Giroinfoto magazine 62

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N. 62 - 2020 | DICEMBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.62 - DICEMBRE 2020

www.giroinfoto.com

Liuteria Piemontese L'ACCADEMIA

BAND OF GIROINFOTO

INCISIONI RUPESTRI GROSIO Band of Giroinfoto

BIRRA DI MONTAGNA LA MONNA Band of Giroinfoto

DEREDIA GENOVA Band of Giroinfoto Photo cover by Giancarlo Nitti


WEL COME

62 www.giroinfoto.com DICEMBRE 2020


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la redazione | Giroinfoto Magazine

Seattle skyline by Giancarlo Nitti

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Giroinfoto magazine

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Novembre 2015,

da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

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Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

L E G G I L A G R AT U I TA M E N T E O N - L I N E www.giroinfoto.com Giroinfoto Magazine nr. 62


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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI

Progetto editoriale indipendente

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ANNO VI n. 62

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20 Dicembre 2020

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GIROINFOTO MAGAZINE

I N D E X

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C O N T E N T S

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LIUTERIA PIEMONTESE

R E P O R TA G E

CASTELLO ARAGONESE

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DEREDIA

42 R E P O R TA G E

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M ONASTERO SANTA CATERINA

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LIUTERIA PIEMONTESE L'accademia Band of Giroinfoto Piemonte

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CASTELLO ARAGONESE Ischia Di Adriana Oberto

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DEREDIA la sfera tra i due mondi Band of Giroinfoto Liguria

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MONASTERO SANTA CATERINA La fontana Pretoria Band of Giroinfoto Sicilia

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IO MILANO Carlo Mari Skira Editore


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R E P O R TA G E

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PARCO DELLE INCISIONI RUPESTRI

GROSIO Parco delle incisioni Rupestri Band of Giroinfoto Lombardia

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IL QUARTIERE COPPEDÈ Roma Band of Giroinfoto Lazio

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LO SCINTILLANTE MONDO DI SWAROVSKI Wattens Di Remo Turello

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LA MONNA L'arte della birra di montagna Band of Giroinfoto Lazio

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COPPEDÈ

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130 R E P O R TA G E

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R E P O RTA G E

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LIUTERIA PIEMONTESE

Barbara Tonin Giancarlo Nitti Mariangela Boni Silvia Petralia

A cura di Barbara Tonin A Torino, all’angolo tra via Accademia delle Scienze e via Principe Amedeo, tra i superbi Museo Egizio e Museo del Rinascimento, maestri artigiani e promettenti allievi lavorano pregiati legni, che diverranno strumenti ad arco o a pizzico.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

Siamo all’inizio del nuovo anno accademico e l’Accademia Liuteria Piemontese San Filippo ci invita ad un Secret Concert di presentazione.


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L’atelier degli strumenti a pizzico si trova al primo piano di via Accademia delle Scienze. È un’intima stanza con soppalco che ti riporta indietro nel tempo, quando si praticava il vero artigianato. I tavoli sono ricoperti di grandi fogli con i progetti, le bacheche sulle pareti raccolgono con minuzioso ordine gli utensili da lavoro, ognuno rigorosamente al proprio posto.

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LIUTERIA PIEMONTESE

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Libri negli scaffali, morse, matite, colle, pennelli e curiose attrezzature sono a disposizione degli allievi per creare chitarre di tutti i generi, anche elettriche. I maestri Matteo Garzino e Maurizio Braschi ci illustrano l’importanza di scegliere il legno giusto. È abete rosso della foresta demaniale di Paneveggio, che già alla forma grezza risuona in modo magnifico, se viene percosso. Studio, precisione al decimo di millimetro, pazienza e passione, inoltre, sono indispensabili per creare strumenti di buona fattura.

Silvia Petralia Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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LIUTERIA PIEMONTESE

Barbara Tonin Photography

Il concerto si svolge presso il laboratorio di via Principe Amedeo. Il fondatore M° Enzo Cena e i suoi collaboratori, Daniela Schifano e Tommaso Rovetta, ci presentano l’atelier degli strumenti ad arco. Un tavolo, situato vicino all’ingresso, ospita i progetti e le varie componenti di un violino. L’ampio laboratorio dispone di funzionali postazioni da lavoro, attrezzate per la realizzazione degli strumenti. Le pareti di pietra ambrata, invece, espongono lucidi violini curati nei più piccoli particolari e un’ampia varietà di utensili.

L’ambiente è permeato da un’atmosfera calda e molto accogliente. Dopo poco, le luci si spengono, lasciando il posto ad un’aura più intima e raccolta. Si esibiscono due noti musicisti della realtà piemontese: il M° Marco Casazza al violino e il M° Daniele Ligios alla chitarra. Diplomati presso il Conservatorio di Musica “G. Verdi” di Torino, entrambi vantano numerosi riconoscimenti e importanti collaborazioni nazionali ed internazionali. Alternando piacevoli momenti musicali ad altri descrittivi, il M° Casazza ci racconta un po’ di storia della liuteria e un po’ dell’Accademia.

Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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LIUTERIA PIEMONTESE

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Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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LIUTERIA PIEMONTESE

Tommaso Rovetta

Enzo Cena

L’arte della liuteria si diffuse in Europa tra il Quattrocento e il Cinquecento. Tuttavia, alcune fonti bibliografiche sufficientemente certe, ritengono che le sue origini risalgano addirittura al sec. VII in Tirolo. In Italia, le prime botteghe apparvero a Brescia, Mantova, Venezia e Milano. La perfezione nell’arte della liuteria, venne raggiunta con la diffusione del violino attorno alla metà del Cinquecento, proprio per mano dei maestri italiani.

Daniela Schifano

Barbara Tonin Photography

Liutai quali Giacomo Dalla Corna, Zanetto e Pellegrino da Montichiari, Battista Doneda, Girolamo De Virchi, Gaspare Da Salò e Giovanni Paolo Maggini seppero creare esemplari che, per forma, finezza d’intaglio e qualità di suono, superavano considerevolmente la qualità degli strumenti dei maestri tedeschi e francesi. Il massimo splendore della scuola italiana, però, venne raggiunto nel Seicento con la bottega del M° Andrea Amati a Cremona. Capostipite di una famiglia di liutai il cui nome rimarrà nella storia, tramandò l’arte e la passione per la liuteria ai figli e al nipote Niccolò. Quest’ultimo, in particolare, raffinò una tecnica protesa alla perfezione, che diede vita a meravigliosi archi, noti come Grandi Amati. E fu proprio dai Grandi Amati che Antonio Stradivari, discepolo di Niccolò, prese ispirazione e diede vita ai suoi magnifici e rinomati strumenti. Stradivari ebbe il suo massimo periodo di attività attorno al 1700, periodo in cui nacquero i pregiatissimi Betts, Messia, Delfino e Sasserno, per citarne alcuni. Giancarlo Nitti Photography

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LIUTERIA PIEMONTESE

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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Silvia Petralia Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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LIUTERIA PIEMONTESE


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LIUTERIA PIEMONTESE

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Di pari talento, sempre nello stesso periodo, fu invece Giuseppe Guarnieri, detto “del Gesù”. Anch’egli di scuola cremonese, apprese l’arte dal padre, discepolo di Amati. Alcune fonti incerte riferiscono ch’egli sia stato allievo di Stradivari, tuttavia il suo stile è ben diverso ed è caratterizzato da una sua personale originalità sia estetica che sonora. Di valore inestimabile, tra gli altri, è il violino Cannone appartenuto a Paganini, ora conservato presso il Palazzo Doria-Tursi a Genova. Antonio Stradivari e Giuseppe Guarnieri del Gesù sono considerati i massimi artefici della liuteria classica italiana. Numerosi furono i discepoli della scuola degli Amati e di Stradivari, che conservarono il loro stile ma che risentirono anche dell’influsso del Guarnieri.

Ognuno, tuttavia, si distinse per la propria impronta. Tra i migliori ricordiamo: Carlo Bergonzi, insigne liutaio, che creò superbi violoncelli; Domenico Montagnana, veneziano, noto per la bellezza, la levigatezza e l’ampia voce dei suoi archi; Alessandro Gagliano, napoletano di nascita, che tornò nella sua patria in età matura e fondò la sua scuola di liuteria. Infine, citiamo Lorenzo Guadagnini, che dopo aver frequentato la scuola di Stradivari, si trasferì dapprima a Piacenza e infine a Torino, dove lavorò fino alla sua morte. I suoi violini sono rinomati per la consistenza dello strumento e la bellezza del loro timbro. La sua scuola proseguì con i suoi discendenti Carlo e Gaetano e quest’ultimo prese dimora presso la Parrocchia San Filippo.

Barbara Tonin Photography

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18 La storia della liuteria piemontese è ricca di maestri liutai, autori di pregevoli strumenti. Purtroppo però, col passare dei decenni, questo antico mestiere è andato lentamente perdendosi. Durante la visita, abbiamo avuto l’occasione di rivolgere qualche domanda al M° Cena. Ecco cosa ci ha raccontato.:

Manuela Albanese Photography

Chi è il M° Enzo Cena Enzo Cena, socio fondatore e presidente dell’Associazione Accademia Liuteria Piemontese San Filippo, è nato a Torino nel 1944, città dove attualmente vive.

Barbara Tonin Photography

Da anni si interessa di costruzione di strumenti ad arco quali violini, viole, violoncelli. Lunghe permanenze all’estero gli hanno permesso di arricchire le sue competenze in ambito liutario, acquisendo esperienza e sperimentando nuove tecniche costruttive. Il suo lavoro si ispira principalmente alla tradizione della liuteria piemontese, assumendone l’impronta e i modelli. Attento allo studio delle forme e dei materiali, dedica una parte importante della sua attività alla ricerca scientifica nell’ambito della meccanica e dell’acustica dello strumento ad arco. I suoi strumenti sono apprezzati in Italia e all’estero; esegue inoltre restauri e manutenzioni di strumenti antichi e contemporanei.

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LIUTERIA PIEMONTESE

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Giancarlo Nitti Photography

Adriana Oberto Photography

Manuela Albanese Photography

M° Cena, la ringraziamo innanzitutto per darci l'opportunità di conoscerla e di visitare la vostra Accademia. Cosa l'ha spinta a realizzare questo progetto? Sono stato molti anni all'estero e in particolare a Praga. Durante la mia permanenza a Praga mi sono avvicinato alla liuteria. Mi sono reso rapidamente conto di quanto appassionante fosse il mestiere del liutaio, tanto da farlo diventare il mio lavoro principale. Quando tornai a casa mia, a Torino, mi resi conto che nella città - e in generale nella Regione Piemonte - erano presenti pochissimi liutai, pur esistendo un’attività musicale molto vivace e rinomata, direttamente collegata alle grandi orchestre del Teatro Regio e della Rai. Molti non lo sanno, ma Torino e alcune città adiacenti sono stati luoghi in cui artigiani liutai del passato hanno realizzato grandi

strumenti, rendendo la scuola piemontese celebre in tutto il mondo. Purtroppo però nel tempo questa tradizione si è persa. Ho perciò pensato che questa attività, parte del patrimonio culturale comunitario, doveva essere valorizzata, a beneficio del territorio e in definitiva dell'attività musicale. Questi sono i motivi principali che mi hanno spinto a costituire L'Accademia Liuteria Piemontese San Filippo, peraltro ospitata in un luogo emblematico, l'oratorio di San Filippo Neri, dove Giovanni Battista Guadagnini - per così dire il capostipite della scuola piemontese - ha trovato ospitalità quando si trasferì in città nel 1771. Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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LIUTERIA PIEMONTESE

Quali fasce d’età hanno dato maggior riscontro al suo progetto? Che requisiti devono avere gli aspiranti allievi? Gli studenti che frequentano l'Accademia hanno un’età che va dai 16 anni in su. Non esistono limiti di età per apprendere questa arte. Questa caratteristica, ossia la presenza di classi miste, sia in termini di età anagrafica che di esperienza professionale, crea dei legami molto particolari tra gli studenti che si trovano a confrontarsi in modo paritario. Non è richiesto alcun requisito particolare se non la voglia di tornare a utilizzare le mani con intelligenza e metodo. La liuteria è pazienza, curiosità e gusto. Ma tutti questi aspetti si possono affinare soltanto con la pratica e con il tempo.

Barbara Tonin Photography

Che tipo di competenze vuole trasmettere ai suoi allievi? Vorrei trasmettere loro una passione, oltre ad un metodo che sia riproducibile e adatto alla professione.

Mariangela Boni Photography

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Il liutaio si deve però occupare anche di aspetti di carattere commerciale. È importante quindi far maturare nello studente il concetto che la sua opera deve soddisfare soprattutto il gusto del musicista-cliente. L’Accademia è in un certo senso un punto di partenza, un incubatore, un polo culturale in cui si parla di liuteria affiancando alla tradizione un po’ di innovazione tecnologica e di ricerca scientifica.


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LIUTERIA PIEMONTESE

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Oltre ai corsi base, sono previsti anche master di alta qualificazione? Stiamo organizzando dei master brevi di formazione dedicati a dei temi specifici, quali ad esempio la ricrinatura dell'archetto, il setup dello strumento musicale, le tecniche di riparazione. Stiamo ricevendo molte richieste da persone esterne all’Accademia interessate proprio a queste tematiche. In particolare, stiamo cercando di creare delle reti con le scuole di musica e i conservatori del territorio, per concordare percorsi di alta formazione dedicati proprio ai musicisti e ai docenti. Siamo fiduciosi nel pensare che, almeno una parte di questa attività , possano essere organizzate e svolte nel corso dell'anno 2021.

Silvia Petralia Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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Quanto è importante la ricerca nella scelta del legno? La qualità del legno è cambiata nel corso dei secoli? La scelta dei materiali con cui si realizzano gli strumenti musicali è parte integrante dell'attività del liutaio. Scegliere il legname è un’esperienza che, per certi versi, possiamo considerare sia sensoriale che tecnica. Il legno deve essere ben stagionato e possibilmente privo di difetti, come ad esempio nodi o macchie. Esistono strumenti di misura che consentono di valutare la velocità del suono all'interno del materiale, altri che ci consentono di valutare il grado di umidità. Non tutte le essenze lignee sono adeguate alla costruzione degli strumenti musicali: in particolare, per quanto riguarda gli strumenti ad arco, i più utilizzati sono l'abete rosso di risonanza e l’acero marezzato. Si tratta di materiali dei quali già in passato erano note le proprietà sia meccaniche che acustiche, e discretamente facili da reperire. È difficile dire se la qualità del legno sia cambiata nel tempo. Sappiamo che nel 1600-1700, periodo in cui operarono gli autori più celebri, era in corso quella che si usa nominare come “piccola glaciazione”, un periodo storico di temperature basse che ha imposto alle piante una crescita lenta e regolare. Questa caratteristica climatica ha permesso di ottenere del legname con crescite anulari molto fitte, che certamente hanno un ruolo nella meccanica dello strumento musicale e, di conseguenza, nella sua risposta timbrica. Inoltre, è da ricordare che gran parte del legname arrivava all'artigiano dopo lunghe tratte fluviali, in cui il materiale restava immerso in acqua per diversi mesi. Questa pratica, in uso per secoli, ora è totalmente dismessa. Non possiamo escludere che anche questo aspetto, originariamente di carattere commerciale, non possa avere influito in qualche misura nella qualità acustica dei materiali utilizzati in passato. Mariangela Boni Photography

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Gli allievi hanno anche l’opportunità di acquisire tecniche per il restauro? La materia del restauro, in particolare nel caso degli strumenti musicali, è particolarmente delicata. La duplicità dello strumento musicale, ossia il fatto di essere contemporaneamente mezzo per fare musica e oggetto d'arte, crea un conflitto inevitabile tra quella che è la sua funzione e le sue modalità di conservazione. L'etica del restauro dello strumento musicale è per questa ragione motivo di gran dibattito. All'interno dell’Accademia, pertanto, si tratta il tema del restauro in modo marginale, insegnando agli studenti quali sono le modalità di manutenzione ordinaria dello strumento, come ad esempio la pulizia, il cambio delle corde, il controllo della posizione dell'anima e del ponticello. Si danno inoltre delle indicazioni generali sulle modalità di riparazione di piccoli danni strutturali e/o estetici.

Oltre alla tecnica e ad un ottimo legno, cosa bisogna possedere per creare uno strumento a regola d’arte? Il liutaio produce strumenti musicali perché essi siano suonati da un musicista. Quindi, per rispondere alla sua domanda, lo strumento deve in primo luogo suonare ed essere “comodo” al musicista. Tutte le corde devono produrre suoni ricchi e potenti, ci deve essere ricchezza negli armonici e nella timbrica, fin dal primo utilizzo. Un professionista si accorge immediatamente di queste caratteristiche. Se prova lo strumento e suona per più di cinque minuti, allora puoi dire che tra musicista e strumento c'è feeling e che il risultato è raggiunto.

Tramandare la tradizione è uno degli obiettivi principali. Verranno, tuttavia, trasmesse anche metodiche e tecnologie più attuali? Stiamo cercando di lavorare in più direzioni: la riscoperta della tradizione della liuteria piemontese è materia di studio e di approfondimento continuo, ed è resa possibile sia attraverso la consultazione delle fonti storiche e della bibliografia sia attraverso lo studio sistematico di strumenti storici, tramite adeguate tecnologie di analisi e di diagnostica. Ci avvaliamo infatti di collaborazioni con esperti storici e scientifici che da anni lavorano nell'ambito degli strumenti musicali antichi. Questa base di conoscenza è in ogni caso arricchita grazie a esperienze sperimentali e di ricerca applicata, che prevedono lo studio di caratteristiche meccaniche e strutturali, che contraddistinguono alcuni elementi dello strumento musicale moderno, quali ad esempio la catena e il ponticello.

Barbara Tonin Photography

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L’utilizzo di nuovi materiali è sempre stimolante e oggetto di sperimentazione: ciò che però nella maggior parte dei casi si rende evidente, è che i risultati migliori si ottengono sempre utilizzando i metodi già in uso in passato.


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LIUTERIA PIEMONTESE

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Maggiori informazioni sui corsi e le attivitĂ sono disponibili sul sito

www.accademialiuteriapiemontese.it info@accademialiuteriapiemontese.it

Silvia Stefano Petralia Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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CASTELLO ARAGONESE

A cura di Adriana Oberto

In avvicinamento con l’aliscafo all’isola d’Ischia è facile vedere, in direzione sud–est, un isolotto roccioso collegato alla terraferma da un ponte e, su di esso, i resti di un castello e di un insediamento che in passato, quando venivano utilizzati, dovevano essere splendidi.

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CASTELLO ARAGONESE

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CAMPANIA Napoli Castello Aragonese

ISOLA D'ISCHIA

Ischia fa parte delle isole Flegree, appartiene alla città metropolitana di Napoli e si trova di fronte ad essa, a 18 miglia marine dalla costa, all’estremità settentrionale del golfo. L’isola è di natura vulcanica e si è formata in seguito ad eruzioni avvenute circa 150.000 anni fa. L’attività vulcanica è proseguita poi nel corso dei millenni, fino ad arrivare alla fisionomia attuale. Il monte Epomeo, che è la cima più alta del’isola, è un horst,ossia un blocco di crosta terrestre che si è sollevato a causa della spinta magmatica e non un vulcano.

L’attività vulcanica insulare, infatti, avviene in prossimità delle fratture vicine all’horst. L’isola è stata abitata fin dal Neolitico e ci sono testimonianze importanti di vita sull’isola a partire dalle epoche greca e romana; infatti entrambi i popoli erano a conoscenza dell’importanza delle acque termali dell’isola (caratteristica per cui è famosa tuttora), che avevano sfruttato costruendo le prime terme. Secondo alcuni, il nome Ischia deriverebbe dal termine Insula Major (diventato poi Iscla); secondo altri dalla parola greca (v)’ixos (appiccicoso), la cui v iniziale è in seguito caduta.

Adriana Oberto Pierluigi Peis Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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CASTELLO ARAGONESE

Adriana Oberto Photography

Il centro abitato importante, da cui si accede al Castello aragonese, è il borgo di Ischia Ponte. Si tratta di un antico borgo di marinai e pescatori che ha conservato negli anni il suo aspetto originario. Si hanno tracce del borgo già nel XIII secolo, ma esso diventa rilevante a partire dalla fine del ‘700, quando l’importanza del castello incomincia a diminuire, poiché perde il suo valore come luogo di difesa e viene abbandonato dalle famiglie nobili che vi risiedevano. In origine il borgo era chiamato Borgo Celsa, per via dei numerosi gelsi della zona; prese il nome di Borgo Ponte quando venne costruito il ponte di legno (ora in muratura) che lo collega alla roccia su cui sorge il castello. L’isolotto roccioso che ospita il Castello è un’isola tidale di roccia trachitica; ha perciò origine vulcanica (la trachite è una roccia magmatica effusiva) e si è formata contemporaneamente all’isola maggiore, a cui è collegata da un tombolo, cioè da una banda sabbiosa che originariamente veniva ricoperta dall’acqua solo in caso di alta marea. Con i fenomeni vulcanici del II sec. d.C il fondale marino si abbassò e tale “ponte” naturale venne a mancare. Giroinfoto Magazine nr. 62

LE ORIGINI DEL NOME La roccia e le costruzioni che si sono susseguite su di essa hanno assunto, nel corso del tempo, nomi diversi. In origine il luogo si chiamava CASTRUM GIRONIS, forse in ricordo di Gerone Da Siracusa, che fu il fondatore del primo insediamento, oppure dal “giro di mura” fortificate che circondava la piccola isola. Nel medioevo l’isolotto venne chiamato INSULA MINOR, per distinguerlo dall’isola “madre” – insula major – e cioè l’isola di Ischia. Il nome attuale proviene dalla dinastia Aragonese che, a partire dal XV secolo, trasformò le strutture preesistenti e ne creò di nuove, dando il volto attuale al CASTELLO ARAGONESE. È da notare che, rispetto a quanto noi oggi siamo abituati a pensare, qui il termine “castello” non indica esclusivamente una singola costruzione a scopo difensivo-residenziale, ma un complesso di edifici a scopi difensivi e non, chiese e abitazioni, in un luogo unico per la conformazione geografica del territorio.


R E P O RTA G E

La storia dell’isolotto ha origine nel V sec. a.C. quando, per dare aiuto ai Cumani nella guerra contro i Tirreni, Gerone da Siracusa vi costruisce il primo insediamento. Nasce così Castrum Gironis. Sull’isola esisteva già la città di Pithekoussai, fondata dai greci nel 315 a.C. I romani fondarono nello stesso luogo, ed in sostituzione del sito precedente, la città di Aenaria. Questa si estendeva dall’attuale baia di Cartoromana fino alla cattedrale di Ischia Ponte. Il nome deriva dalla parola “aenum”, che significa “metallo”, ed infatti si trattava di un centro industriale per la lavorazione di metalli (piombo, ferro e rame) e dell’argilla. La città venne distrutta verso il 130-150 d.C. dall’eruzione del Montagnone e i resti finirono a 9 metri di profondità nei fondali adiacenti la costa.

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Tali resti furono riscoperti nel 1972 e sono visitabili con barche dotate di specchi che ne permettono la visione. Anche se non ci sono prove certe, sembra logico pensare che i romani abbiano utilizzato lo sperone roccioso come fortino difensivo e vi abbiano costruito delle abitazioni. L’eruzione del vulcano causa anche l’abbassamento del suolo, il che separa la zona del castello dal resto dell’isola. È da questo momento che si incomincia a parlare di “insula Minor”. Con la caduta dell’impero romano arrivano le scorribande dei barbari e gli abitanti del luogo usano il castello come luogo di riparo e di difesa. A queste fanno seguito le incursioni dei saraceni nell’VIII secolo, ma anche questi non riescono ad espugnare le costruzioni sull’isolotto.

Adriana Oberto Photography Nel 1137 l’isola di Ischia passa sotto il dominio normanno del principe Ruggero II; a questi segue, nel 1194, Enrico VI di Svevia. È da questo periodo che l’isolotto non ha più solamente la connotazione di fortezza militare ma diventa anche sede delle istituzioni e, soprattutto, residenza dei nobili, che lo scelgono per la posizione privilegiata e protetta. Nel XIII secolo tutta l’isola è teatro delle lotte tra gli Svevi e gli Angioini prima, e tra gli Angioini e gli Aragonesi poi.

Gli Angioini costruiscono un porto sui resti della città di Aenaria e sono sempre loro a costruire il primo ponte di collegamento con l’insula major. Costruiscono anche il maschio in cima all’isolotto. Nel 1301 il Monte Trippodi (la parte orientale del monte Epomeo) erutta e distrugge un’ampia area fino alla costa. Gli ischitani si rifugiano sul Castello, che diventa una vera e propria cittadina. Viene costruita la Cattedrale dell’Assunta. Giroinfoto Magazine nr. 62


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CASTELLO ARAGONESE

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Nel 1423 Alfonso I d’Aragona pone il castello sotto assedio e lo conquista. È da questo momento che il Castello vive il suo periodo più importante. Prima di tutto assume la doppia funzione di roccaforte in tempo di guerra e di residenza reale in tempo di pace. Sono Costanza d’Avalos e Vittoria Colonna che ne accrescono gli sfarzi. La famiglia d’Avalos, infatti, è una delle famiglie più nobili ed importanti che seguono il re a Napoli, e governerà sul castello per due secoli. Il 27 dicembre 1509 nella Cattedrale del Castello si sposano Vittoria Colonna e Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara. Vittoria Colonna vive nel castello per circa 35 anni creando attorno a sé un cenacolo letterario molto conosciuto, tra i cui componenti c’è anche il poeta Bernardo Tasso. Sulla rocca il censo riferisce in questo periodo di splendore la presenza di ben 1892 famiglie. Costanza d’Avalos, che governava il castello, muore nel 1541. Sei anni più tardi morirà anche Vittoria Colonna. Finisce così il periodo più importante del Castello. Nel XVII secolo lo stesso passa prima sotto il dominio spagnolo e poi austriaco. Nel 1637 ci sono solo 250 abitanti, comprese le monache Clarisse che abitano nel convento. Si tratta di un periodo di stabilità politica in cui la popolazione cerca nuove terre da coltivare (che di certo non esistono sull’isolotto roccioso) e si sparpaglia per l’isola maggiore. Pierluigi Peis Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

Gli ultimi ad abbandonare il castello sono i nobili e le pubbliche istituzioni. A peggiorare la situazione arriva anche la peste nel 1655. Carlo Gaetano Calosirto, santificato col nome di San Giovan Giuseppe della Croce e divenuto patrono dell’isola, contrae la peste, ma ne guarisce miracolosamente nel luogo dove sorge la cappella sotto la galleria pedonale di accesso al castello. Qui viene celebrata ogni anno una messa nell’anniversario della morte, il 5 marzo. Ne 1737 gli Spagnoli tornano a governare l’isola. Sul castello funzionano pochi edifici pubblici: il Maschio, che è una fortezza militare adibita a carcere per i delinquenti comuni; la cattedrale dell’Assunta, il palazzo vescovile e il convento delle monache Clarisse dedicato a Santa Maria della Consolazione. Nella seconda metà del secolo il numero di abitanti scende a 63. Dopo la nascita della Repubblica Partenopea nel 1799 e la conseguente restaurazione Borbonica, il Castello diventa carcere politico. Nel 1809 forti scontri tra le truppe anglo-borboniche e francesi mettono a ferro e fuoco il castello causando ingenti danni. Sempre in quell’anno le restanti 16 monache Clarisse sono costrette ad abbandonare il convento. Nel 1817 la fortezza viene adibita a residenza per i soldati in pensione e pochi anni dopo il Castello diventa carcere per gli ergastolani, prima, e per i colpevoli di reati comuni poi. Nel 1851 molti detenuti politici che si sono opposti ai Borboni vengono detenuti al Castello.


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Quando Garibaldi entra a Napoli nel 1860 il carcere politico viene soppresso e Ischia entra a far parte del Regno d’Italia. Gli edifici sulla rocca diventano di proprietà del Demanio e i terreni coltivabili sono affidati all’Orfanotrofio militare. È in queste condizioni che, nel 1912, l’Avvocato Nicola Ernesto Mattera acquista la rocca per la somma di 25.000 lire (al tempo equivalevano a 100 stipendi di impiegato statale); l’anno dopo acquisisce anche tutti i terreni, che erano di proprietà dell’Orfanotrofio. Le ragioni dell’acquisto non sono mai state chiarite e sono forse spiegabili semplicemente nell’amore per il luogo e nel desiderio di non vederlo completamente distrutto e dimenticato. Nel 1967 lo stato impone alla rocca il vincolo di inedificabilità assoluta, poiché monumento nazionale.

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Alla morte dell’avvocato, il castello passa ai suoi tre figli: Antonio, Gabriele e Nicola Rosario. Quest’ultimo vende la sua parte, il Maschio, ad una società napoletana. Nella seconda metà del XX secolo il maniero viene poco a poco riqualificato; vengono effettuati restauri e programmate manifestazioni culturali. I restauri restituiscono al Castello la sua dignità, pur preservando quell’aurea e quello spirito proprio dei luoghi ricchi di storia come questo. Gran parte del castello viene aperta alle visite alla fine degli anni ’90 del secolo scorso.

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VISITIAMO IL CASTELLO Attraversato il ponte che collega lo sperone roccioso dove sorge il castello all’isola di Ischia, si arriva alla galleria pedonale fatta scavare nella roccia da Alfonso I di Aragona nella prima metà del XV secolo. Il soffitto della Galleria, che poteva essere percorsa anche a cavallo, ha delle aperture rettangolari dal duplice scopo: far filtrare la luce nella galleria, nonché permettere, in caso di attacco, il lancio di pietre, olio bollente o pece sul nemico. La galleria era fornita di robusti portoni; parte di essi è ancora funzionante. Lungo la stessa, inoltre, si trova la cappella dedicata al santo protettore dell’isola, San Giovan Giuseppe della Croce.

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Proseguendo lungo la strada si arriva al primo luogo di sosta – la Chiesa dell’Immacolata e il terrazzo a suo lato. Questo si affaccia a ponente e offre un panorama spettacolare sul borgo di Ischia Ponte, la baia di Cartaromana sulla sinistra e la spiaggia dei Pescatori sulla destra. La chiesa risale a XVIII secolo e fu fatta costruire dalla madre Badessa del convento delle Clarisse. Sorge sul sito di una precedente cappella dedicata a S. Francesco ed è dedicata alla Beata Vergine Assunta, detta dell’Immacolata. La mole della chiesa la rende visibile anche da lontano e ne fa un punto di riferimento visivo, soprattutto per la presenza della cupola, che poggia su un tamburo circolare con otto finestroni e domina l’intero complesso di edifici. Le spese per la sua costruzione furono al tempo così ingenti che il convento non poté portarla a termine. La facciata e le pareti interne rimasero solamente intonacate e prive di decorazioni. Attualmente è sede di mostre temporanee d’arte.

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Poco distante dalla chiesa si trova il convento delle Clarisse. Risale al XVI secolo, quando Beatrice Quadra, vedova di Muzio d’Avalos, ne volle la costruzione per trasferirvi quaranta suore dal convento di San Nicola sul monte Epomeo. Si trattava di giovani nobili destinate al convento dalla famiglia, che evitava così la frammentazione delle eredità. Il convento fu chiuso nel 1810 a seguito della legge di secolarizzazione voluta da Murat. Attualmente parte del convento ospita un albergo e una caffetteria; altri locali sono destinati a laboratori d’arte. Dalla terrazza del convento si gode di nuovo della bellissima vista sull’isola di Ischia, nonché, in giorni particolarmente limpidi, anche dei monti sulla terraferma.

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CIMITERO DELLE MONACHE Particolare menzione merita il cimitero situato al di sotto del monastero. Si tratta di una serie di stanzette basse con la volta a botte e lungo le pareti delle quali si trovano dei sedili in muratura con inseriti degli sgocciolatoi. Il corpo senza vita delle monache veniva messo in posizione seduta su uno di questi seggioloni e lasciato decomporre lentamente; i liquidi che fuoriuscivano venivano raccolti nei vasi sottostanti. Alla fine gli scheletri venivano accatastati nell’ossario. Tale pratica tendeva a porre l’accento sull’inutilità del corpo, accentuata anche dal fatto che non esisteva sepoltura individuale. Le monache si recavano ogni giorno in preghiera e meditavano sulla morte, passando in quegli ambienti anche molte ore. Tale pratica causava spesso malattie, anche mortali. Non esistono finestre per l’aerazione, eccezion fatta per degli stretti cunicoli quadrangolari, le “ventarole”, che sono in comunicazione con l’esterno. Si pensa che tali ambienti, prima di essere adibiti a cimitero, fossero cisterne per la raccolta dell’acqua piovana.

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Proseguendo la visita si percorrono viuzze, cortili, tetti (le abitazioni sono le une sopra le altre). Si tratta della Casa del Sole. All’interno sono esposti resti di epoche passate e arte moderna. Interessante è proprio l‘esterno, dove le strutture architettoniche, risalenti ad epoche diverse, si sovrappongono. Si notano anche le cisterne, sul tetto delle abitazioni, che costituivano l’unica fonte potabile di acqua. Fino agli anni ’50 del novecento, infatti, non esisteva l’acqua corrente sull’isola di Ischia: si doveva far affidamento alle cisterne e alle poche fonti sorgive, visto che le acque termali per cui Ischia è famosa non sono potabili. Al Castello aragonese, pertanto, ogni casa aveva la sua cisterna, che veniva mantenuta con cura e la cui acqua veniva usata con parsimonia.


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Quello che è rimasto in piedi sono le costruzioni più belle e ricche, e non certo quelle dei contadini che vivevano al castello. Queste ultime sono scomparse, ma riempivano gli spazi che ora vediamo vuoti o adibiti a giardino. Da qui si accede ai vari sentieri e camminamenti, nonché alla parte sud del Castello.

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L’edificio più interessante dal punto di vista artistico e storico, anche se molto meno imponente rispetto alla chiesa dell’Immacolata, è la Cattedrale dell’Assunta. Si tratta di un edificio del XIV secolo, fatto costruire dopo l’eruzione dell’Arso nel 1301 in sostituzione della cattedrale sull’Insula major, che era stata distrutta. La costruzione avvenne sopra un’antica cappella, che ne divenne la cripta. La chiesa conobbe l’epoca del suo massimo splendore nel Rinascimento e fu il luogo in cui, il 27 dicembre 1509, si sposarono Vittoria Colonna e Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara. È una basilica a tre navate – quelle laterali con volte a crociera. Una cupola ribassata ricopriva l’abside. Sono annessi quattro cappelle, una sacrestia, un campanile e la cripta. La chiesa era adornata da stucchi finissimi e volte affrescate; il trono vescovile aveva paramenti d’argento. Fu distrutta dagli inglesi nei bombardamenti intercorsi fra il 25 giugno e il 21 agosto 1809 e mai più ricostruita. Si presenta priva di facciata, senza la copertura della navata centrale, dell’abside e di parte delle navate laterali. La copertura a crociera rimanente poggia sui muri al perimetro e su pilastri quadrati che inglobano le colonne romaniche preesistenti. La mancanza di fondamentali strutture crea un rapporto particolare tra l’interno e l’esterno; tra quella che era la chiesa e la natura circostante. Purtroppo è fonte anche di continua preoccupazione per la conservazione delle opere esistenti, per le quali sono in programma lavori di restauro.

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Di particolare interesse è la Cripta gentilizia, dedicata a San Pietro. È posta al di sotto della cattedrale e vi si accede attraverso una doppia rampa di scale. Risale agli anni tra l’XI e il XII secolo ed era originariamente una cappella. È costituita da un ambiente centrale a due campate con volte a crociera; ai lati ci sono otto cappelle con volte a botte. Custodisce pregevoli affreschi dei secoli XII –XVII. Le pareti delle cappelle recano gli stemmi della famiglia cui apparteneva. I paesaggi affrescati rappresentano molto probabilmente le terre che tali famiglie possedevano. Sono evidenti danni arrecati alla cappella nel periodo demaniale; nello stesso periodo furono sottratte lastre ed iscrizioni marmoree. Una volta visitata la cripta, si può scegliere se tornare sui propri passi ed uscire da castello, oppure girovagare per le stradine e i camminamenti alla ricerca degli scorci più suggestivi. Attraversato il ponte, ci si ritrova al borgo di pescatori e alla baia rivolta a sud, da dove è possibile ammirare la rocca, gli isolotti rocciosi della baia e, in lontananza, l’isola di Procida e la costa campana.

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LA SFERA TRA I DUE MONDI GENOVA 16 settembre – 30 novembre 2020

A CURA DI MONICA GOTTA

Dario Truffelli Davide Mele Manuela Albanese Monica Gotta

“Commuoversi di fronte a un simbolo, vuole dire ascoltare una nota dimenticata” Jiménez Deredia

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Il 16 settembre 2020 Genova si trasforma in un museo a cielo aperto e l’arte si fa nuovamente pubblica. Così inizia l’esposizione delle opere dello scultore e artista costaricano Jiménez Deredia e la mostra prende vita nel contesto cittadino.

In tal senso sono diventate anche una risorsa per la città attirando i turisti per quanto possibile in questo momento pandemico.

Artista forse non conosciuto a tutti, ha al suo attivo opere di grande interesse e piuttosto particolari nel loro genere. Testimonianza della creatività dell’artista sono appunto le 8 statue, costruite con materiali diversi, che sono state esposte a Genova fino al 30 novembre 2020. Queste opere rappresentano e fanno parte di una serie e così la mostra è stata denominata “La sfera tra i due mondi”.

Sette di queste meravigliose opere trovano nella città di Genova la loro prima location espositiva. Vengono alla luce proprio nella nostra città. EVOLUCION è stata esposta solo una volta a Città del Messico nel 2015 ed è anche l’opera più grande delle 8 esposte a Genova. La caratteristica comune delle sculture sono le forme ovali e circolari che spesso ricorrono nelle opere dell’artista e che fanno parte del suo immaginario creativo.

Le grandi sculture dell’artista ornano Genova in alcuni dei suoi punti più frequentati dai cittadini, location che fanno anche da cornice alle opere, cornice non solo paesaggistica e urbana ma anche culturale. Le opere si sono amalgamate con il paesaggio storicoculturale e urbano, lo hanno arricchito di una curiosità che ha portato un buon numero di persone a fermarsi, anche solo per caso, ad ammirare queste opere frutto di un grande genio artistico.

A disposizione dei cittadini è stata condivisa sul sito www. visitgenoa.it una mappa del percorso espositivo in modo che ci si potesse orientare facilmente. Un tour che porta i visitatori, oltre che all’osservazione delle statue, anche alla scoperta di alcuni dei punti più interessanti e conosciuti della città di Genova. Accanto ad ogni scultura si trova la stessa mappa che aiuta ad indirizzarsi nel percorso e nel tessuto urbano cittadino. La mappa per un viaggio nelle opere dello scultore.

LE STATUE IN ESPOSIZIONE

PAREJA (Bronzo) Presso Stazione Brignole CREPUSCOLO (Bronzo) Piazza De Ferrari

EVOLUCION (Bronzo) Piazza De Ferrari CONTINUACION (Bronzo) Piazza Matteotti

IL VIAGGIO (marmo)

Porto Antico

INCANTO (marmo) Porto Antico REFUGIO (marmo) Porto Antico ARULLO (bronzo) Porto Antico

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La posizione delle 8 statue è stata pensata per creare un percorso fluido nel tessuto cittadino. Che si parta dalla Stazione Brignole oppure dal Porto Antico, si passa per Piazza De Ferrari e passando per Via XX Settembre, la principale arteria del centro cittadino, il percorso è di facile godimento, semplice ed armonico. Ha come punto nevralgico proprio Piazza De Ferrari e Palazzo Ducale che si affaccia anche su Piazza Matteotti, dove è esposta CONTINUACION

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Monica Gotta Photography

Monica Gotta Photography

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Alla Stazione Brignole, proprio davanti all’ingresso, si può ammirare PAREJA, in bronzo, nera. Osservandola guardando la stazione, si vede la statua incorniciata dall’architettura dell’edificio con le sue grandi finestre che lasciano trasparire una luce dalla tonalità calda e gialla. Un contrasto pensato sapientemente per valorizzare l’opera dello scultore. proporre il concetto della nascita della sfera che poi appare nelle altre statue esposte in città. Dario Truffelli Photography

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Arrivando in Piazza De Ferrari, CREPUSCOLO e EVOLUCION, troneggiano vicino alla celebre fontana. CREPUSCOLO, anch’essa di bronzo e di colore nero, ha come sfondo Palazzo Ducale e appare incorniciata dai tipici colori pastello dei palazzi genovesi. EVOLUCION, l’unica delle statue con una forma diversa rispetto alle altre, gode dello sfondo del Palazzo della Borsa e naturalmente della fontana. EVOLUCION fa pensare alla sfera seppur la scultura in sé non abbracci una sfera come accade nelle altre opere. Sembra proporre il concetto della nascita della sfera che poi appare nelle altre statue esposte in città. Proseguendo verso il Porto Antico si passa necessariamente per Piazza Matteotti. Nel centro della piazza, incorniciata dall’architettura di Palazzo Ducale, CONTINUACION tende la sua sfera verso l’alto, verso il cielo. La sfera pare essere maggiormente protagonista in questa statua. Pare desideri esprimere l’orgoglio di presentare al creato la manifestazione della vita nel suo stato primordiale. Manuela Albanese Photography

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Scendendo per Via San Lorenzo si arriva infine al Porto Antico dove sono esposte le restanti 4 statue di cui 3 di esse sono state scolpite in marmo bianco. REFUGIO e IL VIAGGIO condividono nelle loro forme una base sulla quale la statua si appoggia. Ricorda un’imbarcazione, la forma può assomigliare ad una canoa. Entrambe tengono la loro sfera tra le mani, nel gesto di accarezzarla, lo sguardo rivolto verso l’infinito, come a guardare verso una meta ancora sconosciuta. INCANTO abbraccia se stessa oltre che la sfera. Scolpita in marmo come REFUGIO e IL VIAGGIO, spicca per il suo colore bianco esposta davanti ad un tratto delle mura antiche.

REFUGIO Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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INCANTO Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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ARRULLO, l’unica in bronzo presente al Porto Antico, abbraccia la sfera in un modo diverso rispetto alle altre statue. In questa scultura sono solo le mani dell’imponente figura femminile che la tengono ferma, come se volessero fermarla per non farla rotolare via. In ciascuna di queste sculture ognuno di noi può leggere infiniti significati, dettati dal nostro immaginario personale e legati alla nostra esperienza di arte e creatività. Si possono fare molte ipotesi sul concetto che ha portato l’artista a scolpire queste opere nella veste che oggi ammiriamo. Sta di fatto che la mostra “Deredia a Genova – La sfera tra i due mondi” è il giusto trait d’union tra lo scultore e il territorio, tra Deredia e la Liguria, sua terra di adozione da più di 40 anni.

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Jorge Jiménez Martínez,

quest’artista singolare nasce a Heredia, in Costa Rica il 4 ottobre 1954. Nel 1976 si trasferisce in Italia a soli 22 anni e qui inizia a lavorare bronzo e marmo, materiali che ritroviamo nelle statue esposte a Genova. Vive tuttora in Italia, anzi per la precisione, in Liguria. Il suo percorso formativo si concretizza con un diploma all'Accademia di Belle Arti di Carrara e successivamente prosegue gli studi di architettura all'Università di Firenze. L’ardore e lo slancio intellettuale, tipici di quel periodo, lasciano un segno che caratterizzerà il suo lavoro artistico. La comprensione della simbologia delle sfere precolombiane in pietra degli antichi indiani Boruca, che vissero in Costa Rica in un lontano passato fino all’arrivo di Colombo, portano Deredia a studiare le forme e i materiali e non solo. Anche la simbologia legata al cerchio e alla sfera è tema di uno studio approfondito. Un ulteriore passo verso il rinnovamento della sua identità di artista è il momento in cui decide di adottare il suo nome d’arte, DEREDIA. Una contrazione di “de Heredia”, ossia proveniente da Heredia. Il 1985 segna la creazione delle prime Genesi.

Queste opere, 40 sculture in 10 serie da 4, descrivono le fasi della mutazione della materia nello spazio e con esse si pone e si fissa la base per la futura ideologia artistica di Deredia. Protagonista è sempre la sfera, perfetta, che rappresenta la nascita del tutto e il fiorire della vita. E dalla sfera emerge la donna, emblematica che abbraccia se stessa, abbraccia la sfera, la morbida origine circolare. Pertanto la sfera non è un mero elemento geometrico e statico, è simbolo di evoluzione, indica un viaggio, un cammino, un processo di trasmutazione che porta l’essere umano a comprendere il proprio essere e ciò che alberga silenzioso dentro di noi. Deredia afferma che “noi siamo solo un soffio di vita che viaggia intorno a un sole ardente nell’immensità dello spazio”. Il sole: una sfera. Un simbolismo potente quello della sfera che permea non solo l’opera dell’artista ma anche il suo più intimo essere. Nel 2000 la Fabbrica di San Pietro commissiona allo scultore la realizzazione della statua marmorea di San Marcellino Champagnat da collocare nella Basilica di San Pietro in

IL MISTERO DELLE SFERE PRECOLOMBIANE Le misteriose sfere sono state ritrovate a partire dal 1939 nel sud ovest del Costa Rica, terra di origine di Deredia. Quelle ritrovate fino ad oggi sono circa 300 di dimensioni e peso diversi. Il materiale utilizzato per la costruzione è granodiorite, gabbro e altre rocce di origine vulcanica. Quale sia il loro significato è ancora un enigma sul quale gli studiosi cercano di fare luce. Si pensa che potessero rappresentare il Sole e la Luna e anche delle costellazioni. Sicuramente sono state spostate rispetto alla loro collocazione originale, da smottamenti del terreno, altri fenomeni naturali e anche dall’uomo.

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Vaticano in una nicchia progettata da Michelangelo. Nel 2006 riceve la nomina di Accademico Corrispondente della Classe di Scultura da parte dell'Accademia delle Arti del Disegno fiorentina, un grande onore condiviso niente meno che con Michelangelo Buonarroti, Tiziano, Tintoretto, Palladio e Galileo Galilei. Un altro grande traguardo dell’artista è una mostra personale a Roma che si evolve in musei cittadini, piazze e nei dintorni del Colosseo. Dal 2003 Deredia sta realizzando mostre internazionali en plein air che attraversano molte città del mondo. Nell’arco della sua carriera questo singolare artista e pensatore ha dato vita ad opere monumentali in marmo e in bronzo fuso. Opere fisiche, arte concreta e tangibile, per contro ad un nemico invisibile che affligge le nostre esistenze e che non si riesce a comprendere. Che queste opere siano portatrici di un messaggio di pace e di speranza in questo momento tanto difficile e mutevole della nostra esistenza? Accogliamo questo messaggio con un abbraccio come ci ha mostrato Deredia nelle opere esposte nella nostra tanto amata città: Genova.

Come in altri casi, anche per queste sfere si è ipotizzato che, nelle loro collocazione originaria seguissero un preciso allineamento che sarebbe stato fondamentale per confermare la tesi della loro simbologia. Per fare un paragone con teorie più conosciute, possiamo ricordare l’allineamento delle piramidi egiziane a Giza con le stelle che formano la Cintura di Orione come appariva nel 10.000 a.C. Tuttora oggetto di speculazioni scientifiche o pseudoscientifiche le sfere continuano ad affascinare molti studiosi e mantengono silenziose il loro più intimo segreto: la loro creazione.

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Il simbolismo La sfera e il cerchio rappresentano un simbolismo potente: la perfezione per la loro regolarità assoluta. Queste due figure o forme raffigurano il centro, il principio quindi il divino. Sfera e cerchio sono figure che rappresentano anche l’infinito proprio per la loro forma continua, senza inizio e senza fine. Simboleggiano anche il maschile e il femminile – il Sole e la Luna, i due archetipi celesti - il tempo, la vita e l’immortalità. Tutto ciò ci porta al concetto dell’uovo primordiale, l’uovo cosmico, simbolo del mito cosmogenico della creazione dell’universo.

cerchio. Un tempo simbolo della divinità, dell’universo e dell’uomo è un microcosmo che contiene un macrocosmo. Le sfere di Deredia, nelle mani delle sue figure femminili, portano la nostra mente a fare questo cammino immaginario e filosofico. Il microcosmo della sfera si esplicherà nel macrocosmo della madre, la figura femminile che abbraccia il suo uovo primordiale dal quale nascerà una vita che darà luce ad un’altra vita e così via. L’infinito della creazione, della vita, la dimostrazione della presenza divina.

Ricorre nei miti delle più antiche civiltà e, nella religione induista viene chiamato “grembo d’oro”, termine che ci porta infine alla figura femminile dello scultore Deredia. Il simbolismo esoterico dell’uovo lo si ritrova in una delle sue rappresentazioni grafiche, lo zero che in fondo è un

“Uno dei castighi più grandi che un essere umano può affrontare è perdere la capacità di sognare” Jiménez Deredia

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A cura di Rita Russo

PALERMO Quando si passeggia per le vie di Palermo, tra le piazze ed i fastosi palazzi antichi che popolano il centro storico della città, è impossibile fare a meno di notare la presenza di numerose chiese di vari stili e grandezze ed è quasi impossibile resistere alla tentazione di entrare in ognuna di esse quando si ha la fortuna di trovarle aperte. E se poi ci si imbatte in una in stile barocco siciliano, l’effetto “mozzafiato” è garantito.

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Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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INGRESSO SECONDARIO E FONTANA PRETORIA Rita Russo Photography

È questo il caso della Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto, sita nel cuore del centro storico palermitano chiusa fino al 2014, anno in cui le ultime tre suore di clausura hanno lasciato il monastero annesso. È stata riaperta al pubblico nel 2017, dopo i necessari interventi di restauro. Oggi la chiesa è di proprietà del FEC (Fondo Edifici Culto) ed è gestita dalla curia. La storia di questo aggregato monumentale, costituito dalla Chiesa e dall’annesso monastero, inizia nel 1311 ad opera di Benvenuta Mastrangelo. La nobile e ricca donna siciliana senza prole, lasciò tutto il suo patrimonio a favore di quattro suore dell’ordine domenicano con l’obbligo di erigere un nuovo monastero a Palermo. Esse rispettarono le volontà della nobile e il nuovo monastero fu inaugurato nel 1318. Sebbene la missione principale delle monache di S. Caterina sia sempre stata la preghiera e il sacrificio, è opinione comune che tale monastero sia sorto inizialmente anche come ricovero per semplici donne meretrici. Ma dopo il, XVI secolo, per magnificenza e ricchezza, questo divenne uno dei monasteri nobiliari e di clausura più importanti del territorio palermitano.

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Nel 1532, infatti, a causa dell’accrescersi del numero delle suore, il monastero acquistò la vicina chiesa di San Matteo. Nel 1566, per volere della priora Suor Maria del Carretto, venne realizzata al suo posto l’attuale chiesa di S. Caterina, ultimata nel 1596. Negli anni diversi eventi hanno danneggiato il monastero e la Chiesa, quali: i moti del 1848 e del 1860; i bombardamenti anglo americani del 1943; i forti terremoti che hanno scosso la città di Palermo. Questi fatti, dopo il 2014, hanno reso necessari urgenti interventi di consolidamento e restauro, soprattutto della chiesa. Quest’ultima, conosciuta localmente anche come “Santa Caterina delle donne”, si trova tra Piazza Bellini e Piazza Pretoria, in pieno centro storico. Presenta due ingressi, entrambi accessibili tramite una scalinata a doppia rampa isoscele. L’ingresso principale è sito su Piazza Bellini, di fronte alla chiesa di San Cataldo e alla Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, altrimenti nota come la «Martorana».


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Quello secondario, sul lato occidentale dell’edificio di culto, si affaccia invece sulla splendida Piazza Pretoria, luogo simbolo della città sia per la sua centralissima posizione, sia perché il Palazzo da cui essa prende il nome è sede del municipio ma, soprattutto, perché in questa piazza si trova una delle più belle fontane d’Italia: la Fontana Pretoria. INGRESSO SECONDARIO Rita Russo Photography

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INGRESSO PRINCIPALE Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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Ma la maggiore opulenza è riservata alle chiese appartenenti agli ordini femminili. Le giovani monache di nobili origini, prendendo i voti, portavano una cospicua dote, che veniva spesa per il prestigio della Casa, come è avvenuto nel caso della chiesa di Santa Caterina.

La facciata principale della chiesa (quella su piazza Bellini) si sviluppa su due livelli con ricche trabeazioni e lesene e mostra un portale d’ingresso, affiancato da colonne scanalate con capitelli corinzi, in stile tardorinascimentale, sormontato da una edicola con timpano nella quale è collocata la statua di Santa Caterina d’Alessandria, opera del Gagini. Una volta varcata la soglia della Chiesa, si rimane certamente stupiti dallo sfarzo e dall’opulenza dei decori che si trovano al suo interno. Non c’è spazio alcuno privo di tarsie marmoree multicolore, stucchi, statue e affreschi che catturano lo sguardo del visitatore. Questo genere di decorazione risale all’epoca d’oro dell’architettura palermitana, fra ‘600 e ‘700 ed è visibile in molte chiese, appartenenti a vari ordini sacerdotali, sorte in questo periodo a Palermo.

L’interno, che non è molto grande, si sviluppa longitudinalmente ed è a navata unica con tre cappelle per lato ed un transetto nel quale si innesta l’ampia cupola, terminata nella seconda metà del settecento. La decorazione degli spazi interni, che è avvenuta in tempi differenti, è costituita da un ricchissimo apparato di bianchi puttini, statue, simboli religiosi e motivi floreali policromi che risaltano su un fondo marmoreo di colore nero, spesso alternato a specchiature di colore rosso che si fondono armoniosamente con le strutture architettoniche portanti. In particolare, gli intarsi marmorei piani prendono il nome di “marmi mischi”; mentre quelli in cui si inseriscono elementi a rilievo, per lo più in marmo bianco, prendono il nome di “marmi tramischi”.

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Oltre Antonello Gagini, sono stati molti gli artisti che hanno contribuito alla decorazione dell’interno tra i quali: Francesco Ferrigno, progettista e direttore dei lavori della cupola; Vito D’Anna, autore dell’affresco “Trionfo dei Santi Domenicani” che ricopre l’interno della cupola; Giovanni Battista Ragusa, autore delle quattro statue addossate ai pilastri che reggono la cupola e che raffigurano i principali santi domenicani posti simbolicamente a sorreggere l’impianto; Filippo Randazzo da Nicosia, detto il “Monocolo”, autore dell’affresco che occupa interamente la volta della

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navata centrale, intitolato “Trionfo di Santa Caterina” e Procopio Serpotta, autore degli stucchi decorativi.

a canestro fitto dei confessionali ed il grande torciere settecentesco sospeso sotto la cupola.

Testimonianza delle corpose donazioni effettuate dalle nobili famiglie delle suore di clausura, sono gli stemmi nobiliari dei casati delle badesse che si ritrovano apposti su alcuni pilastri adiacenti le cappelle laterali della chiesa, oltre ad altri preziosi oggetti di fattura artigianale sparsi in tutto l’interno, come gli angeli lignei dorati con vesti e ali laminate in argento posti sull’altare principale, le griglie in argento

Il sontuoso altare maggiore è interamente realizzato in pietre dure come agate grigie e verdi, con ornamenti in rame dorato e colonne in lapis e custodisce dietro il paliotto, anch’esso in pietra dura, i resti della madre badessa che promosse i lavori di realizzazione della chiesa, suor Maria del Carretto. Il tabernacolo è realizzato in ametista.


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Rita Russo Photography Sulla parete destra del transetto, si trova la fastosa cappella di Santa Caterina D’Alessandria in cui si osserva una commistione di marmi policromi, pietre dure, stucchi, fregi, volute e intarsi, tipici dello stile barocco con richiami vagamente rococò. La cappella è costituita da un altare rialzato dal piano di calpestio, nella nicchia del quale si erge la statua della santa, realizzata da Antonello Gagini nel 1534 e contornata da angeli.

Le statue allegoriche poggiate lateralmente all’altare raffigurano la Fortezza a destra e la Prudenza a sinistra. Mentre sotto la mensa, una teca di legno con lastra di cristallo contiene la preziosa statua in cera della Dormitio Virginis, vestita di seta bianca con ricami in filo d’oro. Ad ogni lato dell’altare sono individuabili due gruppi di cinque colonne, tra le quali in posizione avanzata ne spiccano

due tortili ed in marmo policromo. In alto, sotto lo stemma coronato, è visibile un medaglione in altorilievo, raffigurante la “Gloria di Dio Padre e gli angeli musicanti” realizzato da Giovan Battista Ragusa. Sulle pareti laterali interamente intarsiate sono visibili i busti di Sant’Agata a destra e di Santa Rosalia a sinistra.

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La parte sinistra del transetto corrisponde al portale laterale sinistro della chiesa, quello che si affaccia su Piazza Pretoria.

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Crocifisso, nella quale la statua di Gesù in croce è appoggiata ad un reliquiario ornato da pietre dure.

La pavimentazione in marmo presenta, in prossimità dell’altare, un medaglione che raffigura il cane con la fiaccola, simbolo dell’Ordine Domenicano.

Nella parte opposta all’altare, sopra l’ingresso principale, si trova il coro che, ingrandito nel 1683, è sorretto da due possenti colonne tortili in granito rosso e contiene un organo positivo a canne, funzionante.

Tra le cappelle del lato sinistro, si osserva, nella seconda campata, quella del Santissimo

Il sottocoro è decorato con affreschi e figure allegoriche, ispirati alla vita della Santa.

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Per visitare il monastero occorre uscire dalla chiesa ed entrare da un piccolo portone sito anch’esso su piazza Bellini, in prossimità di Via Discesa dei Giudici. Tutte le chiese annesse ai monasteri di clausura erano divise in due parti: la chiesa interna più piccola e semplice, confinante con quella esterna, più grande e fastosa, attraverso il presbiterio.

Nel caso di questo monastero, la chiesa interna o grande Coro si trova sopra il presbiterio ed in questo spazio le suore andavano a pregare o assistevano alle funzioni liturgiche che si tenevano nella chiesa esterna, attraverso le grandi finestre chiuse da fitte grate che si affacciano sull’altare, senza essere viste da nessuno. Percorrendo il corridoio interno che corre lungo tutto il perimetro alto della chiesa è possibile vedere quest’ultima per intero, attraverso le grate che occultano le numerose finestre. Giroinfoto Magazine nr. 62


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All’interno del monastero si può ammirare la Sala Capitolare, alcune delle celle nelle quali hanno vissuto le suore ed un elegante chiostro a portici con dieci luci o campate per ogni lato, trasformate in luminose verande. Al centro del cortile alberato si può osservare una fontana con elevazione formata da vasche a conchiglia, realizzata da Ignazio Marabitti, al centro della quale è collocata la statua raffigurante San Domenico. L’attività svolta dalle monache di clausura, conosciuta per lo più dai palermitani più anziani, è sempre stata quella della produzione di dolci tipici siciliani come quelli a base di mandorla, specie in occasione delle feste. Oggigiorno, nonostante l’assenza di personale religioso all’interno del monastero, la tradizione dolciaria è mantenuta viva: i dolci vengono prodotti secondo le ricette tramandate dalle monache pasticcere e commercializzati in alcuni locali ad accesso libero all’interno del monastero stesso.

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La tappa finale della visita sono le terrazze alle quali si accede attraverso alcune rampe di scale. Fino al 1866 erano delle logge coperte e protette da grate attraverso le quali le monache potevano affacciarsi per osservare, senza essere viste, ciò che accadeva lungo le strade. Oggi, libere da ogni impedimento, le terrazze consentono di osservare, oltre i particolari esterni della cupola della chiesa quasi a 360°, anche uno spettacolare panorama della città di Palermo, con i tetti e le cupole delle più importanti chiese che popolano il centro storico e del mare sul quale essa si affaccia. Quando poi ci si sporge su Piazza Pretoria si gode di una splendida visione d’insieme della fontana omonima, della

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quale vale assolutamente la pena dare cenno sulla sua particolare storia. Fontana Pretoria è conosciuta dai palermitani come “Fontana delle Vergogne” e per transitività anche la piazza viene chiamata “Piazza delle Vergogne”. Il motivo di tale appellativo deriva probabilmente non solo dal fatto che quasi tutte le statue che la compongono sono nude e per questo “vergognose”, ma anche per le spropositate somme spese per acquistare e definire la fontana, ritenute dunque anch’esse vergognose. Per tali motivi, per lungo tempo, la fontana insieme alla piazza fu considerata come il simbolo della corruzione e del malcostume della classe dirigente della città.

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La storia di questo monumento è singolare perché la fontana è stata realizzata dallo scultore Francesco Camilliani nel 1554 a Firenze, su commissione di Don Luigi Alvarez de Toledo che aveva deciso di abbellire il giardino del suo palazzo con questa monumentale opera. A causa dei suoi debiti, Don Luigi riesce a vendere la fontana alla città di Palermo, grazie all’intercessione del fratello Don Garçia che, già Viceré di Sicilia era rimasto in buoni rapporti con il ricco Senato palermitano, che acquista l’opera e decide di collocarla nella Piazza sulla quale prospetta il palazzo Pretorio. Una volta acquistata, la fontana viene trasferita a Palermo con mezzi navali dopo essere stata suddivisa in 644 pezzi.

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Dal 1574 fino al 1581 è stata rimontata in centro alla piazza da Camillo Camilliani, figlio di Francesco, non senza aver demolito alcune dimore esistenti per fare spazio alla nuova creazione. La sua ricostruzione ha subito non pochi interventi di adattamento e di integrazione rispetto all’originale a causa della mancanza di alcune statue, o perché rotte durante il trasporto o perché trattenute dal vecchio proprietario. La fontana si sviluppa dal basso in maniera concentrica intorno alla grande vasca suddivisa in settori da quattro ponti con scalinate e da un recinto di balaustre.


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Al centro di questo, quattro vasche concentriche ad elevazione piramidale danno inizio al gioco d’acqua versata dalla sommità da una statua che raffigura, nell’interpretazione palermitana, il Genio di Palermo ossia il nume tutelare della città. In basso, la fontana è delimitata da una cancellata dietro la quale dopo una gradinata si diparte un’ampia balaustra calpestatile interrotta da quattro varchi corrispondenti alle quattro scalinate.

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Tutto intorno alla fontana e su ogni livello, numerose statue rappresentano varie figure mitologiche. Mentre al centro dei quattro settori delimitati dalle scalinate a ponte sono visibili quattro vasche decorate con gruppi scultorei che rappresentano allegoricamente i quattro fiumi della città: l’Oreto, il Papireto, il Gabriele ed il Maredolce.

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Oggi, i turisti che giungono in città da ogni parte del mondo e che hanno la possibilità di effettuare visite guidate sia al complesso monumentale di Santa Caterina sia alla fontana, restano incantati non soltanto per la bellezza artistica dei due monumenti e per la bontà dei dolcetti alla mandorla ma anche per una curiosa leggenda che vede le due opere collegate tra loro. Si racconta, infatti, che le suore del vicino convento di clausura, mortificate dalla oscena nudità delle statue, uscendo dall’ingresso laterale proprio sulla piazza, abbiano evirato le indecenti sculture con la complicità del buio della notte.

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Io Milano. Carlo Mari fotografie di Carlo Mari Una Milano metafisica e surreale nelle fotografie di un grande fotografo Una Milano deserta, senza traffico e persone. Una Milano in cui regnano vuoto e silenzio. Una Milano diversa, mai vista, ma sempre bellissima. Questo suggestivo servizio fotografico di Carlo Mari ritrae la città di Milano nel momento della sua massima esposizione all’attacco di una minaccia invisibile quanto insidiosa, a cui tutti eravamo impreparati; il fotografo ha avuto il merito di portare alla ribalta una città nuova, per nulla livida o ferita. Piuttosto si evince un tempo che rallenta, non nell’efficienza ma nelle idee. Riflette, la città, e induce a pensare. L’obiettivo di Carlo Mari testimonia anche una presenza discreta, ma sempre presente, quella dei carabinieri, che in una fase così delicata, non hanno “controllato” la città ma l’hanno “accompagnata” in questo momento di difficoltà e dolore . Carlo Mari è fotografo di reportage e pubblicità. Ha girato il mondo sopra e sotto i mari, con la macchina fotografica al collo per raccontare. Tra gli anni ’80 e ’90 ha pubblicato servizi e copertine sulle più prestigiose riviste di mare italiane ed estere. In seguito, e per molto tempo, ha documentato la vita selvaggia dell’Est Africa ed è stato un inviato della “The

Harvill Press” di Londra. Da questa collaborazione sono nati due importanti volumi: The Great Migration e Pink Africa. Vive in Africa diversi mesi all’anno, a stretto contatto con la natura incontaminata e le popolazioni tribali. Ritrattista, da anni documenta la bellezza (non solo esteriore) di molte popolazioni a rischio di estinzione. Carlo Mari ha al suo attivo molti libri fotografici pubblicati in tutto il mondo, alcuni riguardanti la vita dei fondali marini, altri l’Est Africa, tra Kenya e Tanzania, altri ancora il nudo artistico e il glamour pubblicitario. My Africa, una delle sue più importanti creazioni, è entrato a far parte della lista dei best-sellers fotografici nel 2004 in Germania. Nel 2019 Carlo Mari ha pubblicato, sempre con Skira, Passage trough Dar oltre 130 immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano nel mercato del pesce di Dar Es Salaam. Il 10% del ricavato andrà all’associazione ONAOMAC Opera Nazionale Assistenza Orfani Militari Arma Carabinieri.

2020, 20 × 30 cm, 192 pagine bilingue italiano-inglese 186 illustrazioni b/n, cartonato ISBN 978-88-572-4400-2

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Io Milano Carlo Mari Autoritratto

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Una Milano nuova e riconoscibile: così le fotografie hanno interpretato la città, restituendocela per come la troveremo. Tutte insieme rappresentano anche lo stimolo a ricominciare, questa volta con garbo e rispetto. Sì, perché all’ombra del Duomo il tempo non ha mai rappresentato pigrizia o nostalgia, bensì solo un viatico per modificarsi, in meglio peraltro. Mosè Franchi

Io Milano Carlo Mari Piazza Duomo

Io Milano

Carlo Mari Piazza Duomo con piccioni Giroinfoto Magazine nr. 62


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Io Milano Carlo Mari Galleria

Giuseppe Sala Sindaco di Milano

Il Coronavirus ha svuotato la città. Milano che ha sempre avuto la sua ragione nel movimento, fisico e mentale, della sua gente si è trovata con le sue piazze, le sue vie, i suoi scorci senza nessuno. È stato necessario per difenderci da un virus misterioso che ha fatto a pezzi molte nostre apparenti certezze, prima fra tutte la fiducia che la scienza ci difendesse ormai da pericoli di questo genere. Questo abbandono ha lasciato un panorama della nostra città imprevedibile e imprevisto, pieno di niente. Un palcoscenico vuoto, all’apparenza. Ho passato il lockdown non a casa, ma a Palazzo Marino nel duro impegno di trovare le vie migliori per curare il disagio e la crescente fatica economica della città. A volte la tentazione è stata quella di abbandonarsi a quella estraneità, a quel vuoto che sembrava assorbire idee, volontà ed energie. Non l’abbiamo fatto perché il nostro dovere era di fronteggiare questa crisi soccorrendo i più fragili e costruendo le condizioni per una ripresa, sia pur cauta e difficoltosa. E bene abbiamo fatto. Non a caso lo sguardo dell’artista, lo scatto del fotografo attento e innamorato di Milano ci restituiscono la vera protagonista di quegli spazi, l’attesa.

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Le foto di Carlo Mari ci restituiscono il senso della sospensione di Milano, come se i monumenti e i luoghi della nostra città non si siano rassegnati a quel vuoto e siano rimasti ad attenderci, giorno dopo giorno. E insieme ai luoghi compaiono i Carabinieri, segno in se stessi di quell’Italia che non manca mai, nei momenti del bisogno, di far sentire la propria presenza. Nel ricordo di questa crisi (che speriamo non si ripresenti più) non dobbiamo mai perdere il senso di gratitudine verso chi si è preso cura dei malati, ma anche verso i tanti che non hanno mai smesso di far funzionare e di proteggere i luoghi della nostra vita. Infine, una grande protagonista di queste foto e della nostra vita è la luce. Milano non è percepita come una città luminosa. Chi non la ama la trova sempre un po’ grigia. Ma, al di là di quel cielo lombardo “così bello, quand’è bello”, per dirla col Manzoni, chi vive Milano sa quanto la luce guidi i passi dei Milanesi nei loro cammini per la città. Siamo pronti a seguirla di nuovo, la nostra luce.


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Carlo Mari City Life notturna con tram

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Carlo Mari Corso Porta Ticinese notturna

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Gaetano Angelo Maruccia Generale di Corpo d’Armata Vice Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri

Quando Carlo Mari, già con lucida visione, mi ha proposto di assisterlo nella realizzazione di un servizio fotografico sulla città di Milano nel momento della sua massima esposizione all’attacco di una minaccia invisibile quanto insidiosa, a cui tutti eravamo impreparati, assorbito da una moltitudine di gravose incombenze imposte da una situazione a dir poco surreale, non ho saputo apprezzare a pieno, come avrei dovuto, la profondità del suo progetto. Certamente l’idea era molto interessante, ma in quel momento la consideravo inopportuna a fronte delle criticità che stavamo attraversando. Come pensare a delle fotografie mentre stavamo combattendo contro una delle più pesanti e inaspettate emergenze della nostra storia? E invece mi sbagliavo. Testimoniare era necessario. Oggi, nel visionare con maggiore serenità l’ottimo lavoro svolto, mi rallegro per il suo intuito e per la grande capacità dimostrata nel lasciare una testimonianza viva di un periodo difficile, che le foto artistiche da lui realizzate rendono nella

loro scorrevole semplicità meglio di qualunque commento scritto. Questo volume ha una sua particolarità nel mostrare come i Carabinieri, in una fase così delicata, non hanno “controllato” la città ma l’hanno “accompagnata”. Le foto mostrano una città sola, una città vuota, in realtà si tratta di una città sospesa e in questa sospensione si erge la presenza dei Carabinieri. C’è una differenza tra controllare e accompagnare. Il nostro compito, il compito dell’Arma, è certamente quello di controllare che tutto si svolga secondo giustizia, ma noi, nel controllare, abbiamo anche accompagnato una città smarrita, confusa e disorientata. Siamo stati attenti a seguirne il palpito dolente. Accompagnare significa viverne momento per momento difficoltà e dolori, sentire come propria ogni vita che si è riusciti a proteggere. Non suoni retorico quanto affermo e queste fotografie iconiche raccontano questo impegno, con rigore e nel contempo con delicatezza.

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Carlo Mari Carabinieri P.le Angelo Moratti

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Le immagini mostrano, quindi, non solo un’operatività, intrinseca al ruolo, ma fanno anche trasparire un’amorevole sensibilità verso una città sospesa, ma non arresa. Una città che, da sempre straordinaria per socialità e generosità, si è fermata per salvare soprattutto la sua parte più esposta e fragile. Una città silenziosa ma parlante allo stesso tempo, come testimoniano questi scatti sapientemente realizzati sullo sfondo di una sospensione apparentemente priva di colore, nella quale vengono ritratti uomini dell’Arma i quali, con gli infermieri, i medici e le tante altre categorie impegnate con grande altruismo a continuare a donare il proprio lavoro per gli altri, si sono esposti con instancabile perseveranza a un rischio reale che, purtroppo, in non poche circostanze ha poi raccolto inesorabilmente i suoi infausti frutti. Ciò che colpisce di siffatta dinamica dell’essere esposti è che non è stata descritta dentro la cornice retorica di un probabile eroismo, a volte inconsapevole e sempre incardinato su una eccezionalità e, quindi, su una rarità. Invece no. Qui vengono raffigurate persone che si sono esposte

Io Milano Carlo Mari Piazza Scala notturna

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con ordinario coraggio e queste immagini ritraggono indelebilmente la consuetudine di un lavoro quotidiano svolto nel contesto di una situazione assolutamente insolita. Foto presentate senza strazio, a dimostrazione di una città forte, protagonista e, nonostante tutto, sempre attiva e vitale. Ma la capacità artistica di Carlo Mari non è inferiore alla sua sensibile generosità, da lui tangibilmente dimostrata donando gli introiti derivanti dalla commercializzazione del libro all’Opera Nazionale di Assistenza agli Orfani dei Militari dell’Arma, tra le cui fila si sono purtroppo aggiunti i figli dei Carabinieri sopraffatti dal famigerato Covid-19, ben sei solo nel Comando Interregionale “Pastrengo”, che in quel non facile periodo ho avuto l’onere, ma anche il prestigio, di comandare. È al loro servizio e alla loro memoria che ritengo debbano essere dedicate queste fotografie, così piene di una vita che resiste e trova senso nell’esserci a fianco di chi ha bisogno di cura e difesa. È con orgoglio che mi sento di riconoscere in questi scatti lo spirito, tutto, di quei giorni difficili.


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Carlo Mari IL RUMORE DEI PASSI

Ho potuto sentire il rumore dei miei passi. Il rumore dei miei passi e il respiro soffocato dalla mascherina, affannato per il continuo spostarmi nei grandi spazi vuoti di una realtà surreale… o reale, fantastica o fantascientifica, ma assolutamente vera, presente… La città a volte odiata per la sua esagerata frenesia, vitalità accelerata, ora è sospesa, ovattata, come se fosse tutta solo per me. Un sogno soffice, di quelli che ti danno serenità e ti fanno dormire bene; ma poi il risveglio è tremendo: era tutto finto, la realtà è un’altra, la vera Milano è viva, è di corsa, sempre. Questo libro è un bel sogno soffice, che per un attimo ci fa scoprire una città bellissima, cui è stata concessa una breve pausa per mostrarsi in tutta la sua grandezza in un religioso silenzio. Milano, aprile 2020

Io Milano Carlo Mari Ripa Porta Ticinese

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Carlo Mari Via Ponte Vetero

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PARCO INCISIONI RUPESTRI

Alessia Sangalli Emanuela Venneri Mari Mapelli Manuel Monaco Michela De Lazzari Silvia Scaramella

A cura di Alessia Sangalli, Michela De Lazzari e Emanuela Venneri

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Quando si parla di incisioni rupestri, o meglio ancora, di archeologia protostorica in Lombardia, viene spontaneo pensare al famosissimo sito Unesco presente in Val Camonica. Tuttavia, la Val Camonica non è l’unica valle a conservare le testimonianze degli antichi popoli alpini vissuti migliaia e migliaia di anni fa in Lombardia. La band di Giroinfoto ha avuto la possibilità di camminare letteralmente “indietro” nella storia visitando, in Valtellina, un sito di magnifico splendore paesaggistico e di altrettanta rilevanza storica e archeologica. Stiamo parlando del Parco delle Incisioni Rupestri di Grosio e Grosotto.

Emanuela Venneri Photography

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PARCO INCISIONI RUPESTRI

Manuel Monaco Photography

Situato in provincia di Sondrio, il Parco delle Incisioni si trova sulla strada che unisce Grosio a Grosotto ed è stato fondato nel 1978 per tutelare quest’area così importante grazie alla donazione dei terreni da parte della marchesa Margherita Pallavicino Mossi Visconti Venosta. Il nostro viaggio nel tempo inizia percorrendo il sentiero che parte da dietro la centrale elettrica di Grosio e, lentamente, risale il declivio del Dosso dei Castelli per giungere alla Ca’ del Cap, l’infopoint del Parco e luogo di ritrovo con la nostra guida, Gottfried Parrer, referente del Parco. Iniziamo la visita ammaliati da un panorama mozzafiato:

Mari Mapelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

ci troviamo su un colle, tra la Valle dell’Adda e il torrente Roasco, sulla cui sommità sono presenti ben due castelli che dominano sui paesi di Grosio e Grosotto, in una posizione più che strategica. Si trova infatti vicino alla Val Camonica raggiungibile grazie al passo del Mortirolo; al Trentino attraverso il passo dello Stelvio e alla Svizzera percorrendo il passo del Bernina. A completare la bellezza del luogo gli innumerevoli castagni che ci circondano, risorsa fondamentale per il sostentamento della popolazione e della fauna selvatica.


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Michela De Lazzari Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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All’interno del Parco oltre ai due castelli c’è la Rupe Magna: una delle rocce con maggiore superficie incisa dell’intero arco alpino.

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Manuel Monaco Photography

La Rupe ha dimensioni impressionanti: 84 metri di lunghezza e ben 35 metri di larghezza, con una forma che ricorda un dorso di balena. Dopo una breve introduzione veniamo accompagnati alla base della Rupe Magna ed è proprio qui che inizia il nostro viaggio nel tempo. Nel punto esatto in cui ci troviamo, migliaia di anni prima della nascita di Cristo, vi erano i ghiacciai che hanno originato l’intera Valle e i cui movimenti hanno dato forma alla Rupe che stiamo osservando. Sono infatti visibili ancora oggi i segni lasciati dal trascinamento del ghiaccio sulla roccia resa levigata dalle forze d’attrito. Tempo che l’occhio si abitui ai colori della roccia ed ecco che si rivelano le tracce della presenza di antichi popoli che, utilizzando percussori in pietra, hanno inciso sulla nuda roccia forme e figure.

Mari Mapelli Photography

Non sappiamo il perché delle incisioni, quello che gli studiosi possono fare è avanzare solo delle ipotesi e cercare conferme alle loro teorie confrontando le testimonianze simili nel resto del mondo.

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PARCO INCISIONI RUPESTRI

Emanuela Venneri Photography

Una delle incisioni che salta subito all’occhio è la fila composta da sei figure umane, dette oranti saltici, disposte a coppie. Le persone raffigurate potrebbero danzare o pregare, con le braccia disposte ad angolo retto verso il cielo, impugnando, in una mano, un piccolo oggetto circolare e, nell’altra, piccole spade o pugnali. Ma la visita ci riserva altre sorprese: gli oranti non sono le uniche figure incise. Dopo aver tolto le scarpe possiamo infatti salire e camminare sulla Rupe per osservare da vicino i messaggi che gli antichi popoli ci hanno lasciato. Ed è così che riusciamo a individuare oranti che sembrano impugnare scudi e lance, oranti uomini e oranti donne, ma anche figure geometriche quali spirali, semicerchi concentrici (detti anche collari), rastrelli, animali e tantissime coppelle. Dagli studi condotti è stato stabilito che le incisioni presenti sulla Rupe Magna sono databili tra la fine del Neolitico (IV millennio a.C.) e l’età del Ferro (I millennio a.C.).

Alessia Sngalli Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Adriana Oberto Photography

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Michela De Lazzari Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Silvia Scaramella Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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Manuel Monaco Photography

Questa magnifica tela di pietra è stata scoperta nel 1966 da Davide Pace, ma in realtà già in epoca medioevale era nota e veniva frequentata dalla popolazione locale, come testimoniano due croci in cui ci imbattiamo durante il nostro cammino sulla Rupe.

Alessia Sangalli Photography

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Il Castello di

San Faustino

Terminata l’esplorazione ed indossate nuovamente le scarpe veniamo condotti verso la sommità della collina per visitare i castelli, ben visibili anche dalla strada Statale dello Stelvio, balzando in avanti nel tempo fino all’epoca medioevale. Iniziamo da quello più antico, datato intorno al XI-XII secolo d.C, denominato Castello di S. Faustino. Dell’antica struttura rimangono solamente i resti murari che permettono però di distinguere quello che era il suo perimetro, i resti di una scala ad indicare presumibilmente la presenza di almeno un piano sopraelevato e le cantine. Di notevole interesse è il campanile della cappelletta che sembra fosse dedicata a S. Faustino e a S. Giovita. Mentre il campanile è stato restaurato, della cappelletta rimane traccia del perimetro murario e di due sepolcri interamente scavati nella pietra che erano posti sotto il piano pavimentale.

Emanuela Venneri Photography

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Alessia Sangalli Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Emanuela Venneri Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

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Manuel Monaco Photography

Castello Nuovo Il secondo castello risalente alla seconda metà del ‘300 essendo di più recente costruzione fu per questo battezzato Castello Nuovo. Costruito in posizione strategica allo scopo di difendere il territorio, fu dotato di una doppia e poderosa cinta muraria ed imponenti torrioni difensivi. La maestosità della struttura era tale che, escludendo l’incursione su Bormio ad opera dell’esercito visconteo nel 1376, il castello non fu mai coinvolto in battaglia fino al 1526, quando il Governo delle Tre Leghe, conquistata la Valtellina, ordinò lo smantellamento di tutte le strutture difensive della Valle. Ed è qui, all’interno della seconda cinta muraria del Castello Nuovo, che concludiamo la nostra camminata nella storia, ritornando nel presente, con una magnifica vista su Grosio, sulla Valle e sulle montagne che ci circondano.

Un sentito grazie va al Consorzio Turistico Media Valtellina che ci ha dato una nuova opportunità di scoprire i tesori che sono custoditi in Valtellina. Un grandissimo grazie va anche al signor Parrer, per l’entusiasmo dimostrato nei confronti del nostro progetto editoriale, per la sua disponibilità e per averci accompagnati personalmente durante la bellissima visita al Parco. Per approfondimenti e ulteriori informazioni consultare il sito ufficiale del Parco delle Incisioni Rupestri: www.parcoincisionigrosio.it e il sito ufficiale del Consorzio Turistico Media Valtellina: www.valtellinaturismo.com

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A cura di Laura Rossini In collaborazione con: ASSOCIAZIONE RADICI

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“Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere” (Henry David Thoreau).

RADICI

è un’Associazione di Promozione Sociale che ha come fine quello di rendere accessibile a tutti l’inestimabile patrimonio culturale e storico italiano. Fondata nel 2015 da un gruppo di giovani studiosi si dedica, sin da subito, alla progettazione di percorsi turistici inclusivi adattandoli a persone con disabilità motoria, visiva ed uditiva. Fulcro del loro pensiero, ad alto impatto sociale, è che la diversità è ricchezza per tutti. Ogni senso che viene a mancare, amplifica gli altri e spalanca mondi nuovi.

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Punti diversi di osservazione che, se condivisi, rendono ogni esperienza unica ed emozionante. Avremo modo di parlare ed approfondire le attività dell’associazione, ma la premessa è importante per comprendere che la nostra non è stata solo una passeggiata, ma un vero e proprio viaggio nello spazio-tempo veramente particolare grazie alla sensibilità e alla preparazione di chi ce l’ha raccontato. L’appuntamento è a Piazza Buenos Aires con uno dei soci fondatori dell’Associazione, Chiara Addi. Si inizia con la presentazione dell’architetto cui fu affidato il progetto di edilizia alto-borghese realizzato tra il 1916 ed il 1927, che altri portarono a compimento dopo la sua scomparsa:

Gino Coppedè

Nato nel 1866 a Firenze, cresciuto nella scuola del padre ebanista dove respira l’arte cinquecentesca e manieristica delle botteghe toscane. In gioventù si dedica al restauro ed alla ricostruzione prima di appassionarsi all’architettura.

Valentina Bova Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

Frequenta l’Accademia delle belle Arti e si laurea misurandosi con la grandezza del Brunelleschi che in diverse occasioni gli sarà d’ispirazione. Un fiduciario genovese dei Lloyds di Londra gli commissiona il rifacimento di una casa colonica, quello che sarà il suo primo ed imponente capolavoro: il castello Mackenzie completato nel 1906. Docente universitario tra Firenze, Genova, Perugia e Urbino gira e lavora lungo tutto lo stivale al seguito della famiglia Cerruti finché da Messina approda a Roma prendendo parte alla Società Anonima Edilizia Moderna vincitrice del bando per la costruzione di quello che sarà il nuovo quartiere che prenderà il suo nome. Qualcuno l’ha definito la risposta italiana a Gaudì. Geni e contemporanei, trasformano semplici edifici in vere e proprie opere d’arte. Uno più onirico interpreta la natura, la prospettiva e le trasfigura, l’altro trae spunto dalla simbologia degli stessi elementi mescolandoli alla storia. Gaudì impressiona e trascina l’osservatore nelle sue visioni mentre Coppedè lancia messaggi come fossero dei portali.


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Nel cuore di Roma Nord, nel quartiere Trieste ci sono circa 31.000 mq in cui 17 villini e 26 palazzi formano un meraviglioso “pastiche” di forme, simboli e stili architettonici. Un mix di gusto classico, gotico, liberty, barocco e medievale nato dal genio eclettico di Gino Coppedè nel primo ventennio del secolo scorso.

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Un progetto inserito nel piano regolatore del 1909 di edilizia alto-borghese che lui trasformò in tutt’altro. Impropriamente denominato “quartiere”, si tratta di un piccolo universo fantastico completamente avulso da ciò che lo circonda.

Laura Rossini Photography

Camminare per queste vie con il naso all’insù lascia spaesati ed immersi in un mondo fiabesco. L’architetto artefice di tanto splendore progettò questi edifici nei minimi particolari tempestandoli di simboli e messaggi senza dargli mai esplicite interpretazioni.

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Siamo in via Dora e davanti a noi si staglia il palazzo degli Ambasciatori. Due edifici a pianta triangolare separati da un arco che ricorda quello di trionfo dell’antica Roma. Alle estremità due torrette asimmetriche. Non sappiamo dove guardare, ogni angolo è una vera opera d’arte. Per fortuna Chiara comincia a guidare il nostro sguardo. Colpiscono immediatamente i rimandi classici come il mascherone centrale posto subito sopra lo stemma dei Medici, un omaggio alla sua Firenze, poco sopra un affresco medievale. Sulla torretta di sinistra una Nike sporge come se fosse sulla prua di una nave pronta ad augurare buon viaggio.

Giorgia Acciaro Photography

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Nell’edicola posta poco prima dell’arco la Madonnina ha il Bambino Gesù in braccio non come nelle raffigurazioni classiche appoggiato a sé, ma proteso in avanti verso i passanti per accoglierli e proteggerli nel loro cammino. Sul muro di sinistra sono raffigurate delle api incastonate tra i mattoni come una scacchiera. Simbolo dell’operosità, del lavoro e della dedizione, potrebbero essere anche semplice riferimento allo stemma della famiglia Barberini che gli aveva commissionato altri due palazzi nell’omonima piazza. Sotto l’arco un capitello con la sua firma ed un lampadario in ferro che illumina il passaggio lungo la strada che taglia in diagonale i due edifici e ci guida verso Piazza Mincio cuore dell’intero progetto.

Laura Rossini Photography

Anche il lampadario è adornato di api e fissato ad una volta dipinta con texture e colori che ricordano ancora una volta la sua Firenze. La sua posizione centrale si presta a diverse interpretazioni. La luce è l’inizio di tutto: della vita, della conoscenza. Fondamento di numerose antiche religioni come quella egizia e babilonese, è l’elemento che dopo il caos iniziale riordina l’universo ricacciando l’oscurità e le tenebre. Protegge e guida il cammino. Alla filosofia ed alla religione, da qui in poi, si innesca un percorso parallelo legato alla massoneria. Mai chiaramente dichiarato come intento da parte dell’autore potrebbe comunque essere una lettura plausibile delle sue opere.

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Al centro di Piazza Mincio si trova la Fontana delle Rane. Ispirata a quella delle tartarughe del Bernini, racchiude in sé elementi naturalistici, esoterici ed antichi. I tre stadi evolutivi della rana rappresentano per le culture orientali l’evoluzione dell’uomo, per la massoneria i gradi di iniziazione e purificazione attraverso l’acqua, per la Chiesa, invece, la Trinità. Le conchiglie poste ai 4 lati in corrispondenza dei palazzi potrebbero rappresentare come gusci la protezione di qualcosa di prezioso, essenziale, ma nascosto.

Guglielmo Vio Photography

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All’interno della fontana zampilla e danza l’Acqua Marcia che Plinio il Vecchio definì "clarissima aquarum omnium" dopo il primo e laborioso restauro dalla sua costruzione, concluso proprio ad Ottobre 2020. Si accettano scommesse su quanto di tutto ciò percepirono i Beatles quando, nel 1965 vi si tuffarono vestiti, a notte fonda, dopo aver suonato al Piper locale cult degli anni 60-70 distante pochi metri. Adesso abbiamo l’imbarazzo della scelta e ci muoviamo tra gli edifici cercando di mantenere la distanza dagli altri gruppi, anche per godere del racconto di Chiara ed ammirare i particolari con tutta calma.


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INGREDERE HAS AEDES / QUISQUIS ES AMICUS ERIS / HOSPITEM SOSPITO “Entra in questo luogo, chiunque tu sia sarai amico, io proteggo l’ospite” Questa l’epigrafe scritta in latino posta sopra l’arco della facciata del palazzo senza nome. Ricostruzione fedele di una delle scenografie del film muto Cabiria uscito nel 1914 dal quale Coppedè rimase affascinato. Tanto bella la loggia dell’ultimo piano, quanto l’ingresso. Una facciata imponente che però accoglie e vuole mettere a suo agio l’ospite. Tutte intorno al portone delle decorazioni in bianco e nero sulle quali spicca la scritta “Ospes Salve”, alternanza di lucertole e nascoste nella volta alcune raffigurazioni che hanno qualcosa di esoterico: piccoli soli con al centro un triangolo e un ariete circondato da aquile imperiali. L’arco oro e blu che sormonta l’entrata è splendido ed è riconoscibile in alcune pellicole cinematografiche di autori italiani quali Dario Argento e Mario Bava. I titoli: L’uccello dalle piume di cristallo; Inferno; La ragazza che sapeva troppo. Non solo l’horror, anche la commedia attinge a queste scenografie naturali come Audace colpo dei soliti ignoti di Nanni Loy.

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ARTIS PRAECEPTA RECENTIS / MAIORUM EXEMPLA EXTENDO “Rappresento i precetti dell'arte moderna attraverso l'esempio degli antichi” Questo messaggio scolpito in maniera scomposta sulle finestre della facciata laterale del palazzo sembra essere una dichiarazione d’intenti dell’architetto, quasi ad anticipare la lettura dei villini delle fate. Nella facciata centrale colpisce il mascherone che nella parte sottostante nasconde un ragno mentre tesse una ragnatela dorata, simbolo di lavoro ed operosità. In stile medievale l’affresco nella parte più alta raffigura un cavallo con un’incudine tra due grifoni e la scritta ”Labor”.

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Tre edifici adiacenti dedicati alle tre grandi città d’arte Roma, Firenze e Venezia. Chiara ce li racconta e ce li fa scoprire passo passo. Un cancello di ferro, decorato con serpenti ed api, nasconde uno splendido mosaico raffigurante le tre fate Mneme-MeleteAede. Nella mitologia greca cantavano storie raccontando le gesta di Zeus e degli altri Dei. Erano le custodi della memoria e del sapere. Figure eleganti con fare da menestrelli, ma superiori agli altri perché figlie di Zeus e capaci di tramandare il passato e prevedere il futuro. In una struttura medievale tempestata di affreschi, uno dietro l’altro scopriamo la celebrazione delle città a lui care: Firenze con la raffigurazione di Dante, Petrarca e Santa Maria Novella; Venezia con le navi a gonfie vele ed i leoni; infine Roma con la lupa. Ultimo elemento, non soltanto decorativo, la meridiana che oltre alle ore riporta anche i pianeti ad unire cielo e terra. Chiara ci lascia con un rebus. Di fronte alla meridiana infatti possiamo scorgere un piccolo mosaico sul fianco del palazzo del Liceo Avocado, edificio dedicato alla formazione scolastica già previsto nel progetto iniziale . Tre dadi, un gallo ed una coppa.

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Le soluzioni anche in questo caso potrebbero essere diverse. In una il gallo incarna la giovinezza, i dadi con i numeri primi in evidenza rappresentano la matematica, mentre la coppa il risultato ottenuto: l’uomo vince sulle avversità. Secondo l’interpretazione esoterica potrebbe richiamare un’iniziazione massonica dove il gallo porta la luce e arriva alla coppa del santo Graal, la conoscenza. Proprio la coppa del Santo Graal è rappresentata e nascosta tra le mura di questi palazzi. Siamo purtroppo giunti al termine anche se da dire ce ne sarebbe ancora.

Un ringraziamento speciale va all’associazione Radici nella persona del suo presidente Cecilia Rizzo e Chiara Addi, socio fondatore che per qualche ora ha guidato il nostro sguardo permettendoci di vedere la bellezza di questo luogo e capire la genialità di Gino Coppedè. Questa è solo una delle esperienze proposte dall’associazione. On line, sul sito www.radiciaps.it, è possibile visionare il calendario degli eventi in programma.

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A cura di Remo Turello Percorrendo la magnifica valle dell’Engadina, tra verdissime distese di prati e montagne alpine che si ergono alte e imponenti, giungiamo a Wattens, un centro a circa 15 km da Innsbruck. Si tratta di una piccola località sulle sponde del fiume Inn, ma di grande interesse: proprio qui, infatti, si trova la sede principale della Swarovski. Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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La società, di cui quest’anno si celebra il 125° anniversario, venne fondata nel 1895 da Armand Kosmann, Franz Weiss e dal cognato Daniel Swarovski. Quest’ultimo era figlio di un tagliatore di vetro della Boemia ed egli stesso, sulle orme del padre, iniziò la sua carriera lavorativa come molatore di cristallo.

Da qui l’attività di Swarovski continuò ad espandersi e a diversificarsi: vennero allestiti forni per la fusione e per la creazione di cristalli sempre più splendenti; vennero perfezionate le mole a disco e fu creato un ramo dell’azienda, la Tyrolit, che si sarebbe occupata della loro commercializzazione.

All’età di 21 anni, visitando la ”Esposizione di Articoli Elettrici” di Vienna ebbe l’idea di creare e brevettare una macchina per la molatura del cristallo, attività che fino ad allora era esclusivamente manuale. Quando, con ingegno e perseveranza, riuscì a realizzarla intorno al 1892, si diede il via ad una nuova era per la lavorazione del cristallo, che raggiunse livelli di perfezione fino ad allora inimmaginabili.

Nel giro di pochi anni vennero approfonditi gli studi sugli strumenti ottici di perfezione e con il marchio “Habicht” vennero messi sul mercato telescopi, cannocchiali e soprattutto binocoli a grande precisione. Nel corso del ‘900 la diffusione del marchio Swarovski ha raggiunto tutto il mondo grazie a questa raffinatissima e precisissima lavorazione del cristallo.

L’impiego di questi macchinari richiedeva molta energia idraulica; per questo motivo Daniel Swarovski cercò di individuare una zona ricca di acqua per spostare la sede dell'azienda e il territorio dell’Engadina ne poteva offrire in abbondanza. La ditta venne trasferita così a fine ‘800 nel Tirolo, nella piccola Wattens, sulle sponde del fiume Inn. La valle, attraversata dalle vie commerciali, permetteva inoltre di raggiungere il cuore della moda di Parigi, ma al tempo stesso era abbastanza isolata e questo garantiva un’aurea di riservatezza sul segreto delle lavorazioni e sulla perfezione dei cristalli.

In occasione del centenario dell’inizio dell’attività dell'azienda venne inaugurato proprio a Wattens il “Kristallwelten” (i Mondi di Cristallo), proprio vicino alla fabbrica. Si tratta di un centro di circa 2000 metri quadrati, ideato da André Heller, annoverato tra gli artisti multimediali più influenti e innovativi a livello mondiale, dove il visitatore viene trasportato in mondi fantastici, ricchi di splendore e bellezza, realizzati per celebrare la magia del cristallo.

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Un abbagliante viaggio nei mondi di cristallo Il visitatore che arriva al Kristallwelten può lasciare il proprio mezzo, dalla bicicletta all’auto elettrica, nel parcheggio adiacente a quello dei dipendenti della fabbrica. Varcato l’ingresso ci si immerge nell’ampio parco verde; posto al centro, un piccolo laghetto artificiale restituisce immediatamente a chi si accosta una grande sensazione di tranquillità e offre la possibilità di rilassarsi all’aria aperta ammirando la bella cornice delle montagne tirolesi che lo circondano. L’acqua raccolta nel laghetto sgorga da una grande fontana raffigurante la testa di un verde Gigante dagli occhi di cristallo; sui lati della fontana, seminascosti, gli ingressi alle grandi sale del Kristallwelten. Ed è proprio interrata sotto il parco, che il visitatore può scoprire la vera attrazione dei Mondi di Cristalli.

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Heller ha ripreso l’idea seicentesca delle “Camere delle Meraviglie” e ha allestito, insieme ad altri artisti di fama mondiale, una quindicina di sale legate al tema della magia del cristallo. Il meraviglioso mondo sotterraneo del Gigante ha inizio nella Sala Blu, la prima delle Camere delle Meraviglie. Le sue pareti irregolari, dipinte in Blu Klein Internazionale, una tonalità sviluppata dall’artista Yves Klein, richiamano l’interno di una grotta dominata da una luccicante Parete di Cristallo: larga 42 metri e alta 11, è riempita con 12 tonnellate di cristalli Swarovski.


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Dal punto di vista architettonico, unica nel suo genere, si tratta di una parete portante che ritroviamo continuativamente durante il percorso tra le Camere delle Meraviglie, quasi a simboleggiare la spina dorsale del Gigante. Osservando attentamente i cristalli contenuti nella parete si nota che ogni singolo pezzo è perfettamente tagliato, come ogni piccola gemma che viene utilizzata per i prodotti a marchio Swarovski.

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All’interno della Sala Blu sono conservati alcuni capolavori tra cui: un’opera di Andy Warhol, le “Gemme”, realizzata dall’artista utilizzando polvere di diamante; “La persistenza della memoria” di Salvador Dalì in una versione tridimensionale, in cui la goccia all’estremità dell’orologio è in cera; lo “Stallone nero” che richiama la storia di Chetak, un leggendario destriero indiano; infine, la “Nana di Cristallo” e la “Stele”, creazioni dei più significativi rappresentanti della pop art degli anni Ottanta. E per concludere al centro della sala primeggia “Il Centenario” il più grande cristallo realizzato a mano al mondo, che come tale figura anche nel Guiness dei primati! Realizzato nel 1995 per festeggiare il centenario dell’azienda ha un diametro di 40 cm, 62 kg di peso e 100 sfaccettature tagliate a mano. Accanto a tale opera sono esposti i cristalli più piccoli realizzati da Swarovski, i quali hanno un diametro di 0,7 mm e presentano 17 sfaccettature tagliate con precisione.

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Lasciata alle spalle la Sala Blu dobbiamo coprirci per entrare in Silent Light. In un fiabesco paesaggio alpino di cristalli scintillanti e neve vera, il designer Tord Boontje ha voluto ricreare il romantico mondo invernale in un ambiente interno. In questa camera sono ospitati animali cristallini su alberi innevati e una grotta che ci ricorda un igloo artico; al centro si erge splendente un albero progettato nel 2003 per l’atrio del Victoria and Albert Museum e realizzato con 150.000 cristalli. La temperatura ambientale in questa camera varia tra i -2 e -10 gradi, quindi addentratevi ben attrezzati!

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Lasciata alle spalle l’ebbrezza del paesaggio alpino entriamo all’interno della cupola del Duomo di Cristallo: una sala con ben 595 specchi che danno una suggestiva impressione di profondità e ci regalano la sensazione di trovarci davvero all’interno di un cristallo. Ravvivato da luci che si avvicendano in vari colori e da musiche di sottofondo, sulle pareti ci sono alcuni “specchi spia” che alternativamente si aprono per mostrare meravigliosi oggetti in cristallo creati da diversi artisti. Il Duomo di Cristallo è anche stato lo scenario in cui si è esibita la celebre soprano Jessye Norman, vincitrice nella sua carriera di ben cinque Grammy Award, con un'esibizione

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spettacolare cantando l'aria finale "Thy hand, Belinda" dell'opera "Dido and Aeneas" di Henry Purcell. L’esecuzione di questa esibizione avvenne in playback vista la particolare acustica della sala che non permetteva una resa adeguata del suono. A questa appassionante performance è stata dedicata una Camera delle Meraviglie in cui è stato collocato un gigantesco cristallo di rocca del Madagascar, di formazione naturale, che fa da contraltare al suono della musica e della voce di natura umana trasmesso dagli schermi collocati sulle pareti.

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Salendo per una scintillante scala, sui gradini della quale sono scritti messaggi romantici, entriamo nel paradiso dell’amore. Nella camera “Ready to Love” una parete è decorata con cuori, simbolo dell’amore, ciascuno elaborato a mano con tecniche tradizionali indiane che esprimono un’emozione molto personale. Continuando il nostro viaggio attraversiamo un corridoio che appare vuoto a prima vista; appena ci mettiamo piede, sotto i nostri passi si creano ombre cristalline che ci indicano il percorso. È Il Passaggio di Ghiaccio dell'artista tirolese Oliver Irschitz. Ogni nostro passo viene accompagnato da un misterioso scoppiettare e crepitare, proprio come se ci si trovasse veramente su una superficie gelata, mentre si accendono le luci che illuminano le pareti di un bianco intenso regalando una sensazione di freddo. Proseguendo il viaggio tra le camere accediamo al Wunderkammer Studio Job, l’unica delle Camere delle Meraviglie senza angoli: tutto ruota intorno al visitatore per farlo partecipe di questa avventura. I designer che hanno creato questa camera si sono ispirati alle Wunderkammer: "gabinetti delle curiosità" che raccoglievano oggetti provenienti da ogni parte del mondo. Così, la Statua della Libertà si trova a fianco del Big Ben e il Palazzo d’oro di Innsbruck a fianco del David.

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Una delle camere più spettacolari è però quella ideata dall’artista giapponese Yayoi Kusama: la Chandelier of Grief. Un lampadario di cristallo è collocato al centro di uno spazio tutto rivestito di specchi; ad ogni passo le luci si riflettono all’infinito creando un mondo interminabile di riflessi. In questa stanza, di dimensioni molto più contenute delle altre, l’artista riesce a dar modo al visitatore di perdersi in un’infinità di percorsi diversi. Le Camere delle Meraviglie terminano nella Timeless: un’area dove si racconta la storia della famiglia Swarovski e del cristallo in tutte le sue epoche storiche. Una successione di creazioni Swarovski che vanno dai primi tempi dell’azienda ai grandi momenti su palcoscenici, schermi e passerelle, e affianca storia ad alta tecnologia. Nell’area Timeless, “senza tempo”, si scoprono così i cambiamenti che dal 1895 hanno portato ai giorni nostri ammirando oggetti che hanno fatto epoca. . Dulcis in fundo il negozio. In un grande allestimento di vetrine sono esposte innumerevoli creazioni per il visitatore che, affascinato da questa esperienza, decide di regalarsi un prezioso ricordo.

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Tornando all'aria aperta il viaggio continua ancora nel parco, tra intrattenimenti e giostre che permettono anche ai più piccoli di divertirsi e giocare insieme ad animatori travestiti da personaggi circensi; un ristorante e alcuni chioschi completano l’ambientazione antistante al cuore del nuovo giardino, costituito dalla Nuvola di Cristallo, progettata da Andy Cao e Xavier Perrot. Con una superficie di circa 1.400 metri quadri, questa monumentale installazione è la più grande al mondo nel suo genere. La Nuvola di Cristallo è stata realizzata con circa 800.000 cristalli Swarovski posizionati a mano. Un sentiero in discesa ci conduce, infine, direttamente alla Vasca a Specchio, in cui si riflette la luce dei cristalli che brillano come stelle nel firmamento notturno, persino di giorno. Una luce magica proviene dalle innumerevoli lucciole che ondeggiano nell’acqua e si intrecciano nell'aria come in un giardino incantato, e ci accompagnano nell’ultimo percorso lungo la passerella prima di lasciare lo scintillante mondo Swarovski per reimmergersi nel verde paesaggio tirolese.

Remo Turello

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WORKING GROUP 2020

BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project

PIEMONT

ITALIA

E

LIGURIA

A

LAZIO

ORINO ALL AMERICAN

REPORT

Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 62

L OMBARDI

STORIES

GIROINFOTO MAGAZINE

SICILIA


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COME FUNZIONA

Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.

Impara Condividi Divertiti Pubblica

CHI PUÒ PARTECIPARE

Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Compila il form di iscrizione sul nostro sito ufficiale dal menu area relazioni, "iscrizione a Band of Giroinfoto". L’organizzazione sarà felice di accoglierti.

PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Whatsapp, dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. Gli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremo le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.

Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse tecniche di ripresa. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubblicati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork legati al brand Giroinfoto magazine.

SEDI OPERATIVE La sede di coordinamento dei working group di Band of Giroinfoto si trova a Torino con sezioni operative a Alessandria, Genova, Milano, Roma e Palermo. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi. Giroinfoto Magazine nr. 62


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Giorgia Acciaro Maurizio Lapera

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L'ARTE DELLA BIRRA DI MONTAGNA "Conoscere i luoghi, vicini o lontani, non vale la pena, non è che teoria; saper dove meglio si spini la birra, è pratica, è vera geografia" ...così scriveva Goethe. È con questo spirito che partiamo da Roma con destinazione birrificio La Monna. Il tempo incerto, l'alternanza di pioggia e nuvole ci accompagnano per tutto il tragitto fino alla nostra meta nel comune di Pizzoli, situato alle pendici del Gran Sasso, nell'area dell'alta valle del fiume Aterno. Il comune di Pizzoli è tra i 44 comuni facenti parte del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, localizzato nel cuore dell'Appennino ad un’altitudine di circa 740 m a nord-ovest della Città dell'Aquila con la quale ha un legame molto stretto. Monumenti degni di nota e per i quali consigliamo una sosta qualora vi trovaste a passare per Pizzoli sono il Castello di Pizzoli, o Castello Dragonetti De Torres, che si trova nella zona più alta del paese e caratterizzato dalla presenza di una meridiana posizionata sulla facciata laterale. Vicino al Castello vi è invece la chiesetta di Santo Stefano a monte la cui facciata, realizzata in conci calcarei, domina lo spiazzo antistante.

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LA MONNA

DalL'Aquila, dopo pochi chilometri, arriviamo a Pizzoli dove ci sta aspettando Lorenzo Berardi il mastro birraio, nonché proprietario del birrificio La Monna, che ci accoglie con passione ed entusiasmo tipico di queste zone. Sin da subito percepiamo il suo amore per questa bevanda. Ci racconta come la sua passione per la birra lo abbia portato in giro per l'Europa, nelle realtà tradizionali delle birre artigianali scovate nei pub caratteristici del Belgio, dell’Inghilterra, della Germania e della Svezia, come è noto, tutti paesi con una lunga tradizione birraria e dove ha potuto scoprire le varie declinazioni locali. Nonostante le avventure in giro per l'Europa però il cuore di Lorenzo è rimasto tra queste montagne, dove ha deciso di aprire la sua attività.

Giroinfoto Magazine nr. 62

Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga

Pizzoli

L'Aquila


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Maurizio Lapera Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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LA MONNA

Durante questa visita abbiamo fatto un passo indietro nel tempo, inoltrandoci nella storia della birra artigianale in Italia, da prodotto di nicchia fino al boom registrato nell’ultimo decennio. Nei primi anni 2000 in Italia erano poche le persone che producevano questo tipo di birre casalinghe ed erano ancora meno i locali dove poter trovare questo tipo di bevanda particolare. La storia della birra artigianale in Italia ha avuto il suo sviluppo intorno al 2010. Da questo periodo in poi ha iniziato ad essere conosciuta ad un pubblico più vasto e la produzione è aumentata di molto rispetto agli anni precedenti.

Maurizio Lapera Photography

Giorgia Acciaro Photography Giroinfoto Magazine nr. 62

È in questo contesto storico che tra il 2006 e il 2007 Lorenzo ha avuto l'opportunità di poter conciliare le sue due passioni: la montagna e la birra. Proprio qui, alle pendici del Gran Sasso, con il Birrificio La Monna porta avanti la sua filosofia: dare valore a questi luoghi, incentivare il chilometro Zero ed i prodotti di qualità. Ci spiega che ci sono alcuni elementi molto importanti che è difficile trovare altrove e che proprio per questo motivo questo luogo si presta a questo tipo di attività. Un esempio importante e da non sottovalutare è l'acqua.


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Maurizio Lapera Photography

L'acqua che sorge da queste montagne ha delle caratteristiche particolari. La sua durezza permette dei processi chimici specifici nella cottura del malto ed è un elemento essenziale per una birra di qualità. Altro aspetto da non sottovalutare è la temperatura. Qui per otto mesi l'anno non si superano i 14 gradi e questo fa sì che la birra si mantenga più a lungo. Tutto questo fa del birrificio La Monna un simbolo della "birra di montagna". Ogni singolo ingrediente è scelto con cura e impiegato nella realizzazione dei diversi tipi di birra in maniera ragionata e

ben ponderata: dal caffè, al bergamotto, fino al coriandolo e il pepe nero, ma la sperimentazione è sempre all'ordine del giorno. Questi sono i motivi che hanno permesso al birrificio di Lorenzo di essere riconosciuto tra i pochi e selezionati produttori autorizzati dal Parco Nazionale del Gran Sasso e monti della Laga e per questo ha potuto associare il logo de “La Monna “a quello dell’Ente Parco. Nello stabilimento situato nella zona industriale di Pizzoli viene utilizzato un impianto in acciaio inox, caratterizzato da due fermentatori con una tipologia di imbottigliamento ed etichettamento semimanuale.

Giroinfoto Magazine nr. 62


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LA MONNA TREK IN SCAMPIA

Giorgia Acciaro Photography

Pur essendo una produzione artigianale vanta una vasta tipologia di birre. Le chiare come la Pinza, una Pils di ispirazione Cecoslovacca; la Aterno Witte, un po' speziata con il miele millefiori; la Rosella, che è una rossa ambrata con buona persistenza all'amaro, per non parlare di quella al caffè nata dalla collaborazione con la storica torrefazione di Rieti “Faraglia “. Tanto particolari le essenze quanto le etichette. Tutte fanno riferimento a qualcosa o qualcuno di particolare legato alla storia di Lorenzo, il che le rende uniche e caratteristiche. Da questo viaggio alla scoperta dei profumi e sapori abbiamo capito ancora di più quanto il processo di realizzazione della birra sia anche studio e conoscenza dei processi chimici. Bisogna conoscere alla perfezione ogni singolo ingrediente ed il suo comportamento per rispettare degli equilibri sottili.

Maurizio Lapera Photography Giroinfoto Magazine nr. 62


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Ringraziamo Lorenzo per l'ospitalitĂ e la cordialitĂ che ci ha riservato in questa meravigliosa cornice storico-naturalistica.

Per maggiori informazioni e contatti:

www.birrificiolamonna.it

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