N. 70 - 2021 | AGOSTO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.70 - AGOSTO 2021
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TORINO Band of Giroinfoto PENISOLA DI LUCE SESTRI LEVANTE Band of Giroinfoto
PALAZZO BESTA TEGLIO Band of Giroinfoto
SAMBUCA DI SICILIA BORGO DEI BORGHI Band of Giroinfoto Photo cover by Remo Turello
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LA REDAZIONE
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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ANNO VII n. 70
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20 Agosto 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
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MUSEO EGIZIO Torino Band of Giroinfoto Piemonte
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PENISOLA DI LUCE Sestri Levante Band of Giroinfoto Liguria
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PALAZZO BESTA Teglio - Valtellina Band of Giroinfoto Lombardia
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DANZANDO SULLA MOLE Maurizio Puato Band of Giroinfoto Piemonte
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SAMBUCA DI SICILIA
SAMBUCA DI SICILIA Cuore di Tufo Band of Giroinfoto Sicilia
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MAAM Abitare il Museo Band of Giroinfoto Lazio
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GRESSONEY La residenza della Regina Margherita A cura di Mariangela Boni
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MAAM
MOMBALDONE Il borgo incantato Band of Giroinfoto Piemonte
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FOTOEMOZIONI Manuela Albanese Ivo Marchesini Claudia Lo Stimolo Laura Stratta
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MUSEO EGIZIO TORINO
A cura di Margherita Sciolti e Giancarlo Nitti
TORINO Claudia Lo Stimolo Floriana Podda Giancarlo Nitti Margherita Sciolti Monica Pastore Remo Turello
Il Museo Egizio di Torino è uno dei più importanti musei al mondo, conferendo alla città un ruolo di rilievo nella cultura internazionale. È il più antico museo dedicato alla civiltà nilotica e il secondo per importanza, dopo quello de Il Cairo. La storia del museo ha profonde origini che risalgono al 1563, anno dell’insediamento dei Savoia a Torino, diventata Capitale del Ducato. Incontriamo Beppe Moiso, storico egittologo e ricercatore archivista che ci racconta l'evoluzione del museo.
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MUSEO EGIZIO TORINO
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BEPPE MOISO dal 1966 inizia a frequentare e a collaborare con il Museo Egizio di Torino La sua attività principale all'interno del museo è dedicata allo studio e alle ricerche archivistiche legate alla formazione della collezione torinese, comprendendo l’intera attività archeologica condotta da Ernesto Schiapparelli e Giulio Farina.
Giancarlo Nitti Photography
Cura la riproduzione informatica degli archivi cartacei e fotografici per la creazione di una banca dati centralizzata. Ha partecipato a diversi scavi, inclusi quelli di Gebelein e Assiut iniziati da Virginio Rosa nella campagna del 1911. Nell’Agosto 2016 scrive La storia del Museo Egizio edito da Franco Cosimo Panini
Monica Pastore Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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MUSEO EGIZIO TORINO
Questo evento è considerato il punto zero da cui ebbe inizio la storia del museo egizio a Torino. Da lì a breve un altro ritrovamento ha permesso il protrarsi dell’interesse verso la cultura egizia. Si tratta della Mensa Isiaca, una tavola bronzea, appartenente alla collezione Gonzaga, , acquisita dai Savoia tra il 1626 e il 1630, completamente ricoperta da scritte e raffigurazioni, con al centro l’immagine della dea Iside in trono. Durante lo scavo della cittadella, fortezza collegata alle mura della città, fu ritrovato un cippo in pietra (basamento di una statua di epoca romana) recante una dedica alla dea Iside, già venerata in diverse località e quindi già conosciuta e associata alla cultura egizia. Casa Savoia pensa quindi di sfruttare questo ritrovamento per dare un valore aggiunto a Torino, arrivando addirittura a ipotizzare origini egiziane della città stessa.
Torino iniziava a raccogliere elementi riferiti alla cultura egizia, pur non avendo conoscenze precise in materia: l’acquisizione della collezione dei Gonzaga unita ai reperti posseduti da casa Savoia, tra i quali spiccava una testa che si ipotizzava rappresentasse la dea Iside e il ritrovamento del cippo hanno fatto sì che Torino diventasse una “città egizia”.
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Solo in seguito si scoprirà che l’oggetto non era proveniente dall’Egitto ma era stato realizzato ispirandosi a quella cultura. Casa Savoia, che aveva già iniziato una propria collezione, intorno al 1630, si aggiudica l’acquisto di questo oggetto dal mercato dell’antiquariato insieme ad altri pezzi di minore importanza, rafforzando così il loro percorso museale.
MENSA ISIACA Margherita Sciolti Photography
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MUSEO EGIZIO TORINO
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notizie storico-scientifiche che definissero con precisione la provenienza delle culture. Donati, partendo da Alessandria, visita tutto l’Egitto risalendo il Nilo fino alla Nubia, attraversando la Palestina e la Siria per poi passare dall’India. Nel 1762 morirà per mare senza far ritorno a casa.
Nel desiderio di accrescere in maniera più strutturata la raccolta di oggetti provenienti dall’Egitto, Carlo Emanuele III, nel 1759, propone a Vitaliano Donati, docente di botanica all’Università di Torino, di partire per l’Egitto per eseguire delle ricerche. La missione prevedeva la realizzazione di un orto botanico in Egitto e il reperimento di curiosità da integrare alla collezione. A quel tempo i reperti archeologici erano considerati “curiosità” e non erano tutelati in quanto non vi erano
LE STATUE DI DONATI Margherita Sciolti Photography
Durante la sua lunga avventura riesce a inviare a Torino il suo diario di viaggio composto da tre volumi, un erbario, alcuni oggetti egizi e tre straordinarie statue in pietra: una raffigurante la dea Iside, una della dea Sekhmet e l’ultima di Ramesse II appartenenti al Medio Regno. Da quel momento Torino diventa una città di interesse egittologico riuscendo a certificare la provenienza di ogni pezzo appartenente alla collezione, grazie proprio al diario del Donati dove descrive dettagliatamente tutti i reperti ritrovati nei posti visitati.
A questo punto la raccolta smette di essere una collezione privata, conservata nei palazzi di Casa Savoia, e diventa un Museo delle Antichità presso l’Università di Torino di Via Verdi. Siamo nel 1765.
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MUSEO EGIZIO TORINO
Unitamente alle truppe militari, in quella missione, sbarcarono anche 167 scienziati tra architetti, disegnatori, ingegneri, cartografi, botanici, zoologi e mineralisti tra cui il Drovetti, che avrebbero dovuto descrivere e intavolare dettagliatamente ogni aspetto del territorio.
Qualche decennio dopo, nel 1798, un italiano, nativo del canavese, Bernardino Drovetti, ufficiale arruolato nell’esercito di Napoleone, conquistò la fiducia di quest’ultimo, tanto da avere un ruolo importante nella Campagna d'Egitto. Anche se detta campagna non ebbe l’esito desiderato da Napoleone sotto l’aspetto militare, Drovetti fece in modo che la sua missione diventasse prolifica sotto l’aspetto scientifico, grazie anche all’interesse della Francia di documentare il Paese che avrebbe voluto conquistare.
È la prima volta che si riesce a documentare uno stato lontano con le agevolazioni di un esercito. Frutto di questa spedizione scientifica fu la Description de l’Égypte, un'opera monumentale, formata da nove volumi di testo, dodici volumi di tavole di grande formato e un atlante geografico. Durante questo periodo, nel 1799, a Rosetta, un piccolo villaggio sul Nilo, avviene una scoperta chiave sotto l’aspetto archeologico. La famosa Stele di Rosetta viene rinvenuta da Pierre-François Bouchard, capitano nella Campagna d’Egitto di Napoleone Bonaparte. Essa rappresenterà una svolta per la decodificazione dei geroglifici egiziani.
terminata infelicemente la campagna d’Egitto napoleonica, Drovetti continuò a mantenere i rapporti con l’Egitto grazie all’intermediazione consolare della Francia, acquisendo il titolo di Console Generale di Francia, con l’incarico di coordinare i rapporti commerciali tra i due Paesi. In Europa quindi avvengono due importanti eventi: l’opportunità di studiare i volumi della Description de l’Égypte nelle Università europee, ampliando le vedute scientifiche su quei territori, e lo studio della Stele di Rosetta arrivata in Francia che permise la traduzione dei geroglifici egiziani. Ogni scoperta in Egitto, grazie a questi eventi, assume un’importanza concreta.
BERNARDINO DROVETTI Margherita Sciolti Photography
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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conoscerlo e concordare l’acquisto dell’intera collezione da parte dei Savoia a Torino, avendo la meglio su francesi e inglesi anch’essi interessati ai pezzi. La prova di tutto ciò è raccontata all’interno del diario di Fabrizio Carlo Vidua, da lui spedito a Torino unitamente al catalogo con il dettaglio della collezione racimolata dal Drovetti. A questo punto si diffonde una voglia generale di acquistare e possedere pezzi di origine archeologica egiziana. Ecco che i reperti provenienti da quei luoghi diventano preziosi oggetti di commercio. Drovetti si rivelerà sicuramente il più abile e il più agevolato a condurre questo nuovo tipo di commercio, racimolando un’enorme quantità di reperti e pezzi legati alla cultura dell’Egitto antico. La prima collezione fu venduta dal Drovetti nel 1821 attraverso la referenza di Vittorio Emanuele I, con l’intervento di Fabrizio Carlo Vidua di Conzano che si interessò fortemente alla collezione, tanto da partire per l’Egitto per
A Marsiglia, durante il ritorno dal viaggio, su notizia della moglie del Drovetti, scopre che la collezione, reperita principalmente nella zona di Tebe, non era ancora nelle mani dei Savoia. Rientrato in patria Carlo Vidua si rese conto che le trattative avevano subito diversi ostacoli, tra cui la contrarietà da parte del clero di importare la collezione per non mettere in discussione la storicità della Bibbia, insieme ai francesi che non demordevano sull’acquisizione dei reperti. Solo alla fine del 1823 Vidua riesce a strappare un documento di impegno tra il Drovetti e i Savoia per l’ufficializzazione della vendita, al costo di 400 mila lire di Piemonte.
A quel punto Vidua scopre che gran parte della collezione, che in Egitto non era riuscito a vedere, era già nel porto franco di Livorno presso i magazzini Morpurgo e Tedeschi e che, solo successivamente, il Drovetti completò con la spedizione degli ultimi pezzi. La collezione alla fine del febbraio del 1824 arriva a Torino mediante un convoglio di carri militari, alcuni costruiti appositamente per effettuare questo complicato trasporto che deve attraversare anche gli Appennini. Il viaggio fu seguito dalla cronaca attraverso numerosi articoli e stampe dedicate all’evento.
CARLO VIDUA ARRIVO DELLA COLLEZIONE A TORINO Margherita Sciolti Photography
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1832 circa, di Marco Nicolosino che illustra il primitivo allestimento dello statuario in una sala del piano terreno, oggi sala conferenze. Nel 1850 viene trasferita, insieme ad altre collezioni grecoromane e al Museo delle Scienze naturali nelle attuali sale dedicate allo statuario.
Arrivata a Torino la collezione venne sistemata nel Collegio dei Nobili, edificio del 1600 della scuola guariniana, completamente vuoto, dove era già stata insediata l’Accademia delle scienze che ne occupava una piccola parte. Ancora adesso l’edificio in questione è la sede del Museo Egizio, nonostante gli spazi, con l’ampliamento museale, siano diventati stretti, necessitando di altri ambienti. A testimonianza della prima esposizione presso l’Accademia delle scienze ci sono diversi dipinti tra cui l’acquerello, del
Altri due dipinti importanti del 1871 di Lorenzo Delleani raffigurano questo allestimento nelle sale del primo piano (oggi adibito a statuario). Anche gli altri stati, tra cui Francia e Inghilterra, a quel punto, visto l’esempio torinese di allestire un Museo di antica cultura egizia, solo più tardi nominata egittologia, si sono messi alla ricerca di reperti per creare i propri allestimenti museali. Tale fenomeno attirò la curiosità e l’interesse di ricercatori da tutto il mondo per studiare i pezzi del Museo Egizio di Torino, che contava più di 8000 pezzi, iniziando una catalogazione approssimativa e spesso errata, in quanto di cultura egizia non se ne sapeva ancora nulla, di quello che potevano essere i reperti. Iniziava così un’attenzione scientifica verso l’Egitto. Uno dei pezzi più importanti, oltre allo statuario, oggi visibile al primo piano del Museo è il Libro dei Morti, esposto all’ingresso del percorso storico estendendosi per 19 metri. Si tratta di una raccolta di formule magico-religiose che dovevano servire al defunto come protezione e aiuto nel suo viaggio verso la Duat, il mondo dei morti, che si riteneva irto di insidie e difficoltà, e verso l'immortalità. Tali testi potevano essere composti da più capitoli, ognuno decideva come personalizzare e quali parti inserire nel proprio libro; quello esposto presso il museo egizio è uno dei più completi mai ritrovati.
PRIMO ALLESTIMENTO MUSEALE 1832 Marco Nicolosino Margherita Sciolti Photography
Un altro elemento importante ritrovato dal Drovetti è il Canone Reale, un papiro, che, srotolato sbadatamente, si sgretolò e si preservarono solo alcuni frammenti. Solo successivamente si scoprì essere un documento fondamentale della cronologia della storia egizia.
ALLESTIMENTO MUSEALE 1871 Lorenzo Delleani Floriana Podda Photography
FRAMMENTI DI CANONE REALE Giroinfoto Magazine nr. 70
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PARTICOLARE DEL LIBRO DEI MORTI Remo Turello Photography
STATUARIO Claudia Lo Stimolo Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Di questi ritrovamenti facevano parte anche numerose mummie, fortunatamente non sbendate, che rappresentavano le pratiche funerarie dell’Egitto, caratterizzate da numerosi dettagli posti sul sarcofago nell’entro sarcofago e infine sulla mummia stessa con una maglia realizzata in pasta vitrea con colorazioni molto forti tra cui predominavano l’azzurro, il turchese, il verde acqua e l’oro. Nel corso di questa nuova era, l’Egitto realizza che ciò che faceva parte della propria cultura veniva esportato in altri Paesi. Ecco che a Il Cairo nasce il Servizio delle Antichità dell’Egitto, fondato dall’egittologo francese Auguste Mariette, che aveva come scopo frenare l'emorragia continua di materiale archeologico verso l'Europa e le collezioni pubbliche e private. Sarà lui il fondatore del Museo Egizio del Cairo.
Da qui nasce la disciplina egittologica, che prevedeva gli studi sul luogo, con vere e proprie missioni archeologiche, dando un’importanza ai reperti non dal punto di vista estetico ma scientifico. In Italia Ippolito Rosellini, docente egittologo all’Università di Pisa fu il fondatore dell’egittologia scientifica italiana eseguendo diverse spedizioni in Egitto e Nubia, insieme al grande egittologo francese Jean François Champollion. La straordinaria quantità di reperti rinvenuta venne divisa equamente, secondo gli accordi, tra i due soggetti finanziatori dell'impresa archeologica, ovvero lo Stato francese e il Granducato di Toscana, andando così a costituire i nuclei principali e originari delle raccolte d'arte egizia rispettivamente del Louvre di Parigi e del Museo Egizio di Firenze, in seguito arricchite anche da altre donazioni.
Soltanto nel 1903 il museo egizio diretto da Ernesto Schiaparelli, riuscì ad impostare una serie di campagne di scavo in Egitto costituendo la M.A.I. (Missione Archeologica Italiana), che durò fino al 1920, promuovendo 12 campagne di ricerca con il supporto finanziario di Casa Savoia, nella persona del Re Vittorio Emanuele III che portò al rinvenimento di oltre 30.000 pezzi tutt’oggi esposti al museo di Torino. Il lavoro di Schiaparelli fu subordinato alle lacune della collezione del Drovetti dal punto di vista geografico in quanto i reperti esistenti provenivano solo ed esclusivamente dalla zona di Tebe. Claudia Lo Stimolo Photography
Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
Questo lo portò a mappare i punti nevralgici della cultura egizia ed eseguire in quei luoghi gli scavi programmati, individuando per esempio Gebelein per i reperti preistorici e la Valle delle Regine per le sepolture reali. Ciò permise di far balzare nuovamente il museo torinese agli onori della cronaca.
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1903 Eliopoli
1903 Giza
1910 Bahnasa 1903 Ashmunein
1906 Assiut
1905 Hammamia Qau El Kebir 1909
1905 Deir El Medina
1903 Valle delle Regine Gebelein 1910
CAMPAGNE SCAVI MUSEO EGIZIO DI TORINO
Assuan 1914 Giroinfoto Magazine nr. 70
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Schiaparelli fu inoltre il primo a documentare fotograficamente in maniera dettagliata i propri scavi, su oltre 20.000 lastre di celluloide, e quelli proseguiti dal suo successore Giulio Farina. Le apparecchiature e gli scatti fotografici sono state gelosamente conservati ed esposti all’interno del Museo Egizio. È curioso raccontare come Schiaparelli si recò alla sua prima missione per conto del museo egizio sfruttando il collegamento tra i frati francescani di Firenze e la missione francescana a Luxor. Fu quindi ospitato dai frati durante la sua permanenza in Egitto che lo portò a realizzare lo stato di povertà degli stessi e a intervenire fondando l’A.N.S.M.I. Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari Italiani. Questo lo porterà ad avere le porte aperte su tutto l’Egitto attraverso l’ospitalità dei francescani, a tal punto da utilizzare le Missioni come depositi degli oggetti rinvenuti e come fonte per la manovalanza per gli scavi. Questi conservarono il suo diario in cui annotava giorno per giorno tutti i suoi movimenti, diario che verrà presto pubblicato.
L’ultimo epilogo storico del Museo Egizio è intitolato a Giulio Farina, che prese in carico la Direzione del Museo fino alla Seconda guerra mondiale dove lo stesso museo venne bombardato e danneggiato nei piani inferiori. Giulio Farina implementò l’esposizione con un’ala, che prese successivamente il suo nome, dove vennero posti i reperti provenienti dai luoghi di Assiut e Gebelein. Pubblicò attraverso i suoi studi filologici dell’egittologia la Grammatica della lingua egiziana antica in caratteri geroglifici questo anche grazie all’opportunità di studiare l’evento della scoperta della Tomba di Tutankhamon il 4 novembre 1922 a cura dell’egittologo britannico Howard Carter.
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MUSEO EGIZIO TORINO
Beppe Moiso e Alessia Fassone, per valorizzarne la storia, anche sotto il profilo egittologico. Il tempio, nella sua location originaria era stato scavato nella parete dell'altopiano, con pianta a "T" rovesciata e con dimensioni di circa 6 m e 30 per 5 m e 50 di larghezza. La facciata obliqua era abbellita da tre grandi stele ed altre iscrizioni di funzionari e privati, in segno di devozione. L’ultima grande acquisizione del Museo Egizio di Torino è il Tempio di Ellesiya, donato dal governo egiziano come riconoscimento per l’aiuto italiano nel disastro geologico dei Templi nubiani ad Assuan. Negli anni Sessanta, a seguito della costruzione della diga di Assuan, il Museo Egizio prestò aiuti concreti alla campagna per il salvataggio dei tempi della Nubia, che rischiavano di essere sommersi dalle acque del lago Nasser. In particolare una squadra, guidata dall’allora direttore Silvio Curto, partì da Torino e partecipò allo studio dell’area di Ellesiya, che comprendeva anche un tempio rupestre. Il governo egiziano, quindi, decise di donare all’Italia proprio quel tempio, come riconoscimento per la partecipazione del Paese alla vasta operazione di salvataggio. La struttura fu tagliata in 66 blocchi per una complessa operazione di trasporto e ricostruzione all’interno del Museo Egizio. Il grande reperto fu presentato a Torino alla presenza delle autorità italiane ed egiziane nell’autunno del 1970. Cinquant’anni dopo, il Museo Egizio ha celebrato questo importante anniversario con due conferenze online, a cura di
TEMPIO DI ELLESIYA Archivio Museo Egizio
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La prima stele di Thutmose III era la donazione al tempio, riprodotta da Lepsius e datata "Anno 51, mese 2 della stagione di Peret, giorno 14 del regno di Thutmose III" ovvero risalente al 1450 a.C. Della seconda stele non vi è più traccia, ma secondo l'usanza egizia si può ipotizzare che vi fosse redatto l'elenco dei beni donati dal sovrano. La terza stele, di Ramses II, relativa al restauro, raffigurava nel registro superiore il sovrano nell'atto di fare offerte al dio Amon-Ra e Horus di Miam mentre in quello inferiore vi era Setau viceré di Nubia, che diresse il restauro del tempio. L'interno era riccamente decorato con rilievi, rappresentanti numerose scene di Thutmose III con molte divinità egizie e nubiane, tra cui Dedùn, Sopdu, Amon, Nekhbet, Anuqet, e con Sesostri III, conquistatore della Nubia. In origine, come scritto sulla pietra di fondazione, il tempio era dedicato a Horus di Miam e Satet, sua consorte e protettrice di Assuan, ma la crescente importanza del dio Amon-Ra ne fece modificare le sembianze, così come riportato nella terza stele di Ramses II. La particolarità architettonica è rappresentata dal soffitto a botte mai realizzato nei precedenti templi rupestri, amalgamando perfettamente pareti e soffitto.
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MUSEO EGIZIO TORINO
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Direttore attuale è invece Christian Greco che ha sostituito il precedente Eleni Vassilika. Christian Greco, laureato in lettere classiche a Pavia, e diverse esperienze nel campo dell'archeologia, nel 2007 ha ottenuto un Master in egittologia presso l'Università di Leida (Olanda) e conseguito successivamente il titolo di dottore di ricerca presso l'Università di Pisa. Il 10 ottobre 2004, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, la Città di Torino, Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT, costituirono la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino, con lo scopo di valorizzare, promuovere e gestire la funzionalità espositiva del Museo tramite gli apporti patrimoniali ed economici ad essa destinatati dai suoi fondatori.
Nel periodo 2006-2010 è stato epigrafista dell’Epigraphic Survey of the Oriental Institute of the University of Chicago a Luxor. Il 28 aprile 2014 si insedia direttore del Museo Egizio di Torino, incarico che ricopre attualmente.
È la prima volta che in Italia gli enti privati partecipano alla gestione di un patrimonio culturale pubblico, agendo positivamente sull’elasticità di organizzazione. Il primo Presidente della Fondazione è stato John Elkann, sostituito successivamente da Evelina Christillin, attuale Presidente.
STATUARIO Claudia Lo Stimolo Photography
STATUARIO Floriana Podda Photography
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MUSEO EGIZIO TORINO
Oggi, si può dire che il Museo Egizio di Torino nella sua evoluzione ha offerto una moltitudine di opportunità: in principio dal punto di vista della ricerca scientifica e archeologica e attualmente dal punto di vista culturale e di studio, essenziali per il proseguimento della ricerca che non avrà mai termine. Un ciclo perpetuo sostenuto da appassionati di ogni grado, interni ed esterni al Museo, amanti della curiosità culturale, che muovono l'interesse alla conoscenza attraverso l'evoluzione, come espresso dalle parole del direttore Christian Greco:
Un museo che «ripensa a se stesso» è un'istituzione culturale viva, dinamica e moderna, che mira a diffondere conoscenza. Per ultimo chiediamo a Beppe Moiso quali sono le differenze che ha notato in tema di turismo assorbito dal museo, negli anni della sua esperienza: Analizzando l’aspetto turistico generale e l’influenza del Museo Egizio nel tempo, possiamo osservare una notevole differenza di frequentazione e di target in quanto il turismo stesso si è trasformato positivamente attirando non, come una volta, le scolaresche e qualche sporadica visita privata, ma affacciandosi su un interesse specificatamente culturale riunendo flussi turistici totalmente diversi dai primi aumentando l’affluenza eterogenea del turismo.
Giancarlo Nitti Photography
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Promosso dal Comune di Sestri levante
A cura di Monica Gotta
Dario Truffelli Davide Mele Giuseppe Tarantino Monica Gotta Stefano Zec
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La fotografia è un'arte, ma anche una responsabilità come ha detto Letizia Battaglia nella sua videoconferenza. Dal 9 luglio al 11 luglio 2021 si è svolta la 15a edizione di Penisola di Luce. Quest’anno il tema della manifestazione è stato “cinema e fotografia”. Sono stati tre giorni dedicati alla fotografia in tutte le sue sfaccettature. Si è respirata l'emozione che quest'arte suscita in noi, siamo tornati ad aggregarci grazie alle immagini esposte nelle mostre e alle fotografie presentate nella lettura portfolio, si è parlato di cultura oltre che d'arte.
"Raccontiamo" questo evento facendone una "fotografia".
Un evento culturale di tutto rispetto, riconosciuto dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (FIAF), durante il quale sono stati presenti diversi personaggi del mondo della fotografia, dagli organizzatori ai molti professionisti dotati di grande esperienza e sensibilità. Una manifestazione che nasce per promuovere eventi culturali legati al mondo della fotografia ospitata da uno dei gioielli della Riviera Ligure: Sestri Levante. Il programma prevedeva mostre, incontri, conferenze e la lettura portfolio. È stata, come sempre, un’opportunità per gli amanti della fotografia di presentare il proprio lavoro a critici fotografici, giornalisti, photo editor conosciuti a livello nazionale.
L’anima di quest’associazione sono il Presidente Roberto Montanari e la Vice Presidente nonché Direttore Artistico Orietta Bay. Carpe Diem nacque da un’idea di Roberto Montanari dopo che conobbe Lanfranco Colombo in occasione di una mostra sulle tecniche di stampa antiche che Roberto allestì in comune nel 2006. Presentando Lanfranco al Sindaco e all’Assessore alla Cultura diedero vita a Penisola di Luce grazie alla passione di Roberto e alle conoscenze di Lanfranco, grande gallerista. Con alcuni amici, tra cui Orietta Bay, decisero di creare l’associazione per collaborare, condividere e divulgare la passione per la fotografia. In questi anni Carpe Diem si è sviluppata e conta circa 60 soci. Dall’anno della sua fondazione Carpe Diem ha sviluppato la sua forma e, ad oggi, la proposta culturale conta diverse iniziative. Una di queste sono gli incontri con autori a cadenza quindicinale o mensile, alcuni tenuti da Orietta Bay e da Isabella Tholozan, anch’essa socia di Carpe Diem e attualmente Capo Redattore della rivista FOTOIT della FIAF. Si parla di fotografia, ma non solo. Si incontrano fotografi, docenti, pittori, scultori, esperti di altre arti e sono stati organizzati anche incontri sul cinema. Il confronto con l’arte in generis è un modo per arricchirsi, guardare film, leggere libri, vedere le mostre e altre forme d’arte aiuta a stimolare e creare suggestioni che il fotografo che può ricreare attraverso la macchina fotografica. Non mancano i corsi di fotografia, i concorsi fotografici a tema e altre proposte volte a promuovere la cultura della fotografia anche come strumento di crescita culturale e di aggregazione degli appassionati di quest’arte. Oltre a Penisola di Luce, Carpe Diem organizza una seconda manifestazione: Photo Happening.
Durante quest’evento i partecipanti si sfidano nella creazione del miglior portfolio in tempo reale fotografando le location disponibili sul territorio. Di contorno all’evento si svolgono incontri formativi alla mattina, la sera è dedicata all’editing e ai suggerimenti mentre la domenica vengono proiettati su un maxi schermo i lavori degli iscritti. Ogni lavoro viene commentato (da Orietta Bay e Silvano Bicocchi) e l’evento si conclude con il voto della giuria popolare. Photo Happening ha portato un grande valore aggiunto al territorio portando alla creazione di un ampio archivio sul territorio. Roberto, appena nominato Consigliere Nazionale della FIAF, si pone come obiettivo futuro quello di portare Photo Happening a un livello più alto. Oltre all’interesse nella cultura fotografica, quest’evento porta turismo sul territorio nella stagione primaverile meno frequentata rispetto a quella estiva. L’organizzazione e la direzione artistica di questo tipo di eventi comporta un costante impegno sia organizzativo sia personale. La fotografia è uno strumento e un’operazione culturale di cui il Comune di Sestri Levante, un’amministrazione sensibile verso un’arte di nicchia, ha riconosciuto l’importanza mettendo a disposizione risorse economiche e spazi per la realizzazione di questi importanti eventi. Altro obiettivo di Carpe Diem è quello di aprirsi alle innovazioni, ai giovani che dimostrano interesse in quest’arte. Quest’ultimo anno, caratterizzato dalla pandemia, ha portato cambiamenti da non sottovalutare. Molti strumenti informatici, la rete internet, le piattaforme hanno fatto conoscere al mondo un mezzo alternativo per seguire e vedere eventi, corsi e conferenze a distanza. È arrivato il momento di cambiare e di mettere in sinergia questi nuovi strumenti con l’aggregazione perché per Roberto… “la fotografia è anche amicizia, un modo per ritrovarsi e costruire relazioni” …
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La serata inaugurale si è aperta venerdì 9 luglio 2021 alle ore 21.30 a Palazzo Fascie nella Sala Bo con Roberto Montanari, Presidente dell’Associazione Carpe Diem, incaricata dell’organizzazione della manifestazione.
È anche un racconto sul viale dei ricordi. Oggi Lanfranco Colombo e la moglie Giuliana Traverso non sono più con noi, ma hanno fatto innamorare molte persone della fotografia.
Penisola di Luce è nata nel 2006, ideata dal Presidente di Carpe Diem Roberto Montanari, insieme a Lanfranco Colombo, che è stato il direttore artistico e ha sostenuto la realizzazione di Penisola di Luce insieme all’Associazione Carpe Diem.
Ci basti ricordare il corso “Donna Fotografa” che Giuliana Traverso ha creato nel 1968 dando un forte impulso alla creatività femminile. Tra le tante donne che hanno avuto la fortuna di conoscerla c’è Orietta Bay, Vice Presidente dell’Associazione Carpe Diem. E, per chi vuole approfondire la conoscenza di Lanfranco Colombo, rimandiamo a uno scritto a cura di Orietta Bay, direttore artistico di Carpe Diem sul sito della FIAF.
Da Lanfranco Colombo prende il nome il premio in palio a Sestri Levante tutti gli anni. Lanfranco fu uno dei promotori della cultura fotografica in Italia e fu anche fotografo, per lui la fotografia era “un modo per leggere le persone”…
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(http://www.fiaf.net/regioni/liguria/wp-content/uploads/2015/05/Obiettivo-Liguria-28-a-120-dpi.pdf)
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Il Sindaco di Sestri Levante, Valentina Ghio, conferma la convinzione di continuare a organizzare questa manifestazione in futuro. La tenacia di Roberto Montanari e l’impegno del Comune di Sestri Levante e di Mediaterraneo Servizi continueranno a portare avanti l'iniziativa. In questo modo Sestri Levante potrà essere una città che promuove i tratti fondanti della fotografia e la proposta turistica. Per celebrare Penisola di Luce e i suoi 15 anni il Sindaco ha consegnato a Roberto Montanari una targa quale riconoscimento per la sua dedizione a quest’iniziativa. Non è mancato un ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione della manifestazione rendendo Sestri Levante “il luogo dove la fotografia continuerà a essere importante”.
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Quindi due proposte per far conoscere le bellezze della Liguria e l’importanza della cultura fotografica. Anche per l’Assessore alla Cultura, Maria Elisa Bixio, la cultura è riflessione, è immagine, è paesaggio, è un alto valore culturale. Ricongiungendosi al tema della manifestazione, si sottolinea quanto il direttore della fotografia sia una figura importante nel cinema e di quanto la fotografia abbia la facoltà di costruire e lasciare ricordi, ricordi indelebili. In questo momento di profonda emozione per l’inaugurazione siamo circondati dalle fotografie di una delle mostre della manifestazione, dedicata ad Alberto Sordi e i suoi 100 anni. Così la fotografia celebra il cinema e uno dei suoi indimenticabili protagonisti.
I ringraziamenti di Roberto Montanari vanno al Comune di Sestri Levante, a Mediaterraneo Servizi, al sistema museale, la FIAF e, in particolare al direttore del Dipartimento Cultura Silvano Bicocchi, all’ideatore del Circuito Portfolio Italia Fulvio Merlak, a Roberto Puato del Dipartimento Audiovisivi, nonché alla Fondazione 3M per le mostre dedicate al cinema e al nostro magazine Giroinfoto.com per l’impegno nella divulgazione dell’evento e per averne riconosciuto l’importanza. In questa sede è stato annunciato che Roberto Montanari sarà nominato Consigliere nazionale FIAF. Si conclude con la presentazione dell’archivio fotografico ereditato dalla storica azienda Ferrania e gestito dalla Fondazione 3M, un pezzo di cultura di respiro internazionale recentemente digitalizzato che, grazie anche all’innovazione tecnologica, continua a raccontare molte storie. Proprio all’archivio della Fondazione 3M si deve l’allestimento di 3 mostre visitabili a Sestri Levante curate da Roberto Mutti. Al termine degli interventi la serata inaugurale è proseguita con l’apertura ufficiale delle mostre a Palazzo Fascie (aperte dal 9 al 26 luglio2021).
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Titolo delle tre mostre curate dal critico e giornalista Roberto Mutti, per conto della Fondazione 3M, è Il Cinema di Carta.
Roberto Mutti Critico, storico e docente di fotografia, Roberto Mutti insegna all’Accademia del Teatro della Scala e all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Nella sua lunga carriera ha realizzato mostre di giovani talenti, è organizzatore e curatore, collabora con gallerie private e istituzioni pubbliche nonché con diverse testate giornalistiche.
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L'umanità fragile è una serie di immagini di Alberto Sordi che ritraggono l’attore sui set degli innumerevoli film da lui interpretati. Sono immagini di diversi autori che rappresentano questa stella del cinema italiano nell’interpretazione dei suoi indimenticabili personaggi. Fotografie di cinema, fotografie di personaggi che raccontano un po' di storia e cultura italiana, dalla fragilità – come dice il titolo della mostra – all’umanità, le emozioni dell’italiano semplice rese intense dalle espressioni di Alberto Sordi perché dietro alla sua comicità si intravedeva sempre una tristezza di fondo.
Al secondo piano di Palazzo Fascie sono esposte altre due serie di fotografie, una a colori e una in bianco e nero, sapientemente contrapposte. Queste due mostre hanno in comune un elemento: le donne. In questi scatti gli autori, Elio Luxardo e Chiara Samugheo, hanno ritratto l’universo femminile in modi diversi, ma hanno anche saputo valorizzare la bellezza interiore ed esteriore della figura femminile. Giroinfoto Magazine nr. 70
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Smile, please
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di Elio Luxardo, ritrae il sorriso delle donne, la loro solarità che trasmette una gioia venuta meno a tutti noi in questo momento storico mondiale di pandemia. Attraverso le fotografie di Elio Luxardo è stata scelta una mostra che ci faccia respirare aria di gioia. L’utilizzo del bianco e nero sottolinea ancor più le emozioni, crea pathos, induce lo spettatore a immergersi completamente nei sorrisi del maestro del ritratto degli anni Trenta.
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L’apparenza e il senso Questo respiro di gioia non manca certo ne L’apparenza e il senso di Chiara Samugheo. Ha ritratto donne popolari e celebri attrici, soubrette, cantanti – negli anni Sessanta e Settanta. Conosciuta come “la fotografa delle dive” realizzò servizi fotografici e copertine per diversi periodici internazionali.
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Chiara Samugheo amava costruire una relazione con le persone che ritraeva, creava un rapporto di fiducia. Ciò che emerge evidente dalle sue fotografie è la dolcezza, questa capacità di essere empatica, la sintonia tra donne, è una storia di amicizie e, anche quando le sue protagoniste si mettevano in posa, si mettevano in posa per lei e non per i lettori della rivista. Persone abituate all’obiettivo della macchina fotografica o della macchina da presa riuscivano ad abbandonarsi in questa situazione. Donne famose come Sofia Loren in un abito molto ufficiale, quasi impettita, donne come Gabriella Farinon oppure Catherine Spaak, si presentano proprio così, si mettono lì e guardano Chiara. Tutte vengono trattate allo stesso modo, in modo semplice e amichevole e si capisce che Chiara, prima di fotografare, ha parlato con i suoi soggetti.
Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
Questo rapporto salta fuori ancora adesso dalle sue foto, l’atteggiamento di complicità e intimità è ciò che fa di questi scatti qualcosa di unico. C’è tanta costruzione, tanta saggezza ma anche tanta immediatezza ed è questo che ci colpisce oltre ai tagli spesso audaci e all’averle scattate en plein air nelle ville e nei giardini delle dive. Da notare è la bellezza delle fotografie a colori quando tutti facevano del bianco e nero e l’uso sapiente del colore dona agli scatti dinamicità e tridimensionalità. Queste foto sembrano essere state scattate per sé stessa e non per la copertina di un giornale o di un rotocalco ed è per questo che Chiara aveva il dono di rendere viva una copertina. Pur uscendo da un archivio queste foto non fanno vedere il passato ma la contemporaneità, conservano una nota di freschezza intramontabile.
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All’Ex Convento Annunziata, dal 9 al 11 luglio 2021, sono state allestite altre tre mostre. Cambiando Orizzonte è la mostra collettiva dei soci di Carpe Diem che hanno donato le stampe per l’iniziativa “La luce di un gesto” È stata realizzata in sinergia con l’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune: obiettivo di quest’esposizione è stata la donazione del ricavato all’iniziativa suddetta e all’Assessorato. Oltre alle fotografie dei soci erano sorteggiabili anche una foto di Lanfranco Colombo e una foto di Giuliana Traverso. E qui c’è una storia da raccontare!
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La foto di Colombo è stata messa in palio da Orietta Bay. Dato il via all’estrazione è stata vinta da Orietta Bay, la quale ha chiesto pubblicamente che venisse fatta una nuova estrazione. Questa seconda estrazione ha visto Roberto Montanari come vincitore, che ha rinunciato a entrarne in possesso. La terza e ultima estrazione ha visto come vincitore Roberto Mutti. Insomma questa fotografia non voleva abbandonare Sestri Levante! Un caso o un’altra storia emozionante da raccontare agli appassionati di fotografia?
Monica Gotta Photography
La mostra Cinema e Fotografia nasce dal 1° Concorso Fotografico Nazionale patrocinato dal Comune e dalla FIAF indetto dall’Associazione Carpe Diem.
La Strada di Federico Fellini
L’incontro
Bandé a Part di Jean-Luc Godard
La libertà
Partendo dal tema di Penisola di Luce, cinema e fotografia per l’appunto, ai partecipanti è stato chiesto di interpretare alcune tematiche connesse a 4 importanti film d’autore:
Paris, Texas di Win Wenders
La ricerca dell’identità
Spring Breakers di Armony Korine
Lo sballo
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Lo scopo del concorso era di indagare, secondo la sensibilità dei fotografi, il rapporto tra cinema e fotografia, ciò che accomuna questi due linguaggi. Alcuni hanno interpretato i film, altri hanno tratto spunto dai temi espressi in queste opere cinematografiche per creare stimolanti immagini secondo la loro visione. Ne sono scaturite immagini a colori, in bianco e nero, colme dello spirito e della creatività dei vincitori. Sono state esposte le immagini dei vincitori premiati in Sala Agave alle 18.45 di sabato 10 luglio 2021. Terza serie fotografica esposta è una raccolta di immagini del vincitore del Portfolio Italia 2020, una fotografa di soli 20 anni, Maria Cristina Comparato, seguita da Officine Fotografiche di Perugia.
Cinema e fotografia
nascono quasi contemporaneamente e sono strettamente legati. La differenza tra queste due arti è fondamentalmente una: nel cinema abbiamo l’illusione del movimento mentre nella fotografia no. Tuttavia un film non è altro se non la proiezione di un certo numero di fotografie che si susseguono in rapida sequenza. Questi due linguaggi sono intimamente interconnessi e lo scambio reciproco ha influenzato ed ispirato molti registi e diversi fotografi.
Davide Mele Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
Si tratta di 11 immagini a colori, autoscatti che testimoniano il suo stato di salute, crude data la loro semplicità ed espressione di autenticità. Scattate in sala posa con lo stesso sfondo raccontano il percorso introspettivo dell’autrice mentre vive i mutamenti dovuti alla sua condizione. Dal concetto nascono le immagini, il processo creativo dà vita alla sequenza. L’autoscatto può essere considerato l’opera concettuale, il processo creativo e la sequenza si possono definire metodo espressivo. Questo portfolio risponde anche a una domanda che in molti si pongono: cosa guarda un lettore? La risposta è semplice: non solo le immagini ma anche i linguaggi espressivi.
Infatti, anche nel cinema la fotografia è uno degli elementi importanti per la buona riuscita del film. Le luci, le inquadrature, l’impatto visivo viene creato dal sapiente lavoro del direttore della fotografia. Ecco come la fotografia, che è luce, definisce le immagini e l’aspetto distintivo di un film. Il cinema è considerato la settima arte e, in quanto forma d’arte, diventa patrimonio culturale e storico.
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Il cinema è un fenomeno di comunicazione, è un mezzo di divulgazione delle memorie e narrazioni di ogni tempo che raggiunge una molteplicità di spettatori. Per comprendere un film e i suoi meccanismi dobbiamo imparare a osservarlo prendendo le distanze. Escludere le emozioni che creano la relazione con il film, ossia il piacere di vederlo, può essere un modo per poterlo considerare sotto altri punti di vista. La fotografia immortala la realtà e il cinema fa altrettanto. Dal confronto e dal rapporto tra cinema e fotografia nascono le conferenze di quattro professionisti.
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Camilla Lavazza
La fotografia nel cinema noir
Marina Spada
La regia e la fotografia
Roberto Mutti
Il favoloso mondo della fotografia
Luigi Erba
Fra le pieghe del cinema
In questi interventi si indaga la differenza tra cinema e fotografia, si evidenziano gli stretti rapporti tra queste arti, come il cinema citi la fotografia e come la fotografia si inserisca nelle pieghe del cinema. Il legame fisico tra queste due arti è il direttore della fotografia. Nel cinema noir il personaggio della femme fatale, ad esempio, viene delineato anche dalle pose della donna in contrapposizione con quelle sottomesse degli uomini e dall’illuminazione. Camilla Lavazza sottolinea quanto l’illuminazione doni realismo e tridimensionalità, quanto abbia una funzione narrativa ma, soprattutto, la grande importanza che riveste. Contrasti, luci, controluce, chiaroscuri, ombre e tagli di luce donano pathos ed emozione. Pensate alla profondità di campo che dà l’idea di spaesamento del protagonista nel contesto, immaginate le ombre che creano doppi come un’immagine riflessa in uno specchio, oppure un’angolatura particolare, una ripresa dal basso verso l’alto che può creare una visione particolarmente minacciosa. Un’idea ve la potete fare pensando ad esempio a Sharon Stone in Basic Instinct. Quindi i due linguaggi, cinema e fotografia, sono a confronto come dice Marina Spada ma sono anche strettamente interconnessi. Tra i film citati ci sono Palermo Shooting, Apocalypse Now, Salvate il soldato Ryan.
Giuseppe Tarantino Photography
In molti film il protagonista è un fotografo e molti registi hanno preso spunto da scatti di fotografi famosi e non. Parliamo di cinema di altri tempi: una curiosità che forse non tutti conoscono è l’uso della foto busta. Un fotografo scattava delle fotografie durante le riprese, foto degli attori e delle scene salienti del film.
Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Da questi scatti nasce la foto busta che veniva spedita per vendere il film, una forma di pubblicità e comunicazione, uno strumento che testimonia lo stretto rapporto tra fotografia e cinema. Grandi fotografi hanno immortalato nei loro scatti famosi attori e attrici, come Richard Avedon e Audrey Hepburn. Celebri registi portano sullo schermo i ritratti di altrettanti fotografi conosciuti, come ad esempio il film Fur su Diane Arbus interpretato da Nicole Kidman dove la macchina fotografica è sempre in primo piano. Roberto Mutti racconta questo continuo abbraccio tra cinema e fotografia. Un esempio sono i fotografi di guerra le cui storie sono narrate dal cinema.
Giuseppe Tarantino Photography
Dario Truffelli Photography
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È la fotografia di come lo immaginiamo oppure è una ricostruzione reale? Luigi Erba analizza invece le situazioni nelle pieghe del film che determinano l’iconicità della fotografia. In Lacci (2020) la fotografia è parte della trama del film stesso. Gli scatti di una Polaroid determinano, dopo lungo tempo, l’emergere di una vecchia storia. Possiamo rifarci all’interfotogramma che è ciò che non si è potuto riprendere consciamente, un’inespressione fotografica. Ma, in qualche modo qualcosa rimane registrato e, a volte, è possibile riappropriarsene. Ed è ciò che accade ai protagonisti di Lacci.
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Fotografia significa letteralmente "scrivere con la luce". Ma cosa è diventata nel corso della sua storia? È passione e mezzo di aggregazione, è il concetto da esprimere con il giusto linguaggio, è raccontare una storia, è memoria, è diventata arte, pensiero, movimento, informazione, denuncia, documentazione, emozione e studio, è forma espressiva. Quindi è realtà, quella realtà che si crea nell'attimo in cui il soggetto ritratto nell'immagine incontra lo stato d'animo del fotografo e si stabilisce una relazione unica e particolare.
“Dieci fotografi di fronte allo stesso soggetto producono dieci immagini diverse, perché, se è vero che la fotografia traduce il reale, esso si rivela secondo l’occhio di chi guarda”. Gisele Freund Circuito Portfolio Italia – 18a edizione Scopo della selezione è quello di individuare il portfolio più apprezzato dell’anno 2021. Il calendario della XVIII edizione di “Portfolio Italia – Gran Premio Fujifilm” lo si può consultare sul sito ufficiale della FIAF.
Sabato 10 luglio e domenica 11 luglio 2021 si sono svolte le letture portfolio della 15a edizione di Penisola di Luce nonché 18a edizione del Circuito Portfolio Italia. Molti i partecipanti iscritti a questo evento che si sono confrontati con i lettori, che hanno eseguito 190 letture.
Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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I portfolio presentati in quest’edizione, 63 opere e 51 autori, hanno indagato diverse tematiche e non sono mancati i riferimenti al momento pandemico che tutti noi stiamo ancora vivendo da più di un anno. I riconoscimenti assegnati in questa 15a edizione di Portfolio al Mare, 4a delle 11 selezioni aderenti a Portofolio Italia, sono i seguenti:
Primo premio Portfolio Italia
Secondo premio Portfolio Italia
IN VIAGGIO COL NONNO
UNA QUESTIONE PRIVATA
Roberto Biggio
Giuliano Reggiani
Premio Festival Gemellati “L’uomo e l’umanità”
Premio miglior portfolio concettuale
COME IN UNA BOLLA
7 DOMANDE
Gabriele Tartoni
Luca Cavazzuti
Primo premio Trofeo Carpe Diem
Segnalazione Trofeo Carpe Diem
CARBONAI DI SERRA SAN BRUNO
SE MI GUARDI ESISTI
Marina Labagnara
Aurora Sanna
Segnalazione Trofeo Carpe Diem
Alma Schianchi PASSATO E PRESENTE
Roberto Montanari “Quest’anno i partecipanti alla lettura portfolio sono stati un numero consistente come sempre anche se meno delle precedenti edizioni a causa della pandemia. Ciò ha però portato un valore aggiunto ai fotografi, amatoriali e professionisti, che hanno presentato i loro lavori. Hanno potuto godere di più tempo con i lettori, di sentire le loro opinioni e di confrontarsi per trarne consigli, suggerimenti e insegnamenti fonte di crescita e di aiuto” .
Orietta Bay UNA QUESTIONE PRIVATA Monica Gotta Photography
IN VIAGGIO COL NONNO Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
"Esperienze diverse con lettori diversi possono infatti portare a una crescita professionale perché “leggere non è giudicare” come afferma Orietta Bay. Leggere è anche trovare i punti di forza e suggerire un percorso di miglioramento laddove è possibile farlo".
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7 DOMANDE Monica Gotta Photography
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MOSTRA LETIZIA BATTAGLIA Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Uno dei momenti più attesi di questo fine settimana è stata la videoconferenza con Letizia Battaglia, fotografa, donna, madre, nonna e bisnonna. Moderatrice dell’evento è stata Monica Mazzolini. Tante sono le domande che i presenti a quest’evento senza precedenti avrebbero voluto porre a Letizia Battaglia, fotografa siciliana conosciuta in particolare per via del suo lavoro sui delitti di mafia. Letizia ha condiviso con il pubblico astante i ricordi di quando iniziò la sua carriera di reporter e fotografa. Da Palermo a Milano e di nuovo a Palermo dove iniziò il suo vero lavoro fotografico. I suoi scatti testimoniano gli avvenimenti di quel periodo e alcune di queste immagini sono state esposte a Palazzo Comunale.
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Il Sindaco di Sestri Levante, Valentina Ghio, esprime la sua gioia e soddisfazione per aver potuto ospitare la mostra L’impegno civile di Letizia Battaglia, un grande dono per Sestri Levante, un modo per fare cultura a Palazzo Comunale e per condividere il pensiero della fotografa sulla responsabilità della fotografia, responsabilità trasmessa dalle sue immagini. La mostra composta di 35 fotografie esposte nella Sala Riccio e nell’atrio di Palazzo Comunale testimoniano un periodo difficile che il nostro Paese ha vissuto. Le fotografie nell’atrio, le donne e i loro sguardi, donano invece uno spaccato del grande lavoro umano della fotografa.
Giuseppe Tarantino Photography Aprendosi al pubblico della serata, Letizia condivide la disperazione provata per queste fotografie che raccontavano solo dolore ma testimoniavano la realtà. Erano e sono state per tempo un bagaglio pesante, tanto da pensare di distruggere i negativi. La decisione di rielaborarle inserendo nelle immagini la figura femminile, che lei considera bellissima, le ha permesso di superare questa profonda angoscia. Con il progetto Gli Invincibili Letizia superò il momento di affaticamento psicologico che conobbe dopo la lotta contro la mafia. È un tributo a coloro che lei considera i suoi eroi. Uno di questi è stato Pierpaolo Pasolini, una presenza importante nella politica e nel pensiero. Un altro momento di crescita è stato l’incontro con il teatro. Robert, detto Bob, Wilson e il teatro di Jerzy Grotowski hanno cambiato la sua visione del mondo, l’hanno portata nella modernità, dice Letizia, fino a fare teatro in un manicomio con delle donne.
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Le donne, le ragazze, le bambine diventano il suo soggetto principale. Ma ciò che le ispirano e ciò che sono per Letizia ci viene svelato dalla fotografa. Sono Letizia che recupera il suo sogno di bambina. Quando scatta ha un momento di emozione che purtroppo finisce nell’istante dello scatto stesso. L’importanza di quel momento è evidente ma è anche difficile capire perché lo sia, in fondo è alla ricerca di qualcosa di particolare. Sottolinea un concetto importante: non le piace raccontare la donna come la vogliono gli uomini... sexy, glamour. Ora fotografa nudi anche di donne non più giovani, il focus è sulla donna in tutte le sue declinazioni, sulla bellezza che
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emana perché donna non solo perché corrisponde a un canone estetico ideale o a un cliché di bellezza. Il suo lavoro è impostato sul concetto di rispetto, di un apparecchio che cattura l’onore e il rispetto per il soggetto. Per Letizia la fotografia è rispetto. In uno dei suoi libri Letizia cita una persona importante per lei, Lanfranco Colombo. Lo conobbe nel 1970 circa e si recò nella sua galleria a Milano dove poi fece una mostra. A quel tempo lei non era ancora una fotografa. Riconosciuto il talento della Battaglia, Lanfranco mandò una serie di fotografie di Letizia a New York senza dirle nulla. Arrivò finalista al Premio Eugene Smith e così fu la prima donna italiana ad essere insignita del premio del fotogiornalismo.
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Dopo questo premio le cose cambiarono anche in Italia. Si aprirono le opportunità per cui aveva lottato e finalmente poteva fare ciò che aveva desiderato. Non si sente solo fotografa, è una nonna e ora anche una bisnonna. Così ritorna al ruolo che possono avere e che hanno le donne, le opportunità che possono cogliere, forse combattendo come ha fatto lei. Torniamo a Palermo, il luogo dove tutto ebbe inizio, da dove Letizia ci ha raccontato di sé, parlando di dolore, ma anche di libertà, di bellezza e delle figure femminili così importanti per lei.
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Qui ha anche realizzato un altro sogno, il Centro Internazionale di Fotografia, da lei diretto e dove ci si impegna ad appoggiare il pensiero degli altri, la cultura e la realizzazione di attività legate all’arte della fotografia. Abbiamo visto una donna con uno spirito incrollabile, luminoso e giovane a discapito dei suoi 86 anni. Da lei abbiamo imparato che la fotografia è una responsabilità, che dobbiamo strapparci di dosso la vanità, che essere donne e fotografe non è facile. Quindi sì, la fotografia è rispetto.
“Non bisogna
essere banali, le foto devono parlare da sole senza didascalie
Letizia Bttaglia
”
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A questa grande professionista vanno i ringraziamenti di tutti per averci regalato l’emozione di aver condiviso le sue esperienze di vita e di fotografa impegnata socialmente, una donna fotografa che attribuisce un valore civile ed etico alla fotografia. Grazie Sestri Levante: un luogo dove le persone continueranno a scrivere e disegnare con la luce, un luogo dove la fotografia continuerà a essere importante!
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PALAZZO BESTA
A cura di: Mari Mapelli, Manuel Monaco e Silvia Scaramella
A cura di Rita Russo
Palazzo Besta dimora rinascimentale e non solo!
Una delle più importanti e inaspettate manifestazioni del Rinascimento lombardo si trova in un punto periferico, ma strategico, della regione. È infatti valico tra l’Europa e le terre d’oltralpe e mediterranee, grazie al passaggio di genti, merci ed eserciti verso gli appetibili regni d’Italia, ricchi di arte, di cultura, di splendide città invidiate, di terre fertili e coste ambite.
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Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Siamo a Teglio, amena località della media Valtellina, a cui ha dato il nome, e nello specifico a Palazzo Besta. Strepitosamente bello, si presenta così: sinuosamente elegante, accompagna la strada di accesso al paese con la luminosa facciata principale scandita da fasce a losanghe e impreziosita da lunette sottogronda, affrescate con stemmi delle più importanti famiglie locali
Teglio
Varcato il portale marmoreo di accesso, il contrasto tra luce e ombra è quasi di conforto nelle giornate assolate come questo torrido pomeriggio d’estate. Il cortile, cuore del complesso architettonico, con il bel pozzo ottagonale in marmo, è definito da un porticato e da un loggiato sovrastante a doppio ordine di arcate. Subito colpiscono le scene affrescate a monocromo, attribuite al bresciano Vincenzo de Barberis e alla sua bottega, che illustrano le Storie dell’Eneide, curiosamente a fascia narrativa continua, senza alcuna cornice a separare i singoli episodi. Un importante fregio policromo con motivi decorativi e medaglioni, che racchiudono profili di personaggi maschili e femminili “all’antica” secondo il gusto rinascimentale, demarca i due loggiati.
Palazzo Besta
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Il giardino che circonda il Palazzo sui tre lati è un arioso balcone sulla vallata del fiume Adda, oltre il quale si stagliano le Alpi Orobie in tutta la loro magnificenza. L’incanto della natura con la bellezza creata dall’uomo è una fusione perfetta. Palazzo Besta ha origini molto antiche, anche se poche certezze si hanno sulle sue più remote vicende storicocostruttive, sorgendo su preesistenze medievali, forse di una casa fortificata stile castello, o di più case-torri. Di certo la potente famiglia dei Besta, a Teglio, è già ben documentata nel XIII secolo.
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La trasformazione in palazzo residenziale avviene per volontà di Azzo I Besta intorno al 1490, consolidandosi poi con la vedova Ippolita Alberti, che sposa in seconde nozze Andrea Guicciardi, grande umanista e già reggente della Castellania. Ma è ad Azzo II e alla sua colta sposa, la nobildonna Agnese Quadrio, che si deve la realizzazione dell’imponente campagna decorativa, intrapresa nella prima metà del XVI secolo. Con questa coppia tanto illuminata quanto raffinata, Palazzo Besta diviene una corte principesca rinascimentale che ospita celebrati artisti, letterati, poeti e filosofi.
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Manuel Monaco Photography Muovendoci per la dimora, che si sviluppa su due piani (nuovamente visitabili da luglio!), assistiamo al trionfo della classicità e Virgilio, Ovidio e Ariosto vanno armoniosamente a braccetto: ispirare la ricca decorazione pittorica nelle infinite sale, su muri e soffitti. La mitologia finisce col fondersi con l’epopea biblica, con scene storiche di gusto cavalleresco e con richiami esoterici. Tutto il palazzo testimonia non solo la cultura rinascimentale, ma anche il ruolo sociale e politico della famiglia Besta. Spiccano, oltre ai già citati affreschi del cortile (che sono i più antichi), quelli del Salone d’Onore, caratterizzato da ventuno scene tratte dall’Orlando Furioso, opera sempre a partitura aperta realizzata ancora dalla bottega del de Barberis, che privilegia le figure femminili come Gabrina, Ginevra e Angelica. Alcuni, come la raffigurazione di Astolfo in volo verso la luna, si ispirano direttamente alle prime illustrazioni dell'edizione dell'Orlando Furioso pubblicata a Venezia nel 1542 dal tipografo Gabriel Giolito de' Ferrari. Un fregio a doratura con motti tratti da Adagia di Erasmo da Rotterdam, è segno esplicito della cultura di ampie vedute e della tolleranza anche religiosa della famiglia Besta, in un clima ideologico altrove rovente. A titolo di esempio, Carlo I Besta, figlio di Azzo II cui succede continuando la campagna decorativa del Palazzo, sposa la protestante Anna Travers, rampolla della potente famiglia del Governatore Generale dei Grigioni, riconoscendole la piena libertà di culto.
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Palazzo Besta
La Sala della Creazione è dipinta con un ricchissimo apparato iconografico illustrante il Libro della Genesi. Risalta la scena Creazione di Adamo ed Eva (a sinistra Adamo, a destra dell’albero della creazione Eva), dove è evidente il rispetto della diversa sensibilità religiosa dei protestanti, in quanto si evita di rappresentare Dio con sembianze umane. È probabile che il ciclo di affreschi sia stato realizzato in seguito al matrimonio tra Carlo I e Anna Travers.
Qui colpisce la mapa mundi raffigurata sul soffitto, una carta geografica “a mantello” del mondo conosciuto nella prima metà del Cinquecento, che costituisce un unicum nell’ambito del panorama delle rarissime carte murali rinascimentali. Questo si basa sulla Weltkarte, stampa pubblicata per la prima volta nel 1558 dal cartografo e matematico renano, Caspar Vopell. A lungo ha costituito un enigma che ha arrovellato studiosi, con accesi dibattiti di tipo artistico e storico, talvolta pervasi da esoterismo.
Manuel Monaco Photography Nelle cantine storiche - i Besta possedevano vasti vigneti ed erano grandi produttori di vino attualmente vi è la sede dell’Antiquarium Tellinum, nato dall’impegno degli studiosi Maria Reggiani Rajna e Davide Pace e profondamente legato alla storia più recente di Teglio e della sua comunità. Raccoglie i frequenti rinvenimenti avvenuti a partire dal 1940 nei terreni circostanti. Si tratta di steli risalenti all’Età del Rame di cui la più famosa è la " Dea Madre", rappresentazione degli Antenati e simbolo dell'arte dell'incisione rupestre del terzo millennio avanti Cristo. Questi ritrovamenti sono strettamente interconnessi con quelli della sterminata arte rupestre in Valcamonica, collegata con la Valtellina tramite il Passo dell’Aprica, a testimonianza della feconda cultura preistorica e protostorica diffusa lungo tutto l’arco alpino. Giroinfoto Magazine nr. 70
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STELE DELLA DEA MADRE Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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CHIARA FERRARIS PALAZZO BESTA
Il Palazzo rimane proprietà dei Besta e dei loro eredi fino a quando, nel 1726, diventa del console di giustizia Pietro Morelli che apporta alcune modifiche di gusto settecentesco, ma anche personale, a rimarcare il passaggio di dinastia familiare. Tra queste commissiona l’affresco La Regina di Saba che va dal Re Salomone, visibile nella volta del Salone d’Onore, e aggiunge gli stemmi della Famiglia.
LA REGINA DI SABA... Manuel Monaco Photography
STUA Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
In particolare il Morelli arricchisce la dimora con ulteriori due stue verso la valle. La stua è una tipica stanza della dimora alpina, sia rurale che di pregio, riscaldata da una stufa in muratura ad accumulo di calore, totalmente rivestita in legno su pareti e soffitto per mantenere il calore all’interno. Nel Palazzo ve ne sono quattro in tutto, realizzate nella pregiata essenza di pino cembro, tutte diversamente decorate.
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AFFRESCHI CAMERA PICTA Manuel Monaco Photography
Al secondo piano si nascondono alcune chicche come la stua a baule, la Sala di Traona e la Sala delle Metamorfosi. La stua a baule risale al XV secolo, ma è stata portata ad inizio Novecento dall'architetto Luigi Perrone; la stua era infatti originariamente nella casa della famiglia Quadrio a Ponte in Valtellina. Nella Sala di Traona si trovano ricomposti gli affreschi strappati dalla camera picta della casa Dell’Oro (già Vertemate) di Traona. I grandi riquadri monocromi di soggetto allegorico e sacro sono qui conservati perché utili per la documentazione della civiltà rinascimentale valtellinese. L’ultima sala citata, quella delle Metamorfosi, deve il nome al fregio cinquecentesco con episodi delle Metamorfosi di Ovidio, appartenente all’unico ciclo di affreschi del palazzo datato (1580) e firmato dall’autore (Aragonus Aragonius).
METAMORFOSI DI OVIDIO Manuel Monaco Photography
STUA A BAULE Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Palazzo Besta Nel 1911 Palazzo Besta viene acquistato dallo Stato italiano e si mette mano ad un primo ampio intervento di restauro protrattosi fino al 1927, quando viene aperto al pubblico come Museo. Attualmente è l'unico museo statale della provincia di Sondrio e con altri 11 musei è gestito dalla Direzione Regionale Musei Lombardia, del Ministero della Cultura. Negli ultimi anni sono state messe in campo una serie di iniziative con lo scopo di rendere il Museo sempre più accessibile ai residenti. Il desiderio è soprattutto quello di avvicinare giovani e bambini alle bellezze del Palazzo offrendo esperienze in cui siano loro i protagonisti. Il museo vuole infatti incoraggiare una frequentazione assidua e ricorrente della struttura. È proprio da questo presupposto che sono nati alcuni importanti progetti. Primi su tutti i progetti in collaborazione con le scuole, portati avanti con entusiasmo anche durante la situazione pandemica attuale.
Il Museo non si ferma e ha già presentato i nuovi progetti per il prossimo anno: Al museo per un anno per la scuola primaria, un percorso che prevede un’alternanza di incontri a scuola e in museo per scoprire segreti e curiosità lavorando sul tema della casa e dell’abitare, e i diversi progetti per la secondaria di secondo grado. Per i ragazzi più grandi si desidera proporre attività ludicoculturali, come successo con l’Escape room. Nelle estati 2018-2019 infatti erano state organizzate delle serate a tema per coniugare cultura e divertimento, offrendo contenuti storici con chiavi diverse. Recentemente, in una sala del secondo piano, è stato anche allestito uno spazio dedicato ai bisogni dei più piccoli in vista di proporre visite guidate speciali per genitori con neonati. Il progetto "Nati con la cultura" verrà ufficialmente avviato sabato 25 settembre p.v. in occasione delle GEP (Giornate Europee del Patrimonio) ed è sviluppato in Valtellina dalla Direzione regionale Musei Lombardia con l'ASST Valtellina e Alt Lario e con il Comune di Teglio.
Tutte queste iniziative dimostrano quanto un museo non debba essere visto e immaginato esclusivamente come luogo statico, dove ci si reca per vedere qualcosa, ma che possa essere soprattutto un luogo da vivere, in cui divertirsi e scoprire sempre qualcosa di nuovo, ma anche un’entità che, grazie alle persone che lo gestiscono e lo curano, può venirti incontro. Un ringraziamento speciale alla Direttrice Stefania Bossi per averci accolto e accompagnato durante la visita. Ringraziamo anche la Direzione Regionale Musei Lombardia e il Ministero della Cultura per le autorizzazioni alle riprese fotografiche e alla pubblicazione dell’articolo.
https://museilombardia.cultura.gov.it/ musei/palazzo-besta/
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Il simbolo di Torino diventa un palcoscenico verticale Da anni ormai la cupola della Mole Antonelliana è il centro dell’attenzione e della promozione in occasione di particolari eventi e iniziative. E lo è stata “semplicemente” in quanto superficie su cui proiettare foto, giochi di luce e brevi video, fino a quando, in occasione della recente festa di San Giovanni del 24 giugno 2021, qualcuno ha pensato di danzarci sopra.
A cura di Adriana Oberto
Adriana Oberto Remo Turello Giroinfoto Magazine nr. 70
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La Mole Antonelliana La Mole Antonelliana si trova nel centro storico di Torino ed è uno dei simboli della città, nonché uno dei simboli d'Italia. Deve il suo nome dall’essere stata, in passato, la costruzione in muratura più alta del mondo; l'aggettivo che lo segue deriva invece dal nome dell'architetto che la concepì, Alessandro Antonelli. Nonostante sia “nata” in mattoni, le importanti ristrutturazioni del XX secolo hanno aggiunto cemento armato e travi di acciaio, per cui non può più essere considerata una struttura esclusivamente in muratura. Data l'altezza di 167,5 metri, mantenne il primato di edificio in muratura più alto del mondo dal 1889 al 1908. Per anni lo è stato anche per Torino; oggi, dopo la costruzione di altre torri più moderne, resta l'edificio più alto del profilo centrale urbano della città. Nel 2000 è divenuta sede del Museo Nazionale del Cinema. Un ascensore interno, inaugurato nel 1961 in occasione del centenario dell’unità d’Italia e rinnovato nel 1999, porta i visitatori fino al tempietto – ad una altezza di circa 85 metri – da cui si gode di un’impareggiabile vista sulla città, la collina oltre il fiume Po e le Alpi. È inoltre possibile salire a piedi lungo le scale dell’intercapedine fino alla terrazza panoramica. Forse non tutti sanno, però, che la struttura era stata originariamente concepita come tempio israelitico. Con la concessione della libertà ufficiale di culto grazie allo Statuto Albertino del 1848, la comunità ebraica aveva acquistato il lotto di terra su cui sorge la struttura. L’architetto Alessandro Antonelli ne aveva iniziato la costruzione nel 1863, ma già nel 1873, a causa di problemi sorti durante i lavori, la comunità israelita barattò l’opera col Comune di Torino ottenendo l’area su cui sorge attualmente la sinagoga. Il comune ne continuò la costruzione con l’intento di dedicarla al primo re d'Italia Vittorio Emanuele II. Altre versioni della storia dicono che fu invece su iniziativa del Comune che la costituenda struttura cambiò proprietario, al fine di diventare museo civico. Il disegno della Mole appare sulla moneta italiana da due centesimi, coniata in Italia fino al 2018.
Alina Timis Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Maurizio
il danzatore sulla Mole La storia però inizia, ovviamente, da un po’ più lontano. Quel “qualcuno” è Maurizio Puato, fotografo, ex istruttore sportivo della FASI (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana), manutentore acrobata della Mole Antonelliana e non solo, nonché ballerino acrobata. È a Maurizio che, in pieno lockdown, viene l’idea di danzare sulla Mole. Incontriamo Maurizio in una bella giornata di fine giugno, qualche giorno dopo la sua esibizione. Ci racconta di sé, della sua passione, e di come abbia saputo reinventarsi e scoprire in questo modo un luogo che è ormai diventato la sua seconda casa.
Adriana Oberto Photography
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Maurizio, prima di tutto, chi sei? “Nasco come fotografo grafico negli anni Ottanta; si trattava di un’attività, quella del fotolitista, legata alla fotografia, anche se ciò non faceva di me un vero e proprio fotografo. Lavoravo con la reprocamera, che aveva quattro carboni a incandescenza che illuminavano gli originali e sviluppavo tutto in bacinella, intervenendo anche manualmente sulla pellicola scaldandola con l’alito e sfregandola con le dita per fare uscire più dettagli. Da qui il passo a fotografo tradizionale è stato breve, anche perché già da ragazzino la fotografia mi appassionava moltissimo. La mia prima macchina fotografica – di seconda mano – è stata una Nikon FM. Io al tempo lavoravo in una zincografia molto grande che, da 30/40 dipendenti, si trovò a passare a cinque. Ciò mi ha dato la possibilità di crearmi uno spazio tutto per me, che usavo come sala posa personale. Facevo ovviamente tutto io, dallo scatto allo sviluppo. Quando mi hanno rubato l’attrezzatura, però, mi sono scoraggiato e ho lasciato tutto. Poi sono arrivate le fotocamere digitali, le mie condizioni economiche sono migliorate e la passione è rinata”.
E la parte acrobatica? “All’età di quarant’anni ho dovuto reinventarmi, perché il lavoro di fotolitista non andava più e mi sono ritrovato, come si suol dire, “in mezzo alla strada”. Al tempo ero istruttore di arrampicata sportiva della FASI e l'arrampicata, che era la mia passione, è diventata il mio lavoro; ho lavorato per un po’ in un rifugio; in seguito ho insegnato in un centro di arrampicata, finché non ho incominciato a collaborare con Renzo Luzi e Jvan Negro, guide alpine, che facevano questo tipo di lavoro da anni. Jvan, che ora purtroppo non c’è più, è la persona che ha girato alcune scene nel film "Dopo Mezzanotte" del 2004 di Davide Ferrario: è lui il signore con i baffi che si appende e prende il caffè con Martino, il fantomatico custode del museo. Da circa quindici anni lavoro in questo ambiente. Mi occupo della manutenzione e di qualunque lavoro in cui sia necessario lavorare con le corde. Io e il mio collaboratore ci occupiamo per esempio delle luci di Merz (l'installazione luminosa permanente che fa parte delle Luci D’Artista e di cui abbiamo parlato nel N.63 della rivista, N.d.R), che io non ho montato perché erano già state installate, ma che richiedono costante manutenzione in quanto molto fragili. Sono infatti fissate ad un sottile telaio di alluminio, che rende la sequenza di Fibonacci praticamente invisibile di giorno, quando i numeri sono spenti, ma ne determina anche la fragilità”.
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E poi le due passioni si uniscono... “Sì, la fotografia mi è tornata molto utile quando, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d'Italia e dell’installazione del tricolore luminoso (questo, sì, l’ho installato io), ho lavorato al completo restauro dei manti di copertura della cupola. Da capitolato, e vista la particolare location dei lavori da effettuare, il direttore dei lavori non poteva controllare di persona ciò che veniva fatto. Tutto andava pertanto documentato fotograficamente; ho fotografato e mappato, per esempio, tutte le lose e le stelle rotte; ho usato la fotografia anche per intervenire in modo preciso sulla ricostruzione delle stelle e lavorare in sicurezza. Fotografavo infatti le stelle, che sono rondelle oltre ad avere una funzione decorativa, una per una, facendo attenzione a mantenermi in posizione il più ortogonale possibile. Stampavo poi la foto in scala 1:1 e la posizionavo su una delle riproduzioni in resina che avevamo realizzato, in modo da poter tagliare con il flessibile in maniera precisa la parte da sostituire. A questo punto non mi restava che portare in quota il pezzo mancante ed unirlo alla stella da ricostituire, senza usare attrezzi (tipo il flessibile, appunto), che avrebbero messo in pericolo non tanto me, quanto le persone a terra, in caso uno di questi o pezzi di materiale, mi fossero caduti. Naturalmente, una volta in quota, mi sono fatto prendere la mano e ho fotografato anche soggetti diversi dai meri pezzi da sostituire, quali il falco che ci veniva a trovare, il tramonto, la pioggia, la neve, nonché le persone che lavoravano insieme a me. Da questo lavoro è nata una mostra personale dal titolo: Cantiere Mole. Si è trattato di quaranta mie fotografie 70X100, che sono rimaste esposte presso il Museo del Cinema per quattro anni circa. Queste foto sono state anche inserite nel volume dal titolo Quota 167, diretta conseguenza della mostra, uscito con La Stampa”.
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Maurizio Puato Photography
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Quando arriva la danza? “Ero in giro a fare foto per il Festival dell’Oralità Popolare nel 2011 e ho incontrato dei ragazzi che eseguivano balli popolari del sud. Sono restato letteralmente rapito dai ritmi e dalle danze; ho smesso di fotografare e mi sono messo a battere i piedi ritmicamente per terra. C’era con me una carissima amica, che sapevo aver partecipato a un corso di danza, e lei mi ha indirizzato ad un corso di danza occitana. Da lì è partito tutto; ballo danze popolari – non solo quelle occitane – canto, suono il tamburo a cornice e il marranzano; ho insomma incominciato a fare cose che mai mi sarei immaginato di fare, ma che mi piacciono e mi divertono un sacco.”
E così due cose si uniscono di nuovo... “E così ho cercato di unire le due cose – la verticalità con la danza. Sono cose che ovviamente già esistevano e che a quel punto mi sono venute naturali. È tutto nato un giorno che ero quassù sulla Mole e ho visto uno stormo di rondini che mi volteggiavano attorno. Ho incominciato a fare qualche capriola, facendomi scattare delle foto col telefono cellulare dal mio collaboratore. Le ho postate su Facebook e ho intitolato il tutto “Danzando con le Rondini”. Da qui ho capito che era arrivato il momento di organizzare qualcosa di nuovo, ed è da qui che è nato Vertical Dance Torino, il gruppo che propone spettacoli di danza in una dimensione nuova e unica, sfidando la forza di gravità, che sembra quasi annullarsi.”
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Maurizio, come hai realizzato queste foto? “Sono un tipo perfezionista e mi piace pertanto che, siccome sono progetti miei, le cose vengano fatte a modo mio. Non ho perciò voluto che a scattare questo tipo di foto fosse qualcun altro, o che queste non venissero, semplicemente, scattate come mi ero immaginato. Per far ciò, ho preventivamente posizionato la mia macchina fotografica sulla base della cupola con delle cinghie a cricchetto; ho sistemato l’inquadratura, il fuoco e l’esposizione; attivato il comando a distanza, ho dato il telecomando a Gherardo Biolla, il mio collaboratore (quello che mi aveva aiutato anche a sistemare gli ancoraggi). A questo punto sono sceso, mi sono cambiato, sono risalito e sono uscito con Giulia. Così, mentre provavamo una coreografia, Gherardo scattava le foto; per cui c’è, sì, il suo dito, ma tutto il resto è mio.
Maurizio Puato Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Cos’è la danza verticale? “La danza verticale è creare coreografie o improvvisare una danza sospesi per aria legati ad una corda. Quando sposti il piano orizzontale sul quale ti muovi quotidianamente di 90 gradi e ci danzi sopra, tutto cambia. La gravità quasi scompare e, a seconda del braccio di corda che hai (cioè quanto sei distante dall’ancoraggio), tutto si dilata e ogni piccola spinta ti permette di muoverti sospeso nel vuoto per qualche secondo. Spesso quando si guarda un video di danza verticale sembra girato in slow motion. È come se fluttuassi nell’aria.”
Maurizio Puato Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Raccontaci del progetto “Il progetto, nato circa un anno fa, consisteva inizialmente nel realizzare un piccolo cortometraggio con figure di fantasia che danzavano all’interno e all’esterno della Mole; ne ho parlato col direttore che mi ha suggerito di fare uno spettacolo in diretta la sera di San Giovanni. È così che abbiamo danzato sulla Mole Antonelliana. La coppia dalla quale si è sviluppato lo spettacolo è quella in cui ci siamo io e Giulia Campagna, che danzava da tempo, anche se non lo aveva mai fatto sulle corde. È una persona capace e professionale, che in breve tempo ha acquisito le capacità necessarie. Da questo nucleo di due, Luca Tommasini, il coreografo a cui è stato chiesto di sviluppare il progetto, ha deciso di mettere dei danzatori su tutti e quattro i lati della Mole. E così siamo arrivati ad essere quattro coppie – una per ogni lato. Non è stato un compito facile trovare le persone con le competenze necessarie per danzare a sessanta metri da terra e collaborare a distanza per creare coreografie che fossero simili almeno dal punto di vista della struttura. Fortunatamente, lavorando nel mondo della verticalità, sono riuscito a mettermi in contatto e a trovare la collaborazione di una compagnia di Venezia, che si chiama Il Posto - Danza Verticale. Così Simona Forlani, Giorgio Coppone, Gianmatteo Baldan, Isabel Rossi, Giulia Mazzuccato, con la coreografa e titolare della compagnia Wanda Moretti, si sono aggiunte a noi del gruppo Vertical Dance Torino; un’altra ballerina è arrivata da Milano, Giulia Sarah Gibon.”
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Quanto vi siete preparati per questo spettacolo? Ai primi di gennaio io e Giulia abbiamo provato a immaginare una coreografia. Per noi era una nuova dimensione. Giulia è un’ottima ballerina ma non aveva mai danzato sospesa alle corde. Io invece ho più di 35 anni di esperienza come scalatore e operatore specializzato nei lavori in quota. Abbiamo fatto un grande lavoro di scambio, dove io mettevo a disposizione le mie competenze in materia di arrampicata e Giulia le sue di insegnante di danza. È stato un lavoro impegnativo; è molto faticoso mantenere una postura corretta e danzare a tempo di musica quando sei imbragato e sospeso per aria. Dopo qualche ora hai la schiena a pezzi, gli addominali che esplodono e l’imbrago che ti infiamma la pelle. Ci allenavamo clandestinamente (più volte hanno chiamato vigili e carabinieri) sui muri di Parco Dora in modo da avere più o meno lo stesso braccio di corda che avremmo trovato sulla cupola della Mole. Nonostante questa performance fosse stata proposta l’anno scorso, abbiamo avuto conferma soltanto a fine maggio. Non ci speravamo più, ma ci siamo allenati lo stesso: avessimo avuto anche solo una probabilità su un milione di fare lo spettacolo, volevamo essere pronti. A volte bisogna lavorare duro per realizzare i propri sogni.”
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SAMBUCA DI SICILIA
A cura di Rita Russo
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Sambuca di Sicilia
sorge in provincia di Agrigento, nel cuore della Sicilia occidentale ed è uno dei 12 comuni del Parco dei Monti Sicani. Grazie alla posizione orografica del centro abitato, la sua presenza salta subito all’occhio del visitatore, specie in estate. Sambuca, infatti, è adagiata, a circa 350 m s.l.m., su una collina calcarenitica che svetta sulla sottostante vallata argillosa, dalle morbide forme e dai colori contrastanti: il giallo dei campi di grano e il verde brillante degli estesi e produttivi vigneti. A questa morfologia debolmente ondulata fa contrasto, a nord est, l’area montuosa di Monte Genuardo (1178 m) sul cui fianco sinistro si trovano le rovine dell’insediamento greco - punico di Adranone. Quest’area è caratterizzata da un paesaggio aspro a pendenze accentuate, addolcito dalla presenza di fitti boschi, che talora lasciano spazio a pareti verticali. Mentre a sud del centro abitato, la valle è solcata dal letto del Torrente Rincione che, grazie alla diga Carboj, realizzata nella stretta tra il Monte Arancio e il Pizzo Miracoli, è il tributario principale dell’invaso artificiale denominato Lago Arancio.
Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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SAMBUCA DI SICILIA
Questa cittadina, inclusa nel 2014 nel club de “I borghi più belli d’Italia” per la sua rilevanza artistica, storica e culturale, per l’armonia del suo tessuto urbano e per la sua vivibilità, ha successivamente superato ogni fase del concorso che, durante la trasmissione di Rai 3 "Alle falde del Kilimangiaro", l’ha proclamata “Borgo dei borghi 2016”. E in effetti, Sambuca è un vero gioiello che ti affascina e ti conquista, attimo dopo attimo, per le sue mille sfaccettature, tra le quali non manca il mistero. Sita in posizione baricentrica tra le città di Palermo, Agrigento e Trapani, a poco più di 20 Km dal mare di Sciacca e dalla chilometrica spiaggia di Menfi, riconfermata anche quest’anno bandiera blu, Sambuca è facilmente raggiungibile da Palermo, da cui dista 77 Km, imboccando la SS 624 “Palermo - Sciacca”.
Sebbene questo sia il percorso più breve, è possibile raggiungere la cittadina sia da Palermo sia da Trapani percorrendo anche l’Autostrada A29 Palermo - Mazara del Vallo, fino allo svincolo Gallitello, per immettersi poi nella SS624. Numerose sono le linee di autobus che collegano Sambuca ai principali centri abitati e a quelli limitrofi ad essa. Una tra queste effettua anche il servizio di collegamento con l’Aeroporto Falcone e Borsellino.
Rita Russo Photography
Una volta raggiunto il centro abitato, il miglior modo per gustare appieno tutte le sue caratteristiche è quello di camminare a piedi, anche perché, eccetto il corso principale, molte strade sono strette e difficili da percorrere in auto.
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Rita Russo Photography La storia di Sambuca di Sicilia affonda le sue radici, con molta probabilità, nella preistoria, come raccontano i graffiti recentemente ritrovati all’interno delle Grotte di San Giovanni, veri e propri ripari ricavati sulla parete di un modesto rilievo calcarenitico, prossimo al Lago Arancio. Questa affermazione è frutto di uno studio in itinere che inizia nel 1986 con le scoperte dell’esperto di archeologia e preistoria Rocco Riportella e prosegue oggi grazie all’approfondimento promosso dall’Amministrazione Comunale con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Agrigento.
Essa divenne, così, un punto strategico di controllo territoriale. I reperti ritrovati nel sito archeologico, i cui scavi sono iniziati a partire dagli anni 60, ci riferiscono di una città fiorente che si circondava di bellezza attraverso ceramiche e oggetti d’uso soprattutto d’importazione e il Museo archeologico di Sambuca con sede a Palazzo Panitteri, offre un vasto campionario di straordinaria bellezza. La città fu, però, definitivamente rasa al suolo, violentemente, intorno al 250 a.C. e i superstiti, a valle, fondarono il borgo rurale di Adragnus che, durante il periodo paleocristiano, diventò il Casale di Adragna.
L’iniziale scoperta ha portato alla luce, all’interno dei tre ripari, non solo circa 400 incisioni verticali affiancate, insieme ad alcune figure triangolari, risalenti a circa 15000 anni fa, ma anche tracce di pigmento rosso e nero che compongono figure attribuibili all’inizio del Neolitico. L’elemento lineare è uno dei grafemi più ricorrenti nell’ambito delle manifestazioni parietali mediterranee, tra il tardo Paleolitico e il Neolitico e il complesso di Sambuca è il più ricco ritrovato in Italia e forse anche nell’intero Mediterraneo. I risultati dei nuovi rilievi, condotti con tecniche avanzate, potranno così aiutare a riscrivere la storia dell’antropizzazione di questo territorio, arricchendone la sua già millenaria storia. Infatti, quella più nota inizia, per il territorio di questo splendido borgo, nel VI secolo a.C. quando le colonie greche di Selinunte e Agrigento si contesero il territorio di cui parla Diodoro Siculo nel suo 23° libro, ossia Adranon, già abitato tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro. Nel secolo successivo, i Cartaginesi dopo aver conquistato la vicina Selinunte, rasero al suolo anche Adranone, ricostruendola secondo l’eparchia punica. Giroinfoto Magazine nr. 70
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Rita Russo Photography Ma l’inizio della storia dell’attuale centro abitato di Sambuca risale all’830 d.C., con la dominazione araba che ne costituì il nucleo più antico posto nella porzione più elevata di esso. Gli arabi, infatti, qualche anno dopo il loro sbarco in Sicilia, fondarono Zabut, dal nome dell’Emiro Al Zabut (“lo splendido”) che qui realizzò il castello, intorno al quale si sviluppò l’antico centro. Le tracce della dominazione saracena sono riscontrabili non solo nel centro urbano in corrispondenza del “quartiere arabo” ma anche nella fortezza di Mazzallakkar che, ubicata sulle sponde del Lago Arancio, riemerge ogni volta che il livello dell’invaso si abbassa. Testimonianze della presenza islamica nella città di Zabut si ritrovano fino al tredicesimo secolo, quando Federico II decise di porre fine alla “questione araba” in Sicilia, stroncando la ribellione che gli arabi stessi intentarono alle sue operazioni di consolidamento imperiale, sterminandoli definitivamente. Dopo l’eccidio dei saraceni e la deportazione dei loro superstiti, la cittadina - fortezza Zabut venne lentamente ricostruita. Gli arabi che rimasero si convertirono al cristianesimo e convissero pacificamente con gli abitanti del Casale di Adragna, che fu distrutto definitivamente nel 1411, sul finire dellaMangia lungaPhotography guerra di successione al Sara Giroinfoto Magazine nr. 70
Regno di Sicilia, la cui protagonista fu la regina Bianca di Navarra (moglie di Martino il Giovane, figlio primogenito del re di Aragona, Martino I il Vecchio). In quell’occasione, gli ultimi abitanti del Casale si trasferirono nella fortezza di Zabut, risparmiata dalla distruzione oltre che per l’imponenza delle sue fortificazioni anche per l'eroica resistenza opposta all'assedio dei seguaci del Barone di Modica, Bernardo Cabrera. In questa occasione venne ampliato verso sud ovest l’impianto urbano di Zabut con la realizzazione di un’acropoli e del quartiere costituito da vicoli stretti. Dopo il 1411, la città di Zabut, tra vendite e nuove assegnazioni, divenne prima baronato con le nobili famiglie dei Peralta d’Aragona e, successivamente, dei Ventimiglia e degli Abatellis; mentre dal 1574 divenne marchesato sotto la famiglia dei Baldi Centelles per passare, infine, ai marchesi Beccadelli di Bologna, che mantennero la proprietà fino al secolo XIX. In questi anni e fino all’Ottocento, la parte più antica iniziò ad essere trascurata a favore dell’area di espansione “fuori le mura”, che divenne il nuovo centro cittadino, dove a fianco all’asse viario principale sorsero palazzi nobiliari ed edifici di culto (se ne contano circa venti). Nel 1800, all’antico nome Zabut venne affiancato quello di Sambuca, perché la
forma dell’impianto urbano è simile allo strumento musicale greco somigliante a una piccola arpa, chiamato Σαμβύκη, che divenne da allora il simbolo del comune. Nel primo quarantennio dell'Ottocento continuò lo svilimento del castello di Zabut che fu ridotto prima a carcere feudale, poi saccheggiato e smembrato da privati e infine, demolito e sostituito da insignificanti costruzioni. In questo periodo, la cittadina divenne il centro di una fervente e vivace borghesia, cui appartennero alcuni intellettuali, tra i quali spicca Emanuele Navarro della Miraglia, pubblicista e letterato, nato a Sambuca nel 1838 dove visse nella prima parte della sua vita. A testimonianza di questo periodo resta il Teatro “L’Idea”, tutt’ora funzionante. Nel 1923, durante il regime fascista, la città perse la sua nomenclatura araba e divenne unicamente Sambuca di Sicilia. Nel 1968, in seguito al forte terremoto che distrusse, in parte o totalmente, molti centri della vicina Valle del Belìce, il patrimonio edilizio del centro storico di Sambuca fu parzialmente danneggiato. La conseguenza di tale evento fu lo spopolamento del centro storico e la costruzione di un nuovo centro abitato sito sulla collina a nord est di quest’ultimo.
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L’itinerario che si consiglia di seguire a chi giunge a Sambuca per la prima volta è una sorta di viaggio nel tempo che dal “quartiere arabo”, punto più alto e al contempo più antico del borgo, si svolge via via lungo il pendio della collina sulla quale poggia l’abitato e attraversa le testimonianze dei periodi storici successivi. Infatti, la disposizione urbanistica della città, lungo la collina stessa, rende percettibile la stratificazione storica che la caratterizza, dividendola essenzialmente in due nuclei: il più alto e più antico, quello arabo, entro le mura dell’antica fortezza (casbah) e quello sottostante realizzato tra il Cinquecento e l’Ottocento, ricco di nobili palazzi e isolati
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regolari, formati da strade che si dipartono dal principale asse viario, costituito da Corso Umberto I, che ha inizio dal Palazzo Oddo (o dell’Arpa, perché sede del Comune). Quest’ultimo, realizzato a metà del Settecento, segna una vera e propria linea di demarcazione tra le due zone e assicura la continuità stradale tra esse, tramite un attraversamento sotto uno dei due archi presenti sulla sua facciata. Rita Russo Photography
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Il processo di valorizzazione territoriale iniziato negli ultimi anni, grazie al quale Sambuca ha ottenuto il titolo di “Borgo dei borghi 2016”, è partito proprio dal recupero del quartiere saraceno. Efficace è stata, in questo ambito, l’iniziativa “Case a 1 euro”, che ha permesso all’Amministrazione Comunale di smaltire il patrimonio edilizio acquisito durante la speculazione conseguente all’espansione edilizia post terremoto e di accendere i riflettori sul borgo sambucese. Grazie a questo progetto, infatti, molti immobili sono stati venduti ad acquirenti provenienti da molte parti del mondo che, in alcuni casi, dopo la ristrutturazione dell’edificio, hanno scelto Sambuca come loro residenza definitiva. Tutto ciò ha innescato un virtuoso percorso di promozione, non solo turistica ma anche culturale, di Sambuca che ha rappresentato un volano di crescita economica per l’intera comunità sambucese.
loro prospetto il nome dato alla dimora scritto su eleganti mattonelle dai disegni tipicamente maghrebini, sia in italiano sia in arabo, che rendono ancora più ricca l’atmosfera che si respira nel quartiere.
Entrare nel quartiere saraceno, il cui impianto ricorda quello di una città araba ed imbattersi in un dedalo di stretti vicoli, chiamati “Li sette vanedde” (I sette vicoli), è quanto mai affascinante. All’apparenza tutti uguali se non fosse per la differente denominazione di ognuno di essi, da uno a sette appunto, percorrendoli si ha l’impressione di camminare dentro un labirinto dal quale sembra non sia facile uscire. Passando da un vicolo a un altro, attraversando piccoli cortili abbelliti da recenti opere di street art, ci si accorge della presenza di molte case ristrutturate che recano sul
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Quest’ultimo custodisce un particolare ricco di fascino e di mistero. Nel 2015, infatti, dopo diverse indagini si è avuta conferma che sotto ogni edificio si trovavano delle cave, chiamate in dialetto “purrere”, dalle quali venivano estratti i conci di calcarenite, impropriamente definita “tufo” (il tufo è, infatti, una roccia di origine vulcanica e non sedimentaria come lo è la calcarenite in questione). Il materiale estratto nel Medioevo da tali cave, unite tra loro da numerosi cunicoli, serviva per realizzare gli edifici soprastanti. Queste cavità, tramite un buco, venivano successivamente usate come letamaio e discarica di rifiuti. L’unico accesso a questo mondo sotterraneo poco conosciuto è su Piazza Saraceni, dal quale si scende nel cuore del borgo, quello fatto di “tufo”. L’emozionante discesa in questo luogo, a 12 metri di profondità, riporta il visitatore indietro nel tempo provando anche ad immaginare il duro lavoro dei cavatori.
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A ciò vanno aggiunte le leggende che si raccontano su questi luoghi nascosti che vengono arricchiti di mistero. Infatti, si narra che in questi spazi vennero rinchiusi vivi i saraceni perseguitati durante la guerra santa di Federico II contro gli arabi e che, durante gli anni successivi, gli abitanti del quartiere furono disturbati, nottetempo, dalla presenza di spettri vestiti da saraceni, talora avvistati a cavallo oltre che dal riecheggiare delle loro urla e lamenti. Per esorcizzare la presenza dei fantasmi, nel 1500 fu fatta costruire, a furor di popolo, la vicina chiesa dedicata alla Madonna del Rosario, che vanta un sagrato in acciottolato del 1752 con al centro lo stemma dei Domenicani, ossia un cane con la torcia in bocca, e un portone in legno di cipresso con formelle scolpite. La testimonianza di tali fantasmi si trova anche nella toponomastica del quartiere. Infatti, una delle vie principali, quella di fronte l’accesso alle “purrere”, si chiama proprio Via Fantasma.
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Verità o leggenda poco importa, visto che oggi il sito costituisce una delle maggiori attrattive turistiche del borgo. Ad accrescerne la fama, nel 2016, ha contribuito anche la realizzazione di una cantina all’interno di una camera della purrera. Un vero e proprio archivio della vitivinicoltura promossa dall’Associazione “Strade del Vino Terre Sicane”, chiamata l’Enoteca dei Rossi. La certezza della presenza della cave nel sottosuolo è testimoniata anche dal fatto che, in moltissimi edifici, la pietra calcarenitica lasciata a vista abbellisce i prospetti e gli interni delle case e il colore giallo della pietra è stato mantenuto anche su tutti i prospetti rivestiti da intonaco, grazie al “Piano colore” adottato dall’Amministrazione Comunale, ossia lo strumento urbanistico atto alla conservazione e valorizzazione del paesaggio urbano storico. Per completare la visita al quartiere arabo non si può prescindere dal vedere sia la Chiesa madre o Matrice, sia il Belvedere. Chiusa al culto dal 1968, anno del terremoto nel Belìce e riaperta nel 2018, dopo alcuni lavori di messa in sicurezza che ancora proseguono, la Chiesa Madre è uno dei più importanti monumenti di Sambuca ed è aperta solo in particolari occasioni. Essa è posizionata su un piccolo slargo panoramico sul quale originariamente sorgeva la primitiva chiesa di Santa Barbara annessa al castello, del quale ingloba nel suo campanile una delle torri. Spicca sulla sua facciata principale il portale d’ingresso in stile chiaramontano del 1642 con eleganti motivi geometrici. Mentre al suo interno, caratterizzato da tre navate, gli altari sono ornati da tele del ‘600 e ‘700. Rita Russo Photography
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Il Belvedere faceva parte del castello di Zabut e costituiva l’acropoli fortificata dell’antica città araba. Dopo la demolizione, del castello resta oggi un ampio spiazzale abbellito da un’esedra delimitata da colonne, che si affaccia sulla vallata circostante e dal quale è possibile vedere oltre il Monte Genuardo e il sito archeologico di Adranone, durante le giornate in cui l’aria è particolarmente tersa, anche gli abitati di Caltabellotta, Giuliana e Chiusa Sclafani. Quest’area è chiamata anche Calvario perché originariamente vi si festeggiavano i riti del Venerdì Santo. Prima di accedere a Corso Umberto I attraverso l’arco di Palazzo dell’Arpa, rientrando ancora idealmente “entro le mura” della città araba, ci si imbatte nell’Ex portale della Chiesa di San Giorgio, primo patrono di Sambuca, che troneggia al centro di Piazza Navarro. Quest’opera lapidea di grande pregio, risalente alla prima metà del Cinquecento, è stata riassemblata nel 2018 in questo punto per ricordare la posizione dell’omonima chiesa, conosciuta storicamente come Basilica dei Saraceni, costruita sulle fondamenta della moschea araba e demolita nel 1959.
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Tra i più bei palazzi visitabili di Sambuca, è da annoverare il palazzo Panitteri che, edificato alla fine del Cinquecento quale torrione d’avamposto del castello di Zabut, divenne successivamente dimora patrizia, adattando la struttura quadrangolare alle nuove esigenze abitative. La sua posizione, pertanto, lo colloca nel punto di passaggio tra il vecchio quartiere arabo e la città cinquecentesca. Il suo stile mostra linee attinte sia dal Rinascimento che dal successivo barocco siciliano, individuabile nella ringhiera a petto d’oca che orna lo splendido balcone sul portale. Il piano nobile del palazzo, oggi di proprietà comunale, è sede del museo archeologico che, inaugurato nel 2013, raccoglie pregiati reperti provenienti dal sito archeologico di Adranone. Tra questi si trovano cinture bronzee, strigili, suppellettili varie, colonne e capitelli, monete, splendidi crateri a figure rosse su fondo nero e tanto altro. Il percorso espositivo si estende tra le stanze del palazzo che possiede anche un caratteristico cortile con scala catalana e un giardino con piante ornamentali mediterranee. Tra i palazzi più importanti che si trovano lungo il Corso Umberto I c’è un vasto complesso edilizio, fondato nel 1537, che comprende sia l’Ex ospedale con la torre civica e la contigua chiesa dei SS Fabiano e Sebastiano, sia il palazzo del marchese Beccadelli. Di quest’ultimo si apprezza il monumentale balcone dalle forme sinuose, con lo stemma della famiglia che evoca i fasti di un tempo ed il sistema di archi rampanti del vicino vicolo. L’ospedale restò aperto fino al 1968 e dopo la sua ristrutturazione, per i danni subiti dal terremoto, è divenuto un contenitore culturale. La torre civica possiede, invece, uno splendido orologio con il meccanismo della metà dell’Ottocento, cui si accede da una stretta scala a chiocciola. Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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EX OSPEDALE CON LA TORRE CIVICA Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Tra i numerosi edifici di culto, alcuni dei quali adibiti a museo, che popolano il centro storico e si affacciano su Corso Umberto I, spicca il Santuario di Maria SS. dell’Udienza chiamata anche Chiesa del Carmine. Questa chiesa, edificata nel 1530, originariamente dedicata a Sant’Antonio, venne ampliata nel 1615 e le fu annesso il Convento dei Carmelitani di cui si conserva il chiostro. Successivamente, nel 1633, fu trasformata in tre navate dal marchese Bardi Centelles. La chiesa, per la particolare devozione alla Madonna dell’Udienza, che divenne la patrona di Sambuca per averla liberata dalla peste nel 1576, è stata elevata a Santuario nel 1949 ed è la chiesa principale di Sambuca.
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La sua facciata si sviluppa su due ordini sovrapposti. Mentre, all’interno, è formata da tre navate ritmate da cinque campate con archi a tutto sesto su pilastri. Questi presentano, dal lato della navata centrale, delle paraste di ordine corinzio, sporgenti circa cinque centimetri, adornate con decorazioni dorate e bianche. Nella nicchia della navata centrale è poggiata la statua di marmo della Madonna dell’Udienza, di scuola gaginiana, di pregiato valore artistico e religioso. Per la festa della patrona, il simulacro della Madonna viene portato in processione dai fedeli, tra i quartieri di Sambuca, per tutta la notte della terza domenica di maggio.
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La chiesa di Santa Caterina, datata 1515, in pieno stile architettonico barocco, è la parte residua del grande Monastero Benedettino. Essa era affiancata al chiostro che, nel periodo fascista, venne demolito per lasciare spazio ad una piazzetta, Piazza della Vittoria, sulla quale, nel 1929, venne installato un monumento ai caduti. La chiesa, a navata unica divisa in quattro da altarini in marmo con l’altare maggiore nella cappella, mostra al suo interno un ricco apparato decorativo in stucco, realizzato da Vincenzo Messina, allievo del Serpotta. Sull’altare maggiore vi è la copia della tela dipinta da Fra Felice da Sambuca che raffigura la consegna delle chiavi del Monastero a San Benedetto da parte del marchese Beccadelli, mecenate che arricchì chiesa
e monastero di rendite e opere d’arte, il cui originale è andato perso negli anni ’80. Tra gli ornamenti si osservano sculture a tutto tondo raffiguranti anche le allegorie delle quattro Virtù teologali (fede, speranza, carità e giustizia) ai lati dei due altari laterali. A queste seguono una grande quantità di altre decorazioni come candelabri, cartigli, putti e angioletti, riccioli, volute, colonne tortili, ecc. tipici del barocco siciliano. Il pavimento di pregio della chiesa è costituito da preziose quadrelle smaltate provenienti dalle fabbriche di maioliche della vicina Burgio.
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Anche la chiesa della Concezione, sita a pochi passi dal corso, presenta un magnifico portale a sesto acuto con decorazione in stile chiaramontano, proveniente dalla Chiesa di San Nicolò dell’antico Casale di Adragna. Il portale, nel 1928, venne dichiarato Monumento Nazionale. Tra i musei, oltre quello archeologico di Palazzo Panitteri, spicca quello, ospitato nei locali dell’ex Monastero di Santa Caterina, delle sculture tessili di Sylvie Clavel, artista parigina che ha vissuto per molti anni a Sambuca. La sua arte è quella di annodare, come nel macramé, con un lavoro lento e certosino, i fili ottenuti da fibre vegetali, dando vita a figure antropomorfe o animali dai colori tenui, uniche nel loro genere, dai volti costituiti da maschere di legno, fatte a mano e provenienti dall’Africa, che aggiungono valore alle già particolari opere. L’artista stessa avverte che “il nodo sostiene la forma e la costruisce, l’imprigiona e la svela allo sguardo”.
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PINACOTECA Rita Russo Photography
Nella chiesa di San Calogero, in Corso Umberto I, vi è la pinacoteca dedicata alle opere più significative del pittore sambucese Giovanni Becchina, più noto come Gianbecchina, considerato una delle migliori espressioni del Novecento italiano. Oli su tela, acqueforti, acquarelli e schizzi, donati dal maestro alla sua città poco prima della sua scomparsa, coprono un arco temporale che va dal 1924 al 1996 e mostrano il cammino dell’artista il cui tema principale delle sue opere è la Sicilia e i suoi colori. Questa pinacoteca rappresenta per Sambuca un laboratorio permanente in cui nascono e maturano progetti culturali, il cui scopo è la valorizzazione del territorio e la promozione turistica. La seicentesca chiesa del Purgatorio ospita il Museo d’arte sacra della città, Mu.Di.A, uno dei poli espositivi del Museo diffuso dell’Arcidiocesi di Agrigento, che conserva importanti testimonianze locali di Fede e Arte. La chiesa è decorata da stucchi il cui tema delle Anime Purganti si ritrova oltre che sui medaglioni anche sulla pala d’altare, opera di Fra Felice da Sambuca e in essa è ancora ben conservato il pavimento in ceramica di Burgio. Nella parte più bassa del Corso Umberto I, di fronte alla Villa Comunale, si trova il Teatro L’idea che, edificato nel 1851 da privati, costituì il polo culturale per la borghesia dell’epoca. Alla fine dell’Ottocento venne acquistato dal Comune. La sua struttura architettonica ricalca quella dei grandi teatri siciliani come il Politeama di Palermo o il Bellini di Catania. Il teatro, i cui affreschi in stile liberty furono realizzati da Placido Carini, ha un impianto a ferro di cavallo, con volta a cupola schiacciata, tre ordini di palchi e può ospitare fino a 250 persone. Giroinfoto Magazine nr. 70
SAN CALOGERO Rita Russo Photography
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TEATRO L'IDEA Rita Russo Photography
Danneggiato gravemente dal terremoto del 1968, fu restaurato e restituito, nel 1993, ai cittadini sambucesi. Il teatro oggi offre alla comunità stagioni teatrali con attori di livello nazionale e svolge, inoltre, un’importante funzione socio - culturale, essendo spesso utilizzato come centro di formazione teatrale oltre che come struttura ricettiva per convegni e attività culturali ad ampio spettro.
CHIESA DEL PURGATORIO Rita Russo Photography
MUDIA Rita Russo Photography
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Tra gli arredi che elegantemente abbelliscono il lungo e dritto Corso Umberto I, oltre ai lampioni in ferro battuto, nel 2014 è stata collocata in piazza della Vittoria, la statua raffigurante una lumaca, “Babalucia” in dialetto, realizzata dall’artista palermitano Gabriele Venanzio. Questo animale popolava in gran quantità le campagne dei dintorni di Sambuca tanto da far guadagnare ai suoi abitanti l’appellativo di “babaluciari”. Ma la lumaca si identifica metaforicamente anche con la lentezza. Dunque, l’installazione di questo simbolo vuole essere un elogio a quest’ultima, uno stimolo a vivere la vita senza fretta per assaporarne la sua bellezza. Per questo sulla statua si può leggere la seguente frase tratta dall’Elogio della lentezza di I.Maffei: "In un mondo che corre vorticosamente, con logiche spesso incomprensibili, la lentezza si affaccia alla mente con prepotenza, come una meta del pensiero.”
Zabut e presenta una pianta quadrangolare, ai cui vertici si elevano torrioni di forma circolare, dotati di feritoie, coperti da cupolette in pietra calcarea e costituito da mura dell’altezza di 4 m. Fino agli anni ‘50, sebbene fosse adibito a ricovero di greggi e armenti, il fortino si trovava in buone condizioni. Ma dopo la costruzione della diga e la conseguente inondazione dell’area sulla quale oggi si trova il Lago Arancio, il fortino resta sommerso quasi del tutto per almeno sei mesi l’anno, cosa che sta deteriorando irrimediabilmente questo capolavoro di architettura araba, unico in tutta la Sicilia.
Non mancano le attrazioni di pregio fuori dal centro storico, come l’antico acquedotto che, costruito nel 1633, subì ingenti danni a causa del terremoto; l’ ex Convento dei Cappuccini, edificato nel 1606, nel quale la recente ristrutturazione ha riportato alla luce le sue catacombe e il Fortino di Mazzallakkar. Quest’ultimo, sito sulle sponde del Lago Arancio, fu costruito dagli arabi nello stesso periodo in cui stavano fondando
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Ma Sambuca non è solo arte e storia. È anche natura, per le vicine riserve, gastronomia e, soprattutto, vino. L’attività di vinificazione costituisce, infatti, la principale risorsa economica locale. I fiorenti vigneti che, insieme a rigogliosi uliveti, popolano soprattutto le sponde del Lago Arancio, danno vita a numerose e importanti cantine che fanno capo all’Associazione “Strade del Vino Terre Sicane” che ha la sua sede proprio a Palazzo Panitteri.
ciò che trasforma un viaggio in una magnifica esperienza di vita. Un banchetto pieno di leccornie culturali come quello esposto tra le righe di questo articolo non può che chiudersi con un appetitoso ed imperdibile dolce, quello tipico di Sambuca, costituito dalle Minne di Virgini (in italiano “seno di vergine”). Questo dolce, la cui ricetta risale al 1725, fu ideato da Suor Virginia Casale di Rocca Menna, del Collegio di Maria di Sambuca, in occasione delle nozze del Marchese Don Pietro Beccadelli con Donna Marianna di Gravina.
Nei locali di piano terra e cantinato di quest’ultimo sono presenti una sala conferenze, la Taberna per la vendita al dettaglio e una sala attrezzata di cucina a vista, per degustazioni e manifestazioni enogastronomiche. La suddetta associazione, che si occupa di promozione turistica attraverso i sapori e le tradizioni del territorio, identifica un vero e proprio itinerario del gusto che, appositamente segnalato e pubblicizzato da specifici cartelli, si svolge tra i comuni di Sambuca di Sicilia, Menfi, Montevago, Contessa Entellina e S. Margherita di Belìce, tutti ricadenti nel comprensorio dei Monti Sicani.
Suor Virginia prese spunto dalle colline che circondano Sambuca e ottenne un dolce il cui vertice culmina con una pallina di pasta frolla che durante la cottura per prima si imbrunisce ricordando un seno. Il dolce, ripieno di crema di latte, cioccolato e zuccata, ricoperta con glassa di zucchero, fu lodato dal principe di Salina ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Essa riunisce, oltre ai più noti nomi di produttori di vino siciliano, anche aziende agricole e ristoranti, allo scopo di far conoscere oltre il territorio dei suddetti comuni da un punto di vista storico - culturale, anche i loro vini, i prodotti tipici e le peculiarità delle tradizioni enogastronomiche; insomma, tutto
Per la realizzazione di questo articolo si ringrazia il Comune di Sambuca di Sicilia che nella persona del Sindaco, Leonardo Ciaccio, del suo staff e dell’Ing. Capo Francesco Trapani, hanno reso facilmente fruibili tutte le risorse culturali del Borgo attraverso la cordiale e paziente attività di guida svolta dal Sig. Pietro Cacioppo. Si ringrazia, inoltre, l’Associazione Strade del Vino Terre Sicane per l’ospitalità offerta presso il B&B Le stanze dell’Emiro di Via Rosario, 41 a Sambuca.
www.comune.sambucadisicilia.ag.it www.stradadelvinoterresicane.it/ sambuca-di-sicilia
BB-Le-Stanze-dellEmiro
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ABITARE IL MUSEO
A Roma si può
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A cura di Guglielmo Vio Roma non è solo culla di storia millenaria, è anche la capitale della modernità capace di dedicare spazi alla creatività e di valorizzare l'arte in ogni sua declinazione; una città accogliente, dove ciascuno può sentirsi a casa, ma che come tutte le realtà complesse annovera gli invisibili.
Un esempio di buona integrazione, si incontra al "Metropoliz - città meticcia" al civico 913 di via Prenestina nella periferia est della città, nei pressi di Tor Sapienza dove la luna e l'arte si fondono, un progetto abitativo, artistico, politico e al tempo stesso fantastico, nato per difendere i diritti degli ultimi.
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A delimitare l'area un alto muro di cinta con dei murales di notevole pregio e un cancello con in bella evidenza tante cassette delle lettere posizionate senza un ordine preciso. All'interno, in un'area di oltre 20 mila mq, un tempo sede di un salumificio Fiorucci, poi trasferitosi a Pomezia, vivono circa 200 persone (più o meno 60 nuclei familiari) di diverse nazionalità e religioni, accomunate dalla condizione di necessità, ma che a questo sito dismesso - annoverabile fra quelli di grigia archeologia industriale - hanno dato una seconda vita, trasformandolo in un museo abitato.
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L'idea è di Giorgio De Finis che prima ancora di immaginarlo com'è adesso, per due anni ha trasformato questo luogo in un cantiere culturale e surreale. Filo conduttore del suo progetto, un viaggio sulla luna. Un pianeta di pace, di tutti e che non prevede proprietà privata. Ha coinvolto tutti i metropoliziani a seguirlo e a lavorare per realizzare quel mezzo di trasporto che li avrebbe idealmente trasportati nell'infinito, concedendo loro la libertà: un razzo alto quanto una palazzina di 4/5 piani che ha campeggiato per anni in uno spiazzo dell'ex salumificio e che ha contribuito ad arricchire il set del cortometraggio “Space Metropoliz”, di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis, un viaggio fantastico sulla luna, pianeta aperto a tutti. Quella stessa luna scrutata dal telescopio che è stato posizionato sul punto più alto dell'edificio e che sembra vigilare sulla vita all'interno e all'esterno del perimetro della città "meticcia".
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Quella di Metropoliz è la storia di un luogo magico - il MAAM - che inizia nel marzo del 2009, oggi Museo dell’Altro e dell’Altrove. Uno spazio che avrebbe potuto essere ricordato come un mostro di cemento, abbandonato a sé stesso e al degrado, uno di quelli di cui nessuno si interessa a meno che non consenta una speculazione edilizia. Ma invece di essere demolito, potendo essere annoverato fra i progetti di rigenerazione urbana, questo impianto dismesso, è stato 'occupato' nel vero senso della parola, grazie al coordinamento di due associazioni molto attive: I Blocchi Precari Metropolitani, che segue l'emergenza abitativa nella capitale, e Popica Onlus, impegnata sul tema della scolarizzazione dei bambini rom. Un'esperienza di socializzazione e di integrazione che non vive di finanziamenti pubblici o privati, ma che resiste grazie alla generosità dei visitatori che vi accedono ogni sabato mattina, in cambio di un contributo libero o di una consumazione al bar allestito all'interno dell'area, gestito dai residenti.
Giorgio de Finis, uno studioso di antropologia, ma anche giornalista e scrittore, anima del MAAM, lo ha definito una cattedrale laica. La sua capacità visionaria, ha dimostrato che anche da un'azione illegittima può scaturire qualcosa di innovativo, di grande valore artistico-culturale grazie al riconoscimento e al sostegno che negli anni questo luogo ha ricevuto da artisti e filantropi provenienti da ogni parte del mondo. Volendo sintetizzare l'esperienza del MAAM basta evocare Papa Francesco che - di recente e per costruire un mondo migliore - ha lanciato un appello a tutti i potenti e ai singoli affinché si possa accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli esclusi allo scopo di rimuovere barriere e pregiudizi. In nome della solidarietà il MAAM è divenuto un museo condiviso, una comunità che oggi è meta di turisti e di migliaia di cittadini, curiosi di capire cos'è in realtà il MAAM e di sapere come è stato possibile renderlo un posto unico.
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Al MAAM si vive come in un condominio, ciascuno ha uno spazio abitativo, stanze o piccoli appartamenti ricavati nell'area che con tutta probabilità ospitava gli uffici del salumificio. Un adattamento che garantisce gli standard minimi di dignità e riservatezza necessari per fare di uno spazio open e alternativo un luogo vivibile e ospitale. Ad accogliere i visitatori una signora precariamente seduta in prossimità di un tavolino, gentile e sorridente come un addetto a un portierato, ma diffidente e carismatica quanto basta per dissuadere gli scocciatori. Anziana, non tanto anagraficamente, ma per il suo vissuto, si mostra disponibile e avverte gli avventori che la guida sta per arrivare. Metropoliz è un luogo multisensoriale. L'ospite viene accolto da colori, profumi, idiomi e musica di diverse nazionalità. Le più disparate origini dei suoi abitanti lo rendono speciale. Visitare il MAAM è più o meno come fare un viaggio nei 5 continenti e per questo viene definito anche la "città meticcia". È un luogo dove non mancano i bambini che girano in bicicletta, corrono dietro a un pallone, a volte perfino scalzi, liberi di essere tali.
All'interno del MAAM sono ospitati anche concerti e corsi; l'area di accesso, pur perimetrata da alti muri, è considerata un agorà, luogo di ritrovo per i residenti, dove si discute e si gioca. Dalla struttura lineare ci si aspetta un ordine preciso, di poter seguire un percorso preordinato. Invece chi visita la costruzione finisce per perdersi in un dedalo di corridoi, sale, mezzi piani, porte scorrevoli e scale dove anche la luce è protagonista. Si passa da ambienti a volte bui e angusti, con installazioni che suggestionano, a cortili sovrailluminati e sale spaziose che avvolgono di colori chi vi staziona. Murales, scritte, ritratti, guerrieri, animali e supereroi si susseguono senza prevalere l'uno sull'altro, tutti di estrema bellezza, anche se un po' decadenti. Per descrivere questo luogo ben si adatta la parola "sgarrupato" che è un modo bonario per ricordare che il MAAM ha 12 anni ed è uno spazio "vissuto" in tutti i sensi.
Nonostante tradizioni, culture e religioni diverse, al MAAM si sentono tutti a casa loro. A differenza di un museo inteso nel modo più classico del termine, all'interno del MAAM non si allestiscono mostre perché è di per sé un luogo intriso d'arte. Nel tempo sono stati oltre 300, forse 400 gli artisti che vi hanno lasciato la firma. Opere di street art, murales, disegni evocativi, installazioni, sono diverse le forme d'arte che colorano le sue enormi pareti, che pendono dal soffitto e ne riempiono gli spazi. Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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Guglielmo Vio Photography Trasmette emozioni diverse e anche dopo visite successive non finisce mai di stupire. Può capitare che su un'opera ci abbiano scritto i bambini, che un tavolino abbia perso la sua stabilità, che un personaggio di una installazione possa essersi adagiato al suolo senza modificare il messaggio dell'autore. E per questo visitare il MAAM può trasformarsi in una continua scoperta. Se alla prima visita una porta era aperta, sarà stato impossibile vederne l'altra faccia che con molta probabilità è decorata. La pioggia battente su un muro potrebbe aver fatto scivolare i colori della rappresentazione grafica senza comprometterne l'integrità. Il MAAM insieme a MACRO e MAXXI è il terzo museo d’arte contemporanea di Roma anche se è ogni giorno a rischio sgombero per la sua natura abusiva. Le opere realizzate al suo interno sono tutte studiate e approvate e fanno parte di un percorso artistico-comunicativo che ricorda l'originale utilizzo del luogo, ciò che rappresenta oggi o quello che chi lo vive vuole raccontare alle istituzioni e ai visitatori. Le opere sono tutte frutto di donazioni, gli artisti le realizzano a proprie spese e il loro insieme determina il valore del sito,
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dell'arte che custodisce e che deve essere preservata da eventuali demolizioni. È possibile declinare l'acronimo MAAM attribuendo alle parole che lo compongono diverse interpretazioni. Il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz lascia intendere che Altro possa essere quella famosa luna che come l'arte è di tutti, ma identificare anche la città meticcia che unisce le diversità in un altrove che ne può solo esaltare il valore. Da visitatore non si percepisce la sensazione di essere di troppo, né di disturbare, perché chi ci vive è abituato a questo tipo di incursioni. Preferibilmente il sabato, dalle 11.00 alle 17.00 è possibile accedere all'area museale, anche se nessuno rifiuta a un turista, a un artista o a un curioso di farsi un giro durante la settimana. Tutto ciò che anima il MAAM trasmette un messaggio, perfino le sedie. Dietro ciascuna di esse c'è una parola carica di significato: libertà, giustizia, diversità, integrazione. Gli stessi principi e diritti negati a molti, che se si potesse urlare, gli invisibili del MAAM trasferirebbero al mondo esterno.
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Nel percorso fatto di chiaroscuri il visitatore è libero di scegliere cosa vedere e cosa fotografare. Le voci sussurrate, sono inibite dall'eco dell'enorme vuoto che le circonda. lo stupore è l'espressione che si percepisce sui volti delle persone che si incontrano, i superlativi sono le parole più ricorrenti. Un cane bianco accompagna e fiuta con discrezione i curiosi ospiti, probabilmente alla ricerca di una carezza, incurante della colonia di gatti che si aggira sorniona e perfettamente a proprio agio nonostante il via vai di sconosciuti. Alcune abitazioni sono esterne al corpo centrale dell'enorme struttura, allineate come dei bungalow di un villaggio turistico con i tavolini fuori, protetti da tettoie, fioriere a delimitare lo spazio, qualche tenda con la doppia funzione di riparare dal sole e difendere la privacy.
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Qua e là automobiline a pedali, tricicli, monopattini, seggioline colorate, scarpe o ciabatte di misure diverse, allineate sotto il sole certificano la presenza discreta dei numerosi condomini. A guardarsi intorno niente sembra in ordine, ma non si percepisce disordine. Difficile trovare sul percorso mozziconi e immondizia minuta il che significa che l'autogestione presuppone il decoro degli spazi comuni e il rispetto di una condizione di privilegio che è data dal fatto di vivere in un museo e di convivere con chi lo anima. Per godere a pieno il Metropoliz non bisogna essere artisti, esperti o critici d'arte, basta avere un po' di curiosità e la capacità di emozionarsi, a stupire ci pensa il MAAM che è in continuo divenire.
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Vivere al MAAM non è una scelta, ma una necessità. Hanno tutti grande dignità, nessuno chiede aiuto e sono disponibili a far entrare il visitatore che chiedesse di accedere nella loro dimora se questa custodisce un'opera. Sono consapevoli del fatto che proprio l'arte ha consentito in questi 12 anni di preservare questa città "meticcia", un modello di convivenza e integrazione probabilmente unico al mondo. Al Metropoliz si può chiedere di essere ospitati se ci sono spazi disponibili. Bisogna accontentarsi della vita spartana che può offrire, ma è una esperienza che ha interessato molti visitatori che hanno studiato ogni singolo centimetro di questo luogo. Così come è stato molte volte il soggetto di tesi di laurea che ne hanno raccontato la storia e il valore artistico e sociale. Del MAAM merita di essere sfogliato un catalogo, a cura di Giorgio De Finis, della casa editrice Bordeaux, un'opera imponente, la più completa descrizione di Metropoliz e per comprenderne tutta l'umanità, vale la pena di leggere il volume Senza Metropoliz non è la mia città che racchiude storie e testimonianze di chi lo ha visitato. Ci piace immaginare che a nessuno venga in mente di scrivere la parola fine di questo progetto abitativo e museale in continuo divenire. Una storiaSciolti che di tanto in tanto si arricchisce di una nuova Margherita Photography pagina: un'opera in dono o una famiglia in più che sperimenta, non senza turbamento, l'emozione dell'accoglienza e, quindi, dell'essere parte di una comunità non ostile, come solo la città meticcia può garantire.
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La visita del MAAM potrebbe non finire mai perché le immagini le porti nel cuore e nella mente e le rivedi anche standone fuori. Bisogna darsi tempo per poterne godere a pieno. Tanti dettagli potrebbero sfuggire al primo passaggio. Un simpatico elefantino rosa portafortuna o un piccolo alieno verde a difesa della ludoteca, dei maialini in tuta da astronauta che volano come fossero palloncini, un esercito di personaggi buffi realizzati con guanti, posate e pennelli, un piccolo Buddha che dorme sereno nonostante l'affollato Metropoliz che lo ospita, un gatto vestito di foglie (opera realizzata da Cancelletto) che ti aspetta fuori dalla porta del bar, lo spazio alternativo nel quale è possibile riposarsi e riordinare le idee.
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Essendo il MAAM realizzato in quello che fu un mattatoio, l'animale più raffigurato è il maiale che sopravvive al suo destino, così Pablo Mesa Capella e Gonzalo Orquin celebrano l'e-MAAMcipazione dei maiali che decidono di riprendersi la loro libertà e spiccano il volo. Il messaggio della cappella porcina, un dipinto lungo 30 metri, è che c’è sempre un’altra possibilità anche quando tutto sembra perduto. All'inizio della visita ci si imbatte in un esercito; tanti soldati in fila, tutti schierati a difesa del museo. I guardiani della luce è un'opera di Stefania Fabrizi. La ludoteca è stata decorata da Alice Pasquini, sulla facciata esterna di Metropoliz campeggia un capolavoro di Gonzalo Borondo, "Piedad" che ritrae figure antropomorfe
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apparentemente scolpite, che sono invece realizzate graffiando la vernice; hanno pose armoniche e molto espressive. Accanto a questo murales resiste, seppur aggredita dall'umidità l'opera “Peace” di Eduardo Kobra, che rappresenta la pace e l’inter-religiosità. Di Solo, Street Artist romano con la predilezione per i supereroi sono le tre raffigurazioni di Cat woman, Hulk e Wonder Woman che si incontrano nelle sale del MAAM. Nella carrellata di volti femminili che offre Metropoliz c'è un profilo di donna molto espressivo “Free Sanaa” dell'artista egiziano Ammar Abo Bakr.
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Con il titolo di Costellazioni metropolitane, Maura Maugliani regala ai visitatori due magnifici volti disegnati con la penna a biro che il tempo, ossidandosi l'inchiostro, renderà ologrammi a simboleggiare la resilienza che è il termine che meglio definisce il progetto del Museo abitato MAAM.
La locuzione latina "nihil difficile volenti" che tradotto significa letteralmente: "nulla è arduo per colui che vuole" racchiude lo spirito di questa avventura umana, culturale e irrazionale e sottolinea l'importanza della forza di volontà nella realizzazione degli obiettivi. In fondo il MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove - Metropoliz città meticcia dimostra che si può resistere per 12 anni e si può farlo con la solidarietà e la forza dell'arte che come i sogni e la luna nessuno ci può sottrarre o può cancellare. Lasciare Metropoliz dopo averne apprezzato l'unicità, induce a qualche mesta riflessione sul futuro di questa comunità. Margherita Sciolti Photography La guida invita i visitatori a tornare, annuncia un evento per settembre, ma è consapevole del fatto che si comincia a parlare di sgombero che le ragioni della solidarietà e della universalità del messaggio lanciato da questo progetto
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Un grazie per la disponibilità e professionalità va all’ideatore del MAAM, Giorgio de Finis, che permette di conoscere con grande generosità la storia del museo dell’Altro e dell’Altrove - Metropoliz città meticcia, trasformando ogni visita in un magico viaggio fatto di racconti, esperienze e immagini. Gianmarco Marchesini Photography
In questo viaggio all'interno di Metropoliz, un racconto che ci permette di dire c'era una volta l'occupazione d'arte, incontriamo anche Pinocchio, protagonista della raffigurazione del Paese dei balocchi di Danilo Bucchi. Non si può lasciare questo luogo senza avere prestato attenzione alle scritte, provocatorie o romantiche, che accompagnano le installazioni e la grafica.
potrebbero infrangersi al cospetto delle regole, con quella legalità che se dovesse prevalere sul sogno di un viaggio collettivo durato 12 anni, metterebbe la parola fine a questa appassionante storia metropolitana.
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Un tam tam che da Tor Sapienza rimbalza in tutto il mondo. SPAGNA : Gonzalo Borondo artista poliedrico classe 1989. Seppur giovane riesce a rappresentare con delicatezza ed intensità i sentimenti che ogni luogo gli ispira. Roma è una città che ama. Al Maam ha raffigurato la “Piedad”. Il muro di cinta dell’EX salumificio si trasforma in una tela con i toni inconfondibili delle sue opere il rosso, il grigio ed il nero impressi con segni decisi con un rullo a mano. Un bozzetto su un foglio si trasforma in un tenero bacio. BRASILE: KOBRA nato a San Paolo di Brasile nel 1975. Si forma ed accresce la sua popolarità nella sua città. Cerca di creare una interazione con il suo pubblico attraverso la tridimensionalità delle sue opere, che si distinguono anche per i mix di colori accesi. Il tratto della sua bomboletta spray è inconfondibile. Ogni suo ritratto ha elementi sociali molto forti. Ritrae grandi personaggi come Gandhi, Mandela, Madre Teresa. Arriva al MaaM per immortalare il volto di Malala Yousafzai insignita il 10 ottobre 2014 con il premio Nobel per la pace. Nel murales, accanto al suo volto compare la scritta pace realizzata con i simboli di tutte le religioni.
Il messaggio di Malala di rispetto per le donne ed un'istruzione libera per tutti i bambini si traduce in un messaggio di uguaglianza e convivenza sostenibile. I suoi occhi, che nulla temono, compaiono accanto ad un arcobaleno che nasce da un punto unico per diffondersi a raggiera per raggiungere chi osserva. EGITTO : Ammar Abo Bakr classe 1980. Maestro di graffiti in Egitto. Artista impegnato, che per anni ha rappresentato la rivoluzione egiziana del 2011. Regala al MaaM un ritratto che raffigura, Sana’a Seif, giovane attivista per i diritti umani, inizialmente imprigionata perché protestava contro l’arresto del fratello detenuto nella stessa prigione di Patrick Zaki, e successivamente più volte trattenuta per la sua attività divulgativa sui social.
Ex salumificio un luogo di memoria L’ex salumificio, quando è stato occupato non è stato totalmente smantellato. Sia gli abitanti, che gli artisti si sono districati tra le mura ed i vecchi macchinari dismessi. Molte sono le opere che si integrano con il ricordo di ciò che era.
https://www.spacemetropoliz.com/film/ metropoliz/
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LA CAPPELLA PORCINA: è un ironico tributo alla vita che fu dei maiali in questi luoghi tanto che Pablo Mesa Capella e Gonzalo Orquìn li hanno immortalati durante il percorso che li portava verso la fase finale della lavorazione, ma con un lieto fine. Il maiale si stacca dalla fila e vola, nella speranza di una ritrovata libertà. Lungo tutto il muro ai piedi della rappresentazione si scorgono ancora i binari dei carrelli della lavorazione. COSTELLAZIONI METROPOLITANE: Ritratti di donne minuziosamente realizzati come costellazioni di punti disegnati con la penna BIC su carta da parati incastonati tra i vecchi i macchinari dismessi. Un’opera che Mauro Maugliani ha ideato affinché nel tempo, l’inchiostro dissolvendosi, rendesse i ritratti evanescenti come fantasmi. SPACEDOG: nella sala delle vasche di scolo così MR. Klevra partecipa alla spedizione sulla luna raffigurando se stesso in una tuta da Astronauta. Il nome d’arte che l’autore romano ha scelto in ebraico infatti significa cane rabbioso. Un lavoro minuzioso e ricco di particolari frutto dei suoi studi in iconografia bizantina.
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A cura di Mariangela Boni
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È a Gressoney-Saint-Jean, nella località “Belvedere” ai piedi del Colle della Ranzola che domina tutta la vallata, che la regina Margherita di Savoia decise di stabilire la sua residenza estiva. Approdata in questa località nel 1889 grazie a un amico, il barone Luigi Beck Peccoz, se ne innamorò a tal punto da trascorrevi tutte le estati fino al 1925, un anno prima della sua morte. La posa della prima pietra avvenne il 24 agosto 1899 e fu costruito in tempi record, in soli 5 anni, considerando oltretutto che il cantiere era agibile solo durante la bella stagione. Il marito, il re Umberto I di Savoia, non poté ammirare l’opera finita: fu assassinato il 29 luglio 1900 a Monza per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. Dopo la morte della regina Margherita, avvenuta a Bordighera nel 1926, il castello rimase chiuso per alcuni anni e fu venduto nel 1936 all'industriale milanese Ettore Moretti. Nel 1981, i suoi eredi lo vendettero alla regione autonoma Valle d'Aosta.
COME ARRIVARE Da Torino si può imboccare il raccordo a Santhià, direzione Aosta e prendere l'uscita di Pont Saint Martin. Da P.S.Martin la Strada Regionale della Valle del Lys vi porterà fino a Gressoney-SaintJean in circa 35 minuti.
https://www.comune.gressoneystjean.ao.it https://www.regione.vda.it
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IL PERSONAGGIO: LA REGINA La regina nacque a Torino nel 1851 da Elisabetta di Sassonia e dal duca di Genova Ferdinando di Savoia, fratello del primo re d’Italia Vittorio Emanuele II. Lo zio cercava una moglie per il figlio Umberto e la scelta ricadde su Margherita quando, la prima promessa sposa, la principessa Matilde d’Asburgo-Teschen, morì in un incendio.
Solo per citare alcuni esempi: la prima rivista di moda del Paese porterà il suo nome; il rifugio alpino più alto d’Europa è a lei dedicato; il convinto repubblicano Giosuè Carducci scriverà l’ode Alla regina d’Italia e, uno dei casi più noti, durante una visita dei reali a Napoli venne inventata la pizza margherita.
Le nozze con Umberto si celebrarono nel 1868 e come luna di miele intrapresero un tour della Penisola, per “pubblicizzare” la neonata monarchia nazionale. Margherita dimostrò subito di avere un incredibile talento nel gestire le pubbliche relazioni. Prima di ogni viaggio si informava sulle usanze delle donne del luogo, vestendosi come loro, rendendosi così una figura vicina al popolo. Alla vigilia del trasloco a Napoli, la regina prese lezioni di mandolino e imparò alcune canzoni napoletane.
La sovrana dimostrò un innato interesse verso diverse discipline, dalla letteratura alla musica, dalla scienza allo spiritismo. Era una donna “moderna” e anticonvenzionale: fu tra le prime a guidare un’auto e a scalare vette. Diametralmente opposto il marito, per nulla attratto dalla cultura e impacciato nei rapporti personali. Basti pensare allo scalpore suscitato dal suo abbandono della capitale nel 1891 per partecipare al funerale del suo figlio illegittimo, avuto con la storica amante Eugenia Litta. Con questo gesto aveva legittimato e ufficializzato la relazione. Margherita seppe sempre mantenere le apparenze, tant’è che alla morte del marito si dimostrò vedova contrita e diede disposizione di conservare gli abiti insanguinati del marito e il proiettile che lo uccise in un cofanetto d’ebano, creando il mito del “re martire”. Gli italiani la adorarono fino alla fine, come dimostra il fatto che il treno che la riportò a Roma da Bordighera, dove spirò il 4 gennaio 1926, dovette fermarsi per ben 92 volte per poter permettere alla folla di porgerle l’estremo saluto.
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Invece, per ingraziarsi gli aristocratici e rafforzare il consenso verso la dinastia regnante, un’ardua impresa considerando che c’erano molti aristocratici filo-borbonici e altri fedeli al Papa, organizzava eventi mondani quali concerti, balli e letture. Nonostante le apparenti difficoltà, Margherita riuscì perfettamente nell’intento, come dimostrano i vari tributi in diversi ambiti, dando vita al cosiddetto “margheritismo”. RIPRODUZIONE FOTO ARCHIVIO Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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IL RAPPORTO CON IL BARONE LUIGI BECK PECCOZ Conobbe il barone nell’estate del 1888, durante la scalata al Colle del Gigante (3387m). Peccoz, conoscendo la passione della regina per la montagna, le offrì la sua esperienza di alpinista e la invitò a trascorrere l’estate successiva a Gressoney-Saint-Jean. Durante gli altri mesi dell’anno tra i due vi era un fitto rapporto epistolare. Si sospetta persino che i due fossero uniti da qualcosa di più di una semplice amicizia.
RIPRODUZIONE DIPINTO Mariangela Boni Photography
Nel 1891 il barone fece costruire uno chalet a Staffal, più in alto di Gressoney, per ospitare la regina, perché a lei piaceva il paesaggio e perché lì aveva avvistato dei camosci. Margherita gli aveva regalato un calendario-atlante, regalo consueto per gli amici di corte, ma vi aggiunse una ciocca di capelli biondi. Un particolare che denota una certa intimità. Per la maggior parte dei soggiorni il barone la ospitò al primo piano della villa, che chiamò Villa Margherita, oggi sede del municipio di Gressoney ma, per evitare pettegolezzi, all’arrivo della regina pernottava in un’altra residenza. La regina conquistò la vetta di San Teodulo, il Riffelalp e il ghiacciaio del Lys. Con il suo entourage bivaccavano ai piedi dei ghiacciai, ripartivano nel cuore della notte e completavano l’ascensione fino all’alba: non stupisce che il motto della Regina fosse “Sempre avanti”, motto riportato in più punti all’interno del castello. Nel 1890, prima di andarsene, Margherita lascia un messaggio sull’album di casa Peccoz: “Ciò che è veramente bello, diventa più bello dinnanzi agli occhi e all’anima, più lo si vede e lo si conosce; così è capitato per me con Gressoney”. Nel 1893 Peccoz e il senatore Perazzi vogliono portare, e ci riescono, la regina sulla punta Gnifetti del Monte Rosa, a quota 4559 m, dove si sta costruendo il rifugio-osservatorio
che prenderà poi il nome di Capanna Margherita. L’anno seguente Margherita, non paga, volle attraversare il Monte Rosa da un altro versante e scendere a Zermatt. Quest’ascensione si rivelò fatale per il barone, stroncato da un infarto. Tale fu lo shock per la regina che non volle più compiere altre scalate. Ma, come già accennato, l’amore per la montagna e per Gressoney l’accompagnò fino alla fine.
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CASTEL SAVOIA l maniero fu progettato dall’architetto Emilio Stramucci in stile lombardo del secolo XV, stile in voga in Francia e in Savoia, regione dei sovrani regnanti. È costituito da una parte centrale di forma pressoché rettangolare attorniata da cinque torri cuspidate, una diversa dall’altra. L’esterno è rivestito da pietre grigie provenienti dalle limitrofe cave di Chiappey a Gressoney, di Gaby e di Donnas. All’interno i pregevoli soffitti a cassettoni, le boiseries e gli arredi di ispirazione medievale sono opera dell’intagliatore torinese nonché fornitore della Real Casa, Michele Dellera. Le pitture ornamentali, perfettamente conservate, furono realizzate da un giovane e talentuoso Carlo Cussetti, assoldato in seguito per occuparsi dell’ala nuova di Palazzo Reale a Torino. Il castello è stato costruito con impianti all’avanguardia per l’epoca. Era dotato, infatti, di corrente elettrica, di acqua corrente, anche calda, e di termosifoni in ghisa.
L’impianto elettrico era completamente murato, altro aspetto da non dare per scontato. Nelle stanze, inoltre, si trova una sorta di campanello. Se veniva azionato, partiva un impulso che arrivava a un tabellone posizionato negli alloggi della servitù e illuminava il numero corrispettivo della stanza. Questo stratagemma permetteva alla servitù di accorrere immediatamente laddove era necessario. Il castello si sviluppa su tre piani: il pianterreno con i locali da giorno, il piano nobile con gli appartamenti reali e il secondo piano non visitabile – riservato agli ospiti e alla servitù. Il giorno in cui ho deciso di visitare questa magnifica residenza, sabato 17 luglio, si dava il via a un nuovo percorso di visita, dopo tre anni di restauro. Ad accogliere gli avventori c’erano la banda e le guide con i costumi tipici. La visita al castello è esclusivamente guidata e dura all’incirca mezz’ora.
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Dopo aver attraversato l’ingresso e il vestibolo si accede al gran salone. Ciò che spicca subito agli occhi del visitatore è il magnifico scalone elicoidale autoportante. È in legno di rovere intagliato con grifoni e aquile e conduce al piano nobile. Oggi, tuttavia, si accede al piano superiore tramite una scala secondaria. In un angolo della sala vi è un dipinto di Giuseppe Bertini che ritrae la regina Margherita con il tradizionale costume Walser, come avrebbe fatto una qualunque donna del paese. La Regina apprezzava infatti usi e costumi del luogo e amava mescolarsi alla popolazione locale, tant’è che andava persino nella chiesa del paese ad ascoltar la messa. Accanto al quadro vi è una riproduzione del cappello ivi raffigurato. Sulle pareti sono dipinti gli stemmi dei regnanti, molto simili perché erano cugini, il fiore della margherita e la scritta “fert”.
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Si procede poi verso la sala da pranzo, dove è rimasto solo il tavolo come arredo. Le pareti sono riccamente decorate. Il soffitto è rivestito da una boiserie con intagli a pergamena in stile neogotico. Sopra il camino si legge la scritta “fert” e su una parete “sempre avanti” FERT è uno dei motti di casa Savoia ed è di etimologia incerta. Molte sono le ipotesi sul suo significato, ne cito alcune. La prima volta comparve nel 1364, sulla collana dell’Ordine del Collare, un ordine cavalleresco fondato da Amedeo VI di Savoia in occasione di un torneo tenutosi a Chambéry. In passato prevaleva la tesi che fosse l’acronimo di Fortitudo Eius Rhodum Tenuit (dal latino: la sua forza preservò Rodi) facendo riferimento a un episodio leggendario secondo cui un Amedeo di Savoia si recò a Rodi e la liberò dall'assedio dei turchi.
Di interpretazioni ce ne sono anche altre, più o meno fantasiose, lascio a voi la scelta di decidere quale più vi aggrada. La cucina, che si trovava nell’attuale biglietteria, era per preciso volere della Sovrana, esterna al castello. In questo modo si evitavano odori e rumori molesti.
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Ma non vi è alcun fondamento storico. Altra versione è che derivi dal verbo latino fero, col significato di “sopportare”. Insieme al nodo di Savoia, che indicava la devozione mariana, esortava i membri dell’Ordine religioso-militare della SS. Annunziata – che aveva sostituito quello dell’Ordine del Collare – a sopportare le prove in onore della Madonna. Oppure “fert” potrebbe essere l’abbreviazione di Fertè, antica parola che significa Forteresse, “forza”. E ancora, acronimo di Foedere Et Religione Tenemur (“la pace e la religione ci tengono uniti”), Fides Est Regni Tutela (“la fede è la protezione del Regno”). Secondo queste ultime interpretazioni il potere del Re è legittimato da una volontà divina.
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La sala da pranzo era collegata alla cucina tramite una galleria con monorotaia per il trasporto delle vivande. Tornando alla visita, una volta abbandonata la sala da pranzo, il percorso si snoda attraverso la veranda semicircolare dalla quale si gode di una magnifica vista sulla vallata e sulle montagne. Da notare che all’epoca tutta la vegetazione che attorniava il castello non esisteva, per permettere ai carabinieri di controllare l’area. Ciò rendeva il castello ben visibile anche dal paese.
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Dalla veranda si giunge alla sala da gioco, con il biliardo originale e i salottini. Attraverso una scala secondaria ricavata all’interno della torre di guardia si giunge al piano nobile. Per accedere alle stanze si passa dall’atrio dove si possono ammirare dei magnifici affreschi. Sul soffitto vi è la scritta benaugurante “Hic manebimus optime”: “Qui staremo benissimo”. In primis visitiamo la camera da letto della regina: arredata in stile eclettico con mobili provenienti in parte da Villa Margherita, dove la sovrana soggiornò negli anni precedenti la costruzione del castello. La camera ha un bagno attiguo, alla francese, ovvero con i servizi igienici separati. Fa bella mostra di sé la vasca da bagno…sembra una spa! È interessante inoltre notare la decorazione delle pareti con un motivo a maiolica assolutamente moderno. Dal lato opposto, nella torre settentrionale si apre un grazioso boudoir con drappi dipinti in stile trompe-l’oeil e una vista mozzafiato sul Monte Rosa, il ghiacciaio Lyskamm e la vallata. Accanto alla camera della regina vi era quella del nipote prediletto, Umberto II, che vi trascorse alcune estati dell’infanzia. La stanza è piuttosto minuscola e angusta. Vi sono oggi solo un pianoforte e una bozza di ritratto di Umberto II.
La visita si conclude con le due nuove sale museali dove sono esposti alcuni scatti d'epoca della costruzione del castello e delle trasferte della regina nella Valle del Lys, appartenenti alle collezioni Guindani e Fondazione Sella. Nella sala dedicata alle escursioni in montagna vi sono anche la ricostruzione di una slitta a tre posti e di una cartina geografica in 3D del massiccio del Monte Rosa. In alcune foto si può osservare il nutrito entourage che accompagnava le escursioni composto dagli alpini che si alternavano a spingere la slitta, dove sedevano la sovrana e le sue dame di compagnia, nei passaggi più ardui. Interessante anche notare l’abbigliamento: il volto coperto, l’ombrellino parasole e i guanti servivano a proteggere l’incarnato porcellana, segno distintivo delle classi agiate in contrapposizione alla pelle abbronzata dei braccianti. Per quanto riguarda il plastico in 3D si può osservare un incredibile livello di dettaglio: sono indicati i fiumi e, soprattutto, i sentieri. Certo ci sono delle imprecisioni, ma all’epoca non c’erano i satelliti e le rilevazioni topografiche venivano effettuate probabilmente con le mongolfiere. La visita all’interno del castello si conclude qui.
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SALA DA GIOCO
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CAMERA DA LETTO
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Procedendo verso l’esterno si può notare una meridiana collocata nel 1922 con la scritta benaugurante “Sit patriae aurea quaevis” – “Ogni ora sia d’oro per la patria”. Castel Savoia è circondato da un ampio parco di larici mentre ai suoi piedi si trova un giardino botanico di 1000 mq, realizzato nel 1990 dalla Regione Autonoma della Valle d’Aosta. È costituito da aiuole rocciose con specie botaniche tipiche dell’ambiente alpino come il giglio martagone, il rododendro ferrugineo, la stella alpina, genziane e vari semprevivi che raggiungono il periodo di massima fioritura tra luglio e agosto.
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Ci sono anche aree attrezzate per i bambini. Nei mesi estivi si può praticare la pesca sportiva, mentre nei mesi invernali il lago viene trasformato in una pista di pattinaggio su ghiaccio. Consiglio caldamente di percorrere questo sentiero perché permette di apprezzare bellissimi scorci del paese e di sfuggire alla canicola estiva grazie alla piacevole ombra delle conifere.
Collegate dal viale d'accesso al castello, vi sono anche alcune strutture abitative: la Villa Belvedere, che fungeva da foresteria, alloggio per i custodi, per la servitù e per la scorta di Carabinieri Reali, e il Romitaggio Carducci, dedicato alla memoria del poeta e amico della regina che vi soggiornò. Dal parcheggio ai piedi del castello si può imboccare il sentiero “Passeggiata della Regina” che conduce al lago Gover e al paese e che lei stessa utilizzava. Si tratta di una passeggiata distensiva, di livello facile, che in circa mezz’ora conduce al lago Gover, un bacino circondato da pini e abeti secolari da dove si può ammirare la catena del Monte Rosa e Castel Savoia. Il prato che lo circonda permette di godersi l’aria aperta e, volendo, si potrebbe approfittare per un bel pic-nic. In alternativa c’è anche un bar-ristorante.
Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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MOMBALDONE
Barbara Tonin Chiara Borio Fabrizio Rossi Giancarlo Nitti Maria Grazia Castiglione Margherita Sciolti Massimo Tabasso
Il borgo incantato A cura di Barbara Tonin Giroinfoto Magazine nr. 70
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Immaginate di essere nel Medioevo. Immaginate di percorrere un viottolo lungo il pendio di un colle e di varcare l’ingresso ad arco di una fortezza. Il borgo è piccolo e la viuzza che state percorrendo è costeggiata da palazzi in pietra. A ogni passo avrete la sensazione che da un momento all’altro sbucherà da una porta una cortigiana o un cavaliere. La via poi si apre su una larga piazza e di fronte a voi domina il palazzo più importante: il Castello dei Marchesi del Carretto. Siamo a Mombaldone e, nonostante i molti secoli passati e le vicende vissute, il borgo conserva tuttora il sapore medievale e l’atmosfera incantata dei paesi antichi.
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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MOMBALDONE
Situato a pochi chilometri dal confine tra Asti e Cuneo, Mombaldone si estende lungo il fianco del bric Arbarella (673 m) a quota 190 m, custodito in un’ansa del fiume Bormida di Spigno. Dal borgo è possibile godere di una magnifica vista sulla valle, sulle colline e, dalla parte più alta del colle, sui calanchi. Il susseguirsi di rilievi, calanchi e torrenti rende questa zona particolarmente suggestiva, tale da essere stata definita come la “Riviera della Langa Astigiana”. Dal punto di vista naturalistico, i calanchi sono la maggior attrattiva per i visitatori. Si formano lungo il fianco di un monte o di una collina, in presenza di terreno argilloso e sabbioso, cadendo a strapiombo sul Bormida. La particolarità di tali formazioni è l’aspetto increspato, a lame verticali parallele, strette e a volte affilate, che si estendono a interi versanti. I calanchi generalmente sono quasi privi di vegetazione ed è proprio questa condizione di esposizione agli agenti atmosferici, oltre alla composizione della roccia stessa, che ne conferisce tale conformazione. È possibile ammirare i calanchi nella loro interezza da diversi punti panoramici oppure dai numerosi percorsi trekking che attraversano pianura e colline. Poco lontano dal borgo, un parco del tutto originale offre ai visitatori una nuova esperienza: si tratta del Parco Quarelli di Roccaverano. Nato dalla passione di un residente, il parco unisce Natura e Arte contemporanea. Passeggiando per il parco, si incontrano opere d’arte di grandi dimensioni di artisti “che hanno costruito (e continuano a costruire) una nuova visione del mondo e dell’esistenza umana”. Animali fantastici, super-eroi, oggetti rivisitati e figure introspettive accompagnano nel percorso concettuale e di riflessione. L’ingresso al parco è gratuito e spesso, associati alla visita, sono organizzati eventi musicali ed enogastronomici.
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Barbara Tonin Photography
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Un po' di storia I primi insediamenti nel territorio mombaldonese e limitrofo risalgono all’era del Neolitico. I diversi reperti rinvenuti sono conservati presso il Museo di Archeologia di Villa Pallavicini a Pegli (GE). Ben più evidente, invece, è il passaggio dei Romani, segnato non solo dai numerosi ritrovamenti lapidei, ma soprattutto dalle importanti Via Aemilia Scauri e Via Julia Augusta e dalle concessioni di “cittadinanza romana” alle urbes. Degno di nota, però, è un frammento lapidario, un tempo incastonato nel muro del civico 9 di via Roma e ora conservato al suo interno (l’edificio è stato adibito a biblioteca civica dedicata a “Enrico Bonino”), il cui testo sembra ricondursi a un certo Petronio. Era, infatti, usanza di quel tempo, che le famiglie più altolocate edificassero delle strutture celebrative nelle aree tombali. I Signori di Mombaldone, ovvero i Marchesi del Carretto, discendono dalla famiglia marchionale aleramica di origine franco-salica, che si stabilì in Piemonte e in Liguria. Il capostipite dei Carretto fu Enrico del Vasto, figlio di Bonifacio del Vasto, signore della Liguria Occidentale e del Piemonte meridionale e stretto collaboratore di Federico Barbarossa. Da questi discesero i due figli Ottone ed Enrico II che, dopo la sua morte, si ripartirono i suoi domini. Il territorio orientale in corrispondenza del bacino del Bormida, da Acqui ai castelli di Dego, Carretto, Cairo nella valle della Bormida di Spigno furono governati da Ottone. Enrico II, invece, ottenne la porzione occidentale di territorio che si estendeva da Alba a Finale Ligure. Dal XIV secolo, tuttavia, Mombaldone divenne dominio di Enrico III del Carretto, nipote di Enrico II, da cui discendono gli attuali marchesi.
Uno degli eventi che più ha segnato Mombaldone è la battaglia dell’8 settembre 1637 in prossimità del fiume Bormida. Dopo numerosi tentativi di occupazione da parte delle milizie spagnole per rendere più sicuro il Camino Real, le truppe franco-piemontesi, guidate dal Duca Vittorio Amedeo I di Savoia e dal Maresciallo Créqui, riuscirono finalmente a sconfiggere definitivamente le schiere avversarie. Lo scontro fu molto cruento ed entrambe le fazioni persero parecchi uomini. I colpi dei cannoni spagnoli danneggiarono il castello, ma dalla vittoria l’esercito ricavò sei cannoni, munizioni, carri e provvigioni. In memoria della battaglia e in onore di Carlo Alberto, il pittore torinese Francesco Gonin (1808-1889) dipinse nel 1840 l’opera Vittorio Amedeo I rompe l'oste spagnuola sotto Mombaldone (1637). La tela è conservata nella Sala Rossa presso Palazzo Reale a Torino. Altre testimonianze dell’evento storico si possono trovare nella ‘Sala delle Battaglie’ di Palazzo Taffini a Savigliano (il dipinto sotto la cartografia di Alba) e nel Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna (Torino, 1842), che descrive eventi e curiosità sui vari possedimenti dei Savoia, tra cui Mombaldone. Nel suddetto dizionario sono, inoltre, raccontate le insorgenze delle popolazioni della Valle Bormida contro le campagne napoleoniche. Tra queste, l’Amministrazione di Mombaldone ricorda il rastrellamento del 1799 in cui vennero uccisi i mombaldonesi che non riuscirono a fuggire.
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Etimologia L’etimologia del nome “Mon” (colle) e “Bald” (Baldo) sembra avere origini germaniche. I primi accenni, secondo lo storico Aldo di Ricaldone, rimandano al Basso Monferrato alessandrino, più precisamente a Baldesco, frazione del Comune di Mirabello Monferrato, a seguito dell’insediamento di un’etnia longobarda. Il nome Mombaldone, così come lo conosciamo, appare invece, per la prima volta, in un atto del 991. Nello scritto vengono elencate le proprietà dell’Abbazia di S. Quintino a Spigno Monferrato, tra cui il borgo. Un documento invece del 1209, che sancisce la cessione dei diritti feudali di Ottone del Carretto al Comune di Asti e il rapporto di vassallaggio, lo cita come "Montebaudonus". In aggiunta, l’assetto difensivo viene riprodotto sul Codex Astensis, al documento XLI de Montebaudono.
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Il borgo L'abitato di Mombaldone è formato dall’antico borgo castellano e da un nucleo più recente. Il primo fu eretto probabilmente a dominio dell’antica via romana Aemilia Scauri e destinato successivamente a uso difensivo durante l’occupazione spagnola. Un tempo era rafforzato da possenti mura, che tuttora sono visibili in buona parte. Il secondo, invece, è sorto intorno alla stazione ferroviaria tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, ai piedi dei colli Albarella e Tovetto. Al borgo antico si accede attraverso la “Porta della Torretta”, di origini medievali. Rimaneggiata parzialmente, è il varco da cui ha inizio la via principale (via Cervetti), sulla quale si affacciano il palazzo dei Marchesi del Carretto e le case originali del ricetto, edificati e restaurati con facciate in pietra a vista o mattoni.
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A pochi passi dalla Porta, la via si apre su un’ampia piazza, delimitata dal castello del ‘200, dall’Oratorio dei SS. Fabiano e Sebastiano del 1764 e dalla Chiesa Parrocchiale di S. Nicola Vescovo del 1790. I due edifici religiosi furono edificati sopra il fossato del castello. L’Oratorio è in stile barocco con residui di affreschi tardo-seicenteschi, tra cui un’immagine di S. Sebastiano. La Chiesa, progettata da Giovanni Matteo Zucchi, risente nell’interno dell’influenza dello stile ligure e conserva una serie di tele barocche di interesse storico. Imboccando il passaggio tra l’Oratorio e la Chiesa, ci si trova su uno slargo su cui un tempo si presume fosse edificato il Municipio, adibito anche a Residenza dei militari. Alcune pietre originarie del paese (e forse del Municipio stesso) ne delimitano il perimetro. La piazzetta è stata recentemente dedicata ai Militi Ignoti.
CHIESA PARROCCHIALE
ORATORIO
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Il castello oggi è adibito a dimora privata. Dell’antico maniero rimangono solo alcune parti delle mura esterne e l’attigua torre a pianta quadrata incompleta. L’attuale aspetto diroccato di quest’ultima, tuttavia, non è dovuto a eventi avversi, ma è conseguenza del volere del Marchese del Carretto, che nel secolo scorso donò parte delle pietre della costruzione, per consentire l'ultimazione del tratto di linea ferroviaria che collega Mombaldone a Spigno.
Chiara Borio Photography Proseguendo oltre il castello, si imbocca via Roma che porta fino alla “Rocca”, conosciuta anche come “La Fortezza”, di epoca medievale. Rimaneggiata a più riprese, presenta una corte (“Corte delle gazze”) che guarda verso il rio Lavandero e il torrente Ovrano. Un tempo erano presenti anche un pozzo per il rifornimento idrico del castello e un forno per la panificazione. La rocca e la torre sono tutt’ora collegate da un passaggio ipogeo. Un secondo passaggio, con accesso dalla “portiola”, conduceva al rio e permetteva di far abbeverare i cavalli, lontano dagli occhi del nemico. La Fortezza è ora un ristorante (L’Aldilà), internamente arredato in stile settecentesco.
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Cunicoli, gallerie, stanze e passaggi segreti sono una delle peculiarità di Mombaldone. Creati alla fine del Trecento, notevoli sono i percorsi che dal castello conducono verso l'abitato di Spigno Monferrato, passando sotto il fiume Bormida. Proseguendo per via Roma e lasciando alle spalle il borgo, è possibile raggiungere l’antica chiesa di S. Rocco, di cui rimangono soltanto i muri perimetrali, i resti dell’altare in pietra locale e il colorato intonaco decorativo. Nel territorio di Mombaldone sono presenti anche altri edifici di interesse storico: il molino sul Bormida del XVI-XVII secolo, la Cascina del Carretto (ora Cairo) in Regione Dovagna, la Chiesa della Madonna del Tovetto e la Filanda di Tullio del Carretto dell’Ottocento.
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Diversi sono gli eventi che animano il borgo. Segnaliamo, tra i più importanti, la “Fiera del Montone grasso” del primo sabato di ottobre, che si svolge nel campo sportivo nei pressi della stazione ferroviaria. Tradizione che richiama le usanze tipicamente arabe, in cui allevatori, caseari, produttori e commercianti si ritrovano per contrattare, spesso animatamente, sotto lo sguardo curioso e divertito del turista. Da non mancare anche all’ultima domenica di maggio a Mombaldone si svolge la “Sagra delle frittelle”, a base di farina, uova ed altri ingredienti della ricetta tradizionale, che viene tramandata da tempo e mantenuta gelosamente segreta. L’8 settembre, per il Santo Patrono, si svolgono la Festa della Madonna del Tovetto e la Feria Española, in memoria della battaglia del 1637 e a ringraziamento della Madonna che esaudì la richiesta dei fedeli di scacciare gli spagnoli. Alla
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Santa Messa, segue la processione dei fedeli con la Madonna fino alla Chiesa del Tovetto. All’interno della Chiesa, murate in una parete, è possibile vedere le palle di cannone sparate dall’esercito spagnolo. Interessate è anche la Mostra del Costume curata dalla Marchesa Gemma Natalina Besio Gay Scaliti del Carretto “dei Marchesi di Savoia Signori di Mombaldone”. L’esposizione raccoglie nel sottopiano della Fortezza modelli di abiti, manichini, calzature e oggetti vari, in uso nella vita civile e rurale piemontese tra l’età medievale e il Novecento. Anche l’arte pittorica è un’attività florida nel borgo. Non sono infrequenti, infatti, le esposizioni di pittori locali nei propri atelier o in spazi comuni, come l’Oratorio. In occasione della nostra visita, abbiamo potuto visitare lo studio del pittore Ivo Antipodo, che con gran passione e un po’ di timidezza ci ha illustrato i suoi dipinti.
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Residente a Mombaldone dal 1948, si è dedicato da sempre alla pittura. I soggetti preferiti sono le nature morte e l’indagine simbolica correlata al corpo umano. Di ispirazione classica novecentista, il suo stile è fermamente personale sia nell’uso del chiaro-scuro che nelle composizioni cromatiche. Ogni quadro rivela il pensiero personale, tramite segni, simboli e miti della tradizione, della cultura pagana e cristiana e
interpretazioni intimistiche degli oggetti di uso quotidiano, come il vetro scelto per la trasparenza, l’acqua per la sua purezza e “umiltà”, la conchiglia per la rinascita e lo spago col nodo a rafforzare il significato del messaggio. Non mancano, inoltre, gli animali a evocare la fortuna (la rana) o a simboleggiare la resistenza al fuoco (la salamandra). L’artista Antipodo crea anche gioielli, è scultore e restaura e trasforma oggetti in legno. Monica Pastore Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
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La Robiola di Roccaverano La robiola sembra derivi da un tipo di formaggio prodotto dai Celti che si stanziarono in Liguria. Plinio il Vecchio ne descrive qualità e procedimento di produzione nei suoi scritti. Il nome robiola deriva dal latino ruber, ovvero “Rubeola” (rubiola in piemontese), per il colore rossastro che assume la crosta dopo la stagionatura. La robiola è un formaggio fresco a pasta molle, che può però avere vari tipi di stagionatura, che la rendono dolce, delicata e spalmabile nei prodotti meno stagionati (da 4 a 10 giorni) o più acidula e consistente in quelli più stagionati (almeno 10 giorni). Il “brevetto” della ricetta della robiola di Roccaverano nasce dalla proposta del giornalista del paese Fausto Murialdi, che in una riunione così si esprime:
Barbara Tonin Photography Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 70
«L'attuale produzione stagionale non dà i vantaggi che la "fama" del nostro prodotto potrebbe procurarsi se si studiasse il modo di creare una latteria sociale o un caseificio. Il formaggio è l'unica nostra risorsa, ma quello che vediamo venduto nelle città è molte volte di qualità infima e il Comune ha già studiato la possibilità di brevettare anche il nome di Roccaverano perché non possa più essere usato da commercianti poco scrupolosi». Era l'11 dicembre 1948. Tre anni più tardi, nasce la cooperativa agricola, nel 1962 si istituisce il caseificio sociale e nel luglio del 1968 si inizia la produzione della vera e unica Robiola di Roccaverano D.O.P.
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La Denominazione di Origine Protetta Robiola di Roccaverano si riferisce al formaggio a pasta morbida prodotto con latte caprino crudo intero in purezza o, in rapporto variabile, con aggiunta di latte crudo intero vaccino e/o ovino. Fresca o stagionata, è caratterizzata da una pasta bianca e morbida, più o meno compatta, il cui sapore varia da delicato fino a deciso. La robiola viene prodotta tramite coagulazione acida di latte crudo intero di capra delle razze Roccaverano e Camosciata Alpina e loro incroci, di pecora di razza Pecora delle Langhe e di vacca delle razze Piemontese e Bruna Alpina e loro incroci. Per l’alimentazione del bestiame, tenuto al pascolo obbligatoriamente da marzo a novembre, è vietato l’utilizzo di mangimi OGM. L’alimentazione di tutti gli animali deve provenire dal territorio di produzione per almeno l’80%. Giancarlo Nitti Photography Il latte, proveniente da mungiture consecutive effettuate in un arco di tempo tra le 24 e le 48 ore, può essere eventualmente inoculato con colture di fermenti lattici naturali e autoctoni dell’area di produzione (lattoinnesti e/o sieroinnesti).
Questo formaggio presenta le seguenti caratteristiche Ottenuto da latte crudo intero di capra, in purezza o in misura minima del 50% con aggiunta di latte crudo intero di vacca e/o pecora, in misura massima del 50%; Forma cilindrica con diametro compreso tra 10 e 13 cm e facce piane leggermente orlate; Scalzo alto da 2,5 a 4 cm; Peso variabile da 250 a 400 g circa; Pasta di colore bianco latte; Percentuale minima di grasso sulla sostanza secca non inferiore al 40%; Percentuale minima di ceneri sulla materia secca non inferiore al 3%.
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Mombart: da sinistra, Angelo Ferraro, Alessio Scaliti, Chiara e Ambra Morabito.
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L’economia di Mombaldone un tempo era molto florida. Attualmente, si basa principalmente nella coltivazione di ortaggi, cereali e vitigni, nell’allevamento bovino, ovino e caprino e nella lavorazione del legname e dei metalli. La cucina locale è, inoltre, legata ai gustosi prodotti, vanto in tutta Italia e oltre: funghi, tartufi, nocciole ed erbe aromatiche sono alla base di molti dei piatti tipici delle Langhe astigiane. La zona, in aggiunta, è altresì conosciuta per la produzione di rinomate robiole e di pregiati vini, quali il dolcetto, il barbera, il cabernet, il cortese e il moscato. Abbiamo, infatti, avuto il piacere di visitare il caseificio dell’Azienda agricola Stutz & Pfister, che produce la robiola di Roccaverano D.O.P. (a produzione biologica) con latte crudo caprino, secondo la ricetta originale.
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nel 1991 i coniugi Pfister decidono di cercare una cascina in Italia per dedicarsi all’agricoltura biologica. In quel tratto di Langa tra l'Astigiano e l'Alessandrino, però, è quasi d’obbligo produrre robiola. L’attività, quindi, prende un’altra direzione e inizia con una trentina di capre e pecore in un vecchio cascinale, che è a tutti gli effetti un rudere. Assaggiando le “formaggette locali” e grazie ai consigli degli abitanti della zona, pian piano con l’esperienza e la passione raggiungono un grado di qualità che li porta ad ottenere numerosi riconoscimenti quali, ad esempio, la medaglia d’oro alle “Olimpiadi del Formaggio” nel 2005 e la Grolla d’oro SaintVincent ”Miglior formaggio d’Italia” nel 2008.
La storia della famiglia Stutz & Pfister nasce in Svizzera. Dopo gli studi di Agraria, tra difficoltà di tipo logistico ed economico,
Oggi l’attività è condotta anche dai figli, che hanno dato vita al caseificio e alla capretteria (la “nursery” per i cuccioli).
Mombaldone è un borgo ammaliante e affascinante, unico per la sua bellezza e atmosfera. È un luogo dove il Presente incontra il Passato. Un luogo che sicuramente non deluderà i suoi visitatori.
Si ringraziano l’Amministrazione e, in particolare, l’Associazione MombArt per l’accoglienza e il tempo dedicato e per il materiale messo a disposizione. (Fonte: G.B.N. BESIO DEL CARRETTO, G.N. GAY DEL CARRETTO, Mombaldone, “Feudo Imperiale” in Bòrmida. Un arpione sabaudo nella Langa dei “sette guadi”, Ovada, Grafica Ovadese, 2003).
Nella visita ci hanno guidato Ambra e Chiara Morabito, Alessio Scaliti e Angelo Ferraro dell’Associazione MombArt, nata dal desiderio di vivere e far vivere il borgo. L’Associazione organizza e promuove serate, giornate culturali ed eventi che riguardano Mombaldone e il territorio (per essere aggiornati, consultare https://www.facebook. com/MombArt).
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Palazzo Ducale
Autore: Manuela Albanesei Genova dal Ponte monumentale Giroinfoto Magazine nr. 70
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Tramonto a Punta San Vigilio Autore: Ivo Marchesini Punta San Vigilio, comune di Garda. Giroinfoto Magazine nr. 70
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I silenzi della natura Autore: Claudia Lo Stimolo Lago di Braies Giroinfoto Magazine nr. 70
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Architettura neoespressionista Autore: Laura Stratta Istituto per la ricerca sul cancro di Candiolo Giroinfoto Magazine nr. 70
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