N. 64 - 2021 | FEBBRAIO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.64 - FEBBRAIO 2020
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I trulli
DI ALBEROBELLO
Band of Giroinfoto TORI DI TORINO ARALDICA TORINESE Band of Giroinfoto
CHIESA DI BADIA CANTIGNANO Band of Giroinfoto
CITTÀ DEI PAPI STREGONERIE E SUPERSTIZIONI Band of Giroinfoto Photo cover by Laura Rossini
WEL COME
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LA REDAZIONE
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GIROINFOTO MAGAZINE
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Giroinfoto magazine
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
Attività
Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
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Promozione
Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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20 Febbraio 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni
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RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin Monica Gotta Manuel Monaco Gianmarco Marchesini Isabella Bello Rita Russo Giacomo Bertini
DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.
COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.
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CHÂTEAU D’IF
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CHIESA DI BADIA
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TORI DI TORINO
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I TRULLI di Alberobello Band of Giroinfoto
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TORI DI TORINO Araldica torinese Band of Giroinfoto Piemonte
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LA CHIESA DI BADIA Cantignano Band of Giroinfoto Toscana
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CHÂTEAU D’IF Il Conte di Montecristo Di Barbara Tonin
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THE BELT Jacopo Benassi Skira Editore
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ISOLA DI PROCIDA Golfo di Napoli Di Adriana Oberto
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IMMACOLATA CONCEZIONE AL CAPO Band of Giroinfoto Sicilia
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LEGOLAND Billund Di Gianmarco Marchesini
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STREGONERIE E SUPERSTIZIONI Nella Città dei Papi Band of Giroinfoto Lazio
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FOTOEMOZIONI DI Gaia Taberna Matteo Pappadopoli Americo Arcucci
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IMMACOLATA CONCEZIONE
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Floriana Podda Laura Cordì Laura Rossini Lorena Durante
A cura di Floriana Podda Quando in vacanza visito un luogo caratteristico, tengo molto a portare a casa le foto da guardare con amici e parenti e alcuni souvenir. Le calamite da lasciare attaccate al frigo, le tazze per la colazione al mattino, le conchiglie, i sassi o la sabbia raccolti in spiaggia durante una passeggiata, ma anche il vino, i formaggi e i dolci per ricordare i sapori della terra e le esperienze vissute. Con il tempo, tutti questi oggetti entrano nelle nostre abitudini e negli spazi di casa ma, ogni volta che ti soffermi a guardarli, riportano la mente a quel viaggio che rifaresti tante altre volte, per poter vedere quello che non sei riuscito a visitare o per poter rivedere ciò che ti ha fatto emozionare.
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Floriana Podda Photography
Con questo articolo voglio portarvi ad Alberobello, simbolo della Puglia e patrimonio dell'Unesco da più di vent’anni. Una magnifica realtà unica al mondo, dove la bellezza del luogo si mescola con la semplicità e gentilezza dagli abitanti. Si ritiene che il suo nome derivi da “Silva alboris belli”, che significa “Selva dell’albero della guerra”, in quanto il territorio presentava una densa vegetazione dominata da un’immensa quercia. La città è suddivisa in rioni e quelli principali sono il Rione Monti e il Rione Aia piccola, dove possiamo trovare circa 1.400 trulli.
Lorena Durante Photography
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il trullo
Lorena Durante Photography
Questi edifici vengono chiamati anche “tuguri” o “casedde” dagli abitanti di Alberobello, ma tutti li conosciamo come “trulli”. Si tratta di antiche costruzioni coniche che si compongono di 2 elementi strutturali principali: il basamento e la volta. Il basamento, generalmente a pianta circolare, è costituito da strati di pietre sovrapposte senza alcun legante in modo da contenere le spinte orizzontali che si ingenerano per la presenza della cupola sovrastante. Nella costruzione vengono ricavati nella muratura l'ingresso ed eventuali finestre, nicchie e camini. La parte interna della muratura viene di solito riempita da pietre più piccole e intonacato con la calce.
La volta del trullo, o "cannela", si rifà al metodo di costruzione di tholos, sovrapponendo una serie di anelli concentrici partendo dal colmo del basamento, riducendo il diametro, fino a realizzare una forma conica. Il tetto del trullo viene poi rifinito con il rivestimento a "chiàncole" o "chiancarelle" e con un "pinnacolo", oltre che l'intonacamento, delle superfici interne e l'imbiancatura a calce delle pareti esterne. Prima di iniziare la costruzione vera e propria, però, veniva realizzata una cisterna, scavata nella roccia per circa 3 metri, da cui si ricavava il materiale per la costruzione del trullo stesso. La cisterna ha la funzione di raccogliere l’acqua piovana che scende dal tetto lungo i canali laterali. pinnacolo
chiancarelle
cannela camino basamento
cisterna
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Floriana Podda Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Il tipo di costruzione a secco dei trulli, venne imposta ai coloni affinchè le loro abitazioni potessero essere smantellate in fretta: un metodo efficace per evitare le tasse imposte dal Regno di Napoli. Ma la maggior parte degli storici ritiene che questa tecnica edilizia fosse dovuta, soprattutto, alle condizioni geografiche del luogo, che abbondava della pietra calcarea utilizzata nelle costruzioni.
I trulli sono i protagonisti di Alberobello. Quelli rimasti risalgono al ‘500, costruiti per i contadini come abitazioni temporanee per bonificare o coltivare le terre. Le loro origini però sono più antiche, si crede che le costruzioni risalgano all’età del bronzo, ma purtroppo nessun resto è arrivato a noi. Per la loro forma così originale, alcuni le paragonano alle costruzioni di Harran in Turchia o, addirittura, alle Piramidi.
Floriana Podda Photography
Passeggiando tra le strette vie della città, mi immergo con tutta me stessa nello splendore di tale architettura. Fiori, colori e sapori, inoltre, fanno da cornice e mi accompagnano in una fiaba che racconta dell’amore per questa terra. Tutto intorno a me è pieno di dettagli. Su quasi tutti i tetti sono presenti dei simboli in cenere bianca, dipinti sul frontale del cono, che donano un fascino particolare alle costruzioni e accendono la curiosità di chiunque li osservi. Avranno solo uno scopo decorativo e un significato nascosto? Chiedendo alla gente del posto è possibile scoprire che possono avere un significato mitologico, magico, esoterico e anche religioso, ma nessuno sa con certezza cosa potrebbero indicare.
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Negli anni ‘40 sono stati trovati più di 200 simboli o iscrizioni. Si possono suddividere in diverse categorie: ci sono i simboli pagani, come l’aquila che rappresenta l’anima che si dirige verso il cielo e la libertà; i simboli primitivi, ovvero intrecci di linee, punti e linee curve, molto difficili da interpretare e collocare in un periodo storico preciso; i simboli magici, ovvero i segni zodiacali astrologici e planetari, ognuno dei quali possiede un significato preciso (ad esempio, il cancro è simbolo di augurio di buona fortuna); infine, ci sono i simboli cristiani, come il sole, che rappresenta la natura divina di Cristo, o la luna, che rappresenta l’uomo. I simboli grotteschi, invece, non hanno nessuna tradizione e sono frutto della fantasia del proprietario.
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Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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La punta del trullo, costituita da un pinnacolo decorativo, aveva, secondo alcuni, lo scopo di scacciare le influenze maligne o la sfortuna. Altri, invece, sostengono che i pinnacoli indichino “la firma” (o “il marchio”) apposta dal maestro trullaro, costruttore del trullo, che consentiva di contraddistinguere il proprio lavoro, oppure che si tratti di un elemento decorativo scelto dai proprietari del trullo per indicare il grado di ricchezza delle famiglie del tempo. Tuttavia, ancora oggi non c’è certezza sull'origine e sul significato dei simboli e dei pinnacoli, poichè tutto è stato tramandato verbalmente nel tempo. Un’altra particolarità del tetto a cono del trullo è che esso consentiva, nei giorni di pioggia, di raccogliere l’acqua che andava direttamente nel serbatoio situato nel sottopancia del trullo e, quindi, permetteva agli abitanti di avere acqua a sufficienza e con una discreta autonomia. Oggi ad Alberobello ci sono poche persone che abitano all’interno dei trulli e offrono la possibilità di visitarli. All’interno, il turista si imbatte in un unico angusto spazio, dove si trovano oggetti della quotidianità molto semplici.
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Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Laura Rossini Photography L’unico trullo che è stato costruito su due piani, nella metà del ‘700, è il trullo definito “Sovrano”, situato nel rione Aia Piccola e così definito dallo storico Giuseppe Notarnicola per la sua maestosità rispetto a tutti gli altri. Edificato per il sacerdote Cataldo Perta, fu utilizzato anche come spezieria, cenobio e oratorio campestre. Nel 1923 è diventato Monumento Nazionale. Altro Trullo particolare situato nel Rione Monti è la chiesa Sant’Antonio, edificata nel 1927 molto lontano rispetto a tutti gli altri trulli, come simbolo della lotta contro le altre religioni.
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Una scalinata conduce verso la facciata, che presenta un immenso rosone. Sulla destra, il campanile è parte integrante della parete perimetrale. Entrando, un ambiente a croce greca, con una cupola tipica del trullo, accoglie i visitatori. Diverse opere dominano l’interno della chiesa, in modo particolare il Cristo in croce di Adolfo Rollo, che ha avuto il compito di abbellire la chiesa dopo la Seconda Guerra Mondiale.
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Laura Cordì Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Oggigiorno, la maggior parte dei trulli sono adibiti a ristoranti, bar, b&b, hotel o negozi di souvenir e prodotti tipici. Si possono trovare prodotti locali, quali liquori, olii, orecchiette artigianali, e gadgets di tutti i tipi raffiguranti Alberobello. Il più tipico però è il trullo in gesso, plasmato a mano.
Alberobello è fiaba e mistero, è un paese pieno di dettagli curiosi e particolarità. Guardandomi intorno vedo frasi e citazioni o canzoni famose e tutto questo la fa sembrare ancora più magica.
A tavola ad Alberobello ci si può sbizzarrire tra terra e mare con le cozze fritte, i polipetti, le fave e la cicoria, il baccalà fritto e tanti piatti con le melanzane, le patate e i peperoni.
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Floriana Podda Photography
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Lorena Durante Photography
Laura Cordì Photography
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TORI DI TORINO
TORI DI TORINO A cura di Adriana Oberto
Adriana Oberto Andrea Barsotti Barbara Tonin Elisabetta Cabiddu Giancarlo Nitti Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Torino e il toro sono legati da sempre e per buone ragioni. Innanzitutto, perché la città, rifondata dai Romani nel I sec. a. C. col nome di Augusta Taurinorum sul luogo di un precedente insediamento delle popolazioni locali, deve il suo nome proprio a una di loro, i Taurini, che abitavano la regione fin dal III sec. a. C. In secondo luogo, perché il toro, in quanto simbolo, è sempre stato legato ed associato alla città di Torino, per quella particolare proprietà dell’araldica, che attraverso un simbolo rappresenta un luogo.
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L'araldica
L’araldica è lo studio del blasone, cioè degli stemmi. Si tratta di un linguaggio figurato, che porta l’osservatore a comprendere con facilità a chi o cosa si riferisce un avvenimento, a chi appartiene un artefatto, dove avviene una battaglia, o, nel caso del toro a Torino, il luogo in cui ci si trova. La necessità di utilizzare simboli risale ai tempi antichi e si diffonde proprio per la facilità del linguaggio. È la rappresentazione di immagini (antropomorfiche, zoomorfiche o fitomorfiche), che avevano un elevato valore simbolico e indicavano, ad esempio, valori e virtù di una famiglia o di un ente, alleanze, tradizioni, o glorie. A tali immagini possono essere inoltre associati parole o motti. Troviamo insegne araldiche nelle chiese e nei palazzi, ad attestazione della proprietà di tali luoghi. A partire soprattutto dal Medioevo, su queste insegne iniziano ad apparire simboli che riportano alle tradizioni locali, alla derivazione di un luogo, o all’appartenenza ad un gruppo. È proprio in tale epoca, infatti, che le città cominciano a conseguire una certa autonomia, ad avere un aspetto giuridico e delle rappresentanze. A partire dal XII secolo l’uso di uno stemma o di un gonfalone inizia ad attestare in modo generico l'appartenenza a una città. Nei secoli successivi si sviluppa, poi, l’araldica civica, ovvero quella delle città autonome. Sempre in questo periodo nascono gli stemmi civici “parlanti”, cioè quelli nei quali il nome del simbolo e il nome della città sono strettamente legati: ad esempio, l’aquila per Aquileia, la porta (ianua) per Genova, il monte e il falco per Monfalcone e il toro per Torino.
PIAZZA CASTELLO Barbara Tonin Photography
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Le origini del nome Il 30 gennaio del 9 a. C. la colonia romana di Augusta Taurinorum viene iscritta negli albi del governo romano come tribù romana rurale Stellatina. Già Giulio Cesare, nel 58 a. C. aveva creato in questo luogo un accampamento, dal quale era nata una colonia, chiamata Julia Taurinorum, nel 44 a. C. In seguito, nel 28 a. C., Cesare Augusto promosse la fondazione di una seconda colonia, che aveva un impianto a castrum (quello che vediamo ancora oggi). Con l’iscrizione come tribù, la città fu dotata della sua prima cinta muraria protettiva. Nonostante Torino sia nata come “Augusta”, dal nome dell’imperatore Augusto, la sua terra era strettamente legata
al nome della popolazione locale, quella che i romani avevano soggiogato. Si trattava dei Taurini, una popolazione di origini celto-liguri, che si era stanziata nell’area verso il III sec. a. C. Essi avevano creato un centro abitato, denominato Taurasia o Taurinia, che venne distrutto nel 218 a. C. da Annibale, quando attraversò le Alpi in direzione di Roma. Il nome dei Taurini, però, non deriva dal toro, ma dalla radice indoeuropea taur, che a sua volta sembra derivare dalla parola greca ορος (oros: montagna), oppure dal sanscrito shtur (massiccio, selvatico). Quindi, come mai il simbolo di Torino è il toro? Tutto ha inizio nel Medioevo.
Il toro di Torino Nato per assonanza, ma destinato a restare, il toro appare per la prima volta nel 1360 nel codice degli statuti della città. Si tratta del cosiddetto “codice della catena”, così chiamato perché, come succedeva all’epoca, era consultabile pubblicamente e lo si teneva legato per evitare eventuali furti. In esso sono raffigurati i santi protettori della città di Torino, Solutore, Avventore e Ottavio, la croce bianca in campo rosso di Amedeo VI di Savoia e, infine, il toro rosso in campo bianco. I colori sono importanti, in quanto il rosso e il bianco (che equivale all’argento) sono i colori dei principi e dei comuni, desiderosi di affermare la loro legittimità. Nel secolo successivo il toro viene rappresentato con le corna bianche, probabilmente per ragioni naturalistiche, oppure per rappresentare simbolicamente i due fiumi di Torino, il Po e la Dora. Nello stesso secolo viene collocato un segnavento sulla torre civica raffigurante un toro; si trattava di una statua cava e pare fosse stata costruita in modo tale da muggire quando tirava vento. Essa rimase un simbolo molto amato dai torinesi per quasi tre secoli, finché la torre non fu abbattuta nel 1801.
Adriana Oberto Photography
Nel frattempo, a partire dal XV secolo, i colori cambiano ulteriormente e diventano quelli attuali: un toro giallo in campo blu (o azzurro).
È tradizione pensare che tale colorazione derivi da un desiderio di giustificare un’origine celeste del toro stesso (e quindi della città di Torino), come si vede su un’incisione pubblicata sul frontespizio di Augusta Taurinorum di Filiberto Pingon del 1577: Mihi coelestis origo (ho un’origine celeste) A questo punto della storia, manca ancora un dettaglio dello stemma dei giorni nostri. A partire dal 1619, infatti, Torino diventa “contessa” di Grugliasco e può quindi aggiungere allo stemma la corona comitale con nove palle. Va inoltre notato come il toro raffigurato sugli stemmi della città di Torino sia praticamente sempre “furioso” (non si dice “rampante”), ovvero in piedi sulle zampe posteriori. Sono più antichi, e piuttosto rari, i tori “passanti”, cioè al passo, come quelli raffigurati sul palazzo degli Stemmi in via Po.
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TORI DI TORINO
Nel mese di gennaio, la Band piemontese di Giroinfoto è andata in giro per Torino, per documentare fotograficamente la presenza di questo simbolo. Quello che segue è un elenco, assolutamente non esaustivo, dei tori che si trovano in giro per il centro (e non solo) della città.
Piazza della Repubblica 1 e Via Milano 13
VIA MILANO Elisabetta Cabiddu Photography
Nella prima metà del XVIII secolo il duca Vittorio Amedeo II di Savoia avvia un grande processo di rinnovamento. Ad esempio, nella zona adiacente alla Porta Palatina, una delle porte di accesso alla Torino romana e l’unica a mantenere l’aspetto originario, vengono demoliti gli edifici medievali e realizzati, sul lato sud di quella che oggi è Piazza della Repubblica, gli isolati di Sant’Ignazio e Santa Croce. Il progetto è di Filippo Juvarra. Su molti degli archi dell’isolato, ad ovest, lungo via Milano, viene raffigurata la testa del toro. Una testa simile, ripetuta da entrambi i lati, è presente sul portone dello stabile di via Milano 13. Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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PIAZZA DELLA REPUBBLICA Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Porta Palazzo Antica tettoia dell’orologio Si trova nel mercato centrale di Porta Palazzo in Piazza della Repubblica. Si tratta del mercato all’aperto più grande d’Europa e prende il nome dalla porta Palatina. La piazza del mercato ha origine nel XVIII secolo, voleva essere una piazza d’armi e si trovava fuori le mura. Divenne parte integrante della città nel periodo napoleonico, quando quelle stesse mura vennero distrutte. La sua forma ottagonale è rimasta pressoché identica, anche se all’area sono stati aggiunti nel tempo altre strutture architettoniche e i padiglioni. La tettoia dell’orologio nasce nel 1916 come IV padiglione. Si tratta di una struttura metallica tipica dell’epoca, simbolo per eccellenza del grande mercato ed in essa si trovano 88 punti vendita dedicati al solo commercio di prodotti alimentari. Al centro della facciata, troviamo un orologio sormontato dallo stemma di Torino. A partire dal 2005, nell’ambito della manifestazione Luci d’Artista (vedi Giroinfoto N.63) e per opera di Michelangelo Pistoletto, la scritta “amare le differenze” appare all’esterno dell’edificio in 39 lingue diverse, cinque delle quali attorno all’orologio e al relativo stemma.
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T’Oro Via Delle Orfane 20 Si tratta di un’opera dell’artista Richi Ferrero, posta sulla facciata dell’edificio di via delle Orfane 20, ed è simbolo della Torino che guarda al futuro. L’artista lo definisce così: “Questo Toro dalle corna d’oro è una visione della città, di ciò che è stata e di quel che sarà. Il frame che congela l’attimo dello sfondamento è il mutare di Torino nel presente ogni qualvolta lo sguardo di chi passa ne coglierà la presenza” L’opera rappresenta un toro furioso dalle corna d’oro che “esce” dal muro sfondando la parete.
Elisabetta Cabiddu Photography
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Elisabetta Cabiddu Photography
Palazzo di Città Il palazzo civico risale al 1663 e sorge nella stessa area di un precedente palazzo comunale di impianto medievale. All’epoca era più piccolo rispetto a come si presenta oggi, si affacciava sulla piazzetta “delle erbe”, così chiamata perché vi era il mercato di erbe e spezie; essa fu in seguito rinominata Piazza Palazzo di Città.
Infine, troviamo un altro toro sul pavimento di fronte al palazzo.
Il retro del palazzo dava sulla piazzetta “del butirro”, che venne inglobata nel palazzo come corte interna nel secolo successivo. Sono molteplici i tori presenti sia all’esterno che all’interno del Municipio. Innanzitutto, troviamo due stemmi sulla facciata, ai due lati della balconata che dà sulla piazza: si tratta di due tori furiosi, sormontati da corone chiamate “turrite”.
In cima allo stesso scalone possiamo vedere uno stemma in marmo. Si tratta nuovamente di un toro furioso sormontato dalla corona turrita, facente parte di una targa posta “a perpetuo glorioso ricordo di impiegati, insegnanti, agenti ed operai del Municipio di Torino, che suggellarono col sangue l’unità nazionale, perché la memoria dei morti sia ai vivi monito solenne”.
In mezzo agli archi spicca una testa di toro e sono tori anche le decorazioni del portone di ingresso.
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All’interno non mancano rappresentazioni di tori, prime fra tutte le teste sul lato della nicchia che si trova sul pianerottolo dello scalone monumentale.
Sul retro del palazzo, in via Bellezia, due teste di toro identiche sovrastano i portoni dei numeri civici 2 e 4.
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Andrea Barsotti Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Il toro su entrate, archi, facciate e pulvini Non molto distante dal palazzo del Municipio, in via Garibaldi 14, troviamo una testa di toro sull’arco di entrata. Un toro rampante è invece raffigurato sul ferro battuto della cancellata. Un po’ più in là, in via Pietro Micca 4, un toro furioso fa bella mostra di sé sul pulvino di una colonna dei portici di palazzo Bellia. Non lontano dal T’Oro di via delle Orfane, in via della Consolata 10, possiamo ammirare sulla facciata del palazzo dell’Ufficio d’Igiene due stemmi identici, che rappresentano un toro furioso sovrastato da una corona. Bisogna camminare un po’ per arrivare al Palazzo degli Stemmi, in via Po 33.
VIA GARIBALDI - Andrea Barsotti Photography
VIA PIETRO MICCA - Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
Voluto da Vittorio Amedeo II di Savoia, in origine fu utilizzato come ospizio di carità per il ricovero degli indigenti; esso prende il nome dagli stemmi dei benefattori che avevano donato fondi per la sua realizzazione. L’ospizio rimase in funzione fino al 1887. Successivamente, nel 1896 l’edificio ospitò le prime proiezioni pubbliche del cinematografo Lumière. Oggi, l’edificio è sede degli uffici amministrativi e di una residenza dell’Università degli Studi di Torino. Oltre al consueto toro furioso, troviamo, all’esterno del palazzo e sopra le arcate dei portici, anche un esempio di toro passante.
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Elisabetta Cabiddu Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Teatro Regio e piazzetta Mollino Il Teatro Regio, presente a Torino dal XVIII secolo e opera dell’architetto Alfieri, venne distrutto completamente da un incendio nel 1936, ma solamente nel 1965 fu dato incarico all’architetto Carlo Mollino perché lo riportasse in vita. In questa sede sono presenti almeno quattro tori: una targa in entrata sul pavimento reca un piccolo toro e si dice che calpestarla porti energia positiva; il pavimento del cosiddetto “foyer del toro” ha un toro nero su campo bianco; infine, le facciate perimetrali (una su piazzetta Mollino, l’altra su via Verdi) presentano un toro furioso in bassorilievo in mattoni. Sono inoltre da notare le transenne che chiudono alcune colonne dei portici, che danno su piazza Castello e che recano il logo, un toro furioso, del teatro stesso.
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Il toro sui lampioni Torino, città barocca per eccellenza e prima capitale d’Italia, è considerata anche, insieme a Milano e Palermo, capitale dell’art nouveau. Parte del suo fascino è dato anche dai suoi arredi urbani, tra cui i lampioni. In Piazza Castello, i lampioni in ghisa di fronte a Palazzo Madama sono stati riprodotti, non essendo sopravvissuti gli esemplari originali, dall’azienda Neri, in collaborazione con la Città di Torino e l’azienda elettrica municipale. I pali sono stati ricostruiti partendo dalle foto ottocentesche e creando i modelli intagliati in legno necessari alla fusione. Su ogni lampione sono presenti tre teste di toro e altrettanti stemmi nello spazio tra di esse; altri, più semplici, hanno lo stemma col toro furioso sul palo.
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Il balcone del proclama e
la lapide a Vittorio Emanuele II Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia Carignano, re di Sardegna e firmatario dello Statuto Albertino, si affaccia alla loggia reale in Piazza Castello e proclama la prima guerra d’indipendenza italiana. Il resto è storia: nel 1861 viene proclamato il Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II, figlio di Carlo Alberto, come reggente. Torino rimane capitale per breve tempo; la reggia si trasferisce a Firenze e poi definitivamente e Roma. Quel balcone rimarrà nella Storia. Una lapide, fatta apporre proprio al di sotto da Vittorio
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Emanuele II, ricorda l’evento; una seconda lapide, sul lato della loggia che dà sulla piazzetta reale, viene posta dal figlio e dedicata al padre dopo la sua morte. La lapide, inaugurata il 9 gennaio 1884, onora il padre della patria ed è in marmo bianco con decori in bronzo. In alto troviamo l’emblema di casa Savoia, ai lati due aquile reali e in basso lo stemma di Torino, il toro furioso.
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I Torèt Vert Chiunque sia stato a Torino sa che le fontanelle pubbliche eroganti acqua potabile sono verdi e hanno i bocchettoni a forma di testa di toro. Si chiamano “torèt”, cioè “toretti” nel dialetto piemontese. Ce ne sono più di 800 e sono disseminati ovunque per la città. Hanno un valore simbolico tale da essere uno dei simboli di Torino, insieme alla Mole Antonelliana e al cioccolatino Gianduiotto. Piacciono così tanto che a volte sono disposti doppi, tripli, e addirittura in un’installazione di sette collocati a semicerchio. C’è chi ne ha addirittura acquistato uno dall’azienda produttrice ad uso privato! I torèt doppi, ad esempio, si trovano in via Stampatori, di fronte al bellissimo palazzo medievale Scaglia di Verrua.
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Il toro furioso di piazza San Carlo Si trova sotto i portici sul lato ovest di quello che è considerato il “salotto di Torino”. E’ un toro furioso in bronzo, collocato davanti al “Caffè Torino” nel 1930. Si dice che calpestarne i testicoli sprigioni l’energia dell’animale e porti abbondante fortuna. Ne è riprova il fatto che, proprio quella parte, a causa dell’impiego che ne viene fatto, sia notevolmente usurata e risulti leggermente affossata rispetto al piano di calpestio. Non manca, ovviamente, lo stemma del toro furioso all’ingresso del bar.
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Il toro del Campus Universitario Luigi Einaudi Nel 1987, in occasione delle trasformazioni del Lingotto da impianto industriale a centro servizi, lo scultore e scenografo abruzzese Mario Ceroli esegue un toro in legno di grandi dimensioni. Il toro fu commissionato dalla FIAT in omaggio a Torino e per oltre venti anni ha trovato ospitalità in varie location del’ ex complesso industriale del Lingotto. In seguito, è stato donato dalla FIAT stessa al Campus Luigi Einaudi ed ha trovato perciò collocazione definitiva all’entrata dell’edifico in lungo Dora Siena.
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I tori di Ezio Gribaudo in largo Moncalvo Il 14 giugno 2007, l’artista torinese Ezio Gribaudo, importante esponente dell’arte contemporanea, ha donato alla città di Torino una sua opera composta da tre colonne a base rettangolare in corteco sormontate da tre teste di toro in vetroresina. Tori è stata creata apposta da Gribaudo per la città; segni caratteristici dell’opera sono il colore bianco, che l’artista predilige, e il legame con il segno tipografico: le teste dei tori sono foderate con caratteri di stampa. Altro particolare che salta all’occhio è il richiamo al classicismo nell’uso delle colonne (tipico elemento dell’arte classica) e delle teste dei tori, che ricordano i capitelli.
La rappresentazione del toro, inoltre, non richiama solo il nome della città, ma l’animale della mitologia, reinterpretato in senso metafisico. Anche il luogo scelto per l’opera, alle spalle della Gran Madre, ha valore metafisico. Come dice l’architetto Andrea Bruno, che ne ha suggerito la collocazione: “Credo che il limbo del Borgo Po sia la collocazione più conveniente e in particolare Largo Moncalvo. Le architetture circostanti, senza presunzione, ma tranquillizzanti, come molte altre del Borgo, sono la migliore cornice per questi tre steli che si inseriscono garbatamente in questo ambiente come una nobile segnaletica urbana."
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L’obelisco presso lo stadio Filadelfia Costruito nel 1926 per ospitare la squadra del Torino Calcio (vedi articolo su Giroinfoto n.61), lo Stadio Filadelfia è stato totalmente ricostruito nel 2017 ed è diventato centro sportivo. L’area ospita alcuni resti dello storico stadio, di cui parte di una gradinata e uno dei due obelischi originari recanti lo stemma della squadra. Furono realizzati nel 1929, probabilmente su progetto dell’architetto Eugenio Ballatore di Rosana, lo stesso che progettò lo Stadium (si trovava nell’area del Politecnico) e il Motovelodromo. L’obelisco è un bellissimo manufatto in stile liberty; oltre allo stemma della società, il basamento presenta greche e decorazioni in bassorilievo nello stile dell’epoca.
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I tori della biennale Nel 2004, la città francese di Lione organizza la manifestazione “60 leoni, 60 luoghi, 60 artisti”. L’idea è di chiedere ad artisti internazionali di creare opere che abbiano per soggetto il leone o l’animale simbolo di una delle città gemellate. Nasce così, nel 2006, la Biennale dei Leoni Lione-Torino. Si tratta di 30 creazioni che partono da una sagoma in resina di un leone in movimento e 39 da una di un toro, sempre in resina; gli artisti sono pittori, scultori, incisori, disegnatori, designer e via dicendo, e le opere vengono messe in mostra per tre mesi, negli spazi pubblici urbani, in entrambe le città.
Al termine della mostra le stesse opere vengono messe all’asta e vendute al miglior offerente. L’asta è un successo e vengono incassati più di 400.000 euro, destinati in parte agli artisti, in parte all’organizzazione degli eventi e infine, in parte vengono devoluti in beneficenza. Molti tori sono stati acquistati e sono rimasti a Torino. Noi ne abbiamo trovati due: si tratta di “Tricefalo” dell’artista lionese George Faure e dell’opera di Hamid Tibouchi, pittore e poeta algerino. Il primo si trova sul terrazzo di uno stabile di corso Vittorio Emanuele II angolo via XX Settembre; il secondo presso l’Officina della Scrittura all'interno dell'azienda Aurora.
IL TORO DI TIBOUCHI PRESSO AURORA Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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TOSCANA LUCCA CAPANNORI BADIA DI CANTIGNANO
La Chiesa di Badia di Cantignano A CURA DI GIACOMO BERTINI
Nel Comune di Capannori, in provincia di Lucca, si trova la piccola frazione di Badia di Cantignano. Il nome deriva dal gentilizio latino Cantinius, poi nel tempo diventato Cantinianus ed infine Cantignano. Sita all’imboccatura della valle di Vorno, in un ambiente naturale ricco di vegetazione e di sorgenti, il paesaggio presenta colline il cui verde cupo delle folte pinete è a tratti interrotto dai riflessi argentati degli oliveti e dal biancheggiare delle ville storiche.
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La Chiesa di Badia Attraversando la frazione è ben visibile una grande costruzione, denominata dagli abitanti del luogo «palazzo dalle cento finestre», parte di quel complesso abbaziale che completa il nome della frazione e del quale l’attuale chiesa parrocchiale di San Bartolomeo fa parte. La cura pastorale della parrocchia, assieme ad altre comunità vicine, è affidata a Don Emanuele Andreuccetti il quale, con grande disponibilità, ci ha aperto le porte della chiesa e ci ha fatto da guida alla scoperta dei molti tesori in essa contenuti. Prima di entrare nei dettagli delle tracce e dei reperti che raccontano la storia di questa chiesa, è necessario soffermarsi su di un appellativo che identifica questo luogo, cioè «Piccola Svizzera Lucchese». I motivi che hanno spinto la popolazione a chiamarlo così sono gli stessi per cui l’uomo vi ha piantato le proprie radici fin dai tempi più antichi: è un territorio ricco e fertile grazie alla presenza dei numerosi canali e rii; l’aria risulta temperata e salubre per via dei venti che sfociano dalla gola del monte Faeta rendendo il soggiorno piacevole anche nelle infuocate stagioni estive. Tutte queste caratteristiche spiegano la ragione per cui, in epoca romana, fu costruita una villa con elementi termali, di cui sono state trovate tracce simili a quelle che si vedono nei resti dei complessi termali di Roma e Pompei.
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A metà degli anni ‘60 il parroco di Badia di Cantignano, Don Pasquale Picchi, effettuò degli scavi archeologici, durante i quali furono rinvenuti reperti utili a formulare l’ipotesi sulle origini antiche dell’insediamento e sulla prima diffusione del cristianesimo in quelle zone.
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Dai ritrovamenti si è compreso che la chiesa fu costruita sui resti di una villa romana con elementi termali di cui ancora si possono ammirare le colonne, i capitelli e alcune tracce del pavimento a mosaico. Nell’edificio sacro sono visibili ancora oggi affreschi di epoca longobarda sulle pareti dell’abside con il tema dell’infinito raffigurato dal cerchio che non ha fine. Tra gli altri rinvenimenti si notano pietre marmoree con il fiore celtico a sei punte, vari capitelli e tombe. Le prime notizie sull’edificazione della chiesa si hanno da un atto di epoca longobarda con il quale le terre di Cantignano venivano donate ai monaci benedettini di Bobbio, i quali decisero di edificare sui ruderi di una villa romana la prima chiesa e l’annesso cenobio. Di tutto ciò si ha riscontro nei documenti presenti negli archivi, civili ed ecclesiastici, ed in particolare, quelli di Camaldoli. Il primo documento che ricorda la terra di Cantignano risale al 783 d.C., in un successivo documento datato 914 si nomina esplicitamente l’abbazia e la chiesa di S. Salvatore di Cantignano. Nell’archivio arcivescovile e nell’archivio di Stato di Lucca sono presenti altri numerosi documenti dei secoli XI e XII.
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A confermare l’esistenza di un’abbazia benedettina in questo luogo, oltre ai documenti scritti, contribuiscono testimonianze di altro tipo giunte fino a noi: il nome Badia (derivante da abbazia), rimasto al paese nonostante il passare dei secoli; il titolo della chiesa (S. Salvatore), assegnato alle più antiche abbazie benedettine; le strutture in muratura altomedievali dell’abside, del transetto e di una parte del muro settentrionale della chiesa; i resti marmorei di transenne corali, del secolo VIII, ora murati nella colonna che sostiene il tabernacolo; la monofora e la porticina del transetto di sinistra; infine, le rarissime pitture di epoca longobarda, scoperte nel 1965-66, sui muri della chiesa e del transetto, esempio forse unico perché dipinte direttamente su pietra.
benedettini provenienti da Bobbio i quali mantennero la loro presenza in Cantignano fino ai primi anni del secolo XII. La seconda chiesa e la seconda abbazia furono ricostruite nei secoli XII e XIII dai monaci di Camaldoli che papa Pasquale II inviò «a riformare il monastero» decaduto a causa dell’abbandono e delle guerre che Pisani e Lucchesi combattevano in queste zone di confine tra i loro due comuni. Il terzo monastero fu edificato dai Camaldolesi nel 1455 e ad oggi è ben visibile la struttura soprannominata «palazzo delle cento finestre».
Analizzando più dettagliatamente queste pitture si notano due figure di un re e di una regina longobardi dipinti sui pilastri che sostengono l’arco trionfale. Si tratta, probabilmente, dei reali sotto il cui regno fu edificata la prima chiesa abbaziale. Si ha notizia della costruzione o ricostruzione in epoche successive di due chiese e tre monasteri della Badia di Cantignano. Come già accennato, la prima chiesa e un monastero furono edificati nei secoli VII e VIII dai monaci Giacomo Bertini Photography
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Altra importante testimonianza storica che ci offre questo luogo è data dal ritrovamento durante gli scavi del 1966 di 13 tombe, sulle quali gli studiosi hanno potuto formulare alcune ipotesi, ma senza giungere a una teoria certa. L’ipotesi più fondata è che potrebbe trattarsi di un Sepolcreto Paleocristiano, considerata la vicinanza al sobborgo di Porta Pisana (oggi quartiere di San Concordio), dove gli storici pongono una delle prime comunità Cristiane Lucchesi e proprio in questi luoghi potrebbe essere avvenuta, in tempo di persecuzioni, l’esecuzione e la sepoltura di alcuni martiri. Sempre durante gli scavi fu ritrovato sotto l’altare settecentesco, durante la sua distruzione, un cofanetto di piombo con all’interno la reliquia del martire più importante, forse un vescovo o un presbitero e di una cassetta in pietra contenente un calice di legno con cui i cristiani superstiti raccolsero, come reliquia, il sangue dello stesso grande martire (oggi posti sotto sigillo vescovile). La conferma che questi cofanetti contenessero reliquie insigni di Santi è confermata dal sigillo con la faccia e l’iscrizione dell’abate benedettino che durante la costruzione della chiesa abbaziale del VII - VIII secolo, mise queste reliquie nel centro dell’altare principale.
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Oggi la chiesa della Badia si presenta come un piccolo edificio a croce latina, con abside e portico, e con un campanile di costruzione moderna che domina la vallata. Il suo complesso è il risultato di numerosi successivi rifacimenti, l’ultimo dei quali risalente al 1965. Del grande patrimonio artistico custodito nella chiesa è rimasto un capolavoro del pittore lucchese Agostino Marti eseguito nel 1520 su commissione dell’abate Silvestro Gigli. Si tratta di un dipinto su tavola, con lunetta e predella, rappresentante la Vergine con Bambino e due santi, S. Bartolomeo e S. Martino e restaurato in epoca recente dal professor Luciano Gazzi.
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Sotto il dipinto vi è una predella raffigurante la deposizione di Cristo dalla Croce, il martirio di S. Bartolomeo e S. Martino che dona il mantello a un povero. Voltando lo sguardo verso l’uscita è ben visibile l’organo, imponente, se paragonato alle dimensioni della chiesa, che fu disegnato dall’architetto lucchese Pardini e terminato dalla ditta Santarlasci di Pisa il 1° agosto del 1876, grazie ad un prestito concesso da due famiglie lucchesi, poi estinto nei dieci anni successivi. Oggi questa opera d’arte avrebbe estrema necessità di un accurato restauro.
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Osservando accuratamente emergono altri dettagli, come il particolare del portale del transetto sinistro, si tratta molto probabilmente di un mosaico romano e piccoli basamenti ceramici che appartengono all’arte decorativa pisana di origine araba. L’esterno si differenzia come epoca di costruzione rispetto al resto della chiesa, in quanto nel XVIII secolo venne completamente demolita la facciata preesistente ricostruendone una ex-novo secondo lo stile dell’epoca e accorciando l’aula di sette metri.
alle quali si avvicinò sempre con rispetto e cercando di comprenderne le usanze e i costumi mai ispirato da interessi coloniali. Carlo Piaggia: «La ricchezza fa una nazione forte, ma grande la fanno solo gli onori e la gloria acquistati sulla via della civiltà».
L’imponente campanile fu terminato nel 1898 nonostante gli imprevisti riconducibili ai pochi fondi a disposizione e alla conformazione del territorio. Opera degna dell’orgoglio dei badiesi come si evince dall’iscrizione posta sopra la porta della torre in cui si legge: «Il popolo di Badia di Cantignano compì questo miracolo con unanime volere e contributo». La popolazione, infatti, partecipò attivamente e spontaneamente alla costruzione. Su un lato del campanile è visibile il busto di Carlo Piaggia, noto esploratore di fama mondiale, che nacque a Badia di Cantignano il 4 gennaio del 1827 da famiglia numerosa. Nel corso delle sue esplorazioni nel cuore dell’Africa, venne in contatto con molte popolazioni indigene Giacomo Bertini Photography
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A cura di Barbara Tonin
“… Suvvia, dove andiamo?" "A meno che non abbiate la benda agli occhi o non siate mai uscito dal porto di Marsiglia, voi dovreste indovinare dove andiamo." "Eppure..." "Allora guardatevi attorno." Dantès si alzò, tese lo sguardo verso il punto a cui sembrava dirigersi il battello e vide a cento tese lontano innalzarsi la nera e scoscesa roccia sulla quale sorge come una screscenza di silice, il nero Castello d'If. Questa forma strana, questa prigione sulla quale regnava un sì profondo terrore, questa fortezza che faceva da trecent'anni parte delle lugubri tradizioni, comparve ad un tratto innanzi a Dantès che non pensava punto ad essa, e gli fece l'effetto che fa ad un condannato a morte la vista del patibolo. "Ah, mio Dio!" gridò, "il Castello d'If! E che andiamo a fare là?" Il gendarme sorrise. "Ma non mi si condurrà là per esservi imprigionato..." continuò Dantès. "Il Castello d'If è una prigione di Stato, destinata soltanto ai grandi colpevoli politici. Io non ho commesso alcun delitto. Ma, ditemi: vi sono forse dei giudici istruttori, dei magistrati qualunque al Castello d'If?" "Non vi sarà, io suppongo" disse il gendarme, "che un governatore, dei carcerieri, una guarnigione e delle ottime mura.
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Andiamo, andiamo amico, non mi fate tanto il sorpreso, poiché in verità mi farete credere che voleste ricompensare la mia compiacenza col burlarvi di me." Dantès strinse la mano del gendarme si forte che pareva volesse infrangergliela. "Voi pretendete dunque che mi si conduca al Castello d'If per esservi imprigionato?" "Probabilmente" disse il gendarme, "ma in ogni modo, camerata, è inutile stringermi la mano così forte." "Senz'altra formalità?" "Le formalità sono compiute, l'istruttoria è fatta." "Così ad onta della promessa del signor Villefort..." "Io non so se Villefort vi ha fatto una promessa" disse il gendarme, "quello che so, è che noi andiamo al Castello d'If.”
È così che Alexandre Dumas descrive Château d’If, in uno dei suoi maggiori capolavori, Il Conte di Montecristo. Una forma strana su cui regnano un profondo terrore e lugubri tradizioni, dove le mura sono ottime e non esiste giustizia. Purtroppo la sua descrizione non si scostava dalla realtà. Sebbene meno nota della più famigerata Isola di Alcatraz in California, come quest’ultima vantava la prerogativa di essere una prigione da cui non si può fuggire, ma con la differenza che i prigionieri, quelli poveri, erano reclusi in condizioni disumane.
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In origine non era una prigione bensì un castello. L’isola d’If, poco lontana dal porto vecchio di Marsiglia, era in una posizione strategica. Château d’If fu edificato su ordine di Francesco I re di Francia per fornire riparo alla flotta, fungere da sentinella e proteggere la costa da eventuali attacchi. Sorto nel 1516, in seguito all’attacco delle truppe imperiali di Carlo V, fu rafforzato nel 1524 con delle mura e dei possenti bastioni dotati di piattaforme munite di cannoni. Dopo l’insediamento di 200 soldati e 22 pezzi d’artiglieria, però, non fu più ben visto dai marsigliesi, in quanto imponeva la presenza del potere centrale sul territorio marsigliese. L’isola d’If era “l’importuna vicina”. Marsiglia, infatti, dopo essere stata annessa alla Francia nel 1481, aveva potuto mantenere il privilegio di provvedere autonomamente alla propria difesa. Il castello fu negli anni a seguire trasformato in fortezza e i lavori terminarono nel luglio del 1531. Nonostante i numerosi contrasti per la sua edificazione, la decisione di Francesco I fu provvidenziale, dato che con tale postazione nel 1536 fu possibile ostacolare l’avanzata dell’Imperatore Carlo V verso Marsiglia e impedirne l’offensiva. Al castello si accede tramite un ponte levatoio, che sovrasta un fossato ora asciutto. La saracinesca alla porta d’ingresso forniva un’ulteriore protezione dall’eventuale avanzata dei nemici. Il castello è composto da 3 livelli, che si affacciano su un piccolo cortile interno. Il piano terra accoglieva le cucine, i magazzini, i pozzi alimentati da acqua piovana e le celle collettive, che inizialmente erano utilizzate come caserme. Il livello superiore era adibito in principio alle casematte, ma dal XVI° secolo le stanze furono trasformate in celle per i prigionieri più facoltosi. L’ultimo livello consiste in un ampio terrazzo dalla superficie curva, che fungeva da punto di osservazione e che permetteva di raccogliere e far defluire l’acqua piovana nella cisterna in cortile.
ITALIA
FRANCIA
Château d'If
SPAGNA
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Vauban Cisterna Torrione
Faro
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Al castello si accede tramite un ponte levatoio, che sovrasta un fossato ora asciutto. La saracinesca alla porta d’ingresso forniva un’ulteriore protezione dall’eventuale avanzata dei nemici.
L’ultimo livello consiste in un ampio terrazzo dalla superficie curva, che fungeva da punto di osservazione e che permetteva di raccogliere e far defluire l’acqua piovana nella cisterna in cortile.
Il castello è composto da 3 livelli, che si affacciano su un piccolo cortile interno. Il piano terra accoglieva le cucine, i magazzini, i pozzi alimentati da acqua piovana e le celle collettive, che inizialmente erano utilizzate come caserme.
Progettato a pianta quadrata, il castello è delimitato da muri di lunghezza pari a 28 m circa. Agli angoli, si ergono tre torri cilindriche dotate di feritoie di tiro.
Il livello superiore era adibito in principio alle casematte, ma dal XVI° secolo le stanze furono trasformate in celle per i prigionieri più facoltosi.
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La torre verso nord, Saint Christophe, domina il mare aperto con i suoi 22 m di altezza ed è la più elevata. È dotata di una larga porta per permettere l’accesso all’artiglieria.
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Barbara Tonin Photography Fu costruita tra il 1524 e il 1527. Il relativo maschio, invece, solo due anni più tardi. Le altre due torri, invece, guardano verso la città: Saint Jaume a nord-est e Maugouvert a sud-est. Le tre torri sono collegate tra loro dal terrazzo, che sovrasta uno stretto e profondo cortile esterno, sul quale si trovano su due diversi livelli gli alloggi e le cucine e le casematte. Una tale disposizione permetteva di concentrare una notevole potenza di fuoco e rendeva l’isola d’If una temibile cittadella. Nel 1604 gli ingegneri militari Raymond de Bonnefons e
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successivamente nel 1701 Sébastien Le Prestre de Vauban rialzarono le mura per favorire l’artiglieria. Gli alloggi dei corpi di guardia e la residenza del governatore vennero in seguito situati in una palazzina, posta di fronte al castello sulla destra, chiamata caserma Vauban e costruita nel 1702 su progetto dell’omonimo ingegnere. Così Vauban descrive la fortezza in un suo rapporto: “La fortificazione somiglia allo scoglio, è completamente rivestita, ma assai rozzamente, con molta negligenza ed imperfezioni. Il tutto è stato, infatti, costruito impropriamente e con poca cura… Tutti gli edifici sono grossolani, fatti male.”.
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Nei secoli XVII e XVIII in particolare, il sito ha subito diverse trasformazioni per migliorare il suo sistema difensivo. Rilevazioni archeologiche recenti, infatti, hanno evidenziato che furono apportate importanti modifiche alla planimetria del luogo.
Del deposito dell’artiglieria, della polveriera, del refettorio e del mulino a vento, purtroppo, rimane poco se non nulla. Sul lato meridionale, tuttavia, sono ancora visibili tre basi flak tedeschi (cannoni contraerei) della Seconda Guerra Mondiale destinati alla difesa antiaerea, affiancati da fortini.
Gli scavi hanno portato alla luce i resti di edifici distrutti e dell’abside della vecchia cappella, di cui solo fonti scritte e iconografiche hanno conservato la traccia. Indagini archeologiche di questo tipo sull’isola non ne erano mai state fatte precedentemente e hanno permesso di comprendere meglio la cronologia della costruzione del sito.
Château d’If iniziò ad essere utilizzata come prigione poco dopo la fine della sua costruzione, cioè a metà del XVI° secolo. La conformazione architettonica e la posizione la rendevano il luogo ideale per questo scopo.
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Era una prigione di Stato, destinata ai reati politici e religiosi più gravi. Furono detenuti soprattutto protestanti e repubblicani, sia di stirpe nobile che plebea. Le celle erano diverse l’una dall’altra e potevano offrire delle comodità, a seconda di quanto il prigioniero poteva pagare. I più facoltosi potevano permettersi un letto, un guardaroba,
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un camino, una finestra e i servizi igienici (stanza detta pistole). I più poveri nulla di tutto questo, anzi capitava venissero ammassati anche in venti persone in un’unica cella, al buio. Le migliori, infatti, erano ai livelli superiori, mentre le altre al piano terra, assieme alle segrete.
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Le condizioni dei prigionieri nelle celle peggiori erano talmente pessime, che l’aspettativa di vita era soltanto di una manciata di mesi. "Dov'è il prigioniero?" domandò una voce. "Eccolo" risposero i gendarmi. "Che mi segua: lo condurrò al suo alloggio." "Andate!" dissero i gendarmi, dando una spinta a Dantès. Il prigioniero seguì la sua guida, che lo condusse effettivamente in una cella quasi sotterranea, le cui muraglie nude e gocciolanti sembravano impregnate dell'umidità delle lacrime. Una specie di lanterna, posata sopra uno sgabello ed il cui lucignolo nuotava in un grasso fetido, illuminava le pareti lucide di questo spaventoso antro. Dantès vide il suo carceriere, che era una specie di subalterno, mal vestito e di lurido aspetto. "Ecco la vostra cella per questa notte" disse. "É tardi e il signor Governatore è andato a letto; domani quando si sarà alzato, ed avrà conosciuto gli ordini che vi concernono, forse vi cambierà domicilio. Frattanto eccovi del pane. C'è dell'acqua in questa brocca, della paglia laggiù in quel cantone. Insomma c'è tutto quello che un prigioniero può desiderare. Buona notte."
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Edmond Dantès è soltanto un personaggio di fantasia, ma furono centinaia i detenuti di Château d’If che non poterono pagarsi la pigione per una cella dignitosa. In due secoli i prigionieri nell’isola sono stati diverse migliaia. Il primo detenuto fu Chevalier Anselme nel 1582, accusato di complotto contro la monarchia. Lo seguirono oppositori dello Stato, più di 3500 protestanti imprigionati dopo la revoca dell’Editto di Nantes e anche figli di famiglie illustri incarcerati a seguito delle lettre de cachet, ovvero lettere recanti il sigillo reale e contenente un ordine di imprigionamento o di esilio, senza processo. È il caso per esempio di Honoré Mirabeau, scrittore, propagandista e statista, rinchiuso per volere del padre nel 1774.
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Si racconta che per questi la prigionia fu molto piacevole. Infatti, affittò una pistole, conquistò i favori del comandante delle guardie e sedusse la vivandiera. Tra i più noti reclusi si ricordano gli ugonotti Jean Serres ed Élie Neau; Chevalier de Lorraine, amante di Philippe de France, fratello di Luigi XIV; Jean-Baptiste Chataud, capitano del Grand Saint-Antoine, accusato di aver diffuso la peste a Marsiglia nel 1720; il politico Michel Mathieu Lecointe-Puyraveau nel 1871; Gaston Crémieux, leader del Paris Commune, recluso e fucilato ad If nel 1871. Dal 1801 per 18 anni per ordine di Bonaparte, Château d’If conservò anche la salma del generale Jean-Baptiste Kébler, in attesa di essere portata a Strasburgo, sua città natale. Gli ultimi prigionieri dell’isola furono dei tedeschi fermati durante la Prima Guerra Mondiale.
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Dubbia, invece, è la presenza dello scienziato portoghese abate Faria a fine Settecento, che nel romanzo di Dumas è compagno di cella di Edmond Dantès, e del detenuto chiamato “La Maschera di Ferro”, che si ipotizza abbia sostato al castello solo per un breve periodo. Tra leggenda e realtà, si narra che l’ospite più curioso dell’isola d’If, prima della costruzione del castello, sia stato un rinoceronte indiano, battezzato dai marinai Ulisse. Offerto dal sultano Muzafar II di Gujaràt a Emanuele I il Grande, che a sua volta volle farne dono al papa Leone X, sembra che l’animale abbia fatto scalo sull’isola nel 1516 per qualche settimana. L’evento scatenò una tal curiosità tra i francesi, che Francesco I non si lasciò sfuggire l’occasione e venne personalmente ad ammirarlo. Albrecht Dürer ne fece una celebre incisione, su descrizione dell’amico Valentim Fernandes. A memoria di tutti i prigionieri e i militari, Château d’If conserva decine e decine di graffiti, scolpiti nelle celle ma soprattutto sulle pareti del cortile che circondano il pozzo: 25 metri di dipinti a stampo e bassorilievi che fungono da memoriale. La scritta "Hotel del Popolo Sovrano", invece, che compare sopra la vecchia porta di accesso al cortile, risale al periodo in cui 120 persone furono imprigionate, in seguito ai disordini del giugno 1848.
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Nomi, epitaffi, slogan, citazioni, simboli e messaggi d’amore e di speranza che mai arriveranno al destinatario, ma unico modo per comunicare. Il romanzo di Dumas fu pubblicato a episodi a partire dal 1844. Il successo fu tale che alcuni lettori, tra cui Mark Twain, riuscirono a visitare il castello prima che venisse aperto al pubblico. Château d’If, infatti, diventò ufficialmente meta turistica soltanto a partire dal 1890. Le visite furono sempre maggiori e i visitatori si aspettavano di rivivere il romanzo nei luoghi dove fu imprigionato lo sfortunato Edmond, nonostante fosse soltanto un personaggio inventato. Per evitare la delusione dei lettori, quindi, si provvide a creare un passaggio tra due celle attigue del piano terra. Una sarebbe stata attribuita a Dantès, quella che un tempo era la polveriera, e l’altra all’abate Faria. Per analogia, anche tutte le altre celle riportano una targa con l’assegnazione del nome del prigioniero, realmente esistito, che l’ha abitata, anche se le fonti non sono tutte certe.
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La simpatia per Dantès permane tuttora e, a memoria della sua fuga dall’isola, ogni anno a giugno accorrono migliaia di nuotatori per disputare la Défi de Monte Cristo (Monte Cristo Challenge), una gara a nuoto di circa 5 km dalla fortezza alla riva. Creato nel 1999, è diventato uno degli eventi di nuoto in acque libere più importanti e il più grande d'Europa. La gara, tuttavia, non replica le condizioni esatte riportate nel libro. Dantès, dopo essere stato lanciato in mare, si dirige verso le isole di Tiboulen e Maïre, mentre i concorrenti iniziano la competizione sulla sponda settentrionale dell'isola If, per dirigersi verso il faro di Soudaras e proseguire verso il punto Endoume. Passano, quindi, per 300 metri lungo la Corniche JF Kennedy, di fronte all'Anse de la Fausse Monnaie e alla spiaggia della Plage du Prophète, uno dei tratti più belli della costa. La gara si conclude, poi, alla Plage du Grand Roucas Blanc nel parco della spiaggia del Prado, appena a sud di Marsiglia.
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Il castello d’If, infatti, non è l’unica attrattiva di Marsiglia. L’isola, assieme all’arcipelago del Frioul, appartiene al Parco Nazionale delle Calanques, un sito magnifico che offre 25 km di costa. L’area ospita quasi 400 specie vegetali originarie e circa un centinaio di specie di uccelli, alcune delle quali protette. I suoi fondali, inoltre, hanno habitat eccezionali in cui sono presenti specie particolari poco conosciute e poco diffuse in altre aree. Il lavoro di Dumas non ha mai cessato di essere una fonte di ispirazione. Dal 1844 ai giorni nostri, il suo romanzo è rivissuto in molteplici interpretazioni in suite, opere teatrali e artistiche di vario stile, in film e serie per il piccolo schermo. Dumas ha influenzato innumerevoli artisti e, per gli amanti del genere, sarà possibile visitare fino al 30 aprile 2021 una serie di fumetti ispirati al romanzo, sotto forma di proiezione di diapositive e stampe di grandi dimensioni. La collezione appartiene al giornalista Patrick de Jacquelot, comprende più di 500 opere ed è esposta presso il Centre des Monument Nationaux.
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Skira | Archivio Manteco 2020, edizione inglese (con testi italiani in appendice) 24 × 30 cm, 224 pagine 146 colori, cartonato ISBN 978-88-572-4382-5
Jacopo Benassi The Belt “In Jacopo Benassi la voglia di fotografare nasce da un riflesso quasi pavloviano dettato da due stimoli, spesso sovrapposti: il primo è quello dell’amore e del desiderio per il soggetto ritratto, il secondo stimolo è quello del riconoscimento di sé nel soggetto che viene documentato con la macchina fotografica. Non poteva non rimanere affascinato da questo mondo di produzione artigianale e industriale, in cui le mani hanno una parte così importante, in cui la competenza professionale altamente specializzata rende le persone che vi lavorano orgogliose di quello che fanno, in cui macchine incredibili riescono a rendere preziosissimo qualcosa che non solo non ha più valore ma è diventato addirittura un peso per la società.”
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The Belt è un progetto fotografico di Jacopo Benassi dedicato a Prato, città d’arte e rinomato polo dell’industria tessile. Enormi quantità di abiti buttati via arrivano a Prato da tutto il mondo per essere riciclati e riutilizzati come materia prima per nuovi capi. In un momento storico in cui la discussione pubblica e politica è quasi interamente incentrata sulla questione delle materie prime, sulla possibilità di non sprecare risorse, esiste un mondo che in maniera ininterrotta da almeno un secolo riesce a riportare completamente in vita enormi quantità di materiali che per il resto dell’umanità sono visti come scarto.
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Questo è il distretto del tessile di Prato: una filiera di piccole e grandi aziende che raccolgono tessuti dismessi da ogni parte del mondo e, attraverso procedimenti che mixano le più alte tecnologie e i saperi artigianali, riescono a farli tornare materiale di primissima qualità, richiesto dalle più importanti aziende del lusso. Questo è il mondo che ha raccontato Benassi grazie alle sue fotografie, creando uno speciale rapporto di vicinanza con il reale, con la materialità delle cose, con il corpo della realtà e il corpo delle persone. Jacopo Benassi
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A cura di Adriana Oberto L’isola di Procida appartiene all’arcipelago del Golfo di Napoli, di cui fanno parte anche Ischia e Capri. La sua estensione (solo quattro chilometri quadrati) è tale da renderla facilmente visitabile in breve tempo.
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Io consiglio quello che noi italiani chiamiamo un “week-end lungo”, in modo da avere almeno due giorni interi a disposizione sull’isola, senza contare quelli di arrivo e partenza. Il 18 gennaio 2021 l’Isola è stata nominata Capitale Italiana della Cultura 2022.
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Procida fa parte delle isole Flegree, appartiene alla città metropolitana di Napoli e si trova di fronte ad essa e non lontana dalla più estesa isola di Ischia. Fa parte del comune di Procida anche la piccolissima isola di Vivara, una riserva naturale statale collegata a Procida da un ponte. L’isola è di natura vulcanica e si è formata in seguito ad eruzioni avvenute tra i 55000 e i 17000 anni fa. Oggi i vulcani sono spenti ed in parte sommersi. In ogni caso, l’isola si avvicina, per morfologia, alla zona dei campi Flegrei. In antichità era collegata a Vivara da una lingua di terra che è stata in seguito sommersa. Procida è un unico centro abitato suddiviso tradizionalmente in nove contrade, dette grancie.
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LE ORIGINI DEL NOME
Il nome odierno deriva dal toponimo romano Prochyta. Questo, a sua volta, deriverebbe da Prima Cyme (prossima a Cuma), perché così veniva vista dai coloni greci che migravano da Cuma ad Ischia, oppure dal greco πρόκειται (pròkeitai, "giace"), poiché sarebbe un pezzo di terra che giace nel mare. Esiste però un’altra ipotesi, che fa derivare il nome dal greco prochyo (profundo in latino), perché l’isola sarebbe stata sollevata dalle profondità del mare. Dionigi di Alicarnasso indica il nome come derivante da quello della nutrice di Enea, che vi aveva seppellito il corpo, ma lo storico Plinio non è d’accordo e sostiene l'ipotesi precedente: “Prochyta, non ab Aeneae nutrice, sed quia profusa ab Aenaria est” “Procida non viene dalla nutrice di Enea, ma fu profusa da Aenaria” (Aenaria era il nome del principale insediamento di Ischia all’epoca romana, n.d.r.)
CAPITALE DELLA CULTURA Adriana Oberto Photography
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Il 18 gennaio 2021 L’Isola di Procida è stata dichiarata Capitale Italiana della Cultura 2022. È la prima volta che tale riconoscimento viene dato ad un borgo e non ad un capoluogo di provincia o regione. Il titolo del progetto, “La cultura non isola” evidenzia come “la terra isolana [sia] luogo di esplorazione, sperimentazione e conoscenza”. Personaggi della cultura e dello spettacolo, tra cui il direttore del Giffoni Festival ne hanno sostenuto la candidatura. “Un'isola compiace sempre la mia immaginazione, anche la più piccola, in quanto piccolo continente e porzione integrale del globo ” [Henry David Thoreau]
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UN PO' DI STORIA Sono state trovate tracce di insediamenti sull’isola (nella fattispecie sull’isola di Vivara) a partire dal XVI-XV sec. a.C. Si trattava con ogni probabilità di Micenei. A questi seguirono, alcuni secoli più tardi, coloni dall’isola di Eubea e poi i greci di Cuma. Nel periodo romano, pur non esistendo centri abitati veri e propri, l’isola era sede di ville e insediamenti utilizzati come luoghi di villeggiatura e tenute per la coltivazione della vite. Alla fine dell’Impero romano i Vandali e i Goti arrivarono sull’isola, ma mai i Longobardi. L’isola in quel periodo era sotto la giurisdizione del duca bizantino di Napoli. È da questo momento che l’isola diviene luogo di rifugio per le popolazioni in fuga dalle razzie dei Longobardi, prima, e dei Saraceni, poi. Sempre verso l’alto medioevo cambia la fisionomia degli insediamenti e l’isola incomincia ad essere abitata in modo stabile in un caratteristico insediamento fortificato tipico del medioevo. Gli abitanti, infatti, si rifugiano sul promontorio della “terra”, che venne chiamata prima Terra casata e in seguito Terra Murata. Durante l’epoca normanna Procida divenne dominio feudale, insieme ad una parte della terraferma, il Monte di Miseno (chiamato poi Monte di Procida), e fu assoggettata al dominio dei Da Procida, che la governarono per due secoli. Nel XIV secolo l’ultimo membro dei Da Procida vendette Procida, insieme all’isola di Ischia, alla famiglia Cossa, che era fedele ai D’Angiò. Di questa famiglia fece parte anche un antipapa, che all’epoca aveva preso il nome (poi ignorato dalla storiografia) di Giovanni XXIII. In questo periodo le attività dell’isola erano legate all’agricoltura e alla pesca. Durante il periodo di Carlo V a Napoli l'isola fu governata dalla famiglia d’Avalos d’Aquino d’Aragona, fedele agli Asburgo. Il XVI secolo fu un periodo di saccheggi da parte dei pirati saraceni; si ha notizia di almeno sette incursioni che devastarono l’isola. Sempre a questo periodo risale la costruzione delle torri di avvistamento sul mare, che sono un po’ il simbolo dell’isola. Vennero anche costruiti una seconda cinta di mura attorno a Terra Murata e il castello d’Avalos, sempre in quel luogo. Dopo la battaglia di Lepanto, decisiva per la riduzione delle attività della marina ottomana nel Mediterraneo occidentale, le condizioni di vita sull’isola migliorarono e prese vita un’economia legata alla marineria.
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In seguito alla rivolta di Masaniello e l'avvento della repubblica, Procida fu occupata nel XVII secolo dalla flotta francese di Tommaso Francesco di Savoia. In questo secolo e sotto il regno dei Borboni, le condizioni di vita migliorarono grazie all’estinzione della feudalità da parte di Carlo III, e alla creazione di una riserva di caccia sull’isola. La marineria, a cui venne affiancata una fiorente attività dei cantieri navali, divenne sempre più importante, tanto che si arriverà, verso la metà del XIX secolo, a produrre circa un terzo di tutti i legni di grande cabotaggio presenti nelle acque meridionali italiane. Le condizioni di vita erano tali che le popolazione arrivò ad essere, nel XVIII secolo, una volta e mezza quella attuale. A seguito della proclamazione della Repubblica Napoletana e nei decenni successivi in cui fu contesa tra francesi ed inglesi, Procida divenne, a causa della sua posizione strategica, campo di scontro e saccheggio, tanto che quando nel 1860 caddero i Borboni e fu in seguito proclamato il regno d'Italia, questo fu accolto con gioia dalla popolazione. Nel secolo scorso l'attività cantieristica entra in crisi e la produzione è praticamente nulla. L'isola perde all’inizio del secolo il Monte di Procida, che costituiva il suo territorio sulla terraferma. Nel 1957 arriva il primo acquedotto sottomarino d'Europa (quello che rifornisce di acqua potabile anche l’isola di Ischia n.d.r.) e finalmente la popolazione, che era in forte decrescita, comincia a risalire. Oggi, oltre alla marineria, è importante l’attività turistica.
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IN GIRO PER PROCIDA Quella che propongo è una passeggiata virtuale in senso orario, con qualche deviazione, che vi permetterà di visitare Procida semplicemente “girandole intorno”. Si arriva a Procida con traghetto da Napoli o Ischia. Arrivando dal capoluogo, ciò che accoglie il visitatore sono le abitazioni colorate tipiche dell’isola e il promontorio in alto. Si tratta della Marina grande, o grancia di Sent’Co e del promontorio di Terra Murata. Sent’Co è il punto di partenza per la visita di Procida; è sede della stazione marittima e del porto turistico; da qui partono, inoltre, i minibus del trasporto pubblico dell’isola. Non ci dimentichiamo, però, che questa è molto piccola e che ogni suo punto non dista mai più di un chilometro e mezzo dal suo centro. È perciò facilmente visitabile a piedi o in bicicletta, soprattutto se si tratta delle moderne biciclette con pedalata assistita, visti i numerosi saliscendi e le stradine strette del luogo. Le stesse, specie se nel centro, sono in prevalenza a senso unico, date le dimensioni ridotte della carreggiata. Il borgo ospita bar, ristoranti, la chiesa di santa Maria della Pietà e il municipio, nonché una delle spiagge dell’isola. È probabilmente il luogo più frequentato, se si eccettua il famosissimo borgo di pescatori della Corricella. Sul molo a destra del porto si trova una piccola cappella dedicata alla Madonna, che accoglie i naviganti al loro arrivo, raggiungibile a piedi in pochi minuti. Purtroppo l’interno è spoglio e abbandonato all’incuria.
CAPPELLA SUL MOLO Adriana Oberto Photography
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PALAZZO D'AVALOS Adriana Oberto Photography
Procedendo in direzione sud dalla chiesa di Santa Maria della pietà e per le vie Vittorio Emanuele e Principe Umberto, si sale verso il promontorio. Si arriva al bellissimo santuario di Santa Maria delle Grazie Incoronata. Siamo a Sèmmarèzio. La piazzetta della chiesa, nonché crocevia tra i borghi di Marina Grande, Terra Murata e Corricella, è piazza dei Martiri, così chiamata perché in questo luogo vennero impiccati sedici procidani che avevano aderito alla repubblica napoletana. Il luogo è anche chiamato la “terrazza di Procida”, per via della sua posizione privilegiata. Da qui si può scegliere di continuare a salire (la strada sale e svolta leggermente a sinistra) verso il borgo di Terra Murata. Si arriva al convento di Santa Margherita nuova, dalla cui terrazza si gode di un bellissimo panorama sul golfo di Napoli, e, passando sotto la porta tra le mura, all’antico borgo fortificato e primo insediamento stabile dell’isola. Edificio di spicco del borgo è il Palazzo D’Avalos, costruito nel 1563 e divenuto in seguito palazzo reale; nel 1930 il castello fu trasformato in carcere e tale rimase fino al 1988. Il borgo è costituito da edifici alti e stretti, ammassati gli uni sugli altri, e da stradine altrettanto anguste. Le fortificazioni sono medievali; la chiesa, costruita nel XVI secolo e dedicata a san Michele Arcangelo, possiede numerose opere d’arte, tra cui un dipinto raffigurante San Michele che sconfigge Satana. Può essere interessante, inoltre, visitare la Casa di Graziella. LE CASE DEL BORGO Adriana Oberto Photography
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SANTA MARIA Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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LA CASA DI GRAZIELLA Graziella è una giovane ragazza procidana orfana, che vive con i nonni e i suoi fratelli. Siamo nel 1811, quando lo scrittore francese Alphonse Lamartine, allora ventunenne, viaggia in Italia durante il suo Grand Tour e soggiorna anche all’isola di Procida. Qui incontra una ragazza dagli “occhi neri e dalle lunghe trecce” (Graziella, appunto), che lo fa innamorare perdutamente. Lo scrittore passa giorni indimenticabili sull’isola vivendo la vita dei pescatori di corallo e leggendo storie d’amore. Quando deve rientrare in Francia promette a Graziella di tornare e lei lo aspetta, ma si ammala di tubercolosi. Prima di morire gli invia una treccia dei suoi capelli, che lo scrittore conserverà gelosamente per tutta la vita. Nel 1849 Lamartine scrive di questa storia nella raccolta Les confidences e nel 1852 il romanzo viene pubblicato separatamente col titolo di Graziella. La Casa di Graziella si trova al secondo piano del palazzo della cultura (ex convento delle orfane) e ricostruisce storicamente con oggetti e mobili d’epoca una tipica casa procidana del XIX secolo; una casa come quella che avrebbe potuto appartenere alla famiglia di Graziella. Assolutamente da non perdere è anche il terrazzo panoramico sul tetto dell’edifico, che offe una vista a quasi 360° sul borgo, l'isola e il golfo di Napoli.
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La ripida strada che scende verso piazza dei Martiri offre un panorama stupendo sul borgo di pescatori di Marina di Corricella a la baia di Chiaia. Una volta tornati a Sèmmarèzio, una stradina in discesa proprio di fronte al santuario di Santa Maria delle Grazie porta alle gradinate che scendono al borgo di Marina di Corricella. Il borgo è infatti raggiungibile esclusivamente dal mare o attraverso scalinate, che passano di fianco e attraverso le case del borgo, poste a differenti livelli, tanto che pare a volte di violare una proprietà privata. Si tratta del più antico borgo marinaro dell’isola; le case, costruite le une sulle altre, hanno archi, scale esterne, balconi e variegati colori pastello; tali colori hanno gruppi di tonalità
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ben definite, ma ogni gruppo è diverso da quello della casa vicina. Tale caratteristica si fa risalire, per tradizione, al desiderio dei pescatori di riconoscere facilmente la loro abitazione dal mare. Altro elemento tipico delle abitazioni procidane è il “vefio”, la tipica apertura ad ampio arco. Marina di Corricella è probabilmente il luogo più visitato dell’isola; quello più fotografato a causa della sua tipicità, nonché quello reso famoso dal film Il Postino con Massimo Troisi e set di numerose produzioni cinematografiche. A sud del borgo si trova un’altra spiaggia dell’isola di Procida, quella di Chiaia, volta ad est e verso il golfo di Napoli.
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Una volta visitata Marina di Corricella, si può risalire da altre due scalinate poste a sud del borgo e proseguire su via Scotti e poi via Vittorio Emanuele verso il centro dell’isola. La zona centrale è denominata San’Antonio, per via della chiesa e lui dedicata, e il fulcro è piazza Olmo – nient'altro che uno spiazzo ed un incrocio di vie che portano a varie direzioni. È questo il punto dal quale, proprio perché centrale, è possibile raggiungere a piedi qualunque parte dell’isola, che non dista mai più di un chilometro e mezzo da esso. Anche da qui, se si svolta a destra su via Pizzaco, è possibile, attraverso una lunga scalinata, arrivare alla spiaggia della Chiaia. Via Pizzaco è però molto importante perché su di essa si trova lo stupendo belvedere Elsa Morante.
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“Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra i muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste tra le grandi scogliere” È così così che Elsa Morante descrive l’isola nel suo romanzo L’Isola di Arturo, il romanzo che le ha portato il Premio Strega nel 1957. Quello con l’isola di Procida è un legame indissolubile ed è per questo che nel 2017 il belvedere di via Pizzaco le viene intitolato. La vista è mozzafiato e abbraccia la baia di Chiaia, Marina di Corricella, Terra murata e il golfo di Napoli. Nelle giornate limpide svetta, laggiù in fondo, il Vesuvio.
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VIVARA Adriana Oberto Photography
A questo punto si può ritornare sui propri passi veroso Olmo, proseguire per via Vittorio Emanuele e scendere per via Giovanni da Procida, oppure seguire le indicazioni, dal belvedere, per via Alcide De Gasperi, via Solchiaro e via Schiano. La destinazione è la piccola e pittoresca Marina di Chiaiolella. Si tratta di una piccola marina col porticciolo turistico e le case variopinte e di architettura spontanea a cui ormai ci siamo abituati. Chiaiolella mantiene il fascino di borgo di pescatori ed è una meta piuttosto ricercata. Il porticciolo è stato costruito su un cratere vulcanico ormai spento; dal rilievo da cui siamo arrivati, l’altura di Solchiaro, si gode di una bellissima vista sul tramonto e sull’isola di Vivara. Siamo ormai arrivati a sud dell’isola. Procedendo verso est si arriva ad un ponte ed all’isola di Vivara. Si tratta di un isolotto di soli 0,4 chilometri quadrati e 3 chilometri di perimetro, al quale si giunge attraverso un ponte non carrozzabile che sostiene la condotta idrica. L'isola è disabitata e riserva naturale statale. Il litorale è compreso nell’area marina protetta Regno di Nettuno.
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CHIAIOLELLA Adriana Oberto Photography
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Di ritorno dal ponte e dalla ripida salita possiamo dirigerci di nuovo verso nord. Ci troviamo su quello che è il tratto sabbioso più esteso dell’isola di Procida, rivolto verso ovest e da cui si può godere di bellissimi tramonti. Si tratta della spiaggia del Ciraccio, nonché di quella vicina del Ciracciello. Bisogna risalire verso il centro e via Melchiorre Gioia per superare il piccolo promontorio a nord della spiaggia, arrivare al cimitero e discendere verso la spiaggia del Pozzo Vecchio. Questa è conosciuta anche come spiaggia del Postino, perché utilizzata nelle riprese del film con Massimo Troisi. A questo punto abbiamo percorso praticamente tutta l’isola e ci troviamo di nuovo a nord. Possiamo scegliere di girovagare per il promontorio ed arrivare fino al faro sulla punta di Pioppeto, o semplicemente di seguire le indicazioni per Marina Grande. Percorreremo come sempre le viuzze strette tipiche dell’isola, dove passa una vettura per volta e mancano i marciapiedi. Ritornati alla Marina Grande non ci resta che osservare le barche dei pescatori ed attendere il traghetto che ci riporterà sulla terraferma.
CIRACCIO Adriana Oberto Photography
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Nascosta tra i banchi dello storico mercato del Capo a Palermo, la Chiesa dell’Immacolata Concezione è sita a pochi passi dal Tribunale, dal Teatro Massimo e da Porta Carini (una delle porte che si aprivano sul lato settentrionale della città antica) ed è aperta al pubblico, tutte le mattine escluso la domenica, pagando un contributo di 2 euro a persona.
A cura di Rita Russo Giroinfoto Magazine nr. 64
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Dietro l’austerità e la semplicità della sua facciata, poco visibile perché parzialmente coperta dai tendoni rossi dei vicini banchi di frutta, nessuno immaginerebbe mai di trovare un interno così ricco di opere d’arte e di decori, in pieno stile barocco siciliano, la cui bellezza e complessità lasciano attonito chi li guarda. La storia di questa piccola chiesa è molto simile a quella di Santa Caterina (Gironfoto n.62). Come questa, infatti, essa faceva parte di un convento femminile sorto alla fine del 1576 per volere della nobildonna Laura Imbarbara, vedova Ventimiglia. La nobile, senza prole, voleva fondare un istituto femminile che seguisse la regola francescana a cui donare i propri beni. Convinta, invece, ad adottare la regola benedettina dal gesuita Giovanni Antonio Sardo, affidò alle suore di quest’ordine il suo palazzo e la chiesetta annessa per la realizzazione del monastero. La terribile epidemia di peste che colpì la città di Palermo fin dal 1575 fu l’incentivo a costruire il monastero, perchè il popolo potesse invocare la Vergine Maria per sconfiggere il male. Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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IMMACOLATA CONCEZIONE AL CAPO
La costruzione della Chiesa durò dal 1604 al 1612 e fu realizzata su progetto dell’architetto Antonio Muttone, uno dei protagonisti della fase di passaggio tra manierismo e barocco in Sicilia, sotto la supervisione del regio architetto ed ingegnere militare Orazio Del Nobile. Ma occorsero più di 100 anni per decorare e definire la chiesa, che fu completata nel 1740 con l’affresco che orna il soffitto, realizzato da Olivio Sozzi, pittore catanese tra i maggiori del 1700. Durante la dominazione spagnola, nel XVI secolo, la città di Palermo, come tutta la Sicilia, fu governata dai viceré, i quali con il sostegno del senato palermitano decisero di fortificare
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la città erigendo tredici grossi bastioni, costituiti da terrapieni e mura molto alte, realizzati lungo il perimetro della città e interrotti da altrettante porte di accesso. Queste fortificazioni furono munite di artiglieria al fine di rendere la città inespugnabile. E proprio uno di questi baluardi, ossia quello di Porta Carini Aragona (realizzato nel 1572 dal Presidente del Regno, Carlo Aragona) fu acquistato dalle monache benedettine che lo utilizzarono come belvedere, ambiente ricreativo e svago.
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In seguito all’avvento del Regno d’Italia nel 1861 ed alla nascita dell’anticlericalismo nel 1866 con legge n.3036 del 7 luglio, fu negato il riconoscimento e la conseguente capacità patrimoniale a tutti gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari ed i beni di proprietà di tutti gli enti soppressi furono incamerati dallo Stato. Dunque, nel 1866, il monastero, confiscato all’ordine delle benedettine, fu trasformato in sanatorio e mantenne questa destinazione d’uso fino al 1932, quando, per realizzare l’attuale palazzo di Giustizia, venne demolito gran parte del sanatorio e del Bastione Aragona, risparmiando solo la chiesa dell’Immacolata e Porta Carini, che è stata recentemente riportata all’originale bellezza da interventi di ristrutturazione effettuati dal comune.
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L’interno della Chiesa, a pianta rettangolare e navata unica con cappelle laterali poco profonde, abbaglia il visitatore per i dipinti e le sculture di pregiatissima fattura e per la sfarzosa policromia dei magnifici marmi mischi e tramischi decorazioni tipiche dell’architettura barocca. I primi sono costituiti da intarsi marmorei policromi piani; i secondi, invece, da intarsi marmorei nei quali si inseriscono elementi a rilievo, per lo più in marmo bianco. Una volta entrati, l’attenzione viene immediatamente catturata, oltre che dall’opulenza delle decorazioni anche dal presbiterio, insolitamente introdotto da un maestoso arco affiancato da due coppie di colonne in marmo cotognino,
Il soffitto della navata, a botte, è decorato da stucchi dorati e dall'affresco Il Trionfo degli Ordini religiosi di Olivio Sozzi. Al lato opposto all’altare maggiore, si trova il coro situato sul portico d’ingresso e sostenuto da quattro colonne in marmo di Billiemi. Sia il coro che il sottocoro sono decorati con affreschi nei quali spiccano tra le altre le raffigurazioni di San Benedetto e di sua sorella Santa Scolastica.
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all’interno del quale, sull’altare maggiore, spicca il grande dipinto Immacolata Concezione, realizzato da Pietro Novelli detto il “Monrealese”. Nella tela, con cornice in marmo, la Vergine Maria, sulla quale scende lo spirito santo sotto forma di colomba, è raffigurata mentre attende in piedi su una coperta di nuvole dove poggiano putti ed angeli. Sopra le quattro colonne che affiancano l’arco che introduce al presbiterio si notano altrettante statue raffiguranti San Getrude, San Mauro, San Benedetto e la sorella Santa Scolastica. L’altare è decorato con preziose pietre dure dai colori variabili dal rosso, al giallo al verde e sopra di esso si osserva uno splendido cupolino ottagonale, sul quale lo stesso Novelli dipinse gli Evangelisti insieme ad angeli.
Nei due coretti laterali, rifiniti da ringhiere in ferro battuto dorato, gli organi sono impreziositi da sculture lignee del XVIII secolo rivestite di oro zecchino. Anche il pavimento della chiesa è decorato con intarsi di marmi policromi che riproducendo motivi vari, formano nel complesso un unico e raffinato disegno geometrico.
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Ma le peculiarità della chiesa, che, senza dubbio, lasciano assolutamente rapito il visitatore, sono i cinque paliotti che ornano il fronte degli altari delle quattro cappelle e dell’altare maggiore (attualmente non visibile). Si tratta di raffinate opere di oreficeria marmorea, ricche di valenze simbolico-religiose e didattiche, la cui realizzazione si deve a geniali artisti siciliani con l’utilizzo di pietre dure come agate, lapislazzuli e vetri colorati. Il tema liturgico di ogni paliotto coincide con la dedica dell’altare: l’Immacolata, il Crocefisso, la Madonna “libera inferni”, Santa Rosalia e San Benedetto.
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Oltre ai paliotti, le cappelle più vicine all’ingresso sono ornate da due colonne tortili con intarsi nel basamento, insieme ad un tripudio di spettacolari decori in pietre dure, riccioli, volute, cornici, motivi floreali e ghirlande fitoformi, foglie di acanto e gigli stilizzati, uva e tralci di vite. Si osservano, inoltre, capitelli, dischi lapidei e cartigli marmorei, sculture varie, simboli figurati e allegorie occulte, delfini e mostri marini, conchiglie e crostacei, animali di vario genere, baldacchini, frange, pinnacoli e nappe. Un vero trionfo del barocco raccontato in maniera ridondante, immagine di un’epoca, quella della Controriforma, che è la rappresentazione stessa del potere della Chiesa.
Per un’opera così maestosa come questa forse la sua descrizione può sembrare riduttiva. Dunque, il consiglio è quello di non perdere l’occasione di visitare questo piccolo gioiello una volta giunti a Palermo, anche per le sensazioni contrastanti che è possibile vivere in questa occasione, quando, una volta usciti dal silenzio e dalla magia che infonde questo luogo sacro, ci si rituffa in mezzo alla folla ed al vociare tipico del mercato Capo.
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A cura di Gianmarco Marchesini
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Tutto ebbe inizio da un’idea di un falegname danese che, per mitigare i costi di produzione della sua azienda familiare colpita dalla Grande Depressione, incominciò a produrre dei piccoli giocattoli in legno. Nel 1932 Ole Kirk Christiansen fondò la società LEGO, dal danese “led godt” (gioca bene). Nel dopoguerra, con la diffusione della plastica, i giocattoli incominciarono ad essere componibili. Come? Con gli iconici mattoncini. Intere generazioni sono cresciute con questo gioco ed hanno tramandato la loro passione. Dopo quasi un secolo la Lego è ancora sulla cresta dell’onda. Abbraccia una clientela sempre più ampia sfornando set di costruzioni per tutte le età. Per offrire esperienze uniche, nel corso degli anni, ha realizzato parchi a tema a dir poco fantastici sparsi in tutto il globo. Il capostipite è indubbiamente quello ubicato a ridosso della cittadina di Billund situata al centro della penisola di Jylland, attuale headquarter della società danese. Inaugurato nel 1968, dalla sua apertura ha ospitato oltre 50 milioni di visitatori. Varcare la soglia è un’esperienza unica, si diventa parte del gioco. Tante MINIFIG (i personaggi componibili) in un mondo di mattoncini.
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Il parco è strutturato per aree tematiche tra le quali spiccano Mini Land, da sempre il fulcro di ogni parco Legoland dove si viene rapiti dalle riproduzioni di monumenti iconici internazionali ed importanti palazzi danesi. Pirate Land, area tematica dedicata agli intramontabili pirati e Polar Land, area dedicata al Polo Nord e al Polo Sud, completamente dedicata ad attrazioni adrenaliniche. La più recente è Ninjago World che si rifà ad uno dei temi di più avvincenti lanciati negli ultimi anni.
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Ci sono attrazioni per tutti i gusti: da quelle elettrizzanti a quelle per tutta la famiglia. Tra le tante spicca la Haunted House che richiama fedelmente uno dei set di gioco più ricercati degli ultimi anni, il Monster Fighter 10228 *. L’esterno non lascia dubbi a chi ama il mistero. Dentro e fuori la casa diroccata ragni, vampiri e fantasmi la fanno da padrone. All’interno ogni stanza è un trionfo di luci suffuse, personaggi loschi, piccoli mostriciattoli e tante “trappole”.
* Il numero che segue il titolo di ogni set prodotto rappresenta un codice univoco identificativo ed apre una finestra su un mondo parallelo popolato da appassionati e collezionisti, i cosiddetti AFOL (acronimo di Adult Fan Of Lego). Si tratta per lo più di adulti Peter Pan travolti dalla passione ed in alcuni casi, non rari, anche con spiccato senso degli affari. Alcuni di loro possiedono diorami imponenti (costruzioni di set esposti in sequenza che riproducono temi ed ambientazioni realistiche o di fantasia) che invadono la casa tra la disperazione del partner e con grande frustrazione dei figli che hanno l’assoluto divieto di giocarci. Tutta la famiglia alla fine ne viene coinvolta, sempre alla ricerca del “pezzo speciale” come nel film Lego MOVIE diventato un cult per gli amanti del genere e non.
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Superata la prova della casa infestata e tornando a passeggiare sui vialetti del parco, che brulicano di bambini impazienti di provare la prossima giostra e di adulti che ammirano le bellezze artistiche realizzate in mattoncini tra le quali la maestosa riproduzione del Monte Rushmore, ci si imbatte nel Pirate Splash Battle, un toccasana nei periodi estivi visto che consente ai visitatori di rinfrescarsi a colpi di pistole e fucili d’acqua. Dopo essersi bagnati si prosegue verso l’immancabile castello, il regno dei cavalieri. Questa attrazione, ambientata in epoca medioevale, è impreziosita da montagne russe adatte a tutta la famiglia. Una volta riscaldatisi si prosegue verso una delle attrazioni più adrenaliniche dell’intero parco, il Polar X-plorer. Si tratta di montagne russe che, tra animali selvatici Lego e pinguini vivi, mette alla prova anche i più coraggiosi. Ultimati gli attentati alle vostre coronarie, la visita al parco concede finalmente momenti più tranquilli tra i vari punti di ristoro ed il Safari. Un rilassante giro nella jeep zebrata alla ricerca di splendidi animali costruiti e progettati in maniera impeccabile, assolutamente realistica ed a volte ironica. Laura Rossini Photography
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Il tempo scorre veloce e con il calar del sole si raccolgono le emozioni e ci si appresta ad abbandonare il parco. Ma prima di lasciarsi alle spalle questa favolosa avventura è tassativo recarsi nel Lego Shop che sorprende i visitatori con tanti e colorati gadget esclusivi. Il parco, nella cittadina danese come nel resto del mondo, offre diverse soluzioni di pernotto per tutte le tasche in pieno stile Lego. Per i più facoltosi è doveroso prenotare una stanza al Legoland Castle Hotel, una vera chicca in termini di accoglienza e ricettività. Ovviamente in questi casi si gode di alcuni privilegi come sconti sull’ingresso ed accesso al parco con orario prolungato rispetto agli altri in entrata ed in uscita.
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Per chi non si accontenta, a ridosso del parco sono presenti altre attrazioni tra le quali segnaliamo Lalandia e la Lego House. Due strutture che completeranno la vostra esperienza e lasceranno un ricordo indimenticabile. Se si vuole organizzare un week end nel paese dei balocchi è facile e veloce. Basta prenotare in anticipo un aereo con compagnie low cost con destinazione direttamente su Billund. Importante avvertimento: fate attenzione al periodo ed alle giornate di chiusura del parco per evitare sorprese. Per chi avesse maggiori disponibilità di tempo e pecunia potrebbe invece fare tappa qui organizzando un meraviglioso viaggio itinerante alla scoperta di questo paese che fonde cultura, storia, divertimento, architettura, ambiente e natura. Una soluzione potrebbe essere scegliere all’andata l’aeroporto di Billund con ritorno su Copenaghen o viceversa, attraversando il paese in auto, oppure per i più temerari e sportivi in bicicletta.
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STREGONERIE E SUPERSTIZIONI NELLA CITTA’ DEI PAPI
A cura di Laura Rossini
Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
In collaborazione con Associazione Radici
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La nostra guida di oggi è Andrea Angelucci. Giovane e promettente archeologo, ha studiato un itinerario insolito quanto affascinante per raccontare la magia di Roma nel senso più letterale del termine. Andrea, meglio conosciuto all’interno dell’Associazione come ”Alberto Angela de noantri”, ci farà scoprire luci ed ombre della convivenza tra stregonerie e superstizioni da un lato, e la Chiesa Cattolica dall’altro che, soprattutto in epoca medievale, sembrano legati indissolubilmente come Yin e Yang. L’appuntamento è a Santa Croce in Gerusalemme una delle sette chiese del percorso di pellegrinaggio ideato da San Filippo Neri, una tra le più grandi Basiliche di Roma, dove è custodito il maggior numero di reliquie di Gesù.
SANTA CROCE IN GERUSALEMME Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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La struttura della facciata è molto sobria. In alto, nella parte centrale, vediamo la Croce di Gesù tra due angeli ed al loro fianco i quattro Evangelisti. All’estrema sinistra c’è la statua di una donna, Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, anch’egli rappresentato all’estremità opposta. A lei si deve il ritrovamento in Terra Santa di alcune delle reliquie qui conservate, tra le quali proprio un frammento della croce di Gesù. La Santa, oggi Patrona degli archeologi, riportò a Roma una parte di quella terra scavata durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme e la fece utilizzare come base per la costruzione di una cappella nel Sessorio, l’allora residenza dell’Imperatore. Sui resti di questi edifici nel ‘700 fu ricostruita la chiesa per come la conosciamo oggi.
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Secondo la tradizione, finché ci fosse stato il Jinn a sorvegliarli, Silvestro II non avrebbe potuto aprire il libro, né in cielo né in terra. Ma la tentazione fu irresistibile per quanto imperdonabile per un uomo di Chiesa. Così Silvestro II, dotato di fine intelletto e probabilmente molto atletico, un giorno rubò il libro e si mise a correre per alcuni chilometri fino ad arrivare a Ponte Milvio. Si legò ad una corda, si buttò dal ponte rimanendo sospeso a testa in giù, a mezz’aria, tra il ponte e l’acqua del fiume Tevere.
Visse in pieno Medioevo. Uomo di cultura, di fede, ma anche assetato di sapere e conoscenza. Proprio per offuscare la sua immagine, furono divulgate storie infamanti e dicerie, sia prima che dopo la sua elezione a Papa.
Riuscì così a soddisfare la sua sete di conoscenza, divenendo il mago più potente al mondo. Mai sazio di sapere, un giorno interrogò anche la maschera, chiedendole dove sarebbe morto e la risposta fu: “Gerusalemme”. Passò i suoi giorni pensando che bastasse non recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa per avere salva la vita. Tuttavia, mentre stava celebrando la Messa in una Chiesa, ebbe un malore e realizzò di essere proprio sul terreno sacro di Santa Croce in Gerusalemme. Ma non finisce qui. Il Papa, comprendendo che fosse ormai giunta la sua ora, diede disposizione di essere adagiato su un carro trainato da buoi e di essere sepolto nel luogo in cui si sarebbero fermati spontaneamente.
La leggenda gli attribuisce il ritrovamento della Tomba di Augusto, che nel Medioevo si credeva fosse ricca di tesori. Si narra che, al centro di una grande stanza circondata da 12 troni, egli trovò due oggetti: un libro nero, contenente incantesimi e tutta la conoscenza del mondo, e una maschera in grado di predire il futuro, entrambi protetti da un Jinn, uno spiritello.
Si fermarono a San Giovanni in Laterano, non lontano da Santa Croce, dove ancora oggi è sepolto. La leggenda vuole che la magia continui ancora. Finché la superficie della tomba di Silvestro II rimarrà asciutta il Papa in carica godrà di buona salute, ma qualora dovesse cominciare a trasudare umidità, la sua vita sarebbe giunta al capolinea. Auguriamoci, quindi, che resti a lungo asciutta!
Il legame di questo edificio con la stregoneria è riconducibile alla figura del Papa Mago. Il racconto di Andrea inizia dalla storia di Gerberto di Aurillac, divenuto Papa con il nome di Silvestro II.
SANTA CROCE IN GERUSALEMME Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 64
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Terminato il racconto, riprendiamo il cammino e ci fermiamo vicino alla Chiesa di Santa Maria del Buon Aiuto. Costruita alla fine del 1400 e dedicata alla Vergine Maria per un voto fatto dal Papa Sisto IV che, trovandosi una sera in mezzo ad un fortissimo temporale, chiese di arrivare sano e salvo a casa. Questa chiesetta è conosciuta come Santa Maria Oblatoria o Santa Maria della scopetta. Si trovava infatti lungo un cammino di pellegrinaggio ai confini della città, dove era usanza lasciare monetine per buon auspicio. I frati che la custodivano avevano l’abitudine di tirar via le monetine con la scopa; questo è uno dei motivi per cui a questo oggetto viene attribuita un’accezione positiva.
Maurizio Lapera Photography
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Nei secoli è sempre stata un oggetto benaugurante. Esiste però qualcuno che la utilizza come mezzo di locomozione e che di benaugurante e positivo ha ben poco: la strega. La strega, infatti, ha un potere malefico tanto forte da assoggettare la scopa al suo volere. Per contrastare la negatività di questo personaggio, il paganesimo se n’era inventato uno con le medesime caratteristiche, ma amato dai bambini: una sorta di “antistrega”, ovvero la Befana. Si narra, per poterla distinguere dalla strega, che ella cavalcasse la scopa al contrario.
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Seguiamo le mura aureliane e il racconto di Andrea si sofferma su un aspetto interessante per archeologi ed antropologi: la superstizione.
Le mura corrono fino a perdersi di vista sulla sinistra, mentre davanti a noi si apre Piazza San Giovanni, sullo sfondo la Basilica.
Principe della superstizione è il gatto nero che tra queste mura ha costituito una considerevole colonia. Nel Medioevo si diceva che le streghe si trasformassero in questi felini per confondersi nel buio della notte e sfuggire all’inquisizione.
Ci troviamo ai piedi della Statua di San Francesco, il poverello d’Assisi che, per evitare di essere tacciato di eresia, giunse a Roma per chiedere a Papa Innocenzo III l’approvazione per il suo operato. La statua sembra dire: “sono pronto a far parte della Santa Romana Chiesa per servirla, a modo mio”.
Era un periodo duro per chi amava il sapere, la conoscenza ed in particolare per le donne. Bastava infatti una semplice denuncia anonima, anche falsa, per essere accusate di stregoneria ed essere condannate al rogo.
Probabilmente questo fu un compromesso storico che permise alla Chiesa Cattolica di sopravvivere nei secoli.
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Questo luogo è una via di mezzo tra il sacro ed il profano e con profano ci si riferisce ad un evento rimasto vivo nelle tradizioni popolari fino agli anni ’80: la notte di San Giovanni, meglio conosciuta come la notte delle streghe. Si credeva che nella notte più corta dell’anno, tra il 23 e il 24 di giugno, il solstizio d’estate, le streghe sorvolassero Roma, dirette a Benevento, per celebrare la cerimonia del Sabba, durante la quale veneravano il diavolo e ricevevano da lui nuovo vigore e potere. Per esorcizzare questo evento, il popolo di Roma si riversava in piazza nel “Rione I Monti” da ogni parte della città per pregare San Giovanni, affinché li proteggesse.
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Qui passavano la notte, accendendo grandi falò, nei quali venivano bruciate erbe dalle proprietà magiche. Partecipavano a riti propiziatori di ogni genere, come il lavaggio delle mani nella fontana per scacciare le sventure per un intero anno, oppure mangiavano lumache perché “ad ogni corno di lumaca la sventura s’allontana”. Banchettavano tutta la notte per poi assistere, la mattina seguente, alla Messa del Papa. Uno dei più grandi pittori dell’800, Ettore Roesler Franz, rappresentò questa scena nell’acquarello L’alba dopo la festa di San Giovanni.
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Ci incamminiamo ora lungo la Via Papalis, così chiamata perché percorsa dai Papi quando si spostavano da San Giovanni a San Pietro, e facciamo tappa alla Basilica e Monastero Agostiniano dei Quattro Santi Coronati. La chiesa è intitolata a quattro scalpellini che, fedeli alla loro religione, si rifiutarono di realizzare la statua di un dio pagano loro commissionata dall’Imperatore Diocleziano. Quello che oggi è un monastero di monache di clausura fu, per diverso tempo, utilizzato dai Papi come rifugio, in caso di pericolo. Infatti, dalla Torre Saracena e dalle mura di cinta, questo edificio somiglia più a una fortezza che non a una chiesa.
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All’angolo della strada, proprio sotto il monastero, all’interno di un’edicola viene ricordato un episodio un po’ scomodo per la storia della Chiesa, seppur leggendario. Si narra infatti che, proprio in questo luogo, il Papa cadde da cavallo, perdendo molto sangue. Gli fu prestato soccorso e ricovero nella vicina chiesa di San Clemente. Si accorsero così che in realtà il Papa era una donna e che sanguinava perché stava dando alla luce un bambino. La leggenda della Papessa Giovanna ha origini Nord Europee e narra di una giovane ragazza che, assetata di conoscenza, decise che l’unico modo per poter accedere a cultura ed istruzione fosse fingersi uomo ed intraprendere la carriera ecclesiastica.
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Siamo arrivati all’ultima tappa del nostro tour: voltiamo l’angolo ed ecco far capolino sua maestà il Colosseo. Intorno all’anno 1000, si pensava che tutto ciò che era stato costruito dai romani fosse opera del diavolo o di altre arti oscure, solo perché non se ne comprendevano le tecniche di costruzione. Vennero quindi relegati a luoghi di magia oscura, dove si praticavano riti e sortilegi. Una testimonianza arriva direttamente dal diario di Benvenuto Cellini. L’artista fiorentino, trasferitosi a Roma, divenne, suo malgrado, protagonista di un rito propiziatorio, preparato per
lui all’interno dell’anfiteatro da un frate che si era offerto di aiutarlo a conquistare una donna della quale si era invaghito. Non tutto andò come previsto durante il rito magico di evocazione degli spiriti, poiché cominciò ad affollarsi una quantità di anime ben superiore a quella richiamata dal frate. Così scriveva lo scultore nel suo diario: “le legioni eran l’un mille più di quel che lui aveva domandato”. Scrisse che poi riuscì comunque a fidanzarsi con la ragazza, tuttavia gli rimase sempre il dubbio che il merito fosse da attribuire al frate.
Ringraziamo ancora Radici APS per averci ospitato e Andrea Angelucci per la sua disponibilità e preparazione: davvero un bravissimo divulgatore! www.radiciaps.it
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Magia sabauda tra luci e geometrie Autore: Gaia Amaranta Taberna Campanile del Duomo, Torino
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Castello di Chenonceau Autore: Matteo Pappadopoli Castello di Chenonceaux sulla Loira (Francia)
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Innocente Stupore Autore: Americo Arcucci Myanmar (ex Birmania)
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