Giroinfoto magazine 66

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N. 66 - 2021 | APRILE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.66 - APRILE 2021

www.giroinfoto.com

Mercato Orientale GENOVA Band of Giroinfoto

IL MUNICIPIO DI PALERMO I 4 CANTI DI CITTÀ Band of Giroinfoto

IL PANZEROTTO UN LUNGO VIAGGIO Bnd of Giroinfoto

BORGATA PARALOUP BORGO DELLA STORIA Band of Giroinfoto Photo cover by Monica Gotta


WEL COME

66 www.giroinfoto.com APRILE 2021


LA REDAZIONE

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GIROINFOTO MAGAZINE

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Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.

Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.

Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.

Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.

Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.

Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.

Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.

Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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on-line dal

11/2015 Giroifoto è

Giroifoto è

Editoria

Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.

Attività

Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

Giroifoto è

Promozione

Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

L E G G I L A G R AT U I TA M E N T E O N - L I N E www.giroinfoto.com Giroinfoto Magazine nr. 66


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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI

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ANNO VII n. 66

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20 Aprile 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana

giroinfoto TV LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.

PARTNERS Instagram @Ig_piemonte, @Ig_valledaosta, @Ig_lombardia_, @Ig_veneto, @Ig_liguria @cookin_italia SKIRA Editore Urbex Team Old Italy

CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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C O N T E N T S

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PALERMO

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DI RAPACI E FALCONIERI

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PARALOUP

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MERCATO ORIENTALE Di genova Band of Giroinfoto Liguria

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PARALOUP Il borgo che ha fatto la storia Band of Giroinfoto Piemonte

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PALERMO I 4 canti di Città Band of Giroinfoto Sicilia

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DI RAPACI E FALCONIERI La falconeria Band of Giroinfoto Lombardia

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FOTOGRAFIA OTTOMANA Bernardino Nogara e le miniere del Vicino Oriente (1900–1915) Skira Editore


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R E P O R TA G E

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IL PANZEROTTO

IL PANZEROTTO Sulle orme della tradizione Band of Giroinfoto LA CASALTA Residenza americana ai Parioli Band of Giroinfoto BOTTEGHE ROMANE Piovano e Giuliani Band of Giroinfoto Lazio

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LA CASALTA

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GAIRO VECCHIO Il paese che scorre Di Elisabetta Cabiddu

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FOTOEMOZIONI DI Ivi Marchesini Ronald D. Palandie Linda Zanchin

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BOTTEGHE ROMANE

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353

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R E P O RTA G E

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MOG

Dario Truffelli Davide Mele Giuseppe Tarantino Isabella Nevoso Luca Barberis Manuela Albanese Monica Gotta Silvia Barbero Stefano Zec

A cura di Gaia Cultrone e Monica Gotta

Il MOG – il Mercato Orientale di Genova, non solo un mercato in senso tradizionale, ma un pezzo di storia della città. Aperto nel 1899, situato nella centrale Via XX Settembre e nell’antico chiostro, mai terminato, della Chiesa della Consolazione e San Vincenzo Martire, è un’istituzione e orgoglio della città.

INTERVISTE a cura di Gaia Cultrone Dario Truffelli Manuela Albanese Monica Gotta Stefano Zec

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Il mercato orientale prende il suo nome dalla collocazione vicino alla porta orientale della città. L’area che ricopre il mercato orientale di Genova è di quasi 5.000 mq ed è legata alla nascita della Chiesa di Nostra Signora della Consolazione e San Vincenzo Martire (nota anche come Chiesa di Santa Rita) la cui costruzione fu iniziata nel 1684. Il convento, annesso alla chiesa, un progetto maestoso, non fu mai terminato. In passato era sede dell’Ordine Eremitano di S. Agostino. I monaci si trasferirono nella zona di S. Vincenzo, compresa tra le vecchie mura cinquecentesche e le nuove, dopo aver lasciato il monastero sul Bisagno che donarono alla popolazione durante la pestilenza per essere utilizzato come lazzaretto. (Fonte: https://moggenova.it/la-storia/)

Il convento incompiuto fu adibito all’accoglienza di religiosi, mercanti e piccole botteghe. La realizzazione della nuova copertura in vetro ha riportato la luce naturale all’interno del mercato con l’obiettivo di ricreare la suggestione e l’atmosfera dell’antico chiostro illuminato oltre che essere un progetto di rinnovamento e mantenimento dell’identità genovese.

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Isabella Nevoso Photography

Gli accessi al mercato sono diversi, da Via Galata a Via XX Settembre, altri che si aprono nelle vie prospicenti del centro genovese. Raggiungerlo è molto semplice essendo vicino alla Stazione Ferroviaria di Brignole ed è servito da molti mezzi pubblici. Qui si possono trovare prodotti di qualsiasi genere, Giacomo Bertini Photography dalla frutta e verdura, al pesce fresco, carni, formaggi nonché prodotti particolari di provenienza internazionale. Ogni desiderio può essere soddisfatto in questo mercato e non è un dettaglio da sottovalutare. Ma all’interno di questa struttura storica troviamo anche altro. Quello che in passato era il piano rialzato del mercato orientale oggi è diventato il MOG, il nuovo concetto, la nuova visione di questo spazio vitale ed essenziale per la città di Genova e i genovesi. Entriamo nell’universo della cucina e del food, entriamo anche in uno spazio dedito alla condivisione e all’aggregazione.

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Questo spazio affascinante propone un format simile ad altre strutture europee come Covent Garden, il mercato di San Miguel a Madrid e la Boqueria di Barcellona. Ciò che è racchiuso sotto la volta delle vetrate, che lasciano intravedere i tetti cittadini, è una miscellanea di passione, tradizione, creatività e innovazione, di persone impegnate a fornire un’offerta a 360° al cliente. Dalla colazione al pranzo, dall’aperitivo alla cena, qui si possono trovare le più svariate e allettanti proposte di gusto con prodotti del territorio, a km zero, dalla cucina tradizionale genovese alla rivisitazione internazionale ed esotica.


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Entrando attraverso le porte scorrevoli si passa dall’antico mercato ortofrutticolo alla modernità del nuovo piano rialzato dove regna la luminosità recuperata dalla ristrutturazione. In una giornata di sole, le lame di luce si diffondono all’interno di questo grande spazio dando vita a giochi di luci e ombre inimmaginabili. Questa è la prima fotografia che riempirà gli occhi di coloro che varcheranno la soglia accedendo alla Piazza del Gusto. Qui si può scegliere tra le svariate proposte dei corner gastronomici, basta guardarsi intorno e si avrà l’imbarazzo della scelta. Al centro della Piazza del Gusto si trova il Bar del MOG, punto di ristoro che offre un assortimento di prodotti molto vasto dalle migliori aziende italiane e mondiali, dalla colazione all’aperitivo. Al piano superiore si trova l’Ostaia de Zena dove opera lo chef stellato Ivano Ricchebono, la scuola di cucina e la scuola di panificazione. Il MOG è anche spazio eventi, dove si miscelano arte, cultura e spettacolo, uno spazio disponibile per feste private, eventi pubblici ed altre soluzioni anche personalizzabili. Conoscere il MOG nella sua essenza è un’esperienza da non perdere e conoscere le persone che lo hanno realizzato è stato un momento magnifico. Le interviste hanno permesso di portare alla luce l’impegno e, successivamente, la resilienza di tutti coloro che SONO il MOG. Tutto viene creato sotto gli occhi del cliente, si impasta la focaccia, si condisce la pizza, si vede versare la pastella di una crěpe con il classico movimento circolare che le darà forma, si vedono tagliare i salumi e formaggi, si vede uno chef cucinare nella sua cucina a vista. Qui si realizza il concetto di street food, quello di gustare prodotti tipici e di qualità in modo semplice e spesso economico. Il MOG ha fatto dello street food il suo caposaldo dove l'acquirente può scegliere liberamente cosa mangiare e cosa bere. Ma soprattutto, può muoversi: che street sarebbe, altrimenti?

Davide Mele Photography

È un’esperienza unica nel suo genere nel cuore della città di Genova, un percorso turistico esperienzale come dicono al MOG.

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Intervista Marco Cambi Presidente MOG

Dopo questo incontro abbiamo visto altre realtà come La Boqueria di Barcellona e, dopo altri 3 anni - conoscendo fin da ragazzino il mercato genovese, venendo qui a fare la spesa con mio padre mi sono imbattuto nel piano rialzato che era una struttura un po’ dimenticata dai genovesi. Era il mercato per antonomasia dei genovesi, ma il piano rialzato era stato lasciato a sé stesso, era trasandato soprattutto nella parte architettonica che poi abbiamo recuperato. L’idea casuale è partita dalla mia impostazione personale arrivando dal mondo dell’edilizia: sono un costruttore e quindi ho pensato a una duplice veste: da un lato il recupero architettonico di questo bene, un patrimonio per la città di Genova, dall’altro lo sviluppo che poteva significare per i genovesi. Altre città europee come Amsterdam, Barcellona, Madrid e la stessa Londra sono orientate al riutilizzo dei mercati che fanno parte del recupero delle città. In Italia il precursore è stato il mercato centrale di Firenze, inaugurato circa 5 anni fa; siamo andati a visitarlo ed abbiamo preso degli spunti cercando di riproporli ed applicarli nel tessuto cittadino di Genova.

Manuela Albanese Photography

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Photography

All’origine il progetto non aveva un nome, l’idea del MOG, è nata dall’acronimo Mercato Orientale di Genova ed è nato casualmente a seguito di una vacanza, una visita occasionale a Madrid, nella quale ci siamo imbattuti nel mercato di San Miguel.

Manuela Albanese

Abbiamo fatto le interviste ai corner e saremmo interessati a parlare con lei del progetto in generale, partendo da come è nata l’idea.


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Avete preso spunti anche da Bologna?

Da Bologna quasi nulla, abbiamo attinto da San Miguel, dalla Boqueria, da Covent Garden e, soprattutto, dal mercato centrale di Firenze come concezione. Il difficile è stato inserirlo in un contesto come quello della città di Genova, una città molto conservatrice, dove forse molti progetti hanno bisogno di un po’ di tempo per entrare nel cuore dei genovesi. Il percorso per arrivare alla progettazione è stato per certi versi complicato. Con questo progetto abbiamo vinto il bando di concessione che era stato emanato dal Comune di Genova: oltre a recuperare e restaurare tutto questo immobile è nata anche l’idea della filosofia, rispetto a quello che è il mercato ortofrutticolo al piano di sotto. I banchi sono riuniti nel Consorzio, però ogni banco è indipendente; il nostro progetto portava al Comune la realtà di avere un referente unico e il MOG si è proposto e prefissato di essere una sorta di General Contractor, unico concessionario con cui interfacciarsi e confrontarsi all’interno di questa struttura. Abbiamo pensato di portare all’interno le eccellenze della ristorazione e della cucina genovese e quindi siamo andati alla ricerca di realtà che in parte erano già esistenti ed in parte si sono create con l’incontro tra persone che nella vita facevano dell’altro. Porto l’esempio di Francesco Giacomini che è un ragazzo giovane, avvocato e figlio dell’avvocato Giacomini: è sempre stato appassionato di cucina, ha avuto dei locali ed altre realtà per cui con lui abbiamo aperto un corner legato alla cucina etnica. È il solo corner non tanto legato a Genova ed alla cucina genovese, ma all’interno di questa realtà poteva benissimo integrarsi. Abbiamo cercato di gestirlo in questo modo: come MOG restiamo gestori, coordinatori e abbiamo il bar che è l’unico punto che somministra il beverage e coordina lo spazio comune cioè la sala. Il cliente all’interno del MOG consuma le varie proposte che noi offriamo (hamburger, pasta, cucina genovese, i gelati, la vineria, etc), ognuno prende il cibo che desidera e poi il bar porta da bere al tavolo. Ciò ci ha permesso di avere degli associati, i corner sono dati in affidamento di reparto, sono sotto il nostro controllo, ma ogni corner ha l’autonomia della proposta e dell’organizzazione della propria struttura. Tutto questo è possibile attraverso un regolamento interno che viene applicato all’interno del MOG, ma è legato anche ad un disciplinare per cui anche i prodotti devono essere di un determinato tipo. Tutto è basato sulla qualità, sulla tracciabilità del prodotto, km zero dove possibile e spesso compriamo dal mercato giù di sotto.

Giuseppe Tarantino Photography

Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 66

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Esiste una relazione con la parte di sotto, il mercato ortofrutticolo e i banchi?

Sì esiste, ci siamo confrontati con una realtà che all’interno del mercato orientale esiste da parecchi anni, 40-50 anni. Il MOG è stato visto subito come un nuovo inquilino, i rapporti sono buoni, ma ci sono ancora alcuni che non sono completamente contenti. Altri punti vendita più strutturati hanno accettato di buon grado l’arrivo di MOG, anche perché, numeri alla mano, molti banchi hanno avuto un incremento delle vendite del 30-50%. L’apertura è stata un valore aggiunto perché ha recuperato uno spazio restituendolo ai genovesi basandosi su una filosofia di aggregazione, di incontro tra le persone, di vicinanza. C’erano le potenzialità di crescita in una struttura come questa. Il primo anno è stato un anno per comprendere cosa era il MOG. Al piano di sotto abbiamo 1.200 mq per la somministrazione, 350 posti a sedere e ci hanno dato dei visionari. Eravamo partiti con 270 coperti e ci siamo trovati a fine maggio a dover implementare di circa 70 coperti in più, circa 60 persone occupate, la realizzazione del soppalco è stato realizzato ex novo, dove abbiamo creato lo spazio per ISCOT, la scuola di panificazione della Regione

Liguria, abbiamo creato un ristorante da 45 coperti e la sala polivalente che normalmente affittiamo a società o a chi vuole fare riunioni di team building. Poi c’è la scuola di cucina che noi affittiamo sia per corsi professionali che per corsi amatoriali. È una scuola di cucina molto ben strutturata, ha 20 postazioni e sono molte paragonata a Firenze che ne ha 12 o 16. Quindi siamo nel mercato e nel cuore storico di Genova con 2.000 mq recuperati e consegnati alla città. Questa struttura è utilizzata anche per la crescita del flusso di turisti, obiettivo supportato anche dalla Pubblica Amministrazione che ha fatto sì che il flusso di turisti non si fermasse solo in Piazza de Ferrari, ma arrivasse a Piazza della Vittoria. Dopo l’apertura del porto con l’Acquario, questa zona da un punto di vista turistico era rimasta un pò indietro, mancava un motivo per far scendere i turisti fino al MOG. È vero che il mercato è un mercato storico, ma non è paragonabile alla Boqueria di Barcellona.

Luca Barberis Photography

È previsto un aiuto da parte del Comune o da parte del consorzio per un recupero del mercato tradizionale ortofrutticolo? Sì, è previsto, non sarà un passaggio rapidissimo visto il momento di emergenza sanitaria, ma credo che una delle intenzioni del Comune sia di valorizzare un bene come può essere questo mercato e lo si può fare anche a piccoli step. Come Barcellona anche Genova vive dei colori, dei sapori all’interno della struttura: entrando si notano i colori dei banchi, forse manca un po’ di ordine, alcuni banchi andrebbero riadattati, tutti i banchi andrebbero chiusi con delle serrande.

Manca un percorso studiato in modo costruttivo per raggiungere l’obiettivo e bisogna mettere d’accordo tutti coloro che fanno parte di questa struttura, che sia sotto o sopra per così dire. Il Comune ha lasciato che il mercato si gestisse in autonomia e credo che occorra una guida comune a tutti.

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Monica Gotta Photography

Un dettaglio interessante è proprio l’aspetto del restauro di questo spazio, anche perché questo è stato uno dei primi edifici fatto con il sistema Hennebique a Genova.

Con il Covid voi siete ancora in attività, al Mercato del Carmine non ce l’hanno fatta, magari per via di scelte diverse.

Questo edificio è stato inaugurato il 7 maggio 1899 e, non a caso, abbiamo inaugurato il 7 maggio 2019 – 120 anni dopo con il Sindaco Bucci e l’attuale Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. Esso, ancora prima dei silos in porto è stato fatto da Hennebique, quindi in cemento armato e abbiamo fatto addirittura degli assaggi, perché inizialmente volevamo ancorare il soppalco ai pilastri.

Posizioni diverse in primis. Qui per il pranzo, essendo in zona uffici, eravamo sempre pieni. All’inizio non venivano accettati i ticket, mentre ora sì. Genova non è una città semplice. Ciò che ci ha fatto sempre piacere è che tutti quelli che sono entrati come Crozza o altri imprenditori dicono che non sembra di essere a Genova, non siamo dei precursori ma siamo riusciti a costruire una bella cosa.

Poi, per vari motivi strutturali ed architettonici, abbiamo rinunciato lasciando le due realtà distinte. Abbiamo anche recuperato la struttura delle vetrate, sostituito i vetri con nuovi vetri di sicurezza e ciò ha anche donato di nuovo luminosità alla struttura.

Si è detto che ci sono stati molti modelli, come Barcellona, Madrid e Firenze. Secondo lei in che modo voi potrete essere modello per altre città o per altre realtà di Genova? Il fatto di essere nel mercato orientale è un unicum in effetti. I punti focali per cui abbiamo scelto di fare questo investimento è stata la posizione, centrale all’interno della città, all’interno di un mercato che ha un valore aggiunto perché il mercato orientale pre Covid aveva un flusso di circa 9.000 visitatori al giorno, 20 anni fa senza supermercati era il doppio. Entrare qui è stato un bene, il fatto di non essere su strada penalizza leggermente la struttura perché molti non sanno che ci siamo, sia i turisti che i genovesi. Giroinfoto Magazine nr. 66

Ci aspettiamo che i genovesi ci aiutino a portare avanti un sogno. All’inaugurazione avevamo quasi 5.000 persone ed altre 1.500 non sono riuscite ad entrare e considero questo un segnale importante ed interessante e di valore per Genova. Oggi abbiamo vissuto un qualcosa di inimmaginabile: era impensabile, quando è iniziata l’emergenza sanitaria, che si sarebbe arrivati a questi punto; il turismo è stato penalizzato, la ristorazione e ciò di cui facciamo parte; si è creato un divario ancora più marcato tra le fasce di popolazione a discapito della fascia media che dà forza all’economia italiana. Una struttura come questa aperta il 7 maggio 2019 con gli investimenti che abbiamo fatto, chiusa dopo 1 anno con l’onere di dover amministrare il personale, è diventata una gestione complicata. Quest’indecisione dall’oggi al domani è sempre un problema, si traduce in uno spreco di risorse, di materie prime e quando accendo una macchina come il MOG non è semplice. Molti ci hanno chiesto di replicare questo progetto, ma sono propenso per fare un passo alla volta, prima torniamo alla normalità, facciamo tornare il MOG a camminare con le sue gambe. Aspettiamo che la situazione si normalizzi perché lo smart working crea dei problemi a chi come noi è in una zona di uffici. Anche se siamo aperti con la delivery, senza domanda è un problema.


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Il 2020 ha cambiato i piani di tutti, avevate previsto la possibilità di fare eventi tematici, culturali in questi spazi al di là dei corner? Il locale è nato non solo per la somministrazione e la vendita di prodotti legati al food, è nato anche come un punto di incontro, abbiamo tenuto eventi di beneficienza, dei concerti, una ricorrenza di Verdi, un coro, serate giovanili con un gruppo che si chiama Friends, con circa 800 persone. Un altro evento importante è stato Ecuador Gastronomico durante il quale è stata organizzata una gara di cucina e contemporaneamente si è festeggiata la ricorrenza dell’indipendenza della città di Guayaquil. Un evento multiculturale nella nostra Genova che ha contribuito allo sviluppo della città, nel campo sociale, culturale ed economico e che ha promosso una maggiore integrazione tra comunità diverse.

I corner rispondono ad un disciplinare, sono divisi per tipologia, ma come avviene la scelta? Ammesso che ci sia un posto libero? Non c’è un regolamento specifico: all’inizio si è cercato di non sovrapporre la stessa offerta per evitare discussioni, poi è successo e ora cerchiamo di evitare sovrapposizioni. Abbiamo cercato di avere fin dall’inizio dei menù contrattuali in modo che il corner avesse indicazioni precise, la proposta si è basata sul prodotto pasta fresca, hamburger in quanto internazionale e uno dei soci produce carni da 3 generazioni, il pesce, la cucina genovese, Chicco come gelateria e la vineria che abbiamo in gestione che fa taglieri. Qui l’idea vincente è la condivisione. Abbiamo 12 corner, va oltre Eataly che ha una sua storia. Abbiamo messo in campo delle idee, abbiamo aperto e scoperto punti negativi per poi migliorarli. Abbiamo puntato sui prodotti compostabili (PLA) ma ci penalizza per la cena, dove si preferiscono i piatti in ceramica. Ad oggi non riusciamo ancora a dare un servizio al tavolo, questo è un locale molto complicato perché abbiamo una fascia di apertura molto ampia, dalle 10 alle 24 per 365 giorni all’anno, vuol dire un grande investimento in risorse umane. Nelle fasce orarie più vuote bisogna creare degli eventi di consumo. Si deve lavorare su delle offerte, ad esempio come fa Caffeine, Wi-Fi gratis e una proposta come “venite a studiare da noi”, magari con consumazioni appetitose.

Ultima curiosità, qual è il suo posto preferito al MOG? Silvia Barbero Photography Il mio angolo preferito … quando è pieno … è osservare il MOG dalla terrazza. Un’immagine molto calda è quando cala la sera e ci sono le luci led che si riflettono nella vetrata del ristorante.

Avete pensato di affiancare ai corner anche un punto vendita, come è stato fatto alla Città del Gusto a Roma, di utensili da cucina, accessori di pregio? Considerando che avete la scuola di cucina e ISCOT? Ne abbiamo pensate tante, alcune non le abbiamo messe in atto. Per esempio abbiamo pensato al merchandising, il bando non ce lo vieta ma, avendo un accordo di non concorrenza con i banchi, stiamo elaborando un progetto sulla vendita di prodotti che non vanno in conflitto con il mercato come colombe, dolciumi a marchio MOG con il suo packaging.

Giuseppe Tarantino Photography

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Intervista

Ivano Ricchebono Chef stellato

graphy Monica Gotta Photo

Nato a Genova, classe 1972, diplomato presso l’I.P.S.S.A. Nino Bergese di Genova: è di Ivano Ricchebono che parliamo, Chef Stellato dalla Guida Michelin. Già durante gli studi ha intrapreso diverse esperienze lavorative in alcuni ristoranti genovesi piuttosto in voga e ciò lo ha portato ad essere notato dal famoso Chef Stefano Giorgi ai tempi della sua permanenza a Forte dei Marmi. Trascorre cinque stagioni inserito in un mondo di alto livello e poi rientra nella sua città natale mettendo in pratica tutte le competenze acquisite durante questi anni. Il risultato di tale impegno si trasforma nella sua collaborazione con un noto ristorante genovese in qualità di aiuto cuoco per poi approdare in riviera gestendo totalmente la cucina di un hotel. A questo punto gli si presenta la grande occasione, quella che lancia una carriera. Introdotto nel circuito del grande Gruppo Alberghiero francese Accor potrà mettere in atto le sue grandi doti di promettente e intraprendente cuoco quale poi si è effettivamente dimostrato. Girando per l’Italia durante questi tre anni apprende i segreti di grandi Chef, quali Alessandro Serni e Giovanni Parlati, si dedica ad assimilare le caratteristiche delle diverse cucine regionali. La sua formazione non si ferma qui tuttavia. Frequenta corsi di pasticceria tenuti da chef conosciuti a livello italiano ed internazionale. Apre con la moglie Elisa Arduini The Cook a Genova nel 2010 e gli viene assegnata dalla Guida Michelin una stella. Il ristorante è presente in tutte le maggiori guide gastronomiche italiane e, dal 2010, è ospite fisso della trasmissione La Prova del Cuoco con Antonella Clerici. Ivano Ricchebono, in accordo con Alessandro Cavo, proprietario dell’azienda Amaretti Morbidi di Voltaggio nonché di una delle botteghe storiche di Genova – la Pasticceria Liquoreria Marescotti di Cavo (presente nel reportage del N. 45 di Giroinfoto Magazine) –, porta The Cook in Vico Falamonica all’interno di un palazzo d'epoca con affreschi del 1600 circa – Palazzo Branca Doria.

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Manuela Albanese Photography

La sua cucina si rifà alla semplicità, alla tradizione e al territorio, tre peculiarità assolutamente imprescindibili per questo chef sempre sorridente, solare e disponibile. È anche un professionista dal gusto raffinato capace di creare piatti gourmet che presentano ai suoi ospiti un ineguagliabile equilibrio di sapori, profumi e colori di straordinaria eleganza. Oltre ad essere amato dal pubblico televisivo, è amato da coloro che collaborano e lavorano con lui. Quest’armonia la si ritrova nei suoi piatti composti in modo che gli ingredienti diano vita a rare alchimie, dove ogni singolo elemento si comporta come una nota di una sinfonia perfetta.


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Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Monica Gotta Photography

Partendo da uno spunto recente, l’apertura straordinaria di The Cook la sera di San Valentino, ti chiedo come vivi l’emergenza sanitaria, come convivi con il Covid-19 e le restrizioni che fanno parte della nostra vita in questo momento? Ho deciso di aprire per dare un segnale a chi ha voluto coglierlo, il diritto al lavoro è sacro e dobbiamo trovare una soluzione a tutte le problematiche che ci possono essere all’interno dei ristoranti se veramente ci sono. Si dice che i nostri posti di lavoro sono tra i più sanificati e più controllati. I ristoratori hanno diminuito il numero di tavoli all’interno dei loro esercizi in ottemperanza delle normative. Sono andato incontro alle regole, in tutto e per tutto, per cercare di mantenere il lavoro, per far star bene i dipendenti e per fare stare bene le persone che ci venivano a trovare confermando la fiducia nel nostro settore. Non ho mai alzato i prezzi per rispetto dei miei ospiti pur avendo un affitto da pagare. Come tutti gli imprenditori del settore della ristorazione sono soggetto al cambiamento continuo dei colori delle zone. È un’incertezza ma ciò che considero importante è che ci venga data la possibilità di lavorare nel miglior modo possibile e, da parte nostra - i ristoratori – avremo le giuste accortezze per mettere tutto in sicurezza.

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Conosciamo l’inizio della tua formazione all’I.P.S.S.A. Nino Bergese e il un primo incontro con uno chef famoso a Forte dei Marmi: ci puoi raccontare un po' il tuo excursus formativo? Ho lavorato in una catena di alberghi, l’Accor, in diverse città italiane per poi aprire il mio ristorante nel 2004. Una location da circa 30 posti in quanto preferisco un locale più raccolto. Come d’uso cercavo di accogliere più persone possibile quando ancora non era un problema. Ho iniziato a fare una cucina molto normale, tradizionale con un'impronta che mi distinguesse, non la classica cucina d'albergo. Ho sempre cercato di utilizzare materie prime di assoluta qualità.

Ora ci sono altri chef stellati e credo ci siano altri colleghi nella mia città che possono prendere la stella.

Nel 2010 ho cambiato indirizzo visto che sembrava il momento giusto. Ho rielaborato i miei piatti e nel 2010 abbiamo preso la Stella Michelin. La stella ci ha dato una visibilità diversa rispetto a prima e, con il passare del tempo, la visibilità è aumentata ancora. Pertanto abbiamo valorizzato al massimo il territorio cercando di utilizzare al 100% prodotti della nostra terra e del nostro mare. Con ciò trovo giusto mettere a disposizione degli altri la propria conoscenza. Personalmente non sono mai stato da grandi chef a fare stage piuttosto che collaborazioni. Nel momento in cui si apre un proprio locale si deve pensare al lavoro e il tempo che rimane non è molto.

Chiaramente non è facile portare avanti questo progetto visto che non siamo sempre aperti per via della pandemia. Pertanto è difficile farsi conoscere dai possibili ospiti, manca la continuità del servizio. L’altro sogno che coltivo è quello di aprire una gastronomia, cosa che farò sicuramente non appena si potrà tornare alla normalità. Non solo per me e per chi mi accompagnerà in quest’avventura ma anche per la città di Genova.

Vado spesso a mangiare dai miei colleghi per informarmi, conoscere cose che potrebbero servire ad ampliare il mio bagaglio per poi metterlo a disposizione dei ragazzi che lavorano con me. Per alcuni anni sono stato l’unico chef stellato della città e della provincia ed è un motivo d’orgoglio tanto quanto una responsabilità perché i riflettori sono sempre puntati su di te.

Genova ha bisogno di una vetrina diversa dal punto di vista gastronomico. Pochi mesi, fa in piena quarantena, abbiamo deciso di aprire l’Ostaia de Zena. È stato un po' il sogno della mia vita, ossia quello di avere anche un’osteria per fare cucina tradizionale al 100%.

Queste sono le cose che mi piacciono! Il Cook è una bellissima esperienza che dà tante soddisfazioni, ma l’Ostaia mi dà la possibilità di far parte di un mondo diverso. In tal senso ammiravo "dal punto di vista lavorativo” un amico di Milano perché era riuscito a creare un'osteria portando sul tavolo dei clienti cose veramente semplici. Quando vado da lui mi sembra di essere a casa e quindi lo inviterò appena possibile da me per condividere una serata insieme.

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Ritrovare la genuinità e la semplicità in un piatto è cosa bellissima specialmente quando si parla di tradizioni, continuare a farle vivere e non farle scomparire. La tua osteria è dedicata proprio alla tradizione, il buono, il puro. Esatto e sono lieto di riscontrare che le persone che vengono qui, anche di una certa età, sono quelle che fanno da mangiare a casa e che forse ne sanno più di chiunque altro di cucina e di tradizioni. Quindi è bello sapere che anche questo pubblico ci apprezza, diversamente dal pubblico del territorio, che entra qui per caso. Queste persone, affascinanti, portano in osteria la loro esperienza in cucina. Probabilmente qualche casalinga, che ringrazio, sa fare meglio di me certi piatti tradizionali! Il bello è proprio riuscire ad apprendere il massimo da altre persone. Inoltre avere la disponibilità di uno chef stellato al confronto e alla discussione è un modo per costruire un rapporto di fiducia.

Concordo col fatto che il contatto con le persone sia la cosa più bella che ci sia. È il MOG che ha trovato te o tu hai trovato il MOG? Noi abbiamo parlato di MOG con Marco ancor prima quando avevamo in mente il progetto dell’Ostaia. Non è stato facile per uno chef entrare in un posto dove ci sono tante persone che fanno da mangiare. Il difficile sta nel fatto che a volte non si incontrano i gusti, si concepisce la cucina in modo differente. All’inizio ho fatto fatica, ma c'è sempre un momento di crescita, bisogna riflettere, ragionare, capire e allora tutto prende forma in modo molto chiaro. C'è rispetto reciproco. Ogni tanto mangio da qualche collega, se mi chiedono un consiglio tecnico di come è il piatto e posso esprimermi ne sono ben lieto. È sempre uno scambio, un modo per crescere. Questa struttura non è solo un mercato, ha delle potenzialità enormi e all’inizio è stata sfruttata nel modo giusto.

Parliamo del programma televisivo al quale partecipi, La prova del cuoco. Partecipo al programma da 11 anni e sono molto contento di quest’esperienza. Mi trovo a mio agio tra telecamere, giornalisti e fotografi, mi piace, mi diverte, ho un ottimo rapporto con la conduttrice della trasmissione. La televisione permette di entrare nelle case delle persone, di stabilire un contatto, anche se a distanza. Anche se questo aspetto della mia vita mi dona visibilità, ammetto che mi mancava la famiglia che si era creata quando per mesi non sono potuto andare. E’ diventata una passione. Giroinfoto Magazine nr. 66

Ma mantengo sempre il mio personaggio, quello un po' distaccato, un po' genovese! Finita questa intervista assistere ad un breve ed improvvisato Show Cooking di Ivano Ricchebono è stata una sorpresa inaspettata. Sapendo che lo chef stellato genovese crede anche molto nel potere dei Social Media per diffondere le sue passioni e con questo dimostra nuovamente quanto esposto all’inizio: non solo chef, anche uomo, entrambi con un mood così accogliente che non lasciano dubbio sul motivo del suo successo!


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Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista

Francesca Finiguerra Corner MOG "Lo Scolapasta"

Lo Scolapasta nasce da un'amicizia di anni con i nostri soci, i Barattino della pasta fresca e gastronomia di Busalla. Ci siamo accordati con loro perché è uno dei produttori di pasta più competenti che conosciamo.

graphy Dario Truffelli Photo

Francesca Finiguerra, titolare dello Scolapasta nonché socia di Ivano Ricchebono nell’Ostaia dove si occupa principalmente dei Social Media e della parte di comunicazione. Com’è nata l’idea dello Scolapasta?

Il progetto nasce da un’idea mia e di mio marito Luca, proponendolo a Marco Cambi e iniziando questa bella avventura al MOG. Conosciamo il modo di lavorare dell’azienda Barattino, pongono attenzione alla materia prima, alla produzione e comunque producono ancora tante cose fatte a mano, usano le ricette della nonna che mantengono segretissime. Ci è piaciuta molto quest’idea, ci siamo uniti in quest’avventura fino dal primo lockdown ed eravamo entusiasti di questo format che funzionava molto bene. Ci piacerebbe ripetere l’esperienza in altre regioni portando la tradizione ligure fuori dai confini della nostra regione.

Quindi si parla solo ed esclusivamente di tradizione ligure o ci sono interferenze con altre tradizioni regionali? Assolutamente nessuna interferenza con altre tradizioni. È proprio questa la forza dello Scolapasta. Fare il pansoto fatto a mano, la trofia di castagna fatta a mano, le cose sane insomma.

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Questi sono i punti forti e di conseguenza abbiamo anche studiato alternative con particolare attenzione ad esempio al pansoto fatto a mano ripieno di cacio e pepe piuttosto che ripieno di baccalà. Rivisitazioni particolari rimanendo però sempre sul territorio. Abbiamo anche deciso di investire sulla pasta trafilata quindi tutto ciò che è pasta secca. La produciamo noi avendo la trafilatrice in loco. Era anche una scommessa quella di far vedere alla gente che passa la pasta che viene fatta sul momento.


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L'azienda Barattino è molto attenta all’ecologico. Usano pack senza impatto sull'ambiente, prodotti a km zero. Avete scelto di collaborare con loro anche per via dell’attenzione a questi dettagli? Si è una cosa molto importante. Ad esempio abbiamo scoperto il formaggio Montebore e loro hanno il contatto diretto di chi produce questo formaggio. Facciamo sempre gli gnocchi con la fonduta di Montebore che è un prodotto molto particolare ed è un presidio slow food.

Stiamo anche tornando alle tradizioni, anche quelle più antiche, quelle da assaporare con gusto. Cosa ne pensi? Penso che la gente stia lasciando il concetto di mangiare cose alla moda, il troppo moderno, una cucina giocata solo su questo concetto. Alla fine sta tornando la tradizione, la voglia di assaporare ciò che si mangiava con la nonna, di risentire i profumi di una volta. Personalmente mi manca tanto e la sento molto anch'io. Infatti prima di avviare quest’attività si parlava giustamente delle ricette della nonna! Mi è tornato in mente il tempo che passava mia nonna a preparare la pasta e il ripieno con le cose fresche di casa. Vedo che anche mia mamma, quando si occupa della mia bimba il sabato, le fa fare gli gnocchi e ciò la diverte tantissimo. Poi le resteranno questi bellissimi ricordi quando sarà più grande!

Tenete conto di possibili allergie ed intolleranze nel vostro corner? Sì, ma è molto difficile perché lavorando con le farine non possiamo garantire l’assoluta incontaminazione. Basti pensare solo al bollitore: se facciamo bollire un tipo di pasta prima di un altro è già una contaminazione. Mi ero documentata proprio sul discorso delle allergie / intolleranze quando c'è stato il boom diversi anni fa. Mi sono scontrata con un iter da seguire molto lungo, avrei dovuto seguire una parte formativa anche se quello era il meno. Avrei dovuto aprire un laboratorio ad hoc proprio per la contaminazione e anche l'investimento sarebbe stato importante. Un elemento da non sottovalutare in questo momento storico.

Giuseppe Tarantino Photography

Avete creato un corner molto bello, esteticamente parlando. Ho fatto un bel lavoro grafico, ci tenevo moltissimo. Il logo l'ha creato una mia carissima amica che vive a Berlino ed è nato tutto da un gioco. Non sapevo che nome dare al corner ma volevo un nome assolutamente d'impatto. Il nome è scaturito da una giornata con delle amiche e, a forza di proporre nomi, esce lo scolapasta. Mi sono detta … ma è un bel nome, carino, ricorda anche la tradizione, perché no?... E mi è venuto in mente subito lo scolapasta di alluminio, quello della nonna! Così abbiamo studiato anche il corner, lo abbiamo creato come volevamo noi e io, che sono “l’artista del gruppo”, ho fatto un po' cambiare idea a tutti. Ora sono lì appesi! Credo in questo progetto, ci crediamo tutti.

Isabella Nevoso Photography

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Isabella Nevoso Photography

Vuoi condividere con noi qualche altro dettaglio per te importante? Parlando di condivisione, posso dire che i ragazzi che lavorano con noi hanno assoluta libertà di avere le loro idee, siamo aperti alla curiosità e, se hanno voglia di condividere una loro ricetta o creare un piatto, noi siamo aperti alle novità. E vedo che anche da parte loro c'è interesse in quello che fanno, dimostrano passione.

È proprio ciò che abbiamo riscontrato in tutte le interviste. Ognuno di voi, ogni corner e ogni attività al MOG è fatta di persone che lavorano ma anche di passioni, di creatività, tutti sono aperti a creare qualcosa di nuovo e che sia sempre in evoluzione. Penso che i nostri collaboratori si sentano a casa, noi lasciamo molta libertà ed è una cosa che amo particolarmente. Fare diversamente non corrisponderebbe alla nostra mentalità. Lo stesso vale per le mie attività al piano di sotto. Faccio un esempio: Barattino produce la pasta, noi possiamo avere delle idee e creare nuove proposte. Il pansoto cacio e pepe è nato da noi, non ha una ricetta, è nato da un viaggio che abbiamo fatto. Abbiamo mangiato questo piatto particolare con dei gamberi crudi e ci ha è piaciuto moltissimo, così l'abbiamo riproposto qui a modo nostro. È un po' quello che dico ai nostri collaboratori: … "tutti copiamo, in effetti nessuno si inventa nulla di nuovo, l'importante è metterci un po' del tuo” … Può funzionare o magari non funzionare ma metterci tanta creatività ed essere disponibili all'invenzione è vincente.

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Intervista Stefano Caccia Corner MOG "J'Aime Les Crêpes"

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Vista la situazione attuale e vista l'impossibilità di fare entrare tanta gente nel nostro locale d'origine (in stradone sant'Agostino) che accoglieva 13 persone e ora, a causa della necessità di distanziamento sociale, solo due, i costi erano diventati insostenibili; sentivamo l'esigenza di continuare ugualmente a soddisfare la nostra clientela. A questo aggiungiamo la nostra crescente volontà di ampliare la clientela, e diversificarla: non sembra ma, nonostante l'esigua distanza tra il nostro locale e il MOG, l'utenza è veramente diversa.

Giuseppe Tarantino

Perché avete scelto di aprire il corner presso il MOG?

Il locale aprì nel 1995, come nasce? E’ sempre stato a gestione famigliare? Mio padre nel 1980 gestiva un bar storico di Genova, il Café de Paris, in Vico Casana. Faceva già crêpes perché mia madre è francese, e suo fratello, mio zio, era crepiere. Gli ha insegnato la tecnica di crêpes e galletes, diverse dalle crêpes perché generalmente farcite con cibo salato e a base di farina di grano saraceno. Nel 1995 apre il nostro locale, interamente dedicato alle crêpes. Stradone Sant'Agostino all'epoca era una zona diversa, meno frequentata e più malfamata, ma la svolta arriva con l'apertura della facoltà di Archittetura, che ne rivoluziona la frequentazione e segna il successo della crêperie. La gestione è sempre stata in capo alla famiglia. Ora gestisco io il locale e spero di poter riaprire a breve, magari con un dehor esterno.

Qualche dettaglio sulla provenienza dei prodotti che utilizzate? Per quanto riguarda le gallettes ci procuriamo la farina di grano saraceno dalla Valtellina, presso il Mulino Tudori, la più buona e biologica e per giunta la più simile a quella della Bretagna. Per quello che riguarda le crêpes facciamo arrivare le uova fresche dal Mulino San Giuliano. Le farciture sono molto variabili, hanno provenienze diverse ma puntiamo sempre al biologico e all'alta qualità!

Isabella Nevoso Photography

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Un prodotto che considerate un cavallo di battaglia del corner? Sicuramente la gallette, perché pochi la fanno nella versione originale, quindi a base di grano saraceno. Inoltre, noi la chiudiamo a fagotto, creando una sorta di cartoccio dove cuociamo direttamente gli ingredienti del ripieno, come le verdure, senza disperderne i sapori. La più venduta è sicuramente la Completa, farcita con prosciutto, formaggio e uovo a fine cottura, con rosso cremoso. Si tratta della versione tradizionale bretone. Per quanto riguarda la crêpe dolce la più venduta è tradizionale: fragole e cioccolato.

Come si inserisce - se si inserisce - la tradizione ligure o genovese nel vostro lavoro? Si inserisce molto nel modus operandi, nell'accoglienza dei clienti. Sfatiamo il mito che i genovesi siano burberi e poco ospitali! Spesso sanno essere amichevoli sin dal primo momento, ed è quello che noi vogliamo comunicare. Utilizziamo anche alcuni prodotti di provenienza genovese, in primis il pesto. Il prodotto in sé, ovviamente, non è genovese, ma io sono nato e cresciuto qui e il mio locale fa parte della storia di Genova, è un pezzo importante di questa città, conosciuto da tutti!

Tre aggettivi per descrivere il MOG. Sicuramente futuristico, centrale, crescente. Noi siamo arrivati ad ottobre 2020 e molto di quello che avremmo voluto fare e di quello che il MOG può essere è stato bloccato dalla pandemia, ma c'è tantissima voglia di fare e questo non è scontato. Io, come tanti altri qui, credo tantissimo nel progetto. Spero, e tanto, di poter assistere, qui, a concerti, film, rappresentazioni. Penso che il MOG goda anche della spinta dettata dal ruolo che hanno anche i mercati all'estero. Combinata al fascino della cultura genovese, basta che ci crediamo tanto e ci impegniamo e i risultati saranno straordinari.

Dario Truffelli Photography

Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista Cinzia Cevasco Corner MOG "La Carne"

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Noi eravamo un banco del mercato orientale già prima che il MOG esistesse; vendevamo carne equina dal 1946. Abbiamo creduto da subito nel progetto e ci tenevamo ad essere presenti sia nella vendita al mercato sia nella cottura e vendita del prodotto finito all'interno del MOG.

Giuseppe Tarantino

Ci racconti un po' della storia del vostro locale.

Da dove vengono le materie prime utilizzate? Noi utilizziamo carne piemontese, proveniente da Cuneo. Utilizziamo anche molta carne locale, la cabannina, originaria di Bargagli, come noi. Abbiamo poi anche qualche carne particolare - prussiana, danese perché spesso ci viene richiesta.

Un prodotto che definireste un cavallo di battaglia? Direi la tartare, parecchio in voga e comoda come street food. Mi sorprende, perché un tempo nessuno voleva la carne cruda. Siamo famosi da sempre per la nostra costata e avendo il barbecue facciamo tanta griglia.

Come si inserisce, se si inserisce, la tradizione ligure/genovese nel vostro lavoro? A livello di prodotto, a parte la cabannina, abbiamo per lo più carni piemontesi, perché comunque la carne non è un prodotto di punta ligure. A pranzo facciamo molta trippa in umido. Faccio Cevasco di cognome, sfido a trovare qualcuno più genovese di me! Però siamo genovesi nel modo di fare, nelle porzioni no!

La gestione del locale è famigliare? Sì, siamo io, mio marito e mio figlio minore che cuoce le bistecche. Abbiamo altri due ragazzi che ormai è come se fossero di famiglia.

Credo che i genovesi se la sognassero una cosa così prima e, detto da un membro storico del mercato, penso conti molto. Nessuno di noi si aspettava che un progetto così ambizioso prendesse campo, ma ci abbiamo lavorato tutti e davvero sodo, ne andiamo fieri. Se fossi al posto del comune, farei fare una statua al presidente, Marco Cambi! Giroinfoto Magazine nr. 66

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Tre aggettivi per descrivere il MOG: fantastico!, in divenire, e come si dice oggi: col botto!


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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista

Daniele Cappadona, Maurizio Fiori, Riccardo Germi Il Bar del MOG, Responsabile di Sala e Vineria

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Daniele Cappadona Sono entrato qui fin da subito, conoscevo già il progetto. Sono stato scelto come responsabile del bar, avendo lavorato come barman anche in un mio locale. Col tempo sono anche diventato vicepresidente del MOG. La considero una realtà particolare, la si deve vivere per capirla. È molto europea ma al tempo stesso teniamo molto all'italianità nei prodotti.

Manuela Albanese

Raccontaci un po' di storia del progetto del Bar.

Se dovessi spiegare a un cliente perché venire qui e non altrove, cosa diresti? Daniele Cappadona Per quanto riguarda l'aperitivo penso che potremmo essere un passo avanti, perché cerchiamo di avere sempre quel qualcosa che altri non hanno, una proposta così ampia che nessuno ha. Il cliente decide cosa mangiare e vive un’esperienza unica. Provate per capire! Riccardo Germi Tengo a sottolineare che abbiamo fatto un percorso importante come squadra. All’inizio eravamo tre persone differenti, con storie diverse, ora stiamo lavorando per diventare una cosa sola. Ci divertiamo a chiamarci Onda Anomala, è stato anche il nostro motto. Quello che abbiamo fatto è un percorso basato sul dialogo, su tentativi di sinergizzare i nostri pregi e bilanciarli per minimizzare i nostri difetti. Daniele è vicedirettore, ma è come se lo fossimo tutti e tre, perché abbiamo lavorato per pensare come una sola hanno, una proposta così ampia che nessuno ha. Daniele Cappadona Siamo partiti da reparti diversi, ma abbiamo creato qualcosa di importante per cui davvero nessuno è sopra nessuno, vinciamo e perdiamo insieme (di questo gruppo fa parte anche Manuel Carbone, de La Pisseria). Sono il più giovane, e so che se oggi sono quello che sono è grazie a loro.

Progetti per il futuro?

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Silvia Barbero Photography

Daniele Cappadona Tutti noi abbiamo avuto un'attività propria, quindi abbiamo una mentalità che ci fa pensare al MOG come fosse nostro, dando il 110%. Quanto il MOG vuole crescere, noi cresciamo. Per il bar ci saranno sicuramente tante novità, perché c'è voglia di dare quel plus ulteriore post pandemia. Vogliamo sottolineare l'unicità della nostra esperienza, in più ci saranno anche novità in termini di birra, ma... Non sveliamo nulla! Posso dire che il MOG ha voglia di crescere e noi siamo pronti a crescere con il MOG.


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Il MOG in tre parole? Daniele Cappadona Innovativo. Per viverlo e per capirlo peraltro non si può vederlo una volta. Non è detto che alla prima si capisca cosa vuole trasmettere, è come per i bei film. Può essere un po' confusionario anche all'inizio, ma poi lo si capisce. Maurizio Fiori Unico… ma anche storico. Incredibile come si sia riusciti a fare qualcosa di così innovativo dentro un posto che appartiene al passato... basta guardare le colonne, le abbiamo lasciate così, sicuramente perché rendono, ma anche perché le Belle Arti non ci permetterebbero di toccarle! Riassume un po' il potenziale di Genova: tradizione e futuro. I mercati sono sempre stati dei fulcri per tutte le città e questo posto rinnova e reinventa questo concetto. Riccardo Germi Affascinante. Ma anche internazionale, non sembra quasi di essere a Genova qui. Mi ricorda quella sensazione che si ha quando si arriva in un aeroporto: ci si sente cittadini del mondo. Provo la stessa sensazione entrando al MOG!

Come per Daniele e il bar, chiediamo anche a Riccardo di raccontarci la sua esperienza con la Vineria. Riccardo Germi Gestisco la Vineria, dove si è voluto creare una sorta di salotto per fare aperitivo, degustare un vino o fare un percorso. Sempre in nome della tradizione con l'innovazione utilizziamo delle macchine che prendono il nome di Wine Emotion, che attraverso l'utilizzo dell'azoto fanno sì che quando le bottiglie vengono aperte non vengano danneggiate dall'ossigeno, mantenendo il vino come appena aperto. Questo ci permette di far scegliere tra 40 etichette diverse e tra vini bianchi e rossi. Nello staff sono tutti sommelier. Io nasco come imprenditore, ho studiato sia da sommelier che da barman e lavoro da trent'anni nel settore. Abbiamo iniziato questo nuovo progetto, dove facendo tanto e avendo tanto in programma anche relativamente alla degustazione: contiamo di far venire qui i vincitori dei Tre Bicchieri - il massimo del riconoscimento da Gambero Rosso per quanto riguarda il vino - e fare assaggiare i vini vincitori. Questo posto ha iniziato in un modo e ora sta cambiando: all’inizio il nostro servizio al cliente era basato sul modello degli altri locali più votati al turismo. Genova ha sicuramente tanti turisti, ma non ne ha tanti quanti le altre città europee che hanno un mercato. Se a questo si aggiunge la pandemia, abbiamo voluto cambiare servizio per conformarci al cliente genovese, che è più fidelizzato e, per questo, richiede una cura e un'attenzione maggiori. Ciò ha dato dei risultati che saranno più evidenti quando finirà la pandemia.

Per concludere con un pensiero sul MOG Daniele Cappadona Un altro aggettivo che lo descrive è camaleontico. Qui puoi vivere la giornata intera, con tutti i suoi pasti, dalla colazione alla cena. Con tutti gli annessi: abbiamo anche fatto un evento/serata discoteca quando ancora si poteva. Poi penso che la sua unicità stia anche nel fatto che, rispetto al modello dei mercati delle grandi città europee, è molto meno dispersivo.

Luca Barberis Photography Poi se guardi nei corner nessuno tocca i soldi, passano attraverso le macchine, altra cosa particolare. L'orario: noi siamo aperti e cuciniamo dalle 10 del mattino a mezzanotte. In questa fascia orario puoi mangiare sempre e non è scontato nemmeno questo. Col tempo, la nostra sinergia ci ha fatto capire cosa dovevamo far capire: volevamo far passare la nostra passione in modo naturale e non dare per scontato il nostro mestiere. Vogliamo che si capisca che dietro al nostro lavoro c'è una formazione, uno studio e un impegno immenso. Qui il cameriere è più importante del barista perché è sia quello che ti accompagna al tavolo, ma anche quello che ti consiglia, perché con la varietà che c'è qui l'abbinamento food and drink diventa immenso. Il cameriere deve saperne abbastanza da darti un consiglio adatto, per lavorare qui infatti devi avere requisiti ben precisi: noi puntiamo tantissimo a questo, ad avere persone che trasmettano la passione per quello che fanno. Maurizio Fiori Ti faccio uno slogan pubblicitario: il MOG è come casa tua, è sentirsi a casa tua. Noi vogliamo trasmettere questo, al personale, al cliente, e cerchiamo di trasmetterlo a te adesso in questo momento. Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista Bruno Beltrame

Corner MOG "l Laboratorio Gastronomico Ligure e Il Laboratorio del Pesce"

La nostra società già esisteva al MOG ed è molto ramificata: gestiamo dei punti ristoro allo stadio Luigi Ferraris, abbiamo un point al teatro Politeama Genovese e un laboratorio che offre anche servizio catering, di cui fanno parte anche i nostri chef e pasticceri. Allo stadio facciamo anche catering per le società calcistiche.

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La domanda iniziale verte sempre sulla storia della vostra realtà.

Inizialmente avevamo solo un corner con il Laboratorio del Pesce, poi si è liberato quello accanto e abbiamo ampliato con il Laboratorio Gastronomico, oggi Laboratorio Ligure. Produciamo tutto artigianalmente e in proprio, inclusa la pasticceria, dove realizziamo anche panettoni. Con noi lavora lo chef e pasticcere Claudio Panetta. Il laboratorio esiste dal 2003, ma io collaboro con lui dal 1997. Il Laboratorio del Pesce è un corner di gastronomia ittica, che lavora pesce, molluschi crostacei, trasformati e valorizzati secondo le ricette tipiche locali della cucina ligure. I nostri chef preparano ogni giorno piatti artigianali, in un connubio di tradizione e innovazione. Il Laboratorio Ligure, come si intuisce dal nome, ha come scopo la valorizzazione dei piatti tradizionali del nostro territorio. Riteniamo che la cucina ligure sia una vera e propria sintesi della cucina mediterranea, come sostenuto da molti esperti del settore.

Il cavallo di battaglia? Sicuramente la frittura, come prevedibile qui a Genova. Però vanno molto anche piatti più particolari che sono nostre specialità: per esempio le tagliatelle al cacao con il ragù di pesce. Non possiamo non menzionare le nostre ultime arrivate, sulla scia della recente moda, che sono le poké di pesce fresco, ottime anche per la delivery.

Con un nome come il vostro risulta quasi una domanda retorica, ma come si inserisce la tradizione ligure/genovese nel vostro lavoro?

D'altronde poche realtà hanno un simile grado di collaborazione tra progetti diversi, che prenderanno ulteriormente campo quando questa situazione cambierà.

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Giuseppe Tarantino Photography

La tradizione genovese, oltre all'ovvia importanza nel prodotto, è anche nel servizio. Concordo con Stefano, essere genovesi non è per forza astio verso l'estraneo, ma anche convivialità, di cui il MOG è diventato portavoce.


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Il MOG in tre parole: una trovata bellissima. Ho visitato tanti mercati anche nelle città all'estero, perché sono convinto che i turisti scoprano le città attraverso il mercato, che in qualche modo racchiude la storia del luogo. Il MOG quindi non è nuovo per l'Europa, ma per Genova sì, anzi, è rivoluzionario. Dato il luogo in cui nasce, il mercato orientale con la sua importanza storica, e data la dimensione, aver creato un luogo così accogliente e così vario per offerta è un'opportunità straordinaria. Difficilmente si trova una varietà così ampia e di qualità così elevata.

Cosa direste per convincere un cliente a venire qui e non da un'altra parte? Un cliente viene qui perché non vuole andare al ristorante. Non per forza deve quindi venire qui, ma solo qui si trova questo tipo di ambiente. Se si vuole andare al ristorante si va al ristorante, al MOG si va perché non si va al ristorante, che da solo non può offrire questa quantità di professionisti e manodopera. Al MOG si può essere in 10 al tavolo e prendere tutti cose completamente diverse e ugualmente buone. Al MOG si viene per essere liberi.

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Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista

Massimiliano Spigno Corner MOG "Gelateria Chicco"

La nostra gelateria nasce nel 1972 da una latteria, già centenaria. I miei genitori la rilevarono trasformandola anche in bar, ma siccome mio padre sin da bambino amava il gelato ha inserito anche questo prodotto. Negli anni ci sono state diverse trasformazioni del locale, che è divenuto un punto di riferimento a Nervi, soprattutto per le coppe al tavolo, la nostra specialità. Negli anni ci siamo ingranditi e siamo divenuti unicamente bar gelateria con il gelato come prodotto di punta. Io ho proseguito l'attività con tre soci: mia moglie e due colleghi fidati.

graphy Dario Truffelli Photo

Come è nata la vostra gelateria?

Poniamo molta attenzione alla presentazione delle coppe, come per esempio nell'intaglio della frutta. Ovviamente questo senza trascurare l'asporto, il classico gelato da passeggio che continuiamo a servire. Produciamo autonomamente nel nostro laboratorio con macchinari di ultima generazione senza però dimenticare la nostra idea di gelato, sempre fatto di materie di prima qualità, fresche e lavorate da noi gelatieri. Oltre a portare l'esperienza ereditata da mio padre, abbiamo voluto studiare per modernizzare quello che la storia ci aveva dato.

Quanto e come si inserisce, se lo fa, la tradizione ligure / genovese nel vostro lavoro? La tradizione del gelato a Genova, storicamente, la si fa risalire al Seicento. Siamo anche punto Panera, produciamo il gelato, o meglio il semifreddo tipico genovese così come deve essere fatto da decalogo. Per il nostro modo di pensare il gelato siamo legati al territorio genovese e ligure: facciamo il gelato al limone e la crema aromatizzata al limone con i limoni di Monterosso, il gelato al canestrello e rivisitiamo anche dolci tipici come il pandolce. Lo facciamo proprio per proporre ai clienti i sapori del territorio in una chiave diversa.

Come siete arrivati al MOG?

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Davide Mele Photography

Siamo arrivati al MOG piuttosto per caso, tramite conoscenti. Ci abbiamo creduto da subito, abbiamo visto subito una potenziale opportunità. Avevamo ragione in quanto si è rivelato un punto di riferimento, e lo rimarrà, nonostante questa battuta d'arresto della pandemia. Avere la possibilità di sedersi "in piazza" e mangiare quello che si vuole è qualcosa che non si trova altrove, qui in Liguria almeno.


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Un gusto che è cavallo di battaglia della gelateria? Ci sono una serie di gusti che vanno, in base anche al formato e al luogo: siamo a 9 km tra MOG e il nostro punto vendita, e le scelte dei gusti cambiano, in base alla tipologia di cliente e a ciò che cerca: lo stesso cliente che a Nervi chiede una cosa, qui ne chiede un'altra. Qui il cliente va più di fretta e anche questo muta le richieste. Noi siamo conosciuti per la nocciola per esempio, per alcuni gusti più da ragazzi, come la biscottella - gelato al biscotto variegato con crema di nocciola e cacao. Però un gusto particolare che si trova solo qui, e di nuovo ci lega alla tradizione, si chiama “fügassa into laete”: è un gelato al cappuccino con dentro pezzetti di focaccia. D'altronde pucciare la focaccia nel caffellatte, da buon genovese, è il massimo!

Una curiosità: quanto impatto ha la stagione invernale sul consumo di gelato? Impatta tanto perché non c'è la mentalità che porta a vedere il gelato come un alimento, si vede come un dolce, freddo e per giunta una sorta di "premio" per occasioni particolari. In realtà dove c'è maggior consumo di gelato pro capite, per assurdo, è nel nord Europa, in paesi quindi freddi. Questo perché il gelato viene visto come un alimento vero e proprio, ci si nutre con il gelato abbinato alla frutta. Qui da noi questo concetto manca, si relega il gelato allo snack, al premietto per i bambini, quando invece, dove ben fatto, è un alimento completo, che include tutti i principi nutritivi, ha in sé grassi buoni. D'altronde con il latte ci siamo cresciuti tutti! Forse piano piano questa cosa sta cambiando, e in questo senso la pandemia ha sdoganato un po' il gelato "fuori stagione" perché si ha avuto bisogno di coccolarsi anche d'inverno. Noi abbiamo fatto asporto autonomamente e la vaschetta ha portato un po' a riscoprire questo prodotto in qualsiasi momento. A Genova poi siamo avvantaggiati dal gelato da passeggio, che quindi un minimo aiutava anche prima nella pandemia nel consumo extra estivo. Per incoraggiare quest’abitudine abbiamo cominciato a produrre semifreddi anche su cono, che sono magari un po' più gradevoli anche con le basse temperature.

Il MOG in tre parole: come lo descrivereste?

Isabella Nevoso Photography

La Piazza del Gusto rende sicuramente l'idea: garantisce un ottimo luogo in cui mangiare mantenendo la convivialità, permette di giocare con diverse opportunità. Ricorda le piazzette dove si stava da giovani, dove si poteva stare a chiacchierare e si avevano le diverse opzioni per mangiare, ma in quel caso più distanti. Qui invece sono tutte intorno e nella piazza. Si tratta infatti di un luogo che forse subisce più di altri la situazione attuale, in un certo senso vive di assembramento che però è fondamentale per il suo fascino.

Se doveste spiegare a un cliente perché venire qui e non da un'altra parte, cosa direste? Perché noi siamo qualità, esperienza e tradizione e soprattutto amore per questo lavoro. Non lasciamo nulla al caso, quando qualcosa non ci convince la eliminiamo e quando qualcosa non è come piace a noi la cambiamo. Investiamo tanto tempo nel cercare di scegliere cosa mettere in banco, lo trasformiamo fino a quando non siamo convinti. Per fare il cioccolato fondente che piace a noi, come lo volevamo intendo, ci abbiamo messo tre anni. Ci sono tante scorciatoie che ci avrebbero permesso di metterci mezz'ora, ma noi le scorciatoie non le prendiamo mai, prendiamo sempre la strada più lunga perché pensiamo sia quella che ci porta in sicurezza a dare al cliente un prodotto di cui essere soddisfatto.

Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista Manuel Carbone Corner MOG "La Pisseria"

Ho iniziato a lavorare come panettiere da mio zio e ho sviluppato da subito una vera e propria passione: facevo corsi, lavoravo in un ristorante la sera. Con il tempo la passione è cresciuta non solo per la panetteria, ma anche per la pizzeria. Ho iniziato così un percorso nelle pizzerie allora più importanti della zona, una di queste era Le Cisterne di Chiavari che aveva la pizza al metro. La mia ultima esperienza lavorativa prima di questa, è stata da Piuma, dove si usano le farine macinate a pietra, biologiche e il lievito naturale.

graphy Dario Truffelli Photo

Raccontaci un po' di storia del tuo progetto!

A Genova ancora non si parlava di pizza gourmet e di queste fermentazioni particolari. A un certo punto vengo a conoscenza di questo progetto, il MOG. Mando il curriculum e inizio a conoscere i gestori. Per la prima volta sento dire che si vuole un punto, una piazza del gusto, dove i genovesi possano trovare la vera bontà. Questo mi ha portato al MOG e anche al Mulino Bongiovanni, per cui attualmente lavoro come consulente. Così è nata La Pisseria, dove non abbiamo solo la pizza classica, ma anche quella a pala, al taglio, la focaccia al formaggio fatta nel testo di rame e secondo una ricetta antica di Recco, e soprattutto la pizza senza glutine, a cui dedichiamo un'attenzione importante, ricercando la farina adatta, gestendo accuratamente la lievitazione da 24 ore, cercando di offrire un prodotto con ingredienti di qualità, mantenendo la filosofia di questo corner. Tengo molto anche alla focaccia genovese, dove usiamo olio extravergine di qualità, farine macinate a pietra e non le classiche doppio zero, a lunga maturazione: non 3 o 4 ore ma anche 24 ore, un lavoro un po' diverso rispetto al solito.

Come mai il nome La Pisseria? Nel dialetto genovese si suol dire pissa e non pizza. Data la storicità del mercato si è pensato di non scrivere pizza come si può trovare ovunque ma in un modo che ricordasse qualcosa di antico, come se avesse sempre fatto parte di questa struttura.

Quanto conta nel tuo lavoro la tradizione ligure/genovese?

Però ci siamo detti: se si è sempre fatto così, non è forse il caso di chiedersi perché si è sempre fatto così e se si può migliorare? Non necessariamente aggiungere qualcosa, migliorare qualcosa contrasta con la tradizione, che è il punto di partenza da cui si può anche guardare al futuro.

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Davide Mele Photography

Come per ogni cosa anche nella panificazione si dibatte spesso su quale sia il modo corretto di realizzare un determinato prodotto. La tradizione è alla base e su questo non si discute, esiste una ricetta per la focaccia, una per la focaccia al formaggio.


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Un prodotto cavallo di battaglia? Un prodotto che sento mio anche quando vado fuori Genova è la focaccia genovese. La pizza è buona, ma la fanno tutti e ad oggi si inventa in mille modi. Se mi chiedono di fargli sentire Genova io porto la focaccia. Poi ci dicono che siamo taccagni perché non c'è niente sopra, che siamo strani perché la mangiamo nel cappuccino. Però alla fine piace a tutti e fa parte della nostra identità. Non mi definisco prettamente pizzaiolo ma baker come va di moda oggi, perché è il mestiere che abbraccia la panificazione in senso lato, sicuramente la focaccia genovese è qualcosa che ci rappresenta, che mi rappresenta. A livello di richieste, oltre alla pizza, viene chiesta la focaccia al formaggio, soprattutto se la clientela è più avanti negli anni e più legata alla tradizione, probabilmente come prova del nove per vedere se la facciamo a dovere. I turisti invece chiedono la pizza, che è sempre un must. Ultimamente ha preso campo la burrata sulla pizza, a Genova abbiamo faticato, si andava molto più spesso su mozzarella e bufala.

Quindi nella tua filosofia c'è proprio una rivoluzione di pensiero sul lievitato? In un certo senso sì. D'altronde sembrava anche impensabile convincere a investire in un prodotto che ovviamente viene a costare di più, e anche aggirare la ormai nota guerra ai carboidrati. Sicuramente non si può negare che una focaccia o una pizza, possano essere alimenti importanti a livello calorico, ma si può scoprire, informandosi, che se si usano determinati ingredienti di qualità il metabolismo lavora in modo diverso. La digeribilità è stata uno dei miei obbiettivi principali: la pizza più digeribile è una pizza più difficile da stendere, ma poco importa, se so che il mio cliente non si alzerà per bere ogni ora la notte. Anche rispetto alla focaccia genovese, molti lamentano bruciori di stomaco dopo averla mangiata: questo può dipendere dalla lievitazione, dagli oli. Tutti dicono che la tradizione vuole la focaccia con lo strutto. Nessuno lo mette in discussione, ma nel 2021 difficilmente andrò a usare lo strutto, perché non si tratta più dello stesso strutto di una volta. Molto meglio un olio buono, sia extravergine che d'oliva, che fa rinascere il prodotto e anche chi lo mangia. Si dice ovunque che i genovesi abbiano la pelle dura: questo è vero ed è anche bello, perché ti mette alla prova: per lungo tempo, i tuoi clienti nel vederti nuovo e fare una cosa diversa, si chiederanno il perché e ti guarderanno con diffidenza. Se resisti, e se li convinci, hai vinto. Perché se poi ti guadagni la loro fiducia, i genovesi tornano, e anche spesso. Sono i clienti più fedeli di altri.

Cosa ne pensi dell'eterno dibattito sulla pizza sottile contro la pizza più alta? Spesso si associa qualsiasi lievitato più alto, anche la focaccia, che io faccio più alta per far sentire la differenza del morso, ad una consistenza stopposa, pesante. Va studiata la reazione chimica che sta dietro un certo lievitato, per realizzare un bordo alto che si scioglie in bocca. E anche lì bisogna convincere il cliente. Forse un po' è questa la differenza tra la vecchia guardia e la nuova.

Isabella Nevoso Photography

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Isabella Nevoso Photography

Progetti per il futuro? Mi piacerebbe che La Pisseria diventasse un punto di riferimento a Genova. Non perché siamo più bravi di altri, ma perché seguiamo una certa filosofia, fatta di purezza, di farine macinate a pietra, di lievito naturale. Agiamo con calma perché sappiamo che qui a Genova le cose diverse vanno inserite così, e sappiamo che le pizze dal sapore più acido tendono a non piacere a primo impatto. Sicuramente il progetto è far vedere che a Genova si può cambiare e cambiare idea, come ovunque, senza dimenticarsi della tradizione. Il mio progetto personale è relativo alla docenza, alla scuola di panificazione, e ciò è legato alla mia crescita personale e professionale: voglio riuscire a sfatare un po' questo falso mito che a Genova siamo vecchi, mentalmente e non. Voglio dimostrare che non è così, che Genova è ricca di giovani, ma soprattutto ricca di persone con la voglia di fare e di saper fare. Voglio far capire che anche a Genova, come ovunque, sappiamo come si fanno le cose. Non sono propriamente progetti, sono vere e proprie filosofie da portare avanti, non hanno un inizio o una fine, hanno una direzione.

Come racconteresti il MOG in tre parole? In tre parole non riuscirei mai! Mi ha stupito trovarmi all'interno di un posto così bello, moderno, nuovo, all'interno di una struttura antica e storica. Questo connubio è bellissimo. Poi adoro la possibilità di scelta, di spaziare dalla pizza fino a un ristorante ricercato ligure; questa è la vera differenza rispetto alle altre strutture, che ci sono tanti piccoli artigiani che lavorano tutti i giorni insieme, e si inventano continuamente qualcosa di nuovo, con prodotti del giorno. Questo è ciò che distingue il MOG, una scelta diversa, fatta dalle persone. Giroinfoto Magazine nr. 66

Davide Mele Photography


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La pizza è un prodotto che, complice anche la pandemia, si realizza tanto in casa. Cosa pensi che spinga a cercare una pizza, magari anche gourmet, fuori, rispetto alla versione home made? Se me ne avessero parlato anche solo due anni fa avrei risposto "perché è più buona". Ad oggi la pandemia ha fatto emergere quelli che vengono detti home bakers, che preparano ottimi prodotti da casa. C'è stato un miglioramento dovuto, oltre alla curiosità che ha spinto ad informarsi, agli acquisti di prodotti e strumenti migliori. Oggi mi ritrovo spesso a dare consigli sulle farine che uso su Instagram. Il mio profilo è cresciuto tantissimo, ma quello che mi ha sorpreso è che evidentemente questo periodo ha risvegliato un vero e genuino interesse per il prodotto. Non mi aspettavo infatti che quelle stesse persone che mi chiedevano consigli per realizzare la pizza a casa poi venissero comunque a provare la mia qui. Come se avessero apprezzato la difficoltà e avessero voluto venire a testare per comprendere. Non c'è concorrenza quindi tra i due filoni, anzi, si autoalimentano. La domanda poi è diventata diversa, e per chi come me ama quello che fa è ancora più bello: oggi è più facile che un cliente mi chieda non tanto una Margherita, ma che mi chieda quanto ha lievitato o che farina c'è dentro. Questo ci dà modo di crescere e dimostra in qualche modo che la filosofia che cerco di promuovere si rafforza: non hanno osservato solo il nostro prodotto, ma anche quello che c'è dietro.

Il lockdown quindi ha anche migliorato la cultura e la coscienza del cibo, e della qualità degli ingredienti? Sicuramente ha fatto tanto anche la parte mediatica, vedi programmi televisivi come MasterChef. Però è stato bello vedere come i ragazzi giovani si siano trovati a reinventare un mestiere antico come quello di fare il pane, e i lievitati in generale, ponendosi delle domande. Questo ha portato, in modo quasi inconscio, involontario, anche a spiegare perché si facciano determinate cose. Ha trasformato un lavoro dietro le quinte fuori, al pubblico, facendo parlare la gente, e al contempo ha rinnovato il tutto. Probabilmente per alcune città era già così da tempo, da noi che accadesse una cosa simile, per come siamo restii ai cambiamenti, non era scontato.

Davide Mele Photography

Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Intervista Stefano Lanini Corner MOG "Bear and Grill"

Abbiamo avuto la fortuna di conoscere il progettista e ci siamo proposti come hamburgeria. Noi di famiglia siamo grossisti di carne, abbiamo colto l'occasione per portare l'esperienza di cinque generazioni ad un prodotto finito da mettere sul mercato come somministrazione. Insieme a mio cognato abbiamo creato questo progetto.

otography Isabella Nevoso Ph

Ci racconti la storia del locale e di come siete arrivati al MOG.

Da dove vengono i prodotti? Noi usiamo carne certificata, angus irlandese per la precisione; siamo importatori quindi abbiamo la possibilità di verificare il prodotto. Gli altri prodotti spesso li acquistiamo direttamente qui al Mercato Orientale, altrimenti arrivano da nostri fornitori di fiducia.

Quale prodotto considerate cavallo di battaglia? Quello che va di più è sempre il Bacon Cheeseburger (bacon, cheddar e salsa BBQ), seguito dal Valdostano (crema di fontina, funghi trifolati e prosciutto cotto affumicato) e il Tartufoso (crema di tartufo, prosciutto cotto al tartufo).

Come, e se, si inserisce la tradizione ligure/genovese nel vostro lavoro? Abbiamo portato la tradizione ligure/genovese soprattutto in un panino, il zeneize: ha salsa base con pesto e prescinseua con insalata, fagiolini e patate, nella tradizione del pesto avvantaggiato.

Il MOG in tre parole? Il MOG è un luogo unico, affascinante, è usando le parole di mia figlia di 7 anni: “è proprio figo papi!” Un posto dove posso portare le mie figlie con gli amici, i miei amici, accontentare tutti. Non ci lavoro soltanto, ma penso sia anche un luogo di aggregazione. Questo rafforza la sua valenza commerciale: se un luogo diventa aggregativo viene naturale cercare la consumazione lì e non altrove.

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Silvia Barbero Photography

La location è unica: è al centro della città, nella via più importante. Se ci fosse una maggior sinergia, maggiori investimenti, da parte del Comune, potrebbe diventare un nodo focale anche turistico. Genova, l'Italia intera, vivono di un turismo che sicuramente è arte, ma passa anche attraverso il cibo. Potrebbe essere un'occasione di ulteriore sviluppo, ma servono la forza e l'energia di tanti soggetti, non soltanto del MOG.


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Ringraziare chi ci ha dedicato il suo tempo, ci ha raccontato la sua storia, in un momento così difficile a maggior ragione, è riduttivo. Così come è difficile spiegare quanta responsabilità ci siamo sentiti addosso nella stesura di questo articolo: non solo è un periodo drammatico per tutti e per i ristoratori in primis, ma a farci sentire l'importanza di quello che stavamo facendo sono state proprio le loro storie. Fatte di un racconto che si può riportare per iscritto, ma di emozioni che invece passano da un cuore all'altro. La passione, la cura per il particolare, il coraggio, l'impegno, la forza, a volte anche la rabbia. Sono solo alcune delle emozioni che abbiamo colto in ciascuna delle persone facenti parte di questa grande famiglia che è il MOG e che speriamo di trasmettere attraverso queste interviste. Perché ve lo possiamo garantire: non c'è mascherina che possa nasconderle! Monica Gotta Photography

RINGRAZIAMENTI

Marco Cambi - Presidente MOG Ilaria Pedullà - Referente MOG Corner Ivano Ricchebono - Ostaia de Zena Francesca Finiguerra - Lo Scolapasta Stefano Caccia - Jaime Les Crepes Cinzia Cevasco - La Carne

Daniele Cappadona - Il Bar del MOG Maurizio Fiori - Caposala Riccardo Germi - Vineria Bruno Beltrame - Il Laboratorio Gastronomico Ligure e Il Lab. Pesce Massimiliano Spigno - Gelateria Chicco Manuel Carbone - La Pisseria Stefano Lanini - Bear and Grill Giroinfoto Magazine nr. 66


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PARALOUP

Il borgo che ha fatto la storia...

A cura di Barbara Lamboley

Adriana Oberto Barbara Lamboley Cinzia Carchedi Giancarlo Nitti Giuliano Guerrisi Lorena Durante Monica Pastore Giroinfoto Magazine nr. 66

Giancarlo Nittii Photography


| PARALOUP R E PROERPTOARGTEA G| E TORI DI TORINO

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Adriana Oberto Photography

Gli anziani la chiamano “Paralouf” (da “luv” che vuol dire lupo in piemontese), anche se, in realtà, si scrive “Paraloup” ma il significato è sempre lo stesso: “Al riparo dai lupi”. Paraloup è una piccola borgata tipica delle valli del cuneese; si trova in Valle Stura, a 1400 mt di altezza ed è la frazione più alta del comune di Rittana. Nel cuneese la conoscono tutti, non solo per la sua bellezza ritrovata ma, soprattutto, per la sua storia. Perché non si può non parlare di storia quando si va a Paraloup: storia passata e storia recente. Sì, Paraloup è un piccolo miracolo della storia italiana e poterla “rivivere” oggi è un grande onore e privilegio.

Borgata Paraloup

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PARALOUP

Ma partiamo dal principio… Ritorniamo agli anni in cui Paraloup era semplicemente un maggengo, vale a dire un luogo quieto dove si risiedeva da maggio a settembre, mentre si portavano le mucche al pascolo estivo. La vita nelle valli non era semplice e se nascevi in quei luoghi, il tuo destino era già segnato. La popolazione era composta per lo più da contadini. Ogni famiglia aveva almeno una mucca, anche perché, senza, non sopravvivevi. Mangiare tre pasti a giorno era lusso e, a volte, ti dovevi accontentare di quel poco che offriva la terra: grano per fare la farina e patate o legumi… All’epoca, i padri di famiglia speravano nella nascita di maschi per poter usufruire di una mano d’opera efficiente e produttiva nello svolgere i lavori più pesanti.

Barbara Lamboley Photography

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Anche le femmine davano una mano: a sei o sette anni, se non si avevano abbastanza soldi, le bambine venivano mandate a fare le serve in famiglie più agiate; la maggior parte veniva mandata a far pascolare le mucche o a lavorare nei campi. Era l’unico modo per garantire un pasto a chi non poteva sfamare una famiglia numerosa. Si dormiva nei fienili, in mezzo alle pulci ma almeno, tra il fieno ed i cani, si stava al caldo e, durante l’inverno, faceva comodo. La vita nelle borgate era dura ma la sera, quando era ora di ritrovarsi per fare due chiacchiere prima di rincasare, l’aria che si respirava trasudava felicità. Tutto cambiò quando, a settembre del ’39, scoppiò la Seconda guerra mondiale.


| PARALOUP R E PROERPTOARGTEA G| E TORI DI TORINO

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Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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PARALOUP

L’inizio della grande guerra fu traumatico per tutti. Le montagne si svuotarono degli uomini che venivano chiamati per andare al fronte; la maggior parte dei cuneesi furono mandati a combattere in Russia. Le donne rimasero sole, con bambini e anziani, e la vita si fece sempre più dura. Le donne furono costrette ad assumersi il ruolo e la funzione di capofamiglia. Molti degli uomini mandati al fronte non tornarono più.

“Dispersi” si diceva... La parola in sé lasciava un barlume di speranza alle famiglie che, non avendo la certezza fossero morti, sperava potessero tornare un giorno, ma la realtà era ben diversa… Furono in tanti a cadere e furono in pochi a tornare e quelli che tornarono non erano più gli stessi di prima. L’orrore della guerra cambia gli uomini.

Monica Pastore Photography

Tra i sopravvissuti alla ritirata di Russia, un nome sopra tutti si collegherà alla borgata Paraloup ed è quello di Benvenuto Revelli detto Nuto, classe 1919. Nuto Revelli, partito volontario un anno prima, tornò provato e ferito dalla Russia e, dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, capì subito che stava per iniziare un’altra guerra: la sua guerra. Bisognava fare qualcosa, bisognava fermare i rastrellamenti dei tedeschi, bisognava lottare contro la follia degli uomini, e così, alcuni giorni dopo, partì di notte, alla ricerca di chi, come lui, avrebbe lottato per salvaguardare la dignità del paese.

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Dopo una prima collaborazione con un gruppo di partigiani di pianura, nel febbraio del 1944, decise di entrare a far parte di uno dei gruppi di “Giustizia e libertà”: la banda “Italia Libera” di Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Giorgio Bocca con sede a Paraloup. Paraloup era stata scelta dai fondatori della Banda (come la chiamavano tutti) per questioni logistico-strategiche. La sua posizione offriva il riparo giusto e le 12 baite potevano accogliere un discreto numero di persone. Ogni baita aveva la sua funzione.


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Barbara Lamboley Photography

L’organizzazione era essenziale e la vita da partigiani non era affatto semplice. A Paraloup l’inverno era lungo e la neve fittissima. Le baite non erano riscaldate e ci si doveva adattare alle condizioni di vita ostili. Oltre 200 giovani passarono a Paraloup per entrare a far parte del movimento e per ricevere formazione politica e militare. Gli abitanti della Valle diedero un aiuto fondamentale nell’organizzazione della vita quotidiana della banda; c’è addirittura chi, come la padrona dell’osteria di Rittana, accettò di accogliere e nascondere Duccio Galimberti ferito in seguito ad una battaglia.

Tutti davano una mano ed erano orgogliosi di farlo anche se si sapeva che la posta in gioco era altissima e le rappresaglie in agguato. Un anno passò tra le tante vicissitudini che può comportare la lotta partigiana e, con immenso sollievo, a settembre del 1945, la guerra terminò. Nel dopoguerra, la gente cominciò ad emigrare verso le città sempre più industrializzate per cercare lavoro e Paraloup perse la sua funzione di pascolo estivo. Erano gli anni ’60.

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Giuliano Guerrisi Photography Dagli anni ’60 ai giorni nostri, Paraloup diventa luogo di pellegrinaggio per chi come Nuto Revelli, ha trascorso un anno lassù, a combattere per l’Italia. È un luogo pieno di memoria e vederlo scomparire non fa che accrescere il senso di vuoto che ha lasciato la desertificazione delle montagne oltreché la scomparsa dei suoi abitanti più anziani. È come cancellare una fetta importantissima della storia del nostro Paese. Così, nel 2006, a due anni dalla scomparsa dell’ormai grande scrittore e storico, nasce la Fondazione Nuto Revelli Onlus (a cui fa capo Beatrice Verri); la fondazione nasce dall’esigenza della famiglia e degli amici di non dimenticare, con la speranza di poter trasmettere alle nuove generazioni i valori a cui teneva Nuto che non erano soltanto legati alla lotta partigiana ma anche alle condizioni di vita contadina nelle valli cuneesi prima della guerra. Nel 2007, la fondazione decide di comprare gli immobili ormai lasciati all’abbandono da quasi 50 anni.

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Il progetto è grandioso: si vuole ripristinare l’anima delle baite attraverso un recupero architettonico innovativo e sostenibile seguendo la Carta Internazionale del Restauro. L’intento principale è quello di tornare a creare un tessuto sociale e produttivo attraverso attività turistiche-ricettiveculturali e, in futuro, addirittura ritornare alla funzione di pascolo con annessa produzione di prodotti caseari. Gli architetti che hanno lavorato al progetto di restauro della borgata sono Daniele Regis, Valeria Cottino, Dario Castellino e Giovanni Barberis. La scelta dei materiali da usare è stata fatta seguendo i principi del km zero: il legno di castagno che è stato usato per rivestire le baite è quello del posto. Il modo in cui “operare” è stato pensato sulla base di un intervento non invasivo. L’anima delle baite deve rimanere e si deve vedere.


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Monica Pastore Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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La nuova Paraloup è stata suddivisa in tre lotti. Il primo lotto ad uso culturale contiene il Museo dei Racconti e ripercorre la storia locale divisa in 4 stagioni: fine dell’Ottocento con le migrazioni alpine; il periodo della lotta di liberazione dal nazifascismo; l’epoca dello spopolamento delle Alpi e il ritorno alla vita in montagna. Al museo si aggiunge una sala polivalente per workshop, mostre e seminari e infine l’anfiteatro naturale all’aperto per rappresentazioni teatrali e concerti.

Lorena Durante Photography

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Il secondo lotto è dedicato all’accoglienza e comprende un bar-ristorante, una cucina in comune e baite per l’ospitalità di turisti e visitatori che possono alloggiare fino a 30 persone. Il terzo lotto prevede l’insediamento di attività agro-silvopastorali al fine di permettere a piccoli imprenditori agricoli locali di coltivare terreni e riportare specie come la pecora sambucana a pascolare nel loro ambiente naturale originale.


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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


56 Il progetto di recupero di Paraloup ha ottenuto una serie importante di riconoscimenti fra cui il premio “Konstruktiv” del principato del Liechtenstein per le costruzioni e ristrutturazioni sostenibili. Dal 2010, conclusione dei lavori del primo lotto, Paraloup è stata sede di incontri ed eventi culturali quali l’estate di Paraloup, con l’organizzazione di laboratori, mostre, seminari. Paraloup è un grande esempio di rinascita e deve servire ad incentivare la valorizzazione di tanti altri luoghi che hanno rappresentato la storia del nostro Paese e che sono ora dimenticati da tutti. Si spera che sia un forte messaggio di speranza per le nuove generazioni e che il lavoro fatto dai nostri antenati non svanisca nel nulla. Il concetto chiave riportato nella presentazione della Fondazione Nuto Revelli racchiude l’essenza della storia di Paraloup: “Il ricordo e la memoria sono strumenti di giustizia: la nostra idea di cultura è potentemente attiva e trasformativa. La tutela e la valorizzazione del patrimonio e la trasmissione della memoria devono andare nella direzione del well-being per produrre innovazione sociale e impatto su comunità e territori in modo sostenibile. Con il recupero e la rinascita di Paraloup e, oggi, con la sua trasformazione in nuovo centro culturale abbiamo visto un sogno diventare realtà. Non intendiamo fermarci".

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Cinzia Carchedi Photography

“Volevo che i giovani

sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza come eravamo cresciuti noi della generazione del Littorio. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. Senza libertà non si vive, si vegeta

(Nuto Revelli – dal discorso per la Laurea honoris causa, 1999)

Si ringrazia il referente del rifugio Paraloup, nonché cultural manager, Alessandro Ottenga, che ci ha gentilmente accolto in Borgata, raccontandoci con sincero entusiasmo la storia e le prospettive del luogo. Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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MUNICIPIO DI PALERMO

I QUATTRO CANTI DI CITTÀ E PALAZZO DELLE AQUILE

A cura di Rita Russo e Stefano Zec

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Il Centro Storico di Palermo, esteso circa 240 ettari, è uno tra i più grandi d’Europa e tra i più ricchi ed articolati dal punto di vista artistico e culturale. Esso custodisce, infatti, al suo interno la testimonianza di tutte le dominazioni che si sono avvicendate durante la sua millenaria storia, iniziando dall’epoca fenicia per arrivare fino ai primi ‘900, passando da quella romana, bizantina, araba, normanna, sveva, angioina, aragonese e spagnola. Esso è racchiuso all’interno di un quadrilatero di vie che coincidono in parte con le vecchie mura cittadine di cui oggi restano solo alcune tracce e dal punto di vista amministrativo rappresenta la prima e più antica circoscrizione della città. I due assi viari principali che lo attraversano, la via Maqueda ed il Cassaro (oggi Corso Vittorio Emanuele, antica via di origine fenicia, che collegava l'acropoli e il Palazzo Reale al mare), perfettamente ortogonali tra loro, in epoca spagnola, divisero la città in quattro mandamenti (quartieri storici), ossia delle vere e proprie comunità, ognuna con abitudini e commerci propri, che presero il nome dall’edificio più insigne ricadente al loro interno insieme a quello della Santa Protettrice di ogni mandamento, fino al 1624 anno in cui Santa Rosalia divenne la patrona dell’intera città. Essi sono: Palazzo Reale - Santa Cristina; Tribunali - Sant’Agata; Castellammare - Sant’Oliva e Monte di Pietà - Santa Ninfa.

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Rita Russo Photography

propriamente detti, su ognuno dei quali gli elementi di decoro sono rappresentativi di ogni mandamento.

I QUATTRO CANTI DI CITTÀ E PALAZZO DELLE AQUILE Il punto di confluenza tra i due antichi assi viari dà origine ad una piccola piazza, chiamata Piazza Vigliena (in omaggio al Viceré il cui nome completo era marchese don Juan Fernandez Pacheco de Villena y Ascalon) ma conosciuta dai più come i Quattro Canti di Città. Questa piazzetta, nota anche come Teatro del Sole, perché dall’alba al tramonto e durante tutto l’anno una quinta architettonica è sempre illuminata dall’astro, oggi costituisce, dunque, il cuore del Centro Storico della città ed è quindi un importante punto di riferimento per chi intende visitare Palermo. A questa piazza nel ‘700 fu attribuito anche il nome di Teatro della Città in quanto qui si svolgevano i principali avvenimenti, come le feste e le esecuzioni capitali. Questa piazza, che è caratterizzata da una architettura molto semplice, forma un perfetto ottagono, i cui lati sono costituiti da quattro edifici alternati agli assi viari. In particolare, le quattro facciate prospicienti la piazza con i loro apparati decorativi costituiscono i Quattro Canti

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Le decorazioni dei Quattro Canti si articolano su più livelli e si susseguono, dal basso verso l’alto, secondo un principio di ascensione che porta lo sguardo del visitatore a passare dal mondo della natura a quello della santità del cielo. Infatti, la prima cosa che colpisce il passante è costituita dalle quattro fontane che, poste a livello della strada, rappresentano gli altrettanti corsi d’acqua che originariamente attraversavano Palermo: il Papireto, il Kemonia, l’Oreto ed il Pannaria. Immediatamente sopra le fontane, racchiuse tra colonne in stile dorico, si osservano le figure allegoriche delle quattro stagioni rappresentate da Eolo, Venere, Cerere e Bacco. L’ordine successivo, in stile ionico, ospita le statue dei re spagnoli Carlo V, Filippo II, Filippo III e Filippo IV. Infine, sull’ultimo ordine, si possono osservare le statue delle quattro sante palermitane Agata, Ninfa, Oliva e Cristina. In particolare, seguendo i punti cardinali, la divisione delle statue sulle facciate è la seguente: a Nord (mandamento Castellammare) troviamo, dal basso verso l’alto, l’autunno rappresentato da Bacco, Filippo IV e Santa Oliva;


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NORD Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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OVEST - Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 66

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ad Est (mandamento Tribunali), si osservano l’inverno rappresentato da Eolo, Filippo III e Sant’Agata; a Sud (mandamento Palazzo Reale) si osservano la primavera rappresentata da Venere, Carlo V e Santa Cristina ed infine, ad Ovest (mandamento Monte di Pietà) troviamo l’Estate rappresentata da Cerere, Filippo II e Santa Ninfa. Quattro stemmi reali in marmo bianco ornano, infine, la parte sommitale di ogni facciata.

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In particolare, la facciata meridionale, che appartiene al quartiere Palazzo Reale, fa parte della chiesa di San Giuseppe dei Teatini che, simmetricamente, possiede anche un “Quinto Canto” che si affaccia su Corso Vittorio Emanuele. Su questa facciata si possono osservare le statue di Sant’Elia, San Giuseppe e San Gaetano Thiene, insieme allo stemma della corporazione dei falegnami, nel quale è raffigurata l’ascia incoronata.

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I QUATTRO CANTI DI CITTÀ E PALAZZO DELLE AQUILE La sistemazione urbanistica della piazza, sotto il vice-regno dei Castro, fu progettata dall’architetto fiorentino Giulio Lasso, che si ispirò al crocevia delle Quattro Fontane di Roma e fu completata, dopo la sua morte, da Mariano Smeriglio, architetto del Senato palermitano. I lavori di realizzazione dei cantoni, iniziati nel 1609, durarono fin oltre il 1620. Nel 1630 furono appaltati i lavori per la realizzazione delle fontane; mentre le statue, originariamente previste in bronzo, furono realizzate in marmo dallo scultore Carlo D’Aprile, tra il 1661 ed il 1663. Lasciati i Quattro Canti di città, proseguendo su Via Maqueda in direzione della Stazione, immediatamente a sinistra e rialzata rispetto al piano stradale da una scalinata, troviamo Piazza Pretoria dominata dalla magnifica omonima fontana -

conosciuta più comunemente come Fontana delle Vergogne a causa della prevalente nudità delle statue che la compongono (Giroinfoto n.62) - circondata dal quattrocentesco Palazzo Pretorio (oggi Palazzo di Città o Palazzo delle Aquile), dal fianco della Chiesa di Santa Caterina, da Palazzo Gugino - Chiaramonte Bordonaro e dal Palazzo Gastone, entrambi del XVIII secolo. Tra i palazzi prospicienti la piazza, quello Pretorio è l’unico visitabile tutti i giorni della settimana, a meno di impegni istituzionali. Palazzo delle Aquile, che è uno degli edifici amministrativi principali della città e attuale sede del Comune di Palermo, risale alla fine del ‘300 e racchiude al suo interno numerosi stili architettonici frutto delle varie trasformazioni urbanistiche che modificarono il volto della città nel tempo.

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Edificato nell’attuale sede, in epoca aragonese, per volontà del sovrano Federico II d’Aragona nel XIV secolo, il palazzo fu interamente ricostruito tra gli anni 1463 e 1478 per volontà del pretore Pietro Speciale, sotto la guida di Giacomo Benfante. Originariamente realizzato a pianta quadra e con un ingresso su ogni facciata (il principale si affacciava sul piano della Chiesa di San Cataldo oggi Piazza Bellini), esso fu la sede del Senato cittadino che guidato dal Pretore (da cui il nome di Palazzo Pretorio), aveva il compito di Amministrare la città.

della risistemazione della piazza e dell’installazione della celebre fontana. Il Palazzo Pretorio, insieme a quest'ultima e ai fastosi edifici sorti nel frattempo, erano la perfetta sintesi della potenza e dello splendore del regno.

In epoca spagnola, nel corso del ‘500 e del ‘600, si susseguirono numerose trasformazioni dell’edificio, tra le quali, oltre all’ampliamento anche il rifacimento del prospetto che comportò lo spostamento dell’ingresso principale dalla facciata meridionale sul Piano di San Cataldo a quella settentrionale (l’attuale ingresso), lavori che furono realizzati in concomitanza

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In particolare, nei primi anni del ‘600 l’edificio fu ristrutturato dall’architetto Mariano Smiriglio (che nel frattempo terminava i lavori dei Quattro Canti) e nel 1661, sul cornicione del palazzo sopra l’ingresso principale, fu collocata la statua della nuova ed unica Patrona della città, Santa Rosalia, ad opera dello scultore Carlo D’Aprile, che realizzò anche tutte le statue dei vicini Quattro Canti.


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L’intero complesso monumentale fu ampliato, successivamente, dopo il forte terremoto del 05 marzo 1823, che causò numerosi danni agli edifici della città. L’attuale struttura del palazzo si deve al definitivo restauro realizzato, nel 1875, dall’Architetto Giuseppe Damiani Almeyda che occultando in parte l’originaria architettura, ristrutturò quest’ultimo reinterpretandolo in stile neoclassico. Durante questo intervento furono eliminate, infatti, alcune parti barocche e la facciata fu rivestita con un bugnato color ocra, visibile tutt’ora. A partire dal 1861, fino ad oggi, l’edificio rappresenta il centro amministrativo della città ed è, dunque, la sede istituzionale del Sindaco, della Giunta e del Consiglio Comunale, ai quali sono destinate le più belle sale del palazzo: la Sala Rossa, la Sala Gialla e la Sala delle Lapidi. Nel complesso l’edificio presenta una pianta rettangolare con un cortile centrale, i cui quattro prospetti sono orientati secondo i punti cardinali. L'edificio è costituito da tre livelli sopra il pianterreno, ognuno dei quali è dotato di finestre, eccetto il secondo che ospita il piano nobile del palazzo ed è dotato di balconi con balaustre, colonnine e piccole teste di leone scolpite sotto le mensole. Su tale prospetto si possono osservare numerose iscrizioni che insieme a medaglioni marmorei commemorano date significative per la storia della città, come quella della visita di Garibaldi e di Papa Giovanni Paolo II. Sopra il portale d’ingresso principale su Piazza Pretoria, rivolto a Nord, risalta il bassorilievo di un’aquila, simbolo della città. Altre aquile, oltre quest’ultima, ornano ed arricchiscono gli angoli sommitali dell’edificio che per questo prende anche il nome di Palazzo delle Aquile.

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I QUATTRO CANTI DI CITTÀ E PALAZZO DELLE AQUILE In una nicchia centrale in cima alla facciata è posta la statua di Santa Rosalia sotto la quale si trova uno splendido orologio da torre che, fatto giungere da Parigi nel 1864, fu racchiuso dal Damiani dentro una cornice rettangolare di pietra sulla quale sono scolpiti due grifoni. L’orologio, fermo dagli anni ’80, è stato rimesso in funzione nel 2014. Una volta varcato il portone d’ingresso, dopo la portineria, alcuni gradini ci conducono verso un maestoso cortile cui si accede attraversando un ricco portale in stile barocco con colonne tortili del 1691, disegnato dall’architetto Paolo Amato. L’ampio cortile, dotato di portici, custodisce numerosi affreschi, epigrafi e statue tra le quali quella del grande poeta dialettale palermitano Giovanni Meli, datata 1888 e posta in corrispondenza della parete orientale dell’atrio.

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I QUATTRO CANTI DI CITTÀ E PALAZZO DELLE AQUILE Questo cortile, una volta a cielo aperto, fu in seguito coperto da una cupola in ferro battuto e vetro, che ha permesso di recuperare ed utilizzare interamente lo spazio interno e consentire anche l’esposizione delle opere che vi sono presenti. L’atrio è collegato al piano nobile da un’imponente scalinata composta da tre rampe. A sinistra della prima è collocato un importante complesso scultoreo raffigurante, nella parte sommitale, il Genio di Palermo. La statua del genio venne trovata nel 1596 nelle cantine del Palazzo e fu collocata sullo scalone dall’allora Pretore Francesco del Bosco, Conte di Vicari. Il gruppo scultoreo, alto complessivamente 2,60 metri, è composto da pezzi di diversa provenienza e fu assemblato alla fine del XVI secolo, probabilmente dopo il ritrovamento della statua ed in concomitanza con i lavori di ristrutturazione dell’edificio. Le sculture furono realizzate da Domenico Gagini e da Gabriele di Battista.

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Il complesso suddetto è formato da un basamento a forma di parallelepipedo rettangolo, realizzato in marmo grigio di Billiemi, al centro del quale si erge una colonna tronca in porfido rosso. Su quest’ultima poggia un grosso capitello scolpito, in marmo di Carrara e a forma di bulbo, che reca in alto un’iscrizione funeraria ed in basso dei medaglioni che ne illustrano il testo. Questa stele termina alla sommità con una conca sulla quale poggia la piccola statua del Genio e sul bordo di essa è incisa la seguente frase latina: Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit (Palermo conca d’oro divora i suoi e nutre gli stranieri). Sul basamento, ai lati della colonna, sono presenti, inoltre, due paggi in marmo di Carrara, ognuno dei quali tiene in mano uno scudo. In particolare, sullo scudo di sinistra è raffigurato lo stemma di Palermo con il suo simbolo, l’aquila. Sull’altro, le armi di Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, principe di Castelbuono, presidente del regno.


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Stefano Zec Photography Il Genio (raffigurato in numerose opere, tra statue dipinti e mosaici, ubicate in vari luoghi del centro storico) è rappresentato da un uomo maturo dalla barba divisa, coronato, con un serpente in braccio che si nutre dal suo petto. Le origini e la simbologia di questa divinità protettrice sono incerte. Secondo un’interpretazione risalente al XVII secolo, l’uomo barbuto rappresenta Palermo, mentre il serpente è Scipione l’Africano aiutato dai palermitani nella guerra contro i cartaginesi di Annibale. Per gratitudine Scipione avrebbe donato alla città una conca d’oro (ossia la pianura sulla quale sorge Palermo). La frase incisa sul bordo della conca dove poggia la statua, nella quale è chiaro il riferimento alla pianura della città, lascia supporre un’eventuale discendenza del Genio da Saturno o Crono, divinità del tempo e dell’agricoltura. La simbologia del serpente è versatile e per questo potrebbe avere più di un significato. Esso, infatti, tradizionalmente associato alla fertilità, alla rinascita ed al rinnovamento è anche simbolo di prudenza e portatore di conoscenza associata alla forza fisica. Una curiosità: il riferimento al Genio è contenuto nella frase “Viva Palermo e Santa Rosalia” declamata dal sindaco durante Giroinfoto Magazine nr. 66

i festeggiamenti della patrona della città, dal momento che il Genio che porta il nome di Palermo, oltre ad essere la personificazione di quest’ultima ed il simbolo dei suoi abitanti, ne è il nume tutelare. La frase, dunque, è un inno ad entrambi i tutori della città, il primo pagano e la seconda, la “Santuzza” come viene affettuosamente chiamata dai palermitani, cristiana. Salendo le altre due rampe dello scalone monumentale per raggiungere il piano nobile, è impossibile non essere attratti dall’imponente epigrafe monumentale commemorativa dell’incoronazione di Vittorio Amedeo II di Savoia e Anna Maria d'Orleans, del 1713, che occupa gran parte della parete tra la seconda e la terza rampa. Al piano nobile si trovano sette eleganti saloni di rappresentanza ed una piccola cappella dedicata a Santa Rosalia, oltre ad un gran numero di preziose opere d’arte di ogni tipo ed epoca. La prima sala, che in realtà è un’anticamera, è la Sala dei Bassorilievi, cosi chiamata per la presenza tra le altre dell’opera marmorea dello scultore palermitano Valerio Villareale, del 1819, raffigurante la Sicilia incoronata da Minerva e Cerere, che riempie un’intera parete.


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Nella sala successiva, Sala degli stemmi o dei Gonfaloni, è possibile osservare, dipinti sulla volta, gli emblemi delle principali città siciliane realizzati nel 1922 dal pittore palermitano Salvatore Gregoretti, insieme ad altri arredi di pregio.

Le prime targhe furono collocate nella sala nel 1875 dal gesuita e storico dell'arte Gioacchino Di Marzo. Il soffitto ligneo è finemente decorato e risale al XIV secolo e da esso scende un imponente e prezioso lampadario di legno intagliato.

Da questa sala si accede all’imponente Sala delle Lapidi, già Sala del Pubblico Consiglio o Sala Maggiore, deputata alle riunioni del Consiglio Comunale. Il suo nome è legato alla presenza delle 66 iscrizioni marmoree commemorative applicate alle pareti, tra le quali la prima risale al 1591, mentre l’ultima al 1 maggio del 2013, affissa in onore di Piersanti Mattarella.

Nella successiva sala, la Sala Montalbo, oltre al bellissimo bassorilievo in bronzo realizzato nel 1876 dallo scultore palermitano Benedetto Civiletti, che raffigura Federico III D’Aragona nell’atto di porre la prima pietra del Palazzo Pretorio, si può ammirare il dipinto ad olio raffigurante l’Interno della chiesa di San Domenico e sette busti marmorei di Sindaci, scolpiti dallo stesso Civiletti.

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I QUATTRO CANTI DI CITTÀ E PALAZZO DELLE AQUILE La successiva è la Sala Antinoo, dal nome di una delle statue che essa ospitava e che oggi è custodita nella Sala Rossa. Anche in questa sala numerose sono le opere presenti, tra le quali i busti in marmo raffiguranti Francesco Crispi e Mariano Stabile, insieme a dipinti realizzati dalla scuola siciliana. Da questa sala si accede alla Cappella di Santa Rosalia, altrimenti nota come Cappella Senatoria, in stile barocco nella quale, sopra l’altare, è possibile ammirare la settecentesca tela raffigurante l’Immacolata Concezione, a fianco della quale si notano le statue di Sant’Agata raffigurata con gli strumenti del martirio e quella di San Sebastiano. In una nicchia alla sommità della tela, si trova, infine, la statua della Santuzza realizzata dallo scultore Cosmo Sorgi.

SALA GARIBALDI - Stefano Zec Photography

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Dalla sala Antinoo si accede anche alla Sala Garibaldi, dal balcone della quale, il 30 maggio 1860, l’eroe parlò ad una nutrita folla di palermitani. Lungo le pareti si possono leggere stralci dei discorsi di Garibaldi incise su lapidi marmoree, insieme ad un ritratto di quest’ultimo realizzato dal pittore palermitano Salvatore Lo Forte. Altre opere di notevole pregio arricchiscono questa sala, come il busto in bronzo di Francesco Crispi realizzato dallo scultore Mario Rutelli nel 1893 e una collezione di vasi cinesi, arazzi ed armi cesellate donate da Napoleone Buonaparte all’ammiraglio Federico Carlo Gravina.


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CAPPELLA SANTA ROSALIA Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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La Sala Gialla, già Sala del Senato, è oggi destinata alle riunioni della Giunta Comunale. Essa prende il nome dal colore oro del broccato che ricopre le sue pareti e su uno dei suoi lati fa mostra di se un monumentale camino realizzato in gesso dallo scultore palermitano Vincenzo Ragusa, nel 1868. Nella stessa sala si possono ammirare anche i ritratti raffiguranti i reali Umberto I e Margherita di Savoia, realizzati da Gustavo Mancinelli in occasione dell’Esposizione Nazionale cittadina del 1891-1892, alla cui cerimonia di inaugurazione i reali furono presenti. La Sala Rossa, attuale studio del Sindaco, realizzata da Giuseppe Damiani Almeyda, è chiamata così per il colore rosso acceso dei suoi arredi. Questa sala è riccamente decorata da affreschi di Francesco Padovani e Gustavo Mancinelli che ornano i sopraporta, oltre a busti e statue ed imponenti lampadari di Murano. Al di sotto del palazzo e della piazza antistante, infine, si trova un bunker antiaereo, costruito nel periodo pre-bellico e utilizzato durante il secondo conflitto mondiale, la cui esistenza è poco nota.

SALA ROSSA Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 66

Il rifugio era provvisto di un impianto autonomo di illuminazione, di canne di ventilazione atte a consentire il ricambio d’aria necessario alla sopravvivenza e del bagno e poteva contenere fino a 200 persone. Era dotato, inoltre, di tre accessi su Piazza Pretoria ed un’altro all’interno della portineria di Palazzo delle Aquile, che è rimasto l’unico dal quale si può, ancora oggi, accedere al rifugio. Tra tutti i rifugi antiaerei costruiti in città questo resta l’unico visitabile grazie al lavoro dell’associazione culturale Ro'N Ro Cult e di volontari che in alcuni periodi dell’anno organizzano visite guidate al suo interno. E’ grazie alla sensibilità di molte associazioni culturali se la città di Palermo assume sempre più l’aspetto di un museo diffuso, nel quale tutte le attività che mirano alla riscoperta ed al ripristino di molti beni favoriscono la creazione di un sistema integrato per la piena fruizione del patrimonio artistico e culturale della città.


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SALA GIALLA Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Alessia Sangalli Alina Timis Antonio Pedone Manuel Monaco Michela De Lazzari Mari Mapelli Sara Mangia Silvia Scaramella Stefano Scavino

A cura di Alina Timis, Sara Mangia e Stefano Scavino

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Non si può dire con certezza quando sia nata la falconeria, ma in Cina si praticava la caccia con il falco già prima della nascita di Cristo. Sebbene non sia possibile datare esattamente quando i rapaci siano stati utilizzati per la prima volta nella caccia, vi sono evidenze che permettono di stabilire che tale pratica si sia diffusa prima in Oriente e, solo dopo la fine dell’Alto Medioevo, in Occidente, come attività praticata dai più benestanti, non per il sostentamento o lo svago ma come prova di forza e di valore. Ad oggi, la pratica della falconeria è diffusa in oltre 60 paesi. La falconeria si può definire come l’arte di catturare prede selvatiche nel loro ambiente naturale, usando rapaci addestrati appositamente. Questa attività ha attraversato periodi di massimo splendore ma anche periodi bui; l’avvento delle armi da fuoco, ad esempio, ha fatto sì che l’impiego dei rapaci nella caccia venisse meno.

Alessia Sangalli Photography

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Sara Mangia Photography Giroinfoto Magazine nr. 66

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Sulla falconeria sono stati scritti molti trattati e i più antichi sono in lingua araba, ma uno dei più innovativi è quello scritto da Federico II di Svevia. Quest’ultimo aveva una grandissima passione per i rapaci e, oltre a praticare la falconeria, scrisse il De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli). Il manuale, arricchito da disegni naturalistici, tratta tre macro-argomenti: la classificazione di tutti gli uccelli esistenti, le attrezzature per la falconeria e infine diverse tecniche di addestramento e caccia con il falco. Federico II di Svevia introdusse numerose migliorie alla pratica venatoria, quali, ad esempio, l’impiego del cappuccio in sostituzione alla cigliatura, la barbara pratica che consisteva nella cucitura delle palpebre del rapace. L’uso del cappuccio in cuoio è un metodo non coercitivo, che non provoca alcun disagio o danno all’animale e che permette di tranquillizzarlo e di impedire che venga infastidito o intimorito da qualcosa, o da qualcuno. Per capire al meglio l’utilità di queste tecniche, bisogna sapere che i rapaci sono molto nevrili e tendono a spaventarsi molto facilmente. Eliminando gli stimoli visivi, si riduce quindi la possibilità che l’animale entri in uno stato di agitazione. È importante sottolineare che i rapaci si classificano in due categorie: diurni e notturni. Ad un primo impatto, potrebbe sembrare difficile distinguerli, ma in realtà, confrontando il notturno gufo e la diurna aquila reale, si osserva che occhi, becco e ali sono molto diversi.

Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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I rapaci notturni

sono animali molto silenziosi grazie al loro folto piumaggio, composto da setole disposte a pettine in grado di ridurre al minimo il riverbero causato dal contatto con l’aria. Il loro spostamento in volo non genera alcun rumore e, di conseguenza, le prede non avvertono in tempo il loro arrivo. Un’ altra caratteristica di questi rapaci è la capacità di girare il capo di 270° grazie a un particolare distanziamento tra le loro vertebre; riescono quindi a percepire facilmente ciò che si trova alle loro spalle.

I rapaci diurni,

invece, sono capaci di cacciare in un territorio ampio centinaia di chilometri. I falconiformi (così definiti per via della forma a falce delle loro ali) possiedono degli opercoli sul becco, che proteggono le vie respiratorie durante il volo ad alte velocità.

Stefano Scavino Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Oltre alle differenze anatomiche appena citate, le due categorie di rapaci hanno un comportamento di caccia differente: i rapaci notturni ricorrono all’appostamento (caccia passiva), mentre i rapaci diurni praticano la caccia di alto e basso volo (caccia attiva). La caccia di alto volo viene praticata principalmente dai falconidi e consiste nel volare ad alte quote per intercettare e poi gettarsi in picchiata sulla preda, con una presa diretta o con la stoccata, un colpo di artigli a forte velocità che stordisce o addirittura uccide la preda. Diversamente, la caccia di basso volo (o caccia a vista) prevede un volo radente al terreno, per agganciare la preda dopo averla individuata e inseguita. Proprio per queste peculiarità, prima di impiegare questi animali nell’attività venatoria, occorre conoscerli molto bene e superare due fasi importantissime: l’ammansimento e l’addestramento. Durante la prima fase, il rapace si abitua alla presenza del falconiere e capisce che non è un pericolo. Il falconiere utilizza un guanto, creato appositamente per offrire una posa stabile e sicura, per abituare l’animale a mangiare sul suo pugno.

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Una volta conquistata la fiducia si passa all'addestramento vero e proprio, quello che lega definitivamente falconiere e rapace. In Italia, la caccia con il falco è regolamentata dalla legge 157 dell’11 febbraio 1992 e può essere praticata su tutto il territorio nazionale con regolare licenza di caccia. Per quanto riguarda il volo libero, la regolamentazione è su base regionale, ma è generalmente richiesta anche in questo caso la licenza. La pratica della falconeria è strettamente legata alla natura, pertanto dipende fortemente dai territori disponibili, dalla loro conformazione e dalla disponibilità delle prede. Per questo motivo Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e Lazio sono le regioni con una maggiore presenza di falconieri, mentre nelle regioni del sud l’attività è meno praticata e le associazioni di riferimento sono meno. Nel 2016 la falconeria è stata riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità e da allora per i falconieri è diventato ancora più importante promuovere la loro arte. Il fascino della falconeria è senza tempo, tuttavia in Italia fatica ancora a essere riconosciuto e valorizzato.

Alina Timis Photography

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Alessia Sangalli Photography

IL REGNO DEI RAPACI Immerso nel verde incontaminato della campagna alle porte di Milano, Il Regno dei Rapaci nasce nel 2004 dal desiderio di Dino Bendotti e Anna Flumeri di fare del loro lavoro uno strumento di accoglienza, condivisione culturale e utilità sociale. Dal 2010 il centro è registrato presso Regione Lombardia come fattoria didattica con rapaci e oggi è un centro di riproduzione certificato, agriturismo e azienda agricola, nonché inserito in un percorso che lo farà diventare una tra le pochissime fattorie sociali della Lombardia. Come fattoria didattica si rivolgono ad un pubblico molto ampio, ma soprattutto a bambini molto piccoli, fondando la didattica sull’acquisizione del sé, della consapevolezza e del superamento delle proprie paure, vivendo un’esperienza unica a contatto diretto con numerose specie animali.

Il Regno dei Rapaci Gessate (MI)

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Il centro ospita circa 130 animali provenienti da tutto il mondo (Europa, America, Australia, Africa), tutti nati in cattività o a loro affidati dopo essere stati curati e non ritenuti idonei per il ritorno in natura, come è capitato a Portobello, un simpatico pappagallo dai colori azzurro e giallo. Le attività proposte al Regno dei Rapaci sono numerose: si può partecipare a visite guidate private o di gruppo, assistere a dimostrazioni di volo (ogni domenica) e a rievocazioni storico-medievali, o diventare “Falconieri per un giorno” e provare a richiamare a sé, grazie alla guida di un esperto, i rapaci.

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Il centro è inoltre impegnato in attività di promozione con la partecipazione a manifestazioni e fiere, ma anche in attività di pubblica utilità come, ad esempio, l’allontanamento dei volatili nocivi. La cura per gli animali, la passione e l’amore dei falconieri verso gli splendidi volatili fanno dal centro un luogo unico per vivere un’esperienza indimenticabile, piacevole e soprattutto istruttiva. Come Band Giroinfoto abbiamo avuto la possibilità di effettuare una visita, che ci ha permesso di “immergerci” nel mondo dei rapaci e conoscere numerose specie, che difficilmente si possono osservare, soprattutto così da vicino.

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Antonio Pedone Photography

Gheppio comune è un rapace (alto dai 34 ai 38 cm) color marrone-castano; la maculatura particolare delle sue ali funge da deterrente contro i falchi più grandi. Si adatta molto bene alle zone urbane, collinari e pianeggianti. Il suo volo viene chiamato “volo dello Spirito Santo”, perché riesce a rimanere immobile in stallo per diversi minuti.

Stefano Scavino Photography

Falco Sacro

Barbara Tonin Photography

è uno dei più grossi nella famiglia dei Falchi ed è diffuso in Europa, Asia e Africa. Il piumaggio è di colore diverso a seconda dell’habitat e della zona in cui si trova. La sua tecnica di caccia prevede che prima della picchiata, le ali si chiudano, inglobando completamente la coda. Gli opercoli sul becco (fori che proteggono l’organo olfattivo) si chiudono e si attiva una terza palpebra; in questo modo l’aria, ad alte velocità, non provoca danni agli organi interni.

Mari Mapelli Photography Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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RAPACI & FALCONIERI

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Aquila reale è un rapace diurno estremamente territoriale, diffuso nell’emisfero nord del globo terrestre, principalmente in aree di montagna. Il suo territorio di caccia è molto ampio, nell’ordine delle centinaia di km quadrati. L’aquila è un animale monogamo e l’aspettativa di vita degli esemplari che vivono in cattività è di circa 40 anni. Ha un’apertura alare di circa 2-2,5 metri ed è in grado di praticare la caccia di alto e basso volo, utilizzando sia gli artigli che il becco. Le aquile possiedono inoltre un numero molto elevato di bastoncelli nell’occhio e ciò consente loro di vedere un oggetto poco più grande di una moneta da 2€ già ad 1 km di distanza, o una lepre da addirittura 5 km. Il loro campo visivo è di 340° e il loro occhio è in grado di percepire una gamma di colori maggiore di quella visibile dagli esseri umani. Questi rapaci sono ulteriormente dotati di un organo sensoriale, che gli consente di individuare le correnti termiche ascensionali calde, per prendere quota con il minimo sforzo. Sara Mangia Photography

Barbagianni è un rapace notturno caratterizzato da un piumaggio color “caffelatte” e da occhi neri. La sua altezza va dai 33 ai 39 cm e ha un peso compreso tra i 300 e i 400 grammi. Le femmine sono leggermente più grandi dei maschi. Il barbagianni ha il volo più silenzioso tra tutti gli uccelli conosciuti, ma emette un suono particolarmente acuto. Caccia di notte, prevalentemente topi. È molto utilizzato nella falconeria.

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Gufo reale

Antonio Pedone Photography

con la sua altezza compresa tra i 58 e i 71 cm e l’apertura alare che può raggiungere i 2,5 metri, il gufo reale è il più grande tra i gufi. Questa specie è caratterizzata da occhi color arancione e da evidenti ciuffi auricolari. Questi ciuffi sono indicatori dello stato emotivo dell’animale e possono essere posizionate in 12 differenti modi: completamente “dritte” indicano uno stato di attenzione, completamente reclinate sul capo indicano invece uno stato di tranquillità. Bubo Bubo caccia prevalentemente all’alba e al tramonto, quando il colore dei suoi occhi simile al sole può confondere le prede.

Michela De Lazzari Photography

Civetta nana ferruginosa è uno dei più piccoli rapaci notturni presenti in Europa. Questa civetta è un rapace solitario. Grazie alla sua ottima vista, al suo spiccato udito e alle sue ali corte e arrotondate, si adatta perfettamente alla vita nel bosco, suo habitat naturale. Barbara Tonin Photography

Manuel Monaco Photography

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Nonostante le sue dimensioni ridotte, è in grado di catturare prede grandi quasi quanto lei e di ingerirle interi.


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Falco pellegrino è un rapace falconide caratterizzato da una colorazione del capo scura. È proprio da qui che deriva il suo nome: il piumaggio scuro sul capo ricorda i cappucci indossati dai pellegrini. Questo falco può raggiungere, in picchiata, una velocità pari a 385 km/h e, per questo motivo, è l’animale vivente più veloce. Come tutti i rapaci, è caratterizzato da un dimorfismo sessuale, tale per cui la femmina è più grande del maschio, anche se cromaticamente simile.

Sara Mangia Photography

Assiolo facciabianca è un rapace diurno della famiglia degli Strigidi dotato di un piumaggio grigio, che favorisce il mimetismo con la corteccia degli alberi su cui si posa, e un disco facciale bianco. Raggiunge la dimensione massima di 24-25 cm e un peso di circa 200 grammi, ma ha pennacchi auricolari insolitamente grandi. La sua particolarità è che “adatta” le sue dimensioni a seconda della situazione: quando si sente in pericolo, gonfia il piumaggio per sembrare più grande; quando si trova in situazioni di evidente disparità di dimensioni, si rimpicciolisce per sembrare, agli occhi del predatore, denutrito e quindi poco appetibile.

Alessia Sangalli Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Aquila testabianca

Antonio Pedone Photography

questo rapace, simbolo degli Stati Uniti, è molto diffuso in America e in Alaska. È un’aquila pescatrice ed è ghiotta di salmoni. Non c’è differenza cromatica tra maschio e femmina, ma, anche in questo caso, le femmine sono più grandi dei maschi. Ha una lunghezza compresa tra i 70 e i 100 cm e un peso che va dai 3 ai 6 Kg. In America è uno dei rapaci più grandi con un’apertura alare compresa tra 1,8 e 2,3 metri.

Manuel Monaco Photography

Avvoltoio collorosso è un saprofago e si nutre principalmente di carcasse. Ha un olfatto molto sviluppato, che utilizza per trovare le carogne, e vola generalmente rasoterra, per meglio captare i gas prodotti durante il processo di decomposizione.

Barbara Tonin Photography

Manuel Monaco Photography

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È privo di siringe (l’organo vocale degli uccelli) per cui è in grado di emettere solo grugniti o sibili. Un’altra caratteristica di questa specie è la testa glabra di colore rosso. Ha dimensioni piuttosto rilevanti: 160183 cm di apertura alare, altezza tra i 62 e gli 81 cm e un peso che va da 0,8 a 2,3 Kg. Non vi sono differenze nel piumaggio tra maschi e femmine, ma le femmine sono leggermente più grandi.


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RAPACI & FALCONIERI

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Gli strumenti della falconeria Nel mondo della falconeria esistono molti strumenti utili e necessari all'addestramento e alla cura dei rapaci. I più comuni per la protezione sia dell’animale che del falconiere sono il cappuccio e il guanto. Il cappuccio, strumento indispensabile per la tranquillità dell’animale in situazioni stressanti o durante il trasporto, può essere fatto di svariati materiali ma il più utilizzato è il cuoio, per la sua morbidezza e modellabilità. Oltre ai cappucci in pelle (o ecopelle), ne esistono di molto più curati e decorati fatti con pellami ricercati come, ad esempio, pelle di serpente o di canguro. In Europa è difficile vedere in uso strumenti così prestigiosi, ma sono molto utilizzati nei paesi arabi, dove la falconeria è considerata uno status symbol. Il guanto è ancora più importante, perché permette all’animale di appoggiarsi sulla mano del falconiere. In pelle o altri materiali, è generalmente costituito da più strati perché, oltre a offrire un posatoio sicuro per il rapace, deve proteggere la mano del falconiere dagli artigli. I guanti per la falconeria sono dotati di norma anche di moschettoni di sicurezza ai quali attaccare i geti, strisce di cuoio molto morbide legate alle zampe dell'animale. Un altro strumento molto utile, soprattutto durante la fase di addestramento, è la borsa in cui viene tenuto il kit da falconiere, composto dal logoro e da qualche boccone di carne. Il logoro è una preda finta, alla quale viene applicata della carne per mantenere gli istinti predatori del rapace, che non deve assolutamente abituarsi ad avere il cibo sempre a disposizione. Quando viene effettuato un volo libero poi è indispensabile l’uso del trasmettitore, una piccola antenna radio che viene attaccata alla coda del rapace e che consente di localizzarlo nel caso in cui si allontani.

Michela De Lazzari Photography

Alessia Sangalli Photography

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RAPACI & FALCONIERI

Ringraziamo Anna e Dino per averci fatto vivere un’esperienza diretta con questi fantastici rapaci all’interno della loro fattoria didattica. Un ringraziamento particolare spetta anche a Gigliola per essere stata una splendida guida all’interno del centro e alla sua collega Gaia, che con la loro cordialità, professionalità e simpatia ci hanno mostrato gli aspetti più dolci e inaspettati di questi animali presentandoci Ugo (allocco bruno della Malesia), Rupert (avvoltoio di Ruppell), Penelope (aquila grigia) e tanti altri amici rapaci. l Regno dei Rapaci è situato in Via XXV Aprile, nr. 23 nel comune di Gessate (MI). Per ulteriori informazioni: www.falconierisuamaesta.it Silvia Scaramella Photography

“(..) Aprono le ali, scendono in picchiata, atterrano meglio di aeroplani cambiano le prospettive al mondo, voli imprevedibili ed ascese velocissime traiettorie impercettibili Codici di geometria esistenziale” “Gli uccelli” Franco Battiato

Stefano SalvatoreScavino Fiume Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Gianpiero Perone

Mauro Villata

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FOTOGRAFIE DALL'IMPERO OTTOMANO

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FOTOGRAFIE DALL'IMPERO OTTOMANO

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edizione bilingue (italiano-inglese) 24 × 28 cm, 208 pagine 160 colori e b/n, cartonato ISBN 978-88-572-4514-0

Fotografia Ottomana Bernardino Nogara e le miniere del Vicino Oriente (1900–1915) a cura di Serena Berno, Roberto Cassanelli

Fotografie dall'impero ottomano

Bernardino Nogara con la moglie Ester a Montecatini

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FOTOGRAFIE DALL'IMPERO OTTOMANO

Fotografie dall'impero ottomano

Nogara all’ingresso di una miniera in Bulgaria 1903-1907

Fotografie dall'impero ottomano

Ponte di Galata con sullo sfondo la Moschea Nuova - Yeni Camii Giroinfoto Magazine nr. 66


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FOTOGRAFIE DALL'IMPERO OTTOMANO

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Condividere lo sguardo su un passato che parla a tutti Il terzo volume della collana dei Quaderni fotografici dell’Archivio Storico Intesa Sanpaolo è dedicato a una raccolta fotografica inedita e suggestiva legata alla storia della Banca Commerciale Italiana, istituto di credito che nel 1907, insieme al gruppo di imprenditori veneti guidati da Giuseppe Volpi, aveva costituito a Ginevra la Società Commerciale d’Oriente (Comor), allo scopo di promuovere attività di finanziamento di impianti e infrastrutture come ferrovie, miniere, centrali elettriche e società di navigazione nel Vicino Oriente. La Comor aveva trasferito la sua sede a Milano nel 1912 ma poteva contare su diverse sedi nel baci- no del Mediterraneo, tra cui quella di Istanbul, allora Costantinopoli, diretta dall’ingegnere Bernardino Nogara, fiduciario della Comit nel Mediterraneo e nell’Europa orientale, e figura di rilievo nella storia del Novecento.

Fotografie dall'impero ottomano

Zonguldak officina delle riparazioni

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FOTOGRAFIE DALL'IMPERO OTTOMANO

Fotografia Ottomana Bernardino Nogara e le miniere del Vicino Oriente (1900–1915) Il racconto fotografico ha inizio nell’impero Ottomano dei primi anni del Novecento, e si conclude con lo scoppio della Prima guerra mon- diale. Protagonista è la famiglia Nogara, trasferitasi a Costantinopoli al seguito del capofamiglia. Tutte le immagini pubblicate in questo volume provengono dal fondo dell’Archivio Privato di Bernardino Nogara, una raccolta fotografica il cui valore va ben oltre gli interessi per la storia della banca. Si tratta di una rilettura di soggetti per lo più noti e studiati solo attraverso le immagini ufficiali, divulgate dall’Impero per mostrare all’Occidente la modernità della società ottomana. Un patrimonio visivo eccezionale che Intesa Sanpaolo ha deciso di valorizzare e rendere disponibile a tutti attraverso il proprio Progetto Cultura e l’Archivio Storico.

Fotografie dall'impero ottomano

Bacino di Eraclea Bernardino Nogara seduto su una locomotiva

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FOTOGRAFIE DALL'IMPERO OTTOMANO

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Fotografie dall'impero ottomano

Venditore d'uva

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IL PANZEROTTO

Adriana Oberto Giancarlo Nitti

A cura di Giancarlo Nitti

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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IL PANZEROTTO

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Un anonimo fornaio o in una ignota intimità casalinga, si trasforma un po' di impasto avanzato steso e riempito con pomodoro e mozzarella, richiudendolo a forma di mezzaluna e friggendolo nell'olio. Nasce così, nel XVI secolo, in Puglia, una delle ghiottonerie più famose dello street food italiano. Il panzerotto rappresenta la storia tipica della cucina povera italiana, specialmente nei paesi del sud e lo si trova lungo le vie dei borghi di Bari, nella sua ricetta originale, fino a tutto il territorio pugliese con le sue diverse varianti di ripieno. Oggi, il panzerotto non si ferma nel suo luogo natale, ma percorre diverse centinaia di chilometri fino ad arrivare a essere apprezzato nelle regioni del Nord Italia. Ed è proprio di questo lungo viaggio che vi vogliamo parlare. Un viaggio organizzato da tre giovani imprenditori che decidono di portare la tradizione pugliese nelle terre del Piemonte, a più di mille chilometri dalle origini. Carlo Esposito, Davide Genovese e Gianmaria Racca, aprono nel marzo del 2021, il primo punto vendita delle "Panzerotterie Zerootto" in Via Gian Francesco Bellezia, in pieno centro a Torino.

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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IL PANZEROTTO

Carlo, ci accoglie nel suo punto vendita torinese, mentre Gaia, la cuoca di Zerootto, è indaffarata nel preparare l'impasto da cui sorgeranno gli squisiti panzerotti secondo tradizione. Seguiamo così la lavorazione dell'impasto e la preparazione delle piccole palline di pasta, che una volta stese, faranno da involucro al condimento come da ricetta originale: pomodoro e mozzarella. Riempiti, procede quindi alla chiusura, dando la forma di mezza luna e sigillando i bordi con una forchetta. Nella sua semplicità, il panzerotto è pronto da friggere.

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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IL PANZEROTTO

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Giancarlo Nitti Photography

Nel frattempo che Gaia produce uno alla volta i panzerotti, chiediamo a Carlo come è nata l'idea di portare a Torino un prodotto così caratteristico del sud Italia.

Carlo L'idea deriva da una vera e propria passione per il panzerotto, poichè siamo tutti e tre originari della provincia di Taranto. Anche se in tempi difficili, viste le restrizioni a causa del COVID, abbiamo deciso di intraprendere questa avventura, sfruttando la conoscenza familiare di mia madre Anna e mia nonna Assunta, necessaria alla produzione del vero prodotto tradizionale.

Sono differenti i panzerotti tarantini da quelli baresi?

Carlo In realtà vi sono pochissime differenze, il denominatore comune e che sono tutti buonissimi. Si differenziano per dimensioni e ripieno, anche se quello tradizionale rimane sempre il pomodoro e mozzarella. Molte famiglie al sud si sbizzarriscono con diversi ripieni, a Taranto per esempio viene usato molto il prosciutto e la mortadella.

Quali sono gli ingredienti tipici che usate?

Carlo Usiamo una farina proveniente da Altamura per l'impasto e utilizziamo una passata di pomodoro di alta qualità. Per quanto riguarda la mozzarella, ci serviamo da un caseificio artigianale qui del Piemonte. Inutile dire che l'olio per il condimento e l'origano sono tutti prodotti originari pugliesi, della provincia di Taranto. Sottolineo anche che per friggere utilizziamo un olio di girasole alto oleico, molto più costoso del normale olio, ma permette la digeribilità e la fragranza della frittura.

Adriana Oberto Photography

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IL PANZEROTTO

Come vi siete rapportati con i gusti e le abitudini del Piemonte?

Carlo Non abbiamo riscontrato grosse difficoltà a far piacere il panzerotto tipico, considerando che, specialmente a Torino, c'è una imponente presenza di originari pugliesi, figli della migrazione degli anni 50/60. Notiamo anche che molte persone non italiane apprezzano il nostro prodotto. Per venire in contro ai gusti del "Nord" produciamo anche il "Panzerotto dolce" con la nutella, che ha riscontrato un successo inaspettato.

Adriana Oberto Photography

Vi limitate a produrre solo panzerotti o avete altri prodotti tipici?

Carlo Oltre ai diversi tipi di panzerotti, produciamo un altro prodotto tipico tarantino: La polpetta di cozza fritta. La produciamo come da tradizione della nonna Assunta, con pane ammollato, prezzemolo, pecorino, grana e aglio. Questo "Snack" è una sfida che ci siamo preposti e la stiamo lanciando come prodotto promozionale per farla conoscere, fino ad oggi ha avuto un'ottimo riscontro. la cozza è l'emblema della zona tarantina e utilizziamo unicamente le nostre, abbattendo il prodotto all'origine, preparandolo quindi fresco da consumare appena fritto.

L'abbattimento del prodotto fresco quindi avviene per tutti i prodotti che fornite?

Carlo Certamente, come la cozza, in quanto un prodotto molto delicato, anche l'impasto e gli ingredienti dei panzerotti vengono abbattuti prima di cucinarli per preservare la freschezza e la fragranza. Questo procedimento ci consente di elevare la qualità del cibo, pur avendo un processo di produzione più frequente e impegnativo.

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IL PANZEROTTO

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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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IL PANZEROTTO

Adriana Oberto Photography

Quali sono i limiti di produzione prendendo in considerazione un solo punto vendita?

Carlo Essendo aperti da poco posso fare una valutazione molto approssimativa, ma a pieno regime possiamo produrre circa 300/350 panzerotti al giorno. Con questo flusso produttivo riusciamo ad abbattere il prodotto e a consumarlo entro 1 o 2 giorni. Questa è la nostra vera forza: offrire il prodotto praticamente fresco.

Quali sono i progetti per questo nuovo brand?

Carlo L'intenzione è di diffondere la cultura del panzerotto. Partiremo da Torino e provincia con la prerogativa di espanderci su tutto il resto d'Italia, mantenendo le caratteristiche fondamentali sulla qualità e sul prezzo "anti crisi", infatti il panzerotto classico lo venderemo per sempre a prezzo fisso di € 1,50.

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IL PANZEROTTO

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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Adriana Oberto Photography

Abbiamo notato che anche la birra che voi proponete è di origine tarantina.

Carlo Si esatto, collaboriamo con un birrificio tarantino. La birra Raffo. Fanno parte del nostro progetto come integrazione e rafforzamento delle origini del nostro prodotto. La birra è molto leggera, essendo una birra da pasto e quindi facilmente abbinabile al panzerotto.

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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Giancarlo Nitti

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LA CASALTA

Adriana Oberto Gianmarco Marchesini Laura Rossini

Questa è la storia di una villa signorile, che si trova nel rinomato quartiere romano di Monte Parioli, e della sua prima proprietaria e progettista - una benestante signora americana - che desiderava vivere la sua vita nella Città Eterna. Sono arrivata a conoscenza dei fatti che seguono tramite Chris, un caro amico conosciuto tempo fa, che mi ha contattato mostrandomi preziose foto originali e mi ha raccontato questa storia.

A cura di Adriana Oberto Foto archivio - Lisa Jackens Giroinfoto Magazine nr. 66


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LA CASALTA

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Foto archivio - Lisa Jackens Grace Upham Bigelow, nacque a St. Paul, Minnesota, negli anni ‘70 del XIX secolo; era la figlia di un ricco uomo d'affari. La sua famiglia, amica e conoscente di ricche e importanti famiglie del tempo, si era arricchita investendo nell’edilizia e nel settore bancario, nonché, come molti all'epoca, nei trasporti (prima le diligenze, poi i battelli a vapore e - più tardi – le ferrovie). Grace si sposò alla fine del secolo con Horace Herastus Bigelow - un avvocato e procuratore della contea. La coppia ebbe quattro figli - Horace, Henry, Lewis e Dudley; Lewis morì a pochi anni di età. Per Grace la vita non fu facile e, sebbene marito e moglie fossero ferventi cattolici, le cose tra di loro non andarono affatto bene e la coppia chiese il divorzio nel 1905. All’epoca, divorziare in quella che era in maggioranza una comunità cattolica era considerato inammissibile, tanto più per una donna dello status di Grace. Il divorzio in quanto tale era inaccettabile nella società in cui viveva e lei cominciò a sentirsi emarginata. Era una cattolica devota e la sua fede si dimostrò determinante nel pianificare la sua vita futura. Grace decise di trasferirsi a Roma - la culla della Chiesa cattolica - e di ricostruire lì la sua vita insieme ai tre figli. Per lo meno aveva con sé del denaro, che le permise di guadagnarsi da vivere investendo nell’edilizia e di mandare i figli al Real Collegio Mondragone, dove avrebbero studiato sotto la supervisione dei padri gesuiti.

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LA CASALTA

Per sé e la sua famiglia sognava una casa che riflettesse il suo carattere e la sua persona. L'occasione si presentò negli anni 1925-26, quando acquistò due lotti separati in quello che stava diventando l'elegante e ricco quartiere romano dei Parioli. La zona, oggi completamente urbanizzata, cominciava allora a vedere la costruzione dei primi palazzi e ville signorili. Grace era una signora benestante e come tale frequentava l'alta società di cui faceva parte. Organizzava e partecipava a tè, balli e altri eventi mondani, andava in vacanza sulle Alpi svizzere e fu persino ospite al Quirinale, in occasione delle nozze di Maria Josè del Belgio e del principe ereditario Umberto I di Casa Savoia. Come tale il suo nome appariva sui giornali e la sua opinione veniva tenuta in considerazione.

LA CASALTA. OGGI Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 66

Con l'ascesa al potere di Mussolini, il quartiere divenne luogo di residenza dei funzionari del partito. Grace fu testimone dei cambiamenti che il regime aveva portato all’Italia e del sospetto con cui venivano visti gli americani. La sua vita nella bella villa a Roma finì bruscamente quando il governo requisì la sua casa e gli americani furono costretti a lasciare l'Italia. Tutti gli americani ancora a Roma, all'inizio della guerra nel 1940, partirono nel mese di maggio di quell'anno. Grace e Dudley si imbarcarono sulla SS Washington da Napoli il 13 maggio. Quella stessa nave fu quasi affondata da un siluro tedesco un mese dopo.

Foto archivio - Lisa Jackens


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LA CASALTA

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Foto archivio - Lisa Jackens Grace, Dudley, Henry Bigelow Giroinfoto Magazine nr. 66


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LA CASALTA

Quella fu l'ultima volta che Grace vide la sua casa. Arrivata in America, si ritrovò pressoché indigente, tanto che dovette chiedere aiuto finanziario alla sorella. Si rimise in piedi e visse a Palm Springs, in California, investendo di nuovo nel settore immobiliare. Verso la fine degli anni '40, a causa di perdite finanziarie e di un incendio di un immobile di proprietà, perse di nuovo gran parte del suo patrimonio. Nel 1950 tornò a Roma, con l’intenzione di rientrare in possesso della sua casa. Per un po' risiedette all'hotel Eden, ma la sua salute declinò ben presto e fu ricoverata a Villa Margherita, una clinica privata, dove morì, senza un soldo, il 25 settembre 1950. Essendo molto religiosa, il suo desiderio era di essere sepolta in un cimitero cattolico; era però divorziata, e quindi scomunicata dalla Chiesa, e per questa ragione fu invece sepolta al Cimitero Acattolico, Cimitero degli Inglesi, a Testaccio, Roma. Circa un mese dopo la sua morte il figlio minore, Dudley, che era il suo intermediario, nonché l'esecutore testamentario, riuscì a vendere la casa per pochi soldi. Il mio amico e la sua famiglia non hanno mai saputo della vendita (ne sono venuti a conoscenza di recente) e ad oggi nessuno ancora conosce l'ubicazione degli oggetti di famiglia che si trovavano nella casa.

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LA CASALTA

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Foto archivio - Lisa Jackens Giroinfoto Magazine nr. 66


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LA CASALTA

Originariamente il nome del quartiere era “pelaioli” o “peraioli” – nome che riporta alla pianta del pero. All’inizio del XIX secolo, infatti, sulle colline sovrastanti il Tevere e l’Aniene, c’erano casali rurali che segnavano una sorta di confine tra la città e l’agro romano. Le case erano scarse; c’erano stalle, maneggi e soprattutto viali ombrosi. Il quartiere fa parte dei primi quindici sorti a Roma, oltre le mura aureliane, dopo che questa divenne capitale d’Italia, e viene istituito come tale nel 1921. Nato per ospitare solo ville e villini, in realtà il piano urbanistico del 1922 dà più ampia libertà di scelta e permette palazzine fino a quattro piani e diciannove metri di altezza senza giardino.

Foto archivio - Lisa Jackens

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Con l’avvento al potere di Mussolini, la zona, che già aveva ospitato nobili ed esponenti della burocrazia legati alla casa reale, diventa “aristocratica” e riservata ai gerarchi fascisti. Il quartiere viene completato negli anni ‘50 del secolo scorso; il piano regolatore del 1965, poi, permette di aumentare superfici e volumi del 30%. Si ricostruisce e si cambia destinazione d’uso a molti immobili e l’area diventa zona di servizi e di transito. Molti edifici ospitano ambasciate e consolati.


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LA CASALTA

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La Casalta fu progettata e costruita per diventare la residenza definitiva di Grace. Si tratta di un villino a tre piani, più un piano interrato che a suo tempo era adibito, probabilmente, ad alloggio per la servitù. Ogni stanza della casa era arredata con cura, e anche i bagni non erano da meno. C'era un bellissimo soggiorno con camino, il salotto, la camera da musica. Al pian terreno il salone era impreziosito da una bellissima scala di legno che porta al primo piano. Le camere da letto erano quattro. Dario Truffelli Photography

Laura Rossini Photography

Foto archivio - Lisa Jackens

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LA CASALTA

Non mancano i dettagli che valorizzano gli interni dell’immobile, dalle porte in legno e vetro d’epoca del primo piano, ai camini in marmo presenti su tutti i livelli dell’immobile, passando per i soffitti in legno pregiato finemente intarsiati (alcuni rimasti intatti, altri sono stati coperti). Le pareti, un tempo dipinte o affrescate, non sono purtroppo sopravvissute, e sono state semplicemente imbiancate.

Gianmarco Marchesini Photography

Grace amava i detti e le citazioni, così arricchì con essi l'esterno e l'interno della casa. Alcuni di essi, dipinti sulle pareti, sono purtroppo andati persi, così come si sono persi gli arredi e gli effetti personali della padrona di casa.

C’erano inoltre due ampie terrazze scoperte, di cui una è stata coperta in tempi successivi. La villa è circondata da un giardino che attualmente offre la possibilità di essere sfruttato come meglio si crede: parcheggi, area relax e, per chi volesse, l’opportunità di realizzare un’ampia piscina. Già al tempo c’era il garage per l’automobile di proprietà.

Foto archivio - Lisa Jackens Uphame, che significa "sopra” e “Casa", cioè "la casa sulla collina".

Altri però sono tutt’ora visibili perché scolpiti nella pietra o sulla facciata della casa. “Dominus Custodiat Domum” (il Signore protegga la casa) e “Veniat Qui Proderit Hospes” (venga l’ospite che sia utile), si trovano rispettivamente sulla cancellata (e ripetuto in sala da pranzo) e all’ingresso della casa. Sopra l’entrata viene indicato anche l’anno di costruzione: MCMXXV.

La villa ha cambiato proprietari nel corso degli anni e alla proprietà, che già al tempo vantava una superficie di 1700 mq, sono stati aggiunti due fabbricati indipendenti, ciascuno costituito da un solo livello di 73 mq circa e circondato da giardino. E' stata anche variata la destinazione d'uso e l'intero edificio è ora adibito ad uffici. L’ultimo proprietario in ordine di tempo è stata l’ambasciata di Danimarca, che ne ha fatto la propria sede fino a poco tempo fa. Ora l'immobile è in vendita.

Altri motti sono sparsi in tutta la casa, così come lo stemma di famiglia di Grace, un castello, che è simbolo di sicurezza. E Grace non avrebbe potuto trovare posto migliore (su una collina) per la sua casa, visto che il suo nome da nubile era

Desideriamo ringraziare Chris Pomeroy, di cui Grace era la bisnonna, per averci contattato e raccontato la sua storia, e Lisa Jackens, sua cugina, per averci gentilmente concesso l’uso delle foto d’archivio.

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Foto archivio - Lisa Jackens

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BOTTEGHE ROMANE

A CURA DI LAURA CORDÌ E LAURA ROSSINI

Gianmarco Marchesini Laura Cordì Laura Rossini

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BOTTEGHE ROMANE

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VINCENZO PIOVANO Tra Piazza Navona e Castel Sant'Angelo, nella storica Via dell'Orso, tra gli antichi bassorilievi cinquecenteschi dei palazzi ed i porticati, al civico 26, si trova la storica Bottega artigiana di Vincenzo Piovano, scultore ed intagliatore che, sin dal 1973, porta avanti con dedizione l'antico mestiere dell’artigiano. Vero talento nella lavorazione del legno, del marmo e dell’avorio, è stato per molti anni al servizio di istituzioni italiane come il Quirinale, della Chiesa e delle strutture museali. Oggi al suo fianco ci sono le due figlie: Michela, che si occupa di restauro, ed Alessandra, mosaicista.

Una tale varietà di attività potrebbe essere letta come una perfetta strategia economica di diversificazione del prodotto, ma in realtà è solo il risultato di un processo naturale di crescita personale. Incontriamo Michela che ci tiene a sottolineare come, sia lei che la sorella, abbiano scelto la propria strada in piena consapevolezza e libertà, seguendo ognuna la propria indole con esperienze e formazione all’estero.

Laura Rossini Photography

"Mia sorella amava molto il disegno, mentre io ero affascinata dalla possibilità di ridare nuova vita ad opere antiche pur rispettandone la struttura originaria. La passione che mettiamo in ciò che facciamo, ci spiega, dà al nostro lavoro quel qualcosa in più che lo rende particolare. Fare della propria passione un lavoro è ciò che auguro a tutti".

Proseguiamo l’intervista accennando ad altri aspetti che riteniamo propri dell’essere artigiano, come la pazienza, la tranquillità e tutto d’un colpo ci ritroviamo in una disquisizione filosofica. Vincenzo e Michela fermano le loro attività per spiegarci che la pazienza dell’artigiano è finita da un pezzo e che ormai non c’è più nè il tempo nè la tranquillità che serve per poter trovare soluzioni ad una crisi economica decennale. Sono parole amare, che centrano la gravità della situazione.

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BOTTEGHE ROMANE

VINCENZO PIOVANO L’impeto con il quale affrontano l’argomento è proporzionale alla passione per questo lavoro, per ogni singolo oggetto creato o riportato a nuova vita. Entrare nella bottega è stata un'emozione unica, come fare un viaggio indietro nel tempo. In ogni angolo si trovano oggetti ed elementi di arte barocca e sacra. Cornici e pennelli per il restauro, scalpelli di ogni tipo e attrezzi per l’intaglio, per la scultura, tessere e piastrelle per il mosaico. Il maestro Piovano ci mostra alcuni dei suoi lavori. Sta realizzando lo stemma in legno commissionato dagli eredi di una antica casata nobiliare; lo sta riproducendo basandosi sulla fotografia di un pozzo, sul quale gli stemmi compaiono su ogni lato sotto forma di bassorilievo.

Maurizio Lapera Photography

Laura Cordì Photography

La struttura in legno è stata ultimata, ma dovrà essere rifinita con stucco e colore. Ci mostra anche il particolare di una statuina mariana: la testa di uno degli angeli ai piedi di Maria. Lavori di questo tipo vengono poi terminati da Michela, che con sapienza ed esperienza cerca di ricreare i colori dell’opera originaria. Anche l’immensa cornice che è sul tavolo all’entrata aveva una parte mancante, una foglia, che è stata interamente ricostruita dal maestro. Che siano di dimensioni rilevanti o piccolissime, la delicatezza dei tratti e dei particolari delle sue opere è sorprendente.

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BOTTEGHE ROMANE

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Laura Rossini Photography

Michela sta lavorando al restauro di una cornice antica. La fase iniziale della preparazione di base è già stata eseguita attraverso la ricostruzione delle parti mancanti e della stuccatura di quelle rovinate. Queste parti dovranno essere carteggiate, affinchè risultino omogenee e dello stesso spessore del resto della superficie. Sulle parti nuove sarà applicata la foglia d’oro zecchino con la tecnica del “guazzo”, come si faceva anticamente. Una volta asciugata, dopo 12 ore, potrà essere lucidata con la pietra d’agata fino a quando non raggiungerà la gradazione di colore dell’oro anticato del resto della cornice. La postazione di lavoro di Alessandra è ben riconoscibile da tessere di mosaico, colori, disegni. Alcune sono opere nuove, come la Madonna col Bambino, mentre altre sono restauri e richiedono la sostituzione di tessere andate perse. Accanto alla sua postazione c’è un tronco sul quale è stata fissata una punta in ferro, che viene utilizzata per tagliare le tessere. Tra i lavori più particolari ed importanti realizzati ultimamente c’è il fondo di una piscina. Un’opera impegnativa che, per il trasporto e montaggio, ha richiesto la suddivisione in pannelli da assemblare sul posto. Un altro mosaico è invece stato prodotto su una tavola di 2 metri per tre.

Giroinfoto Magazine nr. 66


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Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 66

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VINCENZO PIOVANO Siamo stati in questa bottega ed abbiamo respirato l’arte. Un’opera su tutte ci ha colpito: un calco che rappresenta l’essere umano, una scultura che oggi si trova in Canada. Il maestro l’ha rappresentato come un felino aggressivo per poter sopravvivere nel mondo d’oggi, ma con le ali perché, prima o poi, tornerà a volare.

Di recente è scomparso un grande della fotografia, Giovanni Gastel, che ha espresso gli stessi concetti in una delle ultime interviste per il Sole 24 ore (video su Youtube: Il mondo che verrà. Giovanni Gastel), per spiegare lo scatto “Adriana in the sky”, realizzato per il progetto “Il mondo che verrà”.

Laura Cordì Photography

Laura Cordì Photography

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Gianmarco Marchesini Photography Giroinfoto Magazine nr. 66


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VETRATE D'ARTE GIULIANI Giulio Cesare Giuliani, fondatore della bottega, iniziò la sua attività come chimico farmacista nella bottega di famiglia a Piazza Farnese. La sua passione per la pittura lo portò, però, agli inizi del ‘900, a frequentare lo studio del pittore decoratore Eugenio Cisterna, divenendone dopo alcuni anni non solo prezioso collaboratore, ma anche genero.

così la collaborazione con il più importante mastro vetraio di Roma, il Picchiarini. Molti altri artisti si unirono e parteciparono a chiamata ai numerosi progetti, disegnando i cartoni che oggi abbelliscono parti del Vaticano, chiese, palazzi borghesi, dalla capitale fino al Medio Oriente.

In quegli anni cerca di affinare le tecniche di applicazione del colore e del disegno su materiali diversi come il vetro. Inizia

Laura Rossini Photography

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VETRATE D'ARTE GIULIANI Per Giuliani furono fondamentali non solo l’innovazione e la qualità dei materiali, ma anche la tutela e la preservazione delle antiche tecniche, perché dovevano essere la base sulla quale liberare la creatività e sensibilità dei mastri vetrai nel dare vita e colore ai cartoni realizzati dai grandi artisti. Le Vetrate Giuliani sono conosciute in tutto il mondo e ancora oggi lo studio guidato da Elsa Nocentini continua a produrre opere uniche, potendo contare sulla professionalità e capacità di chi per generazioni ha tramandato questa particolare forma d’arte. Entriamo nel laboratorio che oggi ha sede in via Garibaldi a Trastevere e scopriamo un mondo fatto di colori, disegni e luce. Ma ciò che più ci colpisce è la sensibilità e la passione dei maestri che qui lavorano.

Maurizio Lapera Photography

Laura Cordì Photography Gianmarco Marchesini Photography Realizzare una vetrata è frutto del lavoro di molte persone. Il committente dà indicazione e mandato di realizzare dei bozzetti su carta in scala 1:10, l’artista lo disegna ed il mastro vetraio lo completa, inserendo per ogni sezione il colore scelto tra almeno 1.000 tra quelli a disposizione; una volta approvato, il lavoro viene realizzato un disegno su cartone in scala 1:1. Ogni sezione viene ritagliata con una forbice speciale a tre lame, per lasciare spazio alla trafilatura in piombo ad “H”.

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Il vetro viene tagliato a mano seguendo le linee della singola tessera e posizionato sul disegno lucido per la tessitura a piombo, la saldatura e la stuccatura; vengono inserite poi delle traverse a rinforzo. Infine, l’ultimo passaggio è la cottura in forno a 350° gradi. Nel laboratorio ci sono scaffalature con centinaia di lastre colorate ed una rastrelliera scorrevole con una infinità di campioni suddivisi per colore e tipologia di lavorazione del vetro. La materia prima arriva solo da una fabbrica tedesca, che è l’unica che abbia mantenuto una elevata qualità del prodotto, lavorando ancora il vetro antico soffiato e colorato a piastra. Ovviamente, come per le altre realtà artigianali, il momento non è dei migliori, ma dove le commesse nuove sono ferme, si lavora sul restauro e si va avanti.

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VINCENZO PIOVANO Tra le opere delle Vetrate d’arte Giuliani più antiche, sicuramente di grande prestigio sono quelle esposte nel museo della Casina delle civette di Villa Torlonia. E’ doveroso citare la più imponente opera realizzata in Nigeria per “Ecumenical center of Abuja”, per la quale sono stati prodotti ed installati 1.400 mq di vetrate artistiche, lavorate e

montate sul posto in circa 2 mesi di lavoro e la cupola di una residenza privata di 10,5mt diametro in Kwait. Alla pagina www.vetrategiuliani.com/grandi-opere è possibile navigare tra le immagini delle opere. In ogni vetrata, anche nella più semplice, la luce completa l’opera e rende nuova ad ogni cambio di intensità.

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In Ogliastra, nella Sardegna centro-orientale, si trova un paese completamente vuoto e disabitato: Gairo Vecchio, il cui nome deriva dal greco “ga” e “roa” significa “Terra che scorre” e suggerisce la storia tormentata di questo territorio, soggetto a frane e smottamenti.

A cura di Elisabetta Cabiddu Giroinfoto Magazine nr. 66


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Tra il XIII ed il XIV secolo, sul pendio destro del Monte Turconi, accanto all'argine sinistro del Rio Pardu a circa 520 m s.l.m., nacquero i primi piccoli rifugi ed agglomerati di case, la cui crescita demografica avvenne nell’arco di tre secoli, al termine dei quali sorse il vero e proprio borgo rurale di Gairo. Il borgo accoglieva contadini ed artigiani provenienti dalle aree limitrofe, scampati a carestie o invasioni marittime; l’entroterra sardo offriva infatti terreni fertili da coltivare, un rifugio sicuro con aspettative di vita positive. L’ospitalità della natura portò il paese a crescere, ma al tempo stesso alla deriva: i corsi d’acqua che lo bagnavano resero le terre estremamente friabili ed instabili.

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Un tempo la zona era immersa tra i lecci, ormai quasi scomparsi a causa del disboscamento selvaggio avvenuto soprattutto nel XIX secolo: un paesino che oramai rappresenta l’emblema della forza della natura, la stessa che, a seguito di repentine alluvioni, si è via via ripresa il territorio. Senza questa naturale protezione, la popolazione ha dovuto affrontare una lunga serie di alluvioni, a partire dalla fine del 1800 per poi ripetersi nel 1927, nel 1940 e ancora fino alla più disastrosa, quella dell’ottobre del 1951, durante la quale per cinque giorni consecutivi la pioggia si abbatté incessante, decretando la fine del villaggio.

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Gli abitanti del paese originario, non trovando l’accordo su dove ricostruire il nuovo centro, si trasferirono in tre zone limitrofe e sorsero così Gairo Sant’Elena, sito pochi metri più in alto rispetto al centro abbandonato, Gairo Taquisara, distante qualche chilometro e famoso per essere una stazione turistica del “Trenino Verde”, e Gairo Cardedu sulla piana vicino al mare. A metà degli anni Sessanta l’ufficio postale fu trasferito nel centro abitato di Gairo Sant’Elena e l’ultima abitazione venne chiusa definitivamente nel 1963; Gairo cessò quindi di essere abitato e divenne un silenzioso borgo fantasma.


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Oggi Gairo Vecchio, soprattutto in autunno e in inverno, è avvolto dalla nebbia del passato in un’atmosfera quasi incantata in cui regna un silenzio assoluto: viottoli, case diroccate, cortili, tetti venuti giù, caminetti non rifiniti, travi di legno marcito, scale e macerie. Si arriva fino all’ingresso del borgo con l’auto, che si può lasciare su un piazzale con vista sul paese stesso: da questo punto panoramico è già possibile vedere ciò che rimane dell’esperienza di vita di poche migliaia di persone. Percorrendo il paese a piedi, lungo le tipiche viuzze in ciottoli prelevati dalla riva del torrente, è possibile sbirciare attraverso le finestre ed ammirare ancora alcuni dettagli architettonici delle abitazioni, le pareti interne spesso decorate con colori piuttosto vivaci tra cui i tradizionali

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azzurro ceruleo ed il rosa, colori probabilmente utilizzati per ingannare la monotonia di un’architettura spoglia. Il borgo si sviluppa su dislivelli esistenti tra le vie e su terrazzamenti, conseguenza della sua collocazione montana e di un territorio impervio: le case venivano ubicate tra due strade una a monte ed una a valle della costruzione stessa. Addentrandosi nel paese, è possibile scorgere qualche pollaio o ricovero per animali, ma ciò che colpisce di più sono le dimensioni di alcune abitazioni, un tempo di 2 o 3 piani, ad oggi veri e propri ruderi nei quali la vegetazione si sta addentrando e sviluppando, permettendo alla natura di riappropriarsi di quelli che erano i suoi spazi.

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Lungo il percorso si possono osservare porte e finestre realizzate con una struttura in pietra adeguatamente squadrata, o mattoni pieni intonacati con malta di calce e sabbia.

A seguito del racconto, gli uomini derisero la donna che, nonostante ciò, iniziò a portare da sola dei massi dal torrente; mossi allora da compassione, la aiutarono a costruire una piccola cappella.

Nel borgo è rimasta l’antica Chiesa dello Spirito Santo, anche se ormai ridotta a un rudere, eretta per volere dalle donne di Ulàssai, un paese limitrofo.

Ma lo Spirito Santo non soddisfatto della costruzione chiese alla donna di ampliarla con sette arcate e le indicò inoltre un punto nel bosco dove trovare una sua statua di legno.

La leggenda narra che lo Spirito Santo apparve in visione ad una donna, chiedendole di dedicargli una chiesa.

La dimora tipica di Gairo era costituita da una cucina (“sa cogina”), da una camera (“sa domu de lettu”) e da un soffitto (“s’istassu”); accanto al soffitto a volte c’era anche un’area nella quale si scaricavano le acque provenienti dal tetto e ci si recava per i bisogni fisiologi (s’errili). In alcuni casi, si costruiva anche un altro ambiente al di sotto del piano campagna (“su sutta”), che veniva utilizzato come magazzino per le provviste. Alcune dimore erano piuttosto modeste e spesso mancavano di bagno e addirittura delle camere.

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In questi spazi ristretti accanto al focolare domestico dormivano insieme alle persone anche gli animali domestici ed il bestiame. Non esisteva comunque una tipologia edilizia ben distinta, ma in ogni isolato le case potevano essere assai diverse tra loro. Il contadino aveva la propria casa vicina a quella del pastore o del commerciante o del proprietario terriero; infatti non era definita una netta distinzione tra nuclei urbani poveri e ricchi, forse a testimonianza del fatto che le persone si ritenevano facenti parte di un’unica comunità, a prescindere dai propri possedimenti economici.


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I materiali utilizzati erano rocce locali tra cui il granito e lo scisto, mentre, come legante, si usava una malta di calce e sabbia; la calce veniva prodotta in un forno costruito in località Tarquisara, condiviso dall’intera comunità e rimasto attivo fino alla prima metà del ‘900. L’impossibilità di garantire una sorveglianza continua negli anni ha portato a furti di infissi e tegole ancora in buono stato, oltre che della pavimentazione in granito. Recentemente la via centrale del vecchio borgo è stata asfaltata, ad espressione dell’importanza che ha questo luogo come collegamento per le campagne circostanti.

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Che fine farà questo antico paese? Sarebbe auspicabile una sua valorizzazione: attualmente il borgo rivive durante il tipico carnevale gairese “Su maimulu torna a casa”, durante il quale le maschere tradizionali avanzano per le stradine ed i cortili con la loro tipica andatura. Gairo Vecchio, il paese che non esiste più, oggi è il più famoso paese fantasma non solo del territorio ogliastrino, ma di tutta la Sardegna. Attira centinaia di turisti lungo i suoi vicoli stretti e tortuosi, tra le scalinate e gli edifici diroccati dalle caratteristiche pareti rosa e azzurre, in percorsi decisamente alternativi alla Sardegna da cartolina.


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Ponte storto Autore: Ivo Marchesini Bobbio - Piacenza

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An Unfinished Structure At The End Of The Road Autore: Ronald D. Palandie Pantai Mutiara,Pluit, North Jakarta, Indonesia

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La strada per il paradiso Autore: Linda Zanchin Pescul, frazione di Selva di Cadore (BL)

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