Giroinfoto magazine 67

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N. 67 - 2021 | MAGGIO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.67 - MAGGIO 2021

www.giroinfoto.com

Aurora

L'arte di lasciare il segno Band of Giroinfoto

ASTI LE 100 TORRI Band of Giroinfoto

ACQUEDOTTO DI GENOVA Band of Giroinfoto

MUSEO D'AUMALE TERRASINI Band of Giroinfoto Photo cover by Massimiliano Sticca


WEL COME

67 www.giroinfoto.com MAGGIO 2021


LA REDAZIONE

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GIROINFOTO MAGAZINE

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Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

©

Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.

Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.

Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.

Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.

Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.

Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.

Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.

Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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on-line dal

11/2015 Giroifoto è

Giroifoto è

Editoria

Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.

Attività

Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.

Giroifoto è

Promozione

Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.

L E G G I L A G R AT U I TA M E N T E O N - L I N E www.giroinfoto.com Giroinfoto Magazine nr. 67


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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI

Progetto editoriale indipendente

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ANNO VII n. 67

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20 Maggio 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana

giroinfoto TV LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.

PARTNERS Instagram @Ig_piemonte, @Ig_valledaosta, @Ig_lombardia_, @Ig_veneto, @Ig_liguria_ @cookin_italia SKIRA Editore Urbex Team Old Italy

CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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AURORA

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I N D E X

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C O N T E N T S

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MUSEO TERRASINI

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CORSICA

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DIARIO DI BORDO

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AURORA L'arte di lasciare il segno Band of Giroinfoto Piemonte

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MUSEO DI TERRASINI Palazzo d'Aumale Band of Giroinfoto Sicilia

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DA BASTIA A PORTO Corsica A cura di Claudia Lo Stimolo

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DIARIO DI BORDO Relitti della Seconda Guerra Mondiale A cura di Pierluigi Peis

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DISPLACED Richard Mosse MAST Bologna


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R E P O R TA G E

88 ASTI

ASTI Città delle 100 torri A cura di Margherita Sciolti PALAZZO BRICHERASIO Il palazzo con una vocazione Band of Giroinfoto Piemonte ACQUEDOTTO di Genova Band of Giroinfoto Liguria

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R E P O R TA G E

PALAZZO BRICHERASIO

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102 118

TERRA DI TUTTI L'arte del riciclo Band of Giroinfoto Toscana

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FOTOEMOZIONI DI Luca Bruno Michele Petrelli Matteo Martini

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ACQUEDOTTO GENOVA

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132 TERRA DI TUTTI

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R E P O RTA G E

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AURORA

Adriana Oberto Barbara Tonin Giancarlo Nitti Massimiliano Sticca Remo Turello

A cura di Barbara Tonin Il segno è una delle prime cose che ci insegnano. Ancora prima che con la parola, impariamo a comunicare con la gestualità del corpo e a esprimere le nostre emozioni e la nostra personalità tramite un pastello. Dal quel preciso istante, in ogni fase della nostra vita, sarà sempre con noi una matita, un pennello o una penna che ci aiuterà a dire qualcosa di noi stessi.

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AURORA

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Il segno è la particella elementare della comunicazione. Ha permesso l’evoluzione dell’uomo, della cultura e della conoscenza. È l’embrione di tutte le discipline: dalla letteratura alla musica, dalla scienza all’arte, dalla religione alla filosofia. Il segno è la materializzazione del pensiero, la concretizzazione dell’astratto, la memoria senza tempo di Passato, Presente e Futuro. La scrittura si è evoluta attraverso svariati mezzi e forme. Ognuna di queste racconta di un popolo, lo caratterizza e lo identifica culturalmente e socialmente. L’uso del segno ha permesso, altresì, l’interazione tra popolazioni diverse, superando le barriere linguistiche. Con il segno creiamo icone, simboli e indici, che permettono di esprimere o rappresentare un oggetto, un concetto o un fenomeno, manifestare uno stato d’animo, fissare riferimenti e stabilire convenzioni comuni. Il segno è parte della nostra quotidianità fin dai tempi antichi ed è ampiamente utilizzato anche nell’era digitale. La comunicazione scritta unisce persone distanti tra loro, ti mette in contatto con chi non conosci, può trasmettere alle generazioni future idee, pensieri e conoscenza.

Massimiliano Sticca Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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AURORA

Da ben quattro Verona crede nel valore tutta la sua esperienza e Aurora.

generazioni, la famiglia del segno e mette attenzione nelle penne

Fondata nel 1919 a Torino in via della Basilica 9 dall’imprenditore Isaia Levi, l’Aurora è la prima industria italiana per la produzione delle penne a serbatoio, oltre a matite, inchiostri e articoli di cancelleria. Il progetto di Levi, infatti, prevedeva la realizzazione di una realtà di dimensioni industriali con elevati standard qualitativi e tecnici e con un’estesa ed efficiente commercializzazione, al fine di valorizzare la produzione italiana anche all’estero. I primi modelli si rifanno alla concorrente Waterman, ma con un design più ricercato e con più attenzione per i dettagli. Vengono utilizzati ebanite, metalli preziosi (RA, ARA) e celluloide (Duplex). Particolare e curiosa è la R.A.00, pensata per poter essere utilizzata sul carnet di ballo, è di dimensioni ridottissime e provvista di un foro sulla sua sommità, per permettere alle signorine di indossarla al polso. Gli anni ’20 vedono l’espansione della Aurora nei mercati internazionali (Francia, Polonia, Spagna e America Latina), grazie all’efficace promozione commerciale, a un marketing ben gestito e alla commercializzazione anche per corrispondenza di prodotti più economici e da regalo. Visto il crescente successo delle penne Aurora, nei decenni successivi nascono altri modelli come Superba (derivata dalla Duplex), Internazionale, Novum, Aurora R.A.3 Egizia (anni ‘30), Asterope ed Etiopia (anni ‘40), pronta a sfruttare il traino pubblicitario dell’impresa coloniale italiana e in sintonia con la propaganda di regime. Asterope, in particolare, rappresenta un’innovazione. È una penna che si apre e si chiude con una mano, è internamente blindata in duro alluminio e ha un caricamento col sistema a levetta sul fondo (tipo Novum). Nel frattempo, Levi è costretto a reinventare le società a lui intestate, inclusa la Aurora che viene inglobata nella Sapem, per via della campagna antisemita. Giroinfoto Magazine nr. 67


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Con la fine della guerra, finisce anche il periodo Levi in Aurora. Questi cede sia la Aurora che la Zanichelli al nipote Giovanni Enriques.

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AURORA

NUOVA 88

Il 1943, invece, è ricordato come un anno infausto. I bombardamenti degli Alleati distruggono la sede della Aurora e la produzione si ferma. Ricollocata accanto all’Abbadia di Stura, la manifattura riprenderà l’attività a basso regime solo a fine anno.

OPTIMA

Nascono altri modelli quali Superna, Optima, Topolino e Biancaneve per i più giovani, Iridia, ML, Selene, costruita nella lega di acciaio chiamata e registrata da Aurora col nome di Platiridio in sostituzione dei metalli preziosi, difficili da reperirsi durante la guerra.

ASTEROPE

EGIZIA

R.A.00

Nonostante tutte le difficoltà, l’impresa è in continua crescita e la missione rimane quella, secondo i documenti aziendali, di produrre «una penna di nome italiano che gareggia vittoriosamente con quelle estere che per troppo tempo invasero il nostro mercato, a scapito dell’economia nazionale», in sintonia «con le direttive autarchiche del Regime».

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Gli anni della ricostruzione sono segnati da una penna, lanciata nel 1947, tra le più famose e note dell’Aurora, il modello 88, disegnato da Marcello Nizzoli, noto pittore, architetto, pubblicitario, designer e collaboratore di alto livello della Olivetti, per la quale realizza, tra l’altro, la Lettera 22. La 88 è una penna innovativa, con il pennino quasi completamente carenato, un alimentatore di inchiostro di alta qualità, un cappuccio con chiusura a pressione in lega di nickel e argento, decorato con sottili righe verticali. Il corpo è in celluloide, il fondello e la carena in ebanite e un caricamento a stantuffo di grande estensione. Intramontabile oggetto di culto, è simbolo di una produzione legata a delicate fasi artigianali, oltre alla tecnologia più avanzata. Grazie alla 88 e alla affiancata commercializzazione di inchiostri, carta da lettere e matite, la Aurora incrementa sia la produzione che il giro d’affari, ma dal 1954 subisce una battuta d’arresto. Non senza difficoltà, le sorti dell’azienda vengono risollevate negli anni ’60 grazie alle capacità dell’ingegner Franco Verona, che da semplice manager collaboratore seguirà un’importante carriera, fino a diventare amministratore delegato.

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AURORA

Verona ritiene che i prodotti della Aurora debbano essere rinnovati e riprende, pertanto, la collaborazione con noti designer. Nel 1963 nasce la 98, disegnata da Albe Steiner, seguita nel 1965 dall’Auretta, una penna economica rivolta soprattutto agli studenti, che ottiene un grande successo. La Auretta è in plastica, di diversi colori vivaci, con il pennino parzialmente coperto e può contare sull’utilizzo di due cartucce. La grande innovazione di Verona, inoltre, sta nel marketing. La campagna pubblicitaria dell’autunno 1965 comprende anche la pubblicità televisiva e in poco tempo in tutte le scuole si comincia ad utilizzare la Auretta. In aggiunta, Verona cura con attenzione anche la produzione di penne in oro in edizioni numerate e penne da regalo per le occasioni tradizionali, come comunioni e cresime. Nel frattempo avvia anche la produzione di penne a sfera, destinate a una crescente diffusione, seguite dalle penne roller. Una collaborazione importante nella storia di Aurora è quella col designer Marco Zanuso, che disegna due penne destinate a collocarsi tra le icone contemporanee non solo degli strumenti per la scrittura ma del made in Italy nel mondo. Sono una stilografica, la cilindrica Hastil del 1970, e una penna a sfera, la piatta Thesi del 1974 realizzata tutta d’un pezzo. Entrambe le penne sono esposte al Museum of Modern Art (MoMA) di New York, caso unico al mondo per un’azienda di prodotti per la scrittura. Gli anni ’80 di Aurora e i successivi sono segnati dall’impronta del figlio di Franco Verona, Cesare.

Cesare Verona, infatti, ritiene necessarie urgenti innovazioni, che porteranno all’inserimento di collaboratori esterni alla famiglia, all’allargamento (soprattutto all’estero) e alla diversificazione dei mercati, nonché alle produzioni per le grandi firme internazionali, come Cartier, Yves Saint Laurent, Givenchy. Sono anni segnati dalla rivisitazione di grandi classici, come la Nuova 88 e l’Optima con il noto motivo a forma di greca sull’anello, ma soprattutto dalla nascita di nuovi modelli innovativi come la Ypsilon, disegnata con un inconfondibile fermaglio sagomato dall’Ufficio Stile Aurora con Giampiero Bodino, e altri capolavori come l’Aurora Giuseppe Verdi del 2013, l’Aurora Leonardo da Vinci e la stilografica 100° Anniversario. Aurora Giuseppe Verdi celebra uno dei più importanti compositori italiani con una linea unica, raffinata e preziosa, curata in ogni minimo dettaglio. È una stilografica a pistone impreziosita da incisioni di foglie d’alloro e della lira, simbolo dell’arte e della musica, originale tributo all’autore del Nabucco e dell’Aida. Il genio di Leonardo da Vinci, invece, è celebrato attraverso una collezione ricca di tecnica e dettagli ispirati alle sue opere. Caratteristiche sono le incisioni sul cappuccio, che riprendono il “Codice del Volo”, custodito a Torino, il fermaglio che ricorda un’ala con movimento esclusivo a snodo ed il pennino che si ispira ad una piuma di un volatile.

100° ANNIVERSARIO

LEONARDO DA VINCI

GIUSEPPE VERDI

YPSILON

THESI

HASTIL

AURETTA Giroinfoto Magazine nr. 67

Questi, prima come responsabile del marketing e infine come unico proprietario e amministratore delegato nel 2011, cambierà radicalmente sia l’assetto giuridico dell’azienda sia le direttrici di mercato, per far fronte alle difficoltà intervenute in Aurora a causa della globalizzazione.


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Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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anissimo, ha Il dott. Cesare Verona, fin da giov l’alto artigianato con re vive con far di accettato la sfida tinuare a costruire un l’innovazione di processo, per con ramente progettato inte prodotto antico come la penna, e realizzato in Italia. scrittura e per Crede nel valore del segno e della ttura, un originale Scri questo ha fondato l’Officina della nza del segno. orta l’imp e ia stor museo che racconta la parole che Sentiamo direttamente dalle sue lui Aurora.

cos’è per

ri che Quali sono le caratteristiche e i valo ? nda Azie ra vost la ono ingu dist contrad poter È un privilegio e una responsabilità i, sperando ann 100 oltre di ia stor raccontare una secondo anno che per i lettori sia un piacere. È il re qui ora esse ed dei prossimi cento per Aurora e, izion trad ia, stor za, dà senso di appartenen saper fare.

esare Verona

Intervista a C

proiettata È un’azienda di solide tradizioni ma presente nel sta che ica, al futuro, non nostalg ben ci radi con ro futu nel are ma vuole and ato e lo pass dal nza erie l’esp de pren che solide, rinnova. iglia di Nella penna, nel marchio, nella fam serie di una , vera ia stor una ate trov ra Auro che hanno generazioni (siamo già alla quarta), segno e del o cett con nel collaborato e lavorato . della scrittura

e Aurora vanta una rinomata tradizion ato port ha ione ovaz L’inn ria. tena ultracen zati e avan più tecnologie e materiali sempre performanti. vazione Come ha integrato tradizione e inno ra? Auro ne nelle pen anni, ha L’azienda è cambiata molto negli e. izion trad nella ione ovaz innestato l’inn artigianale In Aurora faccio convivere l’anima ne del azio alizz digit ie: con le nuove tecnolog dei zo utiliz da, rapi e zion rma processo, info o e alla uisit acq w w-ho kno al eme assi , big-data ri icola part dei cura dei processi produttivi e o nel rcat rice etto ogg un ne fanno delle nostre pen ro. este che no mercato sia italia talgia del Le penne Aurora conservano la nos ente. pres del ione passato ma con l’innovaz

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Come nasce un nuovo design? e prende forma? Da dove prendete ispirazione e com storia, di pensiero. La penna è un oggetto culturale, di avere con sé. Il da bello io È personale, un accessor borano con noi colla che r gne desi i e nostro Ufficio Stile funzionalità. alla che sono molto attenti sia all’estetica izzazione real alla ti lizza La ricerca e lo studio sono fina tela clien la i disf sod che , ente di un prodotto coinvolg al tore ama dall’ ta, onis essi prof dallo studente al collezionista. Creativo che proviene Per questo abbiamo un Direttore bene gli oggetti osce con che e a mod dal mondo della ad alto valore simbolico. che ti obbliga ad Il processo creativo è un processo e. zion crea la immergere i 5 sensi per ne e riceviamo Esportiamo oltre l’80% della produzio che portano do mon visite da clienti di ogni parte del . deri desi e ispirazione, idee, richieste tto, perché ogni Siamo sempre aperti al dialogo dire stica e la sua cultura angolo di mondo ha la sua caratteri realizzazione di un alla e ogni ragionamento può portare pezzo unico e originale. to diversi, quali la Abbiamo infatti creato oggetti mol colorate per i più stilografica Mamba nera o penne di alto pregio iture giovani o ancora pezzi con rifin te. rien io-O Med dedicate, ad esempio, al onaggi, luoghi, Le nostre muse sono molteplici: pers i letterari. prem e elementi naturali, moda, eventi ea diventi una un’id hé perc zo Ci vogliono due anni e mez o da rapidi gni dise dai e nasc esso penna; questo proc elli mod 2D e 3D dal schizzi, che poi vengono tradotti in SEPRO (servizio progettazione). orano tutta una Del prototipo più convincente, si elab rofonditi, creando serie di disegni tecnici ben più app definendo tto delle schede specifiche e soprattu ed i materiali ne razio lavo di quelli che saranno i cicli . etto prog il are plet necessari a com quegli oggetti unici, Nell’Atelier Aurora nascono anche che vengono definiti nti, pensati per personalità importa extraordinary.

ria attività alla Aurora dedica una parte della prop personalizzazione. sto servizio? Perché ritenete sia importante que un sia na pen la Si può affermare che di chi la “prolungamento” della personalità e? possied considerata un Sicuramente la penna può essere lità. ona pers della prolungamento per questo che Testa e mani sono connesse ed è della penna sia e zion riteniamo che la personalizza nte. un servizio importa na è il nostro Scrivere è uno spazio intimo e la pen imento god i mezzo per farlo, deve trasmetterc ere. nell’operazione dello scriv onalizzate. Per questo organizziamo visite pers


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Massimiliano Sticca Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Scrivere è comunicare: che messaggio vuole dove tramandare alle generazioni future, in un’era o tra vvent sopra il preso aver ra la tecnologia semb gini imma te trami o nican comu cui in e i giovani (social media, emoji, …)? one Vorrei tramandare in particolar modo la passi del e storia della tto rispe il ura, per la scritt racconto, perché nella memoria c’è il seme del futuro. . Proiettarsi nel presente per seminare nel futuro

Adriana Oberto Photography

È anche per questo che è nata l’Officina della Scrittura? Sì. Il museo è luogo di visioni e posti visitati che si sono stratificati nel tempo, è un lungo viaggio emozionale per apprendere la storia della scrittura ed i suoi mezzi e per imparare ad amare le penne stilografiche.

ivo Ormai anche la firma autografa, segno identificat casi ssimi molti in paragonabile all’impronta digitale, viene soppiantata dalla firma digitale. i di Ritiene che la scrittura sia in conflitto con i mezz leli? paral i binar su iano viagg o le digita ura scritt

Nel museo si racconta lo strumento e la scrittura viene spiegata, narrata e reinsegnata, perché la penna dà disciplina e fa pensare si prima di scrivere. Si insegna cos’è il segno e . segno insegna a fare

in cui Ci sono situazioni in cui prevale la scrittura, altri logia. prevale la tecno è utile. La penna è qualcosa di “eterno”, che dura ed la mo espri , È uno strumento con cui creo, scrivo . firmo i, personalità e i sentiment

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Remo Turello Photography

cose, l’idea La penna e il digitale sono strumenti per fare cità. capa sue alle e l’intelligenza rimangono all’uomo, ntato aume è che o notat mo abbia Negli ultimi anni, però, con nare ragio e hiare bocc scara re, il piacere di scrive una penna nella mano. vecchia Sono aumentati i momenti in cui si scrive “alla maniera”.


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Remo Turello Photogra

Per Cesare Verona, l’Officina della Scrittura è un “pantheon personale, un luogo altissimo che ospita ciò che trova più bello e sensato” (cit. Riccardo Falcinelli), perché la scrittura è una delle cose più belle e sensate che l’Uomo abbia creato. Il museo è rivolto a tutti, dai più piccoli ai più grandi, è per gli architetti, i designer e i professionisti, gli appassionati, i collezionisti o semplicemente per i curiosi, ma soprattutto per i ragazzi. La famiglia Verona, oltre alle penne, si è dedicata agli strumenti da scrittura già dall’800. L’attività ebbe inizio quando il padre di Franco Verona, Cesare, importò dall’America per la prima volta una macchina per scrivere, la Remington. Cesare Verona senior si dedicò alla commercializzazione non solo di macchine per scrivere di ogni modello, ma anche di calcolatori, mimeografi e tanto altro. Ed è omaggiando l’attività del nonno che il museo apre il suo percorso: la sala Remington.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Barbara Tonin Photography

La macchina per scrivere più antica presente è una Remington del 1873, prodotta dalla REMINGTON STANDARD TYPEWRITER a Ilion, New York. È una macchina che riunisce tutte le innovazioni sviluppate negli anni precedenti: il rullo per la spaziatura fra le righe, i meccanismi di avanzamento e di ritorno del carrello, la cinetica dei martelletti tramite leve e tasti, la stampa per mezzo di un nastro inchiostrato e soprattutto il modo in cui vengono disposte le lettere sulla tastiera, ovvero la nota tastiera “QWERTY”. La sala dispone di svariati modelli: a scrittura visibile, con cambio colore nastro a tre posizioni, con tasto di ritorno o ancora con tabulatore decimale a dieci tasti, fino ad arrivare alla più “recente” Remington Noiseless, una macchina prodotta a partire dal 1937 dalla REMINGTON RAND Co. TYPEWRITER MANUFACTURING Co. a New York. È una portatile caratterizzata da un cinematico di scrittura “silenzioso”.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Il percorso del museo, poi, conduce verso degli igloo multimediali che introducono e spiegano il significato del segno, permettendo al visitatore, soprattutto i più piccoli, di interagire e di esprimersi. Una volta compresa l’importanza del segno, ci si immerge nella storia della scrittura e dell’evoluzione dei suoi stili. Dai primi pittogrammi sumeri in Mesopotamia del 3200 a.C., passando per i geroglifici egiziani, l’alfabeto greco, gli ideogrammi cinesi, la scrittura su steli dei Maya, raccontando anche del mondo arabo, indiano ed europeo, secolo dopo secolo, fino ai giorni nostri.

Un tuffo nel passato che trova il suo apice nell’esposizione delle tredici regine: le penne che, per tecnica, materiali, design e qualità, hanno fatto la storia delle stilografiche. Tra queste troviamo vari modelli di Waterman, Conklin, Onoto, Sheaffer, Parker, Pelikan, Montblanc, Wahl Eversharp e, ovviamente, Aurora. La parte rimanente della sala espone moltissimi modelli simbolo, che hanno caratterizzato la vita dell’Aurora e quelli attualmente commercializzati. Una miriade di colori e forme, espressione della tradizione e della qualità italiana.

Vengono descritti, infine, anche gli strumenti utilizzati per scrivere: il calamo, lo stiletto, il pennello, la piuma d’oca, fino ai più moderni mezzi, ovvero matita, pennino metallico, penna stilografica e a sfera, pennarello, macchina per scrivere e tastiera. Barbara Tonin Photography

Giancarlo Nitti Photography

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Un settore del museo che sicuramente colpisce il visitatore è quello che ripropone gli uffici storici dell’Aurora dagli anni ’20 agli anni ‘70. La biblioteca, l’ufficio degli impiegati, l’ufficio progettazioni e quello di Franco Verona sono allestiti con autentici pezzi d’antiquariato dell’epoca, per rivivere l’atmosfera che aleggiava nel secolo scorso. Una vera chicca per i nostalgici e gli appassionati del vintage. Un percorso olfattivo ricreato con note floreali e un suggestivo tunnel d’inchiostro blu conducono, infine, alla sala dei mestieri, con i macchinari utilizzati tra gli anni ’50 e ’70. Qui si possono visionare un buratto orizzontale, una carteggiatrice automatica, un pantografo, un pianta fermagli, un tornio manuale e uno automatico, utensili, vestiti e un interessantissimo video sulla fabbricazione a mano della carta.


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Una nota di merito va all’Aurora perché permette al visitatore di seguire i processi produttivi nella manifattura. La fabbrica sembra quasi una boutique, la rivisitazione moderna di un atelier artigianale. Pulizia e ordine sono elementi imprescindibili per la produzione di una penna di alta qualità. Ogni singolo processo deve essere eseguito in modo scrupoloso, attento e con la massima precisione, fin nei minimi dettagli. Ma vediamo più da vicino i vari passi che seguono la progettazione, ovvero lo stampaggio, la lavorazione delle parti metalliche, il lavaggio e la lucidatura, raccontato direttamente dal personale dell’Aurora.

Isabella Nevoso Photography

Massimiliano Sticca Photography

alte temperature (80-90° per 3-8 ore) per l’essiccatura, che consente di eliminarne l’umidità. Una volta essiccato, il materiale viene versato nella tramoggia di una macchina per lo stampaggio. La fase dello stampaggio richiede dei passaggi strettamente meccanici, eseguiti da macchinari specifici e meno dalla mano dell’uomo. Si producono così cappucci, serbatoi ed impugnature, alcuni dei quali sono riservati alle sole penne di bassa gamma (direttamente stampate e non tornite). I passaggi di stampaggio cominciano con l’arrivo dal magazzino dei sacchi di materiali, polimeri che si presentano in granuli, che vengono messi in un forno ad

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Quando passa nel carro cilindro, incontra delle resistenze che scaldano fino a 200-300° e fondono il materiale, che a questo punto può essere iniettato nello stampo. Uno stampo è sempre composto da due parti, una fissa e una mobile. Se si utilizza, come in questo caso, uno stampo a svitamento, il risultato sono delle parti collegate tra loro da dei “filetti” che poi vengono rimossi a mano. Il materiale di scarto in parte viene riutilizzato.


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Le parti metalliche compongono gli elementi a corredo, cioè anellini, fermaglio e i diversi particolari inseriti su di essi; i metalli coinvolti dipendono dal modello di penna che si vuole realizzare. Vengono effettuate diverse lavorazioni, che permettono di plasmare queste componenti a partire da asportazione di materiale e da deformazioni plastiche. Un’operazione importante è quella del guillochage (termine francese che non ha traduzione esatta in italiano), cioè la rabescatura a bulino di un oggetto di oreficeria con incisioni più o meno profonde, a linee fitte, che ricoprono tutta la superficie. È effettuata da macchinari costruiti appositamente allo scopo. È una lavorazione molto caratteristica di alcuni modelli.

La coniatura riguarda la realizzazione di alcuni dettagli minuti, come la rabescatura degli anellini o l’impressione del marchio Aurora. L’incisione degli anelli avviene non per mezzo dei laser, ma per mezzo di punzoni, che conferiscono alla penna un carattere più artigianale e gradevole. Le piccole presse lavorano per tranciatura e permettono di effettuare diverse operazioni di messa a misura dei pezzi, oltre a ricavare alcuni dettagli come la finestrella, che serve per il controllo del livello dell’inchiostro. Il polmone della penna è l’alimentatore, o feeder; è fatto di un materiale plastico molto particolare e funzionale, l’ebanite. Questa parte si unirà poi alla parte più preziosa della penna. A partire da barre di PMMA (polimetilmetacrilato), un materiale simile alla celluloide, vengono tornite le parti del fondello, del cappuccio e del serbatoio per asportazione meccanica e tranciatura del materiale, destinate alle penne in materiali plastici di gamma superiore.

Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Adriana Oberto Photography

Il collaudo riguarda percentuali molto prossime al 100% dei prodotti, soprattutto per quanto riguarda la media ed alta gamma. La selezione qualità è un lavoro di grande attenzione ed esperienza.

Nonostante l’apparente facilità, è un passaggio molto delicato e importante, condotto da personale di grande esperienza. Avviene per mezzo di ruote in materiali più o meno morbidi e con l’ausilio di paste specifiche che rendono accattivante l’aspetto della penna. Al compito di conferire lucentezza ai componenti concorre anche la fase del lavaggio, composta da delle vasche con getti programmati che rimuovono tutte le impurità delle fasi precedenti. Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Dopo la fase di lavaggio, alcune parti in metallo passano ad un’ulteriore lavorazione: la galvanizzazione, o rodiatura. È un trattamento superficiale, attraverso elettrolisi, effettuato mediante un sale del rodio.

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Un macchinario specifico traccia dei cerchi concentrici per testare l’intensità e la durata dei filler, ovvero delle cartucce di inchiostro.

Questo trattamento viene usato per dare più brillantezza all'oro bianco e alle pietre incastonate sull'oggetto in oro. La rodiatura galvanica non modifica in alcun modo le proprietà fisiche della lega d'oro ed è solitamente molto resistente al tempo e all'usura. La superficie degli oggetti placcati in rodio è altamente resistente alle abrasioni e ai graffi accidentali. I pennini (generalmente di colore giallo), attraverso il bagno galvanico, verranno immersi per essere “rodiati” ed uscire dall’immersione completamente bianchi, continuando così il loro percorso di definizione.

Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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AURORA

Qui tutti i prodotti vengono portati alla loro definizione. Oltre all’assemblaggio vero e proprio, questo lavoro comporta una notevole mole di operazioni manuali di controllo ed aggiustamento, da cui deriva l’importante componente esperienziale del personale dedicato. I componenti da assemblare sono contenuti in confezioni apposite con scanalature. Spesso le operazioni di montaggio sono eseguite con l’ausilio del forno che permette di accelerare la saldatura dei materiali, che andrebbe eseguita semplicemente lasciando a riposo i componenti assemblati. In passato si erano immaginati degli scanner per effettuare queste operazioni in maniera automatica, ma l’occhio umano e l’esperienza dell’artigiano percepiscono le eventuali imperfezioni in maniera per ora impossibile da rimpiazzare.

Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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AURORA

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Aurora è l’unica azienda italiana a creare interamente ed autonomamente il pennino con il punzone più antico di Torino ancora in funzione. Esistono diversi tipi di pennini per adattarsi alla scrittura di ciascuno, compresi pennini obliqui per mancini o per esperti di calligrafia (standard, speciali, a taglio obliquo, ecc.). Vi sono dei macchinari che assolvono ciascuno ad una operazione che riguarda la creazione del pennino. Questa comincia con la tranciatura del nastro d’oro e prosegue con la laminatura dello stesso con quattro passate: vengono infatti eseguite laminature progressive e successive per creare una lamina dagli spessori diversi, perché il pennino dovrà essere più flessibile in alcuni punti.

Massimiliano Sticca Photography

Segue la tranciatura della sagoma e poi l’imbutitura, fase delicatissima che conferisce la forma curva al pennino e che viene eseguita con grande precisione. Una delle fasi più tipiche è quella che consiste nella saldatura della pallina di iridio: un pennino deve infatti avere una punta opportunamente rinforzata, poiché la punta deve sfregare per chilometri e chilometri sulla carta e per avere un pennino durevole questa viene prodotta utilizzando un materiale molto più duro, come l’iridio. Il pennino viene infine lucidato a mano. Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Barbara Tonin Photography

Qui troviamo dei macchinari che, collegati ai computer che trasmettono degli impulsi, effettuano i disegni e le personalizzazioni che caratterizzano la penna. L’incisione avviene per esportazione e per deformazioni di materiale, effettuati con il taglio alla punta di diamante.

Offre diverse possibilità di personalizzazione, effettuate con tecniche diverse scelte di volta in volta (tampografia, incisione, ecc.). In quest’area si effettua inoltre il servizio riparazione.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Aziende storiche italiane, come l’Aurora, hanno svolto un ruolo di fondamentale importanza nella costruzione e affermazione di un’identità nazionale. Hanno contribuito in modo considerevole a costruire una società italiana, il tessuto di relazioni politiche, culturali, sociali ed economiche che trasformano un aggregato territoriale in una Nazione. Hanno trasformato un’economia quasi essenzialmente agrocommerciale in un sistema sempre più proiettato verso l’artigianato, l’industria e i servizi. La passione per la tradizione, la capacità di adattamento alle mutevoli condizioni del mercato italiano ed estero, la creatività, la capacità produttiva e la ricerca di una continua evoluzione sono gli ingredienti imprescindibili del loro successo e della loro longevità. E le penne Aurora sono segno della qualità del Made in Italy e dell’orgoglio per la tradizione torinese e piemontese. Sono penne con cui scrivere il Futuro.

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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A cura di Rita Russo

Distante 30 km da Palermo, Terrasini, ridente cittadina marinara a prevalente vocazione turistica, ospita dal 2001 il Museo Interdisciplinare Regionale nel suo ottocentesco Palazzo d’Aumale. Questo museo, che per i numerosi reperti di varia natura in esso contenuti può essere considerato fra i più grandi musei naturalistici d’Italia, è situato a pochi passi dalla spiaggia “Praiola”, sul Lungomare Peppino Impastato ed è aperto tutti i giorni, tranne il lunedì, dalle 9 alle 19. La città di Terrasini è facilmente raggiungibile sia in aereo, in quanto dista pochi chilometri dall’Aeroporto Falcone - Borsellino, sia in auto da Palermo imboccando l’Autostrada A29 in direzione Trapani, uscita Terrasini.

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MUSEO D'AUMALE

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Rita Russo Photography Adriana Oberto Photography

sita nella vicina contrada dello Zucco, in territorio di Giardinello, ossia un feudo di 3300 ettari di terreno coltivato a vigneto e uliveto nel quale veniva prodotto il moscatello dello Zucco, un vino molto apprezzato nell’Europa del XIX secolo, oggi non più in produzione.

È impossibile parlare del museo senza prima aver fatto cenno alla storia del palazzo che lo ospita. Il Palazzo d’Aumale fu costruito da Don Vincenzo Grifeo, principe di Partanna e duca di Floridia, nel 1835, allo scopo di realizzare magazzini per la conservazione di prodotti agricoli, secondo i canoni delle strutture ad uso agricolo - commerciale del periodo borbonico. Per questo il palazzo fu originariamente denominato “malasenu Partanna” (magazzino Partanna).

Terrasini

Nel 1860, il palazzo venne acquistato dal principe Henri d’Orléans (1822 - 1897), duca d’Aumale, figlio del re di Francia Luigi Filippo d’Orléans e della principessa di Napoli Maria Amalia di Borbone. Henri d’Orléans fu un geniale soldato e un uomo d’affari senza uguali. Egli, infatti, utilizzò il palazzo come struttura di supporto alla sua florida azienda agricola, Giroinfoto Magazine nr. 67


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MUSEO D'AUMALE

Il Palazzo d’Aumale, per la sua posizione strategica che consentiva un agevole trasferimento delle derrate per via marittima, fu utilizzato, dunque, come magazzino di stoccaggio del pregiato vino e il duca vi soggiornava durante il periodo nel quale venivano effettuate le operazioni di carico sui velieri che, salpando da Terrasini, trasportavano il prezioso carico verso il Nord Italia, la Francia e il resto dell’Europa. Il trasporto via terra era, invece, assicurato dai vagoni che, diretti in Francia, partivano giornalmente dalla stazione ferroviaria dello Zucco. Per rendere confortevole il suo soggiorno durante questi periodi, il duca fece realizzare un piano abitabile sul lato del palazzo prospiciente il mare. I circa 300 uomini che lavoravano nella sua tenuta, quasi tutti monteleprini, trovavano alloggio negli edifici del vicino Borgo Parrini (Giroinfoto n.60) la cui proprietà, originariamente in mano all’istituto religioso della Compagnia di Gesù, passò al duca d’Aumale dopo la soppressione dell’Ordine dei Gesuiti. L’introduzione della produzione industriale e commerciale voluta dal duca, dunque, portò benefici non solo all’economia

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dei vicini comuni di Montelepre, Giardinello e Partinico ma incrementò di molto quella del comune di Terrasini, che fino a quel momento era stata solo di tipo agricolo - pastorale e marinaro tradizionale. Dopo il 1897, anno della morte del duca, avvenuta durante una delle sue soste allo Zucco, l’edificio andò incontro ad un lungo periodo di abbandono e di conseguente degrado. Nel 1953, l’immobile destò l’interesse di due rappresentanti della società “Panaria Film”, che incantati dalla magnificenza dell’ambiente circostante il palazzo e dalla grandezza e disposizione di quest’ultimo, proposero di destinarlo a centro di produzione cinematografica, ritenendo il sito all’altezza di divenire una Cinecittà tutta siciliana. Così, nel 1954 fu redatto il progetto di ristrutturazione e riqualificazione dell’edificio e si attese che la Regione Siciliana varasse una legge che agevolasse la produzione cinematografica in Sicilia. Il disegno di Legge n.33 fu presentato il 6 settembre 1955 ma non fu mai approvato e per questo il progetto non andò mai a buon fine.


R ERPEOPROTRATGAEG E| |MUSEO TORI DI D'AUMALE TORINO

Da quel momento, l’edificio fu completamente abbandonato e la mancata manutenzione segnò la struttura sia dentro che fuori. A causa del degrado, infatti, la maggior parte dei solai crollarono per infiltrazioni d’acqua piovana, insieme ad alcune mensole dei balconi, a parti di cornicione e della soprastante merlatura; mentre numerose crepe segnarono vistosamente pilastri e muri. Nel 1978 la Cala Rossa s.p.a., società di interventi immobiliari e di finanziamenti, presentò un progetto di recupero e di conversione del complesso architettonico in struttura alberghiera. L’idea era quella di realizzare un albergo di 40 camere, con piscina ubicata nella corte centrale. Ma, per fortuna, per il mancato accordo di compravendita, anche questo progetto non andò in porto.

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Nel 1985, Vittorio Emanuele Orlando, sindaco di Terrasini ed appassionato naturalista, fece acquisire al patrimonio comunale il Palazzo d’Aumale e lo consegnò in comodato d’uso alla Regione Siciliana che, dopo averne effettuato il restauro e redatto una convenzione con lo stesso comune, in applicazione della L.R.17/91, nell'aprile 2001, diede vita al “Museo Regionale del carretto e naturalistico di Terrasini”, oggi denominato Museo Regionale di Storia Naturale e mostra permanente del carretto siciliano.

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Per la creazione del museo regionale, il contributo dell’amministrazione comunale di Terrasini è stato fondamentale non soltanto per aver ceduto il Palazzo d’Aumale in comodato d’uso alla Regione Siciliana ma per aver trasferito anche tutti i beni di interesse naturalistico, etnoantropologico, archeologico e bibliografico, custoditi fino a quel momento nel museo civico, nato nel 1984 per volere dell’amministrazione Orlando e diviso in tre differenti sedi. Il patrimonio iniziale del museo civico era costituito oltre che dalla collezione etnografica dei carretti siciliani del prof. Salvatore Ventimiglia, di straordinario interesse per la storia e la cultura locale, anche da importanti collezioni naturalistiche alle quali se ne aggiunsero altre via via acquisite dalla Regione Siciliana e consegnate al comune in affido temporaneo, in attesa dell’apertura del nuovo museo.

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Alla realizzazione di un tale risultato di indubbio prestigio si è giunti dopo anni di intensa attività, grazie all’opera instancabile del più volte sindaco di Terrasini, Dr. Vittorio Emanuele Orlando, promotore dell’iniziativa ed alla sensibilità dell’amministrazione regionale, in particolare dell’Assessorato Regionale BB.CC.AA. e P.I, oggi Assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana. Il percorso museale, lungo il quale è possibile apprezzare l’ottima organizzazione e la cura nell’esposizione dei reperti, è articolato in tre sezioni tecnico-scientifiche:

l una naturalistica, l una etnoantropologica l ed una archeologica.


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l sezione naturalistica Nella sezione naturalistica, sita al piano superiore del palazzo, la visita inizia con un viaggio nella storia naturale della Sicilia attraverso i suoi fossili (paleontologia sicula). Un cammino che inizia fin dal Paleozoico (era primaria), ed in particolare dal periodo Permiano, quando tutto era sommerso

e prosegue fino ai giorni nostri, mostrando al visitatore la biodiversità che nel corso di milioni di anni ha caratterizzato gli ambienti naturali della Sicilia. I numerosi fossili esposti lungo il percorso mostrano le grandi trasformazioni del pianeta che si sono succedute nel tempo.

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Usciti dalla storia geo-paleontologica della Sicilia, si raggiungono due vetrine dedicate alla biodiversità. Nella prima sono contenute alcune specie esclusive della Sicilia; mentre, la seconda è riservata all’illustrazione delle diversità di forme e colori nelle conchiglie.

Il percorso prosegue nella sala successiva, ai lati della quale due diorami mostrano alcuni tipi di paesaggio naturale della Sicilia. È, infatti, possibile osservare, lungo tali vetrine, le principali specie, tra fauna e flora, che vivono nei Parchi e nelle Riserve Naturali siciliane, ossia tutte le aree protette che il Piano Regionale Paesaggistico della Sicilia individua come componenti fondamentali per uno sviluppo sostenibile dell’isola. In fondo alla sala, una piccola chicca è costituita dal “Nocturama”, che permette di compiere un viaggio virtuale in notturna all’interno della ricostruzione di un angolo del bosco dell’Arciera a Ficuzza (Palermo). All’interno di questo piccolo percorso naturalistico, reso ancor più affascinante dal chiarore della luna ricreato per mezzo di una fioca illuminazione, il visitatore può ascoltare i canti e i versi degli animali che vivono nel bosco, alcuni dei quali poco conosciuti per via delle loro abitudini di vita.

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Nella sala successiva è attualmente ospitata la mostra temporanea Costantine Samuel Rafinesque-Schmaltz (17831840): un naturalista americano in Sicilia tra il 1805 e il 1815, nella quale vengono presentate le esplorazioni del giovane naturalista, di origine franco - tedesca ed illustrate sia le sue principali linee di ricerca scientifica che la sua intensa attività di studio, sia in campo zoologico che botanico. L’ultima sala del piano superiore ospita esemplari dell’avifauna rappresentanti le più importanti specie della Sicilia, alcune delle quali di elevato interesse ornitologico e che oggi, purtroppo, non fanno più parte del patrimonio faunistico dell’isola, come ad esempio la gallina prataiola, scomparsa dalla Sicilia negli anni ‘60.

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durante tutta la visita al museo e non soltanto alla sezione naturalistica, è stato possibile accedere a questa magnifica sala per toccare con mano (ma soprattutto con gli occhi!) l’immenso patrimonio naturalistico costituito da oltre 500.000 oggetti che spaziano fra diverse discipline scientifiche (geologia, mineralogia, paleontologia, malacologia, entomologia, ornitologia, vertebratologia), custoditi secondo le principali metodologie adatte sia ai musei che alla ricerca scientifica.

Quanto esposto fino a questo punto è solo una minima parte delle importanti collezioni naturalistiche di vario genere in possesso della struttura museale. È, infatti, a questo punto della visita che scorgiamo una porta sulla quale un cartello ci avverte che la sala delle collezioni è aperta esclusivamente la prima domenica del mese e l’ingresso è consentito solo in presenza di tecnici del museo. Grazie alla presenza del Dr. Fabio Lo Valvo, funzionario addetto alla catalogazione dei beni naturali, che ci ha seguiti

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Tra le tante collezioni presenti in questa sala, spicca quella di Teodosio De Stefani, geologo, che comprende le seguenti raccolte: migliaia di fossili appartenenti a varie ere geologiche provenienti dalle località più note di Sicilia e Calabria; minerali provenienti sia dalla serie gessoso - solfifera siciliana che dal Katanga (Congo); numerosi esemplari di entomofauna sia siciliana sia africana e infine, varie conchiglie e altri invertebrati terrestri. Un’imponente raccolta è quella ornitologica, costituita da oltre 600 specie, proveniente da collezioni di vari studiosi del settore, tra cui le principali sono: la collezione Carlo Orlando, costituita da circa 5000 esemplari rappresentanti tutta l’ornitofauna europea. Iniziata negli anni ’20 a Palermo,

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Per il settore malacologico, che conta in totale oltre 8000 specie, la più importante è la collezione V.E. Orlando che è ordinata per singole famiglie, nelle quali i generi e le specie, provenienti da tutto il mondo, sono inusualmente rappresentati dal fossile all’attuale. Questa collezione che raccoglie sia molluschi marini che terrestri, ingloba numerose raccolte di noti collezionisti, anche di fine Ottocento.

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questa collezione fu incrementata su basi scientifiche anche con reperti acquisiti da altre raccolte, con esemplari europei ed extra europei, nonché con la collezione Ajola di Palermo. La collezione Jannizzotto, che è una raccolta che risale ai primi anni del secolo scorso ed è costituita da circa 200 esemplari, in gran parte catturati nel ragusano ed alcuni appartenenti alla fauna esotica, che sono stati quasi tutti oggetto di restauro perché, al momento dell’acquisizione, si trovavano in pessimo stato di conservazione. La collezione Trischitta che è una raccolta di circa 2000 esemplari che rappresentano quasi tutte le specie dell’avifauna italiana e che, dopo il loro restauro, sono stati conservati in pelle nei cassetti.


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Un’altra importante sezione della sala è quella delle collezioni entomologiche, complessivamente costituita da circa 1200 scatole, per un totale di oltre 5000 specie rappresentate, in cui sono raccolti esemplari di farfalle, scarabei, cavallette, api, libellule, ecc.. Tra queste, le collezioni Alliata, Mariani e Carapezza, che rappresentano esclusivamente specie di provenienza siciliana, sono quelle che contano il maggior numero di esemplari. In particolare, la collezione entomologica di Raniero Alliata di Pietratagliata, costituita nell’arco di tempo che va dagli anni ’20 agli anni ’60, con le sue 465 scatole custodite in cinque splendidi armadi d’epoca, rappresenta con le sue 3000 specie tutti gli ordini della fauna entomologica siciliana, tra i quali quelli dei Coleotteri e dei Lepidotteri sono i più numerosi.

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Documentazione della Regione Siciliana (Cricd) intitolata "Gli insetti del Principe. La collezione entomologica di Raniero Alliata di Pietratagliata" a cura del Dr. Fabio Lo Valvo, ha permesso, finalmente, di valorizzare e rendere edite e disponibili al mondo scientifico tutte le scoperte effettuate dal principe naturalista. L’attività di catalogazione di tutti i reperti esistenti nel museo ha permesso di realizzare banche dati informatizzate, distinte per argomento, al fine di consentire una miglior cura e gestione di tutto il patrimonio.

La collezione, oggetto di una recentissima pubblicazione del Centro Regionale per l’Inventario la Catalogazione e la

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l sezione Etnoantropologica Nella sezione Etnoantropologica, che occupa quasi per intero il pian terreno del museo, la prima sala è dedicata ad uno dei mezzi di lavoro e di trasporto tipico dell’isola, costituito dalle imbarcazioni di varie forme e dimensioni a seconda dell’utilizzo cui erano destinate, attraverso l’esposizione di una collezione di modelli di barche scrupolosamente realizzate in scala dal Maestro Filippo Castro (Terrasini). Questa collezione è il frutto dell’attività di ricerca di quasi cinquant’anni di vita durante la quale Castro ha riprodotto i

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La parte più imponente della sezione è costituita, senz’altro, dall’esposizione del carretto siciliano, che costituisce uno dei maggiori simboli dell’iconografia folkloristica dell’isola. Questa importante collezione, acquisita dalla Regione Siciliana nel 1985, nella quale sono rappresentate le principali scuole di costruttori e di pittori di carri esistenti in Sicilia, comprende anche una serie di parti di carro e di oggetti che documentano le varie tipologie di questo mezzo di trasporto, nonché la grande varietà di soggetti raffigurati e dei motivi decorativi, scolpiti e dipinti su di esso.

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principali tipi di imbarcazioni realizzate nei cantieri tradizionali dei maestri d’ascia siciliani, da quelle a propulsione removelica a quelle a motore, in uso in Sicilia fino al secondo dopoguerra. Si possono così osservare esemplari di barche differenti a seconda del tipo di pesca (sarde, tonni, ricci, ecc.) o della merce da trasportare (conci di tufo di Favignana, sale delle saline di Trapani, ecc.). A questa singolare collezione segue una raccolta di basti, selle e finimenti, alcuni dei quali molto colorati, che vestono i cavalli o i muli che muovono i carretti.


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Isolato al centro della prima delle sale dedicate a questa sezione espositiva, fa bella mostra di sé uno splendido carretto di tipo palermitano, del quale è possibile ammirare da vicino tutta la bellezza delle decorazioni che lo ornano, non solo sopra ma anche sotto, grazie all’ausilio di uno specchio posto sul pavimento. La sala successiva è costituita da un corridoio, ai i lati del quale una serie di piccole vetrine contengono pezzi di carro delle varie scuole di appartenenza ed in alcune è possibile vedere i procedimenti utilizzati per la realizzazione del decoro pittorico.

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Nella sala seguente, dove sono esposti numerosi carretti, dal più antico al più moderno, è stata ricostruita da un lato la bottega del carradore, ossia il costruttore di carri, che permette di seguire le tecniche costruttive e vedere le parti strutturali del carretto smontate; dal lato opposto è stata ricostruita, invece, la bottega del pittore (una sorta di piccolo laboratorio) nella quale, di tanto in tanto, un decoratore spiega le tecniche ed il procedimento pittorico usato per i carretti, dalla stesura dell’olio di lino e dello stucco fino alla pittura vera e propria, oltre a fornire spiegazioni, grazie anche alla notevole quantità di materiale esposto, sulle tematiche riprodotte sui carri. L’esposizione di altri carretti antichi continua anche lungo uno dei porticati di cui è costituito il palazzo, opportunamente chiuso da vetrate di protezione.

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Sempre nella sezione etnoantropologica, una sala è dedicata alla storia del palazzo ed alla sua funzione vitivinicola al tempo del duca d’Aumale ed offre una ricostruzione storica dei procedimenti lavorativi, produttivi e commerciali strettamente connessi alla storia del palazzo.


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l sezione Archeologica Una piccola parte del piano terra del museo ospita un’esposizione di reperti archeologici subacquei provenienti soprattutto dai fondali antistanti le attuali spiagge e le zone portuali del territorio comunale di Terrasini.

commerciali, costituisse luogo di sosta per le navi da carico, o per l’approvvigionamento idrico o per il riparo in caso di avverse condizioni meteo che, molto probabilmente, furono la causa di naufragio delle due navi suddette.

Questi ritrovamenti indicano che, da oltre due millenni, questo tratto di costa è stato frequentato da numerose imbarcazioni, per lo più da trasporto, visto che i reperti recuperati sono costituiti soprattutto da anfore, che fanno parte del carico di due navi onerarie romane risalenti una al I secolo d.C. e l’altra alla metà del III secolo a.C..

La ricostruzione di una sezione della nave Kyrenia, la nave oneraria greca da trasporto naufragata a nord di Cipro, realizzata a scopo esplicativo ed esposta nella sala di questa sezione, è servita al fine di rendere chiaro al visitatore il sistema di stivaggio del carico sulla nave stessa.

L’abbondanza dei ritrovamenti in questa zona, oltre a confermare la vocazione marittima di tale area anche nel passato, indica che essa, trovandosi lungo le rotte

Insieme alle suddette testimonianze e ad altre anfore di differenti tipologie rinvenute nei fondali antistanti diverse località costiere siciliane, l’esposizione consta anche di ancore litiche e di piombo, di diversa origine e datazione.

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Oltre ai reperti subacquei, alla raccolta archeologica si aggiungono reperti rinvenuti in varie importanti zone archeologiche site nell’entroterra siciliano o nelle immediate vicinanze di Terrasini, come Monte d’Oro (Montelepre), sede di un antico centro indigeno e la grotta di Cozzo Palombaro (PA).

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In particolare, il materiale litico rinvenuto in questa cavità testimonia che essa è stata occupata dall’uomo fin dal Paleolitico superiore; mentre l’insieme delle tipologie di ceramiche ritrovate al suo interno, testimoniano una frequentazione umana risalente ad uno spazio temporale compreso tra la prima metà e la media età del Bronzo.


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Desideriamo ringraziare il Dirigente Responsabile del Museo Regionale di Arte Moderna e Contemporanea, Arch. Luigi Biondo, per aver concesso l’autorizzazione alle riprese fotografiche all’interno del Museo Regionale di Terrasini ed a tutto lo staff del museo, con particolare riguardo al Dr. Fabio Lo Valvo, funzionario direttivo addetto alla catalogazione dei beni naturali che, con professionalità, disponibilità e gentilezza ci ha condotto lungo tutto il percorso museale, con particolare riguardo alla sezione naturalistica di quest’ultimo. Per i contatti consigliamo di consultare il sito ufficiale o la pagina Facebook ai seguenti indirizzi: www.museoartecontemporanea.it/museo_dAumale/ https://www.facebook.com/museo.terrasini

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L’esistenza del carro siciliano è strettamente connesso alla storia economica e culturale della Sicilia. Fino al secolo XVIII, il deterioramento e l’assenza di una rete viaria percorribile con veicoli a due ruote, all’interno dell’isola, limitava l’uso del carro. Pertanto, fino a quel momento, il trasporto di merci per lunghi tragitti veniva effettuato dai mulattieri; mentre per il trasporto di persone, per brevi tratti, venivano usate le portantine e le lettighe, trasportate per mezzo di stanghe da uomini o da muli. Per i lunghi tragitti, solo a partire dal XVII secolo, venivano utilizzate le carrozze chiuse tirate da cavalli. Verso la fine del ‘700, il Parlamento del Regno di Sicilia approvò uno stanziamento di 24.000 scudi per la costruzione di strade nell’isola. Mentre, nel 1830 il governo borbonico aprì nuove strade di grande comunicazione, chiamate “regie trazzere”, prevalentemente per ragioni militari. Si trattava, in realtà, di grossi sentieri a fondo naturale, con salite ripide e curve a gomito, piene di fossi e soggette a frane. Per questo fu inventato il carretto siciliano che, essendo dotato di ruote molto alte, era in grado di superare gli ostacoli presenti su tali percorsi. Con il miglioramento delle vie di comunicazione, il carro, che è diventato il mezzo di trasporto più utilizzato, ha dato origine ad un fiorente artigianato, ancora vivo fino a circa trenta o quarant’anni fa e specializzato nella costruzione, pittura e scultura del carretto. Durante gli anni, il tradizionale carro a due stanghe venne via via modificato, perfezionato strutturalmente e adattato nella forma in funzione del prodotto da trasportare: u furmintaru per il frumento, u tirraluoru per terra e sabbia, u vinaluoru per le botti di vino. La realizzazione di un carretto era il frutto della collaborazione di più artigiani di specializzazioni differenti ed il tempo necessario alla sua realizzazione era comprensibilmente lungo. Secondo il numero di aiutanti di cui disponeva l’artigiano potevano volerci da due a tre mesi per completarne uno. Ed il prezzo di un carretto, negli anni cinquanta, si aggirava intorno alle 150.000 lire. Il costo di produzione era elevato a causa dei differenti legni pregiati utilizzati, alla forza lavoro mobilitata ed alla tecnica di costruzione. In particolare, i tipi di legni necessari per l’impostazione e la sagoma del manufatto, perfettamente stagionati, venivano scelti dai carradori e dai carrozzieri, in funzione della parte di carretto da realizzare: per la cassa il legno di abete, per le altre il faggio, per i raggi delle ruote il frassino. Un altro artigiano coinvolto nella realizzazione del carretto era l’intagliatore, che smussava gli angoli vivi del legno e li arricchiva di figure, scolpendo tutte le parti del carretto comprese quelle metalliche. Quindi il decoratore ed il pittore terminavano l’opera d’arte. Il primo si occupava di decorare con motivi geometrici le superfici della cassa e dei davanzali, mentre il secondo procedeva a preparare prima gli spazi da dipingere trattandoli con due o tre mani di vernice e poi a dipingere le scene. Il fonditore, detto anche u ramaturi, preparava le boccole, ossia le scatole metalliche a forma di tronco di cono incastrate nei mozzi delle ruote, che venivano realizzate con una lega composta da 78 parti di rame e 22 di stagno. Queste parti del carretto, durante il movimento, producevano un suono caratteristico senza il quale il carretto stesso non aveva alcun valore commerciale. Uno dei controlli, infatti, cui quest’ultimo veniva sottoposto prima di essere acquistato era proprio quello per testare la musicalità del suono delle boccole o “resa in tono”, oltre al controllo della stagionatura dei legni impiegati per la sua realizzazione (“resa in frasca”). L’ultimo artigiano coinvolto nella realizzazione di un carretto era il pellettiere, che lavorando la pelle realizzava basti, selle ed altri finimenti per il cavallo, il mulo o l’asino che tirava il carretto. I finimenti o “armiggi” sono vari. Tra questi ci sono anche i paraocchi, i pettorali, le cinghiette e quasi tutti i finimenti sono ornati da fiocchetti e frange di lana e di seta dai mille colori, piccoli specchi, nastri, piastre, borchie, sonagli e pennacchi, più o meno alti e molto variopinti. Gli elementi fondamentali della struttura del carro sono: le ruote a dodici raggi, arricchiti da intagli, fiori, sirene e teste di

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paladino, con cerchioni in ferro, collegate tra loro da un asse (detto fusu); le stanghe, munite di anelli di metallo per l’attacco dell’animale (ucchiali), tenute da una “chiave” anteriore ed una posteriore, scolpita e dipinta; la cassa delimitata da due sponde laterali (masciddari), decorate da entrambi i lati, sorrette da tre pioli per ogni sponda e da due davanzali, uno davanti ed uno dietro, poggianti su cunei; un portello posteriore per chiudere la cassa, che veniva tolto nel caso di carico e scarico merci. Nelle diverse aree dell’isola si distinguono quattro tipologie principali di carretto: il tipo palermitano, diffuso nella provincia di Palermo, Agrigento Caltanissetta e nelle aree limitrofe della provincia di Trapani; il tipo castelvetranese, diffuso nell’entroterra delle provincie di Trapani e Palermo; il tipo trapanese, diffuso lungo la fascia costiera della provincia di Trapani; e infine, il tipo catanese, diffuso nella Sicilia orientale, con alcune varianti nelle provincie di Ragusa, Vittoria e Rosolini. Gli elementi che distinguono il tipo di carretto palermitano sono: l'asse delle ruote, incassate in un travetto di legno scolpito e dipinto (cassa d’asse detta cascia fusu) , ornato di arabeschi in ferro battuto (rabeschi) e sormontato da due mensole di legno; tre pioli suddividono i laterali della cassa, di forma trapezoidale, in due riquadri o scacchi. Esso presenta un colore di fondo nei toni del giallo e decorazioni geometriche. Il carretto trapanese si distingue per essere più pesante degli altri e più dipinto che scolpito. Presenta ruote di grande diametro e quattro pioli sulle fiancate che suddividono le sponde in tre riquadri e la cassa è sormontata da una barra orizzontale. Il carretto castelvetranese ha l'asse delle ruote e le mensole simili a quello di Trapani e la cassa con i laterali simile al tipo palermitano. Nel carretto catanese, invece, le sponde laterali sono rettangolari e la tinta di fondo è rossa come la lava dell’Etna. I decori sulle varie parti che compongono il carretto avevano uno scopo ben preciso, che andava oltre la semplice ostentazione della bravura dei pittori o della ricchezza del proprietario. La pittura, in realtà, aveva il compito di proteggere il legno con cui veniva realizzata la struttura del carro, affinché il materiale durasse il più a lungo possibile in buone condizioni. I dipinti avevano anche altre due importanti funzioni: una era quella scaramantica e apotropaica e l’altra pubblicitaria, nel caso di venditori ambulanti. Infatti, la vivacità dei colori del carretto doveva attirare l’attenzione degli acquirenti. A parte i motivi geometrici, i generi dei decori che si trovano nei riquadri, sui portelli e sulle chiavi dei carretti possono essere raggruppate nei cinque generi seguenti: biblico e agiografico; storico - cavalleresco (scene tratte dai poemi epici come nell’opera dei pupi); leggendario - fiabesco; musicale (scene tratte da opere liriche); realistico (scene di caccia o altro). Normalmente sulla parte centrale della chiave posteriore, i soggetti scolpiti e dipinti che ricorrono più frequentemente sono quelli di genere storicocavalleresco, realistico e agiografico; mentre le scene raffigurate nella parte centrale della cassa, di vario genere, sono considerate come dei portafortuna, in grado di allontanare la malasorte e garantire prosperità al proprietario ed alla sua famiglia. Con l’avvento e la diffusione dei veicoli a motore, ormai il carretto siciliano è stato relegato ad un ruolo marginale e turistico e, con il passar del tempo, è sempre più difficile trovare gli artigiani in grado di produrli. Dunque, oggi è possibile vedere i carretti siciliani solo in occasione di sagre e feste folkloristiche o nei musei.

Rita Russo Photography

Le ruote decorate

"ucchiali"

"cascia fusu"

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Come già accennato nel paragrafo dedicato alla sezione naturalistica, la collezione Alliata, custodita da oltre vent’anni nel Museo d’Aumale, per la sua consistenza in termini di specie e di esemplari, ha sempre costituito per quest’ultimo il fiore all’occhiello delle collezioni entomologiche, nonostante questa non abbia mai avuto il giusto riconoscimento nel mondo della scienza naturalistica internazionale, perché del tutto inedita. Dunque, l’iniziativa di rendere la collezione accessibile a tutti, attraverso la pubblicazione del libro intitolato Gli insetti del Principe. La collezione entomologica di Raniero Alliata di Pietratagliata promossa dal Centro Regionale per l’Inventario la Catalogazione e la Documentazione (Cricd) della Regione Siciliana e curata dal Dr. Fabio Lo Valvo, rende onore a cinquant’anni di lavoro di ricerca sugli insetti oltre che alla memoria di un grande studioso che ha contribuito a far crescere l’importanza della Sicilia nell’ambito scientifico internazionale. Per la realizzazione del libro, oltre al lavoro di catalogazione degli esemplari della collezione, è stato effettuato un accurato lavoro di decodifica dei numerosi appunti e disegni (circa 1000), tutti inediti e lasciati scritti dallo studioso su qualunque supporto fosse possibile trovare spazio per scrivere (block notes di varie dimensioni realizzati con pagine ritagliate dai registri contabili, retro dei pacchetti di sigarette, ricevute di pagamento di lavanderie, ecc), dimostrando ancora una volta sensibilità e rispetto per la natura che egli studiava. Contestualmente alla pubblicazione del libro è stato realizzato, grazie anche al paziente lavoro di acquisizione fotografica di tutto il materiale della collezione, il sito web di supporto alla stessa, nel quale è stato inserito l’intero catalogo tassonomico della collezione, consultabile all’indirizzo https://gliinsettidelprincipe.cricd.it/ . Tutto ciò che si conosce sulla vita del principe Alliata, vista la sua riluttanza alle relazioni con il mondo, si deve esclusivamente alla testimonianza del nipote, Bent Parodi di Belsito, giornalista e autore del libro intitolato Il principe mago, nel quale sono descritti gli ultimi trent’anni della vita di quest’uomo fuori dalle regole. Raniero Alliata di Pietratagliata nacque a Palermo nel 1897 da Luigi Alliata e Bianca Notarbartolo di Villarosa. Ultimo figlio della coppia, dopo altri quattro venuti al mondo molto prima di lui, crebbe da solo con la severa nutrice tedesca. Fu chiamato a combattere durante la prima guerra mondiale e rimase ferito nella battaglia di Caporetto. Finita la guerra e rientrato a Palermo, il principe si lasciò conquistare dalle sue passioni: il gioco ed i cavalli. Ma la sua ultima batosta al gioco, dove lasciò quasi tutti i suoi averi, gli fece cambiare vita. Infatti, dal 1925, Raniero si ritirò nella sua villa di Via Serradifalco, a Palermo uscendo quelle rare volte solo per recarsi nelle campagne delle Madonie e dei Nebrodi, per studiare e arricchire la sua collezione di insetti. Questo singolare personaggio, uomo dalla personalità eccentrica e complessa, schivo di ogni mondanità, fece le sue scoperte entomologiche nonostante restasse quasi sempre chiuso nella sua villa. Malgrado ciò, la sua fama di entomologo raggiunse ugualmente il mondo accademico e scientifico che, dopo la seconda guerra mondiale, volle offrirgli una cattedra all’Università di Palermo, da lui più volte rifiutata. Chiuso nella sua casa, egli si dedicò anche all’arte figurativa realizzando bozzetti con varie tecniche. Ma la passione, coltivata fin da giovane, che prevaleva ossessivamente su tutte, era quella per lo spiritismo, che gli valse l’appellativo di “principe mago”. In quei tempi, infatti, a Palermo, si sentiva parlare spesso delle sedute spiritiche che si tenevano a casa Alliata attorno ad un tavolino a tre piedi. Egli ebbe rapporti anche con l’esoterista britannico, Edward Alexander Crowley, che per un periodo della sua vita dimorò a Cefalù. L’aristocratico studioso ebbe numerose donne ma ne amò una sola, la norvegese Helga, di umili origini, che, dopo tante tribolazioni ed un rapporto molto tormentato, diventò sua moglie. Helga morì prematuramente e con lei andò via forse l’unico essere terreno con il quale il principe mago avesse un dialogo. Gli ultimi anni della sua vita, che ebbe termine nel 1979 a 82 anni, furono contrassegnati da profonda solitudine.

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Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, Raniero fu testimone sulla propria pelle, della trasformazione che la città di Palermo subì a seguito della speculazione edilizia e a causa della quale vide seppellire dal cemento dei palazzi circostanti la sua splendida dimora in stile neogotico, un tempo completamente immersa nel verde. Dopo la sua morte, la villa, nascosta tra i palazzi, è rimasta abbandonata e nel tempo depredata dei suoi preziosi arredi. La proprietà di Via Serradifalco è stata di recente acquistata da un privato che ha iniziato i lavori di restauro sotto la supervisione della Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana.

Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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DA BASTIA A PORTO

VIAGGIO NEL NORD DELLA CORSICA

A cura di Claudia Lo Stimolo

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DA BASTIA A PORTO

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Ma dal 1° gennaio 2018 la Corsica è tornata alla “Collettivà unica” con la soppressione dei due dipartimenti. La strada dell’indipendenza è ancora lunga, semmai verrà raggiunta. Bastia, diamante grezzo del territorio corso, è caratterizzata da un’atmosfera quieta e colorata, in cui si può ammirare il volto moderno della Corsica, sullo sfondo di grandiosi capolavori architettonici. Passeggiare lungo l'affollata Rue Napoléon, che da Place St. Nicolas conduce alle labirintiche strade del Vieux Port, rende partecipi di un incontro tra il passato e il presente.

La regione è caratterizzata da un affascinante patrimonio architettonico, retaggio dei popoli che l’hanno abitata ed occupata nel corso dei secoli, i quali, pur avendo lasciato dietro di sé cupi e dolorosi ricordi, hanno donato all’isola splendide cappelle e chiese in stile romanico, pisano e barocco, come l’Église Saint-Jean-Baptiste, imponente chiesa barocca, che domina il Vieux Port a Bastia. A causa della notevole importanza strategica che l’isola aveva nella parte occidentale del Mediterraneo, fu il bersaglio di molteplici invasioni da parte dei vari imperi e popolazioni che si contendevano il mercato marittimo dell’epoca. Ancora oggi è nota la sua lotta per l’indipendenza, dopo decenni di battaglie la Corsica ottenne uno Statuto speciale e fu divisa in due dipartimenti: l’Haute Corse, con capitale Bastia, e la Corse du Sud, con capitale Ajaccio.

Sebbene la posizione in cui sorge l’attuale paese fosse già abitato in epoca romana, la città vera e propria fu fondata solo nel 1372, quando il governatore genovese decise di costruire la bastiglia, da cui prese poi il nome, in un punto più strategico e lontano dalla malaria che all’epoca infestava i borghi limitrofi. Nel 1453 la fortezza divenne il capoluogo della Corsica e il simbolo della dominazione genovese, e come tale fu soggetta a ripetuti saccheggi per mano di contadini scesi dalle montagne per protestare contro le imposizioni fiscali. Nonostante l’instabilità politica, gran parte del patrimonio architettonico risale proprio a questo periodo, tra le opere più importanti si possono visitare la Chapelle Saint-Roch e la Chapelle de l’Immaculée-Conception, quest’ultima con un sagrato a mosaico di ciottoli bianchi, verdi e ocra. Bastia perse in seguito il ruolo di prima città dell’isola a vantaggio di Ajaccio, a causa di un decreto imperiale nel 1811.

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DA BASTIA A PORTO

Claudia Lo Simolo Photography

Viaggiando verso Nord, lontano dal trambusto dei grandi centri, si raggiunge la punta dell’isola. Il Cap Corse è un lembo di terra rivolto verso il mare, che indica la direzione da seguire per partire alla scoperta di un territorio impregnato di storia, ricchezza naturale e patrimonio inestimabile. Il fascino di Erbalunga, Centuri e il panorama di Nonza non lasciano indifferenti i tanti turisti che soggiornano sull’isola; i villaggi di pescatori e i borghi arroccati sulle alture, infatti, creano un armonioso connubio tra patrimonio storico e paesaggistico. Nonza, ultimo paese del “dito”, appare come una visione: costruito in parte su uno spettacolare picco roccioso, domina un’immensa spiaggia di ciottoli neri, bagnata da acque di un azzurro irreale. La plage de Nonza deve le sue caratteristiche ai residui dell’attività della vecchia fabbrica di amianto di Canari. Il giacimento di questo minerale, a monte dell’edificio, fu sfruttato dal 1926 al 1965, oggi invece sorge come una struttura fantasma il cui destino rimane ancora ignoto. Il borgo, visto il poco spazio a disposizione, presenta case dislocate su appositi terrazzamenti e gradoni, questa particolare disposizione fu necessaria per proteggere gli abitanti dalle continue incursioni saracene. Le case, disposte nelle strette stradine e nei caruggi, sono caratterizzate da tetti in pietra grigia, portali scolpiti e colori tenui, quali rosa, ocra e verde. Giroinfoto Magazine nr. 67


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Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

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Poco più a sud si arriva a Saint-Florent, principale borgo abitato del Nebbio, microregione di Cap Corse. Centro storico e antica capitale, è una città fondata dai genovesi nel XIV secolo, oggi nota per il suo turismo e per i beni architettonici, che riflettono diverse influenze culturali sperimentate nel corso dei secoli. Sull’origine del nome si conoscono versioni discordanti: alcuni sostengono che derivi da San Fiorenzo, un vescovo africano esiliato in Corsica nel V secolo, mentre altri sostengono che derivi da un soldato romano martirizzato perché convertitosi al cristianesimo. In ogni caso, la città conobbe il suo massimo splendore all’epoca del dominio dei pisani e grazie alla sua posizione strategica durante la lotta contro i genovesi.

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DA BASTIA A PORTO

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Successivamente fu abbandonata e non fece più parlare di sé fino alla realizzazione del porto e al conseguente boom turistico. Tra Saint-Florent e L'Île-Rousse, si estende il Désert des Agriates, una macchia mediterranea che percorre la costa settentrionale della Corsica. Caratterizzato da un paesaggio arido e roccioso, permette di raggiungere le sue baie e i suoi golfi esclusivamente via mare, oppure tramite lunghe strade sterrate. In passato questa zona era tanto verde e fertile, oggi è arida e disabitata. Fino all’inizio del XX secolo la vita di questa terra era scandita dai ritmi della transumanza e della semina, inoltre questa regione era conosciuta anche per gli uliveti. Tuttavia la pratica diffusa della coltivazione a rotazione e gli incendi alimentati dai forti venti hanno trasformato il territorio in un deserto roccioso.

Désert des Agriates Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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DA BASTIA A PORTO

Saleccia Claudia Lo Stimolo Photography

Le formazioni scoscese dell’entroterra custodiscono gelosamente alcune delle spiagge più suggestive della Corsica, come la Plage de Saleccia, un paradiso naturale che offre allo sguardo la luminosa distesa di sabbia bianca, che si staglia in una natura incontaminata tra la brillante acqua limpida e cristallina. Stormi di gabbiani ed altri uccelli si rigenerano in una laguna a poche decine di metri dal mare, mentre buoi e mucche si avvicinano alle acque marine per rinfrescarsi dal caldo estivo, attirando migliaia di turisti che ammirano incuriositi il simpatico scenario che si presenta ai loro occhi.

Altro approdo suggestivo, dopo il Désert des Agriates, è Ostriconi. Si tratta di una regione dal fascino irresistibile che deve il proprio nome all’omonimo fiume, il cui delta costituisce, insieme alla spiaggia, il sito naturalistico, caratterizzato da stagni brillanti e morbide dune, che donano al peculiare panorama un aspetto inviolato. La Plage de l’Ostriconi, situata lungo l’insenatura di Peraiola, nel punto in cui la valle si apre sul mare, si svela come una scintillante distesa di sabbia bianca.

Ostriconi - Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Il panorama, che si estende sulla linea di costa proseguendo verso Calvi, incanta i numerosi visitatori che decidono di attraversare la macchia mediterranea a piedi o a cavallo. Affacciandosi dall’altra parte del litorale, invece, lo scenario si apre sull’arido mondo del Désert des Agriates, descritto in precedenza come regione brulla e selvaggia, miracolosamente scampata allo sfruttamento turistico e ora trasformata in riserva naturale.

Ostriconi Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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DA BASTIA A PORTO

Attraverso viuzze lastricate e piazze animate si apre L’Île-Rousse, situata nel cuore della Balagna. Conosciuta fino al 1848 con il nome di «Isola Rossa», deve le sue origini al colore rosso porpora delle rocce di porfido che, con il tempo, hanno formato vari isolotti. Il promontorio roccioso, che si estende davanti alla città vecchia, è totalmente spoglio, fatta eccezione per la torre del faro che può essere raggiunta attraverso un sentiero sempre molto affollato. Si capisce subito che si tratta di una cittadina dinamica, lambita da una piacevole passeggiata che costeggia una bella spiaggia di sabbia bianca, coronata sullo sfondo dalla penisola di granito rosso.

Isola Rossa Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Tra le gemme dell’entroterra spicca Pigna, un piccolo borgo arroccato che, grazie all’intento di artisti e artigiani che hanno trasferito nel corso del tempo atelier e laboratori, è riuscito a contrastare la dimenticanza, l’abbandono e la decadenza in cui versano molti villaggi montani, ritrovando attraverso i restauri gli antichi splendori. Passeggiando per le deliziose e pittoresche vie si può respirare un connubio di creatività, bellezza e cultura, tra botteghe di vasai, liutai, scultori, pittori e musicisti, immergendosi a pieno nel vero senso dell’arte vissuta come essenza di vita e quotidianità.

Pigna Claudia Lo Stimolo Photography

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DA BASTIA A PORTO

Calvi Claudia Lo Stimolo Photography

Verso la punta Nord-Occidentale, incastonata in un costone roccioso dell’alta Corsica, sorge la cittadina di Calvi. Gioiello di architettura, cinto da mura color ocra, si divide in due zone principali: la Marina, caratterizzata dal piccolo porto, dove ogni mattina approdano numerose barche di pescatori, e la cittadella, che si erge dietro ai bastioni. Da sempre la città nutre profonda ammirazione per lo “scopritore del nuovo mondo”, infatti si racconta che proprio a Calvi, nella cittadella oggi in rovina, si trovi la casa in cui nacque Cristoforo Colombo. I resti diroccati sarebbero, secondo alcune ricostruzioni, presenti in Rue Del-Filo, precedentemente conosciuta come Rue des Tisserand o Caruggio del Filo dove, nel giugno 1886, venne apposta una targa recante un’iscrizione: «Ici est né en 1441 Christophe Colomb immortalisé par la découverte

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du nouveau monde alors que Calvi était sous la domination génoise, mort a Valladolid, le 20 mai 1506». Le parole dell’abate Martin Casanova furono di profonda ispirazione: «In questa casa in rovina, baciata dal sole e dalla brezza dei golfi, l’eroe dei mari era lì e il suo sguardo ancora fanciullo galleggiava sulle onde e si faceva trasportare dai venti impetuosi in quelle spiagge lontane da cui l’eco proveniva». Nessuno può affermare con certezza le presunte origini dell’ esploratore che, in ogni caso, volse presto lo sguardo verso nuovi orizzonti, senza lasciare nient’altro all’Isola che un’ipotetica casa natale.


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Porto Claudia Lo Stimolo Photography

Procedendo verso il confine tra il Nord e il sud della Corsica, si incontra Porto, suggestiva cittadina corsa, situata nella costa occidentale, che si erge tra impressionanti falesie e blocchi rocciosi che cedono il passo al magnifico Golfo di Porto, classificato dal 2006 come Patrimonio Mondiale dell’umanità dall’Unesco.

paesaggi suadenti dell’Isola, quali le scogliere basaltiche sulla punta più occidentale del promontorio.

Passeggiando lungo le stradine del porticciolo, si può ammirare la caratteristica Torre Genovese, una struttura difensiva risalente al XVI secolo, costruita per avvistare le incursioni delle navi saracene e dare l’allarme per preparare la difesa.

Istituita nel 1975, deve la sua eccezionalità a una felice combinazione di fattori, tra cui il clima molto favorevole e la variegata conformazione rocciosa. Tali caratteristiche contribuiscono a rendere questo tratto di costa un habitat ideale per numerose specie vegetali e animali. La riserva è gestita dal Parc Naturel Régional de Corse e nel 2003 è stata inserita nel programma di ricerca Biomare tra i siti più ricchi del pianeta in termini di biodiversità.

Ultima tappa di un viaggio in Corsica, risalendo poco più a nord, potrebbe essere la riserva naturale di Scandola. Da quest’area naturalistica si possono ammirare alcuni tra i

Un viaggio alla scoperta di una terra selvaggia, tra paesaggi marini e promontori rocciosi, risveglia la voglia innata di viaggiare che ognuno di noi porta nel cuore.

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Riserva naturale di Scandola Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

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A CURA DI PIERLUIGI PEIS Sui libri di scuola abbiamo imparato che l'uomo ha cominciato a navigare da più di tremila anni ma il mare, le tempeste e le guerre hanno fatto affondare inesorabilmente tantissime imbarcazioni; poi sono stati inventati anche gli aeroplani e, si sa, una cosa che vola può sicuramente cadere e visto che il nostro pianeta è coperto per lo più d'acqua, tanti sono caduti in mare. Giroinfoto Magazine nr. 67


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Secondo l'Unesco ci sono oltre tre milioni di relitti disseminati sui fondali di tutto il mondo e il nostro Mediterraneo ha un’incredibile presenza di navi affondate, da quelle di grande valore storico o archeologico a quelle che hanno creato indicibili danni ambientali a quelle che hanno nascosto o nascondono inestimabili tesori. Per me e per molti subacquei, i relitti più affascinanti dei mari italiani sono quelli affondati durante la Seconda guerra mondiale, forse perché si conosce la storia, forse perché molti sono ancora abbastanza integri e forse perché quella guerra è ancora molto sentita per la vergogna che dovrebbe portare il genere umano verso i sui simili. Durante la guerra nei nostri mari si sono scontrate tra loro tante nazioni e le battaglie navali, gli incidenti e le mine hanno riempito i fondali del mare di relitti e rottami più o meno misteriosi e affascinanti, alcuni noti e con storie curiose e intriganti, altri di cui non si sa nulla e non si riesce a scoprire niente, altre navi si sa che sono state affondate ma non sono state ancora trovate. Molti relitti si trovano a profondità proibitive per i subacquei, alcuni invece raggiungibili solo con attrezzature e capacità tecniche, alcuni invece visitabili anche dai comuni subacquei come me.

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Pierluigi Peis Photography

Partenza dal porticciolo turistico di Cala Gonone con un bel barcone, dopo circa una quarantina di minuti raggiungiamo il punto previsto per l’immersione. Siamo due gruppi di subacquei: uno con cinque sub più la guida e l'altro con quattro sub (me compreso) e un’altra guida.

La prua affondò immediatamente, mentre la nave incendiata andò alla deriva per 40 minuti prima di affondare a sua volta. La guida ci ha riferito che non ci furono sopravvissuti, anche chi riuscì a raggiungere la costa morì in ospedale per le ustioni riportate nell'incendio.

Bellissimo relitto, giace in perfetto assetto di navigazione, a circa un miglio da terra, di fronte alla spiaggia di Orosei, adagiato su un fondale di 34 m.

Molto suggestivo il cannone di poppa con la canna puntata verso il cielo, nel punto d’impatto del siluro le lamiere sono contorte e deformate dall'esplosione e da lì entriamo per poi uscire dall'alto nel mezzo della nave. Dopo un’ora in superficie ci immergiamo dov'è affondata la prua: impressionante! Poi, seguendo una sagola, andiamo alla ricerca di parti del carico sparse, distribuite sulla sabbia tra la prua ed il resto della nave: camioncini, carrelli, fusti di carburante e rottami vari.

Nave militare tedesca da carico, armata, adibita al trasporto di vettovagliamenti, automezzi e carburanti verso il nord Africa. Al suo primo viaggio, il 10 giugno 1943 fu attaccata dal sommergibile inglese Safari ed un siluro la colpì a prua, staccandola di netto. Sara Mangia Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Dopo poco più di cinque anni ritorno sul fantastico relitto di Orosei, il KT12. Questa volta trovo qualche dettaglio in più e qualche dettaglio cambia, sia da internet che dal briefing della guida, tra l'altro lo stesso diving e la stessa guida dell'immersione del 2014. KT sta per “Krieg Transporte”, ovvero trasporto da guerra, ed era la sigla per indicare una serie di navi usate dalla Kriegsmarine, la marina tedesca. Sul KT12, costruito a Livorno, c’era un equipaggio di 30 persone. La guida ci dice che forse non era il suo primo viaggio e che forse ne aveva già effettuati altri. Inoltre, contrariamente a quanto appreso durante l’escursione precedente, scopro che ci furono tre superstiti, uno fu anche ritrovato in Germania e intervistato da Egidio Trainito: si chiamava Jurgen Weinberg ed era un ufficiale in seconda di 21 anni quando il KT12 è affondato. Quando venne sferrato l’attacco si gettò in acqua con il giubbotto salvagente e fu recuperato da una lancia, riuscendo così a evitare l'incendio che scoppiò a causa del carburante andato a fuoco; in molti di quelli che si erano buttati in mare morirono bruciati mentre nuotavano nel tentativo di salvarsi. Il KT12 trasportava anche delle strutture mobili che si possono considerare dei precursori dei radar che dovevano essere sperimentati in nord Africa. Pierluigi Peis Photography L'immersione è molto piacevole e la visibilità molto buona, riesco a godermi il relitto in tutta la sua bellezza, riuscendo anche ad andare sul fondo e vedere la pala del timone e l'elica e noto che da questa si allontana, parallela lungo tutta la fiancata di sinistra, una grossa catena. Il punto di maggior attrazione rimane comunque il grosso cannone puntato verso il cielo, poi gli osteriggi e gli alloggi per le mitragliatrici ed è veramente molto entusiasmante percorrere tutta la coperta dallo squarcio della prua, assente, fino a poppa come se si volasse. Prima di risalire uno sguardo anche ai carrelli, probabilmente dei precursori del radar, dove vi è legata la cima per risalire. Purtroppo oggi c'è corrente e la guida del Diving preferisce evitare di andare a visitare la prua, così per la seconda immersione andiamo su una secca ridossata, poco lontano.

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Doppia immersione partendo dal porto di Lavagna, con un dive center, ai relitti conosciuti come “Cargo Armato” e “Bettolina”. Durante il tragitto per arrivare a Lavagna, in autostrada, circa all'altezza di Aulla mi coglie una brutta tempesta: piove, grandina, la temperatura si abbassa, lampi e tuoni, il cielo si fa nero.

Giace ad una profondità tra i 28 ed i 36 metri, il relitto è diviso in due tronconi e ci sono diversi rottami sparsi sul fondo. Si vedono gli alloggiamenti delle mitragliatrici, gli osteriggi, scale, cime di ormeggio, bitte, passamani, un argano, grossi spirografi, bei saraghi, qualche paguro, circondati dalle solite castagnole.

Fortunatamente quando arrivo a Lavagna il tempo non è male: un po' nuvoloso, un vento leggero, in mare un po' di onda ma l’uscita in gommone è fattibile. Una volta preparata l'attrezzatura si sale in gommone e si salpa verso Sestri levante. Prima immersione al “Cargo Armato” un ex peschereccio d'altura costruito in Francia nel 1926 che si chiamava “Islande” e nel 1938, passando a un’altra società di pescatori, cambia il nome in “Cap Nord”.

In gommone eravamo una dozzina, divisi in gruppi, io ero con uno straniero ed un altro ragazzo, senza guida, la visibilità era pessima come è solita su questi relitti, dopo una mezz'oretta si risale, sulla cima, ho accumulato un po' di deco e faccio due brevi soste. Mentre aspetto che risalgano tutti ho il tempo di cambiare rapidamente la bombola a bordo. Una volta risaliti tutti ci dirigiamo al porticciolo di Sestri Levante dove facciamo una pausa di un’oretta e gli altri cambiano le bombole, qualcuno va al bar, io faccio una passeggiata a guardare la quotidianità del porticciolo tra pescatori che sistemano le reti, turisti, fotografi che immortalano una coppia di sposi, gabbiani in cerca di pesce.

Requisito dai tedeschi nel 1942 per essere usato come cacciasommergibili, prende il nome di UJ2207. La nave affonda il 19 novembre 1944 colpita da motosiluranti inglesi e americani nei pressi di Sestri Levante.

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Ci rimettiamo in mare ed andiamo verso il relitto della “Bettolina”, un barcone fluviale olandese, lungo 35 metri, chiamato “Gretha”, requisito dai tedeschi e rinominato “Jorn”, usato per trasportare rifornimenti vari ai paesi costieri isolati a causa dei continui bombardamenti che avevano distrutto strade e ferrovie. Il relitto si trova sempre al largo di Sestri Levante, un po' più vicino a terra rispetto al “Cargo Armato” e a una profondità inferiore, tra i 26 e i 31 metri. Bombardata da un aereo inglese e affondata la notte del 12 febbraio 1944 mentre trasportava sacchi di cemento, forse per costruire dei bunker contro i continui bombardamenti aerei, sembra che dell'equipaggio, quattro uomini tedeschi, non si sia salvato nessuno. Seconda immersione della giornata, la faccio in Nitrox con una miscela al 31% di ossigeno per poter stare un po' più tempo a fondo senza accumulare troppo azoto. Appena si arriva sul relitto si nota una grande ruota a raggiera che era il sostegno orientabile di una mitragliatrice antiaerea che ormai non c'è più da tanti anni, ed è un po' la particolarità che distingue questo relitto, la murata di sinistra a un certo punto si interrompe, dove è stata colpita dalla bomba che l'ha fatta affondare.

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All'interno, nelle grosse stive a cielo aperto è pieno di sacchi di cemento perfettamente stivati e ormai pietrificati. Faccio una piccola visita sul fondo, a poppa, per ammirare l'elica ed il grosso timone in ferro. Risalendo, dalle aperture si nota una cucina con stufa ed attrezzi, qui perdo un piombo di zavorra che avevo nella tasca del gav, non vedo dove cade, purtroppo, e rimane lì. Continuando si vede anche una scala e l'osteriggio della sala macchine, sopra la cabina di pilotaggio c'è il basamento di un’altra mitragliatrice, anche questa sparita chissà quando e finita chissà dove. A prua si vedono gli occhi di cubia e le bitte d'ormeggio. Anche sulla “Bettolina” la visibilità oggi è pessima, forse peggio che al “Cargo Armato”. L'immersione è durata una quarantina di minuti e ho accumulato un po' di deco che ho smaltito con due tappe mentre risalivo, sempre sulla cima. Rientrati a Lavagna, metto via la mia attrezzatura, mi faccio una doccia e dopo due ore e mezzo di macchina sono a casa.

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Dopo diversi anni che mi riprometto di visitare il relitto dell'Equa, questa volta ci riesco. È la prima volta e sono stato molto fortunato, di solito la visibilità del sito è molto scarsa, invece ho trovato una buona visibilità e l'acqua un po' torbida solo a poppa. Il relitto si trova a circa due miglia da terra, quasi di fronte a Riomaggiore, uno dei borghi delle cinque terre. L'escursione comincia col viaggio in gommone da Fiumaretta d'Ameglia, oltre al barcaiolo e la guida ci sono altri quattro subacquei che incontro per la prima volta. Ci vogliono circa quaranta minuti di navigazione, la giornata è stupenda, un bel sole e il mare piatto. Appena arrivati al sito trovano subito il pedagno, pochi minuti di preparazione e ci tuffiamo, non c'è corrente, veloce controllo tra compagni poi si va giù, verso il relitto che già fa vedere la sua sagoma. L'Equa è il relitto di una nave cacciasommergibili speronata da un’altra cacciasommergibili tedesca nel 1944, alcune fonti dicono scambiata per unità nemica, altre fonti, incidentalmente perché non vista. L’Equa fu varata nel 1929 a Napoli come nave mercantile, nel 1940 venne requisita dalla Regia Marina durante la Seconda guerra mondiale e armata e riadattata a nave militare.

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Nel 1943 venne requisita dalla Kriegsmarine e poi ceduta alla Repubblica Sociale Italiana. Si trova su una distesa di sabbia e fango, in assetto di navigazione, leggermente sbandato a sinistra, poggiato a circa quaranta metri con il ponte superiore, a circa trentaquattro metri. L'immersione è bellissima e suggestiva, mi aspettavo una visibilità pressoché nulla e ad ottobre non mi aspettavo l'acqua a 22 gradi. Il relitto è piccolo e nel poco tempo a disposizione per noi sub ricreativi si riesce ad avere una visione generale completa. Il relitto è circondato da castagnole, alcuni spezzoni di reti da pesca offrono riparo a tanti animali marini, ma il punto di forza è il suo cannone puntato verso un fantomatico nemico ma molto bello è anche l'argano che si trova poco più a prora e se ci si allontana un po' si può ammirare la bellissima prua, insomma, quest'immersione mi ha emozionato tantissimo ed esco dall'acqua con un sorriso che mi va da un orecchio all'altro. Ritorno sul relitto della Motonave Equa altre due volte, con un altro diving, da San Terenzo, la prima volta il 9 giugno 2019, che in teoria è il settantacinquesimo anniversario dall'affondamento.


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Dico in teoria perché nel numero 45 di Scubazone, un magazine di subacquea, c'è un articolo sull'Equa e c'è scritto che secondo fonti tedesche la notte del 18 aprile 1944 l'Equa, oscurato, pattugliava il litorale delle Cinque Terre quando venne speronato dall'unità tedesca UJ2220, oscurato anch'esso, che non la riconobbe o non la vide in tempo, ed affondò mentre l'UJ2220 restò danneggiato ma a galla. Non ci furono vittime, tutto l'equipaggio venne tratto in salvo. Secondo l'Ufficio Storico della Marina Militare il fatto avvenne nella notte tra il 9 e il 10 giugno. Sempre da Scubazone 45 poi leggo che fu costruita tra il 1928 e il 1930 a Taranto per conto di una società di navigazione di Napoli per il collegamento con le isole dell'arcipelago campano ed era una motonave passeggeri, lunga poco meno di 40 metri e larga poco meno di sette, realizzata in acciaio, dotata di una singola elica mossa da due motori diesel a quattro tempi che gli consentiva di raggiungere i 12 nodi. La visibilità il 9 non è delle migliori ma nemmeno così male, invece il 23 giugno 2019 la visibilità è incredibile, si riesce a vedere tutta la nave per intero già a venti metri di profondità o forse anche meno e ammirare il relitto così è veramente impressionante.

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Alle 5:15 mi metto in viaggio verso Genova, verso le 8:00 esco dal casello di Nervi e in poco più di 10 minuti arrivo alla fiera di Genova, famosa per il salone nautico che si svolge ogni anno in settembre. Parcheggio davanti al padiglione blu a pochi metri dal Libeccio Tek Diving. Verso le 10 salpiamo con il grosso gommone e ci dirigiamo verso levante, pochi minuti di navigazione e ci fermiamo a circa 1,5 miglia da terra, tra Sturla e Quarto.

Fu varato nel 1927 nei cantieri di Castellamare di Stabia (NA), era lungo quasi 70 metri e largo 10, aveva due motori diesel da 700 cavalli l'uno, poteva raggiungere i 10 nodi ed aveva un equipaggio di 71 uomini. Era dotato anche di un cannone e due mitragliatrici. Fu la prima nave italiana fatta colare a picco dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 dall'ex alleato tedesco. L'armistizio la sorprese nel porto di Genova.

Per l'immersione siamo quattro sub, mentre il proprietario, la moglie ed un amico restano in gommone. Io vado giù con un signore che mi sembra di aver già visto da qualche parte e l'altra coppia sono marito e moglie di Modena, andiamo giù senza guida. Il cielo è pulito e il mare calmo, in superficie c'è una buona visibilità che dopo i 20 metri purtroppo peggiora ma rimane comunque accettabile.

La mattina del 9 settembre per evitare la cattura da parte dei tedeschi che stavano occupando la città, il Pelagosa molla gli ormeggi e si dirige verso il porto di Livorno non ancora occupato. I tedeschi nella notte avevano occupato le batterie e i bunker sulle alture di Nervi e quando videro la nave aprirono il fuoco senza nessun avviso, centrando la nave e affondandola.

Il Pelagosa era una nave da guerra posamine italiana della Seconda guerra mondiale, un unità dedicata alla posa di torpedini sottomarine, soprattutto per creare sbarramenti sotto costa contro l'intrusione di sottomarini nemici.

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Il relitto è molto rovinato, ci sono lamiere e rottami sparsi sulla sabbia e la caratteristica particolare è che il troncone principale si trova capovolto, con la chiglia che guarda il cielo, posato su un fondo fangoso a circa 38 metri dalla superficie. Scendiamo seguendo il cavo del pedagno che ci porta a poppa dove si vedono bene la grossa pala del timone e i due reggi alberi delle eliche che non ci sono più. Proseguendo verso prora, sul lato di dritta, tra i confusi rottami, spunta una torretta. Il signore che è sceso con me, come da accordi presi in precedenza, penetra all'interno del relitto mentre io proseguo l'esplorazione esterna fino alla prua e affacciandomi all'interno in alcune spaccature. La prua è staccata dal troncone principale ed è molto mal ridotta, su uno spuntone ci sono uova di calamaro. Ci ritroviamo a poppa e cominciamo la risalita insieme dopo poco meno di 20 minuti di fondo con una miscela EAN 30%

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e una durata totale di 30 minuti senza accumulare minuti di deco. Ad un certo punto, mentre risaliamo, intorno a noi gira un banco di tonnetti e quando riemergiamo, poco distante dal gommone vediamo dei delfini. Una volta a bordo il gommone fa i capricci e non parte ma ci lavorano su e con un po' di fortuna riescono ad accenderlo. Con la stessa bombola, rientrati al molo e aspettato altri subacquei ci rimettiamo in mare e faccio un’altra immersione sul lato esterno, in un angolo della diga foranea, del porto di Genova dove c'è il relitto di una chiatta usata per il trasporto dei massi per la costruzione della diga. Immersione facile e divertente. Verso le 15:30 mi rimetto in macchina ed arrivo a casa verso le 19:00.

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Posso senz'altro affermare che sia stata la curiosità di vedere questo aereo sommerso della Seconda guerra mondiale che mi ha fatto arrivare in Salento in un viaggio improvvisato, merito di alcune foto su internet che mi sono capitate davanti e di un articolo di qualche anno fa sulla rivista Sub Underwater Magazine che me lo ha fatto inserire nell'elenco virtuale delle immersioni da fare prima o poi. L'idea era di stare in campeggio a Rivabella, qualche chilometro a nord di Gallipoli, tre o quattro giorni ma ho trovato un vento da sud che per qualche giorno non ha permesso di fare l'immersione comunque non voglio andar via senza averlo visto. Prima immersione sul Junker 88 il mercoledì, con un diving di Santa Caterina di Nardò, ovvero il mio sesto giorno in Puglia. Con questo diving ho già fatto un’immersione due giorni prima sul relitto del Neuralia, un relitto che ha fatto la Prima e la Seconda guerra mondiale di cui rimangono solo tanti rottami e lamiere sparse nel mare davanti a Porto Cesareo, quindi arrivo con un po' di anticipo e so già come muovermi. In pochi minuti di navigazione, col gommone, arriviamo sul punto gps, il relitto non è pedagnato quindi lanciano un pedagno “volante” solo che c'è un po' di corrente e al primo tentativo ci spostiamo troppo e quindi ci si riprova, la seconda volta va meglio.

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Quando siamo tutti pronti e in acqua, appena la guida ci dà il via, io scendo veloce per provare a scattare qualche foto senza troppa gente in mezzo, giù ci sono già un fotografo e la sua modella che avevano chiesto di potersi immergere prima proprio per evitare questo problema. Comunque la corrente stava spostando il pedagno, il peso sulla sabbia non era abbastanza pesante da contrastarla e si è messo ad “arare” e quando arrivo sul fondo, a 35 metri, non vedo il relitto, non voglio aspettare tutto il gruppo e quindi nuoto contro corrente fino a che non si intravede, arrivo da dietro e vedo i due che fanno foto, mi alzo di qualche metro, volando sopra l'aereo e il colpo d'occhio è veramente emozionante, faccio in tempo a scattare solo qualche foto e poi arriva tutto il gruppo e siamo veramente tanti per questo sito, che è relativamente piccolo, l'apertura alare è di circa venti metri e la fusoliera sarà al massimo una quindicina di metri, sulla sabbia, intorno non c'è altro se non, diversi metri dietro l'ala destra, i resti della coda che si è staccata dalla carlinga, con disegnata una svastica, per alcuni ancora riconoscibile, ma non per me, che faccio veramente fatica ad identificarla tra le alghe che coprono questo pezzo di lamiera, e il ruotino del carrello.


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La copertura trasparente che chiudeva l'abitacolo non c'è e si vede bene il seggiolino del pilota e quel che resta delle apparecchiature di comando, il tutto ricoperto da incrostazioni e spugne, i due motori sono per metà insabbiati, non ci sono le eliche e anche qui le spugne la fanno da padrone, le ali sono impressionanti e davanti a quella sinistra c'è ancora il fanalino colorato dove la guida mette all'interno la torcia per farci capire che cos'è.

Il fatto che la coda sia staccata, sia in assetto di volo e non ci siano tracce di buchi da proiettili visibili fanno pensare ad un guasto tecnico. Non sono stati trovati resti umani tanto meno nessuna targhetta di riconoscimento, né bombe o armi, o ne era sprovvisto e quindi non impegnato in un’azione di guerra, o sono state rubate da qualcuno che lo ha trovato in passato e tenuto nascosta la notizia.

L'articolo su Sub Underwater Magazine di marzo 2017 dice che è stato “scoperto” nel 2009 dal diving con cui faccio l'immersione. Gli anziani del posto raccontavano di un aereo caduto in quelle acque ma molti pensavano fosse ormai una leggenda visto che non ci sono documenti che affermino la perdita dell'aereo. Ho visto anche un video su youtube dove il proprietario di un altro diving sosteneva di averlo trovato negli anni novanta ma non avendo il gps, in seguito, non era più stato in grado di trovarlo.

L'aereo è un Junker 88, o come lo chiama Wikipedia, Junkers Ju 88, era un bombardiere bimotore ad ala bassa prodotto in Germania dalla metà degli anni trenta ed è stato il velivolo più versatile della Luftwaffe, l'aeronautica nazista. Fu prodotto ininterrottamente dal 1936 al 1945 in dozzine di versioni per un totale di circa 16000 aerei.

Non si sa né quando è affondato né il perché. Come ho già detto non ci sono documenti o notizie a riguardo ma solo le testimonianze sbiadite dei vecchi abitanti della zona. Si ipotizza che sia ammarato e una serie di dettagli sembrano confermarlo.

Veniva usato soprattutto come bombardiere, aereo da ricognizione, caccia notturno, aerosilurante, aereo da attacco al suolo e poteva raggiungere gli oltre 600 km/h. A detta di molti, forse, l'aereo più performante della Seconda guerra mondiale. Un’immersione tuttavia facile, ma il fatto che un relitto aereo della Seconda guerra mondiale sia così ben conservato e quasi integro, con un gran bel colpo d'occhio e l'aura di mistero che lo avvolge, la rendono molto avvincente ed entusiasmante.

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Rimane solo un ammasso di macerie, lamiere e rottami arrugginiti, qualche ordinata che si alza per qualche metro verso il cielo come cactus nel deserto. Il Neuralia era una nave britannica lunga 146 metri, larga 17 con un pescaggio di 9 metri e alta forse una trentina di metri, poteva raggiungere quasi i 15 nodi grazie alle due caldaie a vapore che muovevano due eliche, costruita come nave passeggeri e cargo nel 1912 a Glasgow, in Scozia, per il trasporto truppe in tempo di pace tra Londra e Calcutta. Durante la Prima guerra mondiale il Neuralia fu utilizzato come nave ospedale nel Mar Mediterraneo, soprattutto nelle operazioni navali nei Dardanelli, e nelle acque Indiane con base in Gran Bretagna. Al termine della Prima guerra mondiale tornò ad essere una nave passeggeri. Nel corso della Seconda guerra mondiale il Neuralia svolse nuovamente mansioni militari. Nel 1944 partecipò, in qualità di nave appoggio allo sbarco in Normandia, dopo l’invasione da parte delle forze alleate, e compì diversi viaggi di andata e ritorno, trasportando circa 27.000 uomini delle truppe alleate sulle coste francesi. Diventa un relitto a circa un miglio dalla costa di Torre Inserraglio, tra Porto Cesareo e Gallipoli, il primo maggio del 1945 mentre andava verso Taranto a prelevare dei prigionieri

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di guerra tedeschi, impattando una mina galleggiante che aprì una grossa falla che fece imbarcare rapidamente troppa acqua che la fece affondare poco dopo, due uomini morirono e due risultarono dispersi. Dopo la guerra i sommozzatori svolsero molti lavori soprattutto per recuperare parti importanti e poi probabilmente fu fatta saltare con la dinamite per non arrecare pericolo alla navigazione, finendo di distruggere e rendendo irriconoscibile la nave. Tutto ciò che rimane è adagiato su un fondale di sabbia a 33 metri, l'insieme è molto confuso, difficilmente riconoscibile, qualche tubo, lamiere, piccoli rottami e travi incrostate di spugne, qualche filtro di maschera antigas e una pila di elmetti incastrati tra alcune lamiere che mi fa vedere la guida e che riconosco solo perché ne aveva parlato nel briefing in gommone prima dell'immersione. Ci sarebbe da guardare e cercare tra i rottami per delle ore alla ricerca di curiosità e piccoli abitanti marini ma il tempo è poco, prendo anche sei minuti di deco. A mio parere l’immersione è stata molto intrigante e affascinante anche se è vero che non si ha la visuale, neppure parziale, della nave, nessuna sagoma, nessuna forma, ma solo un mucchio di lamiere, rottami e travi, ma la storia del relitto è interessante ed è avvolto da coloratissime spugne, vita marina e piccoli particolari sorprendenti.


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DISPLACED - RICHARD MOSSE

© Richard Mosse Lost Fun Zone, eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * Courtesy of the artist and carlier | gebauer, Berlin/Madrid

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Fondazione MAST presenta

DISPLACED LA PRIMA MOSTRA ANTOLOGICA DEL FOTOGRAFO RICHARD MOSSE La Fondazione MAST presenta Displaced, la prima mostra antologica dell’artista Richard Mosse. Curata da Urs Stahel, la mostra presenta un'ampia selezione dell'opera del fotografo irlandese, un’esplorazione tra la fotografia documentaria e l’arte contemporanea su Migrazione, Conflitto e Cambiamento climatico, che ha l’intento di mostrare quel confine in cui si scontrano i cambiamenti sociali, economici e politici. In mostra alla Fondazione MAST sono esposte 77 fotografie di grande formato inclusi i lavori più recenti della serie Tristes Tropiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana. Oltre a queste straordinarie immagini, la mostra propone anche due monumentali videoinstallazioni immersive, The Enclave (2013) e Incoming (2017), un grande video wall a 16 canali Grid (Moria) (2017) e il video Quick (2010). “Richard Mosse crede fermamente nella potenza intrinseca dell’immagine, ma di regola rinuncia a scattare le classiche immagini iconiche legate a un evento. Preferisce piuttosto rendere conto delle circostanze, del contesto, mettere ciò che precede e ciò che segue al centro della sua riflessione. Le sue fotografie non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, in altri termini il momento culminante, ma il mondo che segue la nascita e la catastrofe. L’artista è estremamente determinato a rilanciare la fotografia documentaria, facendola uscire dal vicolo cieco in cui è stata rinchiusa. Vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”, spiega il curatore Urs Stahel.

© Richard Mosse Yayladağı refugee camp, Hatay Province, Turkey, 2017 ** Private collection SVPL

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DISPLACED - RICHARD MOSSE

© Richard Mosse Mineral Ship, Crepori River, State of Para, Brazil, 2020 **** Courtesy of the artist and carlier | gebauer, Berlin/Madrid

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I PRIMI LAVORI (MAST.Gallery)

Richard Mosse inizia a occuparsi di fotografia nei primi anni 2000, mentre termina gli studi universitari. I suoi primi lavori scattati in Bosnia, in Kosovo, nella Striscia di Gaza, lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti sono caratterizzati dall’assenza quasi totale di figure umane. Solo nelle immagini che compongono la serie Breach (2009), incentrata sull’occupazione dei palazzi imperiali di Saddam Hussein in Iraq da parte dell’esercito americano, sono presenti personaggi in azione. Questi primi lavori documentano le zone di guerra dopo gli eventi, non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, ma il mondo che segue la catastrofe. Immagini emblematiche di distruzione, sconfitta e collasso dei sistemi: l’aftermath photography, la fotografia dell’indomani.

© Richard Mosse Come Out (1966) XXXI (Triple Beam Dreams), eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * Private collection SVPL

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DISPLACED - RICHARD MOSSE

© Richard Mosse Of Lilies and Remains, eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * DZ Bank Art Collection Giroinfoto Magazine nr. 67


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INFRA

(MAST.Gallery)

THE ENCLAVE

(Livello 0)

Tra il 2010 e il 2015, prima per Infra e poi per The Enclave, complessa videoinstallazione in sei parti sullo stesso tema, Richard Mosse si reca nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Nord Kivu, dove viene estratto il coltan, un minerale altamente tossico da cui si ricava il tantalio, materiale che trova largo impiego nell’industria elettronica e che è presente in tutti i nostri smartphone. Il Congo, ricco di risorse minerarie, una delle aree più ricche dell’intero continente africano, è segnato da continue guerre e disastri umanitari senza precedenti: dopo il genocidio in Ruanda del 1994 le milizie ribelli stabilitesi nella Repubblica democratica del Congo non hanno mai smesso di alimentare nuove ondate di violenza. Per i suoi scatti in queste zone devastate Mosse ha scelto Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi, ormai fuori produzione, messa a punto per localizzare i soggetti mimetizzati. Negli scatti di Infra, la pellicola registra la clorofilla presente nella vegetazione e "rende visibile l'invisibile", con il risultato che la lussureggiante foresta pluviale congolese viene trasfigurata in uno splendido paesaggio surreale dai toni del rosa e del rosso. In Infra sono fotografati paesaggi maestosi, scene con ribelli, civili e militari, le capanne in cui la popolazione, sempre in fuga, trova momentaneo riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili. Con questa serie e questa tecnologia, Richard Mosse vuole scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra. Con l’imponente videoinstallazione in sei parti The Enclave, progetto gemello di Infra, Richard Mosse svela il contrasto tra la magnifica natura della foresta della Repubblica Democratica del Congo e la violenza dei soldati dell’esercito e dei ribelli. Tra l’erba alta e nella rigogliosa boscaglia si susseguono azioni militari, addestramenti e scontri tra i combattenti. I rumori, al pari delle immagini, sono intensi e aggressivi, quasi dolorosi, dopo la carrellata della telecamera sui soldati uccisi. I suoni diventano poi melodie e lasciano spazio ad un paesaggio ridente, aperto e calmo. Il fotografo e regista, accompagnato dall’operatore Trevor Tweeten e dal compositore Ben Frost, ha realizzato The Enclave per il Padiglione Irlandese alla 55° edizione della Biennale di Venezia nel 2013, ispirandosi al celebre romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

© Richard Mosse Souda Camp, Chios Island, Greece, 2017 ** MOCAK Collection, Krakow

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MOSTRE

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HEAT MAPS

(MAST.Gallery Foyer)

INCOMING (Livello 0)

Dal 2014 al 2018 Mosse si è concentrato sulla migrazione di massa e sulle tensioni causate dalla dicotomia tra apertura e chiusura dei confini, tra compassione e rifiuto, cultura dell’accoglienza e rimpatrio. Mosse si reca nei campi profughi Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e Arsal a nord della valle della Beqa’ in Libano, i campi di Nizip I e Nizip II nella provincia di Gaziantep in Turchia, il campo profughi nell’area dell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino e molti altri. Per Heat Maps e la video installazione Incoming, Mosse impiega una termocamera in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi: invece di immortalare i riflessi della luce, registra le cosiddette “heat maps”, le mappe termiche. Si tratta di una tecnica militare nota sin dalla guerra di Corea che consente di “vedere” le figure umane fino a una distanza di trenta chilometri, di giorno come di notte. Le immagini sono apparentemente nitide, precise e ricche di contrasto. A un esame più attento, invece, non si riescono a distinguere i dettagli ma solo astrazioni: persone e oggetti sono riconoscibili solo come tipologie, nei loro movimenti o nei contorni, ma non nella loro individualità e unicità. Incoming (2017) è un’installazione audiovisiva divisa in tre parti che utilizza la stessa tecnologia impiegata per la serie fotografica Heat Maps, la termografia a infrarosso. Richard Mosse, che ne è il regista e produttore, e il suo team – il direttore della fotografia Trevor Tweeten e il compositore e sound designer Ben Frost – hanno lavorato su tre scenari: nella prima parte, girata su una portaerei, sono ripresi i preparativi per il decollo di jet militari impegnati in operazioni di controllo dei cieli del Mediterraneo. Nella seconda parte, i protagonisti sono invece i migranti in arrivo su barconi sovraffollati, persone esauste e spesso ferite, che attendono soccorsi e, in alcuni casi, il riconoscimento post mortem. Infine, nella terza parte, i migranti sono alloggiati nei campi profughi, tra tende e capannoni, ripresi nella loro nuova e forzata quotidianità, bloccati nell’attesa di riprendere il loro lungo viaggio di speranza verso l’Europa centrale. Per produrre il video wall del 2017 Grid (Moria), Richard Mosse si è recato più volte nell’arco di due anni nell’omonimo campo profughi sull’isola greca di Lesbo, un campo noto per le sue pessime condizioni. Le riprese sono state effettuate con termografia ad infrarosso (heat maps) e l’opera è costituita da 16 schermi che propongono lo stesso spezzone a diversi intervalli.

© Richard Mosse Platon, eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * Collection Jack Shainman Giroinfoto Magazine nr. 67


MOSTRE

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DISPLACED - RICHARD MOSSE

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ULTRA E TRISTES TROPIQUES (MAST.Gallery Foyer)

Tra il 2018 e il 2019, Mosse comincia a esplorare la foresta pluviale sudamericana dove per la prima volta concentra l’obiettivo sul macro e sul micro, spostando l’interesse di ricerca dai conflitti umani alle immagini della natura. In Ultra, con la tecnica della fluorescenza UV, Mosse scandaglia il sottobosco, i licheni, i muschi, le orchidee, le piante carnivore e, alterando lo spettro cromatico, trasforma questi primi piani in uno spettacolo pirotecnico di colori fluorescenti e scintillanti. La biodiversità viene descritta minuziosamente tra proliferazione e parassitismo, tra voracità e convivenza, per mostrarci la ricchezza che rischiamo di perdere a causa dei cambiamenti climatici e dell’intervento dell’uomo. Tristes Tropiques è la serie più recente di Richard Mosse: documenta con la precisione della tecnologia satellitare la distruzione dell’ecosistema ad opera dell’uomo. La tecnica fotografica utilizzata è ciò che l'artista e cartografo Denis Woods definisce "counter mapping", una forma di cartografia di resistenza che grazie a fotografie ortografiche multispettrali mostra i danni ambientali difficilmente visibili dall’occhio umano. Richard Mosse ha scattato queste fotografie di denuncia lungo “l’arco del fuoco”, nel Pantanal, il fronte di deforestazione di massa nell’Amazzonia brasiliana. I droni rilevano come in una mappa le tracce del fuoco che avanza lungo le radici delle foreste, gli effetti dell’allevamento intensivo, delle miniere illegali per l’estrazione di oro e minerali. Ogni mappa di Tristes Tropiques mostra i delitti ambientali perpetrati su vasta scala, diventando per il fotografo un archivio che li documenta. Il video Quick del 2010 completa le video-installazioni al Livello 0: è un filmato girato dallo stesso Richard Mosse che ricostruisce la genesi della sua ricerca e della sua pratica artistica attraverso i temi a lui cari come la circolazione del virus Ebola, la quarantena e l’isolamento, i conflitti e le migrazioni, muovendosi tra la Malesia e il Congo orientale. Il catalogo che accompagna la mostra propone tutte le immagini esposte oltre a un saggio critico del curatore della mostra Urs Stahel e testimonianze di Michel J. Kavanagh, inviato in Congo e in Africa centrale dal 2004 per “Economist”, “Bloomberg News”, il “New York Times”, la BBC, e altri organi d'informazione, Christian Viveros-Fauné, curatore capo presso l’University of South Florida Contemporary Art Museum, e Ivo Quaranta, professore di Antropologia culturale all’Università di Bologna. Il volume, edito dalla Fondazione MAST, è distribuito da Corraini ed è disponibile in libreria e online su www.mast.org e www.corraini.com.

© Richard Mosse Pool at Uday’s Palace, Salah-a-Din Province, Iraq, 2009 Courtesy of the artist and Jack Shainman Gallery, New York Giroinfoto Magazine nr. 67


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ASTI - LE CENTO TORRI

Erika Luotto Giancarlo Nitti Margherita Sciolti

a cura di Margherita Sciolti ed Erika Luotto

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La città di Asti, che non è certo tra le mete turistiche più famose del Piemonte o addirittura sconosciuta e sottovalutata da molti piemontesi, si rivela invece una bellissima e piacevole sorpresa per chi decide di visitarla. Asti è una cittadina con circa 75.000 abitanti, immersa nelle colline e nei vigneti situati tra le Langhe e il Monferrato. Nella maggior parte dei casi, l’associazione che viene subito in mente è quella Asti - vino pensando a tutti i rinomati vini prodotti nella zona. In realtà Asti ha tanto da raccontarci in quanto vanta una storia ultra-millenaria e possiede un enorme patrimonio storico, artistico, culturale e, non meno importante, enogastronomico. La storia più antica di Asti risale a milioni di anni fa quando, al posto delle colline che contornano la città, c’era il mare. Con il passare del tempo il mare si ritirò fino a determinare l’attuale paesaggio. Nell’89 a.C. da insediamento della tribù Ligure degli Statielli divenne città romana col nome di Hasta Pompeia. Dopo essere stata ducato episcopale longobardo, dal XII secolo divenne uno dei più ricchi e potenti comuni d’Italia, arrivò addirittura a conquistarsi il diritto di battere moneta e diede vita a una fitta rete di rapporti commerciali tra Francia, Inghilterra, Fiandre e Germania.

Adriana Oberto Photography

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Nel XVI secolo arrivarono i Savoia. Nel 1797, in seguito ai disordini della rivoluzione francese, vi fu la rivoluzione Astese contro il governo sabaudo, che portò alla proclamazione della Repubblica di Asti, che durò solo tre giorni. Nell’Ottocento un progetto di rinnovamento urbano ed edilizio portò all’abbattimento della maggior parte delle mura medievali. La città di Asti vanta numerosi soprannomi: la Città degli Arazzi, la Città dell’Alfieri, la Città del Palio, la Città delle Sagre, la Città di Giorgio Faletti.

Asti era un comune libero e un importante centro di scambi commerciali e bancari e le famiglie potenti si sfidavano, appunto, a costruirne di più alte e belle.

Si potrebbero fare un’infinità di articoli su questa città ma oggi vogliamo soffermarci su un argomento curioso che ha fatto guadagnare ad Asti l’appellativo de “la Città delle 100 Torri”, sebbene nella realtà le torri fossero precisamente 120. È strano pensare che una città così piccola possa racchiudere tra le sue strade un così alto numero di torri. Già nell’XI secolo si nota una crescente proliferazione di torri private che servivano a integrare le carenti difese pubbliche. Lo scopo era quello di proteggere la collettività.

Spesso erano provviste di feritoie o finestrelle caratterizzate da forti strombature. Elementi classici dell’architettura militare. Alcune avevano addirittura, come unica fonte di accesso, i tetti delle case adiacenti. Le torri del secondo periodo diventano invece più ariose, decorate, abitabili. Dotate di grandi aperture in quanto, spesso, i piani terreni, diventavano luogo di commercio.

Nel XII secolo, quando la città si dota di nuove cinte murarie, le torri perdono la loro funzione difensiva e diventano semplice elemento di affermazione: le ricche famiglie cercano quindi in questo modo di farsi un nome nei confronti della popolazione Le torri risalgono tutte più o meno al periodo medievale in cui

Nella Torre di Umberto De Regibus – all’angolo fra C.so Alfieri e Via Roero – si vedono ancora grossi fori quadrati (lato via Roero) adibiti all’inserimento di travi per la realizzazione di una copertura per le attività commerciali.

TORRE DE REGIBUS Margherita Sciolti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

Essendo elemento distintivo delle famiglie arricchite mediante le attività bancarie, nel momento in cui una famiglia decadeva e/o veniva sconfitta, automaticamente veniva abbattuta la torre, come distruzione simbolica dell’orgoglio di quel casato. Le torri del primo periodo erano di base più ridotta, intorno ai 5,5 mt di lato, dotate di ingresso rivolto all’interno dell’isolato e di poche e minime aperture.


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Giancarlo Nitti Photography

Con l’abbandono della città da parte dei patrizi trasferitesi a Torino, molte strutture diventarono fatiscenti. Nel 1548 le torri non erano più un elemento qualificante dell’immobile, ma venivano menzionate solo se fortemente innestate al fabbricato. Nel 1656, in una minuziosa ricostruzione della mappa della Città, l’ingegnere Carlo Morello rileva e localizza circa una trentina di torri (con interesse e finalità prettamente militari) ignorandone almeno altrettante ancora visibili. Delle oltre 100 torri esistenti all’epoca, oggi ne rimangono ancora una ventina, distribuite un po’ in tutto il centro storico. Molto particolari sono le case-torri come la Troyana, la Guttuari, la De Regibus e la Comentina. Verso la fine del ‘600 vengono abbassate le torri degradate, altre, vengono accorciate per favorirne la stabilità. Buona parte delle torri abbassate scampa alla distruzione perché viene inglobata dai fabbricati circostanti, a volte coperte da intonaci ottocenteschi e rendendole meno percepibili agli occhi dei cittadini.

Una norma degli Statuti comunali prevedeva una multa salatissima di 20 lire a chiunque (maggiore di 15 anni) lanciasse pietre o altri oggetti contundenti da una torre, balconate o ballatoi se non per legittima difesa. L’entità della multa variava a seconda dell’altezza dell’edificio, più era alto e più l’ammenda aumentava. Lo storico senese Duccio Balestracci interpreta questa norma legandola ai “giochi di guerra” caratteristici di quel periodo storico. Vere e proprie guerriglie urbane organizzate e incoraggiate dalle autorità pubbliche per consolidare l’attitudine alla guerra e all’inquadramento militare del popolo. Armi di legno, lancio di pietre (a volte con fionde) o lotta a mani nude. Spesso la competizione degenerava e i vincitori si lanciavano in una vera e propria caccia allo sconfitto fino ad “assediarlo” nella propria abitazione. Da qui il probabile divieto di bersagliare la gente alla base delle torri con sassi o altro.

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Tra le torri più importanti possiamo elencare:

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La Torre dell’Orologio, chiamata anche Torre Troyana, alta ben 44 metri, è uno dei simboli architettonici della città di Asti. È la più antica della città. Si trova in Piazza Medici, si presenta con una merlatura a coda di rondine ed un pinnacolo che riparano l’orologio. È sita a fianco del palazzo del governatore. Salendo i 199 gradini della scala in legno presente all’interno della torre è possibile raggiungere la cima e, gustando un aperitivo ad alta quota, godere della vista di un meraviglioso panorama. Nell’Ottocento la campana della torre segnava oltre che le ore la ritirata per la notte. Era anche il segnale per l’apertura della scuola. In tempi più remoti segnalava la chiusura delle Botteghe e le punizioni che venivano comminate sulla Pubblica Piazza.

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Denominata anche Torre di Santa Caterina. Questa torre è esteticamente molto particolare in quanto si presenta a sedici lati ed è una delle più antiche della città. Costruita in stile romanico presenta anche parti in tufo dell’XI secolo. Il nome Torre Rossa si pensa derivi dal colore rosso dei mattoni o dalla famiglia De Rubeis, ricchi possessori di palazzi nei pressi della torre stessa. La leggenda narra che la cella sotterranea della Torre, oggi murata, sia stata l’ultima prigione del Santo Patrono della città, San Secondo, prima del martirio.

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Lo stile gotico presuppone che l’origine della torre sia del 200 d.C. Nell’antichità si sviluppava in una canna con tre piani modulari, decorati da marcapiani in pietra arenaria, ognuno di essi con quattro finestre a bifora. In cima era ornata con una merlatura ghibellina. La torre faceva parte di un complesso difensivo formato da 3 torri: la De Regibus, la Torre Quartero, oggi livellata ai tetti dei palazzi circostanti e l’altra, non più esistente, più piccola, definita “torretta” proprio per le sue dimensioni ridotte. Per questo motivo questa parte della città è ancora oggi chiamata “L’angolo dei tre re” È l’unico esempio di torre di forma ottagonale presente in città. Oggi è alta circa 27 metri a causa dell’abbassamento subito nel 700 con l’abbattimento di 3 dei 9 piani originali.

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Il nome della torre derivava dal cavalier ufficiale Lorenzo Quartero, suo proprietario nel XVIII secolo a cui apparteneva anche il palazzo attiguo. Si trova dirimpetto alla Torre Deregibus con cui, come già detto precedentemente, faceva parte di una delle tre torri del complesso difensivo della contrada della famiglia De Regibus. La torre in origine era molto più alta, ma venne abbassata al livello delle case adiacenti durante il XVIII secolo.

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Sorge nell’attuale Piazza Statuto, in origine denominata Piazza dei porci o del fieno o del vino, poi diventata nella seconda metà del Quattrocento Piazza delle Erbe o dell’Ortaglia in quanto costituì uno dei più importanti poli mercatali cittadini. La torre si presenta come una costruzione a base quadrata, un po’ tozza, massiccia e senza decorazioni. Fino al 1898 si presentava mozzata a piano inclinato: venne quindi restaurata e se ne ricavò una terrazza, ornata di merli ghibellini.

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appartenuta ai Guttuari, bensì alle Tra il 1225 e il 1235 venne emanata una norma statutaria che famiglie Bertramenghi e Scarampi. identificava un’altezza massima A conferma di questo sarebbero stati per le torri. rinvenuti alcuni atti di proprietà che attesterebbero che già intorno al 1260 Come misura di riferimento venne - 1270, ante merchatum feni, esisteva presa la torre dei Guttuari o, come una torre di proprietà delle due famiglie. sarebbe meglio definirla visto quanto sopra scritto, la torre dei Bertramenghi e degli Scarampi.

Si è sempre pensato che la Torre medievale appartenesse alla famiglia dei Guttuari, famiglia opposta ai Solaro, nelle lotte tra Guelfi e Ghibellini. In realtà, gli ultimi studi di Gianluigi Bera dimostrerebbero che la torre non è mai

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Denominata anche dei Bernardini in quanto era adiacente all’omonima Chiesa a cui fungeva da campanile. La chiesa fu trasformata in teatro nel periodo napoleonico e demolita nel 1897 per costruire il Palazzo Medici del Vascello, in stile neogotico, ancora presente sulla piazza. Questa torre è alta ben 38 metri e sovrasta gli altri edifici di Corso Alfieri; è importante perché da qui venne dato il comando per il Palio per molti anni.

La torre è l’unica parte del Castello di Piazza Roma ancora originale. Tutto il resto del castello è stato negli anni ristrutturato o modificato. È l’unica torre insieme a quella dell’Orologio rimasta intatta fino ai giorni nostri. Si possono menzionare ancora la Torre dei Solaro, la Torre Natta e la Torre dei Roero.

È la torre più alta di tutto il Piemonte, anche se si contende il primato con la Torre dell’Orologio, di cui abbiamo parlato precedentemente.

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TORRE SOLERO Giroinfoto Magazine nr. 67

TORRE NATTA

TORRE DEI ROERO


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Giancarlo Nitti Photography

L’architetto Maria Augusta Mazzarolli, proprietaria del Palazzo Gazelli di Rossana, ricevette un giorno una telefonata particolare in cui un gruppo di turisti americani le chiedeva di poter visitare lo storico palazzo e, in particolare, la sua torre medievale. Una torre massiccia e mozzata, dall’aspetto abbastanza minaccioso, tutta in muratura che si alza per 24 metri, senza una finestra. Incuriosita, l’Architetto decise di approfondire la richiesta e scoprì che quella sua proprietà aveva ispirato Carl Barks, disegnatore della Walt Disney, nel 1947, per disegnare il famosissimo deposito di Paperon de’ Paperoni. Barks in un’intervista aveva spiegato che per disegnare il deposito inespugnabile e senza finestre, dove Paperone nuotava sommerso dalle sue monete d’oro, si era ispirato proprio ad una torre medievale vista ad Asti. Spiegò che si trattava proprio della torre della famiglia Lombriasco, famiglia di antichi banchieri, di cui l’architetto Mazzarolli è una discendente. La cosa più incredibile è che nessuno nella città piemontese sospettasse di questa paternità, emersa quasi per caso: è stato proprio questo gruppo di turisti americani in visita in Italia, a riconoscere su una cartolina il deposito di Paperone. Si sono messi pertanto alla ricerca della torre fino a riuscire a rintracciare la proprietaria.

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Da quel giorno la torre divenne meta di molti turisti, soprattutto americani e olandesi, grazie alla diffusione sui social. La struttura della torre, in effetti, è di quelle molto rare “a cassaforte”, probabilmente, utilizzata come forziere dal capostipite della famiglia di banchieri, Pietrino del Ponte di Lombriasco, che fu anche Gran Maestro dell’Ordine di Malta e quindi anche molto vicino alla massoneria. Ad Asti si batteva moneta e si garantivano prestiti alle potenze nascenti che di lì a poco sarebbero diventate dominanti in Europa. E quindi non è illogico pensare che quel torrione fosse anche stato adibito a forziere. Infatti sui muri della torre si possono notare dei mattoni invetriati con i simboli che riproducono il compasso ed il triangolo: altro collegamento con Walt Disney, la cui appartenenza massonica è stata sempre questione molto dibattuta. La certezza che questa storia sia leggenda o verità non l’abbiamo. Rimane comunque una storia affascinante e misteriosa da raccontare. Questa è solo una delle tante sfaccettature che presenta Asti, una città che può solo sorprenderti e meravigliarti sotto tanti punti di vista. Non ti resta che venire a scoprirla e lasciarti ammaliare da lei!


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Adriana Oberto Barbara Tonin Giancarlo Nitti Remo Turello Silvia Petralia

“Mi chiamo Sofia Cacherano, contessa di Bricherasio e questa era la mia casa. In essa ho vissuto momenti di gioia e dolore, ho condiviso la mia passione per l’arte, ed essa mi è rimasta fedele, nello spirito e nella vocazione, anche dopo la mia morte.”

A cura di Adriana Oberto Giroinfoto Magazine nr. 67


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Riproduzione Foto archivio - Adriana Oberto

Sofia Cacherano di Bricherasio nasce a Torino il 18 aprile 1867. I genitori – il cavaliere Luigi Cacherano di Bricherasio e la marchesa Teresa Massel di Caresana – avranno un secondo figlio, Emanuele, la cui storia è anch’essa strettamente legata al palazzo e a Torino. Pittrice (a questo proposito è importante notare come sulla sua tomba non ci siano altre parole o epitaffi, se non questa: “pittrice”), era allieva del pittore piemontese Lorenzo Delleani, assiduo frequentatore del palazzo torinese, insieme a figure di rilievo nel mondo artistico e culturale piemontese e italiano, quali lo scrittore Edmondo De Amicis e lo scultore Leonardo Bistolfi, oltre al grande amico di famiglia Federigo Caprilli.

Il suo amore per l’arte, unito all’esigenza di promuoverla e aiutarne i fautori, fece della residenza di Torino un cenacolo artistico e culturale importante. In qualità di pittrice, si dedicò principalmente a vedute di paesaggio riprese dal vero e per le quali usava una tecnica impressionistica. Con le sue sue opere partecipò alla prima e seconda Esposizione internazionale d’arte di Venezia. Muore nel castello di Miradolo il 2 marzo 1950. Alla sua morte tutte le sue proprietà vanno alla Piccola Casa della Divina Provvidenza di don Orione e a lei è intestata la casa di riposo per anziani che l’opera Don Orione dirige nel palazzo Bricherasio di Fubine.

Rimane orfana di padre in tenera età e continuerà a condividere la dimora torinese, insieme alle altre proprietà della famiglia – tra cui il castello di Miradolo (San Secondo di Pinerolo, TO) e quello di Fubine (AL) – con la mamma Teresa e il fratello Emanuele.

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Il palazzo ha origine all'inizio del XVII secolo, quando si rende necessario un ampliamento della città – tale ampliamento era stato avviato da Carlo Emanuele I, proseguito da Vittorio Amedeo I e poi da sua moglie Maria Cristina di BorboneFrancia. Siamo nel centro di Torino, non lontani da quella che è oggi piazza San Carlo. È un’area in cui, demolite le abitazioni più umili di quella che era al tempo la contrada dei conciai e che diventa l’Isola di Santa Cristina (ora via Cavour), le famiglie benestanti costruiscono le proprie dimore. Il palazzo è dimora signorile almeno dal 1636, come testimonia una piastra per camino in ghisa, decorata di simboli come il giglio di Francia e il nodo dei Savoia, che si trova in quella che oggi è la sala delle cineserie. I primi proprietari di cui si conosce il nome sono i conti Solaro di Monasterolo, banchieri, che affidano lavori di rinnovamento – siamo nella seconda metà del Settecento – all’architetto Carlo Emanuele Bovis. All’inizio dell’Ottocento il palazzo ospita illustri inquilini, tra cui lo scrittore milanese Giovanni Berchet, che fu costretto a lasciare Milano a causa dei suoi ideali e del suo impegno politico anti-austriaco durante la prima guerra di indipendenza. Vi morirà nel 1851. La famiglia Cacherano di Bricherasio diventa proprietaria del palazzo nel 1855 e vi avvia una nuova ristrutturazione, intervenendo anche sulla struttura interna e del cortile e aggiornando le decorazioni interne al gusto dell’epoca. Palazzo Bricherasio rimarrà proprietà della famiglia, nella persona di Sofia, fino alla morte nel 1950, quando passerà – insieme alle altre proprietà – alla gestione della casa della Divina Provvidenza di Don Orione.

RIPROD. - Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

Da questo periodo avviene un forte rimaneggiamento degli spazi, in primo luogo per poter ospitare un istituto tecnico, ed in seguito per farne un centro di prima accoglienza per gli immigrati. Questa è la ragione per cui gran parte degli spazi non contiene più gli arredi e le decorazioni originali, ad eccezione delle sale storiche e dello scalone d’onore. Il palazzo viene nuovamente acquistato, nel 1994, dalla famiglia Alessio, che lo riporterà a nuova vita e ne farà la sede della Fondazione Palazzo Bricherasio. Per 15 anni sarà prestigioso scrigno per mostre e laboratori artistici che occuperanno sia le sale auliche, sia gli altri locali dello stabile. A causa di una situazione politico-economica che ha visto venire meno i necessari sostegni istituzionali, nel 2009 la Fondazione cessa la propria attività. Il palazzo viene messo in vendita rischiando di essere lottizzato e trasformato in appartamenti di lusso. Nel 2010 interviene la Banca Patrimoni Sella & C., che ne farà la sua sede istituzionale, preserverà le peculiarità architettoniche e, nel contempo, manterrà viva la vocazione culturale del Palazzo, tutelando e valorizzando le sale storiche e organizzando piccole mostre in alcune aree interne ed esterne. In omaggio a Sofia di Bricherasio, il primo piano del Palazzo, nell’area che si affaccia su via Gobetti, è allestito con opere della Contessina, come lei avrebbe gradito.

SALA DELLE CINESERIE - Barbara Tonin Photography


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Silvia Petralia Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

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Palazzo Bricherasio viene vissuto, nel corso degli anni, da diverse famiglie e in maniera diversa. La parte storica più interessante è probabilmente quella che vede come protagonista la famiglia Cacherano di Bricherasio e che si sviluppa negli arredi e decorazioni delle sale storiche.

C’è un segno particolare e ricorrente – un tocco distintivo – che compare nei pavimenti, sui soffitti sulle porte: si tratta di ondine, che costituiscono lo stemma della famiglia Cacherano di Bricherasio; lo stesso stemma è visibile anche sulla facciata del palazzo di Miradolo e di Fubine.

C’è però una storia precedente – sebbene poco documentata – che si può apprezzare nell’architettura e nelle decorazioni dello scalone monumentale che accoglie, oltre allo stemma della famiglia Bricherasio, anche tracce della famiglia Solaro di Monasterolo, nonché delle altre che vissero in questo luogo.

La figura della contessa Sofia funge in un certo qual modo da collante tra passato e presente nella storia delle sale di palazzo Bricherasio – sale che sono state adibite, nel corso degli anni, a diversi utilizzi. Il palazzo è sempre stato nel cuore dei torinesi in quanto protagonista a suo modo nelle vicende storiche e culturali della città.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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“Mio padre il Conte Luigi acquistò questo palazzo nel 1855 e lo fece sapientemente restaurare. Il luogo – nel centro della capitale sabauda – e la frequentazione di quelle famiglie della nobiltà e borghesia che facevano parte del nostro entourage – daranno vita alla sua vocazione di accoglienza, che nasce proprio in questo periodo. La mia famiglia, volendo ampliare il proprio patrimonio fondiario e immobiliare, aveva acquistato, nella prima metà dell'Ottocento, la proprietà di Fubine; a questa si aggiunse, grazie alla nozze dei miei genitori, il cascinotto a Miradolo, portato in dote dalla mamma e che sarà ampiamente ristrutturato fino a diventare una magnifica villa, tanto bella da venir chiamata castello. Mio padre il Conte morì, purtroppo, troppo presto e lasciò me ed Emanuele, mio fratello minore, orfani in giovane età. Io crebbi in un ambiente culturale variegato, da cui ricevetti un forte amore per l’arte. Mi piaceva attorniarmi di artisti – e non solo – che qui trovavano un luogo accogliente e stimolante. Amo la pittura; se dovessi dare una definizione di me stessa, non userei nessuno dei titoli che mi spettano. No: io sono una pittrice, e desidero che questo venga ricordato di me”. Uno degli assidui frequentatori era Lorenzo Delleani – pittore torinese importante e maestro di Sofia. La pittura era parte fondamentale nella vita della contessa, che dipingeva certamente per diletto, ma soprattutto per passione. Quanto questa attività fosse importante per lei lo si deduce da quell'unica parola – pittrice – che ella volle venisse incisa sulla lapide della tomba di famiglia a Fubine: non “contessina”, né nessun’altra delle onorificenze di cui avrebbe potuto vantarsi. Questo perché la sua arte ha accompagnato tutte le fasi della vita di Sofia e lei, che certo non aveva bisogno di vendere i suoi quadri – e perciò non lavorava su commissione – faceva di questo mezzo di espressione una sorta di diario intimo, con cui raccontare la sua vita, i suoi viaggi, le sue storie. Lavorava di getto (così come faceva Delleani) su delle piccole tavolette e spesso non le firmava neanche, ma le usava un po’ come cartoline, scrivendoci dietro qualche appunto di viaggio, il luogo, o la ragione alla base del dipinto.

Adriana Oberto Photography

Giroinfoto Magazine nr. 67

Il soggetto, i luoghi e la tecnica dei dipinti erano così simili a quelli del maestro, che in molte occasioni dopo la morte di Sofia, quando questi non erano firmati, fu facile attribuirli al Delleani e a volte aggiungervi una firma apocrifa prima di inserirli nel mercato dell’antiquariato.


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“L’uomo di casa era mio fratello Emanuele. Tutti lo conoscevano e gli volevano bene. Aveva un amico – Federigo – conosciuto ai tempi dell’Accademia Militare a Modena, che per noi era come un membro della famiglia. I due erano molto legati e condividevano l’amore per i cavalli e l'interesse per la novità del momento – quell’automobile che soppianterà ben presto le carrozze”. Ma non sono solo gli artisti a frequentare il palazzo. Il fratello minore di Sofia, Emanuele Cacherano di Bricherasio, è conosciuto e apprezzato nel suo ambiente. Ufficiale di Cavalleria e amico del fedelissimo Federigo Caprilli, anch’esso ufficiale di Cavalleria, inventore del sistema naturale di equitazione conosciuto anche come metodo Caprilli, espanderà i suoi interessi nel campo della tecnologia.

Dario Truffelli Photography Barbara Tonin Photography

Emanuele era un uomo moderno, appassionato di scienza e di motori; volto alla ricerca e all’avventura – a tutto quanto, insomma, fosse pionieristico. Fu lui ad avere l’idea di un club per gli appassionati di automobili e così divenne socio fondatore dell’Automobile Club di Torino, il futuro l'Automobile Club Italiano. Certo che l’industria meccanica italiana avesse dei forti potenziali per la produzione di automobili ad uso privato fondò, prima, l’Accomandita Ceirano & C. per realizzare i progetti motoristici dell'ingegner Aristide Faccioli e fu, in seguito, tra i promotori e soci fondatori della F.I.A.T. È proprio un quadro di Delleani – realizzato due anni dopo la morte di Emanuele e copia del quale (l’originale si trova presso l’Archivio Fiat) è esposta in una delle sale storiche del palazzo – a testimoniare il momento della fondazione della società. Emanuele di Bricherasio è al centro del dipinto – unico ad indossare un vestito chiaro – circondato dagli altri soci, tra cui Giovanni Agnelli e Biscaretti di Ruffia.

Giancarlo Nitti Photography

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Emanuele morirà pochissimi giorni dopo la firma dell’atto di costituzione in circostanze alquanto misteriose. Queste circostanze rimangono tali, anche se alcuni documenti acquisiti di recente dalla Direzione Artistica di Banca Patrimoni & C. iniziano a far luce sulla verità storica.

Pochi anni dopo Emanuele, muore anche l’amico Caprilli. A testimonianza di quanto fosse profonda e importante la loro amicizia e di quando Federigo fosse “uno di famiglia”, la sua salma riposa a Fubine tra quelle del conte e della contessa.

“Mio fratello Emanuele è morto a 35 e io non so come o perché. La notizia è stata così improvvisa, il modo così strano – dicono che si sia suicidato, ma io non ci ho mai creduto – da lasciare dubbi e tante domande senza risposta. Ho una lettera che conservo gelosamente: me l‘ha mandata il sacerdote che era con lui al castello di Agliè durante la sua agonia. Ogniqualvolta la leggo, i miei dubbi, anziché diminuire, aumentano”.

“Sono rimasta sola. La perdita di Federigo, a pochi anni da quella di mio fratello, mi ha devastata. Ho disposto che la sua salma riposi vicino al caro Emanuele; rimane ancora un posto, e sarà il mio. Non mi rimane che rivolgere il mio sguardo a quelle cause che mi sono tanto care: l’arte e l’attenzione verso il prossimo. Desidero essere attorniata da artisti e voglio che tutti abbiano un'opportunità”.

Riprod. Adriana Oberto Photography

Pochi anni dopo la morte del fratello, Sofia intensifica la sua attività di volontariato e mecenatismo; costruisce asili per la prima infanzia (il castello di Fubine diventerà prima asilo e poi ospizio per anziani) e istituisce un cenacolo culturale anche al castello di Miradolo, che era sua residenza estiva. Di questo cenacolo facevano parte anche molte donne, il che testimonia l’apertura mentale della contessa. Sofia si occupa di persona dell’amministrazione delle sue proprietà; fonda una scuola di ricamo a punto bandiera, in un tempo in cui Torino è famosa per i suoi atéliers e le sartorie. Però non dipinge più.

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DANIELA MAGNETTI Barbara Tonin Photography

Quando Sofia muore, nel 1950, lascia in eredità tutte le sue proprietà ai padri della Congregazione di Don Orione. Si passa così ad un altro tipo di ospitalità, ma la vocazione del palazzo non cambia. E ciò grazie alla caratteristica propria dell’ubicazione dell’edificio, che si trova a pochi minuti a piedi dalla stazione di Porta Nuova. Questo, negli anni di forte flusso immigratorio in città, ne fa un luogo di ospitalità ideale. E infatti il palazzo viene adibito a centro di prima accoglienza: gli immigrati vi trovano un luogo dove sistemarsi per i primi giorni di permanenza a Torino. Viene salvaguardato il piano nobile – sale che verranno sempre tutelate da tutti i futuri proprietari del palazzo – ma il resto viene trasformato in dormitori e locali di servizio. Segue nel tempo la SIOI, che tiene nel palazzo importanti riunioni e convegni. Si arriva così agli inizi degli anni ‘90, quando palazzo Bricherasio è ridotto ormai in pessime condizioni architettoniche. Siamo ai tempi in cui non esiste ancora nessuna pedonalizzazione dell’area.

La famiglia Alessio decide di investire nel palazzo, lo acquista dalla Congregazione di Don Orione e lo ristruttura. Cosciente della vocazione culturale dell’edificio, la famiglia Alessio lo trasforma in sede museale. Dal 1996 al 2010 il palazzo è proprietà della Fondazione Palazzo Bricherasio, che vi organizza tantissimi eventi che sono rimasti nel cuore dei torinesi. La Fondazione non possiede una collezione propria e non ha, perciò, quella che viene considerata “merce di scambio” per ottenere in prestito dagli altri musei le opere d’arte. È necessario pertanto costruire passo a passo la propria credibilità. In circa dieci anni Palazzo Bricherasio ha visto, grazie alla regia della sua direttrice, Daniela Magnetti, circa tre milioni di visitatori passare per le sue sale. Sono numeri veramente importanti in un periodo – quello precedente le Olimpiadi invernali del 2006 – in cui Torino non era la meta turistica che conosciamo. Il palazzo è rimasto sempre aperto e disponibile ai tanti linguaggi dell’arte, assecondando o prevenendo quello che il pubblico avrebbe potuto gradire.

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Questo è il Palazzo nelle cui sale – lo scalone e il piano nobile – Christo organizzò la sua prima ed unica installazione interna. L’installazione ebbe luogo nel 1998; gli ambienti erano rivestiti di tessuto, le finestre foderate da una pellicola color ambra. A seconda della luce del sole, questo “mare di onde” color crème attraversava le sale fino ad arrivare allo scalone e dava la sensazione di esserne immersi. Christo era stato invitato a Torino due anni prima e fu accompagnato, insieme alla moglie Jeanne Claude, anche lungo i murazzi. Non venne conquistato dalla città, che era ovviamente molto diversa da quella di oggi, ma ebbe l’occasione, prima di ripartire, di cenare a Palazzo Bricherasio nelle sale storiche, che venivano usate per cene di rappresentanza. I coniugi si fecero raccontare la storia del luogo e maturarono l’idea di fare un'installazione proprio nel palazzo. Per i torinesi, non abituati a questo tipo di forma d’arte, fu una cosa incredibile; l’idea di camminare, sdraiarsi sul tessuto del

Remo Turello Photography

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pavimento, interagire, vivere l’installazione appieno, così come i coniugi l’avevano concepita, fu una cosa unica e preziosa. Christo non “impacchetta gli oggetti”: li rivisita, dà loro una nuova forma e la possibilità di comunicare in modo nuovo. Christo rimase amico della direzione del palazzo e vi ritornò nel 2018, quando l’Università degli Studi di Torino gli conferì la laurea ad honorem e lui volle festeggiare proprio in questo luogo. Fu a seguito di questo evento che fu realizzato un volume che contenesse le foto dell’epoca, andate ormai esaurite. Un altro personaggio importante passato per le sale del palazzo è Fernando Botero. Per la Fondazione l’artista colombiano sembrava proprio una persona irraggiungibile, ma fu grazie alla stretta collaborazione con l’artista torinese Ezio Gribaudo che avvenne l’incontro nello studio parigino dell'artista; fu durante il seguente invito a pranzo che vennero decisi i dettagli della mostra.


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Il successo dell’organizzazione della Fondazione Bricherasio si deve alla passione messa nel proprio lavoro – passione che sia gli artisti sia i collezionisti recepiscono, e questo ha reso possibile l'organizzazione di eventi eccezionali. Per esempio, la mostra delle opere di Canaletto e Bellotto comprendeva opere da tutti i più importanti musei del mondo, dalla Russia all’Australia, e la cui coordinazione fu tutt’altro che facile. Fu una mostra “fatta per studiare”, data la possibilità unica di vedere e studiare opere che si trovano di solito divise e in

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luoghi lontani gli uni dagli altri. Le mostre degli anni in cui il palazzo è stato sede museale furono molte ed importanti; non ne mancò, per esempio, una dedicata alla figura di Sofia, con la mostra di Delleani, così come non mancarono personaggi di rilievo quali il presidente Ciampi, che fu presente in occasione dell’inaugurazione della mostra del papiro di Artemidoro. Sono sempre le sale storiche ad ospitare le mostre più preziose o “di nicchia”, quali i disegni di Michelangelo, piuttosto che i carteggi di Vivaldi – sono cose particolari che avevano, per esempio, bisogno di essere protette meglio. E sono tanti gli aneddoti che si possono riferire a questo periodo, come la telefonata del figlio del leader della rivoluzione cubana Che Guevara, che chiamava per informarsi circa una foto del padre presente alla mostra su Cuba. Gli spazi espositivi si sviluppavano al primo e secondo piano, mentre il terzo era dedicato alle attività didattiche. Caratteristica importante ed innovativa era che queste non coinvolgevano esclusivamente docenti di storia dell’arte: in occasione della prima mostra realizzata a Palazzo Bricherasio dedicata a Kandinskij, Malevič e le avanguardie russe, furono mandate lettere d’invito ai professori di matematica, per la cui materia era stato organizzato un percorso ad hoc.

Foto archivio Palazzo Bricherasio

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Fu l’avvio di un lungo dialogo educativo che ha legato il Palazzo alle scuole torinesi e non solo. Facevano parte degli spazi espositivi anche le due esedre esterne, che si trovano subito dopo il portone di ingresso. Questo non era l’ingresso originario di Palazzo Bricherasio, la cui entrata dava su quella che oggi è via Teofilo Rossi, ma il passo carrabile, dove passavano le carrozze che venivano parcheggiate nelle esedre; questi spazi erano utilizzati per installazioni di giovani artisti che potevano in questo modo – in un luogo di grande visibilità e accessibilità da parte di tutti – avere il loro primo incontro con la città. Fu organizzato un ciclo di mostre in collaborazione con Guido Curto, attualmente direttore della Venaria Reale, dal titolo “Outside”; vi partecipavano artisti all’epoca non ancora o poco conosciuti, che poi sono diventati famosi, quali Valerio Berruti, Carlo Gloria, Luisa Rabbia, Enrica Borghi, Ferdi Giardini e altri. La tradizione non è venuta meno con la fine dell’attività museale, ma perdura tuttora, con mostre di qualità e alto valore economico, che sono accessibili al pubblico negli orari di apertura della banca.

Adriana Oberto Photography

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Barbara Tonin Photography


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Fa parte ancora di queste attività lo spostamento della statua di Quintino Sella – in bronzo con piedistallo in granito – che era stata posta “provvisoriamente”, ma ci rimase 87 anni, in un’aiuola presso il castello del Valentino; la statua è stata restaurata e si trova attualmente presso il Politecnico di Torino, dove gli studenti possono immortalare il giorno della loro laurea vicino all’effige del suo promotore.

Adriana Oberto Photography

Silvia Petralia Photography

Di questa attività ci rimangono immagini fotografiche di altissimo valore, sia documentale, sia artistico, realizzate da negativi per la maggior parte in lastre di vetro alla gelatina di bromuro d’argento, per il trasporto delle quali aveva ideato un equipaggiamento molto complesso.

A Quintino Sella (1927, 1884) è dedicata una delle sale storiche di Palazzo Bricherasio, dove è esposto un ritratto, olio su tela, opera di Francesco Folli. Quintino Sella è il personaggio di certo più noto della famiglia Sella. Originario della provincia di Biella, ingegnere idraulico, inventò una macchina per separare il rame dalla magnetite.

Le sue immagini sono conservate presso la Fondazione Sella a Biella; a testimonianza del sistema di inventariazione, sia delle immagini, sia della carte di Quintino Sella, troviamo l’installazione, ad opera dello Studio Tassinari/Vetta, di due serie di piastrine rettangolari con distanziatori posizionate sul pianerottolo da cui si accede allo scalone monumentale.

Fu per tre volte ministro delle finanze nei primi anni del Regno d’Italia; fu lui ad istituire l’imposta sul macinato, chiaramente malvista dalla popolazione, ma che permise di raggiungere il pareggio di bilancio. Fu alpinista e fondatore del Club Alpino Italiano. Un altro membro della famiglia Sella, Vittorio (1859-1943), nipote di Quintino e fotografo, esploratore e alpinista, portò a termine numerose e importanti ascensioni sulle Alpi e partecipò a molte spedizioni all’estero, anche come compagno di Vittorio Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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PALAZZO BRICHERASIO

La banca offre anche un servizio di art advisor interno, che ben si sposa con la vocazione del luogo, visto che l’arte vive con esso e ne è parte integrante. Le opere dei collezionisti vengono valorizzate, e viene data la possibilità di creare mostre e iniziative di studio e ricerca. In questi ultimi tempi Banca Patrimoni Sella & C., attraverso la propria direzione artistica, si occupa di arte e medicina. Lo scopo è di rendere “belli” quegli spazi che normalmente e per caratteristiche proprie non lo sono, e cioè i luoghi sanitari. In questo periodo caratterizzato dall’emergenza Covid sono state organizzate mostre, in collaborazione con l’ASL Città di Torino, al Covid Hospital OGR; ve ne è una riservata esclusivamente al personale sanitario del Dipartimento di Emergenza all’ospedale Valdese di Torino e una in corso presso il centro vaccinale del Castello di Moncalieri. Queste affiancano un’ulteriore installazione, che dura ormai da tre anni, di quello che si chiama il “corridoio Va.Sa.Ri” al Polo Universitario Infermieristico di Ivrea, dove ci si occupa

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di Alzheimer; qui le opere d’arte vengono utilizzate come momento didattico per i pazienti e i caregiver, siano essi gli infermieri o i parenti dei pazienti. Desideriamo ringraziare per la visita la dottoressa Daniela Magnetti, direttrice artistica di Palazzo Bricherasio dal 1998, quando la Fondazione omonima ne era la proprietaria. La dottoressa ha mantenuto la sua carica anche successivamente all’entrata di Banca Patrimoni Sella & C. e continua a gestire con sapienza e profitto la vocazione artistica e culturale del palazzo, portando la cultura e diffondendola a 360 gradi. Insieme abbiamo passeggiato per le sale storiche del palazzo e sono sue la maggior parte delle parole che avete letto; è lei la protagonista delle recenti vicende artistiche del luogo, nonché l’organizzatrice delle mostre che si sono avvicendate nelle sale del palazzo e continuano a farlo nelle esedre e negli spazi pubblici. Ed è sempre lei, in definitiva, la nuova Sofia, erede spirituale della contessina che abitava le sale di palazzo Bricherasio.


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Dario Truffelli Davide Mele Gianfranco Cavassa Giuseppe Tarantino

Isabella Nevoso Luca Barberis Sara Morgia Stefano Zec

A cura di Gaia Cultrone

“Questa è l'acqua” è il titolo di un testo di David Foster Wallace. Nel monologo omonimo si comprende il significato di questa frase: questa è la nostra vita, e per quanto si tenda sempre ad ambire a qualcosa di più, a cercare altrove, prima o poi bisogna rendersi conto che ciò che cerchiamo lontano è più vicino che mai, che ci siamo immersi già dentro. Questo è ciò che è successo a molti di noi durante questo anno di pandemia, abbiamo riscoperto l'acqua in cui da sempre viviamo, le nostre città, il nostro territorio. Scoprire Genova ha spesso a che fare con il mare, ma in questo caso invece siamo sui monti.

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ACQUEDOTTO GENOVA

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SILVIA SIMONELLI LA NOSTRA GUIDA

Silvia dimostra di essere una persona speciale già a partire dalla sua storia personale, essendo una biologa di fatto (si è laureata in Scienze Biologiche a Genova, nel 2003) e una guida nonché accompagnatore turistico ed escursionistico di lavoro. Partita dal Festival della Scienza, approdata all'Acquario di Genova e con lui al Galata e ai musei genovesi, dal 2005 Silvia accompagna i turisti – e non solo, come dimostra la nostra esperienza – in giro per la Liguria, dal mare ai monti, attraverso parchi e vicoletti, e li fa innamorare delle sue terre, trasmettendo il suo amore e le sue conoscenze poliedriche su curiosità e dettagli della zona. Saranno però le sue stesse parole a spiegarvi chi sia.

Eppure, si parla di acqua ugualmente. Abbiamo con noi Silvia, come nostra compagna di avventure, e non avremmo potuto finire in mani migliori, perché sono le persone così appassionate nel proprio lavoro (e in mille campi diversi) che ti fanno scoprire davvero quanta meraviglia c'è dietro a luoghi di cui conosciamo così poco, anche se ci abitiamo così vicini.

“Chi l'avrebbe mai detto che il mio «peggior» vizio mi avrebbe aperto le porte verso il lavoro più bello del mondo? Confesso: parlare mi piace proprio tanto e ora lo posso fare addirittura per lavoro: sono una guida turistica ed escursionistica. Non so stare ferma e la cosa più rilassante per me è camminare su e giù per sentieri, osservare la natura in tutte le sue forme, ma farlo in compagnia è più divertente: ecco perché accompagno i turisti a conoscere la bellezza naturalistica unica di una regione: la mia Liguria, stretta tra il mare e le cime alpine. E poi, io sono genovese nel profondo e non posso non amare questa città: e che soddisfazione è farla scoprire a chi pensa che sia solo un porto! Il mio è un lavoro appassionante, a volte stancante, ma pieno di soddisfazioni. Probabilmente non smetterò mai di studiare e scoprire cose nuove, ma quando i turisti ti dicono "grazie a te ho imparato ad amare i tuoi posti", capisco veramente che ho fatto la scelta giusta.”

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Si parte da Prato, dove Silvia fa innanzitutto una premessa che si intersecherà con tutto il suo racconto: la città di Genova è mutata nel tempo, per aspetto, distribuzione e confini, così come sono cambiati i fiumi e la loro portata. A segnare maggiormente questi cambiamenti è stato proprio l'acquedotto, nato in epoca romana, sviluppato e ampliato durante il Medioevo, restaurato dai Savoia nell'Ottocento e arrivato da dove ci troviamo fino all'attuale Via Burlando, praticamente in centro, dove un tempo quindi iniziava la città propriamente detta. Da questa via arrivava poi fino alla zona di Castelletto, per proseguire anche all'interno dell'attuale centro storico, per la precisione verso Piazza Sarzano e Mura delle Grazie. Silvia spiega che nel 1800 l'acquedotto alimentava 58 mulini e 1100 bronzini, ossia i rubinetti genovesi.

In quegli anni venne poi gradualmente sostituito da condutture che prendevano acqua da più lontano e da laghi artificiali, e nel 1917 ne venne dichiarata la non potabilità delle acque. Il punto da cui si parte viene detto “La presa” del Bisagno, punto di captazione dell'acqua dal fiume per poi trasportarla lungo l'acquedotto. Si tratta della prima di molte prese, realizzata nel 1600 e inizialmente eliminata per motivi igienici; successivamente sono stati realizzati i sopracitati invasi artificiali, come quello del Brugneto, in val Trebbia, quello sul monte Alpesisa e quello dei laghi del Gorzente.

Maurizio Lapera Photography

Dario Truffelli Photography

Genova non era molto rilevante ai tempi dei Romani, ma dopo la distruzione da parte dei Cartaginesi i Romani hanno realizzato un piccolo acquedotto per evitare che le case venissero colpite da un'eventuale inondazione del Bisagno. Ad oggi di quella costruzione rimane solo un voltino su Via delle Ginestre, alla fine del secondo ponte sifone, oggi per giunta ricoperto d'edera. Cosa rendeva l'acquedotto così performante? Innanzitutto, bisogna partire dal presupposto di cui parlavamo poc'anzi, ovvero la differenza abissale che c'era tra i fiumi di un tempo e quelli odierni: il Bisagno era detto fin dai tempi dei romani il feritor, ovvero il fiume che ferisce.

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Questo perché era immenso rispetto a ciò che ne vediamo oggi, tanto che l'intera zona di Prato sopra cui passiamo era inesistente, e se dal Seicento effettivamente iniziano ad esserci zone abitate sono tutte sopra i 100 metri di altitudine, in quanto lo spazio sottostante era tutto occupato dal fiume. A questo aggiungiamo che la Val Bisagno ha il vantaggio geologico di essere perpendicolare al mare; il fiume arriva fino alla Foce, quindi appunto vicino al centro storico, e un tempo trasversalmente vi erano tutta una serie di vallate lungo le quali scendevano una serie di rivi di 2 o 3 chilometri al massimo, che confluivano tutti nel Bisagno stesso.


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Sara Morgia Photography

Secondariamente, la riuscita dell'acquedotto dipese dal genio ingegneristico genovese, storicamente riconosciuto in tutta Europa, e dall’aver sfruttato fino al millesimo la pendenza per guadagnare pressione in maniera naturale, con una spesa quindi minima, per giunta. Silvia infatti racconta che la pendenza si calcolava effettivamente in millesimi!

Ad oggi vicino ai lavatoi sorgono alcune case, e un tempo, come ci ricorda una targa, vi era la casa di Vittorio Gassman, celebre attore. Silvia spiega che egli fu dichiarato genovese perché nato dopo il 1890, altrimenti sarebbe stato di Struppa che all'epoca faceva comune come tutti i quartieri esterni all'odierno centro storico.

La prima tappa si trova presso i lavatoi, a Genova noti come troeggi. In questa zona una volta arrivava direttamente il Bisagno, oggi vi troviamo un piccolo rivo. Di conseguenza qui vi era terra fertile, tanto che a Genova ancora oggi il fruttivendolo viene chiamato “besagnino” derivato proprio dal nome del fiume Bisagno.

Ci spiega poi come Gassman fosse un cognome ebraico e, per non farlo associare all'ebraismo, gli avessero tolto una s, poi ripresa dal figlio Alessandro.

Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

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Si prosegue percorrendo il sentiero che ci fa guadagnare quota, 90 metri di dislivello. Qui troviamo anche i primi filtri che, ovviamente, per lo standard odierno risultano grossolani, ma che comunque bloccavano foglie e terra in eccesso. A partire dal Seicento venivano infatti effettuati dei controlli dai lavoratori, pagati dai magistrati dell'acqua genovesi. Essi si occupavano anche di controllare che nessuno rubasse l'acqua. Nella zona comunque, non avendo pastorizia che beveva l'acqua sui monti, il vantaggio consisteva nel non avere contaminazioni dettate da questo. In quanto biologa, Silvia ha anche una passione per la botanica, e nel corso del tour racconta anche alcune curiosità relative alla flora locale, come per esempio il fatto che la via dell'acquedotto è identificabile per alcune piante che crescono unicamente nella zona e lungo le tubature, a causa dell'umidità elevata e della presenza di acqua dolce: una di esse è l'acanto, che si trova persino più in alto, verso il Forte Diamante, mentre l'altra è l'ombelicus rupestris, comunemente noto come Ombelico di Venere. Arrivati lungo il sentiero dell'acquedotto si parla di numeri: l'acquedotto nell'Ottocento aveva 20 km calpestabili, migliorati nel Novecento, ma è solo dal 2005 circa che si inizia a parlare di trekking dell'acquedotto.

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La zona è stata molto rivalutata, soprattutto a partire dallo scorso anno in poi, complici le restrizioni dettate dalla pandemia. Tale apprezzamento nasce soprattutto perché già da pochi metri di altitudine si smette di sentire il traffico cittadino. Il primo agglomerato da dove ci troviamo in poi, infatti, è San Siro di Struppa, quindi dopo parecchia strada nel verde e case isolate. L'acquedotto è andato di pari passo con l'ampliarsi della città, e ad un certo punto si è esteso verso l’alto, in quanto, con l’aumentare dell’altitudine, il salto dalla montagna alla città permetteva di prendere pressione. Come si diceva prima su questo si è potuto spendere minimamente, mentre un costo sostenuto per l'acquedotto è stato quello per realizzare le gallerie, che vedremo a breve avere una funzione importantissima, e per importare da Torino la pietra di Luserna (lo stesso materiale della Mole Antonelliana), importata da Torino, utilizzata per lastricare tutto il sentiero. Quest'ultima operazione è stata svolta dai Savoia. Prima di queste pietre c'era l'ardesia, la cosiddetta ciappa, proveniente dalla zona ligure.

Sara Morgia Photography

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La seconda tappa è la galleria della rovinata, o ruinà, dal genovese ruinare, cadere verso il basso; essendo questa una zona alluvionale capitava spesso, infatti, che franassero detriti. La galleria è stata realizzata dopo l'arrivo dei Savoia (tra 1827 e 1830) da Carlo Barabino, autore di tutti i particolari neoclassici che vediamo nelle chiese della zona, nonché di parte del teatro Carlo Felice e del cimitero di Staglieno.

La galleria viene aperta periodicamente dalle associazioni che fanno volontariato sull'acquedotto comunicandolo sulle piattaforme social rivolto a chi volesse visitarla.

La rovinata attraversa tutta la collina per 150 metri di lunghezza; fu costruita per superarne un tratto soggetto a frane, per mettere quindi l'acquedotto in sicurezza. Si tratta di un percorso a gomito, all'interno del quale si trova un camino di areazione che dà luce all'interno e permetteva di respirare a chi vi lavorava dentro.

Lì si trova pietra di Luserna antecedente ai Savoia. Silvia racconta che vi sono numerose altre gallerie e che un'altra oltre a questa reca il simbolo dei Savoia, ma solo questa ha un portale così monumentale.

Il portale per entrarvi (chiamato simpaticamente, infatti, stargate dai volontari) risulta piuttosto particolare nella forma e nell'estetica generale; si stenta a credere che sia stato realizzato “solo” per il passaggio dell'acqua.

Maurizio Lapera Photography

Dario Truffelli Photography

Il versante su cui ci troviamo è particolarmente esposto al sole, tanto che vi si trovano anche dei castagni e un tempo i mulini ne producevano la farina. La zona da Staglieno a Molassana veniva invece detta luvéga (zona umida in genovese), dove quindi non crescevano alberi da frutto e pertanto vi si trovavano fornaci adibite alla realizzazione di materiale da costruzione. Il rio che si trova in questa zona è il Rio Torbido, sopra il quale passa l'iconico ponte canale, terza tappa di questa passeggiata. Il ponte canale sul Rio Torbido, che è lungo circa 100 metri e ne misura 35,7 metri in altezza, fu realizzato nel 1623 per

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svalicare ed evitare di dover passare per Creto, collegandosi quindi con il sentiero per San Siro. Nel 1820, notati alcuni fenomeni di instabilità, vengono realizzati gli archi inferiori, che fanno da rinforzo. Sotto di esso si trovavano fornaci e i vecchi mulini. Silvia spiega che un tempo vi era anche una casa farmaceutica e possiamo ancora oggi ammirare la casa dei vecchi custodi del rivo. La forma peculiare del ponte, che ad un certo punto descrive un angolo, è sempre dovuta alla necessità di aumentare la pressione dell'acqua, oltre a favorire il raccordo sopra citato.


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Dario Truffelli Photography La vista da qui è davvero qualcosa di indescrivibile, capace di parlarci di una Genova spesso poco considerata, a favore della sua continua associazione al mare e alle zone di porto. Qui invece abbiamo il bosco, i prati, le colline e soprattutto tanta storia poco nota alla maggior parte di noi, anche di chi ci abita. Se a questo aggiungiamo lo straordinario contrasto tra il caos della città che vediamo laggiù, lontana, e il silenzio che si trova qui, che si vive su questo ponte, non si può che innamorarsi all'istante di questo posto straordinario. Proseguendo lungo il cammino consigliamo una piccola deviazione dal sentiero dell’acquedotto tramite la quale si arriva alla quarta tappa, la Chiesa di San Siro di Struppa. Lungo la strada si vede in lontananza il Forte Diamante, e Silvia racconta che a Genova nacquero prima i forti, poi la via dell'acqua e infine le strade per collegarsi con altre città. Questo perché quando venne costruito l'acquedotto, nel XII secolo, Genova stava subendo invasioni dal Nord, pertanto costruire raccordi stradali avrebbe solo che favorito i nemici,

Gianfranco Cavassa Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

mentre una fortificazione e un autoapprovvigionamento erano più che mai necessari. Solo in seguito, a metà dell'Ottocento, vennero realizzate le connessioni con le città e le regioni vicine. Arrivati alla chiesa, Silvia procede nel raccontarne la storia. Si dice che ci fosse già una chiesa nel V secolo d.C., creata pochi giorni dopo la morte di San Siro di Struppa, vescovo genovese che bonificò le zone della malaria. Venne a Struppa per via della zona piena di acquitrini, che si chiamava zona dell'Emiliano, da cui nacque appunto il suo pseudonimo. La chiesa è romanica e, a differenza delle chiese romaniche del centro, realizzate con conci bianchi e neri (pietre di promontorio e marmo), è stata costruita con pietre prese presso Davagna; essendo questa zona di cave di arenaria, rispetto a quelle del centro la chiesa rimane di colore più tendente al giallo perché la pietra ha più sabbia all'interno.


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Davide Mele Photography

Il rosone è del 1300 ed è stato rifatto nell'Ottocento; la torre del campanile è stata ampliata e sono state rifatte le 8 campane, anch'esse nell'Ottocento. Durante la Controriforma la chiesa, in effetti, è stata rifatta completamente e sono state rimosse le decorazioni laterali, per via dalla convinzione, che le decorazioni nei luoghi di culto fossero motivo di distrazione. L'altare maggiore era il doppio della sua dimensione attuale. La chiesa presenta una travatura in legno, sul soffitto che ha origine medievale: riprendeva il motivo della nave rovesciata, poiché simbolicamente richiamava la parola di Dio che naviga da Oriente verso Occidente, orientamento, questo, anche del movimento interno alla chiesa, dato che queste venivano progettate con l'abside rivolto verso est e l'ingresso sul lato occidentale, in modo che i fedeli entrando si muovessero verso Oriente, come l'ascesa di Cristo in croce. Il polittico all'interno è l'unico punto illuminato e raffigura le gesta di San Siro che uccide il basilisco. Silvia racconta che c'è stato un po' di dibattito circa l'autore negli anni, ma si è stabilito poi che fosse stato realizzato da Pier Francesco Sacchi. Inoltre, spiega che il basilisco nella cultura genovese è un po' diverso da come lo si dipinge nella cultura popolare. Se normalmente, complice anche la vicenda di Harry Potter, si pensa al basilisco come una creatura leggendaria, molto grande e piuttosto spaventosa, a Genova di solito esso è un animale medio piccolo, simile ad un pollo, guardato con disgusto per via della sua correlazione ai pozzi sotterranei, per cui lo si riteneva portatore di malattie e maleodorante. Sulla porta della Chiesa sono raffigurati i sei santi benedettini, essendo San Siro, come la maggior parte delle chiese genovesi, benedettina.

Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 67


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Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

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Procedendo verso Molassana si passa attraverso scorci meravigliosi, immersi totalmente nel verde. Sembra incredibile pensare di essere così poco distanti dalla città e al tempo stesso osservare un paesaggio così diverso, ma ancora una volta questo ci conferma la bellezza della città di Genova e la sua capacità di offrire una moltitudine di scorci, paesaggi e ambienti differenti, senza doverli andare a cercare così lontano come verrebbe da pensare. La quinta tappa è la chiesa di Nostra Signora Assunta di Molassana, le cui prime testimonianze risalgono al 1149, ma sembrerebbe anche in questo caso che ci fosse una chiesa già da prima, poi demolita. Come per San Siro ci sono state numerose revisioni nel corso dei secoli: la chiesa è stata ristrutturata nel XVII secolo e poi danneggiata a metà del Settecento dagli Austriaci. Qui ci si può soffermare ad ammirare il sagrato, realizzato con ciottoli di mare e completamente integro: risaliva al 1882 ed è decorato con un classico risseu, il mosaico tipico genovese dai colori bianco e grigio in cui viene raffigurato la tipica “M” di Maria. L'ultima tappa è il primo di due sifoni di cui si è parlato già all'inizio, quello sul Geirato. Si tratta di un ponte lungo più di 600 metri, riconosciuto nella sua genialità ingegneristica a livello internazionale, in quanto avente una forma particolarissima realizzata tanto per

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mantenere la corretta pressione dell'acqua quanto per ovviare al problema del terreno ostile. La sua storia è piuttosto travagliata: già nel 1660 era stata fornita l'autorizzazione alla costruzione, ma il ponte vide la luce solo 112 anni dopo. Terminato nel 1777, subì diverse revisioni ai tubi, non ultima quella dove si tentò anche qui di sostituire il ferro con il marmo. Il progetto fu però contestato e abbandonato e si optò per sostenere i tubi con delle ghiere di metallo. All'inizio del sifone troviamo l'enorme vasca di regolazione da cui partivano i tubi, che superavano un dislivello di ben 50 metri. Questa tipologia di ponti veniva costruita sulle zone più facilmente franabili: tuttora, infatti, la zona circostante viene messa in sicurezza dai volontari e sono stati richiesti fondi al Comune per potersene occupare in maniera approfondita. La traversata è qualcosa di inspiegabile: si può procedere in fila, essendo lo spazio in larghezza sufficiente solo per una persona, e si passa letteralmente accanto alle antiche tubature, e godendo, ai lati, di una visione panoramica della città.

Stefano Zec Photography

Giroinfoto Magazine nr. 67


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Per concludere ci siamo fermati a chiacchierare con Giovanni Zai, presidente dell'Associazione Amici dell'Acquedotto Storico, che si occupa da anni della pulizia e cura di diversi tratti del percorso assieme ai numerosi volontari privati e alle associazioni. Di recente, anche attraverso una petizione, l'associazione è riuscita ad ottenere una convenzione da parte del Comune per poter eseguire i lavori più grandi e costosi di manutenzione, nonché della promozione del luogo. Di seguito la nostra intervista: Come nasce il progetto di volontariato per l'acquedotto? Nel 2014-15 grazie ad un'intervista del giornale Il Secolo XIX, esprimo la volontà di rimettere in ordine la sentieristica della vallata, partendo dall'Acquedotto Storico perché la parte del sentiero del Seicento era completamente abbandonata. Lancio un appello per raccogliere volontari, a cui rispondono una decina di cittadini, e abbiamo così iniziato questa avventura. Da lì abbiamo proseguito e si sono aggiunte sempre più persone, fino ad arrivare ad oggi: su tutto l'acquedotto siamo circa un'ottantina e siamo diventati Federazione, che consta di 17 associazioni.

Come vi organizzate nelle attività? Abbiamo due canali divulgativi: il primo è una mailing list dove i collaboratori – anche privati – che si iscrivono anche tramite il gruppo di Facebook Fans dell'Acquedotto – vengono informati delle attività lavorative e confermano la propria partecipazione. Il secondo è un gruppo Whatsapp, di cui fanno parte sia membri delle associazioni sia i privati ormai “fidelizzati”. Lì fissiamo il calendario delle giornate lavorative, che sono solitamente suddivise in base ai tratti di competenza di ciascuna associazione, ma ci si può spostare in maniera elastica: basta semplicemente segnalarlo. Di solito lavoriamo il giovedì e il sabato, per garantire la possibilità di partecipare sia a chi lavora sia a chi non lo fa. Vengono sia persone della zona sia persone di altre località (prima del COVID anche da fuori Genova), perché magari dopo aver preso parte a una visita scoprono queste attività e desiderano contribuire. Con il COVID abbiamo dovuto limitare gli interventi e la provenienza dei partecipanti è stata unicamente genovese, ma ha permesso a tantissima gente del posto di scoprire un luogo altrimenti sconosciuto, ed ecco che quindi l'acquedotto si ritrova pieno di gente che viene a passeggiare lungo questi sentieri.

Luca Barberis Photography

Cosa state chiedendo adesso al Comune?

Dopo la nascita della Federazione, nata l'estate scorsa, abbiamo deciso di organizzare diversi eventi. Avevamo in programma di abbellire l'acquedotto in sé e di dare priorità ad alcuni lavori un po' più grandi, quindi comunque non realizzabili autonomamente. Abbiamo dunque deciso di chiedere al Sindaco, forti anche del nuovo grande afflusso di gente, dei fondi, pari a due milioni e mezzo di Euro per un progetto di restyling dell'acquedotto. Il 1 marzo abbiamo avuto un colloquio col Sindaco, che ha chiesto di presentare un progetto propriamente detto, stilato da un geologo stilato da un geologo, responsabile anche del progetto di restauro dei Forti, per dare un assetto coordinativo al tutto, evitando eventuali problemi burocratici. Grazie a questo progetto si stanno stilando le varie priorità: il primo step prevede la messa in sicurezza e la creazione di passerelle effettive, sostituendo quindi quelle che abbiamo messo noi come volontari, in modo da poter concludere tutto il percorso senza dover attraversare guadi o zone comunque rischiose. Giroinfoto Magazine nr. 67

Questo anche perché vorremmo creare un percorso, nel tratto da Pino a Trensasco, percorribile anche in sedia a rotelle. In generale quindi si vuole garantire la percorribilità in sicurezza di tutto il percorso. Poi come step ulteriore vorremmo abbellire, e accrescere, le aree di sosta. Inoltre vorremmo che si lavorasse alla segnaletica del percorso, nonché la mappatura dei diversi tracciati, che abbiamo già creato. L'idea è di avere, da qualunque punto si acceda, subito disponibile la mappa dei percorsi con i relativi punti di interesse. Contemporaneamente dovrebbe partire il progetto Pedestribus, in collaborazione con AMT, già in atto da qualche tempo in realtà, che sta realizzando una sorta di guida per Genova per chi vuole visitare sentieri della zona coi mezzi pubblici; adesso verrà inserito anche l'acquedotto.


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Anche perché immaginiamo che parte del progetto sarà anche informativo e divulgativo. Sì, sia perché questo posto è stato per tanto tempo poco noto sia perché c'è stata per tanto tempo poca chiarezza e messa in evidenza di punti d'accesso, carrabili e pedonali, di percorsi possibili e quant'altro. Con questo progetto invece vogliamo garantire di poter passeggiare intanto in sicurezza, ma anche avendo ben chiare tutte le possibilità e le meraviglie che questa zona ha da offrire. Cosa si augura per il futuro?

Il suo posto preferito dell'Acquedotto? Il mio posto preferito è casa mia! Scherzi a parte, non potrei stabilire quale sia il luogo del cuore qui, amo tutto. Posso consigliare sicuramente alcuni dei punti di interesse che avrete certamente visto nel vostro percorso, ma non potrei mai fare una preferenza.

Intanto di sopravvivere! E di riuscire a realizzare nella sua interezza questo progetto, così che questo posto diventi una passeggiata non eccezionale, ma ordinaria, parte del percorso “di prassi” dei turisti, che non si fermino solo al porto in una giornata, ma che stiano più giorni e scoprano che Genova non è solo mare, ma anche monti e colline, che regalano tantissime scoperte sulla storia di questa città. Inoltre mi auguro che i giovani portino avanti tutto il lavoro che stiamo facendo, che venga ereditata questa passione e questa attività. Magari anche dando loro lavoro in qualche modo, perché no.

Con l'acqua Genova fa i conti da sempre, dunque. Con le piogge che la bersagliano, con il mare che la circonda da un lato, e con quell'acqua che scorre in alto, sui monti, dall'altro. Con l'acqua Genova si scopre, si ama e si odia, ma soprattutto attraverso l'acqua Genova si impara e si percorre. Durante questa giornata, abbiamo scoperto una città che è sempre stata a un passo da noi e che noi non avevamo mai visto interamente. Oggi invece sappiamo che cercheremo sempre, con occhi affamati, posti nuovi e nuove storie, ma che avremo sempre qui, a pochi passi, Genova pronta a regalarcene altrettanti. Perché questa è Genova. E questa è l'acqua.

Giroinfoto Magazine nr. 67


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TERRA DI TUTTI

Letizia Angeli Lorenzo Lombardi

All’interno di un capannone a Segromigno in Monte, piccola frazione del Comune di Capannori (LU), si trova “Terra di tutti”, una piccola impresa sociale che ha come obiettivo primario la cura nei confronti della nostra Terra con il riciclo dei materiali.

A cura di Lorenzo Lombardi Giroinfoto Magazine nr. 67


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Tutto ciò crea in questo luogo un’atmosfera unica: colori sfavillanti ma naturali, che ricordano la sabbia, il sole, la natura, sono a connubio di un aroma raro, deciso, che ricorda l’odore dell’argilla e del legno. Poco prima dell’entrata principale, appare subito chiaro il messaggio del riciclo: decine e decine di ombrelli vecchi accatastati in un box, che, come scopriremo poi, sono parte integrante di un progetto del Comune di Lucca, il quale ha installato in vari punti della città dei contenitori dove le persone possono gettare il proprio ombrello malfunzionante o rotto, il quale a sua volta verrà riciclato dalle ragazze e dai ragazzi di “Terra di tutti”, che utilizzano il nylon per creare oggetti di riciclo creativo. Entrando in questo microclima, ci appare subito chiaro come la realtà dei fatti sia semplice ma efficace.

Lorenzo Lombardi Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

Ci accoglie Hassna, una donna originaria del Marocco, che dentro questo contesto ha trovato la sua felicità, realizzando ed esprimendo la sua creatività. Parlando con lei, subito l’occhio e la camera colgono la raffinatezza e le sfumature dei materiali in uso per la creazione degli oggetti; Hassna sta cucendo con maestria ed esperienza dei porta bottiglie, che andranno a sostituire, grazie ad un progetto di riciclo sponsorizzato da un ente comunale, le cassette di plastica, usate dai cittadini per andare a riempire le bottiglie alle famose colonnine dell’acqua. Marsupi, sedie, borse, pouf, portapranzi, disegni su tela, mascherine ed altri progetti sono la chiara radice di una piccola impresa che tende, tramite il riciclo, ad ottemperare alla forte e chiara richiesta del pianeta Terra, ormai stanco dei nostri rifiuti.


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Letizia Angeli Photography Giroinfoto Magazine nr. 67

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“Terra di tutti è un crocevia di impronte geografiche e artistiche, è una comunità in movimento; nella terra di tutti nascono relazioni, intrecci, dialoghi e oggetti“.

Tale progetto è coadiuvato dalla prestigiosa Università di Firenze, la quale, attraverso dei filmati interattivi, aiuta a ripercorre la dura ed aspra fatica compiuta da alcuni dei ragazzi per migrare nel Bel Paese, con il sogno di una vita migliore; essi, con la loro intricata storia, hanno dato vita anche materialmente a dei bellissimi artefatti in legno, incidendovi sopra i costi, i chilometri e le ore trascorse durante il loro intenso viaggio.

Con questa citazione, scritta su un cartellone all’entrata del capannone, si può riassumere un progetto importantissimo, portato avanti da questa piccola ma grande impresa sociale.

Questo progetto, così ricco di sudore e passione, riecheggia a caratteri cubitali all’interno dello stabile. Tuttavia, purtroppo, il messaggio rimane spesso inascoltato.

Il lavoro all’interno del centro viene eseguito da persone che mettono a disposizione la loro esperienza ed è un chiaro messaggio di integrazione economico-sociale, da non sottovalutare.

Letizia Angeli Photography

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Come un puzzle, questo progetto aziendale è parte integrante di un recupero etico-sociale, sintomo di una benevolenza comune, una uguaglianza di base perduta, che coinvolge un insieme di persone grazie al grandissimo impegno di Tonja, coordinatrice artistica dell’azienda, la quale, con immensa trepidazione, ci racconta le più belle emozioni ed i momenti più difficili che ha vissuto grazie allo scambio etnico. Durante la visita, Tonja ci confida che per lei la soddisfazione di aver creato qualcosa di straordinario come questa impresa sociale, è immensamente gratificante; ne è una riprova concreta la frase che ci dice: “a Terra di Tutti si parla

un linguaggio universale, nel quale, si riesce a lavorare in gruppo facendo uscire da materiali di scarto, cose e non oggetti”. Successivamente ci viene presentato il presidente dell’impresa, Vianney, nato in Burundi, dottore in Legge e operatore dello sportello immigrati del Comune di Capannori (LU), il quale ci mostra con grande orgoglio ciò che per lui rappresenta questa realtà, ovvero, la voglia di libertà di espressione con un occhio all’integrazione e al futuro della Terra.

Letizia Angeli Photography

Vianney, con occhi pieni di tenacia e uno sguardo al futuro, ci racconta come questo progetto sia importante per il nostro Pianeta, perché gli sprechi dati dal consumismo sono tangibili e il nostro mondo non è più in grado di sostenerli. Falegnameria, esplosioni di colori, tessuti e riciclo creativo sono i principi di base all’interno di questo luogo, che ha nella stanza denominata “la Stamperia” il centro cardine del progetto.

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La Stamperia è una zona di lavoro creativa all’interno della quale, mediante l’utilizzo di semplicissime matrici in legno, realizzate con scarti ed oggetti di recupero, vengono prodotte delle creazioni artigianali, intingendo le matrici nella tinta per poi pressarle sulla tela; questo lavoro è considerato, all’interno dell’impresa, una tecnica di lavoro “democratica”, perché ognuno riesce a lavorare e creare seguendo il suo ritmo di lavoro ed il proprio metodo di creazione artistica, senza vincoli.


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Svariati progetti nascono e prendono luogo a “Terra di tutti”, un progetto che guarda anche al lato economico, ma ricordandoci quanto sia splendido poter fare un qualcosa per questo pianeta.

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Alla scoperta di un mondo nuovo Autore: Luca Bruno Lago delle Rovine, Valle Gesso, provincia di Cuneo, Piemonte

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Il tempo non si ferma mai... 10:22 Autore: Michele Petrelli Spagna città di Siviglia Giroinfoto Magazine nr. 67


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La dimora dell'eternità Autore: Matteo Martini Museo Egizio Torino

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ARRIVEDERCI AL PROSSIMO NUMERO in uscita il 20 giugno 2021

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AURORA PEN Adriana Oberto

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