Giroinfoto magazine 65

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N. 65 - 2021 | MARZO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.65 - MARZO 2020

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Botteghe

PIEMONTE, LIGURIA, TOSCANA, LAZIO, SICILIA Band of Giroinfoto VALTOURNENCHE VALLE D'AOSTA Di M.Albanese e D. Truffelli

CASTELLO DI BRACCIANO ORSINI-ODESCALCHI Di Mariangela Boni

ZICCAT CIOCCOLATERIA TORINESE Band of Giroinfoto Photo cover by Giacomo Bertini


WEL COME

65 www.giroinfoto.com MARZO 2021


LA REDAZIONE

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GIROINFOTO MAGAZINE

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Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.

Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.

Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.

Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.

Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.

Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.

Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.

Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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Attività

Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

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Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

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20 Marzo 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana

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CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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LA BOTTEGA DI NELLO

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CASTELLO DI BRACCIANO

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LA BOTTEGA DI NELLO Botteghe toscane Band of Giroinfoto Toscana

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CASTELLO DI BRACCIANO Orsini Odescalchi Di Mariangela Boni

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ZICCAT Cioccolato torinese Band of Giroinfoto Piemonte

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I PUPI Botteghe siciliane Band of Giroinfoto Sicilia

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UNO SGUARDO NEL LABIRINTO DELLA STORIA Maurizio Galimberti Skira Editore


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BOTTEGHE ROMANE

BOTTEGHE ROMANE Botteghe laziali Band of Giroinfoto Lazio

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LA VALTOURNENCHE Valle d'Aosta Di Manuela Albanese e Dario Truffelli

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VILLA MAGGIORDOMO Urbex Di Lorena Durante e Samuele Silva BOTTEGHE GENOVESI Botteghe liguri Band of Giroinfoto Liguria FOTOEMOZIONI DI Francesco Pennisi Manuela Albanese

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VALTOURNENCHE

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VILLA MAGGIORDOMO

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BOTTEGHE GENOVESI

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LA BOTTEGA DI NELLO

BOTTEGHE TOSCANE A cura di Giacomo Bertini L’ARTE ORAFA ALL’INSEGNA DELLA TRADIZIONE Nella città di Lucca fin dal tempo dei longobardi la lavorazione dei metalli, ad eccezione del ferro, ha avuto un’enorme rilevanza su tutto il territorio, favorendo nella città lo sviluppo delle attività artigiane e commerciali connesse.

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LA BOTTEGA DI NELLO

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Nel 1712 i governanti della Repubblica di Lucca, attraverso la magistratura dei Commissari di Zecca, riconoscono l’importanza degli orefici dando loro una nuova identità nel contesto cittadino. Ad oggi questa attività viene esercitata con tecniche di lavorazione all’avanguardia e con strumenti che facilitano il lavoro dell'orefice nella produzione dei manufatti, tuttavia esistono ancora delle attività che sfruttano tecniche antiche tramandate di generazione in generazione come la nostra “Bottega di Nello”. Il laboratorio è collocato all’interno della cerchia muraria di Lucca alle spalle del Duomo di San Martino, nella zona della città già racchiusa nella prima cinta muraria di epoca romana (II sec a.C.), al piano terra di un edificio risalente al periodo medievale, affiancata ad un’altra bottega di artigiani doratori, oggi non più in attività.

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LA BOTTEGA DI NELLO

Giacomo Bertini Photography

All’interno della bottega è ben visibile la patente di orefice e argentiere rilasciata al sig. Giovanni Battista Bastiani datata 21 novembre 1791, con la quale si autorizzava l’attività nel rispetto delle normative vigenti, quali l’obbligo di punzonare con il proprio marchio identificativo gli oggetti di metallo prezioso prodotti, a garanzia dei committenti o degli eventuali acquirenti. Negli anni successivi l’attività è continuata grazie all’impegno degli artigiani Carlo, Luigi e Mario Favilla e a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, con Nello Giovacchini coadiuvato poi dal figlio e Cesare. Nel 1935 lo Stato italiano pose l’obbligo a tutti gli orafi titolari di attività produttiva di registrarsi presso le Camere di Commercio provinciali così da ottenere

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contestualmente l’assegnazione del marchio distintivo per la punzonatura composto dalla sigla provinciale e dal numero d’ordine di registrazione. Il 30 giugno Mario Favilla fu il primo orafo che si assoggettò alla nuova normativa ricevendo il numero 1 dal registro, ottenendo quindi il punzone “1LU”. L’attribuzione di questo punzone fu certamente per lui motivo di orgoglio, tenuto conto anche della distanza del suo laboratorio dalla tradizionale zona di insediamento degli orafi colleghi documentati sin dal medioevo nell’area più centrale compresa tra l’inizio di via Fillungo e via Santa Lucia.


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LA BOTTEGA DI NELLO

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LA BOTTEGA DI NELLO

Un’altra caratteristica distintiva della bottega rispetto alle altre è data dalla sua specializzazione in argenterie d’uso liturgico e soprattutto dal ruolo di orafo di fiducia del Capitolo della cattedrale e dell’Opera di Santa Croce. Intorno al 1946, non avendo eredi maschi, il Favilla si mise alla ricerca di un collaboratore per la sua bottega ed individuò, dopo una lunga selezione, la persona giusta in Nello Giovacchini che, grazie alle sue abilità artistiche requisito indispensabile

Giacomo Bertini Photography

Oltre a continuare nell’utilizzo delle antiche tecniche di lavorazione, che descriveremo a grandi linee più avanti, Nello ha saputo trasmettere al figlio Cesare, fino al giorno in cui è venuto a mancare (febbraio 2013), l’importanza ed il valore insiti nella produzione di un oggetto completamente realizzato a mano e nel caso di opere di restauro, si aggiunge la necessità di compiere un lavoro di ricerca e di studio sulla storia dell’oggetto stesso per garantire la sua reale natura e un’opera di restauro ad essa fedele.

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per quel lavoro, si affermò apportando migliorie nel modo di lavorazione del metallo attraverso l’utilizzo di un macchinario che egli stesso aveva messo a punto. Alla morte del Favilla avvenuta nel 1959, Nello succedette come maestro argentiere ereditando così tutte le tecniche utili alla lavorazione dell’argento che era il materiale più utilizzato all’interno della bottega.


Oggi

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LA BOTTEGA DI NELLO

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la “Bottega” è condotta in società da Cesare e dal cugino di quest’ultimo, Angelo Ramacciotti, ed è conosciuta in Toscana per il suo metodo tradizionale di lavoro e per le sue opere di estrema importanza come il restauro di alcuni paramenti del “Volto Santo” il venerato. Si tratta di un antichissimo crocifisso giunto a Lucca per vie misteriose che viene adornato il 3 maggio (Invenzione, cioè ritrovamento, della Santa Croce) e il 13 e 14 settembre (Esaltazione della Santa Croce, la festa grande della Chiesa di Lucca) con gli artistici e preziosi ornamenti da sempre affidati alla cura della “Bottega di Nello”, così come avviene per la “Croce dei Pisani” che, leggenda vuole, sia stata sottratta dai lucchesi agli acerrimi nemici della città vicina con un astuto espediente. La leggenda narra che i pisani, bisognosi di un prestito, la diedero in pegno alla Cattedrale di Lucca. I lucchesi si resero conto che la croce aveva un valore ben più alto del prestito e così escogitarono uno stratagemma: il giorno della scadenza del prestito misero tutti gli orologi della città un’ora avanti, i pisani arrivarono irrimediabilmente in ritardo e così persero il diritto di riavere il crocifisso. In realtà la croce apparteneva al signore di Lucca Paolo Guinigi che non essendo molto amato decise di spostare alcune delle sue ricchezze al di fuori della città.

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LA BOTTEGA DI NELLO


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LA BOTTEGA DI NELLO

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Ora approfondiamo le varie tecniche di lavorazione. L'incisione Con questa tecnica si incide il metallo mediante l’utilizzo di bulini, detti anche “ciapole”, ovvero sottili scalpelli con punta in acciaio con i quali l’incisore realizza il disegno prestabilito. Prima di iniziare con l’incisione è necessario che l’oggetto da lavorare sia fissato su di un piano mobile, grazie all’applicazione della pece riscaldata in modo tale che aderisca perfettamente al materiale da incidere e lasciata raffreddare prima di iniziare la lavorazione. Lo sbalzo Fissando l’oggetto con la pece, come avviene per l’incisione, l’artigiano modella il metallo colpendolo con un martello e dei ceselli. Prima di iniziare è necessario assicurarsi che il metallo non abbia perso la sua malleabilità, quindi solitamente si effettua la “ricottura”, cioè un trattamento termico che consiste nel riscaldamento ad una temperatura superiore a quella di “austenitizzazione”.

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LA BOTTEGA DI NELLO

Giacomo Bertini Photography

La saldatura ad argento L’artigiano con questa tecnica unisce due parti metalliche con l’ausilio di una lega di argento che ha un punto di fusione più basso. Come fondente viene utilizzato il sale di borace in soluzione con acqua, per impedire al metallo di ossidarsi nel punto in cui viene saldato e, dopo aver spennellato la parte con la soluzione di borace, si procede con l’aggiunta di piccoli

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pezzi rettangolari di argento in lega posti nel punto esatto e riscaldati lentamente con un cannello a fiamma regolabile. Per effettuare questa saldatura è necessaria molta esperienza in quanto il metallo più è mantenuto rosso più difficilmente si salda e quindi è molto facile danneggiare il pezzo.


| ALBEROBELLO R E P O RRTEAPGOER T|A GLAE BOTTEGA DI NELLO

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Doratura e argentatura in bagno galvanico La doratura galvanica è un procedimento elettrolitico che può essere effettuato su vari metalli. Dopo aver preparato il bagno per l’argento o per l’oro si immerge l’oggetto di metallo sul quale si forma una sottile lamina sfruttando un flusso di corrente continua a bassa tensione.

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LA BOTTEGA DI NELLO

La lucidatura Una delle tecniche antiche utilizzate per la lucidatura dei metalli è quella che prevede l’impiego di un utensile chiamato “brunitoio”. Questo utensile generalmente ha una punta di acciaio o di agata in forme diverse tali da poter operare su ogni tipo di superficie.

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L’operazione consiste nello strofinare con la parte estrema del “brunitoio” il manufatto nei punti in cui si presenta opaco, fino a che non si ottiene la perfetta lucentezza del metallo.


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LA BOTTEGA DI NELLO

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La tornitura Con questa tecnica è possibile lavorare un oggetto agendo sia sulla superficie che al suo interno ottenendo l’asportazione del materiale superfluo, cioè del “truciolo”. Altra applicazione di questa tecnica è la tornitura a lastra che consiste nella lavorazione del metallo mediante la deformazione di una lastra o lamiera, forzando un disco di metallo contro le pareti di uno stampo, con lo scopo di ottenere il manufatto a simmetria assiale come coppe e piedi per calici o pissidi.

+ info La Bottega di Nello | artigiani argentieri Via dell'Arcivescovato, 22 - 55100 Lucca www.labottegadinello.it

La “bottega di Nello”, oltre a rappresentare un luogo di eccellenza dell’artigianato d’artista e a essere caratterizzata dal fascino di un mestiere antico, esprime il carattere buono e umano di quell’artigiano che ha saputo preparare ed ispirare le successive generazioni, cioè Nello Giovacchini al quale, a buon diritto, è stata intitolata la bottega.

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CASTELLO DI BRACCIANO

Mariangela Boni Photography

Castello

Orsini Odescalchi NEL CUORE DI BRACCIANO A cura di Mariangela Boni Giroinfoto Magazine nr. 65


R E P O R TRAE G P EO R|T ACASTELLO G E | TORI DI BRACCIANO DI TORINO

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Mariangela Boni Photography

A pochi chilometri da Roma si trova il castello Orsini-Odescalchi, un’inespugnabile fortezza che si affaccia sull’antico Lago di Bracciano, offrendo una cornice di rara bellezza. La dimora prende il nome dalle famiglie proprietarie più importanti. La struttura originaria, ancora parzialmente visibile, è la Rocca Vecchia di epoca tardo medioevale, costruita dai prefetti di Vico che, nel 1200, amministravano buona parte della Tuscia tra Roma e Viterbo.

Bracciano

Con il passaggio dai Vico agli Orsini, si assiste all’espansione e completa trasformazione del castello che continuò fino alla fine della loro dinastia, nel XVII secolo, quando passò alla famiglia Odescalchi, attuale proprietaria. Durante l’occupazione francese il castello viene saccheggiato e ceduto alla famiglia romana dei Torlonia ma, nel 1848, il Principe Livio III Odescalchi lo riscatta e il figlio Baldassarre affida il restauro all’architetto Raffaello Ojetti riportandolo al suo antico splendore.

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CASTELLO DI BRACCIANO

La fortezza si presenta come una struttura massiccia, di forma pentagonale, con cinque torri e tre cinta murarie. Sull’arco che conduce al viale d’ingresso si scorge inciso il nome del personaggio più illustre della famiglia Orsini: Paolo Giordano Orsini. Egli era il bisnipote di due papi molto influenti del Rinascimento: Papa Paolo III e Papa Giulio II. Nacque il primo gennaio del 1541. Sua madre, Francesca Sforza di Santafiora, era figlia di Costanza Farnese, nata da una relazione illegittima del Cardinale Alessandro Farnese, futuro Papa Paolo III. Suo padre, Girolamo Orsini, trovato morto tra i vicoli di Roma qualche mese prima, era invece figlio di Felice della Rovere conosciuta come “la figlia di sua Santità”, anch’essa nata da una relazione illegittima del cardinale Giuliano Della Rovere, futuro Papa Giulio II. All’età di 7 anni Paolo Giordano rimase orfano e il suo tutore divenne lo zio Cardinale Ascanio Sforza di Santafiora.

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Varcato l’arco e dirigendoci verso l’ingresso, rimaniamo rapiti dalla bellissima veduta sul Lago di Bracciano nel suo antico cratere. La leggenda narra che un tempo, al suo posto, vi fosse la città di Sabate o Sabazia, sparita negli abissi delle acque come Atlantide e, infatti, il lago si chiama anche Sabatino. Secondo la leggenda, solo una fanciulla si salvò dalla catastrofe dello sprofondamento di Sabate. L’unica a essersi comportata umanamente nei confronti di un misterioso personaggio, probabilmente una divinità, che si vendicò della popolazione facendo inghiottire la città dal lago. La ragazza ricevette istruzioni di correre, senza mai voltarsi. Raggiunse la parte alta del colle di Bracciano, dove ora sorge la chiesa di Santa Maria del Riposo, edificata proprio a simboleggiare la sosta durante la fuga.


R E P O R TRAE G P EO R|T ACASTELLO G E | TORI DI BRACCIANO DI TORINO

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CASTELLO DI BRACCIANO

Proseguiamo verso il portale d’accesso, dove Paolo Giordano ha fatto incidere una scritta in latino. La particolarità è che la scritta è in prima persona, come se fosse il castello stesso a parlare e cita: “Fui fondato da Napoleone Orsini, Capitano della Chiesa, faccio entrare i giusti e respingo i colpevoli”. Questa scritta fornisce un importante indizio sui fondatori del castello e sui loro ruoli.

SCALA MONUMENTALE

Napoleone Orsini e suo figlio Gentil Virginio erano condottieri al soldo di papi e principi e furono i veri fondatori degli Orsini di Bracciano nel loro Stato tra Lazio e Abruzzo. Il fatto che il fratello di Napoleone, il Cardinale Latino fosse nientedimeno che il camerlengo di Sisto IV, gli permise di avere come soprintendente ai lavori l’architetto fiorentino Giovannino de’ Dolci, lo stesso che eseguiva il progetto della Cappella Sistina.

ARMERIE

Varcato il portale, ci troviamo nel vestibolo, dove ad accoglierci c’è la statua di un’orsa che regge uno stemma con una rosa, il simbolo degli Orsini. Essi dicevano, infatti, di discendere da Ursus, che fu allattato da un’orsa, e gli umanisti trovarono addirittura un’eco cosmica per gli Orsini tra la costellazione dell’Orsa Maggiore. Sulla destra del vestibolo si accede alle armerie. Per la loro costruzione gli Orsini si erano affidati al più grande ingegner militare dell’epoca, Francesco Di Giorgio Martini, per avvalersi delle tecniche più avanzate. Le armi e la guerra rivestivano un ruolo fondamentale per questa famiglia al punto che persino la sorella di Gentil Virginio, Bartolomea, fu indottrinata alla difesa di un possedimento. Istruzione che si rivelò utile: spettò a Bartolomea, infatti, difendere il castello dall’assedio dei Borgia.

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CASTELLO DI BRACCIANO

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Gli Orsini commisero l’errore di ospitare il re di Francia Carlo VIII durante la sua discesa verso l’invasione di Napoli. Gesto che fu visto come un tradimento sia, ovviamente, dal re di Napoli, sia dal Papa Alessandro VI Borgia. Gentil Virginio fu imprigionato a Castel dell’Ovo a Napoli, dove morì avvelenato. Giovanni Borgia, figlio del Papa, distrusse i vari castelli degli Orsini che incontrò durante la sua ascesa a nord, come la Rocca di Trevignano che fu rasa al suolo. La fortezza di Bracciano, grazie all’architettura militare e alla gestione di Bartolomea, resistette invece all’attacco. Usciti dalle armerie ci incamminiamo sulla scalinata monumentale che, un tempo percorribile a cavallo, porta alla corte d’onore. Sulla destra c’era il monumentale affresco che, per motivi di conservazione, è stato trasferito all’interno, nella Sala di Gentil Virginio. Nella corte l’architettura militare e quella rinascimentale si fondono perfettamente in una sorta di piazza di una cittadella ideale. Due piani di arcate nascondono gli appartamenti privati, oggi abitati dagli Odescalchi.

Dietro la scalinata sulla destra si trova una piccola cappella voluta dal nonno di Paolo Giordano e dedicata a San Giacomo, patrono degli Orsini, tant’è che il castello era conosciuto anche come Rocca di San Giacomo. Il portale, decorato all’antica da maestranze della Roma sistina, dà accesso ai piani nobili dove gli Orsini incontravano gli illustri visitatori. È qui che, nel giugno del 1553, il Cardinale Ascanio Sforza di Santafiora e l’ambasciatore fiorentino di Cosimo de’ Medici siglarono l’accordo matrimoniale tra Paolo Giordano e Isabella de’ Medici, all’epoca di 12 e 11 anni. Il matrimonio fu celebrato 5 anni dopo. La carriera di Paolo Giordano era in piena ascesa e due anni dopo Papa Pio IV elevò Bracciano a capitale di un Ducato.

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CASTELLO DI BRACCIANO

Mariangela Boni Photography Sulla sinistra della corte si trovano le cucine. Al loro interno si muovevano numerose figure, gerarchicamente organizzate e con ruoli diversi: c’erano i capicuochi e cuochi secondari che a loro volta dirigevano molteplici aiutanti. Basti pensare che le cucine fungevano da macelleria, dispensa, luogo di preparazione dei cibi e luogo dove pasteggiava la cosiddetta “famiglia bassa”. A tavola c’era un tagliatore che affettava la selvaggina, uno scalco che si occupava di coordinare le vettovaglie, un coppiere che sceglieva i vini e un bottigliere che li assaggiava. I banchetti di Gentil Virginio erano rinomati per la loro magnificenza, mentre quelli di Paolo Giordano per il rigoroso galateo. Passando l’arco e salendo la scalinata ci troviamo di fronte alla Rocca dei Vico: come detto all’inizio, questa struttura è la parte più antica ed è letteralmente un castello medievale all’interno di un castello rinascimentale.

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Fu probabilmente usata come schermo nei confronti degli attacchi nemici e originariamente l’entrata del castello era da questo lato, all’altezza della chiesa di Santo Stefano. Salendo ulteriormente le scale si giunge alla torre del belvedere e al camminamento di ronda. Dalla torre del belvedere si può ammirare il Lago di Bracciano, sulla destra la chiesa di Santo Stefano e l’antica via Clodia che porta a Roma. Chi viaggiava tra Firenze e Roma avrebbe sicuramente attraversato uno dei feudi della famiglia Orsini. Dal camminamento di ronda si possono, invece, vedere le feritoie dei soldati per la difesa della fortezza. In alcuni casi i merli potevano essere scalzati per farli precipitare sui nemici che tentavano la scalata. Dalla loggia con i due archi si accede al piano nobile.


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ODESCALCHI

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CASTELLO DI BRACCIANO

ORSINI

La sala Gentil Virginio È dominata dal grande affresco che in origine si trovava nella corte. Commissionato proprio da Gentil Virginio al pittore Antoniazzo Romano nel 1490, rappresenta due momenti della vita del condottiero. A destra l’incontro con Piero de’ Medici e a sinistra la cavalcata cerimoniale lungo il territorio di Bracciano. Piero de’ Medici, futuro Signore di Firenze, si fermò nel castello durante il suo viaggio verso Roma per condurre la sorella in sposa al figlio di Papa Innocenzo VII. Il signore di Firenze e il suo seguito sono raffigurati con abiti sfarzosi e cappelli piumati. Da notare che è ritratto nell’atto di chinarsi mentre Gentil Virginio quasi guarda verso lo spettatore: una vera e propria ostentazione del potere degli Orsini. La cavalcata cerimoniale rappresenta il momento in cui il condottiero prese possesso dell’estremo comando delle milizie aragonesi: in sella a un cavallo bianco, indossa la collana d’oro dell’Ordine dell’Ermellino e impugna il bastone di comando dell’esercito aragonese. Di fronte all’affresco si trova una parte della collezione di armi degli Odescalchi. Di particolare interesse è l’armatura su cavallo bardato di damasco rosso con l’originale equipaggiamento protettivo.

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La prima stanza che s’incontra è la Sala degli stemmi: a sinistra gli Odescalchi, a destra gli Orsini. L’araldica degli Orsini come già accennato gioca sui simboli dell’orsa e della rosa. Lo stemma degli Odescalchi, invece, riporta gli incensieri, simbolo religioso della lotta contro gli infedeli, e il leone con l’aquila imperiale che legittimano la loro discendenza da Carlo Magno. Mentre gli Orsini fecero parte di un Paese diviso in tanti stati, gli Odescalchi furono parte attiva nell’unione del Paese. Superata questa sala si succedono una serie di camere e anticamere. La prima è la sala etrusca, caratterizzata da una finestra a croce guelfa, simbolo della politica filopapale degli Orsini, con una seduta rialzata che permetteva di dedicarsi alle conversazioni, alla lettura o alla contemplazione del lago. Solo i soffitti sono decorati; le pareti erano in origine ricoperte da arazzi, tessuti ricamati e quadri di artisti fiamminghi, portati da Paolo Giordano dalle Fiandre.


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CASTELLO DI BRACCIANO

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CASTELLO DI BRACCIANO

La loggia delle armi Qui è possibile vedere due particolari armature alla massimiliana, ovvero ispirate a Massimiliano d’Asburgo, completamente realizzate in piastre d’acciaio scanalate per resistere ai colpi di arma da fuoco e nel contempo ricordare i drappeggi degli abiti più eleganti. La visiera a soffietto era completamente rivestita in cuoio per attutire i colpi

La sala delle scienze Gli affreschi presenti in questa sala fanno presumere che un tempo fosse una biblioteca. Infatti, si fondono figure che ricordano il trivio, il quadrivio, l’astrologia e la musica con immagini ispirate ai tarocchi. Oggi invece questo spazio è allestito come un museo dedicato alla Madonna. Nel ‘400 le immagini mariane erano assai diffuse a protezione del focolare da sciagure naturali, da malattie o da complicanze durante la gravidanza. Alla sinistra del camino c’è la Madonna col bambino e due angeli, della scuola di Masaccio, dove il bambin Gesù viene umanizzato rappresentandolo col tipico gesto di un neonato che si porta la mano alla bocca. Alla destra del camino un’icona raffigura una Madonna che

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allatta Gesù, a testimonianza simbolica della natura umana di Cristo. Di fronte al camino c’è una Madonna del Buggiano, allievo di Brunelleschi. Lo sguardo e il panno che avvolgono Gesù rappresentano la presa di coscienza del sacrificio sulla croce. Ai lati della finestra un’annunciazione di un anonimo del ‘500; le due pale che la compongono erano in origine due ante d’organo. L’Arcangelo Gabriele offre il giglio virginale a Maria, mentre la Madonna è circondata da libri e iscrizioni a significare che il verbo si sta facendo carne. Di fronte alla finestra c’è una pietà nordica del XIV secolo. Il tema dell’addolorata con il figlio sulle ginocchia, infatti, si sviluppò prima in Germania e poi in Italia.


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La sala magna Questo ambiente è dedicato a Felice della Rovere, che troviamo ritratta in alto a destra del camino. Questa stanza è un tributo alle donne. Gli affreschi, risalenti all’inizio del ‘500, sono di Antonio da Viterbo e raffigurano ritratti di donne illustri dell’antichità. Felice era una donna colta, aveva conosciuto Leonardo, Michelangelo, Bramante e Raffaello. Alla nascita dei due figli maschi, il padre, Papa Giulio II, le donò un’ingente somma di denaro che Felice utilizzò per riscattare il castello di Bracciano. Dopo la morte del marito, Felice divenne governatrice delle terre degli Orsini. Al centro della sala troviamo una collezione di cassoni nuziali, metafore delle doti matrimoniali che erano oggetto di complesse trattative economiche tra famiglie per assicurare uno sposo di alto rango ad una giovane donna. Sul soffitto ci sono delle tavelle raffiguranti giovani dame e cavalieri, dipinte nella bottega cremonese di Bonifacio Bembo intorno al 1460. Ma sono i lampadari ad aver catturato maggiormente la nostra attenzione: due figure, una di cavaliere e una di dama, protesi uno verso l’altra come in un impossibile slancio amoroso.

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La sala gotica

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L’arredamento neogotico di questa camera da letto fa parte del gusto ottocentesco per il passato. Sulla sinistra c’è una comoda: una sedia con coperchio dove all’interno veniva posto un vaso da notte. Sulla destra, invece, c’è una clessidra della durata di 8 ore, anche se il tempo a Bracciano veniva scandito dalle campane di Santo Stefano. Oltre questa sala si scende verso il piano nobile inferiore, teatro dell’amore tra Paolo Giordano e Isabella, seppur per brevi periodi. Infatti, il padre Cosimo de’ Medici, per tenere lontana la figlia dai palazzi romani che considerava covi antimedicei, aveva dato il compito alla figlia di custodire la famiglia a Firenze. Nonostante vi siano leggende che ritraggono Isabella come un’infedele e per questo uccisa dal marito, tra i due c’era un sincero e profondo affetto, come testimoniano le oltre settecento lettere rinvenute.

La sala del fregio Orsini Era conosciuta come la camera di Isabella de’ Medici, nonostante non si abbia la certezza che sia stata davvero la sua camera. Il soffitto è a cassettoni decorati da rose, speroni e monogrammi di famiglia. Isabella morì a soli 34 anni. Era una donna colta, conosceva diverse lingue, amante della musica, della poesia, dell’arte e si interessava anche di politica, al punto da diventare consigliera del consorte.

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La sala Orsini Medici In questo ambiente ci sono diversi ritratti: la donna con velo è Francesca Sforza di Santafiora, madre di Paolo Giordano; di fronte si trova Cosimo de’ Medici, padre di Isabella, in un ritratto di Bronzino dipinto attorno al 1550, caratterizzato da un ampio colletto di merletto bianco e il collare del toson d’oro; a destra, uno dei rari ritratti di Paolo Giordano Orsini, all’età di 30 anni mentre si preparava a partire per la battaglia di Lepanto. Prima di partire per Lepanto, Paolo commissionò un ritratto della figlia Eleonora, nata proprio nel 1571, da portare con sé. Qualche mese dopo il ritorno da levante, Isabella era nuovamente incinta e nel 1572 nacque Virginio, qui rappresentato nel ritratto di giovane uomo in elegante armatura con gorgiera. Unico discendente maschio degli Orsini di Bracciano, fu educato a Firenze e sposò Flavia Peretti, nipote di Paolo Sisto V. Lo stemma di fronte al camino dev’essere stato commissionato proprio in occasione delle nozze. Virginio divenne famoso in Europa in occasione della sua visita a Elisabetta I a Londra; a quanto pare, affascinò l’intera corte al punto di essere fonte d’ispirazione de La dodicesima notte di W. Shakespeare.

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La sala dei Cesari Questa sala è il cuore del castello: oltre ad essere la sala più grande del piano nobile, era anche quella da cui si accedeva dalla corte. Lungo il perimetro sono disposti 12 Cesari, provenienti dalla Villa Giustiniani Odescalchi di Bassano. Era in questa sala che si celebravano le cerimonie di investitura dei duchi di Bracciano, si allestivano teatri, concerti e danze. Molto probabilmente, fu proprio durante una festa che Paolo Giordano conobbe e si innamorò di Vittoria Accoramboni, una donna di rango inferiore. Il loro matrimonio fu fortemente osteggiato. Circolavano voci secondo cui, per potersi sposare, avessero ucciso i rispettivi coniugi e che fossero fuggiti a Venezia per sfuggire al Papa Sisto V, zio di Francesco Peretti, marito di Vittoria. Ma la loro fuga non li protesse dai loro nemici; infatti, Paolo Giordano morì a Salò il 13 novembre 1585 e Vittoria fu pugnalata a Padova a dicembre dello stesso anno.

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La sala delle donne Di questa sala sono particolarmente interessanti i cicli di affreschi che raffigurano delle dame mentre si intrattengono in passatempi di corte: cantano, suonano, pescano, cacciano, raccolgono frutti, giocano a dama o fanno il bagno alle terme. Tuttavia, non si conoscono né il pittore né il committente. Le scene evocano il testo di Christine de Pizan, La città delle donne, del 1400. Si pensa che la committente fosse una donna, Bartolomea Orsini o Felice della Rovere, che entrò in contatto con quella cultura francese della ville de dames e che assunse nel suo governo molte collaboratrici donne. Si possono leggere alcuni nomi ma, non trovando corrispondenza nell’affresco, si ipotizza che facessero riferimento a degli arazzi sottostanti. I due grandi ritratti ottocenteschi, invece, rappresentano Baldassarre Odescalchi e sua moglie Emilia Rucellai.

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La sala papalina Quando si giunge in questa sala è impossibile non notare il soffitto decorato in oro e stucco, attribuito ai fratelli Federico e Taddeo Zuccari e commissionato da Paolo Giordano per la nomina ducale del 1560. Nel centro, in un ottagono circondato da segni zodiacali, appare Apollo. Leone e cancro si trovano in coppia in alto a destra e simboleggiano il solstizio d’estate mentre in alto a sinistra sono raffigurati capricorno e acquario a suggerire il solstizio d’inverno. Apollo, sul carro del sole che sorge, si muove verso sinistra e non è un caso visto che Paolo Giordano era del capricorno. Sul soffitto verso la finestra c’è il dio Pan, raffigurato però come nelle storie antiche, ovvero mentre suona una conchiglia (e non come fauno che suona il flauto) per segnalare i pericoli agli dei pronti a trasformarsi in uccelli per nascondersi dai nemici.

Questa sala parla di un committente che si autocelebra come nato sotto il segno dei potenti. L‘orsa simboleggia l’Orsa Maggiore, a indicare quella dimensione cosmica della famiglia tanto bramata in epoca rinascimentale. Sotto l’Orsa Maggiore vi è una porta che conduce a una piccola sala, lo studiolo, omaggio ad Isabella e probabilmente sempre decorata dagli Zuccari. Qui sono rappresentati ambienti agresti delle sue terre toscane. Questo piccolo ambiente fu usato poi, tre secoli più tardi, da Baldassarre Odescalchi per scrivere i suoi taccuini di viaggio. Si conclude qui la nostra visita a questo sontuoso castello perfettamente conservato e non ci sorprende che molte coppie (anche celebri!) lo scelgano come cornice per celebrare il giorno più bello della loro vita.

Pan era il fauno dalla forma caprina che Giove, in segno di gratitudine, trasformò nel capricorno.

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Adriana Oberto Barbara Tonin Chiara Borio Elisabetta Cabiddu Giancarlo Nitti Mariangela Boni Massimiliano Sticca Remo Turello

A cura di Elisabetta Cabiddu

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Con qualche rara eccezione, è difficile non trovare appassionati ed appassionate del cioccolato, soprattutto quando si parla dell'eccellenza della cioccolateria tradizionale piemontese, con i suoi prodotti unici riconosciuti in tutto il mondo. È quindi in buona parte la golosaggine, a portarci a fare un'analisi di questo ambito gastronomico nel preciso periodo della produzione delle famose uova pasquali in un'azienda storicamente annoverata e recentemente premiata per la qualità dei suoi prodotti.

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Remo Turello Photography

La storica cioccolateria ZICCAT nasce a Torino nel 1958 e da allora la tradizione piemontese e la passione per il cioccolato si tramanda nel tempo grazie ai maestri cioccolatai che, dalle materie prime selezionate con cura, lavorano artigianalmente tutti gli ingredienti del cioccolato, garantendo un prodotto genuino e di qualità. Dal 2014 il marchio storico torinese è stato rilevato da un giovane gruppo dinamico composto da Alberto Brustia e Alexis Rosso che, con i loro collaboratori, gestiscono il laboratorio artigianale e lo spaccio di Via Bardonecchia, al quale si sono aggiunti nel 2018 il negozio di Piazza Borromini ed alla fine del 2019 quello di Corso Svizzera. Nel 2018/19 la Camera di Commercio di Torino e Slow Food Italia li ha premiati come Maestri del Gusto. L’antica pralineria, rinnovata negli spazi, vanta oggi moderne creazioni affiancate ai classici prodotti della tradizione piemontese, la maggior parte confezionati a mano e che possiamo scoprire nei punti vendita della Città di Torino.

MURALES DI INGRESSO ALLA SEDE Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

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Intervistiamo uno dei titolari Ziccat La decisione di mantenere un rinomato marchio storico è sempre una sfida. Soprattutto per un team giovane come il vostro. Qual è stato il vostro target principale quando avete iniziato? Ziccat è sinonimo di tradizione ma, in questi anni, anche l’innovazione ha un ruolo importante. Cosa avete mantenuto della tradizione e cosa avete introdotto di innovativo? La richiesta, negli ultimi anni, rimane più sul tradizionale o si spinge maggiormente verso prodotti originali e creativi? La tradizione è fondamentale come la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti. Alcune abitudini non tramonteranno mai, ma offrire novità ricercate e creative è altrettanto importante.

Qualità e genuinità sono i capisaldi nella scelta degli ingredienti. Come scegliete i vostri fornitori? Qual è il vostro prodotto più esclusivo che vi contraddistingue? Utilizzare materie prime eccellenti è la base per la buona riuscita di un prodotto quindi tutti gli ingredienti vengono studiati e testati. Tra i prodotti che maggiormente ci contraddistinguono ci sono sicuramente le praline, preparate studiando abbinamenti che difficilmente si trovano altrove.

Ziccat è un marchio storico del cioccolato Torinese dal 1958. Negli ultimi anni, grazie al cambio di proprietà, si è cercato di dare una nuova vita al marchio, mantenendo le ricette tradizionali ed i cavalli di battaglia come i gianduiotti o il preferito (ciliegia al maraschino ricoperta) ed affiancando a questi prodotti praline innovative, soggetti decorati in chiave moderna con un importante lavoro sul packaging.

Il vostro laboratorio è a disposizione per visite guidate. Prevedete in futuro di organizzare anche dei corsi?

Qual è il processo creativo di un nuovo prodotto? Nasce dall’idea dell’intero team oppure ognuno di voi ha un ruolo ben preciso?

Prima del Covid organizzavamo frequentemente visite guidate e corsi, speriamo di riprendere quanto prima.

Chiunque abbia un’idea può proporla e questa viene analizzata sotto numerosi aspetti per arrivare al giusto compromesso tra gusto, estetica e prezzo.

Oltre alla tecnica ed alla capacità di scegliere le materie prime, che qualità si devono possedere per diventare maestro cioccolatiere? Sicuramente la passione per questo lavoro, quello è il vero ingrediente segreto.

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Vincenzo Iarriccio MAESTRO CIOCCOLATIERE Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

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QUANDO L'ARTE DIVENTA BONTÀ Il Piemonte, grazie al suo sviluppo industriale verso la prima metà del '700, fu un luogo propizio per la lavorazione e la produzione del cioccolato, donando indubbiamente una marcia in più alla qualità che oggi conosciamo.

Ma il cioccolato non è solo un semplice prodotto gastronomico, esso ha da sempre fortemente ispirato il mondo dell’arte e della creatività, come nel caso delle famose uova di Pasqua, di cui ogni anno ne notiamo le infinite forme ed espressioni.

Capiamo così che, per quanto si possa industrializzare la cioccolateria come attualmente avviene, rimarrà sempre la vena tradizionale che rende questo prodotto semplicemente unico.

Seguiamo così il maestro cioccolatiere Vincenzo Iarriccio, nel laboratorio di Ziccat, che in piena produzione pasquale, ci spiega quali sono le fasi per creare l'uovo in tutte le sue varianti creative proposte dall'azienda.

L'Uovo di Pasqua è nato a Torino È chiaramente noto che Torino sia la capitale indiscussa del cioccolato, ma che proprio nel capoluogo piemontese sia stato inventato il famoso Uovo di Pasqua lo sapevate? Il simbolo delle festività pasquali ha proprio origini sabaude, già dal 1725 si iniziarono a creare le prime uova di cioccolato da un'idea di una bottegaia di Via Roma a Torino, la signora Giambone, che iniziò a riempire i gusci vuoti delle uova di gallina con cioccolato fuso. Fu soltanto nel 1920, però, che la Casa Sartorio brevettò il sistema per modellare le pareti vuote di cioccolato attraverso degli stampi a cerniera chiusi per distendere la pasta su tutta la superficie interna in modo uniforme. La creatività torinese non si fermò alla sola forma, ma anche al contenuto. Infatti, nel 1925, venne introdotta all’interno dell’uovo di cioccolato l’ormai tradizionale “sorpresa”, inizialmente costituita da animaletti realizzati in zucchero o piccoli oggetti. Ma il contributo piemontese alle "Uova" non si ferma qui. Infatti la famosa azienda Ferrero, nel 1974 esordisce con "l'ovetto Kinder Sorpresa", brevettato da Michele Ferrero.

Barbara Tonin Photography

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Ecco che si accende la macchina colatrice del cioccolato e dopo pochi minuti assistiamo all'erogazione di questo fluido profumato e decisamente invitante. Questo processo iniziale, ci spiega Vincenzo, serve a temperare il cioccolato tra i 40 e i 45 gradi per far si che si ristrutturino i "cristalli di burro di cacao", rendendo il cioccolato stesso stabile per evitare che si attacchi allo stampo una volta raffreddato a temperatura e umidità controllate. Il monitoraggio dell'umidità e della temperatura di raffreddamento è molto importante per rendere il cioccolato lucido regalando alle uova di cioccolato la tipica superficie regolare e lucida. L'assemblaggio dell'uovo avviene in una terza operazione, dopo il raffreddamento, unendo le due pareti di cioccolato formetesi nello stampo ( tradizionalmente di acciaio, oggi è utilizzato il policarbonato per una questione di durabilità ). L'incollaggio delle due parti avviene con il riscaldamento delle superfici su una piastra ed inserendo l'eventuale "sorpresa" in chiusura. Massimiliano Sticca Photography

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Massimiliano Sticca Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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Massimiliano Sticca Photography

Realizzata la "camicia", così come viene chiamata in gergo tecnico, l'uovo inizia a prendere la sua forma decorativa, con una semplice colorazione o con una più creativa modellazione, sempre a base di cioccolato. Le decorazioni delle uova vengono effettuate a mano, a cura del maestro cioccolatiere, con un aerografo con colori alimentari.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

Nel caso del pulcino, che vediamo in queste immagini, viene modellato sulla base della camicia con pasta di cioccolato e assemblato completamente a mano. In questa fase la figura del maestro cioccolatiere diventa fondamentale, in quanto, in questo caso Vincenzo, finisce il prodotto nella sua parte estetica e artistica.


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Nel negozio di Corso Svizzera n. 49 è possibile sorseggiare caffè ed assaporare gelati elaborati con i gusti delle praline Ziccat. Il locale, allestito in modo ricercato, accoglie l’intera gamma di prodotti provenienti dalla produzione artigianale del laboratorio, testimonianza della creatività e della fantasia dei maestri cioccolatai. Tra le varie proposte si annoverano: praline con ripieni variegati tra cui pesca e amaretto, nocciole del Piemonte o zenzero, Gianduiotti fondenti, al caffè, al peperoncino, al pistacchio, Cri-Cri, Pirottini ripieni di creme, liquori o caffè, tavolette monorigine, cremini al pistacchio, chicchi di caffè ricoperti di cioccolato e creme spalmabili al gianduia ed al cioccolato. Tra gli altri prodotti tipici della tradizione Ziccat ritroviamo il “Preferito”, una ciliegia al maraschino rivestita di cioccolato fondente e la “Castagna”, una crema di marroni aromatizzata al rum. In questo periodo, inoltre, non possono mancare i prodotti pasquali: le classiche uova al fondente confezionate con diverse dimensioni che si affiancano a uova più creative ed originali tutte da scoprire, senza però tralasciare la bontà del prodotto. Ritroviamo i classici ovetti in confezioni speciali o altre elaborazioni a forma di coniglietto o pulcino.

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Mariangela Bo

+ INFO

www.ziccat.it vendita Laboratorio e ia 185, ch Via Bardonec Torino Negozi 78, sco Borromini Piazza France Torino 49, Corso Svizzera Torino y

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Elisabetta Cabi

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Salvatore Fiume Photography

BOTTEGHE SICILIANE

A cura di Rita Russo Giroinfoto Magazine nr. 65

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Nei negozi di souvenir che popolano i centri storici delle più grandi città siciliane non è difficile trovare, tra gli altri, uno dei simboli tipici della sicilianità: il pupo, un particolare tipo di marionetta che spicca per i colori vivaci del suo costume e per il brillio dell’armatura che indossa. I Paladini (detti pupi, dal latino “pupus”, bambino) sono, infatti, i principali protagonisti di una tra le più antiche tradizioni della regione: il Teatro dei pupi o meglio conosciuto come l’Opra dei Pupi, che diffusa sia nella parte orientale che in quella occidentale della Sicilia, non poteva mancare nel suo capoluogo, Palermo. Ma ciò che rende ancor più interessante questa tradizione è il fatto che ad essa si associa un’affascinante attività artigianale legata alla costruzione delle marionette. Un’attività che si tramanda di padre in figlio e che per questo, soggetta al segno dei tempi ed all’evoluzione della società è destinata, ahimè!, a scomparire. Il nostro articolo, dunque, vi porterà nel fantastico mondo dei paladini e delle loro gesta attraverso la storia di una delle pochissime famiglie di pupari rimasti in città, la Famiglia Argento, in un excursus che partirà dalla minuscola bottega nella quale prendono forma le marionette, fino ad arrivare al vero e proprio teatro nel quale sembrano animarsi di vita propria.

Rita Russo Photography

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Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

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La piccola bottega (solo 10 mq) in cui ha sede il laboratorio, non poteva che trovarsi nel cuore del centro storico di Palermo, al n.443 del Cassaro (attuale Corso Vittorio Emanuele), a circa 30 m da uno dei simboli monumentali di quest’ultima, la strepitosa Cattedrale arabo - normanna. Per la sua storia e la sua tradizione, la bottega reca sulla sua vetrina la targa di “Negozio storico”. Questo riconoscimento è stato conferito a questa attività artigianale, insieme a poche altre in città, dalla Confcommercio con il patrocinio del Comune, proprio perché avendo resistito all’evoluzione dei tempi e dei mercati, essa rappresenta un patrimonio culturale e commerciale per la città (peccato che questa onorificenza non fermi la naturale estinzione di questa attività) . Mentre, a pochi passi dalla bottega, in via Pietro Novelli n.1, proprio di fronte alla Cattedrale, nei locali che una volta ospitavano le stalle del settecentesco palazzo del Marchese di Sessa, Giuseppe Asmundo, troviamo il Teatro dei Pupi.

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L’Opera dei Pupi Siciliani è un tipo di teatro delle marionette, che si distinguono dalle altre essenzialmente per la loro peculiare meccanica di manovra. Narra le gesta dei paladini o cavalieri di Francia e del loro Re Carlo Magno tratte sia dalla rielaborazione del materiale contenuto nei poemi epico cavallereschi della letteratura francese del ciclo carolingio (chanson de geste) che vennero realizzati immediatamente dopo l'anno Mille e che celebravano, nelle loro composizioni in versi, i valori più alti della società aristocratica, sia dai poemi italiani, tra i quali il più utilizzato è l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, oltre all’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, al Morgante di Luigi Pulci e tanti altri. In Sicilia, l’attività teatrale con le marionette si sviluppò verso la fine del ‘700 ed inizialmente furono utilizzati “pupi in paggio” (non armati) per rappresentare delle farse siciliane, un genere teatrale dal tono licenzioso e comico, con temi tratti dai personaggi delle tradizioni favolistiche siciliane, attualmente ancora rappresentato. Le marionette di quest’epoca venivano animate dall’alto attraverso una sottile asta metallica collegata alla testa attraverso uno snodo e da cui partivano più fili che consentivano i movimenti delle braccia e delle gambe. L’Opera dei pupi vera e propria si affermò nell’Italia meridionale e soprattutto nell’isola, nella prima metà dell’Ottocento ed i personaggi del ciclo carolingio furono trasformati in tipi simbolici della realtà quotidiana e popolare siciliana. A questo periodo è legata una geniale modifica della tecnica di movimento delle marionette che le trasformò negli attuali pupi. Infatti, la sottile asta di metallo da cui partivano i fili per il movimento dell’intera marionetta fu sostituita da una robusta asta metallica verticale che l’attraversava dall’interno e fu sostituito anche il filo per l’animazione del braccio destro, cui è collegata la spada, con un'asta di metallo, caratteristica tipica del pupo siciliano. Questi nuovi accorgimenti tecnici consentirono di rendere i movimenti delle marionette più veloci, diretti e decisi, rendendoli più simili alla realtà, soprattutto nelle scene dei duelli e dei combattimenti, che costituivano la parte più estesa nelle storie cavalleresche. Oltre ai suddetti accorgimenti tecnici, le modifiche apportate alle armature delle marionette, che iniziarono ad essere realizzate in metallo lavorato in sostituzione del cartone o della stagnola, resero più sensazionali le rappresentazioni.

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Lo spettacolo veniva interamente curato dal puparo, dalla sceneggiatura alla scelta dei pupi e per mezzo della modulazione della sua voce riusciva a trasmettere suggestioni, impeto e passioni alle scene epiche che rappresentava. I pupari, che si esibivano inizialmente nelle piazze, pur essendo spesso analfabeti, conoscevano a memoria intere opere come l’Orlando Furioso o la Gerusalemme Liberata. Negli anni migliori di questa tradizione, le rappresentazioni si spostarono dalla strada ai teatri. Intorno a questa attività si muovevano numerosi artigiani, tra costruttori, sarti, pittori, scultori ed una serie di mestieri complementari al teatro dei pupi ed il puparo, che custodiva in sé l’arte, costituiva sempre la persona più rispettata tra tutti. Ogni oprante si distingueva dall’altro per alcune caratteristiche specifiche: chi per i tipi di marionette, chi per il modo di recitare, chi per il modo di manovrare. E per questo ognuno aveva il proprio pubblico. Quest’arte teatrale fu mantenuta in vita fino agli anni cinquanta quando, a seguito della diffusione del cinema, del teatro (con attori veri) e della televisione cadde in disuso anche perché considerata una forma di spettacolo rivolto ad un pubblico ignorante. I quartieri popolari iniziarono a svuotarsi e molti teatrini furono smembrati e svenduti, costringendo i pupari ed i loro figli a cambiare mestiere. Da quel momento, poche furono le famiglie che continuarono a mantenere in vita questa attività artistica ed artigianale insieme. Nel 2008, finalmente, l’UNESCO riconobbe l’Opera dei Pupi quale patrimonio culturale immateriale, dal momento che essa rispecchia l’identità della Sicilia e del suo popolo.

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La prima tappa del nostro reportage inizia dal negozio laboratorio di Vincenzo Argento dove, una volta entrati, rimaniamo rapiti ed affascinati da ogni singolo oggetto in esso contenuto. La sensazione senz’altro più immediata che proviamo è quella di sentirci catapultati in un mondo che ormai non ci appartiene più. In pochi metri quadri si materializzano, infatti, una moltitudine di arti e mestieri, alcuni dei quali conosciuti solo da chi non è più giovanissimo.

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Ad attenderci troviamo il signor Vincenzo, capostipite della famiglia Argento che, già seduto davanti al suo banco di lavoro, sta realizzando il fodero di una spada e si rende immediatamente disponibile per soddisfare ogni nostra curiosità. Sebbene distratti dall’enorme quantità di stampi, modelli, teste di legno dalle espressioni differenti, braccia, gambe, lucide armature lavorate a sbalzo o riccamente arabescate e marionette pronte per essere vendute, oltre che dagli strumenti necessari per la lavorazione di tutto ciò, iniziamo a farci raccontare dal signor Vincenzo come e quando nasce, per la sua famiglia, la passione per questo lavoro.


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Fu nel 1893 che il nonno Vincenzo, detto Cecé, nato nel 1873, diede inizio all’attività teatrale di famiglia dopo aver imparato, fin da bambino, l’arte di oprante assistendo agli spettacoli di don Giovanni Pernice, antico puparo di Palermo.

che il teatro dei pupi subì dal 1950 in poi, si trovò costretto ad associare alla sua arte anche altri mestieri che gli consentissero di mandare avanti la famiglia, pur senza mai tralasciare i pupi.

Dei suoi cinque figli solo Giuseppe, nato nel 1912 e padre dell’attuale Vincenzo, collaborò con lui fino alla sua scomparsa e continuò, dal 1948 in poi, l’attività di puparo coinvolgendo tutta la sua famiglia e tramandandola fino ai nostri giorni attraverso il figlio Vincenzo che iniziò questo lavoro a dodici anni, senza mai più smettere. Sebbene quella del puparo fosse una passione coltivata da bambino, il nostro Vincenzo, a causa della decadenza

Egli, infatti, imparò il mestiere del calzolaio e successivamente trovò impiego ai cantieri navali. I suoi nuovi mestieri arricchirono le sue conoscenze che furono messe a servizio della sua storica attività artigianale ed al tempo stesso artistica.

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Rita Russo Photography


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Nel 1993, Vincenzo ereditò l’attività di suo padre Giuseppe fondando l’Opera dei Pupi di Vincenzo Argento & figli ed ancora oggi, a ottantadue anni, continua a lavorare sia in laboratorio sia in teatro, coadiuvato dal figlio maggiore Nicolò che lo aiuta in entrambe le attività e dagli altri due figli che lo supportano durante gli spettacoli; mentre la moglie produce i costumi che vestono le marionette. Dopo aver conosciuto la storia della famiglia, la cosa che più ci incuriosisce è sapere come si realizza un pupo. Ed anche in questo caso, con passione ed entusiasmo, continuando a lavorare nonostante la nostra presenza, il signor Vincenzo soddisfa appieno la nostra curiosità. Così come accade con l’arancina a Palermo e l’arancino a Catania, anche la tradizione del teatro dei pupi si divide tra quella occidentale o palermitana e quella orientale o catanese,

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in ognuna delle quali sia i pupi sia la rappresentazione teatrale presentano delle differenze. Nella prima, quella palermitana, i pupi hanno un’altezza variabile tra 80 cm ed un metro ed un peso di circa 10 kg. Le loro gambe presentano un’articolazione al ginocchio e nel paladino la spada è sguainabile dal fodero. In teatro, gli animatori sono posizionati dietro le quinte laterali del palcoscenico e poggiano i piedi sullo stesso piano di calpestio dei pupi. Lo spazio di azione sul palcoscenico è più profondo che largo e la larghezza della scena è limitata dalla possibilità che gli animatori hanno di sporgersi dalle quinte senza farsi vedere dal pubblico. Nella tradizione palermitana le rappresentazioni sono più semplici e stilizzate.


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In quella catanese, invece, i pupi possono pesare fino a 35 kg ed hanno un’altezza compresa tra 80 cm ed 1,30 m. Le gambe, prive di snodo al ginocchio, sono rigide e la spada non è sguainabile ed è impugnata sempre nella mano destra. Gli animatori muovono le marionette dall’alto di un ponte, alto un metro da terra e posizionato dietro il fondale. Per questo motivo, il palco è più largo che profondo e la scena viene interamente occupata dai pupi. In questa tradizione la rappresentazione è più tragica e sentimentale. La struttura di base di un pupo è costituita da tre elementi: legno, stoffa e metallo. La sua costruzione inizia dalla scultura lignea della testa (a volte realizzata anche in argilla) e del busto, attraverso l’utilizzo di sgorbie da legno. Il tipo utilizzato è generalmente il faggio, ma può anche essere noce o cipresso.

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Quindi vengono create le gambe, anch’esse in legno, snodate al ginocchio e le braccia, attaccate al busto con piccoli chiodi e realizzate in parte in stoffa (il braccio) ed in parte in legno (avambraccio e mani). Nei paladini la mano destra è sempre costituita da un pugno che tiene la spada, mentre la sinistra è una mano normale che serve a reggere lo scudo. In tutti gli altri personaggi le mani sono aperte. Una volta montato lo scheletro del pupo, sul busto, attraverso modelli di carta, viene tagliato il metallo che una volta sagomato formerà l’armatura che, a seconda del personaggio da realizzare e della fantasia dell’artista, può essere rifinita a sbalzo e/o decorata con disegni in stile arabesco saldati a stagno.


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L’armatura comprende oltre alla corazza anche le gambiere, lo scudo e l’elmo, dotato o no di visiera apribile, a seconda delle origini dei personaggi (cavalieri francesi o saraceni) e su ognuna di esse vengono fissate le insegne, che per tradizione identificano i personaggi. Il materiale utilizzato per le armature è normalmente l’ottone. Ma per i modelli da collezione possono essere utilizzati anche l’alpacca (detta argentone che è una lega di rame, zinco e nichel), il rame o addirittura l’argento. La testa, insieme alle parti scoperte della marionetta, viene preventivamente dipinta e una volta assemblato il pupo, sul busto, dotato di adeguata imbottitura per dare al corpo le necessarie rotondità, vengono applicati i costumi e le armature dopo averle opportunamente lucidate.

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Il costume dei paladini è costituito da un gonnellino chiamato “faroncina”, mentre per i saraceni si usano pantaloni alla zuava dai colori sgargianti. Le spade o le scimitarre vengono preparate in lamiera di acciaio. La grande quantità di arti, soprattutto superiori, presente in laboratorio e che cattura la nostra attenzione, è necessaria non solo per la realizzazione di nuove marionette ma, soprattutto, per effettuare la manutenzione dei pupi che calcano le scene e che, a seguito dei duelli che si svolgono durante le rappresentazioni, vengono danneggiati nel tempo. Tra le varie marionette prodotte quelle che richiedono maggior impegno in termini di tempo e di lavoro sono senz’altro i paladini, peraltro, i più rappresentati. Infatti, la realizzazione di un’intera armatura e della sua decorazione può richiedere anche più di un mese.

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I PUPI

Per creare i pupi e le storie da portare in teatro, il signor Vincenzo e suo figlio Nicolò, prendono ispirazione soprattutto dal più noto poema cavalleresco di Ludovico Ariosto, Orlando Furioso. Dalla lettura di quest’ultimo creano il copione per la rappresentazione teatrale e le figure che ne costituiranno gli attori. Quindi i pupi che di frequente entrano in scena, oltre ad Angelica ed al Re Carlo Magno sono: il Conte Orlando, il coraggioso paladino sempre pronto a combattere per difendere il più debole ma eternamente e goffamente innamorato di Angelica; Rinaldo, cugino e rivale in amore di Orlando; Ruggero, valoroso guerriero; Bradamante, paladina di Francia ed eterno amore di Ruggero; Gano di Magonza, cognato di Carlo Magno e patrigno di Orlando, avendo sposato Berta, sorella del re, dopo la morte del marito Milone per mano dei Saraceni. Gano, nonostante sia un paladino di Carlo Magno tradisce la propria patria, svelando ai Saraceni il modo per cogliere di sorpresa, a Roncisvalle, la retroguardia franca di ritorno dalla Spagna. Nell’Opra dei Pupi, attraverso i paladini, tutti di nobili origini, si trasmettono i più importanti codici comportamentali che da sempre hanno caratterizzato il popolo siciliano, quali la cavalleria, il senso dell’onore, la fede e la lotta per la giustizia.

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Essi, infatti, non combattono per sé ma in nome di questi principi. A questo punto, ci è chiaro che fare l’Opra dei Pupi è frutto di un grande impegno professionale e molteplici sono i ruoli che bisogna svolgere. Infatti, oltre ai mestieri necessari per la realizzazione dei pupi stessi (falegname, stagnino, sarto, pittore, scultore, ecc.), il puparo deve essere al tempo stesso anche autore, attore, scenografo, costumista, tecnico delle luci, impresario e macchinista. E nella famiglia Argento, nonostante il maggior numero di ruoli vengano svolti dal signor Vincenzo e da suo figlio Nicolò, anche gli altri componenti risultano indispensabili perché questa attività continui. Infatti, durante gli spettacoli, salgono sul palco anche gli altri due figli del signor Vincenzo, tra i quali la figlia dà la voce ai personaggi femminili, diversamente da quanto accade in quasi tutti i teatri in cui è sempre lo stesso puparo a dare voce a tutti i pupi. La compagnia della famiglia Argento, ha portato la sua arte e tradizione siciliana oltre oceano, a New York ed è stata in tournée anche in Germania ed in Francia.


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Ancora rapiti dai suoi racconti, veniamo affidati dal signor Vincenzo al figlio Nicolò, che con lo stesso entusiasmo del padre, ci accompagna in Teatro. Purtroppo, da quasi un anno gli spettacoli giornalieri delle 17,30 sono stati sospesi a causa della chiusura dei teatri imposta dalla normativa per contrastare la pandemia. Dunque, in attesa di tempi migliori in cui sarà possibile assistere nuovamente agli spettacoli ci limitiamo, una volta entrati, a lavorare un po’ con la fantasia supportati dalle spiegazioni fornite dal Signor Nicolò e dalle preziose testimonianze d’arte custodite in questo luogo. È, infatti, difficile non tenere il naso all’insù per ammirare una grande quantità di oggetti carichi di storia e di sicilianità esposti lungo tutte le pareti del teatro. Tra tele dipinte dagli avi e marionette raffiguranti personaggi tra i più disparati troviamo anche foto che ritraggono vecchi momenti di vita artigianale e di gloria teatrale, insieme ad alcuni pupi di fine Ottocento realizzati dal bisnonno Vincenzo.

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L’attenzione viene subito catturata dai vivacissimi colori del palcoscenico e del sipario, dietro il quale il signor Nicolò è pronto a svelarci i segreti del loro mestiere. Con l’ausilio di tre pupi, il paladino Uggeri il danese, la bella Angelica ed il re Carlo Magno, Nicolò ci mostra come si muovono i pupi e come vengono sostituiti i fondali, durante l’azione scenica, senza dover chiudere il sipario. Infatti, in fondo al palcoscenico una serie di rulli nei quali sono avvolte le tele, tutte dipinte dal nostro Nicolò, aspettano di essere srotolate a seconda della scena che viene recitata. I colori vivaci che caratterizzano i costumi delle marionette sul palco risaltano ancor di più alla luce dei riflettori. Immersi in quest’atmosfera magica, chiudendo gli occhi per un attimo, il rumore dell’armatura rievoca immagini d’altri tempi di spettacoli di piazza tra il vociare di grandi e piccini. Il teatro dei pupi, in ogni caso, è uno spettacolo prettamente di nicchia riservato a pochi amatori, alle scuole ed ai turisti. Il fermo di questa attività a causa del Covid potrebbe danneggiarla irrimediabilmente. È per questo che oggi, grazie ad alcuni finanziamenti volti alla conservazione di questa antica tradizione, una rete di pupari siciliani, tra i quali anche la Famiglia Argento, secondo un preciso calendario, trasmette le proprie rappresentazioni in diretta streaming. A Palermo, infine, è possibile ammirare le più ricche collezioni di marionette al Museo Internazionale Antonino Pasqualino, al Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè e a Palazzo Branciforte.

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Maria C. Piazza Photography Desideriamo ringraziare i sign ori Vincenzo e Nicolò Argento che con la loro disponibilità e cortesia ci hanno permesso di far conoscere attraverso parole ed immagini lo straordinario mondo dei pupi siciliani.

Salvatore Fiume Photography

Per i contatti consigliamo di consultare il sito ufficiale o la pagina Facebook ai seguenti indirizzi: http://www.teatrodeipupiargen to.com https://www.facebook.com/tea trodeipupiargento

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UNO SGUARDO NEL LABIRINTO DELLA STORIA

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edizione bilingue (italiano-inglese) 30 × 38 cm, 76 pagine 70 colori e b/n, cartonato ISBN 978-88-572-4516-4

Uno sguardo nel labirinto della Storia Maurizio Galimberti design Federico Mininni, testi di Matteo Nucci e Denis Curti

Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Ritratto 2011 Giroinfoto Magazine nr. 65


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Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Galimberti 2010

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Un secolo di storia raccontato attraverso lo sguardo fotografico e compositivo di Maurizio Galimberti Dopo i noti ritratti alle celebrities internazionali e gli scatti alla Grande Mela, dopo l’incredibile lavoro svolto nel 2019 per la realizzazione del volume fotografico sul Cenacolo davinciano, Maurizio Galimberti si cimenta in una nuova impresa. Quella di raccontare un secolo di storia, dal 1917 al 2018, attraverso le composizioni che lo hanno reso celebre. Il frame tratto da un film (La Grande Guerra o La Cociara), l’immagine di un bambino nel ghetto di Varsavia nel 1943, il fungo atomico di Nagasaki, il profilo di Che Guevara, il volto scavato di Aldo Moro fino ai profughi del Mare Nostrum: i momenti cruciali degli ultimi cento anni, vengono frantumati in numerosi scatti e ricomposta in un’immagine sfaccettata, regolata da un rigore matematico e da un’incredibile poesia d’insieme.

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Uno sguardo nel labirinto della Storia Che Guevara NY 1965 - by Michael Nicholson © 2020

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Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Aldo Moro e il periodo del terrorismo 1978 © 2020 Giroinfoto Magazine nr. 65


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Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Bambini di Mengele 1944 Auschwitz © 2020

Nato a Como nel 1956, Maurizio Galimberti è internazionalmente come “instant artist”, fotografo e creatore del Movimento Dada Polaroid: la sua fotografia è stata sviluppata attraverso il tempo in una dimensione di ricerca e di scoperta del ritmo e del movimento. Il suo ritratto di Johnny Depp, realizzato durante l’edizione del Festival del Cinema di Venezia del 2003, viene scelto come immagine per la copertina del mese di settembre del prestigioso Times Magazine.

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Uno sguardo nel labirinto della Storia La grande guerra 1959 regia Monicelli © 2020 Giroinfoto Magazine nr. 65


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Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia La guerra fredda e Kruscev 1960 Onu New York - Getty Images © 2020

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Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Bimbo cambogiano-Vittima Polpot 1978 © 2020

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UNO SGUARDO NEL LABIRINTO DELLA STORIA

Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Bao Trai, Guerra Vietnam 1970 - by Horst Faas © 2020

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UNO SGUARDO NEL LABIRINTO DELLA STORIA

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Maurizio Galimberti

Uno sguardo nel labirinto della Storia Napalm Girl 1972 - by Nick Ut © 2020

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BOTTEGHE ROMANE

A CURA DI LAURA ROSSINI

Gianmarco Marchesini Laura Rossini Marta Petrucci

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Laura Rossini Photography

Via dei Pianellari Via dei Coronari

Vicolo dei Cimatori

Via dei Staderari

Al centro di Roma, lungo il Tevere, l’acqua scorre come il tempo che passa. Gli edifici, i vicoli, restano immutati nell’aspetto, ma con un’anima che cambia di continuo.

Via dei Canstrari

Via dei Sediari

Vicolo dei Leutari

Via dei Cestari

Via dei Cappellari

Tutt’intorno in via dei Coronari, via dei Cappellari, via delle Botteghe Oscure, via dei Giubbonari, in secoli di storia si sono concentrate botteghe d’arte dedite alla produzione di corone ed oggetti sacri, cappelli, corde, coperte, tessuti e stoffe pregiate. Ogni Mestiere in una via. In questa zona, infatti, era più facile approvvigionarsi di materie prime. Sin dal Medioevo, lungo il Tevere, all’altezza di via Cavour, era stato costruito da Sisto IV un piccolo scalo fluviale, il porto di Ripetta. Oggi è andato distrutto a causa della costruzione delle mura di contenimento del Tevere. Gli artigiani si ritrovarono qui, gli uni accanto agli altri per condividere progetti e darsi sostegno. La vita dell’artigiano era vita di sacrificio. La giornata non era scandita da un orario di apertura, ma dalla mole di lavoro e di certo ve n’era in abbondanza. Passavano buona parte della loro giornata a bottega e socializzavano nei vicoli durante i momenti di pausa.

Via dei Baullari

Via dei Chiavari Via dei Barbieri

Via dei Balestrari

Via delle botteghe oscure

Via dei Chiodaroli

Via dei Giubbonari

Via dei Pettinari

Vicolo de' Catinari

Via dei Falegnami

Via dei Funari

Lungo Tevere dei Vallati

Non c’era concorrenza perché la differenza non la faceva il prezzo ma lo stile e l’unicità di ogni singolo manufatto. Lo spirito di collaborazione, l’integrazione, il supporto reciproco ed una buona dose di veracità hanno contribuito a costruire le basi di quella che oggi chiamiamo romanità. Giroinfoto Magazine nr. 65


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BOTTEGHE ROMANE

Oggi è tutto diverso, le botteghe si alternano a locali alla moda, a serrande chiuse, a locali artigianali di artisti che arrivano dall’estero o ad associazioni che mettono a disposizione il sapere dei grandi maestri e svolgono corsi di formazione per ceramica e restauro. Questa la rappresentazione del mondo delle botteghe romane che emerge dagli studi e pubblicazioni a cura di Paola Staccioli e Lignarius: Mestieri e botteghe nel cuore di Roma – 2010; Fatto a mano Libro di aneddoti curiosità e leggende per la storia di Roma e i suoi mestieri- 2012, scritti in collaborazione con il Comune di Roma e CNA Roma.

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Mestieri d’arte e restauro Associazione culturale e centro polivalente di arte, artigianato e restauro, oggi con sede nel quartiere Monti, è nata dall’iniziativa di Stefano Nespoli e Paola Staccioli nel 1992. Paola, presidente dell’Associazione, è una scrittrice, storica e giornalista freelance. Stefano, direttore didattico, esperto antiquario e restauratore, è consulente in antichità e belle arti per il Tribunale civile e la Camera di Commercio di Roma. In via Mecenate, ad un passo dal Brancaccio (famoso Teatro di Roma), Stefano ci accoglie come se stessimo entrando nel foyer di un piccolo teatro. Non a caso la bottega è stata set cinematografico per Willem Defoe e Battiato.

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BOTTEGHE ROMANE

Dal corridoio centrale si snoda un dedalo di stanze, dove i maestri portano avanti i loro lavori. Adagiata su una parete una pala d’altare di metà del ‘600 appartenente ad un Monastero Napoletano è in attesa di tornare a nuova vita.

Sarà esposta, insieme ad altre opere dello stesso ordine religioso, in una mostra che si terrà a Bordeaux. Quando è arrivata in associazione nella pala erano visibili solo Santa Scolastica, Maria e San Domenico. Tutti gli altri personaggi si confondevano sullo sfondo. La bravura del restauratore sta nell’utilizzo dei giusti solventi da utilizzare per togliere e riconoscere i materiali non pertinenti.

Abbiamo la fortuna di vedere alcuni dei maestri al lavoro. La realizzazione di un cassetto con la tecnica del mosaico: il maestro posiziona una dopo l’altra le tessere rifinendo i tasselli per poterli incastrare seguendo la bozza del disegno. Un antico baule da viaggio recupera il fascino sbiadito dal tempo e dall’usura. Il maestro applica il colore sulle finiture a completamento della lavorazione. Restauro di una porta finestra: l’inserimento di un chiodo per fissare il vetro antico e rafforzare la struttura è un gesto semplice, ma sembra una magia. Un chiodo finissimo, esile scompare tra le mani del maestro ancora prima di penetrare nel legno. Creazione su commissione di un comodino in stile classico ed essenziale basandosi sul modello solo guardando l’originale. Pigmentazione per restituire la luce originaria alla decorazione impressa sul legno. Restauro dei mobili in legno dalla pulitura al consolidamento. Ci sono ancora due ambienti dedicati alle arti pittoriche, disegni, sculture, colori in ogni dove, strumenti per la doratura ed il restauro di quadri.

Capire come tirare fuori i colori e distinguere le parti originali da quelle sovrapposte nei periodi successivi. L’attenzione deve essere massima per non rovinare l’originale. Dove il colore non è proprio presente si procede con lo stucco e con ritocchi dei colori originali.

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Gianmarco Marchesini Photography

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Laura Rossini Photography

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Marta Petrucci Photography Tutti a distanza di sicurezza ma uniti da passione, amicizia si scambiano battute e consigli come nella migliore tradizione artigiana romana. Lignarius, in realtà, nasce da una esperienza pregressa. Una bottega artigianale nella quale i passanti e gli abitanti del rione in via del Boschetto entravano chiedendo di imparare questi antichi mestieri. Da lì gli artigiani ed artisti delle vicine botteghe si sono messi a disposizione come maestri. Uno dei primi slogan utilizzato per pubblicizzare l’associazione recitava "usate le mani". All’inizio si tenevano solo corsi privati, poi, con il passare degli anni, aprono le porte all’impegno e progetti nel sociale. Iniziano i corsi dedicati ai più deboli con il sostegno degli enti locali e di alcune fondazioni private.

La convivenza tra maestri ed uditori diviene scambio parietario di esperienze. Arti decorative e vetrate artistiche da una parte; restauro dipinti e carta dall’altra. La formazione aveva come scopo ultimo quello di preparare gli studenti al mondo del lavoro. Usare le mani per costruire il proprio futuro. Lignarius riceve ancora oggi riconoscimenti per l’impegno nel sociale, ma la sua sopravvivenza è legata alle donazioni di privati, all’8/1000 ed alle quote versate dai soci per l’utilizzo degli spazi. Supera il tuo maestro lavorando con impegno e passione, utilizza le nuove tecnologie, conosci la storia dell’arte e le tecniche di base. Questo il messaggio di Stefano ai suoi studenti. La tecnologia deve essere sfruttata come strumento per amplificare le proprie qualità. Si potrebbe ripartire da qui per far sì che la romanità non si perda nei vicoli di questa città.

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Il tornitore Una piccola bottega in via dei Salumi che rappresenta lo spaccato di quella romanità che sta scomparendo. Con Pietro Filoso siamo alla terza generazione di tornitori. Nel 1958 padre e nonno emigrarono da un paesino della provincia abruzzese. Cominciarono la loro avventura vendendo per strada le cucchiarelle pe’ girà er sugo. La bottega, concentrata in un unico locale è suggestiva, tutta trucioli, pezzi di legno e ricordi di una vita intera. Pietro iniziò a lavorare sin da piccolo, tanta era la passione per quel mestiere che nonno e padre gli insegnarono.

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Pietro ci racconta un po’ della sua vita con gli occhi che brillano per la soddisfazione che gli dà il suo lavoro. Ogni volta le sue mani creano qualcosa di unico, a volte inaspettato. Non c’è ripetitività nei suoi gesti. Stessi strumenti e stessi pezzi di legno che dalle sue mani prendono vita.

Oggetti semplici ma unici, un lume, un pomello. Ci vuole tempo per imparare un mestiere così, ma soprattutto ci vuole passione o come se dice a Roma a voija de ‘mparà e de faticà. Sia il padre che il nonno sono stati non solo maestri d’arte, ma di vita. Ci spiega che i tornitori possono essere di due tipi: rifinitori, come il nonno o sgrossatori come il padre. L’insegnamento più importante ricevuto è quello di sapere ascoltare ed interpretare le esigenze dei clienti. Così riesce a recuperare un mobile che altrimenti sarebbe stato buttato, l’asticella di una sedia della nonna per poterla usare ancora. Oggetti di vita quotidiana, inventati o riprodotti.

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Principalmente lavora legno di faggio perché è un legno senza nodi, ma anche ciliegio, castagno e olivo. L’abete invece è meglio lasciarlo stare perché in alcuni casi rischierebbe di rovinare, a causa della sua durezza, la parte in ferro del tornio. Una volta si lavorava molto sui tavoli inglesi e francesi d’ importazione poiché, per adattarli alle nostre abitudini, dovevano essere rialzati. Ci mostra la gamba di un tavolo rovinato dai tarli, interamente riprodotta; la cornice lavorata con la tecnica Salvator Rosa. Fuori dalla bottega passano guide turistiche, abitanti del quartiere, negozianti vicini, tutti lo chiamano, lo salutano e scambiano qualche battuta. Lui risponde senza mai togliere le mani dal tornio costruito dal padre nel 1975 recuperando la parte fissa del ferro dell’epoca sul quale fece montare un motore più potente ritenendolo più adatto alle sue esigenze. Una volta gli artigiani erano anche un po’ inventori. Trovavano soluzioni a qualsiasi problema. S’ingegnavano.


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Tutto cambia e così anche il mercato e le richieste dei clienti. Oggi si producono più complementi d’arredo. Pietro ci spiega che, per fortuna, il lavoro del tornitore è diverso da quello del falegname e non è mai mancato. In romanesco ci rassicura: So’ sempre riuscito a mètte la pentola sur foco. I clienti chiedono oggetti particolari da ricopiare, da riparare o da creare come il pistasale che ci mostra. Ogni tanto anche qualche turista entra per chiedere souvenir semplici e veloci da realizzare per poter portare a casa non solo un oggetto ma il ricordo di un momento unico e particolare. Un vero personaggio. Un mix di bravura, simpatia ed empatia. Probabilmente doti ereditate.

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Il papà è stato premiato in Campidoglio con il premio simpatia nel 2008 alla veneranda età di 86 anni con tanto di articolo di giornale incorniciato. Scomparso pochi anni fa molti lo ricordano in bottega fino agli ultimi giorni. Sulle pareti pezzi di casa, le foto dei nonni, strumenti alternati a prodotti, a ricordi. In sottofondo la radio che suona canzoni simbolo degli anni ‘70-‘80. To be continued… ma solo finché Pietro ne avrà ancora voglia. I figli gli danno tante soddisfazioni, ma hanno scelto altre strade. Se siete in centro, passate in via dei Salumi 10. Se non trovate la bottega, chiedete di Pietro e troverete la strada.

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VALTOURNENCHE

Dario Truffelli Manuela Albanese

Inizialmente, tanti anni fa, mi innamorai della Valtournenche nella sua veste invernale, non passava fine settimana che non andassi a fare snowboard. Poi, anno dopo anno, ho imparato ad amarla in ogni stagione. In autunno la vallata si tinge di un foliage dai colori magici, i larici ed i frassini assumono sfumature sempre più arancioni, giorno dopo giorno, prima dell’arrivo delle prime nevi. La primavera è un tripudio di colori e profumi, è un inno alla rinascita della vita, gli alpeggi si popolano dopo la pausa invernale e su per i sentieri si sente lo scampanellio delle mandrie al pascolo ed infine la stessa estate con le sue giornate calde ed i repentini cambi climatici ha un suo fascino.

A cura di Manuela Albanese Giroinfoto Magazine nr. 65


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La Valtournenche, nota soprattutto come la valle del Cervino, è una vallata laterale dominata dal Cervino, montagna famosa per la sua forma piramidale. Il Cervino, con i suoi 4.478 metri, è una vera e propria icona dell’alpinismo. Grazie al Cervino la Valtournenche già dall’Ottocento divenne un’ambita meta turistica di facoltosi avventurieri, soprattutto inglesi. Ma la Valtournenche non è solo sinonimo di sport invernali, infatti in primavera ed in estate le sue passeggiate permettono anche ai meno esperti di godere di paesaggi mozzafiato. Una volta lasciata l’autostrada ed imboccata la SR 46 che da Chatillon arriva a Cervinia, dopo poche curve ci si immerge in una tipica vallata alpina, le curve si susseguono in salita, la vallata è stretta e le vette innevate si stagliano davanti agli occhi.

le attività da fare sono tantissime, dal parapendio, al trekking, dal downhill allo sci.

Salendo si incontrano piccole frazioni appartenenti prima al comune di Antey-Saint-André, poi a quello di Valtournenche ed infine a quello di Cervinia. Antey-Saint-André si apre su un pianoro, qui in ogni stagione

Antey-Saint-André sa soddisfare le esigenze più diverse, infatti la sua altitudine di circa 1.100 metri si presta ad accogliere famiglie con bambini piccoli e persone che non possono frequentare quote più alte.

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Una visita la merita sicuramente il comune di Chamois. Nell’arco del tempo la popolazione residente è andata diminuendo, ad oggi si contano poco meno di 100 persone dedite alle attività turistiche. Chamois è l'unico comune d'Italia totalmente privo di strade carrozzabili. Il collegamento con il fondovalle è garantito infatti da una funivia, inaugurata nel 1955 e ricostruita nel 1968, e da una teleferica per il trasporto di merci e animali. Una seggiovia sale, dal 1960, all'incantevole lago di Lod ed una seconda fino al colle di Fontana Fredda. In questo luogo le piste da sci sono incantevoli, poco affollate e soprattutto riparate dal vento che spesso impedisce agli impianti di Cervinia di funzionare. Chamois è altresì famosa poiché ospita dal 1967 il primo altiporto d’Italia, questa è l'aviosuperficie di montagna più frequentata in Valle d'Aosta, sia in estate che in inverno. E' sufficientemente riparata dal vento da poter essere agibile anche con condizioni meteo non perfette. Il comprensorio di Chamois è formato da diversi piccoli villaggi posti a quote attorno ai 1.800 mt. Slm.

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Continuando a salire per la SR 46 incontriamo il comune di Valtournenche, questo comprende numerosi piccoli villaggi che conservano begli esempi di architettura rurale tradizionale. Poco a monte del capoluogo, a fianco della strada che sale a Cervinia, c’è un geosito spettacolare che vale una sosta, il Gouffre des Busserailles. Si tratta di una sorta di grotta, lunga un centinaio di metri, scavata dal torrente subglaciale. E’ un luogo davvero suggestivo, esplorato dalle guide della Valtournenche già nel 1865, e sistemato sin da allora per un suo utilizzo turistico. Una festa imperdibile è la Dézarpa che chiude idealmente la bella stagione di Breuil-Cervinia e Valtournenche alla fine di settembre. E’ un rito che celebra il ritorno a valle dagli alpeggi, dove le mucche vengono portate a pascolare nei mesi più caldi dell’anno.

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La vera protagonista della Dézarpa è infatti lei, la mucca, che per tornare a valle viene spazzolata con cura e addobbata con ornamenti multicolori. Alla sfilata, che da Valtournenche raggiunge la frazione di Maen, partecipano, oltre agli agricoltori, le guide alpine, i maestri di sci, gli alpini, le varie associazioni locali ed alcuni residenti in costumi tradizionali. Per una intera giornata tutti sfilano come su una passerella insieme agli animali, non solo mucche, ma anche pecore, maiali, asini e cavalli, accompagnati dal suono dei campanacci per la vera star dell’occasione, la mucca valdostana pezzata rossa. Il tutto contornato da piccoli punti di ristoro posizionati lungo la statale, musica e folclore.


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Sebbene Cervinia sia la località più nota della vallata, in realtà il Breuil non è che una frazione del comune di Valtournenche che comprende tutta la testata della valle. Prima di arrivare a Breuil-Cervinia si incontra una piccola perla: il lago Blu, è il classico lago da cartolina ed è situato a 1.980 m. Il suo vero nome è Lago Layet, ma viene chiamato comunemente “Blu” perché sul fondo del lago alcune alghe riflettono queste sfumature di colore.

Dario Truffelli Photography

Nelle sue acque cristalline in estate si riflettono le cime delle Grandes Murailles e la vetta del Cervino. La vallata è stata culla di grandi alpinisti e nel corso degli ultimi secoli ha visto realizzarsi grandi imprese. Caratterizzato dalla particolare forma piramidale molto pronunciata, il Cervino ha segnato in modo significativo la storia dell'alpinismo: la sua parete nord è infatti una delle classiche pareti nord delle Alpi e attorno a esso si sviluppa il comprensorio sciistico del Matterhorn Ski Paradise con possibilità di sci estivo sul ghiacciaio del Plateau Rosa. Infatti nella seconda metà dell’800 sia gli inglesi che gli italiani organizzarono più tentativi per raggiungere la vetta. Il 13 luglio 1865 Whymper con un gruppo di compatrioti attaccò la salita per quella che è oggi la via normale svizzera e raggiunsero la vetta il giorno seguente battendo di poche centinaia di metri il gruppo italiano.

Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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VALTOURNENCHE

Manuela Albanese Photography

Nel 2016 il grande fotografo Steve McCurry propose in anteprima assoluta, il frutto di una campagna fotografica condotta in Valle d’Aosta, dove spiccano il folklore, le tradizioni locali e i 4.000 metri delle Alpi: Monte Bianco, Cervino, Gran Paradiso e Monte Rosa. Lo stesso McCurry spiega: “Ciò che importa più di ogni altra cosa è che ogni immagine viva in modo autonomo, che abbia un suo posto e trasmetta un’emozione”. Riprendendo le sue parole, emozioniamoci guardando le meraviglie del nostro splendido paese.

Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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VALTOURNENCHE

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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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VILLA DEL MAGGIORDOMO

Grazie al permesso della proprietà, che l’ha acquistata alla fine del secolo scorso, abbiamo avuto la possibilità di visitare una bellissima villa storica dimenticata nella periferia di Torino: la Villa del Maggiordomo.

Lorena Durante Samuele Silva

A cura di Lorena Durante Giroinfoto Magazine nr. 65

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VILLA DEL MAGGIORDOMO

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Alla parola “maggiordomo” il pensiero ci porta sempre a immaginare un signore distinto e impettito in livrea nera che si occupa della gestione della villa del suo padrone. In realtà all’epoca dei Savoia, nel XVII e XVIII secolo, la figura del maggiordomo era molto diversa e ricopriva un ruolo importantissimo nella corte. Era scelto tra le famiglie nobili ma, soprattutto, doveva essere uomo di “prime nobilitatis et rare virtutis”, perché le qualità personali e i servigi prestati contassero nella scelta più del sangue. Non mancano infatti casi di maggiordomi di origine borghese giunti a tale dignità attraverso una carriera negli uffici giudiziari o finanziari.

Il Re nominava diversi maggiordomi, alcuni solo come carica onorifica, altri invece che accompagnavano la corte e avevano il compito di dirigerne la vita quotidiana; erano soprattutto quelli che venivano nominati, con significativa precisazione, all’ufficio di “continuum et residentem magistrum hospitii nostri”, perché fosse ben chiaro che non si trattava di una nomina meramente onorifica. A loro spettava, tra le altre cose, verificare e controfirmare le note spese di tutti i fornitori della casa ducale e le richieste di rimborso dei servitori, nonché controllare e vidimare, ogni mese, il registro delle spese quotidiane della casa, presentato dall’impiegato a ciò addetto. Spettava a loro, altresì, la responsabilità del guardaroba ducale, e con esso delle tappezzerie, masserizie, abiti e gioielli. Veniva poi scelto, tra tutti, un gran maggiordomo, la cui responsabilità politica si aggiungeva a quella più propriamente amministrativa: infatti egli partecipava alle riunioni del consiglio ducale, lasciando la gestione quotidiana agli altri maggiordomi. Era a tutti gli effetti il Primo Ministro dell’epoca per la sua importanza. Giroinfoto Magazine nr. 65


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VILLA DEL MAGGIORDOMO

La villa fu costruita su un terreno rurale, dove esisteva già una cascina, tra il 1675 e il 1683 dal gentiluomo Valeriano Napione. Inizialmente fu soprannominata “la Napiona” proprio per il nome del suo primo proprietario, in seguito prese il nome dalla carica di “maggiordomo” ricoperta intorno alla metà del Seicento da Valeriano presso la corte del principe Emanuele Filiberto di Savoia Carignano. Napione affidò la costruzione al famoso architetto torinese Guarini o forse, più presumibilmente, ad un suo allievo: Giovanni Francesco Baroncelli, perché avrebbe voluto avere una struttura il più simile possibile a Palazzo Carignano che i Savoia stavano costruendo nello stesso periodo. Inizialmente la villa era concepita per essere un luogo di svago con saloni e stanze per i ricevimenti. L’importante salone centrale di forma ellittica si ergeva fino al secondo piano: in fase di restauro sono stati scoperti gli

Samuele Silva Photography

Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

attacchi dei balconcini tra primo e secondo piano pensati per la permanenza dei musici e dei cantanti che allietavano le serate degli ospiti. Solo in un secondo tempo, probabilmente nel ‘700, vennero aggiunte le ali laterali contenenti le cucine, la cappella e le stanze al piano superiore. Altre migliorie tra cui la limonaia, o giardino d’inverno, creato con enormi vetrate nel rifacimento della parte ovest e la meravigliosa scala elicoidale in legno, abbastanza preservata, furono create da un altro proprietario, Amedeo Peyron, tra fine ‘800 e i primi del ‘900, su progetto dell’architetto Carlo Ceppi, famoso a Torino per l’opera della Stazione Porta Nuova. La cappella invece venne completamente rifatta nel 1833 da Andrea Gonella, banchiere di Carrù, la cui famiglia fu proprietaria della palazzina fino al 1868.


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Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

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Confrontandola con il famoso palazzo Carignano di Torino, di cui forse voleva essere una riproduzione in piccolo, la villa “Il Maggiordomo” acquista sicuramente un valore aggiunto in quanto il mantenimento delle finiture originali potrebbe suggerire (naturalmente in modo semplificato e in scala inferiore) l’aspetto che avrebbe potuto assumere Palazzo Carignano se fosse stato completato con l’applicazione dell’intonaco e dello stucco decorativo. Il Carignano infatti, a causa di una successione di eventi tra cui la morte del Guarini, l’esilio del committente e la già citata mancanza di calce, è rimasto diciamo “incompiuto” nella facciata con il paramento in mattoni a vista. La villa negli anni passò di mano in mano a personaggi più o meno illustri fino al declino iniziato con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quando venne danneggiata dalle truppe tedesche e poi ospitò alcune famiglie sfollate, che abitarono nel complesso anche nei decenni successivi, quando «il Maggiordomo» era già in gran parte abbandonato.

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VILLA DEL MAGGIORDOMO

Nel 1952 morí Luigi Corrado Della Chà (o Della Cà), l’ultimo proprietario ad aver abitato nella villa e la proprietà andò alla figlia Marizzina che, nel 1955, sposò il principe romano Ladislao Odescalchi lasciando la nobile dimora abbandonata a sé stessa. Da qui iniziò velocemente il declino, arrivarono i ladri che depredarono parte dei pavimenti e i camini, il tetto crollò lasciando i danni delle infiltrazioni d’acqua e tutto sembrava perso. L’attuale proprietà, che ha acquistato l’immobile in stato di avanzato degrado, negli ultimi anni ha ricoperto il tetto con lastre di metallo e iniziato un primo intervento conservativo di restauro sugli stucchi. Intanto, mentre il maggiordomo cerca di sopravvivere al tempo inesorabile, si sta cercando una nuova destinazione d’uso sostenibile negli anni e un partner per la ricostruzione. La speranza è che riescano presto in questa impresa, perché la triste sorte di questo edificio non rende giustizia alla sua valenza architettonica e storica: un vero e proprio gioiello dimenticato del barocco torinese.

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VILLA DEL MAGGIORDOMO

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Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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BOTTEGHE GENOVESI

A cura di Laura Rossini Dario Truffelli Federico Figari Giuseppe Tarantino Monica Gotta Stefano Zec Tiziana Buglione Giroinfoto Magazine nr. 65

A cura di Gaia Cultrone e Monica Gotta


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Eccoci qui per un’altra immersione in queste misteriose viuzze, i vicoli, dove anche i genovesi si perdono e dove, ogni tanto, inaspettatamente si apre una piazzetta unica nel suo genere. Qui sono nascosti tantissimi tesori architettonici, storici, urbani e commerciali e, tra questi, le antiche botteghe genovesi, patrimonio culturale da tutelare e sostenere e una tradizione genovese radicata sul territorio. Questi piccoli negozi sono ancora una volta la meta del nostro reportage. La Camera di Commercio e le Associazioni di Categoria hanno creato un elenco delle botteghe storiche. Alcune sono nate come fenomeno della borghesia tra l’800 e il ‘900. Sono anche espressione dell’identità urbana cittadina genovese.

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Non possono essere chiamate “monumenti”, ma sono inequivocabilmente un patrimonio da conservare perché contengono arredi, elementi architettonici, documenti, fotografie, macchinari e strumenti che sono e fanno parte della storia della città di Genova. Nasce pertanto l’Albo delle Botteghe Storiche per entrare nel quale bisogna avere almeno 70 anni di attività e possedere almeno tre dei cinque elementi essenziali sopra citati identificati dalla Soprintendenza. Ultimo elemento che abbraccia quanto citato e di importanza fondamentale è il contesto storico ambientale. (Fonte: www.botteghestorichegenova.it) Ad oggi sono 43 le botteghe riconosciute come tali, testimonianza del passato legato al presente, come un sottile fil rouge che segna la via da ieri a oggi. Alcune botteghe sono nel cuore del centro storico genovese, altre nel levante e nel ponente cittadino, ossia nella Genova nata con l’annessione di comuni limitrofi.

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BOTTEGHE GENOVESI

Inizialmente, le botteghe si distinguevano anche per la collocazione geografica nell’area cittadina: non bisogna infatti dimenticare la lunga storia di Genova nel commercio e nel commercio marittimo. Il porto era il naturale sfogo delle merci provenienti via strada da diverse direzioni, ma anche meta per i prodotti “esotici” in arrivo da svariate parti del mondo conosciuto, una “porta sul mare” in una collocazione strategica. Esistono anche dei locali genovesi che, al momento, non possono soddisfare tutte le caratteristiche per fare domanda come bottega storica. Tuttavia, possono fare domanda all’Albo in qualità di locali di tradizione genovese. Un altro passo verso la valorizzazione culturale del nostro territorio e della città di Genova. Sempre parlando di istituzioni, non dimentichiamo la campagna di sostegno lanciata durante il lock-down, #comprasottocasa, pensata e promossa da diversi enti. I cittadini non hanno fatto felici le botteghe solo in quanto #botteghe, ma anche come #vegie (che significa vecchie). In questo articolo parleremo di tradizioni di famiglia, di passione, dedizione al proprio lavoro, ma anche di arte artigiana che, con tanta fatica, tutti stanno tentando di mantenere viva, anzi più viva che mai, pur in un momento storico così difficile. Vogliamo dedicare anche un saluto a una bottega storica che è stata, purtroppo, sconfitta dal Covid-19 e dalle difficoltà economiche da esso causate.

Giuseppe Tarantino Photography

Giroinfoto Magazine nr. 65

Ricordiamo il bellissimo bar pasticceria dei Fratelli Klainguti, un gioiello presente in città dal 1828, di cui ci mancheranno i meravigliosi prodotti e quest’atmosfera un po' da Belle Epoque. Proprio per il contesto storico ambientale a cui si faceva cenno, fare un tour per “botteghe” significa riempire tutti i nostri 5 sensi di beatitudine. Le botteghe sono luoghi “vivi”, popolati di persone appassionate dove scoprirete colori, sapori, profumi, udirete storie antiche di generazioni e toccherete con mano l’arte delle botteghe. Le tre botteghe che abbiamo visitato e di cui vi parleremo, come altre, hanno recentemente ricevuto la nuova targa con il logo che le renderà riconoscibili ai genovesi ed ai turisti, certificando il possesso dei requisiti richiesti per essere BOTTEGA STORICA. In questo tour esiste un fil rouge che, oltre a segnare la via del tour vero e proprio, lo accompagna a livello concettuale. Parliamo dei cinque sensi, che legano tra loro le diverse botteghe in modo simile ma diverso. Stupisce, quasi, ma forse non dovrebbe, perché riporta proprio al mestiere dell'artigiano e ad una semplicità oggi troppo poco valorizzata: quella di affinare abilità legate al solo sguardo, tocco, odore, sapore e suono. Si parte!


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La Fabbrica dei Turaccioli Salita Santa Caterina, 17 R – Genova www.luicoenologia.com Proprio uno dei cinque sensi emerge nelle parole di Carlo Luico: il tatto. Racconta tanto del sughero, della sua lavorazione, ma qualcosa che non si stanca di ripeterci: come una delle differenze essenziali del lavoro a mano sui tappi, rispetto a quello delle macchine, sia la capacità tattile di escludere tagli di minor qualità dal lavoro. L'attività della ditta G. M. Luico nasce ed inizia con Giovanni Foppiano, il marito della bisnonna di Giacomo Manlio Luico, che ha lavorato fino al 1994 proprio con Carlo. Inutile dirlo: basta entrare nella bottega per rendersi conto di quanta storia ci sia passata dentro. Il luogo è rimasto pressoché invariato dal 1904 e una foto che ci viene mostrata lo testimonia. L'attività, tuttavia, inizia ancor prima. Carlo ci mostra un premio vinto ad una gara regionale addirittura del 1879. La bottega ha infatti ricevuto già da tempo i primi riconoscimenti di bottega storica, cosa che non sorprende, dato che al suo interno troviamo ancora il pavimento originale, mobili, scaffali, attrezzi e macchinari risalenti alle prime lavorazioni.

Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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BOTTEGHE GENOVESI

La famiglia possiede, oltre a quello in Salita Santa Caterina, un magazzino in Via Montello, dove si trovano altre attrezzature e macchinari, proprio perché la loro attività nasceva come fabbrica e non solo rivendita. Ci viene spiegato che un tempo esisteva un collegamento diretto tra la via dove si trova oggi la bottega e la zona dove oggi sorge Piazza Piccapietra. La via, dal nome originale “Vico delle Fucine”, oggi non esiste più. Quello delle Botteghe Storiche si preannuncia essere un viaggio anche nella Genova antica da un punto di vista logistico e geografico. In effetti, scopriamo anche che la famiglia di Carlo aveva, nel 1855 circa, dei boschi di sughero in affitto in una zona di Finalmarina, le cosiddette “sugherete”.

Maurizio Lapera Photography

Stefano Zec Photography

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Oggi, purtroppo, quelle foreste non esistono più e molti dei fornitori di sughero sono invece in Sardegna. Carlo ci spiega in modo approfondito come si lavora il sughero. Innanzitutto, bisogna avere cura del processo di decorticazione della pianta: si procede per un terzo del tronco e dei rami, per non fare soffrire troppo la quercia e si lavora d'estate. Dopodiché si procede alla stagionatura, che in genere dura un anno, e alla bollitura: tale procedimento è essenziale in virtù della perdita dei batteri TCA, che sono quelli che danno al vino il tanto temuto sapore di tappo. Effettuato questo passaggio, si procede poi alla spianatura e al taglio.


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Dario Truffelli Photography

Di Carlo non si può non notare la passione e la cura dei dettagli che riporta persino nei suoi racconti: racconta appassionatamente che la decortica in Sardegna si effettua ancora oggi con un'accetta e con movimenti precisi, prima trasversali, sopra e sotto, poi verticali e, infine, con il manico si estrae dall'interno il sughero. Le querce da sughero, racconta, hanno due cortecce, una interna e una esterna: quella interna non va toccata per preservare la pianta. Racconta poi di come una volta suo padre e suo nonno si occupassero dell'intera lavorazione del sughero, quindi anche della bollitura (avevano una caldaia dove il sughero veniva legato a delle catene) e del taglio, che viene fatto prima a strisce e poi a quadretti. La forma dei sugheri è cambiata nel tempo: prima erano semiquadri, oggi sono a cilindri. Ad oggi l'attività non può più sostenere i costi di un'intera produzione a causa di un calo di richiesta, avvenuto circa dal 1960, perciò acquistano un prefabbricato; tuttavia, qualche lavoro a mano viene effettuato, in base a richieste particolari. Soprattutto, spiega Carlo, ad oggi la produzione dei tappi vede la fustellazione, oltre al cambio di forma, per cui il procedimento è più rapido, meno costoso, ma esclude le

possibilità offerte dal lavoro a mano di saggiare la qualità del taglio che si sta usando. A vista e a tatto, infatti, si possono dedurre le qualità migliori di sughero e, in fase di taglio, eliminare quelle meno ottimali. Con la vista, inoltre, si può dedurre l'età del sughero che si sta lavorando, come per tutte le piante da albero, dai cerchi interni. Per quanto eseguita da macchinari, la lavorazione del sughero per arrivare ai tappi non è cambiata eccessivamente, e anzi, racconta Rosanna, figlia di Carlo, ha avuto dal progresso scientifico un grosso vantaggio legato alla questione dei TCA: esistono, infatti, dei macchinari che possono rilevarne l'esatta quantità presente nel tappo e scartarlo, nel caso questa sia eccessiva. Perché il tappo deve essere proprio di sughero? Una domanda banale, che esige una risposta! Il sughero è un materiale che, a contatto col vino, favorisce la sua maturazione attraverso dei veri e propri "scambi" chimici. Rosanna spiega che avevano anche fatto l'esperimento di imbottigliare lo stesso vino con un tappo di sughero e con un tappo di plastica; a parità di tempi di invecchiamento, il primo aveva cambiato colorazione, maturando, e acquisito frizzantezza, mentre il secondo era rimasto inerte.

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BOTTEGHE GENOVESI

La clientela, per i Luico, è cambiata nel tempo: il padre di Carlo un tempo serviva ditte e anche piccole realtà private, come alcuni alberghi e ristoranti, che potevano quindi imbottigliare i propri vini; oggi, invece, è proibito mettere in bottiglia in proprio e commerciarli. A testimonianza di ciò, nella bottega si trovano esposte alcune preziose etichette risalenti al secolo scorso. Non solo produttori di vini, ma anche celebrità, si sono serviti qui: alcuni oggetti di scena di Gilberto Govi vennero realizzati in sughero proprio dal padre di Carlo. Carlo racconta che talvolta, in cambio, l'attore aveva pagato con biglietti dei suoi spettacoli. Oggi i clienti sono per lo più privati, hobbisti che imbottigliano i propri vini per diletto e vengono a cercare il tappo giusto: Rosanna spiega che esiste la corretta tipologia di tappo per ogni tipo di vino.

Monica Gotta Photography

Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

Al massimo si può giocare leggermente sulla migliore o maggiore qualità, ma, se si sceglie la forma, la lunghezza, o la durezza del sughero sbagliata, il vino non invecchierà a dovere. Nonostante i cambiamenti di clientela e il calo di richiesta, sia Carlo che Rosanna si dicono contenti anche del presente nonché del futuro: cercano di restare al passo coi tempi e per questo hanno aperto un sito internet. Inoltre, raccontano che c'è molta curiosità intorno ai loro prodotti, grazie alla riscoperta, da parte dei giovani, dei prodotti biologici, naturali, e dei materiali, che se non utilizzati come tappi per il vino, vengono utilizzati per chiudere ad esempio i barattoli. Dal canto loro, i Luico cercano di portare avanti la memoria storica che vive nella loro bottega e si nota che ci riescano perfettamente.


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Federico Figari Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

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Piazza De Marini, 11 – 13 R – Genova www.libreriadallai.it

La libreria antiquaria

Il nostro viaggio passa di tatto in tatto, ma anche di colore in colore: dal colore dei tappi, di un legno ingiallito dal tempo, allo stesso ingiallimento della carta antica. La Libreria Dallai, che porta il cognome del suo fondatore, Domenico Amedeo Dallai, aprì nel 1939, in una Genova diversa da quella che oggi conosciamo. Come detto in precedenza, le nostre scoperte hanno a che fare anche con la città antica e la Libreria Dallai ci mostra da subito una peculiarità di allora: la stratificazione della città. Essa sorge, infatti, sopra un'altra antica bottega, dove un tempo venivano scaricati, attraverso una grata ancora oggi presente sotto la vetrina, materiali di necessità poi distribuiti alle attività del centro storico. La libreria sorge proprio nel cuore della città, in mezzo ai vicoli, tra San Lorenzo e Sottoripa, accanto ad uno dei palazzi dei Rolli, il De Marini - Croce.

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BOTTEGHE GENOVESI

Alla morte di Amedeo, prendono in gestione la libreria le figlie, Giovanna e la sorella Norma, oggi scomparsa. Ad affiancare Giovanna c'è la figlia Marta, che porta avanti la passione di famiglia. Ne parliamo tanto, con Giovanna, di come la magia delle botteghe passi anche attraverso la famiglia: quella di sangue, che porta avanti la bottega di generazione in generazione, ma anche quella che si costruisce col tempo, facendo rete con altri. Ci racconta di come Genova sia una città di clienti fedeli ai piccoli esercizi, legati alla famigliarità con i luoghi, i prodotti e le persone, e di come, anche tra diversi esercenti, si leghi nel tempo. Descrive la piazzetta come se fosse una vecchia piazza di paese. Ride, constatando il suo essere di poche parole, e dice di essere genovese nell'animo. Raccontano, lei e la figlia, del fascino dell'antiquariato: sebbene oggi si sia perso un po', rimane comunque il retaggio

Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

del desiderio di un tempo, quello di fare sfoggio di qualcosa di prezioso, unico, insostituibile e sopravvissuto alla prova del tempo. Una volta era qualcosa di più: vi era la necessità vera e propria di avere oggetti antichi in casa quando si ricevevano ospiti, per fare sfoggio dei propri averi e, in alcuni casi, anche della propria condizione economica. L'elemento comune è rimasto nel desiderio di portarsi a casa qualcosa quando si è in visita, e allora raccontano di come l'elemento ad oggi più venduto siano le stampe della Genova di una volta. Ce ne mostrano di diverse, facendoci vedere strade che percorriamo ogni giorno per come erano nell'Ottocento, mostrandoci quanto sia quasi difficile credere che si tratti dello stesso luogo, in alcuni casi. Descrivono il valore che queste stampe hanno avuto nella memoria storica collettiva, avendo permesso di ricreare vere e proprie mappe della vecchia Genova. Le stampe, infatti, essendo antecedenti alla fotografia, permettono di recuperare immagini che altrimenti sarebbero state irreperibili.


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Monica Gotta Photography

La bottega Dallai oggi lavora molto con i collezionisti; tuttavia, si tratta di figure sempre più rare e sempre meno note, mentre un tempo, anche per le ragioni di cui sopra, erano molto più frequenti. Non solo come acquirenti, ma anche come fornitori, proprio per materiali ereditati nel tempo. Inoltre, la libreria ha un laboratorio, al piano superiore, dove cura l'esposizione delle stampe, soprattutto per quanto riguarda le cornici, in modo che non escano mai dal negozio: si occupano di sceglierle e anche di recuperarne alcune antiche e particolari, che si abbinino, in qualche modo, alla stampa che porteranno all'interno e la valorizzino. Anche in questo caso, a parlare è la passione: Giovanna ci dice di apprezzare alcuni aspetti del digitale, ma di essere dispiaciuta di come ci si dimentichi di alcuni aspetti che l'esperienza dal vivo, anche di acquisto, regala. E qui riecco il nostro filo rosso dei cinque sensi.

Dario Truffelli Photography

Non si poteva, in effetti, non menzionare l'odore della carta, quell'odore meravigliosamente inebriante che ti colpisce non appena varcata la soglia. Quell'odore che nessuno shop online potrà mai darci. D'altronde, gli odori non si possono ancora condividere virtualmente! C'è anche un altro aspetto negativo portato dalla modernità, di cui discutiamo con Giovanna: la perdita del valore del tempo. Parliamo di come se ne abbia sempre meno, se ne desideri sempre di più, ma di come difficilmente si sia disposti a pagarlo e, proprio per questo motivo, il lavoro dell'artigiano si trova fortemente in crisi: esso è, infatti, un lavoro dove viene pagato il tempo richiesto dalla cura per i dettagli, l'attenzione richiesta da un certo tipo di lavoro, la precisione, la scelta. Aspetti che oggi molti trascurano.

Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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BOTTEGHE GENOVESI

Stefano Zec Photography

In conclusione, c'è una frase che colpisce, una frase che Giovanna ha detto con un trasporto di cui la si deve ringraziare, perché sapere che ci saranno sempre persone che credono in ciò che fanno con questa passione, dopo tanto tempo e nonostante tutto ciò che accade, fa sempre bene e, in questo periodo storico, più che mai. Chiedendo a Giovanna cosa siano le botteghe, cosa rappresentino e cosa lei speri per il futuro, così risponde: "Vorrei che si ricordasse quanta luce umana portino posti di questo tipo". Questa luce si vede, chiara e luminosa, negli occhi di Giovanna e di Marta e vogliamo portarla anche a voi che leggerete queste parole e vedrete queste fotografie.

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 65

Salutate Giovanna e Marta, continua il tour delle botteghe ed è sempre il fil rouge dei cinque sensi a segnare la strada da percorrere. Dopo aver visto libri decorati con carta marmorizzata di svariati colori, lo stesso motivo lo si trova nelle composizioni altrettanto colorate della bottega artigiana del vetro, quelle realizzate all’interno della Vetreria Bottaro. Un percorso inconscio, con un’aura un po' romantica, evidenziata dalle immagini che uniscono le tre botteghe. Qui, oltre al tatto, entra in gioco in modo energico un altro dei nostri 5 sensi: la vista.

Giuseppe Tarantino Photography


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Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 65


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Piazza delle Scuole Pie, 3 A – Genova www.vetreria-bottaro-genova.business.site La Vetreria Bottaro si trova nei pressi di Palazzo Cicala, una bottega storica genovese che continua la sua attività come vetreria artistica, intrapresa da Edoardo Bottaro alla fine dell’Ottocento. Marco e Paola Bottaro sono gli attuali titolari della bottega e raccontano con entusiasmo ed emozione le vicende della loro famiglia e della loro attività. La storia della vetreria inizia con Edoardo Bottaro, buon disegnatore, che fu mandato a Parigi dal padre Giuseppe, all’epoca sarto, per imparare il mestiere e prendere spunto dalla moda della Ville Lumière. Edoardo fece tutt’altra cosa: restò affascinato dalle grandi vetrate delle cattedrali parigine e, rientrato a Genova alla fine dell’Ottocento, aprì la Bottega Artigiana del Vetro in Vico dei Tintori, nella zona dove oggi sorge Piazza Piccapietra, il cui nome potrebbe derivare dal mestiere che facevano gli allora abitanti del sestiere, scalpellini e tagliapietre, di cui non resta più nulla, per via di una rivoluzione urbanistica che modificò completamente l’assetto della zona. Ora si può percorrere questo vico solamente guardando le vecchie immagini arrivate fino ad oggi.

Dario Truffelli Photography

Il figlio Enrico, dopo vari cambiamenti, approda in Piazza delle Scuole Pie, una delle più interessanti piazzette medievali genovesi, un tempo nota con i nomi delle famiglie nobili che vi abitavano, i Cicala e gli Squarciafico. Qui apre una bottega in un palazzo medievale ma, prima dell’attuale negozio, ne esisteva un altro; la bottega in sé esiste dal 1870.

Bottega artigiana del vetro

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Inizialmente nacque come una vetreria artistica ma, successivamente, il figlio Ermanno diversificò le lavorazioni del vetro ponendo attenzione all’industria, all’edilizia, al porto, alle forniture di bordo, ai cantieri e ai privati. Ora sono i figli del Signor Ermanno, Marco e Paola, che portano avanti la tradizione di famiglia e producono di nuovo, nell’affascinante bottega, vetri decorati a smeriglio e vetrate artistiche, oltre a moderne produzioni per complementi d’arredo come specchi, cornici, lampadari, tavolini e, per un periodo dell’anno, anche le decorazioni natalizie.

bottega, dalle vetrate ai cristalli e alle decorazioni. La bottega passò poi al nonno di Marco, venuto a mancare poi nel 1941. Il lavoro continuò con la moglie, nonna di Marco e Paola, ritratta in una vecchia fotografia con i 4 figli. Dopo gli zii, l’attività giunse nelle mani di Marco e Paola, che oggi continuano il lavoro delle generazioni precedenti e lo mantengono così com’era nat,o a partire dalle vetrate decorate a smeriglio.

All’interno della bottega, punto di riferimento per i genovesi che hanno il gusto del bello e del raffinato, restano ancora tracce dell’antica pavimentazione e i soffitti voltati a padiglione lunettato. Ancora in uso, o conservati in apposite vetrine, sono visibili vari attrezzi per la lavorazione del vetro, quali tagliavetro, rotelle per sinopie, tiralinee per vetri d’arredo e smerigliatrice, alcuni realizzati appositamente dal nonno di Paola e Marco. La bottega, con annesso il laboratorio, è un tripudio di colori, di creatività, abilità tecnica e manualità e vi si respira un’atmosfera d’altri tempi: si producono artigianalmente oggetti d’arte con uno sguardo alla tradizione, ma sempre prestando attenzione alla moda e al cambiamento dei gusti e delle tecniche pittoriche e decorative. Marco Bottaro, attuale titolare insieme alla sorella Paola, conferma che la bottega racconta una storia di famiglia e di passione. Così riprende la storia di Edoardo: allora molto giovane, tornò a Genova e informò la famiglia che voleva iniziare a costruire vetrate come le vide a Parigi. Forse perché benestanti e per incoraggiare l’appena nata passione, iniziò questo mestiere. Ai tempi era un mestiere dove servivano diverse figure, come coloro che dipingevano, esperti nel taglio del vetro, chi legava e chi molava. Riunire le maestranze permetteva di creare delle nuove attività e così fu. Infatti Edoardo, nel 1901, aveva creato una buona ditta con tanti dipendenti. Nella bottega è esposto un documento del 1901, un documento che ha ben 120 anni, in cui è spiegato tutto ciò che si faceva in Dario Truffelli Photography

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Al contrario dei loro predecessori, Marco e Paola sono stati colpiti dalla deindustrializzazione e sono tornati a fare ciò che faceva il nonno: le vetrate e i restauri per le chiese. Lavorano principalmente con i privati, forti della tradizione di famiglia per la quale sono conosciuti a Genova: in questo modo hanno potuto creare la loro nicchia di mercato, fornendo ai loro clienti un servizio inestimabile. Tra questi annoverano anche priori appassionati, oratori del ‘700 che hanno bisogno di restauri, ma soprattutto privati che ordinano specchi decorati e mensole, vetrate, cristalli decorati a smeriglio, mobili in cristallo. Si sono anche specializzati nel restauro di oggetti rimasti danneggiati che, per i proprietari, hanno un grande valore affettivo.

Si tratta di oggetti di altissimo pregio, quali bicchieri di Baccarat o Saint Louis e altri, come ad esempio bottiglie con tappi di vetro, specchi, oggetti di Lalique o di vetro di Murano. Considerando che il vetro rotto modifica la rifrazione della luce, si può immaginare quanto un restauro di simili oggetti richieda grande precisione. Paola si occupa anche di recuperare oggetti antichi, come due lampade che ci hanno mostrato in fase di restauro in laboratorio. Cerca i pezzi da sostituire, come un’arpa in questo caso, che spesso sono di difficile reperimento, ma che fanno di questo lavoro una sfida per passione.

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Nel cuore del laboratorio, regno della creatività di Paola, nascono le vetrate artistiche che contraddistinguono la bottega. Alcuni vetri colorati su un banco fanno sorgere spontanea la domanda su come vengono sagomati e tagliati per arrivare al prodotto finale. Tagliati a mano, uno per volta, andranno poi a formare il lavoro finito.

E non è la taglierina che rompe il vetro, ma gli ultrasuoni, il rumore che si sente quando si passa lo strumento sul vetro. È proprio il suono che fa separare gli elettroni e che produce il taglio.

Per fare ciò, viene prima creato un disegno cartaceo, suddiviso in tante piccole sagome di carta che servono appunto come guida per il taglio delle lastre madri.

Per spiegare meglio questo processo, è necessario sapere che il vetro, ai nostri occhi solido, in effetti è un fluido. È la stessa differenza che c’è tra acqua e ghiaccio: a basse temperature il vetro è solido come il ghiaccio, ad alte temperature il vetro è fluido come l’acqua. Per questo motivo il vetro si muove ed è per questo che il suono lo taglia.

Queste, adagiate sul vetro, fanno da guida per il taglio, scontornandole con un pennarello. Il taglio avviene con un tagliavetro che, in tempi passati, veniva fatto con i diamanti. Il taglio è anche una questione di manualità, non solo di tecnica.

Un’altra curiosità è che, se non si fa nulla dopo aver tagliato il vetro, questo tende a ricomporsi. Indagando oltre si scopre che Paola non mola il vetro come avviene nella tecnica di uso comune, ovvero la tecnica Tiffany. Utilizza invece la tecnica a piombo, ossia quella delle vetrate antiche o gotiche, che non prevede la molatura.

Tecnica Tiffany Questa tecnica risale agli anni ‘70 del 1800, quando Louis Comfort Tiffany iniziò a sperimentare questo innovativo metodo di lavorazione del vetro. La Tecnica Tiffany è un modo originale per creare oggetti in vetro. Prima si selezionano i pezzi, si tagliano in base al disegno e vengono scelti i colori appropriati. I vetri devono essere puliti e ricoperti ai bordi con uno strato di rame che servirà alla loro saldatura a stagno. Il manufatto viene poi bagnato con delle soluzioni protettive che colorano gli strati di rame in nero e che servono da protezione contro le ossidazioni dovute al tempo.

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Tecnica a piombo La tecnica a piombo è quella classica, inventata nel Medioevo e che si può vedere nelle cattedrali europee. In origine si usava il legno, che fu poi sostituito dal piombo, un materiale flessibile che poteva essere sagomato e piegato intorno ai tasselli di vetro. È un lavoro di grande pazienza. Il lavoro in fase di creazione nel laboratorio è una porta finestra, che andrà a sostituire delle tende applicandolo alla finestra. È una tecnica utilizzata da tempo nei vecchi palazzi di Via XX Settembre, Via Granello e Corso Firenze, palazzi del 1912 circa nati con gli scuri alle finestre.

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Un altro lavoro di Paola è una vetrata appesa al muro del laboratorio, che rappresenta una barca a vela, creata con una tecnica mista tra tecnica a piombo e tecnica Tiffany. È un’opera ancora da rifinire. Paola, ci racconta, non riesce a distaccarsi dalle sue creazioni, non riesce a guardarle con occhio critico perché fanno parte di lei come artista. Non mancano anche storie inusuali sui suoi lavori, della particolarità di alcune richieste dei clienti, sulle quali semplicemente sorride e soddisfa la richiesta, per quanto eccentrica possa essere. Il costo di un simile lavoro di precisione è commisurato al tempo impiegato alla produzione, tenendo conto che implica la creatività, il disegno, il taglio e l’assemblaggio. È un lavoro che richiede un grande impegno ma, soprattutto, dà l’idea del genio creativo di quest’artista. Perché Paola è, a tutti gli effetti, un’artista del vetro. È il più piccolo dettaglio a fare del prodotto finale un oggetto di valore, un oggetto unico con la sua bellezza intrinseca. Nella bottega troviamo anche il forno e diversi stampi, alcuni acquistati, altri fatti dai titolari, per fare i fusi per ricreare gli oggetti dei clienti, ad esempio vetro curvo bombato per sostituire un vetro di una vetrinetta. Le cotture per i vetri dipinti, come le vetrate sacre, vengono cotti a circa 600 gradi dopo che sono stati dipinti, utilizzando la grisaglia, prodotto ferroso (ossido ferroso) che si fonde con la superficie del vetro a circa 600 gradi. Da questo deriva la sua indistruttibilità. Un’altra domanda nasce spontanea: qual è stato il loro lavoro più complicato di sempre. Per chi la conosce, hanno riprodotto la Barberia Giacalone in un bagno di una casa privata. E non solo. Hanno ricostruito alcune facciate dei palazzi più importanti di Genova. Un esempio di questo lavoro è davanti ai nostri occhi. È un’opera di un metro per un metro e mezzo, ancora in corso di creazione, che andrà ad adornare il portone del palazzo riprodotto dietro alla portineria.

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Marco sta ancora decidendo come valorizzare le finestre, i dettagli in ardesia e come illuminare l’oggetto nel modo giusto. Prima di procedere su vetro, Marco ha creato il disegno a china, molto preciso e bello partendo da un disegno originale di Rubens. Il suo occhio artistico sta valutando se cambiare delle parti, tra parti (campitura) smerigliate o parti trasparenti. È una creazione in divenire, dove la profondità viene data in base all’incisione. La resa la si vedrà strada facendo e lavorarci con l'umiltà di dover cambiare ne farà un’opera unica. Per finire, Marco mostra una decorazione a smeriglio tipo "mussolina". Come molti sapranno, mussolina è un termine mutuato dalla decorazione della stoffa. Per quanto riguarda il vetro, si otteneva mediante uno stampo di zinco traforato con acido, che il bisnonno produceva. Lo stampo veniva posato sul vetro e sopra veniva passata con un pennello una particolare pasta a caldo, composta da colla, glicerina, terre rare e acqua. La pasta si asciugava solidificando immediatamente e si poteva finalmente smerigliare il vetro con un getto di sabbia. Infine, si ripuliva il vetro con una lametta. Ai nostri giorni, Marco crea la mussolina al computer; tuttavia, lo fa raramente, perché è un lavoro piuttosto complicato e produrre questo tipo di decorazione non è semplice. Collabora con i restauratori quando non ci sono altri metodi per ottenere determinati risultati. Anche se è un lavoro complicato, Marco lo fa con piacere perché è sempre il risultato che conta. La conclusione arriva da sé. Per Marco e Paola è fondamentale conservare il sapere e la conoscenza dei loro antichi maestri. Altrettanto fondamentale è condividere la loro arte con il pubblico, con gli appassionati, gli estimatori dell’arte e naturalmente i loro affezionati clienti.


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Abbiamo mostrato alcuni scorci di queste botteghe, li abbiamo raccontati, descritti. Abbiamo parlato dei colori che legano tra loro questi posti, dei cinque sensi che ci costringono a seguire un sentiero. C'è un elemento però, lo noterete anche nelle fotografie, che ritorna continuamente nelle botteghe: le mani. Mani più o meno giovani, di uomo, di donna, ma sempre mani. Quelle mani che, anche senza vedere a chi appartengono, raccontano tanto di chi ci sia dietro, del mestiere che fa e ha fatto, ma anche della cura verso ciò che vende e produce. Di più: dalle mani di queste persone, a distanza di migliaia di chilometri, senza averle mai conosciute, potrete comprendere l'amore. Perché l'amore per questi mestieri passa indissolubilmente attraverso le mani, attraverso come si toccano gli oggetti, i

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materiali, come li si sposta e li si solleva, come li si mostra agli altri. La conoscenza di un'arte - d'altronde una volta i mestieri si chiamavano proprio così - passa prima di tutto attraverso il come tenere le mani, come muoverle. Ed ecco, allora, che basta una mano a raccontare tanto di ciò che abbiamo visto. Forse quelle mani diranno di quelle persone ciò che le botteghe dicono di Genova: una storia antica, lunga, affascinante. Una storia da raccontare. Non si può far altro se non ammirare la resilienza delle persone che abbiamo incontrato e intervistato. Ringraziamo quindi Carlo, Rosanna, Marta, Giovanna, Marco e Paola per averci raccontato le loro storie. È stato un vero piacere conoscervi!


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