Giroinfoto magazine 63

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N. 63 - 2021 | GENNAIO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.63 - DICEMBRE 2020

www.giroinfoto.com

Luci d'Artista TORINO

Band of Giroinfoto FIUMARA D'ARTE MESSINA Band of Giroinfoto

MARRONE ANTRODOCANO RIETI Band of Giroinfoto

VIGNA DI LEONARDO MILANO Band of Giroinfoto Photo cover by Adriana Oberto


WEL COME

63 www.giroinfoto.com GENNAIO 2021


LA REDAZIONE

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GIROINFOTO MAGAZINE

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Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.

Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.

Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.

Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.

Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.

Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.

Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.

Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.

Attività

Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

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Promozione

Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI

Progetto editoriale indipendente

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ANNO VII n. 63

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20 Gennaio 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni

giroinfoto TV LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com

RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin Monica Gotta Manuel Monaco Gianmarco Marchesini Debora Branda Rita Russo Giacomo Bertini

DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.

COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana

Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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LUCI D'ARTISTA

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I N D E X

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C O N T E N T S

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CALCATA

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PORTO MUSEO DI TRICASE

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MARRONE ANTRODOCANO

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LUCI D'ARTISTA Torino Band of Giroinfoto Piemonte

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CALCATA Il paese degli artisti Di Mariangela Boni

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PORTO MUSEO DI TRICASE Cultura e natura Di Antonio Pedone e Sara Mangia

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MARRONE ANTRODOCANO Valle del Velino Band of Giroinfoto Lazio

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RITRATTI VIP Giovanni Gastel Skira Editore


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FIUMARA D'ARTE

FIUMARA D'ARTE Museo a cielo aperto Band of Giroinfoto Sicilia

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HALLSTATT-DACHSTEIN Salzkammergut Di Remo Turello

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VIGNA DI LEONARDO e la Casa degli Atellani Band of Giroinfoto Lombardia

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STORIE DI QUARTIERE Genova... quella sconosciuta Band of Giroinfoto Liguria

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HALLSTATT DACHSTEIN

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104 VIGNA DI LEONARDO

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STORIE DI QUARTIERE

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LUCI D'ARTISTA

A cura di Stefano Tarizzo Quando si avvicina il periodo natalizio la città di Torino si accende con giochi di luci che rendono le serate invernali incantevoli. La manifestazione delle “Luci d’Artista” attrae ogni anno numerosi turisti, sia italiani che stranieri, curiosi di vedere un museo d’arte contemporanea luminoso a cielo aperto.

Adriana Oberto Barbara Tonin Domenico Gervasi Fabrizio Rossi Remo Turello Stefano Tarizzo

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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LUCI D'ARTISTA

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TORINO La storia delle Luci d’Artista è iniziata nel capoluogo piemontese nel 1998, su iniziativa di Fiorenzo Alfieri. In tale occasione vennero invitati diversi artisti, alcuni già conosciuti, altri più giovani, selezionati attraverso un concorso nazionale di idee. L’iniziativa ebbe talmente tanto successo, che nel 2006 venne inaugurata anche nei comuni di Salerno e Pescara. Oggi, quello con le Luci d’Artista è diventato per gli abitanti

della città sabauda un appuntamento fisso, che inizia tra la fine di ottobre (settimana dell’arte contemporanea) e l’inizio di novembre e dura fino alla fine delle festività natalizie. Quest’anno l’edizione Luci d’Artista è iniziata il 30 ottobre e terminerà il 28 febbraio ed è costituita da 26 opere, di cui 14 si trovano nel centro della città, mentre le rimanenti nelle altre circoscrizioni. La Band of Giroinfoto ne ha fotografate alcune.

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LUCI D'ARTISTA

Location Piazza Carignano Artista

Mario Ariò

Cosmometrie Nell’opera di Airò, progettata per l’edizione 2002/2003 e oggi situata in Piazza Carignano, viene fatto riferimento alla tradizione letteraria e filosofica umanistica, dal neoplatonismo di Marsilio a Giordano Bruno.

L’effetto visivo che si può notare è un tappeto da mosche ed è una fusione tra la cultura orientale e quella mediorientale. “Cosmometrie” è un’opera emblematica di Mario Ariò, coerente con i temi caratteristici della sua arte.

Ad esempio, i quarantadue disegni che compongono l’opera, proiettati con circa 40 fari, fanno riferimento al libro “Articuli 160 adversus” di Giordano Bruno.

Infatti, sono soventi i riferimenti culturali a letteratura, cinema e storia dell’arte. Inoltre, spesso le sue opere sono composte da oggetti, immagini, testi o fonti luminose, attraverso i quali riesce a creare spazi quasi irreali.

Domenico Gervasi Photography

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Adriana Oberto Photography

Stefano Tarizzo Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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LUCI D'ARTISTA

Location Via Monferrato Artista

Valerio Berruti

Ancora una volta Quest’opera si trova in via Monferrato. Raffigura dei bambini chinati su qualcosa che scorre sotto le loro mani e con la quale interagiscono. Sembra quasi che giochino con la gente che passeggia nella via. L’idea dell’artista è quella di far sì che le persone ammirino, mentre passeggiano, più volte l’opera.

Adriana Oberto Photography

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Questa installazione è la reinterpretazione di un’altra idea opera dell’artista intitolata “Udoka fango in zulu”, nella quale vengono rappresentati dei bambini che si alzano e si accovacciano accarezzando con il palmo delle mani e giocando con la superficie dell’acqua.


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Location Palazzo di Città Artista

Daniel Buren

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Tappeto volante Agli occhi dello spettatore questa decorazione luminosa, situata in Piazza Palazzo di Città, appare come “un cielo puntinato di stelle colorate che sono visibili sia di giorno che di notte”. Quest’opera è una sorta di pergolato, costituito da tanti cavi d’acciaio che reggono una scacchiera realizzata con centinaia di cubetti colorati.

I colori scelti per la realizzazione dell’opera sono il blu e il rosso, che si alternano al bianco e richiamano idealmente alla bandiera francese. Nel 2006, in occasione delle Olimpiadi invernali, i cubetti blu sono stati sostituiti da cubetti verdi, in onore del Tricolore.

Barbara Tonin Photography

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LUCI D'ARTISTA

Location Via di Nanni Artista

Francesco Casorati

Volo su ... Quest’opera fa parte delle Luci d’Artista dal 1998 e si trova in Via di Nanni. Viene rappresentato uno stormo di uccelli, che si alza in volo sopra la via. Essi sono raffigurati ad ali spiegate e portano nel becco un lungo filo rosso che si srotola da un capo all’altro del tragitto. L’artista, attraverso i volatili, comunica un’idea di leggerezza, mentre il filo rosso che li unisce simboleggia il dialogo tra gli esseri umani.

Remo Turello Photography

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Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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LUCI D'ARTISTA

Location Piazza Carlina Artista

Nicola De Maria

Regno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime In questa installazione, situata in Piazza Carlina, Nicola De Maria trasforma dei lampioni in fiori luminosi, dove i pali rappresentano gli steli che sostengono le corolle colorate. Crea così una sorta di raffinato “giardino invernale”. L’autore ha così descritto la sua opera e il suo intento:

Adriana Oberto Photography

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“Io vedevo le cornucopie della piazza diventare fiori magici del cielo, lasciati sulla terra per consolare e rallegrare le donne e gli uomini che vivono in questa città. Ed immaginavo questi fiori, attraversati dal movimento della luce, diventare il nido cosmico di tutte le anime che vivono nell’universo e nel nostro cuore. Questi fiori magici sono le stelle della città”.


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Location Via Alfieri Artista

Richi Ferrero

Giardino Barocco Verticale Quest’opera, inaugurata nel 2015, si trova all’interno del cortile del Palazzo Valperga Galleani in via Alfieri 6. Attraverso l’utilizzo di 748 barre in resina di sassi luminosi e 300 metri di nastro illuminato, viene creato un disegno con ciottoli grigi azzurrati e color sabbia.

Quando cala la luce diurna, l’albero illumina il cortile, creando un gioco di luci e colori con i ciottoli e le fioriere situate sui balconi circostanti.

Sopra di essi si può ammirare un albero sospeso nell’aria, con i rami di diverse tonalità di colore.

Domenico Gervasi Photography

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Adriana Oberto Photography


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Location Via Roma Artista

Carmelo Giammello

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Planetario Il Planetario, facente parte dell’iniziativa delle Luci d’Artista fin dalla sua prima edizione, è costituito da sfere di varie dimensioni che vengono illuminate dall’interno e che, insieme a sottili tubi, vanno a creare le costellazioni.

In occasione dell’edizione 2019/2020, la città di Torino prestò alcune delle costellazioni di Carmelo Giammello alla città di L’Avana per festeggiare i 500 anni della fondazione della Capitale cubana.

Questa installazione si può definire come una “Via Lattea” metropolitana, costituita da 14 costellazioni che attraversano via Roma, da Piazza Castello a Piazza San Carlo.

Stefano Tarizzo Photography

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Location Galleria San Federico Artista

Piero Gilardi

Migrazioni Quest’opera è posizionata nella Galleria San Federico e fa riferimento alle grandi migrazioni animali causate dal riscaldamento globale. Viene rappresentato uno stormo di dodici pellicani, che migra alla ricerca di climi più freschi. Per rendere più realistico il tema della migrazione, viene utilizzato un software di controllo che crea un movimento, da sinistra a destra.

Stefano Tarizzo Photography

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Non è l’unica opera conosciuta di Piero Gilardi, artista torinese; infatti, nel 2008, egli ha promosso il progetto “Parco Arte Vivente”, nel quale sono raccolte le sue creazioni che rappresentano il tema della natura.


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Location Monte dei Cappuccini Artista

Rebecca Horn

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Piccoli spiriti blu Situata sul Monte dei Cappuccini, quest’opera è stata creata nel 1999 per Luci d’Artista. È composta da una serie di cerchi illuminati con dimensioni diverse che, collocati intorno alla chiesa di Santa Maria, creano una forte suggestione luminosa, quasi “magica”. L’opera rimane sospesa sui due lati della chiesa, prolungandosi sino alla torretta del Museo della Montagna.

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Location Piazza Carlo Alberto Artista

Alfredo Jaar

Cultura=Capitale Quest’opera, situata in Piazza Carlo Alberto, trae ispirazione dall’opera “Kunst=Kapital” di Joseph Beyus che rilegge la teoria di Marx. L’artista riprende il concetto di Beyus, il quale afferma che la creatività di ciascun individuo è fonte di ricchezza per la collettività, andandolo ad ampliare ed estenderlo a tutti i settori della cultura.

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Quest’equazione luminosa tra sapere e patrimonio è collocata sulla facciata della Biblioteca Nazionale Universitaria in Piazza Carlo Alberto.


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Location Ponte Vittorio Emanuele I Artista

Joseph Kosuth

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Doppio passaggio È situata sul ponte Vittorio Emanuele I ed è costituita da due brani tratti dalle opere di Friedrich Nietzsche e di Italo Calvino, che rimandano alla metafora del ponte come veicolo di comunicazione.

Utilizza quindi frasi e parole all’interno delle sue opere, con l’obiettivo di far diventare l’arte stessa una forma di linguaggio.

Sono diversi gli esempi di opere di Joseph Kosuth nelle quali vengono utilizzate delle scritte. Secondo l’artista, infatti, l’arte deve essere funzionale dal punto di vista linguistico.

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Location Via Carlo Alberto Artista

Luigi Mainolfi

Luì e l’arte di andare nel bosco Quest’opera si trova lungo Via Carlo Alberto e fa parte delle Luci d’Artista dal 1998. Attraverso un percorso di scritte colorate, viene raccontata la fiaba di Guido Quarzo, il cui protagonista è un matto di nome Luì. La storia narra di una città molto rumorosa, nella quale era difficile parlare; poco lontano, invece, vi era un bosco silenzioso, dove andava chi non sopportava i rumori della

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città. Tuttavia, chi si recava nel bosco non faceva ritorno. Luì fu l’unico a riuscire a tornare in città dopo una passeggiata nel bosco, in quanto si inventò un bastone che faceva un dolce rumore a ogni passo. Con il tempo riuscì a ritrovare tutti coloro che si erano persi. E da quel giorno, tutti i bambini della città vollero i “sonagli” di Luì, per non perdersi nel silenzio del bosco.


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Location Mole Antonelliana Artista

Mario Merz

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Il volo dei numeri Sulla cupola della Mole Antonelliana, in posizione verticale, viene rappresentata una lunga sequenza di numeri, in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti.

Fin dagli anni Settanta Mario Merz cercò di sperimentare la nozione di crescita esponenziale nelle sue opere, utilizzando appunto la serie numerica di Fibonacci.

Si tratta della famosa serie di Fibonacci, un matematico toscano, che in epoca medievale provò a individuare la progressione numerica che rappresenta la crescita delle forme in natura.

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Location Piazzetta Mollino Artista

Luigi Nervo

Vento solare Questa installazione si trova in Piazzetta Mollino e fa parte delle Luci d’Artista dal 2004. L’autore, che aveva già partecipato alla manifestazione durante le prime edizioni, ha concepito un’opera legata alla cosmologia fantastica. L’intento era quello di rappresentare le particelle emesse dal Sole, che investono la Terra.

Barbara Tonin Photography

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Infatti, la protagonista assoluta dell’opera è una grande sagoma del Sole.


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Location Via Po Artista

Giulio Paolini

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Palomar Palomar è un’installazione che percorre tutta Via Po ed è composta da un centinaio di sagome luminose che assumono la forma di corpi celesti sospesi.

L’intenzione dell’artista era quella di rimandare al rapporto tra ignoto e conoscenza, oltre all’osservazione come momento cruciale del processo di apprendimento e conoscenza.

Al termine della via, all’incrocio con Piazza Vittorio, troviamo un funambolo con in mano un cerchio e due ellissi, in equilibrio su un triplice cerchio che racchiude una serie di orbite.

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Location Piazza della Repubblica Artista

Michelangelo Pistoletto

Amare le differenze “Love difference” è un movimento che nasce a Biella nel 2002. Il concetto portato avanti da questo movimento è quello di amare, nonostante le differenze tra persone, culture e gruppi sociali. Per amare davvero ed essere “umani”, la prima cosa da accettare e accogliere è la diversità.

Fabrizio Rossi Photography

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La frase “Amare le differenze” appare dal 2005, tradotta in diverse lingue, sulla facciata del mercato coperto in Piazza della Repubblica.


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Location Via Garibaldi Artista

Luigi Stosia

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Situata in Via Garibaldi, quest’opera è antropomorfa. Utilizzando tubi fluorescenti rossi, l’artista ha realizzato una sorta di “galleria”, costituita da diverse coppie di uomini e donne con i piedi puntati verso i margini della strada e le teste appoggiate l’una all’altra. Esse simboleggiano l’unione affettiva e mentale tra uomo e donna.

Fabrizio Rossi Photography

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Location Piazza San Carlo Artista

Installazione Comunale

Albero di Natale L’albero di Luminarie Gold & Silver, con i suoi colori oro e argento tipici del periodo del Natale, è situato in Piazza San Carlo dal 2 dicembre al 6 gennaio.

La caratteristica principale dell’albero sono dei rosoni, ispirati ai disegni del pizzo chantilly, illuminati da oltre 27.000 lampadine LED di colore bianco.

Alto 22,5 metri, con un diametro di 10 metri, nel 2019 è stato inserito nella rivista “Vanity Fair” tra gli alberi di Natale più belli al mondo.

Vi sono inoltre delle strisce di quattro diversi colori (bianco, rosso, verde e blu) che si illuminano in modo alternato, facendo cambiare il colore dell’albero e creando un effetto di luce stroboscopico.

Domenico Gervasi Photography

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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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CALCATA

IL PAESE DEGLI ARTISTI A cura di Mariangela Boni

Appare all’improvviso Calcata, dopo l’ennesima curva della ripida strada provinciale che conduce al piccolo comune viterbese. Questo borgo medioevale, arroccato su uno sperone di pietra tufacea e circondato dalla fitta vegetazione della valle del Treja, sembra un’isola sospesa. È meraviglioso il contrasto che si crea tra il colore ocra del tufo e il verde intenso degli alberi.

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CALCATA

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Viterbo

Calcata

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CALCATA

Mariangela Boni Photography

Al borgo si accede da un’unica porta dove campeggia il simbolo degli Anguillara: due anguille che si incrociano. Nel Duecento, infatti, questo borgo entrò nei possedimenti della nobile famiglia che, oltre alle giĂ citate mura, fece costruire anche un castello. Tuttavia, per via della posizione isolata, Calcata non fu mai protagonista di scontri. Ma procediamo con ordine.

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Mariangela Boni Photography

Dal parcheggio alle mura che circondano Calcata mi separa una breve passeggiata, che mi permette di ammirare il paese nella sua intera bellezza.


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CALCATA

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La storia La valle nella quale sorge Calcata iniziò a formarsi settecentomila anni fa. Il Tevere fu deviato da eruzioni vulcaniche oltre il monte Soratte, ma nel frattempo nasceva da nuove sorgenti il Treja, che si ricongiunge col Tevere ad altezza di Civita Castellana. Essendo il Treja un fiume rapido e mai secco ha attratto abitanti sin da 35 mila anni fa. I cacciatori seguivano i branchi, lasciandosi dietro piccoli insediamenti nelle ricche valli fluviali come base per i mesi invernali. Mariangela Boni Photography

Come è emerso da uno studio approfondito della British School, Calcata è tra gli insediamenti più recenti della vallata di un sito falisco che scomparve nel V secolo a.C. Sembrerebbe però che per tutto il periodo falisco e romano la rupe di Calcata rimase deserta. A testimoniare la presenza di questa antica popolazione dell’Etruria meridionale rimangono numerosi resti sparsi nei dintorni di Calcata, quali le rovine della città di Narce, posta sullo sperone tufaceo opposto a Calcata e le necropoli di Pizzo Piede.

Nella valle sono visibili anche altri ruderi, di epoca altomedioevale, come la torre mozza di Santa Maria. Ancora oggi rimane un mistero il periodo in cui Calcata divenne un centro abitato e assunse questo nome: la prima documentazione risale al Settecento, durante il pontificato di Adriano I. In tale documento, il borgo appare come una domuscultae, ovvero una delle tenute papali destinate a garantire l’approvvigionamento di Roma.

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CALCATA

Mariangela Boni Photography

Nel corso dei secoli fu oggetto di scambio tra gli Anguillara e i Sinibaldi. Nel 1828 diventò parte del ducato di Rignano sotto il dominio della famiglia Massimo e successivamente, nel ‘900, della famiglia Ferrauti. In epoca fascista fu emanata una legge che obbligò i calcatesi ad abbandonare le loro abitazioni, in quanto il paese era considerato pericolante a causa dei crolli della pietra tufacea. Fu costruito, quindi, un nuovo centro un paio di chilometri più a valle: Calcata Nuova. Fortunatamente però il destino di Calcata era ben altro ed passò ben presto da “il paese che muore” al “paese degli artisti”.

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Infatti, negli anni Sessanta vi si sono stabiliti numerosi artisti, da pittori a musicisti, da attori a scultori in cerca di una vita genuina e autentica lontano da una realtà industriale e consumistica. Ancora oggi, si possono incontrare artisti all’opera nei loro studi o botteghe oppure ammirare le loro creazioni negli spazi espositivi. Calcata è stata scelta come ambientazione per diversi film quali la scena della distruzione del paesello di Amici miei di Monicelli, del Decameron di Pasolini, de La mazzetta di Sergio Corbucci e del videoclip Una storia sbagliata di De Andrè.


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CALCATA

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Mariangela Boni Photography

Tra mito e realtà Calcata era rinomata anche nel mondo cattolico e costituiva meta di pellegrinaggio. La leggenda narra che nel 1527 fu catturato un lanzichenecco, che aveva partecipato al sacco di Roma e aveva depredato il Sancta Sanctorum di San Giovanni in Laterano. Il reliquiario contenente il santo prepuzio di Gesù venne nascosto proprio in una grotta a Calcata. In punto di morte egli rivelò il nascondiglio, dove effettivamente venne rinvenuto nel 1557. Da allora la chiesa iniziò a venerare la reliquia, concedendo

ai pellegrini un’indulgenza di 10 anni. In diversi tentarono di aprire il cofanetto contenente la sacra reliquia, ma solo una ragazza dall’animo puro riuscì nell’intento: in quell’istante un celestiale odore pervase il paese. Per 400 anni, l’1 gennaio, i fedeli celebrarono il giorno della santissima circoncisione, sfilando devotamente in processione per il paese. Pochi decenni fa la reliquia sparì di nuovo, forse rubata o forse nascosta all’interno della parrocchia, perché ritenuta imbarazzante.

Il borgo Dopo questo breve excursus storico, entriamo nel vivo della descrizione del borgo.

Dopo una breve salita, si sfocia sulla piazza con la Chiesa del SS. Nome di Gesù e il Castello degli Anguillara.

Purtroppo, la mia visita avvenuta in un giorno feriale durante la pandemia di Covid - 19 ha fatto sì che mi trovassi di fronte a un paese svuotato, con molte botteghe, ristoranti, il Castello e la chiesa chiusi.

Questi sono gli unici due monumenti del paese. Di fronte si ergono tre strani troni di tufo, dono dell’artista Costantino Morosin.

Ciononostante, sono rimasta affascinata ed entusiasta e cercherò di descriverlo al meglio. Una volta oltrepassata la porta d’accesso all’interno delle mura si entra nel paese pedonabile.

È un’opera intrisa di ironia che serve a ricordarci che, per quanto possa essere alto il nostro scranno, quando ci sediamo poggiamo sempre le natiche.

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CALCATA

La chiesa, risalente probabilmente al XIII secolo ad opera degli Anguillara, come testimonia lo stemma che campeggia sulla facciata principale, è stata ristrutturata dalla famiglia Sinibaldi alla fine del XVIII secolo. Si tratta di una chiesa molto semplice e raccolta, a navata unica. All’interno dell’altare maggiore c’è la nicchia dov’era conservata la sacra reliquia. Il Castello degli Anguillara risale al X secolo. Nel tempo è stato ristrutturato e ha cambiato funzione, passando da quella militare di “castrum” a palazzo nobiliare. Dell’architettura militare, risalente probabilmente a Ottone III (980-1002), rimane traccia nella torre a base quadrata, nelle mura merlate dotate di caditoie, nei passi delle catene tiranti ai lati dell’arco d’ingresso che testimoniano la presenza di un ponte levatoio, ormai perduto, che si calava sul fossato in tufo.

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In un inventario del 1803, si attesta la trasformazione definitiva da “castrum” a palazzo, compiuta per opera della famiglia Sinibaldi, con la costruzione di un primo piano e “un sottotetto quasi abitabile uso guardaroba” e la “sala di compagnia” affrescata. Dalla piazza parte un dedalo di viuzze, molto caratteristiche e molto curate che spesso conducono al ciglio del precipizio che circonda il paese: un’ottima difesa naturale! Le case, costruite in muratura o scavate nel tufo, presentano profferli o antichi portali; alcune sono state adibite a botteghe, altre convertite in ristoranti tipici, altre ancora in B&B. Al di sotto del livello delle stradine, molte case hanno grotte che fungono oggi da depositi e cantine e che in passato erano utilizzate anche come luoghi di culto e tombe. Ciò che colpisce passeggiando per Calcata è la presenza di gatti, evidentemente avvezzi ai turisti, che circolano, ti osservano o si riposano liberamente.

Mariangela Boni Photography

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Mariangela Boni Photography

Arte e natura L’arte a Calcata si diffonde anche al di fuori delle mura e interagisce con la natura che la circonda. Prima di entrare dalla porta, è impossibile non notare la presenza di alcune sculture lapidee che si snodano lungo il sentiero che conduce al bosco. Fanno parte del progetto “I Luoghi della S-Cultura: pause d’arte sul sentiero”, inaugurato nel 2013. Si tratta di 7 sculture realizzate dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma e dalla loro docente di scultura Oriana Impei. Il materiale principale utilizzato è la pietra locale, il peperino di Vitorchiano (VT), le cui parti dure di basalto respingono la lama del disco meccanico costringendo lo scultore a tagliarla con il fuoco. La scultura che inaugura il Sentiero è collocata in piazza Roma ed è Quattro Porte Genetiche di Rafail Georgiev: un blocco di materia che ricorda gli antichi obelischi della Roma Sistina.

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Successivamente ci si imbatte nell’Ascesa di Franca Letto, con una parte levigata che ricorda la realtà artificiale del borgo, in contrapposizione alla parte ruvida e frastagliata che rappresenta la natura, che crea la materia ma che può anche distruggerla, come rappresentato dalla colata magmatica. Cariatide, del sardo Amedeo Porru, raffigura una pecora tosata, in onore della sua terra. Ma il titolo gioca sul ruolo della cariatide classica, scultura a forma di donna che veniva utilizzata come sostegno architettonico, e del piperino utilizzato che non è affatto adatto a sostenere carichi. Metamorfosi nella Natura di Bekim Fisti ha tratto ispirazione dal Sacro Bosco di Bomarzo. Come nel gruppo scultoreo di G. L. Bernini, dove la mano di Apollo toccava la corteccia umana di Dafne, anche in questo caso nella figura umana è in atto una mutazione, ossia un reticolo vegetale che conquista la superficie e radica l’opera nel contesto.


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METAMORFOSI Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Arco Vitale di Chiara Santolamazza rappresenta la ciclicità mutevole dell’essere, ma anche la pienezza che armonicamente accoglie una cavità generatrice. Cappello di foglie di Oriana Impei è un omaggio alla figura femminile che genera, come la terra madre, un piccolo nucleo satellite. Questa è l’unica scultura in travertino noce imperiale, il materiale che si utilizzava per realizzare i busti degli antichi romani. L’ultima creazione, Incontro con la Natura di Solmaz Vilkachi, è stata realizzata utilizzando tutti i materiali delle sculture precedenti: peperino, travertino e tufo. Tre figure umane giocano e si divertono con dei tronchi d’albero: nel dialogo con la natura l’uomo può ritrovare sè stesso. Una perfetta sintesi di ciò che i Sentieri d’Arte vogliono rappresentare. Purtroppo, non essendo il sentiero interamente agibile non mi è stato possibile ammirare tutte le sculture. Ma questa sarà una buona ragione per tornare e per visitare anche il Museo Opera Bosco, ideato da Anne Demijttenaere e Costantino Morosin con l’intento di valorizzare il territorio attraverso l’arte. Si tratta di quaranta opere interamente realizzate con materiali naturali e raffiguranti i soggetti più disparati, disseminate in due ettari di bosco.

CAPPELLO DI FOGLIE Mariangela Boni Photography

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Cascate di Monte Gelato Sulla strada che conduce a Calcata ci sono le famose cascate di Monte Gelato. Esse sono situate all’interno dell’area protetta del Parco Regionale Valle del Treja, un parco che si estende per più di 650 ettari. Nei pressi del Monte Gelato il fiume Treja compone i suoi scorci più belli, con i salti che formano suggestive cascate e con i giochi di riflessi del rigoglioso bosco che lo circonda. Ci sono diversi sentieri, da quelli più semplici adatti a tutte le età a percorsi di trekking più impegnativi. Ci sono anche aree attrezzate per i picnic. Lungo i sentieri ci si può imbattere anche in tracce di insediamenti, da tombe etrusche ai resti di un’antica villa romana a un mulino dell’800 rimasto attivo fino agli anni Sessanta. Le cascate di Monte Gelato sono state utilizzate come set cinematografico per diversi film e serie TV quali: Lo chiamavano Trinità con Bud Spencer e Terence Hill, Cesaroni, Francesco Giullare di Dio di Rossellini, Per grazia ricevuta di Nino Manfredi, Superfantozzi con Paolo Villaggio, Don Chisciotte di Orson Welles e Storia di una capinera di Franco Zeffirelli.

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PORTO MUSEO DI TRICASE

A CURA DI ANTONIO PEDONE E SARA MANGIA

UN INVESTIMENTO IN CULTURA E NATURA È difficile stabilire se nel Salento abbia radici più profonde la cultura contadina o quella marinaresca. Per Antonio Errico, presidente dell’Associazione Magna Grecia Mare, il fatto che il capo frantoio venisse chiamato “nachiro” (termine che deriva dal greco “naùkleros”, ossia padrone della nave o nocchiere) è la dimostrazione che nel Salento la marineria, almeno in passato, fosse più diffusa dell’agricoltura.

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Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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PORTO MUSEO di TRICASE Siamo originari di due paesini dell’entroterra salentino, distanti una manciata di chilometri da Tricase e, pur avendo il mare a cinque minuti di distanza e amandolo quasi in maniera ossessiva, entriamo nella categoria di quelli per i quali l’olio e l’olivo fanno da padroni nelle immagini che meglio simboleggiano il Salento. Tricase Porto è un luogo di villeggiatura fra i più suggestivi ed eleganti di tutta la costiera orientale pugliese e si trova a metà di una delle litoranee più belle del mondo: la litoranea Otranto-Leuca. Durante l’estate, non sono rare le passeggiate al porto di Tricase, tuttavia non abbiamo mai approfondito nulla sul Porto Museo. Talvolta è proprio vero: “nemo propheta in patria” (“nessuno è profeta in patria”). E così, uno degli ultimi giorni di agosto, abbiamo deciso di impegnare un pomeriggio per conoscere meglio la nostra terra e abbiamo contattato l’Associazione Magna Grecia Mare, che gestisce il Porto Museo e porta avanti un modello di crescita economica, sociale ed ambientale applicato ad una comunità costiera proiettata nel Mediterraneo.

Tricase Porto

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Il Porto Museo di Tricase si trova al centro dell’area tutelata dal Parco Naturale Regionale “Costa Otranto, Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase” ed è stato istituito grazie alla sinergia dell’Associazione Magna Grecia Mare con istituzioni nazionali ed estere. È probabilmente l’unico esempio concreto di musealizzazione di un porto, del suo mare, del suo territorio costiero e della sua gente, da sempre vissuta tra il mare e la terra: un luogo di ricerca, raccolta, scambio ed approfondimento di conoscenze legate alle tradizioni del mare e della costa. Inoltre, è stata intrapresa una rotta di riscoperta dei valori culturali, storici, naturalistici e di relazione che il porto aveva con i vari popoli del Mediterraneo.

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Senza troppe formalità, Antonio Errico ci ha ospitati nella sede fisica dell’Associazione: un’accogliente casa museo, strutturata come se fosse l’interno di una nave. L’accesso ad essa predispone ad un’esperienza suggestiva, formativa, ricreativa e socializzante, a diretto contatto con gli oggetti antichi, le attrezzature e le testimonianze proprie della cultura marinaresca del Mediterraneo. Ogni angolo della casa museo è occupato da oggetti che generalmente si vedono sulle imbarcazioni, come reti da pesca, lanterne ad olio, tessuti per vele, bandiere, timoni, cime e nodi. Queste stanze costituiscono il luogo ideale per gli incontri e i laboratori che l’Associazione organizza, per incentivare il dialogo dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Anche la cucina è arredata come se fosse la “dinette” (sala da pranzo) di un’imbarcazione. Ed è proprio la tavola il luogo ideale per l’incontro tra le diverse culture dei Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Sono infatti degni di nota i numerosi laboratori enogastronomici che vengono tenuti all’interno della casa museo. Nei pressi della casa museo, sono ormeggiate le tradizionali imbarcazioni a vela latina, che è stata per molti secoli la vela regina di tutte flotte mediterranee, sino all’avvento dei motori a vapore.

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Le barche offrono una suggestiva e colorata visione a tutti i visitatori che passeggiano lungo le banchine e sono a disposizione di chi volesse vivere l’emozionante esperienza della navigazione, durante i percorsi didattici appositamente programmati dall’annessa Scuola di Antica Marineria. Nel corso della stagione invernale, le barche riposano nel cantiere del Museo, dove uno staff di artigiani, esegue la necessaria manutenzione degli scafi, dei loro alberi, antenne e vele, utilizzando tecniche antiche. Singolare e di grandissimo rilievo è la storia dell’ammiraglia della flotta del Museo: il Veliero Portus Veneris, simbolo del Porto Museo di Tricase, il quale ne porta l’antico nome. Il suo viaggio terminò a Tricase Porto nel maggio 2002, facendo approdare in Italia 98 rifugiati curdi iracheni, in fuga dalle loro terre.

Andrea Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Successivamente fu sequestrato agli scafisti per restaurarlo e farlo diventare simbolo di pace e messaggero di cultura, ovvero il caicco Portus Veneris, esemplare unico di trechandiri armato a vela latina, antica imbarcazione da pesca e da trasporto. Il veliero rappresenta un esemplare unico in quanto armato con due alberi e due vele latine, più una serie di fiocchi, secondo la tradizione più antica. Il Portus Veneris è infine un museo itinerante, sede di eventi ed appuntamenti culturali e di rappresentanza istituzionale, scuola dove apprendere e praticare le manovre tradizionali, suolo navigante della Città di Tricase e simbolo dello storico legame con gli altri popoli del Mediterraneo.

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Giorgia Acciaro Laura Rossini Mariangela Boni

VALLE DEL VELINO Una sfida contro il tempo per mantenere vive le tradizioni, la cultura, un prodotto antico, “povero ma …bello”. Al confine tra Lazio ed Abruzzo, il Velino si è fatto strada tra tre catene montuose segnando il passo per la via che i romani utilizzarono per il trasporto del sale: la via consolare Salaria.

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Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Valle del Velino

Da un lato uno dei versanti del Monte Terminillo, dall’altro il Monte Nuria, ed in mezzo di fronte alla Valle, Monte Giano, vetta riconoscibile dai tetti di Roma per la scritta che campeggia sulla sua cima formata da alberi di pino: DVX. “La pineta si estende per circa otto ettari ed è composta da circa 20.000 alberi di pino; aveva lo scopo di difendere il paese di Antrodoco dalle frane provocate dalle copiose piogge invernali, che più volte avevano provocato morte e devastazione, e costituiva un omaggio a Benito Mussolini. Fu realizzata nel 1939 (durante il periodo fascista) dalla Scuola Allievi Guardie Forestali di Cittaducale, con il contributo di numerosi giovani del posto, tramite il rimboschimento di una costa calcarea originariamente desolata”. (cit. Luoghi del cuore del FAI).

I versanti di queste montagne sono disseminati di alberi di ulivi e castagni suddivisi in piccole proprietà tramandate dai padri ai figli e per questo sempre più frazionate e difficili da gestire. Nel 1974 alcuni dei proprietari di castagneti, sostenuti dalle rispettive amministrazioni decidono di fondare una cooperativa per dividere gli oneri, massimizzare la produzione e la manutenzione dei terreni e far conoscere anche fuori dalla valle il prodotto che da sempre accompagna i loro inverni rendendoli più dolci e piacevoli.

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Ancora oggi portano avanti una campagna rivolta a chi magari possiede solo poche piante e non riesce ad occuparsene, oppure chi non è proprietario, ma desidera adottare un albero per godere dei suoi frutti.

La Cooperativa Velinia

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ricopre 4 comuni: Antrodoco, Borgo Velino, Castel Sant’Angelo e Micigliano. Ha sede nella zona industriale di Borgo Velino alle porte della città di Antrodoco al centro della valle. Nel rispetto della tradizione i soci della cooperativa sono riusciti a far attribuire al prodotto la denominazione IGP. Il frutto nasce dall’innesto delle piante selvatiche locali con una pregiata varietà fiorentina portata in questi luoghi circa nel 1500. Con mezzi e modalità diverse hanno cercato di rispettare le vecchie lavorazioni affinché il prodotto non perdesse tutte le sue caratteristiche. Oggi il prodotto cade dalla pianta quando maturo. Ogni produttore provvede personalmente alla raccolta giornaliera in un periodo che va dalla metà di Ottobre fino ai primi di Novembre, poiché potrebbero possedere appezzamenti di terreno a diverse quote. Ovviamente quelli più vicini alla vallata maturano prima rispetto a quelli oltre i 1000 metri. Ognuno provvede alla raccolta e prepara dei sacchi da portare in cooperativa. Da quel momento la cooperativa si occupa della selezione, lavorazione, vendita e distribuzione. Vengono introdotte in macchinario che le separa e le suddivide per grandezza in I°, II° e III° scelta. Poi, vengono messe nei Silos in ammollo per 8 gg. Successivamente si fanno asciugare in contenitori di legno per un paio di settimane prima di passare nel macchinario per l’asciugatura finale o essiccazione, a seconda della finalità di produzione/vendita. Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

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Mariangela Boni Photography Gli uomini, si arrampicavano sugli alberi per batterli, mentre era compito delle donne provvedere alla raccolta del riccio con delle pinze rudimentali, in dialetto chiamate mordacchie.

I prodotti finali vanno dal marrone semplice alla castagna secca per la produzione di farine, liquori o confetture. Prima della messa in vendita il marrone subisce una ulteriore selezione fatta a mano su un nastro scorrevole per poter separare quelle buone dagli scarti. Ultimo passaggio è il confezionamento in sacchi di juta per la grande distribuzione, oppure le tinozze di legno per la vendita al dettaglio. Un tempo, il processo di raccolta era più intensivo, organizzato e richiedeva più mano d’opera, mentre la lavorazione per il mantenimento del prodotto avveniva in maniera più naturale. Fino alla metà del secolo scorso, un tempo che, a dirlo così sembra lontanissimo, eppure apparteneva ai nostri nonni, la raccolta avveniva tutta insieme tramite la bacchiatura ossia la battitura degli alberi per mezzo di aste di legno. La particolarità di questa operazione riguardava la modalità con cui veniva operata: il tree climbing.

I ricci venivano adagiati in ceste di vimini di forma allungata chiamate scerpe. Queste venivano caricate sul capo dalle donne e portate nel punto comune di raccolta, il ricciaio. Ogni castagneto aveva due o tre punti di raccolta, piccoli avvallamenti scavati nel terreno riempiti con i ricci fino a formare cumuli piramidali. Venivano poi ricoperti da felci o frasche di castagno per proteggerli dal freddo in attesa che arrivassero a maturazione. Si attendeva circa un mese affinché, in autunno, la pioggia operasse la curatura dei frutti, operazione che oggi viene realizzata tramite l’ammollo nei Silos. Questo procedimento garantisce la conservazione del prodotto per diversi mesi. Solo dopo si provvedeva alla scardatura, processo con cui i ricci venivano battuti con il retro di un rastrello di legno con i denti molto larghi per estrarne i frutti. Modalità diverse che ancora oggi portano allo stesso risultato. Parlando con i soci della cooperativa ci rendiamo conto che è molto grande la soddisfazione per la qualità e la popolarità che ha raggiunto il prodotto, ma ancora molte sono le sfide da vincere.

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Laura Rossini Photography Una tra tutte la cura dei castagneti tra potatura e monitoraggio della salute delle piante. Ce ne parla Cesare Graziani responsabile di questo aspetto per la coopertiva. Il prodotto della cooperativa è biologico. Gli scarti della produzione sono lavorati, trasformati in humus e poi riutilizzati per concimare il terreno. La lotta ai parassiti che hanno attaccato le piante e che negli anni passati hanno messo a dura prova la produzione quasi azzerandola è stata vinta grazie ad un altro insetto inserito in natura.

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Questa lotta a carattere nazionale è stata paragonata al match di boxe tra Rocky e Ivan Drago. Il «torymus sinensis» (l’insetto buono) contro il cinipide «drycosmus kuriphilus» (quello cattivo) arrivato dalla Cina e per fortuna sconfitto. Purtroppo un’altra malattia miete ancora vittime tra questi alberi, il mal d’inchiostro. Si propaga molto velocemente colpendo le radici e proprio per questo si deve agire in fretta per prevenire il contagio e salvare le piante.


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MAL D'INCHIOSTRO Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Giorgia Acciaro Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

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Cesare ci accompagna su Monte Nuria dove si trova il castagneto della sua famiglia, originaria di Colle Rinaldo frazione di Borgo Velino. Qui ci sono piante secolari, alcune delle quali hanno compiuto più di 500 anni. Facciamo una passeggiata tra questi alberi che ci raccontano la loro storia. Alcuni splendidi e maestosi, altri giovani e dalle forme avvolgenti, altri colpiti e bruciati dai fulmini o rovinati dalla malattia dell’inchiostro. Il castagneto è affascinante per i colori, le forme e per l’atmosfera che si crea. Siamo oltre i 1000 metri di altezza e passeggiando ci imbattiamo nella signora Seconda con la sua famiglia.

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Tre generazioni impegnate nella raccolta. Una gentilezza ed una disponibilità disarmante. Pur non essendo più giovanissima la seguiamo mentre si china a raccogliere castagne da terra con gesti lenti ma ritmati. Con delicatezza ripone i frutti nel suo grembiule, mentre suo nipote si lamenta della fatica. Scatta inevitabilmente la presa in giro. Abbiamo la sensazione di essere entrati in casa sua e da perfetta padrona di casa condivide con noi la sua merenda, delle castagne cotte sotto la cenere. Profumi e sapori d’altri tempi. Ci racconta delle sue piante ed un po’ della sua storia e di quella della frazione in cui vive: Colle Rinaldo.

Mariangela Boni Photography

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Colle Rinaldo.

Uno dei paesi arroccati che si affacciano su questa vallata. I resti di una torre antica, pochi vicoli che collegano le case della frazione di Borgo Velino. Qui gli abitanti residenti si contano sulle dita di una mano. Sono luoghi che si ripopolano e rivivono in primavera ed estate. Storie di borghi come ce ne sono tanti in tutta Italia. Ognuno con le proprie tradizioni, il proprio dialetto. Cesare, si offre come guida. Una telefonata e riesce a reperire chiavi per aprire vecchie porte di case e cantine. Ci racconta un po’ la storia del paese e qualche aneddoto del libro che sta scrivendo per non perdere la memoria.

Utensili che vedeva usare dai suoi nonni, frasi in dialetto che non si ascoltano più, vecchie tradizioni, sapori, odori che nessuno vorrebbe perdere mai, ma che inevitabilmente stanno svanendo con l’ultima generazione di chi le ha vissute e custodite. Un volta all’anno, tra gli appuntamenti in calendario tra feste religiose e sagre di paese c’è Sapori d’altri tempi, una manifestazione itinerante in cui si aprono le vecchie cantine “vestite a festa” con utensileria d’epoca. Si riattivano i vecchi forni, si cucinano piatti della tradizione, si respira un’aria di festa di famiglia fatta di profumi e sapori cui tutti noi siamo affezionati. Le foto, purtroppo sono di repertorio poiché quest’anno causa COVID sono state annullati tutti gli eventi in programma. L’augurio e la speranza è quella di tornare a rivivere questi momenti.

Laura Rossini Photography

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Giorgia Acciaro Photography

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Mariangela Boni Photography

“lu focu de castagna più lu stuzzechi piu se ncagna" [ il fuoco di castagna più lo stuzzica più si arrabbia. ]

Il legno di castagno brucia velocemente e non mantiene la brace e contiene una quantità elevata di tannino per cui emette molte scintille quando si consuma.

"lu ciufulittu" [il piccolo flauto ]

Nella tradizione popolare locale era consuetudine che gli anziani regalassero ai bambini dei piccoli flauti, in primavera, ottenuti dalla corteccia tenera dei giovani ricacci utilizzati nella pratica dell' innesto.

"lu calenne 'e maiu" [il calende di maggio ]

Era usanza il primo maggio cucinare la minestra delle cosiddette virtù, ossia, gli ultimi legumi rimasti prima della nuova raccolta quali ceci, fagioli, lenticchie. Questa veniva accompagnata da un’altra tipica zuppa di castagne essiccate nella "rate" un graticcio rudimentale fatto di frasche e appeso sopra i camini delle case contadine.

Si ringrazia la Cooperativa Velinia nella persona del presidente Mauro Pompei, Cesare Graziani rappresentante della ricerca scientifica e della situazione dei castagneti ed autore del libro Quattro decenni di cooperazione nel territorio del Marrone Antrodocano tramite la Cooperativa Velinia. Altre informazioni sono reperibili sul sito ufficiale della Cooperativa:

www.coopvelinia.it Giroinfoto Magazine nr. 63


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Il volume raccoglie per la prima volta il meglio della ritrattistica di Giovanni Gastel, uno dei fotografi italiani più noti al mondo.

Oltre 200 ritratti di persone note e meno note, da Obama a Ettore Sottsass passando per Bebe Vio, Germano Celant, Roberto Bolle ed altri, che come dice Gastel stesso “raccontano il mio mondo, le persone che mi hanno trasmesso qualcosa, insegnato e toccato l’anima”.

24 × 30 cm, 208 pagine 230 b/n e 10 colori, cartonato. ISBN 978-88-572-4471-6

Giovanni Gastel Barack Obama

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Giovanni Gastel Bebe Vio

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Per Gastel il ritratto è l’attività prediletta e il modo di entrare in rapporto con i moti più profondi del proprio animo: “io non sono uno specchio, io sono un filtro. Il ritratto che io farò di te sei tu, che vieni filtrata da quello che sono io (le mie paure, le mie gioie, le mie solitudini, le mie poesie) e poi uscirai sotto forma di interpretazione di te. Io do la mia lettura … che non è la lettura assoluta. Io filtro attraverso tutto quello che ho letto, visto, studiato e ti restituisco …”.

Giovanni Gastel Giorgio Forattini

Giovanni Gastel Germano Celant

Giovanni Gastel Franca Sozzani

Giovanni Gastel Morgan

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RITRATTI VIP

Giovanni Gastel Vasco Rossi

Giovanni Gastel Carolina Crescentini

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Giovanni Gastel Monica Bellucci

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FIUMARA D'ARTE

A cura di Rita Russo Il difficile momento che stiamo attraversando, nel quale a causa della pandemia da Covid 19 è impossibile fruire di musei e centri d’arte al chiuso, è senz’altro quello migliore per visitare la “Fiumara d’arte”, per gli amanti di quella contemporanea e della natura.

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Si tratta, infatti, di un un vero e proprio museo a cielo aperto, visitabile in qualsiasi periodo dell’anno, nel quale le 12 opere monumentali di cui esso è composto sono collocate su un itinerario che si snoda lungo una vasta area, dal suggestivo ed articolato paesaggio naturale, che comprende gran parte del bacino idrografico della fiumara di Tusa, da cui il nome di Fiumara d’arte.


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Ci troviamo, dunque, sui Monti Nebrodi (Sicilia nord orientale), nel comprensorio del consorzio intercomunale “Valle dell’Halaesa”, costituito tra i comuni di Tusa, Santo Stefano di Camastra, Pettineo, Motta d’Affermo, Mistretta e Castel di Lucio, in provincia di Messina. In particolare, la fiumara di Tusa, è l’antico fiume che un tempo scorreva tra i monti Nebrodi fino all’antica Halaesa, città siculo greca, il cui territorio coincide con il territorio comunale di Tusa, della quale sono ancora visibili alcuni resti. Questo tipo di corso d’acqua, a differenza dei fiumi e dei torrenti, presenta un corso breve, molto largo e ciottoloso ed un regime stagionale costituito da impetuose e copiose piene durante l’inverno e portate scarse durante i mesi estivi.

Rita Russo Photography

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FIUMARA D'ARTE

Santo Stefano di Camastra Castel di Tusa Castel di Lucio

Pettineo Mistretta

La Fiumara d’arte è facilmente raggiungibile percorrendo sia la statale 113, sia l’Autostrada A20 Palermo - Messina, imboccando l’uscita per Tusa.

stradale, sia per le differenze di quota che caratterizzano l’itinerario stesso, comprese tra 0 e circa 1000 m s.l.m. in corrispondenza del comune di Mistretta.

L’itinerario artistico, che convenzionalmente inizia da Castel di Tusa (sul mare), è percorribile preferibilmente in auto, sia per le chilometriche distanze tra le opere, tutte facilmente raggiungibili grazie anche ad una efficiente segnaletica

L’utilizzo dell’auto consente, quindi, di compiere il giro di tutte le opere in una giornata; ma ciò non toglie che, per i più allenati, la bici possa costituire il mezzo più idoneo ed ecologico per percorrere a tappe questo originale itinerario.

LA STORIA DELLA FIUMARA D'ARTE

Infatti, nel 1986 venne organizzata, nel comune di Pettineo, la prima delle sette edizioni della manifestazione denominata “Un chilometro di tela”, un'estemporanea di pittura eseguita da numerosi artisti su una tela stesa attraverso le strade del paese. Le opere così ottenute, una volta tagliata la tela, vennero ogni volta donate ai cittadini, le cui case diventarono "museo domestico”. Nel 1991 nacque l’Atelier sul mare, un museo albergo nel piccolo centro di Castel di Tusa e nel 1993 quaranta artisti ceramisti, provenienti da tutta Europa, realizzarono un’opera collettiva su un muro di contenimento di una delle strade della Fiumara, nel territorio di Mistretta, che divenne il “Muro della Vita”.

L’idea di Fiumara d’Arte nacque nel 1982 per iniziativa di Antonio Presti, imprenditore messinese per eredità e mecenate per passione, quando, per commemorare la morte del padre, commissionò allo scultore Pietro Consagra una grande opera che, immaginando sin da subito di voler donare alla collettività, venne realizzata e collocata sul letto della fiumara di Tusa, in prossimità della sua foce. L’inaugurazione della scultura, nel 1986, coincise così con l’annuncio della nascita del museo a cielo aperto, perché da quel momento Presti commissionò e finanziò negli anni successivi altre opere (dodici in totale), che furono collocate in vari punti del territorio della Fiumara, realizzando così un vero e proprio parco artistico, nel quale la bellezza del territorio si coniuga con la bellezza espressa attraverso l’arte contemporanea. È solo grazie alla caparbietà ed alla tenacia di Presti che il progetto della Fiumara andò avanti e divenne l’odierno parco scultoreo più grande d’Europa, nonostante le subite battute di arresto causate dai numerosi provvedimenti giudiziari intentati a carico del mecenate dalle autorità locali negli anni compresi tra l’86 ed il ’94, che lo videro più e più volte condannato per abusivismo edilizio, violazione della Legge Galasso, occupazione abusiva di suolo demaniale ed alterazione del territorio. Il caso giudiziario della Fiumara raggiunse anche la capitale divenendo oggetto di una interrogazione parlamentare per richiedere al Ministero dei beni culturali ed ambientali un intervento urgente allo scopo di porre fine alla persecuzione, da parte delle autorità locali, dell’iniziativa di Antonio Presti che, con la costituzione della Fiumara d’arte, avrebbe mirato esclusivamente alla creazione in Sicilia di un polo artistico e culturale di rilievo internazionale. Tra sentenze, condanne, appelli e reati caduti in prescrizione, Presti negli anni continuò a dare forma al suo progetto, seppur tra mille difficoltà, anche con altre iniziative culturali che coinvolsero il territorio e contribuirono a richiamare l’attenzione dei media. Giroinfoto Magazine nr. 63

Nel frattempo, le vicende giudiziarie, nonostante avessero rallentato la creazione del parco artistico, non fermarono l’eco e l’interesse che l’iniziativa culturale di Presti ottenne nel mondo dell’arte e della cultura internazionale, a tal punto che la Fiumara d’arte divenne set cinematografico di diversi film, tra i quali “Viaggio clandestino - Vite di santi e di peccatori” di Raúl Ruiz, regista cileno e mito dell'avanguardia, che progettò anche una delle camere dell'albergo. Fu l’anno 1994 a segnare la fine di tutte le vicende giudiziarie a carico di Presti grazie alla Corte di Cassazione che chiuse tutti i provvedimenti esistenti a suo carico. Nonostante però la Fiumara d’arte fosse ormai nota ai più, nessuna istituzione la prese in carico, con conseguente mancanza di manutenzione e rischio di perdita del patrimonio culturale esistente a causa del suo deterioramento. Fu il 2006 l’anno in cui, finalmente, la Fiumara d’arte venne riconosciuta ufficialmente dalla Regione Siciliana come Parco scultoreo e percorso turistico culturale con L.R. n.06/06 dal titolo “Valorizzazione turistica - Fruizione e conservazione opera di Fiumara d’Arte”, dopo quasi 25 anni di battaglie, sia legali che politiche. L’impegno di una vita è stato premiato e l’arte e la cultura hanno vinto su ogni altro interesse.


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In giro per la fiumara Approfittando di una tiepida giornata di inizio dicembre, per lo più soleggiata, come quelle che spesso la Sicilia ci regala fuori stagione, iniziamo il nostro percorso proprio da Castel di Tusa, frazione del Comune omonimo, un piccolo borgo marinaro che nell’estate appena trascorsa ha ottenuto il riconoscimento della bandiera blu per la splendida spiaggia “Lampare”. Tra le varie installazioni artistiche visibili lungo la passeggiata che costeggia la spiaggia spicca, per la sua lucentezza, quella denominata “Cavallo eretico”, ultimo dono di Antonio Presti, presidente della Fondazione Fiumara d’Arte, alla collettività di Castel di Tusa. Si tratta di una scultura in acciaio inox raffigurante un cavallo, opera dell’artista Antonello Bonanno Conti, realizzata su una struttura in lamiera zincata, alta 4 metri ed interamente rivettata, posizionata davanti al museo albergo “Atelier sul mare” a guardia e protezione della conoscenza con la sua potenza eretica. Così spiega Antonio Presti: “Eretico è oggi chi ha il coraggio di avere più coraggio, chi crede che solo - Noi - si possa trovare la vera realizzazione del futuro. Si tratta di una eresia laica, che si manifesta coi fatti e non con le parole. L’eresia della coerenza, del coraggio, della responsabilità, dell’impegno e dell’esempio più alto da trasferire al mondo che ci circonda”. Giroinfoto Magazine nr. 63


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Proprio di fronte al cavallo suddetto si erge, dunque, l’albergo museo che si può considerare il cuore pulsante della Fiumara d’arte, dal quale iniziare l’itinerario artistico. Si tratta di un art hotel, nato nel 1991, nel quale venti delle quaranta stanze di cui esso è composto, frutto della creatività di diversi artisti contemporanei, consentono al visitatore di vivere dentro l’opera e fruirla nella più totale essenzialità divenendo la propria temporanea dimora. All’ingresso dell’albergo salta subito all’occhio una scultura che rappresenta la Nike, opera dell’artista Maria Villano e che sostiene il portico d’ingresso quasi a voler segnalare che questo luogo si regge sull’arte. Infatti, al suo interno, tutto ciò che è presente la richiama. L’albergo è, generalmente, aperto tutto l’anno eccetto i mesi di gennaio e novembre, ma ogni sabato e domenica è prevista l’apertura delle camere d’arte che possono essere visitate con una guida che accompagnerà gli ospiti in un piccolo tour di questo museo più che originale. Nonostante non sia stato per noi possibile visitare l’albergo-museo, abbiamo comunque apprezzato le bellezze naturali del piccolo borgo, complici uno splendido sole e la quiete invernale. Imboccata la strada statale 113 in direzione Messina, raggiungiamo il lungomare di Villa Margi (Frazione di Reitano) dove ci attende una delle opere simbolo della Fiumara, ideata dal pittore Tano Festa e inaugurata nel 1989, intitolata “Monumento per un poeta morto”, dedicata al fratello poeta morto suicida, ribattezzata dalla gente del luogo come “Finestra sul mare”.

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Quest’opera, che è senz’altro la più visibile per la sua posizione geografica (vicina alla strada statale e sul mare), per le sue dimensioni e per il suo impatto visivo ed estetico, è costituita da una cornice azzurra rivolta verso il mare, alta 18 m, in cemento armato e ferro, decorata da nuvole. La presenza del monolite nero che buca la finestra rappresenta il senso della nostra esistenza che interrompe la serenità che la finestra incornicia.

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Riprendendo la statale, alla rotonda che troviamo poco prima di Santo Stefano di Camastra, imbocchiamo la strada provinciale n.176 direzione Mistretta che, lasciando il mare alle spalle, ci porterà nel cuore della Fiumara, consentendoci di raggiungere una per una le altre opere, grazie ad una fitta ed efficiente segnaletica stradale; mentre il paesaggio muta man mano che saliamo di quota e ci regala panorami incantevoli in cui si alternano morbide e verdi colline a crinali rocciosi più o meno aspri, tra i quali quasi sempre è possibile scorgere il mare e sull’orizzonte anche qualcuna delle isole Eolie. Lungo questa strada, in buono stato ma piena di curve, superato il centro abitato di Reitano, il primo dei cartelli della Fiumara che incontriamo ci indica che siamo prossimi ad una delle opere più note e misteriose del parco e proprio per questo non visitabile. Si tratta, infatti, della “Stanza di barca d’oro”, opera concettuale, realizzata nel 1989 dall'artista giapponese Hidetoshi Nagasawa, ubicata dentro un vano ricavato nella parete del monte che delimita il greto del torrente Romei, in territorio di Mistretta. Quest’opera, molto suggestiva a detta di chi ha avuto la fortuna di vederla solo per il giorno dell’inaugurazione, è costituita da un vano ipogeo rivestito di lastre metalliche nel quale si evidenzia la sagoma di una barca, capovolta e rivestita di foglie d’oro, raccordata al suolo dal suo albero maestro in marmo rosa. Quest’opera è stata sigillata con una porta per volere dell’artista, proprio il giorno successivo l’inaugurazione, per far sì che essa possa vivere solo nel tempo attraverso l’energia mentale della memoria. Dopo pochi chilometri, raggiungiamo l’abitato di Mistretta, una cittadina dall’antica storia poggiata su una cima, tra i boschi dei Monti Nebrodi, il cui territorio si estende tra gli 850 e 1100 m s.l.m.. Questa cittadina, che dista 15 chilometri dalla costa, per la sua conformazione geografica è chiamata anche “Sella dei Nebrodi” e da qualsiasi punto di essa si gode di un panorama spettacolare tale da far spaziare lo sguardo dalla montagna al mare. Questo splendido scenario viene arricchito in inverno dalla presenza della neve. Giroinfoto Magazine nr. 63


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Mistretta, ricca di storia e di dominazioni, è piena di chiese, palazzi nobiliari e fontane e sul punto più alto del paese si trovano i resti del Castello, edificato dai bizantini e ristrutturato prima dagli arabi e poi dai normanni. Il suo abbandono, nei secoli successivi, ne ha lasciato oggi solo i ruderi. Tra i musei presenti nella cittadina spiccano, tra gli altri, quello civico che custodisce dipinti, statue e reperti che raccontano la storia multietnica della città ed il Museo Regionale delle Tradizioni silvo-pastorali “Giuseppe Cocchiara”. Inoltre, sul territorio di questo interessante paese, che ricade all’interno del Parco dei Nebrodi, non mancano neppure aree di interesse naturalistico come un laghetto ubicato tra i boschi alle pendici di Monte Castelli e diverse cascate, copiose per lo più nei mesi di marzo - aprile quando la neve che si scioglie ne alimenta il corso, di cui la più alta presenta un salto di circa 35 m.

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Lasciato il paese di Mistretta alle spalle, riprendiamo la strada provinciale 176 alla volta di Castel di Lucio, lungo la quale dopo circa 7 km, in un breve tratto rettilineo, ci salta all’occhio la successiva opera della Fiumara, ossia “il Muro della vita” (chiamato anche “Muro della Bellezza”), frutto di una collettiva di 40 artisti ceramisti che nel 1993 hanno arricchito il muro di contenimento della strada con altrettante opere in terracotta, restituendo all’anonima struttura, bellezza ed originalità e rievocando anche elementi della tradizione artistica siciliana. Durante gli spostamenti lungo le strade della Fiumara, la prudenza non è mai troppa non solo per le curve che si susseguono frequentemente, ma perché non mancano sorprese che talora rallentano ancor di più l’itinerario. È facile, infatti, imbattersi in nutrite mandrie di bovini che attraversano lente la strada per raggiungere il pascolo o, meglio ancora, mandrie di asini, animale tipico dei Nebrodi, che pascolano tranquillamente lungo la strada o camminano, talora, al centro di essa.

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Ripresa la strada provinciale, dopo circa 11 km, arriviamo a Castel di Lucio, piccolo centro abitato di circa 1200 anime, il cui nome fino al 1863 era Castelluzzo. Dopo un rapido giro per le erte e strette vie del paese, riprendiamo la strada provinciale, direzione Pettineo, per raggiungere dopo soli 2 km una tra le più affascinanti e suggestive opere della Fiumara, il “Labirinto di Arianna”, che proprio per la sua collocazione in cima ad una altura, è ben visibile dalla strada provinciale. L’opera, realizzata nel 1989 da Italo Lanfredini, è una costruzione circolare in cemento dipinta di rosso, all’entrata della quale si erge un arco a sesto acuto. Una volta raggiunto il labirinto è difficile resistere alla tentazione di entrarvi e percorrerlo interamente fino a raggiungere il centro nel quale, con grande sorpresa, troviamo

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un piccolo albero di ulivo ed è impossibile non essere rapiti dagli scorci di mare che si vedono ogni volta che si completa un giro. Quest’opera incarna l’archetipo del labirinto del mito di Teseo. Infatti, benché la struttura possa dare l’impressione di un groviglio inestricabile di meandri, esso, in realtà, ha uno svolgimento monocursale ed il supposto disordine è solo apparente. Un solo percorso, dunque, che non conosce né bivi né scorciatoie, che obbligatoriamente conduce al centro e da esso si esce nuovamente. Una metafora della vita e della nascita. Un percorso fisico e interiore al tempo stesso, al quale si accede per andare alla ricerca di se stessi per poi rinascere.


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Lasciata la magia del labirinto, proseguiamo il nostro percorso sulla provinciale, sempre in direzione Pettineo, per raggiungere, dopo alcuni tornanti, l’opera denominata “Una curva gettata alle spalle del tempo” dell’artista Paolo Schiavocampo, inaugurata nel 1988. L’opera, ubicata su uno spazio di campagna, ai margini di una curva, divide la via antica dalla nuova, inserendosi nel percorso come un punto focale. Essa consiste in un monolite in cemento armato e ferro che si avvolge su se stesso imitando il movimento di una vela battuta dal vento. Secondo l’artista, la parte centrale dell’opera riproduce in

verticale la curva della strada che sale e unisce il passato al futuro, un punto di sutura fra il nuovo e il vecchio, tra la tradizione e l'innovazione. Tampinati dall’incessante trascorrere del tempo, nel timore di non arrivare a chiudere il percorso museale entro le ore di luce, raggiungiamo le rimanenti tre opere senza visitare Pettineo, il paese del Museo domestico, nel quale proprio come suggerisce il titolo, le opere sono custodite a casa dei cittadini del paese ed a cui bisogna suonare per chiedere di vedere le opere realizzate durante i sette anni in cui si è tenuta la manifestazione “Un chilometro di tela”.

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Così, proseguendo sulla provinciale e deviando in direzione Motta d’Affermo, raggiungiamo, dopo circa 5 km di strada interna e articolata, quella che viene definita “Energia mediterranea”, opera realizzata dall’artista Antonio di Palma, inaugurata nel 1990. Si tratta di un’enorme onda in cemento armato, dipinta di blu e adagiata su un alto pianoro che guarda verso il mare, legando idealmente quest’ultimo alla montagna. Quest’onda, infatti, intende essere una sorta di materializzazione fisica sul posto di quel mare che si vede all’orizzonte. Riprendendo la strada appena lasciata in direzione del mare ed attraversando numerosi fitti uliveti, raggiungiamo, dopo altri cinque chilometri, l’ultima opera realizzata per la Fiumara d’arte nel 2010 da Maurizio Staccioli, denominata “Piramide - 38° parallelo”, una imponente struttura

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tetraedrica cava, in acciaio corten, che presenta una fessura lungo lo spigolo occidentale, posta in corrispondenza del 38° parallelo su un’altura che domina una buona parte della costa e fronteggia gli scavi dell’antica Halaesa. Essa, oltre a rievocare il rapporto dell’uomo con l’eterno come avveniva nell’antico Egitto, assume un particolare significato per la sua posizione geografica, essendo stata posta in corrispondenza del 38° parallelo, quando il 21 giugno diventa il luogo in cui, in coincidenza del solstizio di estate, si svolge il “rito della luce”, un evento di suggestiva bellezza in cui la piramide viene aperta e resa accessibile al suo interno e tutto intorno ad essa si compiono canti, balli e musiche fino al tramonto. Essa cattura la luce solare attraverso la fessura, registrando nel proprio ventre i riverberi luminosi dallo zenit fino al tramonto.


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Da questo punto riprendiamo ancora una volta la strada che ci ha condotti alla piramide, in direzione della costa, fino a quando non intercettiamo la strada statale 113. Imboccando quest’ultima in direzione Castel di Tusa, dopo pochi chilometri sulla sinistra ci colpisce lo spettacolo dell’ampio letto della fiumara, in corrispondenza della quale spicca immediatamente l’ultima opera del nostro tour ma la prima in termini di tempi di realizzazione. Si tratta, infatti, dell’opera di Pietro Consagra denominata “La Materia poteva non esserci”, commissionata da A. Presti all’autore per commemorare la morte del padre nel 1982. È una grande scultura frontale a due elementi paralleli e distinti nei colori bianco e nero, alta 18 metri, realizzata in cemento armato e raggiungibile attraverso una stradella che porta fin sotto la scultura e consente di “viverla”.

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Ciò che salta subito all’occhio è il contrasto tra quest’ultima e gli imponenti piloni del viadotto dell’autostrada soprastante, realizzati anch’essi sul greto del fiume anni dopo l’installazione della scultura. Essa, più delle altre, testimonia il rapporto uomo-ambiente attraverso la fusione armonica del cemento con il paesaggio naturale. Se da un lato questo fascinoso viaggio tra arte e natura, fuori dalle solite rotte turistiche, termina qui e ci lascia solo il tempo per godere delle ultime luci del giorno, dall’altro ci invoglia a ritornare per rivivere, magari in un altro periodo dell’anno e con occhi ancor più attenti, ciò che ci ha emozionato e ci ha fatto riflettere.


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Il Salzkammergut è una delle zone dell'Austria settentrionale, situata tra l'Alta Austria, il Salisburghese e la Stiria. È una terra caratterizzata da numerosi laghi e ampie valli tra le Alpi austriache, dove i paesaggi sono incantevoli e ricchi di grande storia. Il termine Salzkammergut deriva dal tedesco "salz", sale, e “kammergut”, parola che un tempo indicava un possedimento diretto di un Principe del Sacro Romano Impero e che più tardi divenne uno dei territori degli Asburgo. Lo stretto legame tra questa regione e il sale, che si riscontra anche nel suo nome, è uno dei motivi per cui le zone di Halstatt e del Dachstein sono entrate, nel 1997, a far parte dell'elenco dei patrimoni dell'Umanità dell'Unesco. Infatti, già dal II millennio a.C. questi territori conobbero una notevole prosperità grazie ai giacimenti di sale che vennero sfruttati fino alla metà del XX secolo. La storia di questa parte dell’Austria è però molto più antica: le prime tracce di insediamento risalgono al IV millennio a.C. Da quel momento iniziò a svilupparsi una società di grande importanza, che poté espandersi e prosperare grazie alla presenza di minerali e salgemma nelle montagne vicine, quelle del Dachstein. L’importanza di questa popolazione crebbe nel tempo e divenne così rilevante che si diede il nome di “cultura di Hallstatt” alla cultura archeologica che si sviluppò nell’Europa Centrale tra l’età del bronzo e gli inizi dell’età del ferro. Questo periodo di grande espansione durò all’incirca fino al IV secolo a.C., quando l’inizio dello sfruttamento di miniere di altre zone e una frana ridussero notevolmente l’interesse di Halstatt. Si susseguirono così nei secoli alti e bassi, periodi di grandi attività commerciali e periodi di relativo isolamento. All’inizio del ‘300 la città divenne un centro mercantile, segno della sua ripresa economica, ma ancora per molti secoli fu possibile raggiungerla soltanto attraverso il lago o tramite stretti sentieri tra le montagne. La prima strada fu costruita nel 1890 lungo la costa occidentale del lago su cui si affaccia, aprendo varchi tra le rocce con l’utilizzo della dinamite.

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Hallstatt si affaccia su un pittoresco lago, detto proprio lago di Hallstatt (Halstatter See), formato dal fiume Traun, affluente del Danubio, ed è stretta tra le montagne del Dachstein; tutto il terreno pianeggiante disponibile è stato occupato da case ed edifici e, per questo motivo, per poter raggiungere il paese si è reso necessario costruire la strada scavandola in parte nella roccia. Nonostante la presenza di questa via d’accesso il modo più suggestivo per raggiungere Hallstatt è tramite battello, partendo da Obertraun, sull’altra sponda del lago. Avvicinandosi dall’acqua in una giornata tersa e soleggiata si possono vedere le case colorate che si riflettono nel lago creando riflessi di luci e colori davvero incantevoli. Nella cornice delle verdi montagne che circondano e abbracciano il paese, già da lontano lo sguardo è attirato dalla figura slanciata e centrale della chiesa parrocchiale (Pfarrkirche) e dal suo campanile.

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Si tratta di un bell’edificio del XV secolo, posto in posizione panoramica e raggiungibile facilmente dal centro e dal molo con una breve camminata. Molti turisti si fermano all’esterno per ammirare lo splendido panorama sul lago e sulle montagne del Dachstein, ma anche l’interno vale una visita. Appena entrati si viene accolti da un’atmosfera di silenzio e raccoglimento, ben diversa dal continuo viavai di gente all’esterno. L’ambiente non è grande, ma ospita tre altari con ante in legno, di cui quello meglio conservato risale al 1510 e raffigura Santa Barbara e Santa Caterina ai lati della Madonna, posta al centro. L’illuminazione, ben posizionata, contribuisce a far risaltare i tocchi dorati dell’altare, simulando la luce naturale proveniente dalle alte vetrate.


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Intorno alla chiesa si trova il cimitero del paese, caratteristico e di piccole dimensioni vista la scarsità di terreno disponibile. Nella cappella di San Michele risalente al XII secolo, posizionata dietro la parrocchiale, si trova l’ossario (Beinhaus). Più di 600 teschi collocati in lunghe file fanno “bella” mostra di sé: si tratta dei resti esumati dal cimitero a partire dal ‘600 per far spazio ad altre sepolture, dipinti e decorati per ricordare i defunti a cui appartenevano. La decorazione dei teschi, tradizione tipica delle regioni orientali delle alpi (Tirolo, Salisburghese, Baviera…), si è conservata fino al XIX secolo, ma ad Hallstatt è continuata

fino al XX secolo, probabilmente proprio a causa della scarsità di spazio. L’attrattiva principale di Hallstatt è però… Halstatt stessa! Il panorama da cartolina, le case di legno, i balconi fioriti, le strette strade pedonali: tutto contribuisce a rendere questo posto un paese da fiaba. La piazza centrale, Marktplatz, circondata dalle casette colorate e dalle verdi montagne che si affacciano al di sopra dei tetti, trasmette tutta la bellezza e il fascino del Salzkammergut.

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Al centro della piazza si trova la statua della Santa Trinità, risalente a metà del 1700, che poco dopo essere stata posata dovette superare uno dei più grandi disastri avvenuti ad Hallstatt. Il 20 settembre del 1750, un grande incendio distrusse gran parte del centro del paese: scaturito proprio da una delle case che si affacciano sulla Marktplatz, l’incendio si propagò velocemente tra le case di legno e molte vennero distrutte. Col tempo gli edifici furono ricostruiti, i segni del disastro cancellati e gli alberi ripiantati. Un’altra delle peculiarità di questo paese con poco spazio disponibile è la presenza, nelle strade, di alberi da frutto, in particolare i peri, a ridosso dei muri delle case: un modo ingegnoso per decorare le facciate delle abitazioni e per sfruttare al massimo il poco terreno a disposizione.

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La storia millenaria di Hallstatt si può scoprire attraverso una bella esperienza tutta da vivere all’interno del World Heritage Museum. Partendo da circa 7000 anni fa si ripercorre la storia della regione, sempre strettamente legata alle miniere di sale. Si inizia dalla scoperta della prima miniera risalente all’età del bronzo, per passare ai reperti che appartengono all’età del ferro e alla Cultura di Hallstatt, fino ad arrivare ai Celti e poi ai Romani, anch’essi attratti dalle risorse del Salzkammergut. L’esposizione però non si limita alla storia antica: ci sono anche reperti risalenti al Medioevo e ai secoli più recenti e allestimenti sulla vita quotidiana riguardanti il lavoro, l’artigianato, le tradizioni e la religione di queste genti. Grazie, inoltre, ad ausili tecnologici come video, ologrammi e occhiali 3D il viaggio nella storia diventa ancora più emozionante e coinvolgente, rivelandosi adatto per grandi e piccini, soprattutto nelle giornate di pioggia che da queste parti non sono rare!

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Hallstatt, tuttavia, è solo una parte di territorio che è entrato a far parte del patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco. A fianco del pittoresco paese e del suo lago omonimo troviamo le montagne del Dachstein che, con le loro spettacolari grotte e i panorami mozzafiato, completano perfettamente le attrattive della regione. Per salire sui monti del Dachstein si parte da un ampio piazzale a poca distanza sia da Obertraun che da Hallstatt, comodamente raggiungibile con i frequenti autobus o con i numerosi taxi, oltre che ovviamente in auto. Se si dispone di tempo per una camminata tra il verde degli abeti è possibile seguire i sentieri che partono dal piazzale e salire, raggiungendo in alcune ore gli ingressi delle grotte e i vari punti panoramici. In alternativa, una comoda funivia, molto gettonata, permette di avvicinarsi a tutte le destinazioni migliori.

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Le grotte visitabili sono tre: la “Mammuthohle”, la “Koppenbrullerhohle”, e la “Eisriesenhohle” che, delle magnifiche tre, è sicuramente la più spettacolare! Eisriesenhohle significa “Grotta gigante di ghiaccio” ed è una delle più grandi al mondo del suo genere: è lunga circa 40 km, di cui l’unico visitabile è accessibile solo con visita guidata. La temperatura interna è costante, intorno a zero gradi, e questo permette al ghiaccio presente di mantenersi tutto l’anno. La grotta fu scoperta nel 1879 e da allora è stata esplorata, protetta e visitata. Con l’aggiunta di musiche e luci colorate le pareti ghiacciate presenti in alcune “camere” diventano ancora più spettacolari, regalando al visitatore un’esperienza unica e indimenticabile. Un ponte di corda, lungo circa 35 metri, sospeso su un abisso di ghiaccio, crea un percorso di pura adrenalina. Per i meno audaci c’è un passaggio più ‘stabile’, lungo le pareti, che permette di godersi lo spettacolo senza timori! Un’ultima curiosità riguarda gli orsi Ben e Boris, due ricostruzioni dell’orso delle caverne collocate in una delle camere visitabili con uno scheletro di questo animale, che

al passare del visitatore si rizzano in piedi ed emettono il loro ruggito: un modo per ricordare che queste grotte erano l’habitat naturale degli orsi. Se la Eisriesenhohle è la grotta più suggestiva, la Mammuthohle è sicuramente la più grande e da qui deriva anche il suo nome: è lunga più di 60 km e la distanza tra il punto interno più alto e quello più basso è di 1200 m. Questa grotta non è ancora stata interamente esplorata ed è possibile visitarne circa un chilometro. Qui dentro la temperatura è leggermente più alta, circa 4 gradi, per cui non sono presenti formazioni di ghiaccio, ma le dimensioni degli interni sono comunque incredibilmente impressionanti! Infine, la Koppenbrullerhohle, la meno visitata, è certamente la più curiosa: il termine “bruller”, infatti, significa “colui che urla”. La particolarità di questo nome si deve al fatto che la grotta è attraversata da vari ruscelli che, dopo forti piogge, diventano particolarmente impetuosi e creano rumori così assordanti che si ha l’impressione che qualcuno all’interno stia urlando!

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Oltre alle grotte, il Dachstein offre al visitatore due spettacolari piattaforme panoramiche di cui la “5fingers” (cinque dita) è una delle più emozionanti di tutte le Alpi. Formata da cinque passerelle sospese nel vuoto su uno strapiombo di 400 metri permette di avere una vista unica sulle montagne circostanti, su Hallstatt e sul suo lago. Le cinque ‘dita’ hanno tutte un differente design e la pavimentazione trasparente per permettere una visuale completa in ogni direzione: decisamente non adatta ai deboli di cuore o a chi soffre di vertigini.

La regione del Salzkammergut e, in particolare Hallstatt e il Dachstein, hanno meritatamente ricevuto la denominazione di Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco.

Viste le temperature interne e la durata di circa un’ora della visita, è bene attrezzarsi con vestiti pesanti anche in piena estate!

I turisti che decidono di visitare questi siti in una sola giornata possono acquistare alla biglietteria della funivia del Dachstein – Krippenstein il biglietto unico “Patrimonio dell’Umanità UNESCO” che comprende i biglietti di ingresso alle grotte e i relativi trasferimenti.

Conclusa la visita si ridiscende nuovamente con la funivia e si ritorna alla stazione di partenza dove, dal piazzale antistante, un taxi, sempre incluso nel biglietto, porta fino al molo di Obertraun da cui parte il battello per Hallstatt. Il viaggio in battello, di circa mezz’ora, permette di ammirare al meglio il lago e le montagne che lo circondano, oltre che di avere la veduta più spettacolare sulla fiabesca Hallstatt. Una volta sbarcati si può passeggiare per le vie pedonali e, in pochi minuti, si possono raggiungere tutti i principali punti di interesse.

Il percorso inizia proprio dal piazzale della funivia, la DachsteinBahn. Salendo con il primo tratto di funivia si raggiunge la stazione centrale del percorso dove uno spazio ampio in mezzo al verde ospita un ristorante, un negozio di souvenir ed un piccolo museo sulla storia delle caverne. Da qui, con una camminata di una decina di minuti su sentiero, si raggiunge l’ingresso delle due caverne principali ma il biglietto include l’ingresso ad una sola delle due, con relativa visita guidata. Giroinfoto Magazine nr. 63

Si può inoltre sorseggiare una buona birra artigianale su una panchina della Markplatz o gustare un piatto tipico della cucina austriaca nel dehors in un locale affacciato sul lago prima di tornare al punto di partenza in bus.


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HALLSTATT-DACHSTEIN

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Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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A CURA DI REMO TURELLO

Antonio Pedone Manuel Monaco Mari Mapelli Remo Turello Sara Mangia Silvia Scaramella Leonardo da Vinci giunge a Milano tra la primavera e l’estate del 1482, invitato da Ludovico Maria Sforza detto il Moro. Nel 1494 riceve una commissione dai frati domenicani per realizzare l’affresco che sarebbe divenuto una tra le opere più celebri al mondo: l’Ultima Cena.

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Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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In quel periodo Leonardo è ospitato dai padri al convento di Santa Maria delle Grazie. Trascorso più di un anno dal suo arrivo egli non ha ancora iniziato il suo lavoro e così, nella Pasqua del 1496, il Priore del monastero scrive a Ludovico il Moro quanto segue: “Mio Signore, sono oltre dodici mesi che avete incaricato Mastro Leonardo di questa commissione e in tutto questo tempo egli non ha fatto un solo segno sul nostro muro. Nel frattempo, le cantine del priorato si sono svuotate rapidamente e ora sono quasi asciutte perché Mastro Leonardo insiste per saggiare tutti i vini al fine di trovare quello giusto per il suo capolavoro, ma non ne avrà altri. […]“

Questo curioso aneddoto ci mostra un Leonardo appassionato di vino e ci introduce nella Milano di fine ‘400, governata da Ludovico il Moro. Ed è qui, nel cuore della città, che abbiamo visitato un gioiello inaspettato: la Vigna risalente ai tempi di Leonardo, custodita nel giardino di una splendida casa-museo. La storia di questo luogo si perde nei secoli e ha origine proprio ai tempi di cui vi stiamo raccontando. La Villa si trova nel Borgo delle Grazie, quartiere creato negli ultimi vent’anni del XV secolo da Ludovico il Moro, Duca di Milano. Quest’ultimo desiderava infatti radunare intorno a sé nuovi cortigiani di estrazione non nobile, ma a lui fedeli, e li ricompensò con ville e possedimenti. È questo il caso della famiglia degli Atellani, che prese il nome da Giacometto della Tela detto l’Atellano, un militare

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che lasciò la sua terra per andare al soldo di Ludovico il Moro e che, in cambio dei suoi servigi, ottenne uno dei due edifici che oggi fanno parte della Villa. Sia la Casa degli Atellani che la Vigna giungono fino al Novecento senza grandi cambiamenti, grazie al fatto che la zona nei secoli diventa sede di diversi convitti religiosi che qui avevano proprietà e terreni, come nei complessi monasteriali di San Vittore e di Sant’Ambrogio. Nel 1920, poi, l’architetto Piero Portaluppi recupera e restaura le pareti affrescate della Casa degli Atellani, la unisce all’edificio attiguo creando un unico cortile e, giocando con la simmetria, plasma la Villa che si può ammirare dal 2015. In quell’anno, infatti, la villa è stata aperta al pubblico come casa-museo.


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LA CASA DEGLI ATELLANI La struttura attuale della villa risale agli inizi del Ventesimo secolo, quando Ettore Conti ne diventa proprietario e decide di rinnovarla. Affida l’incarico a Portaluppi, che tiene particolarmente a questo progetto. Ha qui infatti l’occasione di applicare i suoi princìpi: mantenere e recuperare il passato e le opere già presenti ma allo stesso tempo innovare e sperimentare. Il suo intervento è globale: all'esterno si focalizza sui due cortili, che vengono uniti grazie alla creazione di un porticato centrale.

Manuel Monaco Photography Antonio Pedone Photography

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Di notevole interesse è l’ala di sinistra della corte unificata in cui spicca una parete completamente affrescata su cui è possibile ammirare angioletti, festoni, la Venere che esce dalle acque e una cicogna. Sembra che questi affreschi siano stati dipinti in occasione del matrimonio del figlio del Moro. Negli spazi interni invece riprende le decorazioni originali ma non solo: nella sala dello zodiaco infatti, sul pavimento, si possono notare i segni della parete abbattuta per ampliare il locale mentre il soffitto è diviso in otto spicchi originali del 1500 rappresentanti i pianeti.

Manuel Monaco Photography

Tra la volta e la parete si trovano 14 lunette: dodici riportanti i segni zodiacali più due “intruse”. Portaluppi ridisegna i dodici segni, ma tra Ariete e Toro inserisce una lunetta con le iniziali dei nuovi proprietari e tra Toro e Gemelli il motto in lingua francese “faire sans dire”, che può essere letto in due sensi: fare senza perdere tempo in chiacchiere o fare di nascosto, senza dire niente a nessuno. Il pavimento, in mosaico, riporta anch’esso i segni zodiacali esattamente in corrispondenza di quelli presenti nel soffitto, come in un gioco di richiami.

Antonio Pedone Photography

Mari Mapelli Photography

AFFRESCHI Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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SALA DELLO ZODIACO

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Sara Mangia Photography

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SALA DEI RITRATTI Proseguendo, si accede alla stanza detta sala dei ritratti. Ludovico il Moro cullava il sogno che la sua fama fosse tramandata ai posteri e questa sala è proprio il tributo che gli Atellani hanno voluto dedicare al loro duca. Nuovamente 14 lunette che contengono altrettanti ritratti di personaggi, tra dame e cavalieri, tutti appartenenti alla famiglia Sforza. Gli affreschi sono opera di Bernardino Luini, grande seguace di Leonardo, ma quelli presenti attualmente nella sala dei ritratti sono semplicemente delle copie, in quanto gli originali furono trasferiti ad inizio ‘900 al museo del Castello Sforzesco. Le decorazioni astratte al centro della volta sono invece ancora quelle originali. Per circa tre secoli le opere d’arte e i ritratti presenti in questa sala vengono praticamente ignorati dai più e solo nell’Ottocento vengono riscoperti e rivalutati tanto da entrare a far parte di guide turistiche e pubblicazioni che ne esaltano la bellezza. Per questo motivo, nel 1847, il governo austriaco presenta la prima di una serie di cospicue proposte di acquisto, sempre respinte. Nasce così l’urgenza di cercare di preservare queste grandi opere d’arte dalle mani dei mercanti d’arte, che vorrebbero portarle all’estero. Finalmente, nel 1902, la Giunta comunale di Milano decide di acquistarle e di spostarle nel museo artistico municipale, proprio all’interno del Castello Sforzesco, dove si possono ammirare ancora oggi. Ecco spiegato il perché delle copie. Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Silvia Scaramella Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

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SALA DELLO SCALONE Passando oltre la sala dei ritratti, si scopre un’altra delle meraviglie di questa villa: la sala dello scalone. All’interno sono collocati oggetti derivanti da varie epoche che rappresentano le diverse anime della villa: ci sono opere del ‘400 e del ‘500, ma anche una mappa della città di Milano del ‘700 e decorazioni del ‘900. Proprio tra queste ultime Portaluppi ha voluto concedere l’onore delle armi alle famiglie che sono state proprietarie della villa, incastonando gli stemmi gentilizi nella balaustra dello scalone. Il primo è ovviamente quello degli Atellani, proprietari fino al ‘600, quando Barbara della Tela sposò il conte Cesare II Taverna; il secondo stemma è quindi quello dei Taverna, famiglia che erediterà la proprietà senza mai abitarla.

descrizione dei beni custoditi che rappresenta anche il più antico inventario di cui ci sia traccia. Gli acquirenti saranno i Pianca, rappresentati nel terzo stemma della balaustra. Nel 1823 la famiglia Pianca promuove la riprogettazione in chiave neoclassica dell’edificio per mano dell’architetto Domenico Aspari, che ridisegna il prospetto della facciata su Corso Magenta. Dopo meno di trent’anni si ha però un altro passaggio di proprietà: l’unica erede dei Pianca sposa il Conte Martini di Cigala, discendente di una nobile famiglia torinese, il cui stemma è l’ultimo tra quelli rappresentati nella balaustra. Saranno proprio i nobili Martini di Cigala a vendere nel 1919 la villa ad Ettore Conti, ingegnere, industriale e magnate.

Nel 1778 la villa viene messa all’asta e, insieme alla pianta della proprietà, il contratto riporta anche una dettagliata

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Antonio Pedone Photography

STUDIO DI ETTORE CONTI L’ultima sala che compone la casa-museo è proprio lo studio del Conti, una stanza ricoperta di pannelli in legno intarsiato, piena di libri, nel cui arredo spiccano Cariatidi e Telamoni. Rappresentato nel ritratto affisso su una delle pareti, l’ultimo proprietario aveva una personalità poliedrica e con vari interessi; si occupò tra l’altro del restauro della chiesa di Santa Maria delle Grazie che si trova davanti alla villa. L’opera più preziosa dello studio è la tela su cui è raffigurata la Torre di Babele, opera del fiammingo Marten van Vackencorch. La parete sopra al camino è decorata con uno stemma di “alleanza”, concepito per il matrimonio tra Cristina di Danimarca e Francesco II Sforza. Si suppone che l’artista l’abbia realizzato in questa sala per rimediare alla mancanza di Cristina tra le donne della sala dei ritratti.

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Nei quarti a sinistra dello stemma si notano l’aquila dell’impero e il biscione concesso dai Visconti, per Francesco II; nei quarti a destra, per Cristina, i tre leoni rappresentanti la Danimarca, le tre corone per la Svezia e il leone d’oro per il regno dei Vendi sul Mar Baltico. Nel riquadro compaiono due leoni che rappresentano lo Schleswig, la foglia d’ortica dell’Holstein, il cigno per la contea di Storman e le due fasce rosse dell’Oldenburgo. Il matrimonio durò solo un anno e quando, alla morte di Francesco, Cristina rimase vedova e senza figli, il ducato venne assegnato da Carlo V di Spagna al figlio Filippo. Questa stanza cela un segreto visibile soltanto a pochi: nascosti dietro ai pannelli in legno vi sono i muri originali ricoperti di losanghe sforzesche.


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Sara Mangia Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

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IL GIARDINO DELLE DELIZIE Come la Villa, anche il giardino ha una lunga ed importante storia che lo porterà a cambiare aspetto più volte nel corso dei secoli. Come citato all’inizio, verso la fine del XV secolo accoglie Leonardo, Ludovico il Moro, la sua amante Cecilia Gallerani e diventa anche luogo di ambientazione delle novelle di Matteo Bandello. Il giardino era sicuramente molto più grande e selvaggio di come appare oggi; da un testo descrittivo del 1544 si scopre che erano impiantati vitigni, meli, peri, peschi, mandorli, ciliegi, nespoli, cespugli di bosso, ma anche lavanda, ginestre, rose e roselline. Lo splendore del ‘500 però non dura a lungo e quando a inizio Novecento la proprietà passa ad Ettore Conti, il giardino appare trascurato e decadente. Inoltre, all’interno, è stata costruita una seconda casa, poi accorpata alla villa da Portaluppi, lo stesso che riprogetta anche il giardino, assoggettandolo alle regole della simmetria e dell’ordine, ornandolo di siepi, aiuole, anfore, statue, fontane, pavimentazioni e cancellate.

Sara Mangia Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Il giardino e la vigna sono legati a Leonardo non solo perché il genio frequentò quei luoghi durante il suo soggiorno a Milano, ma perché furono donati direttamente a lui da Ludovico il Moro. Si possono trovare nel Codice Atlantico, tra gli schizzi del progetto di una casa, anche dati importanti relativi alla sua vigna, come la forma rettangolare, la posizione e la dimensione, poco più di un ettaro. La vigna rimane a Leonardo fino a quando i francesi, divenuti nuovi signori di Milano, la confiscano. Per questo Leonardo si rivolgerà direttamente al re di Francia e, dopo cinque anni, ne otterrà la restituzione. La vigna resiste nel corso dei secoli, di essa si hanno testimonianze scritte e alcune foto fino al 1940. I bombardamenti della II guerra mondiale su Milano fanno scoppiare un incendio all’interno della proprietà e ogni traccia delle viti presenti viene distrutta. Nel 2007, però, inizia il recupero da parte dell’Università degli studi di Milano, con l’équipe del professor Attilio Scienza e con il contributo di Confagricoltura e della Presidenza della Repubblica. Il gruppo si occupa di scavare e cercare eventuali testimonianze biologiche della presenza della vigna, di cui, come detto, ci sono foto di inizio Novecento.

Antonio Pedone Photography

Durante gli scavi vengono ritrovati dei fossili di radici della vite, da cui gli scienziati riescono ad estrapolare il DNA della pianta. Confrontandolo con tutti i ceppi di vite esistenti riescono a stabilire che si trattava al 99.79999% di Malvasia di Candia aromatica. Questo confermava anche gli scritti e gli studi di Luca Beltrami, degli inizi ‘900, che aveva lavorato su documenti storici della villa e della vigna tramandati dai religiosi fino a prima dell’incendio. In questo modo l’équipe dell’Università è stata in grado di ripiantare le stesse piante in vaso, in margotte, in modo da poterne accelerare la crescita e, nel 2018, è stata fatta la prima vendemmia. Delle 330 bottiglie ottenute in quell’anno la prima è conservata in una teca nella stanza principale della villa degli Atellani, all’interno di un decanter in vetro scuro, creato con la collaborazione di Alberto Alessi, partendo da un disegno presente nel foglio 12690 del Codice Windsor di Leonardo. In questo modo la vigna è tornata a produrre quel vino tanto amato da Leonardo, fonte di ispirazione, a suo dire, per le sue opere, come la vicina Ultima Cena.

Mari Mapelli Photography

RINGRAZIAMENTI Desideriamo ringraziare i proprietari della Casa degli Atellani e Greta Torresi per averci concesso l’opportunità di visitare e fotografare la Vigna e la Casa-museo. Per approfondimenti e ulteriori informazioni consigliamo di consultare il sito ufficiale:

www.vignadileonardo.com

Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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STORIE DI QUARTIERE

GENOVA QUELLA SCONOSCIUTA... STORIE DI QUARTIERE

A cura di Monica Gotta

Dario Truffelli Davide Mele Isabella Nevoso Luca Barberis

Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

Manuela Albanese Monica Gotta Stefano Zac


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GENOVA conosciuta come La Superba, forte del suo passato illuminato e della sua storia millenaria che affonda le sue radici addirittura nell’antichissimo popolo dei Liguri, è fatta anche di angoli sconosciuti ai più, anche ai genovesi. Questa volta ci addentriamo in questa Genova sconosciuta perché non si trova sul lungomare e perché non accoglie attrazioni turistiche note al popolo dei turisti. Però ci rivela tanti suoi segreti, tipicamente patrizi, tipicamente popolari, tipicamente genovesi insomma. Questo breve viaggio a Genova… quella sconosciuta… lo facciamo con una guida turistica. Non una qualsiasi, una guida che questa Genova sconosciuta ha visto nascere e l’ha ospitata per una parte della sua vita. È con Antonella Cama, accompagnatore e guida turistica, genovese di nascita che ci accingiamo a partire.

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STORIE DI QUARTIERE

la guida

Antonella Cama Il viaggio è la mia vita: sembra una frase fatta, ma è proprio la mia essenza. Anima girovaga e curiosa, appena mi è stato possibile ho cominciato a viaggiare e ne ho fatto una professione: l’accompagnatore turistico è una sorta di Virgilio, che accompagna le persone alla scoperta di territori sempre nuovi. Un angelo custode, che fa in modo che per loro tutto vada liscio, che si rilassino e si divertano, che abbiano il meglio della loro esperienza. Spesso va tutto bene e allora quasi l’accompagnatore non lo si nota. Qualche altra volta invece c’è l’imprevisto: il cliente derubato, un malessere improvviso, l’intoppo burocratico, addirittura la calamità naturale o chissà che altro. Pronti, ecco la soluzione! Perché, dietro un sorriso sereno, ci sono anni di studio e di preparazione e tanta, tanta passione! Durante i miei molti anni di viaggi mi sono spesso interfacciata con altre figure professionali, diverse e complementari, come quella della guida turistica e, ad un certo punto, mi sono resa conto che si può viaggiare dappertutto, ma bisogna conoscere anche casa propria. Anche questo è un viaggio. Così ho ottenuto anche questa seconda abilitazione. In effetti mi accorgo che, anche nella mia professione di guida, per i miei ospiti sono anche un po’ accompagnatore, sempre tenendo ben presente che il viaggiatore è in vacanza, non ha scelto me per avere una lezione, ma per conoscere un luogo, divertendosi. Così cerco di far loro conoscere l’arte e la storia, ma anche gli aneddoti e le curiosità, la vita quotidiana, perché si sentano anche qui un po’ a casa loro e perché andando via portino con sé la “mia Genova” e la “mia Liguria”. Lavoro con ospiti provenienti da tutto il mondo nelle lingue in cui sono abilitata, ossia inglese, spagnolo e francese. Nel rapporto con gli orientali, soprattutto giapponesi, trovavo insopportabile l’ostacolo linguistico nella comunicazione. Pertanto qualche anno fa ho cominciato lo studio di quella lingua: oggi non posso dire di padroneggiarla, ma sono felice di poter interagire con loro! Propongo anche visite a tema ai genovesi e agli italiani, perché spesso crediamo di conoscere i luoghi dove viviamo e lavoriamo, ma non li guardiamo mai veramente. Una chiave di lettura particolare, invece, ci consente di percorrere itinerari usuali con occhi nuovi e scoprire tesori inaspettati. Nel mio sito www.genovatour.it suggerisco alcuni percorsi in città e sul territorio, ma cerco sempre di capire che cosa piace al mio interlocutore, perché la visita che gli propongo sia fatta su misura per lui, cucita come un vestito, in base alle sue misure e ai suoi gusti… per divertirci insieme.

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Guardiamo quindi questa “Genova sconosciuta” con occhio attento ai particolari per vederla in tutta la sua bellezza nascosta. Quale punto di partenza è stata scelta Villa del Principe, uno dei palazzi nobiliari più famosi della città. Un edificio sorto a inizio del XVI secolo poco distante dalla Porta di San Tomaso o San Tommaso, oggi non più esistente. La porta venne demolita a metà del 1800, vittima della “marcia del progresso” e della costruzione della stazione ferroviaria di Principe. Si trovava tra le attuali Piazza Acquaverde e Piazza Principe e doveva la sua toponimia al monastero che vi sorgeva, di fronte al mare dove oggi c’è la Stazione Marittima. Ai tempi Villa del Principe sorgeva in una cornice di rara bellezza, di fronte al mare. Voluta da Andrea Doria, fu da lui scelta come sua dimora permanente.

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Per comprendere quanta magnificenza esprimesse questa villa, basti sapere che qui Andrea Doria ospitò diverse volte l’imperatore Carlo V. Attorno all’edificio si estendeva un suntuoso giardino. La parte antistante la villa, verso il mare, è ancora presente e visibile. Tuttavia la costruzione della Stazione Marittima ha interrotto il rapporto diretto del giardino con il mare. La parte posteriore, a terrazze, che si estendeva verso la collina di Granarolo è stata vittima dell’urbanizzazione insieme alla costruzione dell’Hotel Miramare e della stazione ferroviaria. Lasciamo Villa del Principe, ancora occasionalmente abitata dalla famiglia Doria Pamphilj, al momento non visitabile causa emergenza sanitaria e iniziamo questa breve escursione urbana.

Monica Gotta Photography

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Meta dell’escursione è la collina di Granarolo che si raggiunge con la ferrovia a cremagliera. Dalla stazione di partenza della cremagliera si gode di un piccolo scorcio su Villa del Principe, la Stazione Marittima e la Stazione Ferroviaria di Piazza Principe. Alzando lo sguardo verso monte invece si vede per l’appunto la collina di Granarolo. Ciò che colpisce immediatamente è l’estrema ripidità della zona. La cremagliera parte da Principe, compie la sua corsa tra i quartieri del Lagaccio e di San Teodoro e arriva a Granarolo. Da qui si raggiungono le mura e si arriva a Forte Begato, punto di partenza di un’altra nostra escursione di cui potete leggere sul N. 58 di Giroinfoto Magazine.

La cremagliera o tramvia di Granarolo e le sue storiche vetture rosse permettono di raggiungere il capolinea in Salita Superiore di Granarolo. Proprio per il colore caratteristico delle antiche vetture viene spesso chiamata La Signora in Rosso. La ferrovia fu realizzata tra il 1898 e il 1901 con la costituzione di una società privata che aveva come scopo quello di rendere maggiormente remunerativa la lottizzazione dei terreni collinari di Granarolo. Inizialmente fu denominata funicolare di Granarolo, per associazione con le altre funicolari di Genova come quella del Righi e di Sant’Anna.

Maurizio Lapera Photography

Monica Gotta Photography Questa ferrovia, del tipo “a dentiera”, fu costruita con questo sistema per via della forte pendenza presente sulla collina di Granarolo ed è una delle poche cremagliere ancora funzionanti in Italia insieme a quella di Superga (TO) e quella della città di Catanzaro. Sostanzialmente la ferrovia a cremagliera è un sistema a trazione utilizzato in casi di forte pendenza dove è necessario aumentare l’aderenza del mezzo destinato a trainare il treno. Per fare ciò è presente una rotaia dentata, la cremagliera per l’appunto, parallela ai binari e spesso posta al centro delle rotaie come nel caso genovese. Il veicolo è dotato di ruote dentate, collegate al meccanismo di trazione oppure al sistema di frenatura. Giroinfoto Magazine nr. 63

La cremagliera di Principe è una cremagliera Riggenbach, ingegnere svizzero la cui maggior occupazione fu lo studio di un sistema che permettesse di aumentare l'aderenza sulle linee a forte pendenza. La cremagliera di Granarolo è elettrica, conta diversi sistemi frenanti per fornire la massima sicurezza. Anche in materia di freni sono stati introdotte modifiche per agevolare l’attività del manovratore. È stato introdotto un freno ausiliario, a pedale, divenuto poi il vero freno di servizio. Anche il volante ha il suo sistema di sicurezza: in caso di malore, se il manovratore lascia il volantino, la vettura frena in automatico.


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Accolti dal personale di A.M.T. Genova, entriamo nella stazione di partenza e il conducente della vettura ci invita a salire su questa carrozza d’altri tempi. Con il suo colore rosso fuoco si staglia contro un antico muro genovese, fiera della sua veneranda età di ben 119 anni. E, pur così antica, continua a compiere le sue ben 58 corse ogni giorno. Basta guardala per notare i piccoli dettagli che ne fanno un esemplare storico, come le finestre bordate di legno, i sedili originali e la targa in bronzo della Piaggio al suo interno con tanto di data di ammodernamento. Le due vetture sono costruite con materiale tranviario e sono state restaurate diverse volte. Scopriamo che non è sempre stata rossa, ma durante la sua lunga vita fu dipinta anche di giallo e di verde. Il suo percorso è lungo circa 1.130 metri con un dislivello di 194 metri. In tempi recenti sono stati svolti interventi di restyling delle fermate. Questa ferrovia riveste una grande importanza per gli abitanti di questa zona. A parte le fermate di Principe, Via Bari e Granarolo le altre fermate non sono servite da strade ma solamente da ripide scalinate.

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E ora si parte! La pendenza si sente, ma la Signora in rosso segue imperterrita il suo percorso. Mentre si sale si susseguono scorci del panorama della città e frammenti dei quartieri della zona da una prospettiva inusuale. Certo è che alcune architetture che si snodano sotto i nostri occhi non sono poi così affascinanti come ci si aspetterebbe dalla Superba. Sono frutto della storia di urbanizzazione della città, di queste colline. Fino agli anni ’50 queste zone - Lagaccio, Oregina e Granarolo - non erano molto popolate. Vi fu anche una speculazione edilizia che determinò un abbassamento della qualità della vita degli abitanti. Divennero quartieri-dormitorio senza adeguata viabilità e privi di spazi per l’aggregazione sociale. Il breve viaggio sulla cremagliera è allietato dalla conversazione con il personale di A.M.T. Genova da cui scaturisce un vero amore per questa ferrovia a cremagliera. Dall’entusiasmo nel raccontare la storia della Signora in rosso non possiamo far altro che notare l’orgoglio con cui conducono e manovrano queste vetture centenarie. E per questo li ringraziamo, per averci trasmesso la passione con cui affrontano tutti i giorni salite e discese e la cura che riservano a un pezzo di storia genovese.

Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

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Arrivando alla stazione terminale di Granarolo, salutiamo i nostri chaperon e iniziamo la seconda parte del viaggio della giornata, quella a piedi. Il capolinea e deposito di Granarolo ha parte della sua struttura in legno e ricorda una baita. Al suo interno si ritirano le vetture della cremagliera ed è anche il luogo dove i il personale A.M.T. le cura giorno dopo giorno. Alcune testimonianze raccontano che il toponimo Granarolo derivi dal nome della Famiglia Airolo. Questa aveva possedimenti e, aggiungendo il prefisso gran, ecco che si arriva all’attuale denominazione. Tuttavia quest’ipotesi manca di documentazione adeguata. Granarolo è situato in collina, sopra il quartiere del Lagaccio e di fianco al Parco del Peralto. È collegato con la zona a valle del quartiere di San Teodoro e con la stazione ferroviaria da diverse strade urbane, aperte nel dopoguerra. Se torniamo indietro nel tempo scopriamo che prima esisteva solo la rapida mattonata di Salita di Granarolo.

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Come dall’interno della cremagliera dal borgo antico si vedono scorci della città, dal centro città al quartiere di Oregina, al Lagaccio che deve il suo nome il nome da un lago artificiale risalente al Cinquecento, costruito da Andrea Doria, alimentato da acqua piovana che, a sua volta, alimentava la Fontana del Nettuno nel suo palazzo di Fassolo. Insomma, scavando nella storia, in questa zona troviamo testimonianze cinquecentesche. Sveliamo anche una curiosità: nei pressi della fabbrica delle polveri e, tra le poche case allora esistenti, sorgeva fino dal 1593 un forno che produceva delle fette biscottate dolci molto apprezzate. In seguito presero il nome di Biscotti del Lagaccio, ancora oggi prodotti da diversi biscottifici di Genova e del Basso Piemonte. Fino alla metà del ‘900, dove ora sorge il quartiere moderno, c’erano orti e vigneti e i contadini locali si recavano al mercato di Piazza di Negro a vendere il loro prodotti. La già citata espansione edilizia e la forte crescita della popolazione nell’era dell’industrializzazione inglobò il borgo nel tessuto cittadino.

Isabella Nevoso Photography

Giroinfoto Magazine nr. 63


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Infatti, in passato, Granarolo era un antico borgo contadino, situato lungo la via medievale che dalla Porta di San Tomaso o San Tommaso portava verso la Val Polcevera. Divenne in seguito luogo di villeggiatura dei genovesi benestanti rendendola parte integrante della realtà cittadina moderna. Una zona collinare equiparabile a quella di Albaro nel levante genovese. Pur essendo parte del Comune di Genova, si trovava al di fuori delle mura cittadine. Durante il ‘600, poco a monte del nucleo antico di Granarolo, furono costruite le Mura Nuove a difesa della città e qui fu aperta una nuova porta, la Porta di Granarolo. Ancora oggi presente, è costituita da un unico fornice in arenaria sormontato da uno stemma marmoreo.

Manuela Albanese Photography

Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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In passato era provvista anche di un ponte levatoio, oggi scomparso. Lo spostamento della strada isolò la porta dal suo contesto originario. La si può raggiungere con un sentiero poco visibile. La parte esterna è riconoscibile mentre la parte interna è chiusa al pubblico in quanto in concessione a privati. Quindi le Mura Nuove inglobarono anche la zona di San Teodoro e la collina di Granarolo nella cerchia difensiva. Una parte di queste mura ha preso il nome di Mura di Granarolo che, ancora oggi, sono in discrete condizioni di conservazione.

Isabella Nevoso Photography

Davide Mele Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Al centro di Granarolo, nel punto di confluenza dell’antica strada che conduceva a Begato con quella discendente verso la città, si trova la Chiesa di Santa Maria di Granarolo, che un tempo si raggiungeva solamente a piedi prima che vi arrivasse la funicolare. Nel corso dei secoli ha subito numerosi ampliamenti e rimaneggiamenti. Non rimane nulla dell’originaria struttura medioevale ed oggi la vediamo nel suo rifacimento barocco. La troviamo chiusa e non possiamo ammirare le opere all’interno. Oltre a svariate opere d’arte, vi si trovano anche sculture di Onorato Toso, di cui abbiamo parlato nel nostro reportage sul Cimitero di Staglieno sul N. 51 di Giroinfoto Magazine. Vicino alla chiesa troviamo una casa con delle particolari scale esterne. Non è certo l’unica curiosità in un questo piccolo borgo dai colori pastello tipicamente genovesi.

Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

Proseguendo troviamo altre testimonianze dell’Ottocento durante il quale il regno sabaudo pianificò una serie di costruzioni difensive. Queste strutture, a forma circolare, in pietra e mattoni sono parzialmente visibili, alcune nascoste dalla vegetazione. Queste costruzioni difensive furono pensate dal Corpo Reale del Genio Sardo per sbarrare le vie naturali che risalivano dal fondo valle. Sono costruzioni incomplete in quanto il progetto fu abbandonato dopo pochi anni. La Torre di Granarolo, che sorge a poca distanza dall’omonima porta, è ben conservata e si trova su una mulattiera che scende verso Rivarolo. Dopo aver ammirato il panorama cittadino ai piedi della collina di Granarolo dal lato di ponente, si scende percorrendo le creuze e le mattonate genovesi verso Principe.


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Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 63


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Luca Barberis Photography

Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 63

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Come si diceva in precedenza, la collina di Granarolo fu luogo di villeggiatura delle famiglie benestanti genovesi. A testimonianza di quest’ipotesi scopriamo alcune ville ancora presenti nella zona. Villa Lomellini fu costruita nel XVI secolo dagli omonomi padroni ed ora è stata adibita ad istituto scolastico. Villa Cambiaso, che occupa una delle posizioni panoramiche più ambite in città, fu voluta dai Colonna nel XVI secolo divenne poi proprietà dei Cambiaso. Di Villa Cambiaso vediamo un suntuoso portale lungo la mattonata, purtroppo in rovina. Continuiamo a percorrere in discesa Salita di Granarolo fino ad arrivare in zona San Francesco da Paola dove sorge l’omonimo santuario e la Chiesa di San Rocco. Dal lato del Santuario di San Francesco da Paola la vista panoramica sulla città è a dir poco mozzafiato. Alla nostra destra svetta la Lanterna mentre verso levante si vede il Porto Antico e una parte di centro storico. La Chiesa di San Rocco, posta sul colle dietro al Palazzo del Principe, fu costruita nel XVI secolo su una precedente cappella trecentesca intitolata a S. Margherita, che faceva parte di un monastero di Monache Agostiniane. Fu citata per la prima volta in un documento del 1316. La chiesa venne rivisitata in stile barocco nella forma e dimensioni attuali all’inizio del 1600 per iniziativa e merito

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della famiglia Viale e col contributo delle famiglie Airoli e Monza. Lo stuccatore urbinate Marcello Sparzo decorò le pareti con racconti biblici e agiografici, statue e rilievi di Profeti e Santi. Il decoro della volta del presbiterio fu affidato a Giovanni Carlone che dipinse scene della vita di San Rocco. Sull'altare di San Rocco vi è una splendida statua del Santo, opera di Honoré Pellé. Continuando a scendere verso il nostro punto di partenza prendiamo Salita San Rocco, che si snoda in modo rocambolesco in mezzo a palazzi di ogni architettura e foggia. Ad un certo punto si può deviare per Via Pagano Doria dove si incontra il Condominio Miramare, costruzione di gloriosi tempi passati ristrutturata ed adibita ad uso abitativo. O meglio, è il già nominato Hotel Miramare. Orgoglioso testimone del passato, sorgeva in una posizione panoramica al centro di importanti vie di comunicazione. Durante la storia subì diversi riadattamenti, divenne ospedale, caserma e successivamente un luogo abbandonato. Solo nel 1998 fu acquistato da un imprenditore che lo trasformò in condominio di lusso e così si guadagnò il nome di “Signore del Porto”. Eccoci giunti al punto di partenza. Diamo un ultimo sguardo alla cremagliera, a Villa del Principe, alla Stazione Marittima e lasciamo questa Genova sconosciuta con cui oggi abbiamo fatto conoscenza!

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