispetto. Resta sempre un punto fondamentale alla base di tutto ciò: lo scopo benefico. Ascoltiamo, dalla viva voce di alcuni dei fondatori di A Thousand Trees Project, ciò che significa per loro fare volontariato, perché lo fanno, le loro sensazioni e cosa gli restituisce ogni azione in tal senso.


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o domenica il Monte Mor “Per noi domenica dopo io, il luogo dove ci ug rif ro st no il o at nt ve di è di restituire un po’ di za an er sp la n co o m ia rech o di ripristinare una am hi rc ce , ra tu na la al amore entale. sorta di equilibrio ambi o anche con condizioni or M l su ti ca re o am si Ci di noi procedeva a meteo avverse, ognuno lenzio, quasi fosse un si in e tin an pi e su le re pianta per poi ritrovarci re rio te in ne io ss le rif di momento sereni con di nuovo la a fine giornata, stanchi stare insieme. voglia di condividere e rsi tra di noi, ma ci Noi 5 siamo molto dive ore e rispetto per la accomuna il grande am natura. lgere tanti gruppi di Siamo riusciti a coinvo sono creati legami di si , ni cu al n co e, e on rs pe profonda amicizia”.

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LA BUCA PER IL 1000° ALBERO Monica Gotta Photography

Durante le loro escursioni sul Monte Moro i volontari dell’associazione anche scoperto l’esistenza di una vecchia cisterna della capienza di 500.000 lt. La cisterna è stata sottoposta a controlli da parte di esperti che ne hanno valutato la fruibilità: non ci sono segni di deterioramento particolare, né è stata rilevata la presenza di sostanze tossiche e/o pericolose. Si pensa pertanto di riqualificarla ed utilizzarla per bagnare le piante, oppure metterla a disposizione della protezione civile per debellare eventuali altri incendi nella zona, nonché per qualsiasi altro uso civico che possa essere utile alla comunità cittadina.

Davide Mele Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

I fondatori di A Thousand Trees Project affermano … “Come abbiamo detto durante la cerimonia, non abbiamo intenzione di fermarci. Il 13 settembre non è stato un punto di arrivo, ma forse un nuovo punto di partenza, andremo avanti puntando soprattutto sulla condivisione con altre realtà delle conoscenze acquisite e punteremo alla qualità della piantumazione elevando la probabilità di sopravvivenza degli alberelli”.


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La Cerimonia del millesimo albero Ci siamo recati sul Monte Moro per la cerimonia della piantumazione del millesimo albero, avvenuta il 13 settembre 2020. Per dovere di cronaca diciamo che doveva svolgersi a marzo 2020, ma purtroppo l’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19 ha fatto sì che dovesse essere rimandata al mese di settembre. Dopo un anno di duro lavoro, sudore, volontà ferrea, investimenti personali ma anche tanta soddisfazione per i risultati ottenuti, A Thousand Trees Project ha voluto rendere pubblica la piantumazione del millesimo albero e renderla fruibile a tutti coloro che amano Genova. Il loro lavoro ha reso possibile, con la collaborazione di Madre Natura, rivedere il verde sul Monte Moro, cancellando il nero dell’incendio. Prima dell’inizio della cerimonia di piantumazione tutti i responsabili delle associazioni coinvolte in quest’iniziativa hanno parlato davanti al pubblico esponendo la grande soddisfazione per questo traguardo raggiunto nonostante le difficoltà. Inoltre, hanno esposto quali idee porteranno avanti sempre nell’ottica di miglioramento e salvaguardia dell’ambiente.

La cerimonia è avvenuta in modo semplice e all’aperto, circondata dagli alberi del Monte Moro. I relatori si sono avvicendati salendo su una panchina di pietra, utilizzata come palco, per ringraziare tutti colori che si sono dati da fare per giungere a questo momento importante, oltre che per assicurare che continueranno la loro opera e per comunicare che daranno il loro sostegno alla nascita di altre iniziative simili nella nostra città. Chi fosse interessato ad unirsi a questi gruppi di volontari potrà contattarli attraverso i loro account sui Social Media. Chi volesse aiutare A Thousand Trees Project a continuare la piantumazione degli alberi può contattarli usando sempre gli stessi canali. E finalmente, con grande trepidazione di tutti i presenti, è stato piantato il millesimo albero: un corbezzolo per la precisione! Si percepisce chiaramente tanta emozione in tutti, rapiti dalle mani che scavano la terra, aggiustandola per rendere confortevole la nuova casa del corbezzolo che avrà una vista panoramica su Nervi e il monte di Portofino per il resto della sua vita.

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Tuttavia, per l’emozione non ci siamo accordi che era stata scavata un’altra buca per un altro albero: un altro corbezzolo! Quindi, ricapitolando, il 13 settembre 2020 si è raggiunto il numero di 1001 alberi sul Monte Moro! Non vediamo l’ora di scoprire quale sarà l’albero numero 1002 e quali numeri verranno raggiunti in futuro. Ultima cosa prima di concludere: per comprendere in parte la filosofia ed il romanticismo di questo progetto i fondatori di A Thousand Trees Project suggeriscono la lettura del breve scritto “L'uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono.

Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Un grazie per averci invitato alla cerimonia del 1000esimo albero e un altrettanto sentito ringraziamento per questa splendida iniziativa!

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LERI CAVOUR

La storia della Grangia di Leri Cavour inizia diversi secoli fa e racconta di mutamenti dei luoghi, di sperimentazioni ed innovazioni nel campo delle tecniche agricole ma anche dell’abbandono di questa tenuta ad elevato interesse storico e culturale ed infine di un forte attivismo negli ultimi anni nella speranza di dar nuova vita e promuovere il Borgo.

A CURA DI ELISABETTA CABIDDU E GIULIANO GUERRISI Giroinfoto Magazine nr. 60


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Giuliano Guerrisi Photography

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LERI CAVOUR

Pianifichiamo la nostra prima visita alla Grangia a dicembre del 2018. Lo stato di eccitazione che ci accompagna come appassionati di urbex, vista la possibilità di accedere e fotografare una struttura abbondonata in tutti i suoi punti più remoti, lascia spazio ad un forte stato d’animo di tristezza e disagio nell’osservare le condizioni in cui si presenta questo luogo simbolico, così ricco di storia.

Vercelli

Leri Cavour

Elisabetta Cabiddu Photography

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I rovi e la sterpaglia dominano gli ampi cortili che separano i vari fabbricati, vetri rotti e porte divelte permettono a chiunque di entrare liberamente. All’interno il degrado è ovunque: svariati atti di vandalismo e manomissioni hanno portato allo smantellamento delle pavimentazioni originarie ed all’incendio dei numerosi caminetti.

I resti degli edifici che si possono osservare sono quelli caratteristici di una enorme azienda agricola: scuderie, fienili, granai ed un vecchio mulino ma anche dimore dei lavoranti ed una chiesa. Sicuramente il luogo più interessante ed affascinante è la vecchia dimora della famiglia Cavour: una splendida villa su due piani con soffitti interamente affrescati e con caminetti decorati in ogni stanza. Con grande curiosità, a seguito delle recenti opere di recupero del Borgo, torniamo a visitare i medesimi luoghi a luglio del 2020 e con grande stupore ammiriamo come la Grangia stia riacquistando la sua originaria bellezza.

Manuela Albanese Photography


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Giuliano Guerrisi Photography

Fin dall'XI secolo l'area di Leri fu sottoposta a un processo di bonifica da parte dei monaci Cistercensi, divenendo così nei secoli successivi un fertile terreno per la coltivazione del riso. Nei secoli successivi l’area mantenne una certa rilevanza per i monaci che ne fecero di essa un centro di culto. Nel XIX secolo la Grangia subì una serie di passaggi di proprietà che videro tra i protagonisti anche Napoleone Bonaparte. Nel 1822 venne acquistata dal marchese Michele Benso di Cavour, padre di Camillo Benso, conte di Cavour. Fu proprio Camillo Benso a guidare la tenuta, sperimentando tecniche di coltivazione moderne che gli permisero di migliorarne la resa nella produzione di riso e nell’allevamento del bestiame e che avrebbe poi utilizzato nel resto del Piemonte.

Inoltre Cavour, grande appassionato ed esperto di idraulica, ideò quello che divenne il più grande sistema di distribuzione delle acque irrigue, culminato con la costruzione del canale Cavour, opera imponente che destò meraviglia a livello europeo. L’attività politica dello statista lo portò ad allontanarsi dalla Grangia la quale rimase per lui un luogo di ritiro nei momenti di riposo. Egli continuò a mantenere un attivo interesse per le vicende del Borgo ed insieme al suo fidato socio Giacinto Corio istituì una società, continuò a dirigere la Grangia ed a far edificare nuove strutture. Illustri personaggi dell'epoca risorgimentale e importanti agronomi fecero visita al Conte Cavour in quei luoghi.

Elisabetta Cabiddu Photography

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Elisabetta Cabiddu Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Dopo la morte di Cavour la struttura subì, nuovamente, alcuni cambi di proprietà, l’ultimo proprietario, l’ingegnere Viganò di Torino, dovette subire l’espropriazione da parte della Società Enel che aveva intenzione di costruire il secondo polo nucleare di Trino ma che, a seguito del referendum del 1987, venne costruita come centrale a ciclo combinato. Il Borgo a quel punto, abbandonata la funzione di azienda agricola, fu abitato dal personale della società, che continuò ad occupare alcuni uffici e abitazioni poi smantellati successivamente a seguito della dismissione della centrale. Nel 2007 Enel cedette il Borgo al Comune di Trino alla cifra simbolica di 1.000 euro. Nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stato avviato il cantiere patrocinato dal Comune di Trino e dalla Regione Piemonte per il recupero della tenuta cavouriana.

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Elisabetta Cabiddu Photography

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Tale operazione non ebbe buon esito, il declino e l’abbandono presero il sopravvento fino a farlo diventare territorio di vandali e portando il Borgo a subire una serie di manomissioni che deturparono parte delle strutture originarie. Nel gennaio 2020, su iniziativa di una serie di cittadini attivi, nasce l'Associazione L.E.R.I. Cavour (acronimo di Laboratorio Educativo Risorgimentale Italiano), che opera nel tentativo di ridare una nuova speranza al futuro del Borgo.

L'associazione si è trasformata in ODV a giugno 2020 e ha dato il via ai lavori di pulizia e promozione del Borgo nello stesso periodo. Obiettivo dell'associazione è quello di tutelare, promuovere e valorizzare il Borgo di Leri ed il territorio delle Grange. Il FAI ha elencato Leri Cavour tra i luoghi del cuore. Sarà possibile votarla, fino a dicembre, per consentire l’accesso a Fondi per ristrutturazione.

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Gianmarco Marchesini Laura Rossini

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Alta Tuscia Viterbo

L’alta Tuscia riparte da qui: L’Italia è costellata di luoghi meravigliosi dal punto di vista artistico, storico e naturalistico, ma qui nell’alta Tuscia sta sbocciando una realtà che ha qualcosa in più. In un momento particolare come questo, in piena emergenza COVID, molte sono le persone alla ricerca di luoghi tranquilli e sicuri dove rifugiarsi per godere di privacy e rilassarsi alla scoperta della natura e del territorio. Un circolo virtuoso che premia attività ricettive e produttori locali.

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Un territorio ricco di natura come la suggestiva cascata del Salabrone all’interno della Riserva Naturale Regionale Selva del Lamone. Una riserva selvaggia ed affascinante ricca di itinerari da percorrere a piedi o in bicicletta. Non è difficile raggiungere la cascata, lasciata la strada provinciale si percorre prima una strada sterrata di circa 300 metri e poi per altri 300 si segue un piccolo sentiero ben segnato ed adatto a tutti. La giornata non è delle migliori per far risplendere i colori, ma l’acqua caduta nella notte ha caricato la cascata d’acqua aumentandone il flusso. Non lontano c’è il Borgo di Farnese, uno dei luoghi del cuore censiti dal FAI. Costruito su una parete di tufo era abitato già dall’età del bronzo. A testimonianza del passaggio degli etruschi, dei romani e dei longobardi sono stati ritrovati diversi reperti. Culla della nobile famiglia dei Farnese, il borgo conobbe il momento di massimo splendore con la nomina a Papa di Alessandro Farnese con il nome di Paolo III durante il XVI secolo. Circa un secolo dopo sempre un Farnese fece costruire il viadotto presente nella piazza centrale per poter collegare la residenza ducale con un giardino privato che all’epoca si trovava oltre il fossato che circondava la città e che ora non esiste più.

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Dal viadotto si gode una vista particolare e suggestiva del borgo, che pur essendo di proprietà privata ed un laboratorio di arte e restauro, a volte viene aperto al pubblico per mostre o eventi. Nel 1972 Comencini lo elesse set naturale delle riprese del film “Le Avventure Di Pinocchio” che vide protagonista Nino Manfredi nei panni di Geppetto e Gina Lollobrigida nei panni della Fata Turchina . A memoria dell’evento nel paese sono disseminati cartelloni che segnalano i luoghi maggiormente utilizzati e le relative scene. Potrebbe essere utile visitare la zona con una guida. Girando da soli si perdono molte informazioni e luoghi particolari. A tale proposito è possibile consultare il sito visitfarnese.it

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Un’attività nata nel 2009 dal desiderio dell’Ing. Clarici e sua sorella Carla di tornare alle proprie radici. Tutto ha inizio con l’acquisto di un terreno adiacente alla loro tenuta di famiglia, vicino Farnese, dove sono cresciuti sia loro che i loro figli, oggi al loro fianco in questa avventura. In prima linea ci sono Nathalie, suo fratello Riccardo e Marco Baroni. A piccoli passi, con scelte ponderate ma con la voglia e la consapevolezza che i “valori e la famiglia vengono al primo posto, poi si vedrà”. “Terre di Marfisa” è l’azienda agricola che, non a caso, porta il nome della mamma dell’Ingegnere e della signora Carla. Giroinfoto Magazine nr. 60

Nel logo un unicorno, simbolo preso in prestito dallo stemma della famiglia Farnese perché rappresenta forza, saggezza e lealtà. La leggenda narra che la creatura, cacciata per essere catturata, si prostra a terra quando viene avvicinata da qualcuno con un cuore puro. Non si tratta di una pura scelta di marketing, ma della rappresentazione fedele delle caratteristiche caratteriali delle persone che credono e lavorano in questo progetto mettendo a disposizione tutta la loro passione e professionalità.


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Le vigne sono distribuite su 7 ettari di terreno tutte intorno al podere presso la chiesetta, la cava di tufo e la serra. Pur non essendo luoghi famosi per la produzione vinicola, il terreno tufaceo di origine vulcanica permette di ottenere note interessanti.

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L’obiettivo è quello di ottenere la certificazione di prodotto biologico ed IGP. Per ogni filare di vite è stata piantata una rosa Sevillana scelta dalla signora Carla come sentinella contro i parassiti.

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L’autunno è arrivato ed ancora resistono i grappoli di Petit Verdot, ultimo vitigno ad essere vendemmiato. I colori sono splendidi, grappoli di un rosso violaceo tra foglie verdi e rosso rubino. Siamo nella cava, Nathalie ci accompagna e guarda dall’alto e con orgoglio il frutto di tanto lavoro. Assaggiamo un chicco d’uva e veniamo

trasportati nel suo racconto come se ne facessimo parte. La condivisione di un momento durato anni e non ancora finito. Torniamo alla base passando per l’oliveto. Piante giovani che già offrono olive ed olio ottimi che finiscono in parte sulla tavola dell’Osteria presente nella tenuta ed in parte sul mercato.

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Una giornata lavorativa come le altre e nella cantina Nathalie assaggia il vino sotto l’occhio attento di suo padre. Un momento importante perché quest’uomo riservato e discreto in realtà è sempre presente e con il suo fare sempre gentile non lesina osservazioni e pareri. Il “Podere di Marfisa” invece è la struttura ricettiva costruita nel 2018 per assicurare al viandante il giusto riposo ed una accoglienza familiare. Un luogo immerso dai suoni, profumi e colori della natura. Tutto intorno alla struttura centrale si trovano le suite per gli ospiti circondate da opere d’arte, una vera e propria mostra permanente dello scultore Cesare

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Bozzini e da giardini progettati con esperienza e gusto dalla signora Carla. La pioggia caduta nella notte ha liberato tutt’intorno un profumo inebriante di lavanda e mentre si fa sera, non c’è momento migliore per abbandonarsi al relax per antonomasia: la SPA. Un perfetto connubio di materiali, essenze e luci soffuse che creano un’atmosfera quasi naturale. Sauna, piscina con idromassaggio, docce emozionali e tisane calde a disposizione non solo per chi soggiorna nel relais, ma anche per chi avesse solo voglia di passare qualche ora in questo ambiente lontano dal resto del mondo.


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L’ 0steria dell’Unicorno

è il ristorante gourmet che si trova all’interno del Podere di Marfisa. Il menù parla di tradizione, territorio e stagionalità. Immancabile la presenza dei prodotti dell’azienda agricola delle Terre di Marfisa: vini, olio ed erbe aromatiche. Ogni portata, dall’entrée al dolce, è una vera esperienza: quando la cucina diventa un’opera d’arte! Arrivano i sapori ed i colori dell’autunno in tavola:

Il pane fatto in casa accompagnato da olio e burro di castagne; L’entrée misteriosa che cambia ogni giorno in base all’ispirazione dello chef guidata dall’estro e dalle materie prime fresche della dispensa presenta: un crostino di caprino, olive dell’azienda agricola e uva arrostita; branzino marinato con pomodorini canditi e timo-limone, ed infine il boom di erbe amare e bufala in crosta di patate viola; Il carpaccio di manzo maremmano con sfoglia di sesamo nero, cipolla confit, erbe amare e salsa di tuorlo e senape; Zucca carbonara: ravioli farciti con zabaione alla carbonara su crumble di buccia e semi di zucca, guanciale croccante e crema di zucca gialla versata a vista; Grigliata mista di cinghiale e maialino grigio maremmano servito su una piastra di sale con patate e cipolle cotte sotto la cenere; Millefoglie di frutta di stagione e sfoglia allo zucchero di canna servita con salsa ai frutti della passione e crema chantilly;

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Lo chef Maria De La Paz esprime nei suoi menù tutta la passione per il suo lavoro. Il risultato stupefacente deriva dal mix di studio e ricerca delle materie prime, del territorio, delle tecniche acquisite nel tempo e della squadra in cucina. Nasce in Colombia, ma a 18 anni vince un concorso e parte alla volta di Parigi, segue la formazione presso la scuola di Vissani, ed approda a Roma. Oggi Farnese è la sua casa. La ascoltiamo mentre parla delle sue scelte, della sua passione per i prodotti della terra e dei luoghi circostanti. Lei non c’è nata, non c’è cresciuta, ma prova per questi luoghi lo stesso amore dei Clarici. Il suo piatto preferito è la zuppa scaldacuore, tutto rigorosamente a KM 0. Legumi antichi dei monti Cimini (lenticchie nere, ceci bruni, fagioli amarantini, fagioli del purgatorio), castagne, patate dal cuore rosso, patate vitelotte con guazzetto di brodo di gallina. Che siano scelte ponderate e mature o giovanili e fatte di pancia, hanno portato le strade di queste persone ad incontrarsi in questi luoghi. Un valore aggiunto che giova a tutta la zona e che dovrebbe essere traino ed amplificatore di quelle che sono le risorse naturali e culturali della Tuscia.

Laura Rossini Photography

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Aprono l'8 ottobre l'esposizione dei lavori della sesta edizione del concorso fotografico della Fondazione MAST, vinto da Alinka Echeverría, e la mostra Inventions a cura di Luce Lebart.

e del design del prodotto industriale, l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sui modi di vita tradizionali e l’omologazione indotta dall’industria globale della moda.

L'esposizione dei lavori di “MAST Photography Grant on Industry and Work”, concorso fotografico su industria e lavoro dedicato ai talenti emergenti, presenta le opere dei cinque finalisti della sesta edizione: Chloe Dewe Mathews, Alinka Echeverría, Maxime Guyon, Aapo Huhta e Pablo López Luz.

Il vincitore, annunciato oggi, è Alinka Echeverría (Città del Messico, 1981) con il progetto intitolato Apparent Femininity.

Questi giovani fotografi sono stati selezionati tra quarantasette candidati provenienti da tutto il mondo e hanno sviluppato un progetto originale e inedito per la Fondazione MAST.

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La mostra "Inventions", curata da Luce Lebart con la collaborazione di Urs Stahel, allestita nella Gallery/Foyer propone un'ampia selezione di fotografie prodotte tra le due Guerre mondiali che uniscono tecnologia e arte. Tutte le immagini provengono dall' Archive of Modern Conflict (Londra) e dagli Archives nationales di Francia.

I cinque i progetti affrontano temi di grande attualità: i danni ambientali causati dall'agricoltura intensiva, il ruolo della donna tra presente e passato nel campo dell’industria cinematografica e dell’informatica, il fascino della tecnologia

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CONFLITTI, FRATTURE E DESIDERIO DI INTEGRITÀ Urs Stahel, curatore della PhotoGallery e della collezione MAST

La nostra sete di integrità non si placa mai. Desiderio di un’infanzia immacolata, per esempio, di un matrimonio intatto, di una società sana, di un corpo integro, inalterato, di una natura inviolata e oggi anche di un pianeta incontaminato. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo proprio a ricordare l’origine di questo impulso, che tuttavia sembra essere una costante della nostra vita. Una caratteristica genetica o forse filogenetica dell’esistenza, che la filosofia sociale mette spesso in relazione con la nostra nascita, con il trauma della separazione vissuto in quel momento e con le successive esperienze dolorose che noi, come individui e come società, cerchiamo gradualmente di “coprire”, nascondere sotto una forte nostalgia di interezza, di integrità, di completezza. “Noi non corriamo, verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita”, osservava acutamente Emile M. Cioran nel suo libro L’inconveniente di essere nati. La storia dell’umanità ha visto dilatarsi, espandersi il trauma personale, il dolore individuale, attraverso vari stadi successivi, sino a sfociare in una grande ferita collettiva, generalizzata. Le intuizioni di Copernico e Galileo, grazie ai quali abbiamo capito che l’uomo non è al centro dell’universo, e poi la scoperta dell’inconscio ad opera della psicanalisi hanno spezzato la fiducia originaria nel potere dell’essere umano e nella forza e supremazia della sua soggettività. L’uomo, l’individuo, deve ormai riconoscere anche a se stesso di essere sia inconsciamente sia consapevolmente un prodotto di forze esterne, estranee e “oscure” (Arnd Pollmann). Come scriveva Georg Simmel agli albori del Novecento, le forze centrifughe della modernità – tra cui è lecito includere anche la separazione fra il luogo in cui si vive e quello in cui si produce, fra capitale e lavoro – coincidono a tal punto

“Ogni due anni, la Fondazione MAST, attraverso il MAST Photography Grant on Industry and Work- spiega il curatore della mostra, Urs Stahel - offre a giovani fotografi l’opportunità di confrontarsi con le problematiche legate al mondo dell’industria e della tecnica, con i sistemi del lavoro e del capitale, con le invenzioni, gli sviluppi e l’universo della produzione.

con la frammentazione, la frantumazione del soggetto, da trasformarsi in un’esperienza di disintegrazione dell’uomo specificamente moderna, un’esperienza che risveglia il bisogno umano di unità, di interezza, di integrità. Sostanzialmente le cose non sono cambiate granché nemmeno in epoca postmoderna e nel mondo attuale. Mentre l’arte idealistica soddisfa la necessità di fantasia, la speranza di una nuova interezza, da trenta, quarant’anni l’arte realista contemporanea è impegnata a indicare, mettere in evidenza e, per certi versi, analizzare i motori che alimentano le trasformazioni e le fratture psicologiche e sociali che molti esseri umani sono costretti a subire, non da ultimo provando spesso un desiderio recondito di integrità e purezza. Da questo punto di vista, la fotografia contemporanea non fa eccezione. I giovani artisti mettono il dito nelle piaghe del nostro agire sociale ed economico e lo fanno spesso con sarcasmo, con una profonda, caustica acutezza, mettendo a nudo e consentendoci di vedere – perfino lì dove, con il nostro sguardo retrospettivo e romantico, immaginavamo che esistesse ancora l’unità – tutte le contraddizioni, le ingiustizie nascoste, i fatali paraocchi che ci portano a idealizzare il passato e il presente. Ogni due anni, la Fondazione MAST, attraverso il MAST Photography Grant on Industry and Work, offre a cinque giovani fotografi l’opportunità di confrontarsi con le problematiche legate al mondo dell’industria e della tecnica, con i sistemi del lavoro e del capitale, con le invenzioni, gli sviluppi e l’universo della produzione. E spesso il loro sguardo innovativo e inedito ci costringe a scontrarci con incongruenze, fratture, fenomeni e forse perfino abissi che finora avevamo trascurato o cercato di non vedere.

E spesso il loro sguardo innovativo e inedito ci costringe a scontrarci con incongruenze, fratture, fenomeni e forse perfino abissi che finora avevamo trascurato o cercato di non vedere”. I progetti selezionati per questa sesta edizione sono diversi tra loro, ma legati dall’attualità dei temi affrontati e dalla molteplicità dei mezzi di rappresentazione scelti. Giroinfoto Magazine nr. 60


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I FINALISTI

Alinka Echeverría

(Vincitrice della sesta edizione) alla soglia della quarta rivoluzione industriale, indaga alcune immagini di femminilità guardando al ruolo svolto dalle donne agli albori dell’industria del cinema e della programmazione informatica;

Chloe Dewe Mathews

mostra i danni ambientali delle coltivazioni intensive nei polytunnel, le strutture in plastica che ricoprono quattrocento chilometri quadrati di superficie terrestre per consentire di produrre ortaggi tutto l’anno;

Maxime Guyon

usa il mezzo fotografico al massimo delle sue potenzialità per restituirci gli aspetti tecnologici e le alte prestazioni degli aerei;

Massimiliano Sticca Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

Aapo Huhta

esplora il mondo dell’Intelligenza Artificiale e mostra come “la macchina“ legga in modo eticamente sospetto le immagini, sollevando dubbi sulle modalità di implementazione dei software;

Pablo López Luz

fotografa le vetrine dei negozi di abbigliamento in America Latina, che resistono all’omologazione imposta dall’industria globale della moda e porta la riflessione sul paesaggio urbano quale luogo privilegiato per cogliere le trasformazioni sociali e culturali.


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Alinka Echeverría

(Città del Messico, 1981) Con la sua installazione in tre parti Apparent Femininity, Alinka Echeverría volge lo sguardo indietro, al ruolo delle donne nella storia del cinema e della programmazione informatica per guardare avanti alla Quarta rivoluzione industriale. Grace, intitolato alla pioniera della scienza Grace Hopper, è un’animazione tratta da una fotografia di Berenice Abbott (dalla Collezione Mast) che rappresenta un’anonima programmatrice al lavoro. L’animazione, presentata su una tenda LED, è accompagnata da una colonna sonora composta da Daphne Oram, inventrice del graphical sound. Hélène è una installazione di negativi su lastre di vetro; le immagini solarizzate si concentrano sulle mani delle montatrici al lavoro.

L’atto di isolare le immagini, solarizzarle e stamparle sul vetro ha la funzione di richiamare l’atto creativo del montaggio e fissare il nostro sguardo su questa realtà poco nota. Con Ada, la fotografa rende omaggio a Ada Lovelace, la matematica considerata da molti la prima programmatrice della storia. Attraverso un mosaico di collage digitali, Echeverría riattiva il patrimonio fotografico d’archivio ed esplora la biografia di queste pioniere mettendole a confronto con donne rimaste anonime e con immagini archetipiche di femminilità.

Massimiliano Sticca Photography

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BIOGRAFIA DELLA VINCITRICE

Alinka Echeverría

Alinka Echeverría (1981) è un’artista e un’antropologa visiva di origine messicano-britannica che lavora utilizzando media diversi. Ha conseguito un Master in Antropologia sociale (Università di Edimburgo, 2004, con un Erasmus all’Università di Bologna nel 2003) e una laurea in Fotografia (International Center of Photography, New York, 2008). Il suo lavoro è stato presentato in molti paesi e le sono state dedicate personali presso The Montreal Museum of Fine Arts, Preus Museum (Norway’s National Museum of Photography), Johannesburg Art Gallery, Les Rencontres de la Photographie di Arles e The California Museum of Photography.

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Di recente è stata tra i finalisti del Prix Elysée, è stata selezionata per il Talent Award del FOAM Museum, le è stata assegnata una BMW Art & Culture Residency dal museo Nicéphore Niépce, è stata votata International Photographer of the Year dai Lucie Awards e ha vinto il HSBC Prize for Photography. Il suo lavoro è presente in numerose collezioni di istituzioni tra cui LACMA, Montreal Museum of Fine Arts, Musée Nicéphore Niépce, The Museum of Fine Arts in Houston, FOAM Museum, Musée de l’Elysée e Fotostiftung Schweiz.


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La mostra Inventions, curata da Luce Lebart in collaborazione con Urs Stahel, apre al MAST l'8 ottobre 2020 e presenta le fotografie delle invenzioni più brillanti e geniali provenienti dalle collezioni dell'Archive of Modern Conflict di Londra e dagli Archives nationales francesi. Queste numerose invenzioni vengono realizzate e fotografate in Francia tra le due Guerre mondiali presso

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l'Office des inventions su iniziativa di Jules-Louis Breton, a capo del Sous-secrétariat d’État aux inventions. Breton, inventore a sua volta, voleva promuovere la ricerca scientifica e industriale, accelerando i processi e garantendo la rapida trasformazione di un’idea in un oggetto o in una macchina di pronto utilizzo. In tal senso, egli favoriva attivamente la collaborazione tra industriali, scienziati e inventori.


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Di corredo ai progetti e alle descrizioni dettagliate delle invenzioni, le immagini ne facilitavano la valutazione e contribuivano a conservarne la traccia. Rappresentavano così una valida alternativa ai prototipi, facili da archiviare e prontamente disponibili per la presentazione di fronte alle commissioni. La mostra rappresenta la molteplicità delle invenzioni presenti nell'archivio di Breton, che vanno dagli oggetti usati per sopravvivere in tempi di crisi ai dispositivi per godere di una migliore qualità della vita in periodo di pace.

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Come spiega la curatrice e storica della fotografia Luce Lebart “si tratta di un archivio visivo che colpisce per la sua fantasia, gli accenti umoristici e la libertà nello svelare i codici dell’oggettività fotografica. L’elemento comico è tanto più inatteso in quanto si inserisce in un contesto industriale e scientifico. Come al cinema, queste scene fotografiche ci raccontano delle storie”. Luce Lebart è una storica della fotografia, curatrice e ricercatrice presso l’Archive of Modern Conflict (Londra). (http://www.lucelebart.org/)

Pur essendo prodotte senza intenzioni artistiche, le immagini hanno innegabili qualità estetiche e possiedono quello che si può definire uno stile fotografico, paragonabile a quello di un autore, benché non siano mai firmate.

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INVENTIONS-Lebart Cingolato del signor Caufer 1917-1918

INVENTIONS-Lebart Fiera economia domestica, "Marie Mécanique" di F. Bernard, 1936

INVENTIONS-Lebart Aspirapolvere rivista Lecture pour tous 1921

INVENTIONS-Lebart Lo studio come teatro di posa, 1917-1918 Giroinfoto Magazine nr. 60


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INVENTIONS-Lebart Torretta osservazione uccelli e velivoli dei Breton, 1930

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MAU BORGO CAMPIDOGLIO

A cura di Andrea Barsotti e Barbara Tonin

La band di Giroinfoto questa volta si riunisce sul sagrato della Chiesa San Alfonso, all’incrocio tra Corso Tassoni e via Cibrario a Torino. Ci ritroviamo insieme ad un gruppo di appassionati d’arte o semplici curiosi, pronti a visitare il MAU, Museo d’Arte Urbana al Borgo Campidoglio, primo museo di arte contemporanea all’aperto in un centro civico in Italia. Si tratta di più di 170 opere realizzate sui muri di case, finestre cieche, piazze e sulle panchine del Borgo torinese. Siamo accolti e guidati dal Direttore Artistico Edoardo Di Mauro, in passato Condirettore Artistico della Galleria d'Arte Moderna e dei Musei Civici torinesi ed ora direttore dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.

Andrea Barsotti Barbara Tonin Cinzia Carchedi Giancarlo Nitti Giulia Migliore Gianluca Fazio Valerio Astorino Giroinfoto Magazine nr. 60


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Cinzia Carchedi Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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MAU BORGO CAMPIDOGLIO

Giulia Migliore Photography

Lo sguardo si alza subito alla prima grande opera murale realizzata da Gianluca Scarano nel 2000 sulla facciata laterale del palazzo in via Netro 4. Un grande sole giallo indicato dall’emozione stupita di un ragazzino con un pallone tra i piedi. Ma non è ancora il momento di addentrarci tra le vie e i giardini del quartiere e percorrere questa particolare galleria d’arte. Prima ascoltiamo il Direttore che ci racconta della storia del Borgo e di come è nata l’idea del MAU. In origine il Borgo Vecchio Campidoglio, edificato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e inizialmente dedicato alla coltivazione agricola e al pascolo, si trasforma in borgo operaio e di botteghe artigiane, alcune ancora in attività. Le vie in acciottolato, ora isole pedonali, le case basse ed in stile Liberty, le numerose osterie e piole e la multietnicità degli abitanti fanno sì che venga accostato al Montmartre di Parigi.

Ma solo nel 1995 Edoardo Di Mauro, congiuntamente al Comitato di Riqualificazione Urbana di Borgo Campidoglio che coordinava i progetti di rivalutazione del quartiere, viene invitato a riflettere sulla possibilità di inserire l'arte contemporanea tra le varie iniziative di rinnovamento. All’inizio del 2000 il MAU si trova ancora in una fase “sperimentale”, con difficoltà di relazione con gli enti pubblici e ricerca di fondi e sovvenzioni, ma già con un complesso di circa 30 opere, da incrementare per quanto concerne la quantità, mantenendo l’alto grado di qualità ormai acquisito. La ricerca di una connessione armonica tra il MAU e le attività commerciali e artigianali del quartiere porta, quindi, ad implementare la galleria con trentacinque opere che si trovano tra i negozi di Via Fabrizi e corso Svizzera. Tra le più interessanti citiamo la Giraffa Wanda di Gianni Gianasso e Freedom di Monica Garone.

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Valerio Astorino Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Fondamentale e preziosa è stata la decisione di proprietari e residenti di rendere disponibili le facciate delle loro case ad opere murali permanenti. Questa dimensione sociale e culturale si è così radicata, che da tempo sono gli stessi abitanti del Borgo a contattare il MAU per concordare la realizzazione di nuove opere trasformando i residenti in promotori e quindi destinatari e beneficiari del progetto iniziale. Rappresentativa è l’opera di Irene Ruiu Coltiva il fiore che sarai (2016), una bambina con le gambe lunghissime, ideata in collaborazione con i ragazzi della Scuola Manzoni di corso Svizzera. Le opere in tal senso acquisiscono coerenza e connessione, combinandosi con i temi del quartiere, celebrando l’attività dell’artigiano (come il castoro stilizzato di Opiemme che li rappresenta) o la memoria di un amico scomparso. Su questo tema troviamo un’opera dell’artigiana e artista Monica Garone, dedicata a Federica Fassola, con cui condivideva lo studio. Federica Fassola viene ritratta con la solarità che la contraddistingueva, nella casa dove viveva e dove tuttora vivono i suoi congiunti, per non dimenticare e per sentirla spiritualmente vicina. A Gianni e Giusy Garino, invece, sono dedicati gli stencil di Chekos su finestra cieca del 2012. Opere coniugate nel linguaggio della street art, graffissimo e arte urbana in un messaggio di facile comprensione e di immediata comunicazione. L’opera simbolo del Mau è Canto Metropolitano di Mercurio, realizzata nel 1995 in via Musinè 25 lato parete su Corso Svizzera. Raffigura una parte di un volto femminile e la sua mano che, emergendo da un fitto fogliame, chiede di mantenere il silenzio. L’opera è apprezzata per il suo ironico ermetismo e la forte valenza simbolica. Mancato prematuramente nel 2002, Mercurio è stato uno dei più significativi esponenti della generazione dell’arte italiana tra gli anni ’80 e ’90. Con il suo stile fa eco alla post-modernità ed è pregno della sua esperienza e di citazioni storiche, filosofiche e legate all’attualità. Alcune sue opere sono esposte presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino, la Fondazione Sandretto e il Castello di Rivara.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Giulia Migliore Photography

Proseguendo in questo percorso virtuoso, nel 2010, in Piazza Moncenisio, nascono le “Panchine d’Autore” di Vito Navolio, dove l’arredo urbano non perde la sua funzione originale, ma contribuisce al flusso della ricerca del bello, della diffusione della storia e della cultura artistica dei maggiori maestri dell’arte del Novecento. Per mezzo delle panchine d’autore, inoltre, vengono trattati temi sociali, quali la memoria, la costituzione, la resistenza e la violenza sulle donne. Non mancano al museo anche le sculture parietali. Realizzati in ferro nichelato e verniciato a forno, l’artista Matteo Ceccarelli colloca i suoi Coleotteri (2005) sulle finestre cieche al civico 14 di via Fiano. Sulle orme del padre, Ceccarelli diventa assemblatore di materiali. Le sue opere sono una fusione di materie prime differenti, quali legno, marmo ed ogni genere di metallo, in uno stile che richiama alla memoria l’arte astratta e minimale degli anni ’60 e ’70. Più “attuali” invece le opere in realtà aumentata di Angelo Barile. Scaricando un’app e puntandola verso Apnea, si possono vedere i pesci che nuotano attorno alla bambina. Le opere di Barile sono dedicate all’infanzia. Bambini maliziosi che sfidano gli adulti all’interno del loro mondo, un territorio fatto di fumetti, pubblicità e videogiochi. Cinzia Carchedi Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Valerio Astorino Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Gianluca Fazio Photography Di recentissima inaugurazione sono, invece, le opere di Mr. Fijodor e Spider, due t ra i più importanti esponenti della Street Art torinese ed italiana. Dipinte sulle pareti del Dogana, con toni vivaci e briosi che evocano il colore della birra, le opere rendono omaggio ai monumenti e al ritmo e al dinamismo della vita di Borgo Campidoglio. I temi affrontati e gli stili proposti nelle opere del Mau sono i più disparati: dalla violenza al ludico, racconti di viaggi o di fughe dall’oppressione razziale, la commemorazione, l’emergenza ambientale, l’arte religiosa, la Storia e l’arte dei Grandi Maestri, opere che integrano l’architettura all’arte o semplicemente voli pindarici della fantasia.

Valerio Astorino Photography

L’arte, seppur simbolica e surreale, può così espletare la sua funzione didattica imprescindibile. Non solo quindi una riqualificazione e ristrutturazione urbanistica, ma anche e soprattutto un progetto artistico, sociale e culturale unico nel suo genere.

Andrea Barsotti Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Andrea Barsotti Photography

Dal 2014 questo modello è stato esportato anche in altre zone della città e della regione Piemonte, con la realizzazione di più di 90 opere nei quartieri Falchera, Vallette, Mirafiori Nord e Sud, Vanchiglietta, Borgo Vittoria, Centro, Barca, Bertolla e nelle città di Sciolze, Nichelino e Vercelli. Inserito nel circuito “Carta Musei”, sul sito del MAU www.museoarteurbana.it è possibile prenotare visite con guida gratuite, visite con artista (una volta all’anno) e con percorso ridotto per gli appassionati con problemi motori. Oggi il MAU è una realtà permanente, in continua evoluzione (le opere vengono costantemente manutenute o rinnovate in accordo con l’artista), visitabile tutto l’anno, sette giorni su sette e 24 ore al giorno. Con gli occhiali da sole, con l’ombrello o con una torcia elettrica, a piedi, in bicicletta o con passeggino al seguito.

Gianluca Fazio Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Gianluca Fazio Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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STARSBOX

A cura di Claudia Lo Stimolo In una società dove la vita scorre ad un ritmo frenetico e la quotidianità lavorativa tende sempre più a reprimere il nostro “io selvaggio”, si ha la necessità di evadere verso posti “nuovi”, riscoprendo il contatto con la natura per vivere a pieni polmoni tutto ciò che ci circonda.

Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Negli ultimi anni sempre più viaggiatori hanno scoperto il piacere di soggiornare nei glamping, un modo per vivere l'outdoor senza rinunciare a tutte le comodità e lo charme di una struttura ricettiva d'eccellenza, non solo in Europa e nel mondo ma anche a due passi da casa, in Piemonte. Per coloro che sognano di trascorrere una romantica notte d’estate, in spiaggia o in montagna, distesi ad ammirare le stelle, questa esperienza aggiunge un tocco di straordinaria unicità ed originalità e consente di realizzare appieno il desiderio, in una versione innovativa “comfly”.

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Claudia Lo Stimolo Photography

Ed è da questa idea che lo studio Officina82 e lo Studio Arredi hanno progettato StarsBox, un rifugio dove trovare riparo durante il viaggio: unione tra una tenda e una capanna che al tempo stesso si apre al cielo offrendo uno scenario mozzafiato tra un mare di stelle e albe rosee. Nell’estate 2018 a 1550 metri di altitudine nel cuore dell’Alta Valle Tanaro, situata in provincia di Cuneo, nascono le prime StarsBox al Rifugio Mongioie .

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Nascoste nel grembo di montagne che si affacciano sullo scenario della Liguria e del suo mare, Pian Rosso di Viozene ti viene incontro d’improvviso, con il profumo di pini e di arbusti. Alle sue spalle svettano la grande parete del Mongioie con i suoi 2630 metri, la cima delle Saline di poco inferiore (2612 metri) e nel mezzo si estendono i grandi pascoli verdeggianti. Il Rifugio, inaugurato nel 1989 dal Cai di Albenga, è un ideale punto di partenza per le escursioni in alta quota, oltre ad essere un ottimo appoggio per gli appassionati di arrampicata e speleologia, offrendo un buon ristoro e un riparo dove trascorrere la notte, coccolando gli ospiti nell’abbraccio della volta stellata.

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Una fiaba di una notte per le coppie avventurose e per le famiglie desiderose di scoprire le novità che il territorio offre. Un’avventura semplice e genuina che risulterà indimenticabile per i bambini. Il successo riscontrato ha portato queste accoglienti istallazioni di design a diventare un Best Projects Archilovers, spingendo Officina82 a crearne una nuova versione nel 2019, completamente rivisitata dal punto di vista costruttivo, in modo da poter essere smontata e rimontata con più facilità.

Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Come raccontano i suoi creatori: «StarsBOX nasce da una riflessione sulla fruizione della montagna nel nostro tempo, osservando i giacigli dei pastori transumanti delle Alpi liguri: bivacchi temporanei che una volta terminato il loro scopo venivano smontati e non lasciavano traccia dietro di sé». Nella fase di creazione e studio i progettisti hanno desiderato unire insieme aspetti derivanti dai loro tre principali ambiti di lavoro: progettazione architettonica, paesaggistica e scenografia, creando un design iconico e leggero in grado di staccarsi dal suolo per inserirsi delicatamente nel paesaggio senza alterarlo.

Look up!

Guardare in alto, è l’auspicio augurato dagli ideatori di questo progetto, un incoraggiamento ad osservare il mondo che ci circonda con occhi diversi, a sentirsi parte integrante della natura, per imparare a viverla in modo consapevole e genuino. <<… e quindi uscimmo a riveder le stelle >> Il poeta Dante con questo verso voleva indicare un cammino di luce e speranza come pura felicità dello sguardo, allo stesso modo le StarsBox consentono a chi arriva dalla città di intraprendere questo percorso all’insegna della libertà e della natura.

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BORGO PARRINI

BORGO PARRINI

LA PICCOLA BARCELLONA Per chi, come me, ama viaggiare, restare forzatamente fermi, causa Covid 19, risulta molto difficile. Ma vivere in una terra ricca e piena di sorprese di ogni genere come la Sicilia, permette di imbattersi in nuove ed interessanti esperienze anche a pochi passi da casa propria. E’ questo il caso di “Borgo Parrini”, una frazione del Comune di Partinico a circa 30 km da Palermo, facilmente raggiungibile percorrendo l’autostrada A29 “Palermo - Mazara del Vallo" ed uscendo allo svincolo per “Partinico”.

Borgo Parrini

Palermo

A cura di Rita Russo Giroinfoto Magazine nr. 60


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Rita Russo Photography

Appena immessi sulla statale in direzione del centro di quest’ultimo occorre immediatamente svoltare a sinistra e percorrere la strada appena imboccata per circa tre chilometri. Raggiunto il centro di questo piccolo borgo ci si imbatte in un luogo unico ed affascinante nel suo genere, uno scorcio della città di Barcellona nel cuore della Sicilia nord occidentale. Infatti il centro di questa suggestiva frazione di pochi abitanti, fuori dalle tradizionali rotte turistiche, è costituita da un susseguirsi di case dalle facciate colorate, panchine in pietra dalle linee morbide e arrotondate e mosaici colorati. Sono scorci particolari ispirati al modernismo Catalano di Antoni Gaudì: un vero trionfo di decori e colori. Il borgo, dove oggi vivono poco meno di venti persone, ubicato nella contrada già denominata “Parrini” nelle mappe del catasto borbonico, vanta una storia antica. Le sue origini, infatti, risalgono al 1600, quando i padri del Noviziato dei Gesuiti di Palermo (da qui il nome Parrini che in dialetto siciliano significa preti), decisero di acquistare dei terreni agricoli in alcuni feudi delle zone a nord-est del territorio di Partinico. Giroinfoto Magazine nr. 60


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Ria Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

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Queste proprietà, coltivate prevalentemente a vigneti e ad agrumeti, furono gradualmente sfruttate dalla crescente Compagnia di Gesù, fino a raggiungere una certa rilevanza strategica per le opere dell’ordine. Agli inizi del ‘700, come era uso a quei tempi nelle campagne, i Gesuiti, per controllare il lavoro dei coloni e dei contadini, fecero costruire in quei terreni alcune strutture, tra cui un mulino, svariati magazzini, torrette di avvistamento per i campieri, abitazioni per i lavoratori ed una chiesetta, che fu intitolata a Maria SS. del Rosario.

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Dopo la soppressione dell’Ordine dei Gesuiti, nel 1767, la proprietà del borgo passò in mano al principe francese Henri d’Orleans, duca d’Aumale, che ne volle sfruttare i fertili terreni per la produzione del moscatello dello zucco, un vino molto apprezzato nell’Europa del XIX secolo. Il nobile francese istituì una florida azienda agricola, nella quale lavoravano circa 300 operai, che trovavano alloggio proprio negli edifici del Borgo Parrini.

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Le uve coltivate qui erano poi portate a Terrasini (una ridente cittadina turistica sul mare a pochi chilometri dal Borgo), dove veniva effettivamente prodotto il vino pregiato, che il principe esportava soprattutto in Francia e Germania. A partire dal secondo dopoguerra, come avvenne in migliaia di altre frazioni italiane, la popolazione iniziò ad abbandonare il posto, per trasferirsi nelle grandi città. Di conseguenza molti edifici rimasero disabitati per decenni. Nel 1959 la vecchia cappella dei parrini era ormai inagibile e venne costruita l’attuale Chiesa, che conserva ancora un dipinto ad olio raffigurante

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la Madonna e risalente al ‘600, probabilmente proveniente dalla vecchia chiesetta. Negli ultimi anni, ed in particolare dagli anni 90 ad oggi, grazie all’intuizione di un imprenditore amante della cultura, Giuseppe Gaglio, di cui si legge il nome su alcune facciate degli edifici e dei pochi residenti, il borgo ha conosciuto una nuova vita. Infatti alcune delle vecchie case furono ristrutturate con uno stile dalle forme morbide e dai colori vivaci che ricordano marcatamente le opere d’arte dell’architetto Catalano Antoni Gaudì, alle quali si affiancano pavimentazioni e muretti ricostruiti secondo il nuovo stile, che fanno assomigliare questa frazione ad una piccola Barcellona tutta Palermitana.


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In particolare, due di questi edifici sono fruibili al pubblico. Nel primo, il cui pian terreno è adibito ad un piccolo negozio, è possibile visitare i due piani da cui esso è costituito e raggiungere la terrazza dalla quale si scorgono, oltre alle campagne circostanti, anche i due comuni più vicini alla borgata: Montelepre e Partinico. Il secondo edificio, invece, ospita il caffè letterario, meglio definito come “officina culturale”, nel quale, oltre ad un angolo bar, si trovano anche una piccola biblioteca ed una sala conferenze.

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Mariangela Boni Photography

L’uso di frammenti ceramici di dimensioni irregolari, che sovente incorniciano i portoni o gli spigoli degli edifici e i comignoli dalle forme surreali sono un chiaro tributo al grande maestro Gaudí, insieme alle numerose scritte sui muri dai colori accesi e a lui dedicate; mentre un grande murale, realizzato dall’artista partinicese Peppe Vaccaro, ricorda la grande artista messicana Frida Kahlo e si intitola “Frida alla luna” . Il borgo, oltre ad essere ricco di storia, è comunque conosciuto nel circondario anche per la presenza di un antico forno, che produce un pane artigianale che si mantiene a lungo fragrante, e di tre pizzerie, che sono diventate punto di riferimento eno-gastronomico soprattutto nei week end.

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In particolare, due sono le specialità offerte da queste pizzerie: la pizza al limone e “U vota e sbota “ (volta e rivolta). Quest’ultima è una focaccia di grano duro passata al forno, rigorosamente a legna, che viene girata e rigirata velocemente (da qui l’origine del nome) e condita con ingredienti semplici e genuini. Questo luogo, scoperto da me per puro caso, può dunque essere considerato una meta da non perdere per tutti coloro che amano andare alla scoperta di luoghi poco conosciuti ed immergersi in atmosfere quasi surreali. È proprio vero ... la Sicilia non smette mai di stupire!


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WORKING GROUP 2020

BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project

PIEMONT

ITALIA

E

LIGURIA

A

LAZIO

ORINO ALL AMERICAN

REPORT

Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 60

L OMBARDI

STORIES

GIROINFOTO MAGAZINE

SICILIA


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COME FUNZIONA

Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.

Impara Condividi Divertiti Pubblica

CHI PUÒ PARTECIPARE

Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Compila il form di iscrizione sul nostro sito ufficiale dal menu area relazioni, "iscrizione a Band of Giroinfoto". L’organizzazione sarà felice di accoglierti.

PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Whatsapp, dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. Gli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremo le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.

Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse tecniche di ripresa. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubblicati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork legati al brand Giroinfoto magazine.

SEDI OPERATIVE La sede di coordinamento dei working group di Band of Giroinfoto si trova a Torino con sezioni operative a Alessandria, Genova, Milano, Roma e Palermo. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi. Giroinfoto Magazine nr. 60


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DAMANHUR I TEMPLI IPOGEI

A cura di Barbara Lamboley

ALLA SCOPERTA DEI TEMPLI IPOGEI

Adriana Oberto Barbara Lamboley Cinzia Carchedi Giancarlo Nitti Giuliano Guerrisi Maria Grazia Castiglione Massimo Tabasso

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Oggi vi portiamo a Vidracco, piccolo comune della Valchiusella, dove si trova la comunità spirituale Damanhur. Damanhur è nata negli anni ’70 quando il suo ideatore, Oberto Airaudi, espresse la necessità di creare un ambiente comune per avere più tempo per sperimentare e dare un senso pratico agli insegnamenti sull’esoterismo e in generale, sulla spiritualità e il paranormale, elementi centrali della sua vita. Dopo anni di ricerca per individuare il luogo ideale per costruire tale comunità, Oberto Airaudi, insieme ad alcuni amici stretti, decise di insediare Damanhur (la città della luce) in Valchiusella. La scelta del luogo non è stata per niente casuale: fu l’esito di un’attenta analisi sui campi energetici della terra.


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Il Canavese risultava, infatti, avere un forte scorrimento energetico propizio alle attività spirituali. Nel 1975, venne comprato il primo terreno a Baldissero Canavese mentre quello di Vidracco è stato comprato nel 1978. Da lì è iniziata la non banale storia della comunità. Le persone che aderiscono alla filosofia Damanhur sono circa 500 nel Canavese mentre altre 500 sono sparse per il mondo. Si parla di “filosofia” in quanto Damanhur non si può definire religione; infatti, i concetti principali della comunità spirituale sono racchiusi sotto i temi chiave dell’integrazione, della trasformazione, del rispetto della biodiversità e della collaborazione tra persone. Damanhur si definisce “eco comunità spirituale” i cui rapporti sono basati sulla solidarietà, sul senso di responsabilità, sul gioco, sull’umorismo e sulla creatività. Dagli anni ’80, Oberto Airaudi, detto “Falco Tarassaco” (ogni elemento deve identificarsi all’interno della comunità con un nome di animale e un nome di

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pianta), esprime la necessità di creare qualcosa di più grande per permettere agli abitanti del luogo di raccogliersi e di meditare in un luogo degno di questa funzione. Così decide di progettare e costruire quelli che Rita Russo Photography verranno chiamati “I Templi dell’Umanità”, ossia vere e proprie cattedrali sotterranee costruite sotto la montagna. La costruzione è iniziata negli anni ’80 in modo non del tutto consueto, in quanto, sono stati i Damanhuriani stessi ad intraprendere questo progetto edile senza precedenti scavando a mano la montagna di Vidracco. La costruzione è durata circa 20 anni, in pseudo silenzio. La sua scoperta da parte delle autorità, nel 1992, ha portato alla luce un lavoro eseguito a regola d’arte; team di esperti architetti, geometri e tecnici non poterono che constatare la stabilità della struttura e decisero quindi di regolarizzare la costruzione come “tempio ipogeo” a tutti gli effetti.

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Le stanze tuttora costruite sono 7: ognuna tratta un “tema” diverso, seguendo una logica ben definita. La parte più bassa è a 72 metri di profondità e la struttura si sviluppa su 5 piani. Il riciclo dell’aria è costante e gli ambienti

vengono riscaldati per limitare l’escursione termica con l’esterno. Una delle tante particolarità di queste sale è che sono spesso collegate tra di loro tramite porte o passaggi segreti. Ma vediamole una ad una più nel dettaglio.

Giancarlo Nitti Photography

È costituita da 2 volumi: la zona inferiore rappresenta la parte materiale della terra, mentre nella zona superiore quella spirituale. Sulle pareti della parte inferiore sono rappresentati paesaggi, personaggi e animali in via di estinzione, con l’intento di preservarne il ricordo. Tutte le persone dipinte sono Damanhuriani. Le stanze di forma circolare, legandosi, rappresentano il segno dell’infinito. Il pavimento è fatto di mosaici e rappresenta il trascorrere del tempo: si parte dalla rappresentazione di persone di giovane età, per poi arrivare alla rappresentazione dell’età adulta.

Cinzia Carchedi Photography

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Nei mosaici sono ritratte anche le diverse fasi di attività ludica della vita, con lo scopo di sottolineare metaforicamente l’evoluzione mentale di ognuno di noi attraverso il gioco. Al centro si trova una colonna con un uomo e una donna con il volto dorato, che sostengono il cielo, caratterizzato da otto colori che esprimono le otto leggi dell’universo: rappresentano il principio dell’“essere ponte” tra la terra e l’universo.


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Giuliano Guerrisi Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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La cupola è ornata dal tarassaco, pianta simbolo di Damanhur, alla quale si aggiungono diverse costellazioni che vengono legate a miti del cielo dell’umanità. Il cielo stellato rappresenta un cielo di 2000 anni fa e vuole invitare a recuperare le conoscenze che fino a quel momento erano state perse. Sulle pareti della parte superiore della Sala della Terra è raffigurata l’origine dell’uomo e la sua evoluzione. Si parte dalla figura androgina dell’uomo o l’entrata dell’uomo nella materia, per andare verso la figura di un uomo in movimento e di una donna incinta, massima rappresentazione della femminilità nella materia. Accanto ad essi, viene rappresentato il creatore (o Demiurgo per la filosofia Damanhur), al quale vengono affiancate le galassie. Dalle mani del creatore cadono delle pietre preziose che vanno ad identificare l’unicità di ognuno di noi. In lontananza, inoltre, viene si trova una figura grigia, la metafora dell’anti-evoluzione e della non crescita, che viene fermata dall’uomo in movimento. Il tempo viene evocato in modo costante tramite simboli più o meno espliciti; centrale è il concetto di non potere mai sfuggire al tempo. In un’altra zona della sala è rappresentata una battaglia combattuta tra uomini grigi (negativi) e uomini “vitali” (positivi): essa è simbolo della battaglia contro i nostri limiti, ossia la negatività che ci impedisce di crescere. Infine, viene illustrata la fine della vita: una donna inginocchiata che porta con sé il calice della conoscenza e spera di essere reincarnata con la memoria nella prossima vita.

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Silvia Petralia Photography


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Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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TREK IN SCAMPIA DAMANHUR I TEMPLI IPOGEI

Massimo Tabasso Photography

Una sala dedicata al tempo e alla trasformazione degli uomini. Mostra tutte le fasi della vita dell’uomo attraverso finestre illuminate: ognuna delle finestre rappresenta una fascia di età, che viene collegata ad un metallo rappresentativo del periodo di vita vissuto. La giovane età è collegata al piombo, per poi proseguire con lo zolfo, il rame, il mercurio, lo zinco, l’argento e l’oro. Le figure sulle pareti rappresentano il desiderio di crescita, che si può soddisfare solo superando i limiti umani evocati sul pavimento. I mosaici sul pavimento rappresentano i difetti dell’essere umano, come il pessimismo, la falsità, l’egoismo, l’orgoglio e la passività, che possono essere superati grazie alla volontà di ognuno di noi. Sul soffitto in ceramica vengono quindi rappresentati danzatrici e cavalieri atti a difendere un fuoco, metafora della massima elevazione spirituale degli individui, raggiungibile superando i propri limiti. I colori dei portali indicano i quattro elementi: terra, fuoco, aria e acqua. Giroinfoto Magazine nr. 60

Adriana Oberto Photography


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Maria Grazia Castiglione Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Le pareti di questa sala sono ricoperte d’oro. Le sfere sono posizionate in nicchie, tranne l’ultima che si trova sull’altare principale in fondo alla stanza. Le 9 sfere contengono acque alchemiche e si dice siano collegate alle linee sincroniche del pianeta. Attraverso le sfere è possibile scambiare messaggi con il “sistema nervoso” del nostro pianeta. Sopra ogni nicchia è presente un calice; ognuno di questi calici è stato raccolto durante i diversi viaggi dei Damanhuriani in Europa e ed è simbolo della sacra forza del Graal.

Maria Grazia Castiglione Photography

Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 60

Giuliano Guerrisi Photography


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Giancarlo Silvia Petralia Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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DAMANHUR I TEMPLI IPOGEI

Maria Grazia Castiglione Photography

Dedicata al cielo, all'aria, alla luce, all'energia solare, alla forza e alla vita, possiede quattro altari dedicati a fuoco, acqua, aria e terra. È sormontata da una grande cupola di vetro Tiffany colorato, circondata da una balconata di legno bianco. Sui bordi della cupola, si trova un calendario perpetuo che rappresenta tutti i mesi e i giorni dell’anno. Le pareti, di cui tre oblique e una verticale, sono totalmente ricoperte di specchi. Questa sala ospita concerti, spettacoli, rappresentazioni teatrali e cerimonie. È infatti la sala più grande del tempio.

Silvia Petralia Photography Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Adriana Giancarlo Oberto Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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DAMANHUR I TEMPLI IPOGEI

Metafora della vita: si dice infatti che per raggiungere la conoscenza, dobbiamo attraversare un labirinto interiore. La stanza è fatta di 3 corridoi contenenti 35 piccole finestre illuminate, in ognuna delle quali è raffigurato il volto di una divinità, a dimostrazione del fatto che tutte le divinità possono convivere insieme nello stesso luogo in modo pacifico. L’invito è di incitare i popoli a prenderne esempio, nella speranza tutti possano un giorno convivere in pace ed armonia. Il corridoio centrale è la rappresentazione della nostra civiltà, dalle origini ai nostri giorni: tutti gli elementi significativi sono stati dipinti sulle pareti, dalle più grandi scoperte ai più grandi personaggi di questo mondo. Parte della sala è ancora in costruzione e non è ancora accessibile: sappiamo tuttavia che le pareti sono ricoperte da rappresentazioni di tutte le divinità e dei miti della storia dell’umanità. Il pavimento è costituito da un mosaico che ha richiesto 10 anni di lavoro. All’interno del Labirinto è prevista una meditazione in movimento.

Maria Grazia Castiglione Photography

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 60


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Purtroppo, il tempo a disposizione durante la nostra visita non ci ha permesso di visitare le altre due sale mancanti. Si tratta della Sala dell’Acqua, dedicata al principio femminile e alle forze divine femminili, e del Tempio Azzurro, la sala più antica dei Templi, costruita solo con martelli e scalpelli, dedicata alla loro nascita e arricchita da un mosaico che si trova al centro del pavimento e che rappresenta la carta dei Tarocchi “La Stella”. Nonostante la scomparsa di Oberto Airaudi, detto Falco, avvenuta nel 2013, l’intenzione della comunità è di proseguire con la costruzione di nuove sale nei prossimi anni. Inoltre, nell’attesa di trovare i fondi necessari, gli artigiani ed artisti di Damanhur continuano in modo costante ad arricchire le decorazioni e gli ornamenti dei templi esistenti. Ringraziamo i nostri accompagnatori Coboldo, Lucertola e Labrador che ci hanno permesso di entrare in un luogo davvero suggestivo e che ci hanno illustrato in modo esaustivo la storia dei templi ed il loro significato.

Adriana Oberto Photography

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Pietravairano Autore:Marco Supino Pietravairano (CE)

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