N. 71 - 2021 | SETTEMBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.71 - SETTEMBRE 2021
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GIBELLINA E IL CRETTO DI BURRI Band of Giroinfoto MONTE BIANCO SKYWAY Band of Giroinfoto
CAMPOCATINO L'OASI Band of Giroinfoto
REGINA DI SICILIA ALCAMO Band of Giroinfoto Photo cover by Cinzia Carchedi
WEL COME
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
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20 Settembre 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
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GIBELLINA e il Cretto di Burri Band of Giroinfoto
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REA Il giardino botanico Band of Giroinfoto
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OASI CAMPOCATINO Conservazione e sviluppo Band of Giroinfoto
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SKYWAY Monte Bianco Band of Giroinfoto
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L'ITALIA DI MAGNUM
L'ITALIA DI MAGNUM Genova Band of Giroinfoto
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PALAZZO FARNESE Caprarola A cura di Adriana Oberto
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PALAZZO FARNESE
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ANNA ROSA NICOLA Il suo "presepe" Band of Giroinfoto
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FOTOEMOZIONI Raimondo Enrico Giuliano Innocenti Monica Pastore
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ANNA ROSA NICOLA
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GIBELLINA
A cura di Giancarlo Nitti
Adriana Oberto Cinzia Carchedi Giancarlo Nitti Rita Russo
14 gennaio
1968
È una domenica fredda nella Valle del Belice in Sicilia. Le famiglie si riuniscono nella consueta convivialità festiva del pranzo. Sono le 13.29, si avvertono alcune scosse di terremoto. Sono brevi e si sentono appena. Passa un’ora, alle 14.15, si replica con un sesto grado della scala Mercalli. Giroinfoto Magazine nr. 71
Ore 16.48, ancora una nuova scossa, questa volta del settimo grado. Inizia il giorno più lungo per gli abitanti di tutta la Valle. La gente scappa via lasciandosi alle spalle la propria casa. Il buio prende il sopravvento e con esso la paura di non rivedere il nuovo giorno. La notte, alle 3.01 è la fine. Onde sismiche di magnitudo 6.0 e con effetti nell’epicentro del nono grado Mercalli scuotono violentemente la Valle. Il Belice è cancellato.
Nelle notti fredde di quel gennaio del 1968 le persone vagano al buio cercando riparo sicuro da quella tragedia. Le notizie sono confuse. Molti centri rimangono isolati a causa degli smottamenti delle strade rimanendo raggiungibili solo in elicottero. Abbandonati alle loro forze, i pochi volontari, nelle prime ore si danno da fare nei paesi colpiti scavando nelle macerie nel tentativo di salvare vite. La terra trema ancora per altre 32 volte.
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GIBELLINA
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Tra i paesi più colpiti dal terremoto della Valle Belice, nella provincia trapanese, vi è Gibellina, insieme a Poggioreale, Salaparuta e Montevago. Negli anni successivi la Nuova Gibellina venne ricostruita a circa 20 km dalle macerie del vecchio insediamento. L’allora sindaco Ludovico Corrao ingaggiò molti artisti ed architetti che contribuirono alle iniziative di ricostruzione. Tra questi anche Alberto Burri, che si concentrò sulla memoria del vecchio sito dove sorgeva la vecchia Gibellina.
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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GIBELLINA
Nuova Gibellina Vecchia Gibellina Valle del Belice
Gibellina
Una nuova visione In seguito al terremoto del Belice del 1968, che costituì uno degli eventi più disastrosi della Sicilia dei tempi moderni, nel 1970, l’amministrazione comunale scelse di fondare una nuova Gibellina a circa 20 chilometri di distanza dal luogo originario.
Da sempre molti architetti ed urbanisti si cimentavano nella progettazione più o meno astratta di nuove e moderne città, e a Gibellina, in quell'anno, c'è stata la possibilità di realizzarla davvero.
L'idea non prevedeva solamente di creare una città ex-novo, che già di per sè era un'impresa molto impegnativa, ma si trattava di un progetto ben più ambizioso.
Parteciparono nomi come Pietro Consagra, Alberto e Giuseppe Samonà, Vittorio Gregotti, Ludovico Quaroni e Alberto Burri.
L’obiettivo era realizzare un'area cittadina che ospitasse un museo d'arte contemporanea a cielo aperto, questo grazie alla partecipazione dei più importanti architetti ed artisti della scena mondiale.
Nuove formule di aggregazione urbana, sculture, edifici pubblici innovativi; questo doveva essere Gibellina nuova. I cittadini di Gibellina vecchia, per lo più contadini ed allevatori, si ritrovarono in abitazioni modernissime e prive degli spazi necessari per svolgere le loro consuete attività rurali.
Racconti di cittadini che non sapevano dove mettere le proprie capre se non nel giardino del condominio, dovrebbero rendere l’idea della situazione. Oggi, girando per le vie di Gibellina Nuova, si percepisce lo spazio come immenso e vuoto, privo di un'identità, quell'identità che normalmente cerchiamo in un piccolo paese siciliano. Essere lì, ricorda quasi un vecchio film western, ma in chiave futuristica, dove il silenzio è sintomo di una comunità senza vita.
GIBELLINA NUOVA Giancarlo Nitti Photography
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"SISTEMA DELLE PIAZZE" - GIBELLINA NUOVA Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Cinzia Carchedi Photography
L’arte contemporanea, però, fu stella polare di una rinascita del paese distrutto. L’allora sindaco Ludovico Corrao, avvocato, ex Democratico-Cristiano, nel segno di un’utopia poetica fu spinto dal sapore rinascimentale, trasformando la Nuova Gibellina in un palcoscenico di interventi urbani, per l’epoca rivoluzionari e di avanguardia culturale. Artisti e architetti, chiamati nell'impresa e aiutati dalle imprese locali e dai cittadini, disegnarono un nuovo volto di questa città-esperimento. Ecco che apparvero chiese, edifici, piazze, monumenti, sculture, realizzate da una sfilza di autori eccellenti. Negli anni il Museo d’Arte Contemporanea si arricchì di circa duemila opere, molte posizionate
Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
nello spazio urbano, in qualche caso in occasione delle Orestiadi.
descrivere pessimamente il risultato dell'impresa di Corrao, scrivendo:
Si racconta, che lo Stato avesse negato i fondi destinati all’arte e che il Sindaco Corrao li ottenne con manifestazioni, battaglie parlamentari e mille escamotage come per esempio facendo passare i lavori per il Cretto come “opere di sistemazione idrogeologica”.
“È sotto gli occhi di tutti che queste opere, sul cui valore ovviamente non si discute, siano adesso in condizioni di abbandono, e Gibellina appaia come una città fantasma dove gli abitanti dichiarano di non trovarsi a proprio agio. Si è preferita l’arte ai servizi di pubblica utilità”.
Non esiste progetto, però, che non proceda con l’idea del fallimento. Dopo la morte di Corrao, la stampa, spinta da ideologie contraddittorie, ebbe a definire il sorgere della nuova città "un disastro spettrale”.
La nuova Gibellina, progettata e costruita dagli audaci architetti al soldo di Corrao, nasceva già come un luogo fuori dal comune in una moderna metropolis pianeggiante, senza cuore, e soprattutto non modellata sul profilo di una piccola comunità rurale come quella degli abitanti originari.
Fu anche il giornalista dell’Espresso Mario La Ferla, nel suo libro-inchiesta del 2004 "Te la do io Brasilia" a
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GIBELLINA SELFIE Giancarlo Nitti Photography
GIBELLINA SELFIE Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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CASE DI STEFANO Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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MUSEO ARTI MEDITERRANEE Giancarlo Nitti Photography
Il rischio, poi divenuto realtà, fu che la Nuova Gibellina diventò un territorio al servizio dell’arte, anziché il contrario. Un'arte autoreferenziata che impone e invade degli spazi che potevano essere utili alla reale rinascita di una comunità. Il problema della conservazione e l’incapacità amministrativa nel corso degli anni, hanno fatto sì che le opere inascoltate divennero quasi dei mostri urbani, inutili e mano a mano pericolosi per i cedimenti e i crolli, come successe per la Chiesa Madre postmoderna di Quaroni, la cui copertura crollò nel 1994.
A decenni di distanza dall’inizio di quell’avventura, nel 1996, arriva un nuovo esperimento guidato da Ludovico Corrao. È l’approccio culturale in risposta delle varie critiche, che portò a trasformare a Gibellina una vecchia masseria , nello stile del tipico baglio siciliano, chiamata "Case di Stefano" in un centro culturale che oggi è la sede del Museo delle Trame Mediterranee e della Fondazione Orestiadi. Parliamo di un luogo che ospita un'inedita modalità di esposizione antropologica delle culture che sono transitate per la Sicilia, accostandole, per evidenziare la coesistenza dei segni
del passato nel presente, dell’arcaico nel contemporaneo, dell’arte classica nell’avanguardia. Non possiamo non notare accanto alla masseria l’originalità de “La Montagna di sale” di Mimmo Paladino, una scenografia per l'opera “La sposa di Messina” presentata al Cretto di Burri per le Orestiadi del 1990. Si tratta di un cumulo in cemento, vetroresina e pietrisco, su cui sono inseriti trenta cavalli in legno (animali ricorrenti nelle opere di Paladino) e disposti in posizioni diverse: in piedi o coricati.
LA MONTAGNA DI SALE Giancarlo Nitti Photography
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CRETTO DI BURRI Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Raccogliendo la chiamata dell’allora sindaco Ludovico Corrao, come già detto, furono molti gli artisti che risposero contribuendo alle iniziative di ricostruzione. Tra questi anche Alberto Burri. Il grande artista, noto per le sue opere a Capodimonte e Los Angeles utilizzando proprio la tecnica del "cretto", disse al sindaco che nella Nuova Gibellina non avrebbe fatto nulla che non fosse già stato fatto e volle visitare la Vecchia Gibellina distrutta. Alberto Burri, quando vide le macerie di Gibellina vecchia disse:
Corrao e Burri - foto archivio
“ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”
Nei primi degli anni '80, iniziò a livellare e ricoprire le rovine della cittadina siciliana con una sorta di grande sudario in cemento lasciando sgombere le stradine principali che diventarono i vicoli bianchi che oggi percorriamo attraversando il cretto. I lavori furono interrotti nel 1989 per mancanza di fondi, coprirono circa 60 mila metri quadri a fronte degli 80 mila previsti dal progetto di Burri. Trent’anni dopo, nel maggio del 2015, l'opera fu terminata, così come voluta da Burri, in memoria della sua scomparsa nel febbraio del 1995.
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Giancarlo Nitti Photography
L’intento di Alberto Burri era quello di ricostruire un’identità comune, attraverso la realizzazione di un monumento dal valore culturale e sociale, anche se gibellinesi più radicati non accolsero di buon grado l’idea del Cretto. Per molti di loro significava cancellare la memoria di un paese e di un popolo. Altri invece l’accolsero come uno scrigno della memoria, un’opera durevole dal messaggio prorompente. Nel maggio 2019, fu inaugurato il Museo del Grande Cretto di Gibellina, voluto dall’Amministrazione comunale guidata da Salvatore Sutera, ideato e curato dall’Assessore alla Cultura Tanino Bonifacio.
Il museo è stato collocato all'interno della vecchia Chiesa di Santa Caterina, a poche centinaia di metri dal cretto e unico edificio superstite del terremoto. Esso nasce dall’esigenza di raccontare le origini dell’opera di Burri, la sua progettazione e realizzazione, conservando la memoria di Gibellina. Il cretto, oggi, inizia ad essere una meta turistica ed un luogo che permette di godere visioni panoramiche surreali e scattare foto incredibili.
Cinzia Carchedi Photography
Giancarlo Nitti Photography
Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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GIARDINO BOTANICO DI REA
A cura di Remo Turello
Andrea Barsotti Giancarlo Nitti Maria Grazia Castiglione Massimo Tabasso Remo Turello
Questo interessante giardino botanico si trova nella località di San Bernardino, una frazione del comune di Trana a poca distanza dai laghi di Avigliana. Si sviluppa su una superficie di circa 10.000 mq, ad una quota di 450 m.s.l.m. e vi sono presenti circa 2500 tra specie, varietà e cultivar di piante provenienti dal Piemonte, dall’Italia e da tutto il mondo.
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Trana
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GIARDINO BOTANICO DI REA
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Cos’è esattamente un giardino botanico? Secondo la BGCI, la “Botanic Garden Conservation International”, cioè l’Associazione che riunisce tutti gli Orti e i Giardini Botanici del mondo e che ha sede presso il Royal Botanic Garden di Kew a Londra, un Giardino o Orto Botanico è una “istituzione aperta al pubblico che mantiene una collezione ben documentata di piante vive, per promuovere la ricerca scientifica, la conservazione della biodiversità, l’esposizione al pubblico e l’educazione ambientale ad essa connessa”. La storia di questi luoghi è antichissima, partendo dal “Giardino Botanico di Karnak” dell’epoca del faraone Thutmosi III, passando dalle raccolte di piante medicinali greche e romane e dagli orti nei pressi di monasteri e scuole di medicina del Medioevo, fino ad arrivare ai primi veri orti botanici creati come luoghi di studio presso le università nel Rinascimento. Nei secoli, quindi, i Giardini Botanici si sono trasformati seguendo le necessità del periodo e soprattutto del pubblico. Per questo motivo ultimamente si tende ad associare loro anche un importante ruolo di difesa e conservazione delle piante in via di estinzione e di educazione ambientale.
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GIARDINO BOTANICO DI REA
L’origine del giardino risale al 1961, anche se in una forma completamente diversa. Il creatore e primo proprietario del giardino fu Giuseppe Giovanni Bellia. Grande appassionato di piante, giornalista e divulgatore di temi botanici e ambientali, collaborò con il Cavalier Giuseppe Ratti, presidente della Società Orticola Piemontese, all’allestimento floreale Flor ’61 creato per il Valentino in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia. Rimasto impressionato dal giardino della villa dell’amico a San Bernardino in Val Sangone, decise di acquistare un ettaro di terra in quel microclima così favorevole alla crescita delle piante.
Nacquero così i Vivai San Bernardino. All’epoca nei vivai italiani venivano venduti quasi esclusivamente prodotti orticoli, mentre Bellia decise di occuparsi anche e soprattutto di piante ornamentali, importando in Italia una nuova concezione di vivaio già presente all’estero. Alcuni anni dopo, nel 1967, viene ufficialmente creato il giardino, come Giardino Sperimentale di acclimatazione per piante alpine ed erbacee perenni. Bellia, infatti, voleva studiare gli adattamenti delle piante al territorio e si occupò sia di piante provenienti da alte quote, che di piante native della Nuova Zelanda.
Remo Turello Photography
Il botanico era infatti curioso di osservare il comportamento di piante originarie agli antipodi rispetto al Piemonte e di capire se si potessero adattare a vivere dall’altra parte del mondo.
Nel 1968 Bellia iniziò la pubblicazione di un “Bollettino d’informazione” nel quale parlava della flora delle valli Susa e Sangone.
Negli anni molte di queste piante andarono perse, ma alcune sono ancora presenti, come la Fuchsia procumbens, dalle foglie particolari e di cui le donne maori utilizzavano il polline blu per disegnare e per truccarsi.
Intitolò questo bollettino “Rea”, in onore del medico naturalista Giovanni Francesco Re. L’anno successivo anche il Giardino Sperimentale cambiò nome, diventando Giardino Botanico Rea.
Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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GIARDINO BOTANICO DI REA
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Giovanni Francesco Re nacque il 27 settembre 1773 da una famiglia di nobili origini a Condove, in provincia di Torino. Si laureò in medicina proprio all’università di Torino, ma fu sempre affascinato dalle scienze naturali. Si occupò quindi di mineralogia e zoologia, studiando in particolare insetti e uccelli della valle di Susa. Divenne prima medico e poi docente di matematica e storia naturale, ma la sua passione principale fu sempre la botanica. Morì a Venaria nel 1833 dopo aver pubblicato alcuni libri e saggi, tra cui la Flora Segusiensis e l’Appendice alla Flora Pedemontana. Nella sua vita riuscì a contare 1682 specie vegetali nella sola valle di Susa e catalogò nel suo erbario 6000 specie differenti.
FUCHSIA PROCUMBENS Andrea Barsotti Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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GIARDINO BOTANICO DI REA
Maria Grazia Castiglione Photography
Così, col passare degli anni, le specie botaniche ospitate aumentarono sempre di più, fino ad arrivare a contarne 2500 differenti. Grazie anche alla capacità e alla volontà di Bellia di riunire intorno a sé direttori, curatori e giardinieri di altri giardini botanici si creò un centro di scambio di informazioni e idee, che culminò nel 1974 con la nascita di una Associazione, attiva tutt’ora, l’AIGBA (Associazione Internazionale Giardini Botanici Alpini). Dal 1968, l’anno successivo alla nascita del Giardino Botanico, Bellia iniziò a pubblicare anche un “Delectus Seminum”, un elenco di semi a disposizione per lo scambio gratuito con altri Orti Botanici. Dopo un periodo di grande crescita, però, arriva spesso un periodo di difficoltà, così è stato anche per il Giardino Botanico Rea. Agli inizi degli anni Ottanta, infatti, si ebbe una
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diminuzione delle attività e un periodo di crisi che durò fino al 1989. In quell’anno la Regione Piemonte decise di acquistare il giardino come integrazione del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino e di affidarne la gestione alla Comunità Montana Val Sangone. Questa, insieme con la Cooperativa Agricola Produttori Val Sangone, operò una profonda ristrutturazione del sito, rimodernando completamente il giardino e riaprendolo al pubblico nel 1992. Da allora non è più stato chiuso.
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GIARDINO BOTANICO DI REA
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Le sezioni del giardino La struttura del Giardino Botanico Rea è cambiata nel tempo con l’aggiunta di nuove sezioni e la rivisitazione di quelle esistenti. Sono stati creati percorsi guidati che attraversano ambienti diversi, per permettere a studiosi, visitatori e semplici curiosi di ammirare tutte le specie presenti. Si possono trovare, tra le altre, una zona dedicata alle piante officinali e una alle erbe aromatiche e alcune aree che ripropongono la vegetazione naturale del Piemonte, un giardino roccioso calcareo e uno siliceo e una zona per le piante acquatiche. All’ingresso è anche presente un boschetto di latifoglie con la stessa composizione di quello che ricopriva originariamente tutta la pianura padana. Con il passare dei secoli, con l’urbanizzazione e il disboscamento, l’ambiente è cambiato, ma qui è possibile osservare le piante che un tempo lo componevano, soprattutto carpini, querce e le specie del sottobosco.
TIMO SERPILLO Maria Grazia Castiglione Photography
ALLIUM GIGANTEUM Andrea Barsotti Photography
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GIARDINO BOTANICO DI REA
Il termine officinali deriva da “officina”, la parola che veniva usata per indicare il laboratorio degli erboristi. Nella aiuola delle erbe officinali sono raccolte specie utilizzate in erboristeria per la creazione di infusi, come ad esempio, il finocchietto o il dittamo, dal forte profumo di limone. Ci sono, però, anche piante dagli utilizzi diversi, come la belladonna. Questa contiene un principio attivo, chiamato atropina, che aumenta la dilatazione della pupilla. Per questa sua proprietà viene utilizzata per le visite oculistiche, ma deriva il suo nome dal fatto che veniva utilizzata un tempo dalle attrici di teatro per rendere gli occhi più lucidi e lo sguardo intenso, in modo da essere ben visibile anche dagli spettatori seduti più lontani.
BELLADONNA Giancarlo Nitti Photography
RUTA Giancarlo Nitti Photography
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GIARDINO BOTANICO DI REA
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Oltre alle piante, nel giardino botanico vengono protette anche specie animali particolari, un esempio è il macaone. Si tratta di una farfalla il cui bruco si nutre di piante come la ruta e il finocchietto, per cui si può trovare nella zona delle officinali. Il bruco, inizialmente nero e rosso, crescendo raggiunge la lunghezza di una decina di centimetri e diventa di un colore verde brillante, con puntini arancioni e neri. A Rea, esiste proprio una zona specifica destinata ad attirare farfalle ed insetti utili, come api e bombi, non solo per accoglierli ma anche per proteggerli. Non mancano alcuni alberi ad alto fusto provenienti dai vari continenti. Tra questi una sequoia alta e slanciata dalla corteccia rossastra e l’albero dei tulipani, una pianta della famiglia delle magnolie, spettacolare da osservare durante la fioritura, entrambi originari degli Stati Uniti d’America.
ALBERO DEI TULIPANI Remo Turello Photography
SEQUOIA Maria Grazia Castiglione Photography
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Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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GIARDINO BOTANICO DI REA
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GIARDINO BOTANICO DI REA
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All’interno degli spazi del giardino c’è anche un’altra particolarità: un orologio analemmatico o più semplicemente un orologio solare. Si tratta di una struttura simile ad una meridiana, posizionata sull’erba del prato, ma a cui manca lo gnomone, cioè l’asta che indica l’ora. Al suo posto c’è una pedana-calendario su cui si deve posizionare il visitatore, in posizione eretta e con le braccia in alto, fermandosi sul mese in corso. La sua ombra segnerà l’ora solare, con una buona approssimazione, sulle lastre disposte attorno alla pedana.
OROLOGIO ANALEMMATICO Andrea Barsotti Photography
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GIARDINO BOTANICO DI REA
Le collezioni
Il Giardino Botanico Rea ospita, oltre alle piante delle altre sezioni, anche due importanti collezioni: quella degli iris e quella delle fuchsie. Entrambe erano già state iniziate dal Bellia, ma nel corso degli anni erano andate in parte perdute. Sono state in seguito reintegrate ed ampliate con piante spontanee e ibride, fino al punto che oggi la collezione di iris rizomatose ammonta a circa 250 cultivar differenti, una ventina dei quali ibridati dallo stesso Bellia, ed in Italia è seconda solo a quella del Giardino delle iris di Firenze.
IRIS Remo Turello Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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FUCHSIA Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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GIARDINO BOTANICO DI REA
Le serre All’interno del Giardino Botanico Rea sono presenti tre serre che riproducono climi differenti per accogliere varie specie di piante provenienti da territori diversi. In particolare, la prima riproduce un ambiente tropicale e contiene piante alimentari, come la pianta del caffè o l’avocado, oltre ad alcuni tipi di felci e orchidee. La seconda serra, invece, imita un ambiente caldo e arido, per ospitare piante succulente o grasse. Sono presenti molte varietà che vanno dal fico d’india fino alla curiosa pianta sasso, la lithops.
Maria Grazia Castiglione Photography
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La terza serra, infine, accoglie diverse specie di piante carnivore: si tratta di piante che vivono in ambienti poveri di azoto e che, per sopperire a tale mancanza, utilizzano proteine animali. Attirano quindi principalmente insetti, come le mosche, con delle sostanze zuccherine, per poi intrappolarle. Sono presenti dionee, drosere e sarracenie, oltre ad alcune particolari piante presenti sulle Alpi, le Pinguicole, dette volgarmente Erba Unta perché le loro foglie sono rivestite di una sostanza lucida e appiccicosa.
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PIANTE GRASSE Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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I grani antichi All’interno del Giardino Botanico Rea vengono presentate periodicamente mostre tematiche per valorizzare e divulgare le conoscenze in ambito botanico su argomenti differenti. In occasione della nostra visita, negli spazi coperti del giardino, è stata presentata l’esposizione “Il recupero dei grani storici”. Da alcuni anni al Giardino botanico Rea vengono coltivate sperimentalmente diverse varietà di cereali storici, inizialmente su richiesta di alcune Associazioni di agricoltori locali, tra cui l’Associazione Principi Pellegrini diVangAzioni. Di anno in anno si sono aggiunte delle collaborazioni, soprattutto con il territorio di Giaveno, ai fini di creare una filiera “Dal Grano al Pane” e quindi dalla coltivazione al prodotto finito. Partners sono infatti l’Ecomuseo della Valsangone, i Mulini storici di Detu e della Bernardina, il Centro Arti e Tradizioni Popolari e i Panificatori Artigiani De.Co. di Giaveno.
Maria Grazia Castiglione Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
Non ultima da segnalare la collaborazione con il prof. Alessandro Corbellini, dell’Istituto Agrario Gae Aulenti di Biella, con cui la curatrice del Giardino, Liliana Quaranta, sta realizzando un progetto didattico e culturale “I grani antichi e i loro ibridatori italiani storici”, per far conoscere gli ibridatori italiani dei cereali, precursori mondiali in questo settore. Uno dei principali, Nazareno Strampelli, viene considerato il primo selezionatore del frumento. Infatti, quando iniziò a fare i primi incroci, non conosceva ancora le leggi di Mendel, che scoprì solo nel 1905, quasi cinque anni dopo che aveva iniziato ad applicarle al proprio lavoro. I cereali sono da sempre legati alla storia dell’umanità, in quanto si tratta di una risorsa facilmente reperibile e fondamentale per l’alimentazione.
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SPIGHE Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Corbellini ci ha raccontato che nel corso dei millenni ne sono state privilegiate alcune tipologie piuttosto che altre, in base anche all’adattamento delle piante all’ambiente circostante. Fino all’Ottocento, infatti, i semi venivano recuperati prendendoli dalle spighe più grandi e belle di un raccolto, per ripiantarli l’anno successivo. In questo modo si privilegiavano le piante che crescevano meglio nel territorio e che producevano un po’ di più. In Italia, con il lancio della “battaglia del grano” durante il periodo del regime fascista, si cercò di raggiungere l’autonomia della produzione di frumento, per evitare di importare cereali dall’estero. Per raggiungere questo obiettivo si iniziò a lavorare a incroci tra le varietà italiane e altre provenienti dall’estero. Le varietà originali italiane, come il gentil rosso o il rosso Piemonte, avevano alcuni difetti: erano piante molto alte, che potevano raggiungere anche 1,60 o 1,80 m, per cui producevano molta paglia, mentre la resa effettiva non era particolarmente produttiva né stabile. Vennero quindi incrociate con una varietà particolare proveniente dal Giappone, per ottenere grani più competitivi, con un’altezza minore e una resa maggiore. Si trattava inoltre di piante con fusti più compatti e stabili quindi più resistenti. Si è così proceduto negli anni in questa direzione, migliorando progressivamente le tipologie di grani. Dagli anni ‘70 in poi, invece, le richieste dell’industria si sono rivolte in una direzione diversa, cioè la riduzione dei tempi del ciclo produttivo.
Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
L’obiettivo era creare farine che permettessero tempi minori di impastatura e lievitazione e per questo motivo gli ibridatori iniziarono a creare piante con presenze di glutini sempre maggiori. Continuando con questa metodologia si è giunti al punto in cui una buona parte della popolazione non riesce a digerire questa aumentata quantità di glutini e sono incrementate le intolleranze alimentari, anche leggere. Per questo motivo un ritorno a vecchie varietà di grani, con caratteristiche organolettiche primitive e più facilmente digeribili, può diventare molto utile. Anche al fine di un semplice recupero della biodiversità andata persa negli anni: si tratta di uno studio importante. Ovviamente, non bisogna credere che a priori le antiche varietà fossero tutte migliori di quelle attuali, ce ne sono state di buone e altre meno, abbandonate per le scarse qualità. Ne è un esempio il Triticum turgidum mirabilis, detto più comunemente il grano del miracolo. Si tratta di una qualità presente da secoli; nell’800 un grande semenziere francese, Villemourin, affermò che con l’utilizzo di quella varietà le produzioni sarebbero aumentate incredibilmente. Venne chiamato proprio per questo il grano del miracolo e in effetti produce una spiga molto grande, forse troppo: il suo peso rischia di spezzare il fusto. Inoltre, la qualità del prodotto è molto bassa, per cui appaga l’occhio, ma non la pancia!
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Si tratta quindi di un procedimento che va portato avanti con occhio critico: sicuramente le vecchie varietà hanno una resa più bassa di quelle attuali, ma hanno anche un diverso rapporto con diserbanti e concimi. Inoltre, un maggiore interesse verso la provenienza di grani e frumenti può portare ad un accorciamento della filiera dei prodotti. Se, infatti, i consumatori iniziano a prestare attenzione alla tipologia e alla provenienza dei diversi cereali possono più facilmente controllare anche origine e provenienza dei prodotti derivati, privilegiando quelli di qualità migliore e con origine più vicina, evitando giri inutili di materie prime. In Piemonte sono ancora poche le aziende che utilizzano questo tipo di semi, il progetto è in fase di avvio, ma in altre regioni, come la Toscana e l’Emilia-Romagna, si tratta già di una realtà, per cui sarà possibile scegliere per le nostre tavole la tipologia di grano da utilizzare, rendendo questo progetto una realtà di tutti i giorni.
Grano del miracolo
Senatore Cappelli Giancarlo Nitti Photography
Triticale
Triticum aestivum compactum Tritordeum
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OASI CAMPOCATINO
A cura di Giacomo Bertini
Nella parte più settentrionale della Toscana, nel comune di Vagli di Sotto, si trova una località denominata Campocatino. A 1011 metri di altezza sul livello del mare, racchiusa in uno splendido scenario tra le vette delle Alpi Apuane, precisamente del monte Pisanino, del Sumbra e del Roccandagia, si trova una località denominata Campocatino.
Matteo Faedda Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Il nome deriva dalla particolare conformazione del terreno che si presenta come un'ampia concavità che gli studi geologici attribuiscono all’azione di un antico ghiacciaio risalente a circa 3 milioni di anni fa, nel tardo Pleistocene. In questa epoca geologica si verificarono importanti cambiamenti climatici che portarono allo scioglimento di molti ghiacciai presenti anche nella nostra catena montuosa. L’azione del ghiacciaio prima e, poi, l’azione di erosione e deposito dei sedimenti rocciosi nei millenni successivi, hanno contribuito a formare un anfiteatro morenico, quindi un luogo con una forma a conca o catino, da cui deriva, appunto, il nome Campocatino. Le prime tracce importanti della presenza dell’uomo in questo sito, risalgono agli inizi del XVII secolo, quando cominciò a essere utilizzato dai pastori per pascolare le greggi dopo le lunghe transumanze che avvenivano due volte l’anno attraverso la dorsale appenninica.
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Ciò vedeva il coinvolgimento di numerose famiglie della Garfagnana che partecipavano a questo trasferimento delle greggi in direzione della montagna all’inizio dell’estate e verso la pianura all’inizio dell’autunno. Per dare riparo agli animali e alle famiglie dei pastori furono costruite delle casupole in pietra conosciute come “caselli”. Oggi ne sono stati mappati 144, tutti collocati nella parte più soleggiata del grande “catino” naturale. Si tratta di costruzioni di modeste dimensioni che si sviluppano su due livelli: il piano inferiore era destinato ad accogliere gli animali e gli attrezzi, mentre al piano superiore alloggiavano i pastori con la famiglia, con il vantaggio di rimanere isolati dal terreno e di ricevere il riscaldamento naturale che risaliva dal basso a causa della presenza del bestiame.
Giacomo Bertini Photography
Spunto schematico dal libro Acta Apuana XVI-XVII
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Oasi Campocatino Vagli
Intorno a questi “caselli” vi erano piccoli appezzamenti di terreno detti “porchette” che venivano utilizzati per la coltivazione di ortaggi e di alberi da frutto. Proprio grazie all’opera di costruzione dei “vaglini”, cioè degli abitanti del comune di Vagli, e all’utilizzo dei materiali reperibili sul posto, questo villaggio è sorto in armonia con l’ambiente circostante, senza turbarne gli equilibri naturali. Tutto ciò sta alla base della particolare attenzione e cura che si è sempre avuta per questo sito fino al punto che intorno alla metà del Settecento fu emanato un provvedimento di salvaguardia del luogo e dell’economia locale riservandolo al “trattamento di Alpe”, cioè territorio destinato a uso esclusivo di coltivazione di “campi, prati e poggi e al pascolo di animali”. Purtroppo con la Seconda guerra mondiale anche questo luogo incantevole ha conosciuto la distruzione. Nell’autunno del 1944 tutti i caselli furono abbattuti dai tedeschi, perché ritenuti rifugio di partigiani, causando così il declino di Campocatino. Con le trasformazioni in ambito socio-economico che si registrano nel dopoguerra e, in particolare, con la sempre maggiore industrializzazione del Paese, si ha un radicale mutamento anche della condizione di vita dei pastori: in molti lasciano la pastorizia e passano a lavori più remunerativi anche se, spesso, più faticosi.
Giacomo Bertini Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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La maggior parte di coloro che, nella zona di Vagli, abbandonano la pastorizia e l’agricoltura trovano lavoro nelle cave dalle quali si estrae il pregiatissimo marmo di quelle montagne sempre più richiesto in Italia e all’estero. Ancora oggi il lavoro nelle cave di marmo rappresenta il principale settore su cui si basa l’economia della zona. Con il “boom” economico degli anni Sessanta si registrò un cambiamento di rotta nell’interesse per il sito di Campocatino. Gli eredi dei vecchi proprietari dei terreni e dei “caselli”, attratti dalle caratteristiche del luogo immerso nella natura, lontano
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dallo stress cittadino e dal caldo torrido della pianura, ne fecero un luogo di vacanza estiva. Durante questo periodo di transizione e sviluppo, il comune di Vagli unitamente al Parco delle Apuane, costituito nel 1985, ha permesso adeguati interventi edilizi, imponendo rigidi protocolli, tali da salvaguardare il contesto naturalistico, permettendo la ristrutturazione dei “caselli” rendendoli, sempre nel rispetto delle originali caratteristiche, più sicuri e fruibili.
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CAPPELLA EREMITA VIVIANO Giacomo Bertini Photography
A conferma della rinascita della comunità e come testimonianza delle sue salde radici cristiane, negli anni Settanta, è stata costruita dagli abitanti di Vagli, la cappella dedicata al santo eremita Viviano in Campocatino. L’opera che si distacca architettonicamente dalle costruzioni circostanti, in quanto realizzata in chiave moderna, si inserisce perfettamente in tutto il contesto grazie all’utilizzo di materiali come pietra, legno e piastre, tipiche degli antichi alpeggi. Nel tempo l’interesse per Campocatino si è esteso anche a coloro che non vi hanno alcuna proprietà, ma che si accontentano di trascorrere una giornata di riposo godendosi l’aria fresca o effettuando escursioni attraverso i sentieri del Club Alpino Italiano. Infatti da qui è possibile percorrere il sentiero n. 177 che conduce al passo della Tombaccia o al passo della Focolaccia; il sentiero n. 147 che conduce al passo Tambura o al passo Sella oppure incamminarsi lungo il breve sentiero che conduce all’eremo di San Viviano, che è il più breve e il più frequentato dalle famiglie.
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Per fornire adeguati servizi a questa affluenza turistica per la maggior parte “mordi e fuggi”, è stata permessa la realizzazione di un rifugio per la ristorazione, progettato con una struttura architettonica molto particolare nel suo genere, in quanto riesce a “mimetizzarsi” molto bene nell’ambiente circostante, mostrando solo un camino per l’aspirazione dell’aria e il suo ingresso racchiuso tra due muri in pietre. Un’altra struttura pensata per il turismo è un casello, di proprietà del Parco, attrezzato per i servizi alla persona
altrimenti non disponibili a causa della presenza prevalente di sole strutture private. Tra i nuovi edifici si trova anche il Centro Documentazione e Visita di Campocatino, realizzato grazie dal Comune di Vagli con fondi della Comunità Europea, nel quale si raccolgono dossier, informazioni e notizie anche per mezzo di dispositivi multimediali, poi fruibili ai visitatori.
Giacomo Bertini Photography Da un punto di vista naturalistico e ambientale si tratta di un luogo che offre un habitat ideale per molte specie di uccelli tra cui il Gufo, il Gracchio alpino e il Picchio muraiolo, specie che si sono adattati a vivere tra le praterie e i pascoli di altura, inframmezzati da affioramenti rocciosi e da arbusti. Se si è fortunati è possibile incontrare anche la regina delle montagne, l’Aquila reale, che scende dalle cime più alte per ispezionare le praterie alla ricerca di possibili prede. Queste presenze hanno consentito, nel 1991, di poter dichiarare questo luogo Oasi naturale della LIPU. Matteo Faedda Photography
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Grazie alla sua specificità naturalistica e al suo fascino di villaggio del passato, nel 1998, lo sceneggiatore e regista Giovanni Veronesi ha scelto Campocatino come set del film Il mio West con Leonardo Pieraccioni, Harvey Keitel, David Bowie e Alessia Marcuzzi. Da questa scelta ha ottenuto ancora più attenzione mediatica, perché agli amanti della natura si sono sommati i cinefili, i quali non perdono occasione per ripercorrere e visitare i luoghi visti nel film. Solo negli ultimi anni le associazioni di promozione del territorio si sono impegnate a fare di Campocatino anche un luogo di attrazione invernale realizzando il Villaggio di Natale. Durante questa manifestazione vengono allestiti stand gastronomici con prodotti a base di castagne come i necci, i neccioloni, le tullore e frittelle oltre a piccole bancarelle con prodotti di artigianato locale ospitate direttamente nei famosi “caselli”. Da un lungo progetto partito nel 2002, gli amministratori locali e alcuni Enti, hanno sottoscritto un nuovo accordo per permettere la ristrutturazione dei “caselli”, in particolare quelli ormai ridotti a un cumulo di pietre, sempre nel rispetto delle caratteristiche originarie e fornendo il luogo dei servizi di luce e acqua, oggi garantiti con generatori elettrici rumorosi e inquinanti e da cisterne da riempire manualmente. L’impatto della lavorazione del marmo nel tessuto economico locale, si percepisce anche passeggiando per le vie del paese: infatti, oltre a piccoli ornamenti disseminati qua e là, si incontrano statue scolpite da artigiani locali raffiguranti un lupo, un pastore con il suo cane o personaggi di spicco come quella in memoria di David Bowie o di qualche militare eroicamente caduto.
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DANZANDO SKYWAY MONTE SULLA BIANCO MOLE
A cura di Manuela Albanese e Monica Gotta
Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
RREEPPOORRTTAAGGEE | | DANZANDO SKYWAY MONTE SULLABIANCO MOLE
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FUNIVIA BIFUNE LUNGHEZZA SVILUPPO TOTALE DISLIVELLO TOTALE
4.378 mt
2.157,80 mt
DISLIVELLO Courmayeur Pavillon
Pavillon Punta Helbronner
1.308,20 mt 2.171,70 mt
2.176,80 mt 3.449,24 mt
Pavillon Punta Helbronner 2.636,00 mt (9 m/s)
Courmayeur Pavillon 1.738,00 mt (9 m/s)
1272,80
mt
Pavillon Punta Helbronner
864,01
Courmayeur Pavillon
mt
2 CABINE 80 posti
SOSTEGNI 5 totali FUNI PORTANTI 2 per ogni tratta Giroinfoto Magazine nr. 71
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SKYWAY MONTE BIANCO
Arrivare alla Skyway Monte Bianco è semplice prendendo come riferimento Courmayeur. Dall’autostrada A5 Torino-Aosta-Courmayeur si esce a Courmayeur. Da qui si raggiunge la stazione di partenza Courmayeur-The In alternativa si può usufruire del treno e la linea di Valley in pochi minuti. riferimento è Chivasso-Aosta. In aereo si possono prendere in considerazione gli aeroporti di Torino Caselle (il più Ci sono ampi parcheggi in superficie e sotterranei a disposizione vicino a Courmayeur), Milano Malpensa, Milano Linate e dei visitatori, sia per auto che per pullman. arrivare a Courmayeur con un servizio di trasporto pubblico Per chi desidera viaggiare con mezzi pubblici c’è un servizio di oppure con auto. autobus interno della località di Courmayeur con collegamenti da Aosta, Valle del Monte Bianco e dalle principali città del Nord A disposizione dei visitatori è disponibile anche un deposito Italia. bagagli.
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Il nuovo impianto è stato inaugurato nel 2015 e ha sostituito il vecchio risalente agli anni ’40 / ’50. Oggi comprende le 3 stazioni di Courmayeur-The Valley (1.300 m), Pavillon-The Mountain (2.173 m) e Punta Helbronner-The Sky (3.466 m).
ARCHITETTURA La nuova funivia del Monte Bianco è già stata definita l’ottava meraviglia del mondo per via delle sue 3 stazioni dal design avveniristico pensate dallo Studio Progetti Cillara Rossi e firmate dall’Architetto Carlo Cillara Rossi di Genova. Il nuovo impianto ha reso fruibile a tutti il panorama mozzafiato destinato in precedenza solo agli occhi di alpinisti ed escursionisti esperti. Per la progettazione e la costruzione è stata posta particolare attenzione alle difficili condizioni climatiche a cui le strutture sono sottoposte. Ma non solo, si è pensato anche all’impatto ambientale dal punto di vista paesaggistico e della sostenibilità energetica. Il design delle stazioni si ispira ai cristalli di ghiaccio e ai riflessi della neve mentre Punta Helbronner richiama le creste rocciose del Monte Bianco. Sono stati impiegati materiali ad alto isolamento per evitare dispersioni termiche. Vi sono ampie superfici fotovoltaiche e sistemi a pompe di calore per avvicinare l’impianto allo standard di Zero Energy Building, ossia un edificio in grado di autoprodurre energia.
INTERNO PAVILLON Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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STAZIONE HELBRONNER Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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La scelta di un involucro trasparente con ampie vetrate è stata dettata dalla volontà di rendere la montagna protagonista e di far sentire il visitatore parte integrante del luogo.
Le sue forme dinamiche e i suoi piani arcuati si adattano in modo armonioso con le curve sinuose delle montagne circostanti.
Pontal d’Entrèves, la stazione di valle, è caratterizzata da una curvatura sinusoidale della copertura che dona alla costruzione un aspetto aerodinamico. La struttura nervata è aperta sia sul lato montagna che sul fronte d’ingresso e, su uno dei lati, si incurva per ricoprire le funi nel punto di massima convessità.
Punta Helbronner è il vero cuore tecnologico dell’impianto, sviluppata con un design verticale e terrazze a sbalzo. Studiata per essere il punto di contatto con l’esterno è dotata di un’ampia vetrata rivolta verso il Monte Bianco e l’osservatorio a 360°.
Pavillon du Mont Fréty, la stazione intermedia, costituisce il fulcro dell’impianto. Questa stazione racchiude molti spazi e proposte per il pubblico. La struttura specchiata poggia su un terreno complesso ed è stata studiata per inserirsi adeguatamente nel contesto paesaggistico alpino.
STAZIONE PAVILLON Monica Gotta Photography
Tre sono i concetti che emergono da queste avveniristiche costruzioni, concetti strettamente correlati tra loro: sicurezza e confort, ambientazione e relazione tra la progettazione dello spazio ed il panorama e, molto importante, suggestione ed emotività.
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BIGLIETTERIA Si parte da Courmayeur-The Valley a 1308,20 m. Potrete trascorrere l’attesa della cabina che vi porterà a Pavillon-The Mountain al Café des Alpinistes, dove potrete gustare un’ottima colazione oppure un pranzo veloce accuditi da personale competente e disponibile. È dotato anche di un bellissimo spazio esterno che sarà il primo ricordo del viaggio verso il punto più alto d’Italia. Spesso è frequentato dalle guide alpine che raccontano le storie della montagna e, se sarete fortunati, potrete ascoltare un racconto unico nel suo genere. Qui si trova anche la biglietteria dove presentare il biglietto, attualmente acquistabile solo online o attraverso le casse automatiche, per evitare assembramenti.
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Dal 6 agosto 2021 è diventato obbligatorio presentare il Green Pass per gli spazi espositivi, le mostre, il cinema e i tavoli al chiuso dei punti di ristoro per un’esperienza covid-free. Non è invece obbligatorio per la salita in funivia. (www.montebianco.com/it/green-skypass)
L’invito è di prendere visione del regolamento in vigore e partire con tutto il necessario. La grande novità del 2021 è l’apertura della Skyway fino al tramonto nel mese di agosto. La prima partenza è alle 06.30 del mattino e l’ultima discesa da Punta Helbronner-The Sky è prevista per le 19.30, 7 giorni su 7.
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Salire sulla cabina sferica è già di per sé un’emozione! Tutti cercano di conquistare un posto vicino al vetro della cabina per godere al massimo dello spettacolo che sta per rivelarsi agli occhi di tutti gli Skynauti. Le cabine sono dotate di pareti di vetro e di un sistema di riscaldamento che ne impedisce l’appannamento e/o il congelamento e di un movimento a 360° per permettere la visione del panorama da ogni lato. Vedrete Courmayeur, in basso, che si allontana piano piano e vedrete avvicinarsi, verso l’alto, il Pavillon, inizierete ad assaporare le maestose vette della Valle D’Aosta. Perché…questa è la sensazione: l’ascesa sembra procedere in slow-motion ma, osservata da terra, la cabina è piuttosto veloce. Questi sono i primi 6 minuti dell’esperienza – circa 100 respiri - durante i quali la vita sembra muoversi al rallentatore. A volte si prova disorientamento, vertigine, cefalea e/o altri segni che sono i normali sintomi del “mal di montagna” dovuti a una veloce ascesa in quota. Sono soggettivi e tendono a scomparire appena sarà avvenuto l’acclimatamento in altura. Datevi un attimo per abituarvi a questo mondo magico fatto di cielo, sole, nuvole, vento, acqua, neve e per prendere coscienza di essere sul tetto d’Italia. All’apertura della porta della cabina a Pavillon-The Mountain si va verso la seconda cabina che ci porterà a Punta Helbronner-The Sky a 3.446,00 metri.
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Punta Helbronner prende il suo nome dall’ingegnere, geodeta e alpinista Paul Helbronner nato nel 1871 nella cittadina francese di Compiègne. La mostra “Dal livello del mare a 4810 metri” al 1° piano della stazione Pavillon-The Mountain è dedicata proprio a questo personaggio, nato in pianura e diventato un uomo di montagna. A lui si deve la misurazione e la rappresentazione delle Alpi Francesi e del Monte Bianco. La sua più grande opera è la Description Géométrique Détaillée des Alpes Françaises.
MOSTRA DAL LIVELLO DEL MARE A 4810 METRI Monica Gotta Photography
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STAZIONE HELBRONNER Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Vi chiederete il motivo per il quale non ci si ferma subito al Pavillon. Attualmente la permanenza consentita a Punta Helbronner è di un’ora e 15 minuti per scongiurare il sovraffollamento mentre al Pavillon non ci sono limiti di tempo se non prendere l’ultima corsa verso Courmayeur. I prossimi 130 respiri circa scandiranno gli 8 minuti di ascesa verso il cielo. Poco dopo la partenza vedrete sotto di voi il Pavillon e la sua architettura futuristica. Apparirà poi il Giardino Botanico Alpino Saussurea ricco della meravigliosa flora che abita la montagna. Inevitabilmente in questi 8 minuti lo sguardo si volgerà verso le creste delle montagne, alla stazione di arrivo, Punta Helbronner-The Sky, sospesa sulla roccia, avvolta dalle nuvole o abbracciata dalla neve a seconda delle stagioni. Sarete attratti dal paesaggio che cambia, guardate le linee sinuose delle montagne, l’acqua che scorre verso valle e crea piccole cascate e, senza accorgervene, sarete arrivati nel punto più alto d’Italia. Uscire dalla stazione significa prendere il primo respiro in un’aria rarefatta, leggera, pulita… diversa. Un passo dopo l’altro, si arriva sulle terrazze che si affacciano sul ghiacciaio. Non ci sono molte persone nella zona dedicata agli alpinisti ma, comunque, c’è il rispetto per la montagna: c’è silenzio,
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si sussurra, si ascolta il suono del vento che scivola tra gli interstizi della struttura, che si insinua negli abiti, che accarezza le nevi perenni sotto di noi alzando dei mulinelli bianchi di neve fresca. Su queste nevi perenni si vedono gli escursionisti amanti della montagna camminare verso un punto d’arrivo nascosto dalle montagne, dalle nuvole basse o dalla nebbia. Altri sono sulle guglie rocciose di fronte a Punta Helbronner, sono piccole figure stagliate controluce che sembrano camminare su un filo. Si sta in silenzio nel rispetto di una natura indomabile e mozzafiato. Qui non serve la parola, è il battito del cuore che parla, che spinge le emozioni in ogni parte del nostro corpo e i nostri occhi fotografano l’immensità dello spettacolo che si staglia davanti a noi, a 360°. Da qui parte anche la leggendaria teleferica Panoramic MontBlanc per l’Aguille du Midi, una fune tesa tra Italia e Francia che parte da 3.466 metri e arriva a 3.842 metri. Questo percorso panoramico è lungo circa 5 km aperto tutti i giorni dalle 7.30 alle 16.30, meteo permettendo. Dalla terrazza la si vede andare e venire, un momento perfettamente visibile, un attimo dopo avvolta dalle nuvole basse che corrono sulle vette delle montagne.
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SKYWAY MONTE BIANCO
Sotto la terrazza si trova il Rifugio Torino, punto di riferimento per escursionisti e alpinisti. La sua storia inizia nel 1898. Quello che vediamo oggi, denominato “nuovo”, è stato costruito negli anni ’50 e ammodernato nel 2015 e può ospitare fino a 160 persone. Lo si può raggiungere da Punta Helbronner a mezzo di un ascensore e di un tunnel appositamente scavato nella roccia per evitare di passare dal ghiacciaio. Qui hanno soggiornato gli operai che hanno contribuito alla realizzazione della nuova SkyWay. La stazione ha solo iniziato a stupirci. Nella Sala Monte Bianco e dei Cristalli sono esposti cristalli e quarzi della montagna portati alla luce dai cristalliers. Alla fine della sala si sale su una balaustra da dove si vede il Monte Bianco, un duro gigante di roccia che, in questa sala, ci rivela i suoi tesori a lungo custoditi nelle sue profondità. Esiste anche una postazione biometrica, la Keito K9, inaugurata a fine 2019. Si tratta di un progetto congiunto tra il Centro Cardiologico Monzino, l’Università degli Studi di Milano e Skyway Monte Bianco. Lo scopo del centro è quello di sensibilizzare le persone sugli effetti cardiovascolari dell’alta quota. Potrete dare il vostro contributo alla ricerca scientifica ottenendo anche un riscontro immediato sullo stato di salute cardiovascolare e sugli effetti dell’alta quota sul fisico. Al Bistrot Panoramic potrete gustare dell’ottimo cibo come se foste seduti su una nuvola. La prenotazione è obbligatoria, come anche al Ristorante Alpino in zona Pavillon. Potrete scegliere l’orario del pranzo e indicare il numero di persone a tavola.
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SALA DEI CRISTALLI Monica Gotta Photography
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RIFUGIO TORINO Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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HELBRONNER Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Troverete anche La Feltrinelli, la libreria più alta d’Italia e la passerella trasparente dello Sky Vertigo dove ci si trova nuovamente sospesi sulla montagna.
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Ma è il 3° piano la meta più ambita da ciascun visitatore. Qui si trova l’Osservatorio 360° e qui si tocca il cielo con un dito. Qui vi girerà la testa perché non potrete fare a meno di fare un giro di 360° sui vostri piedi. Vedrete le valli in basso, le montagne che incontrano il cielo e le nuvole e la vostra prospettiva sarà cambiata per sempre. Non esiste fotografia in grado di tradurre ciò che possono vedere i nostri occhi e, in questo momento unico, saprete di aver realizzato un sogno… “75 minuti” tanto dura un battito di ciglia quassù, e il tempo a nostra disposizione è già terminato.
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Si torna al Pavillon alla scoperta di ciò che propone ai visitatori del Monte Bianco nei suoi spazi multifunzionali. Appena scesi dalla cabina si può osservare l’architettura curvilinea di questo ambiente futuristico e dal colore candido come la neve. Lo stesso pianoforte a mezzacoda posizionato sotto a un soffitto che ricorda la volta stellata è bianco. Ogni tanto qualcuno si ferma e l’ambiente si riempie delle note delicate create dalle mani di un visitatore. Uscendo dalla stazione si arriva al Parco Pavillon dove la presenza di un piccolo laghetto con zattera e fune è a disposizione di chi vuole tentare una traversata alla vecchia maniera!
Nell’area circostante sono disponibili delle sedie a sdraio per i visitatori. E per la vostra pausa pranzo e ristoro al Pavillon trovate il Ristorante Alpino e il Mountain Bar. A pochi metri dal parco si arriva alla Terrazza Solarium dove vi aspetta una vecchia cabina diventata bar. È possibile fare una pausa rilassante, farsi accarezzare dal sole a 2.200 m e osservare l’ambiente circostante – Courmayeur, la Val Veny e la Val Ferret. La terrazza è protetta da barriere trasparenti per permettere la fruizione del paesaggio nel modo più naturale possibile. Un colpo d’occhio assolutamente unico al quale potrete abbinare un barbecue oppure un aperitivo alpino!
Dedicato a grandi e piccini il parco vi farà sentire alpinisti ed esploratori!
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Un‘altra attrazione racchiusa nel cuore del Pavillon è Hangar 2173. Si tratta di un museo che custodisce la memoria della funivia. Qui è come riavvolgere la pellicola di un film e tornare nel passato della funivia del Monte Bianco e di coloro che hanno sfidato la montagna e le condizioni climatiche avverse per realizzare un’opera monumentale. Nell’Hangar 2173 viene custodita una cabina della vecchia funivia fiera del suo colore intenso e acceso e testimone dei 70 anni di storia dell’impianto. Lasciate libera la vostra immaginazione e tornate nel passato per una corsa sulle vecchie cabine! Non sono finite le rivelazioni del Pavillon. Alla Cave Mont Blanc si sperimenta la vinificazione in alta quota. A quest’altezza, con temperature più rigide e una pressione atmosferica più bassa, trattare l’uva diventa una questione
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di studio, di abilità ma anche di sperimentazione e potenza creativa. In un locale adibito alla presentazione del percorso di vinificazione in alta quota si trovano le bottiglie di Cuvée des Guides, spumante con metodo classico creato con il vitigno autoctono della Valle D’Aosta Prié Blanc, risultato di un ambiente incontaminato e del genio dei vinificatori. La collaborazione con la società delle Guide di Courmayeur è nata anche nell’ottica della valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti. Altre attrazioni del Pavillon sono il Cinema Alpino, Riva in the movie – una mostra dedicata al cinema e la Skyway Boutique. Alla boutique si trovano le "Felpe per il futuro" parte del progetto “Save de Glacier”, un contributo per preservare i ghiacciai e battersi per una causa ambientale.
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GIARDINO BOTANICO -DONNA RADICE Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Torniamo sulla montagna entrando al Giardino Botanico Alpino Saussurea, voluto da Laurent Ferretti e aperto nel 1987. Prende il nome dalla Saussurea Alpina, una pianta articoalpina molto rara così denominata in onore dello scienziato svizzero Horace Benedict de Saussure che promosse la prima ascesa al Monte Bianco. Nella sua veste rinnovata il giardino ospita, nei suoi 7.000 metri quadrati, più di 900 specie botaniche riunite per creare un percorso unico alla scoperta dell’intelligenza della natura. Ogni forma, ogni colore, ogni profumo nasconde un segreto celato sapientemente. Definiamola una magia in diretta, uno stato d’animo, è l’arte della natura ammantata di mistero che attraverso i profumi e i colori interagisce con le emozioni umane. L’esperienza al giardino botanico inizia al nuovo chalet con il sorriso degli addetti e con il ritiro del materiale informativo. Presentando il biglietto di Skyway Monte Bianco l’ingresso al giardino è gratuito. Lo sguardo scorre sui dolci sali-scendi del giardino e si lascia colpire dai mille colori dei fiori. Dopo aver fatto il primo passo all’interno del giardino delle meraviglie bisogna abbassare lo sguardo e rivolgere l’attenzione a questo meraviglioso micro mondo fatto di piccoli prodigi e miracoli della natura.
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Dopo averlo osservato sfilare dalla cabina della Skyway ora ci possiamo immergere nelle meraviglie della montagna. Aperto d’estate, a partire da giugno, il giardino si anima di una moltitudine di esemplari delle Alpi e di altre catene montuose. Questo giardino fa parte della rete Jardinalp insieme ad altri 7 giardini alpini, rete creata grazie al contributo dell’Unione Europea. Iniziando il percorso nel giardino si trovano dei cartelli che aiutano a identificare le piante. Ogni cartello ha un colore. Il giallo identifica le specie nostrane, il bianco quelle esotiche, il rosso le piante officinali, il rosso con il teschio le piante velenose. Oltre a ciò è riportato il nome della famiglia, del genere, della specie / sottospecie e il paese di provenienza delle specie esotiche. Il giardino è organizzato sostanzialmente in roccere e ambienti. Ogni roccera, ossia aiuole formate da rocce e terra, è un piccolo ecosistema che contiene piante e fiori provenienti da ogni luogo del nostro pianeta. Ogni roccera e ambiente ospita curiosità e specie botaniche rare. In Valle D’Aosta, pur essendo la regione più piccola d’Italia, si trova circa il 40% della flora nazionale.
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GIORE SEMPREVIVO MAG GIGLIO GIALLO
CROTONELLA FIOR
DI GIOVE
ARTEMISIA NERA
n bastano. o n le ro a p le e “A volt o i colori. E allora servon E le forme. E le note. ” E le emozioni. O NDRO BARICC ALESSA
NE
GIGLIO MARTAGO
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Roccera Valle D’Aosta,
oltre alla stella alpina, si trovano fiori più rari e meno noti come il giglio martagone, che molti chiamano “riccio di dama” per i suoi fiori eleganti e arricciati. Ci sono poi le artemisie, le genziane e altre curiosità della regione come la Centaurea triumphetti che sembra un fiordaliso azzurro, la Lychnis flos-jovis (crotonella fior di giove) e l’Echium Vulgare. Nelle Alpi occidentali e orientali si trovano le varietà di piante che abitano l’area delle Alpi Marittime e la Provenza, mentre nelle Alpi orientali c’è una roccia chiara e particolare, la dolomia, e ospita delle rarità botaniche. Particolare è la zona delle piante officinali. Ogni pianta nasconde in sé un principio attivo che, da secoli, viene utilizzato per creare medicinali naturali, unguenti, olii, tisane, aromi e cosmetici. Questo potere officinale si nasconde nei semi, nelle radici, nella corteccia, nei fiori. Qui si trovano, ad esempio, la rodiola, la valeriana, la malva, l’arnica montana. A voi la curiosità di scoprire a cosa servono queste meravigliose piante e fiori!
Il macereto e l’alneto
, presentano piante abituate a colonizzare ambienti dove il nutrimento scarseggia e piante che aiutano ad arricchire il suolo di sostanze nutritive. Salendo la montagna, dove terminano le conifere, compaiono gli arbusti. Si sviluppano crescendo quasi paralleli al terreno, come i ginepri, i rododendri e i mirtilli. Ciò rende chiaro quanto tutto sia collegato, come ogni specie abbia il suo compito in natura e quanto nulla sia scontato. +INFO www.saussurea.it
Roccere Esotiche,
Nelle roccere del Nord-America, Penisola Iberica e Eurasia potrete ammirare piante e fiori che vivono in climi particolari, spesso inclementi, dall’arido al freddo. Passando alla Penisola Iberica caratterizzata da un clima variegato fino a sfiorare l’arido, potrete ammirare piante che resistono a questo clima inclemente. L’Eryngium bourgatii x alpinum ne è un esempio che colora di blu la roccera della Penisola Iberica da luglio a settembre. In Eurasia si trovano stelle alpine che appaiono molto simili alle nostre ma abitano l’Himalaya. Una pianta molto particolare è la Potentilla nepalensis, una delle poche del giardino ad avere fiori rossi.
Flora Calcicola,
Si trovano piante e fiori che vivono sia nelle Alpi Occidentali che in quelle Orientali. La roccia calcarea è tipica delle Alpi Orientali, ma piante che prediligono questo tipo di habitat crescono anche nelle Alpi Occidentali e in Valle D’Aosta. Nel pascolo alpino appaiono piante e fiori meno appariscenti con caratteristiche molto diverse tra loro (graminacee e ciperacee). Ma il pascolo alpino è anche animato dai colori dei ranuncoli, dalle genziane dalle corolle blu e dal trifoglio alpino con fiori rosa scuro. Dove scorre acqua, in superficie o sotto terra, si trova la flora degli ambienti umidi. Da quando si scioglie il ghiaccio alla fine dell’estate, il paesaggio cambia aspetto, cambiano i colori e si trovano specie dalle infiorescenze particolari che a maturità assumono l’aspetto di candidi batuffoli di bambagia.
Non potrete fare a meno di notare delle installazioni artistiche durante il percorso nel giardino. È la mostra collettiva Symbiote realizzata dal Giardino Saussurea e da Paratissima, la fiera d’arte contemporanea che raccoglie talenti artistici. Per la realizzazione della mostra sono stati scelti 5 artisti che hanno saputo interpretare al meglio la simbiosi uomo-natura attraverso le loro opere. Le opere sono esposte nel giardino botanico integrate con il paesaggio e nel contesto naturale del giardino, in simbiosi con la natura stessa.
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L'ITALIA DI MAGNUM
L’agenzia Magnum vide la luce il 22 maggio 1947 al termine di un pranzo presso il ristorante del MoMa di New York. A quel pranzo presero parte Robert Capa, il piú grande fotografo di guerra di tutti i tempi, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger, William e Rita Vandivert e Maria Eisner. Alla fine del pasto, innaffiato da una bottiglia del celebre champagne (da cui il nome dell’agenzia) nacque la Magnum Photos, l’agenzia che per definizione, dalla sua nascita ad oggi, ha dettato i canoni estetici della fotografia dello scorso secolo e contemporanea. Manuela Albanese Monica Gotta Stefano Zec
A cura di Monica Gotta e Manuela Albanese
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Nacque con due sedi originarie, New York e Parigi, alle quali presto si aggiunsero Londra e Tokyo.
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Stefano Zec Photography
L’idea di fondare un’agenzia diversa dagli standard noti venne a Robert Capa, poiché non accettava che le foto dei reporter una volta consegnate alle varie testate divenissero proprietà di queste, facendo perdere all’autore ogni tipo di riconoscimento. Capa voleva fondare un diverso tipo di agenzia, una realtà in cui si ridefinisse il rapporto tra committente ed autore.
Tale rapporto doveva essere basato sulla cooperazione tra le parti e doveva riconoscere al reporter il diritto d’autore e l’autonomia. Ciò avrebbe fatto sì che fossero accolti nell’agenzia i migliori fotoreporter. Oltre a ciò, l’intento era quello di conservare la natura indipendente del fotografo, l’essere reporter e allo stesso tempo continuare a essere artista. L’agenzia avrebbe avuto inoltre il compito di conservare i negativi, e si
Manuela Albanese Photography
sarebbe fatta carico dell’impaginazione e delle didascalie delle foto. Da allora è stata fatta tanta strada e, nel corso degli anni, l’agenzia è cresciuta: dalla sua fondazione, 92 fotografi hanno contribuito alla storia di Magnum. Oggi 49 membri continuano a portare avanti i suoi valori originari, ovvero la tutela dei diritti del fotogiornalista, nonché la garanzia di rispetto e onestà verso il pubblico.
Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Magnum Photos, con i suoi fotografi, ha prodotto reportage su molti dei più drammatici eventi del XX secolo tra cui la guerra del Vietnam, ma anche eventi sociali e aspetti della società poco raccontati dal giornalismo. Gli stessi Robert Capa e David Seymour furono vittime di alcuni di questi eventi. La mostra allestita presso Palazzo Ducale a Genova percorre, attraverso l’esposizione di oltre duecento fotografie, la cronaca, la storia e il costume dell’Italia dal Dopoguerra a oggi. Sono stati scelti venti autori dell’agenzia Magnum Photos per narrare delle storie particolari, per riportare alla nostra memoria
personaggi e luoghi dell’Italia degli ultimi settant’anni, in un avvincente trama costituita di immagini – e non di parole - che si dipanano lungo il filo conduttore temporale della mostra, che propone al visitatore uno spaccato di vita sociale della nostra penisola. La mostra si apre con le immagini di Henry Cartier-Bresson (1904 – 2004) scattate durante un viaggio nell’Italia degli anni Trenta, a cui fanno seguito le immagini di Robert Capa (1913 – 1954) scattate alla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’autore descrive con i suoi incisivi bianchi e neri un paese in rovina, provato da 5 anni di conflitto.
Monica Gotta Photography ROBERT CAPA
DAVID SEYMOUR
Nasce a Budapest con il nome di André Friedman e realizza le immagini dei principali conflitti mondiali. Picture Post e Life pubblicano le sue fotografie.
Nato a Varsavia da famiglia ebrea, si avvicina alla fotografia grazie ad un regalo: una macchina fotografica.
Famose sono le immagini dello sbarco delle truppe americane a Omaha Beach nel D-Day.
Fu così che, a seguito della morte dei genitori a opera dei nazisti, testimoniò la Seconda Guerra Mondiale e fotografò bambini orfani rifugiati su incarico dell’UNICEF.
Stefano Zec Photography
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HENRY CARTIER-BRESSON L’acquisto di una Leica 35 mm fa nascere in Henry la passione per la fotografia e, già nell’anno successivo, una galleria di New York accoglie la sua prima esposizione. Nasce così il fotografo in grado di cogliere piccoli frammenti significativi di un qualsiasi soggetto.
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ELIOTT ERWITT
Le stanze si susseguono e si passa da una decade all’altra quasi a fare un viaggio nel tempo nel Bel Paese.
Nasce a Parigi da genitori russi, vive la sua infanzia a Milano e si trasferisce infine negli Stati Uniti, dove incontrò Capa. Per due anni fu assistente fotografo dell’Army Signal Corps e, durante questo periodo, incontrò nuovamente Capa che lo invitò a far parte di Magnum.
Elliott Erwitt (1928), René Burri (1933 – 2014) e Herbert List (1903 – 1975) congelano gli anni Cinquanta e i loro scatti rendono tangibile il momento della rinascita nell’immediato Dopoguerra. Siamo negli anni dove iniziano a circolare i beni consumo e nasce la televisione: viaggiamo tra Roma e la comparsa di Cinecittà e la grande mostra di Pablo Picasso a Milano, dove diventa palpabile e percepibile il contrasto tra la visione di Picasso espressa nelle sue opere e gli sguardi e le smorfie dei visitatori.
Anche Erwitt, spesso in Italia, si sofferma a ritrarre Roma da un punto di vista sottile, insolito e originale.
HERBERT LIST Instancabile viaggiatore, pone il suo focus su Roma alla fine degli anni Cinquanta. È Cinecittà con i suoi set ad affascinare il fotografo, un luogo dove spiccano registi, attori e comparse, stagliati contro immense scenografie.
Manuela Albanese Photography Sara Mangia Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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RENÉ BURRI Dopo aver subito i bombardamenti, Palazzo Reale a Milano ospita la mostra di Pablo Picasso. Il fotografo ventenne, giovane ma con una formazione artistica, cattura le emozioni del pubblico durante la mostra del celebre pittore. Nel 1963 ritrasse il ‘Che’ Guevara con il sigaro in bocca, immagini che fecero il giro del mondo.
THOMAS HOEPKER Cassius Clay sconfigge il suo avversario alle Olimpiadi del 1960. Hoepker, reporter tedesco, immortala la sua vittoria sul ring. Queste sono le prime immagini che il fotografo dedicherà al pugile che seguirà per più di un decennio. Fra le sue fotografie più note si annoverano alcuni scatti del 11 settembre 2001 a New York. Monica Gotta Photography
Seguono le immagini di Thomas Hoepker (1936) sulle Olimpiadi del ’60 di Roma con un Cassius Clay al culmine della propria carriera, gli scatti di Bruno Barbey (1941 – 2020) al funerale di Togliatti e di Erich Lessing (1923 – 2018) a Cesenatico, dove il boom economico viene percepito sulle spiagge del litorale emiliano grazie ai cambiamenti avvenuti nelle abitudini degli italiani e al diffondersi del cosiddetto benessere.
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BRUNO BARBEY
ERICH LESSING
Dopo aver terminato gli studi in fotografia e arti grafiche viaggia in Italia per 4 anni. In questo lasso di tempo nasce la sua collezione di figure archetipe e Bruno avrà l’occasione di partecipare ai funerali di Togliatti nel 1964. Nei suoi viaggi testimoniò anche sommosse, manifestazioni, occupazioni, guerre civili e conflitti.
Lasciata Vienna a causa dell’occupazione di Hitler, termina gli studi in Israele e inizia la sua carriera collaborando con grandi riviste. Nel 1951 diventa membro di Magnum e rivolge la sua attenzione a fenomeni sociali. I turisti a Cesenatico diventano i protagonisti della sua fotografia. Successivamente si dedicherà alla pubblicazione di libri e all’insegnamento della fotografia.
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Stefano Zec Photography Arriviamo velocemente agli anni Settanta, gli anni di piombo, gli anni in cui l’Italia è percorsa da vari filoni di contestazioni, l’economia stagna, la politica cerca di gestire la crisi, il concetto di famiglia cambia. Qui, mentre Ferdinando Scianna (1943) immortala le feste religiose in Sicilia, Raymond Depardon (1942) porta all’attenzione del pubblico le condizioni di vita dei malati all’interno dei manicomi, poco prima della promulgazione della legge Basaglia e Leonard Freed (1929 – 2006), con gli scatti sul referendum abrogativo del divorzio del 12 maggio 1974, rappresenta un punto di svolta del diritto di famiglia nel paese culla dello stato Pontificio.
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FERDINANDO SCIANNA Celebre fotografo siciliano, inizia a fotografare i siciliani a partire dagli anni Sessanta mentre componeva la sua tesi come studente universitario. Da qui nasce la passione per la fotografia. Diventa fotoreporter trasferendosi a Milano e corrispondente da Parigi. Tuttavia torna in Sicilia e continua a fotografare i siciliani. Il suo libro I Siciliani colpisce Cartier-Bresson, con cui stringe amicizia e la cui stima è ciò che fa di Scianna il primo fotografo italiano a entrare in Magnum.
LEONARD FREED Nasce a Brooklyn, pensa di diventare di un pittore ma scopre la passione per la fotografia. Diventa fotoreporter e documentarista. Ciò lo porta a viaggiare molto e documenta eventi e tematiche importanti. Ha viaggiato insieme a Martin Luther King nella sua marcia attraverso gli Stati Uniti. Entra in Magnum nel 1972.
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Monica Gotta Photography RAYMOND DEPARDON Gli anni Ottanta sono rappresentati da Martin Parr (1952) e Patrick Zachmann (1955). Sono gli anni della nascita delle televisioni commerciali, del turismo di massa: si intravedono gli albori di un nuovo modo di vivere e apparire. Gli anni Novanta e Duemila sono affidati agli scatti di Alex Majoli nelle discoteche della riviera Romagnola e agli scatti di Peter Marlow (1952 – 2016) nella ex Jugoslavia. Al luglio del 2001 è dedicato uno spaccato a parte: la triste parentesi del G8 di Genova è rappresentata dalle foto di Thomas Dworzak (1972). In queste immagini si percepisce tutta la violenza, la rabbia e la distruzione che hanno lasciato grandi ferite nella città che ospita questa mostra.
Inizia a fotografare a 15 anni. Autodidatta, si interessa all’attualità e a vicende politiche e sociali in paesi lontani. Insignito del Premio Pulitzer nel 1977, realizza un reportage sugli ospedali psichiatrici e sulle condizioni di vita degli internati incoraggiato da Basaglia. Questo lavoro continua per anni fino a riportarlo a Venezia al San Clemente dove realizza un reportage video sugli ultimi giorni del manicomio prima della sua chiusura.
MARTIN PARR Nasce vicino a Londra e studia fotografia a Manchester. Il suo lavoro inizia con uno studio sociologico sulla classe media britannica. Alla fine degli anni Ottanta approda in Italia dove fotografa il fenomeno turistico, cosa che fa successivamente anche in altri paesi, le nuove destinazioni del turismo di massa.
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MARK POWER Ha studiato arte all’Università di Brighton e dal 1983 lavora come freelance. La sua prima serie fotografica di paesaggi ha riscosso buoni pareri critici. Power si dedica a progetti personali a lungo termine e a lavori su commissione. Realizza, insieme ad altri colleghi di Magnum, un lavoro per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia nel 2011.
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PETER MARLOW Entra in Magnum nel 1986 e apre la sede di Londra insieme a Chris Steele-Perkins. Dopo aver documentato guerre e complesse situazioni sociali, si dedica principalmente al ritratto.
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PATRICK ZACHMANN Inizia la carriera come freelance nel 1976. Nel 1982 si trova a Napoli per documentare il dilagare della camorra, riprendere le squadre antimafia ma anche i cittadini. Nel suo lavoro fotogiornalistico traspare il vero soggetto del suo ragionamento: testimonia la violenza.
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Il nostro viaggio nel tempo termina con i primi decenni del XXI secolo ad opera di Paolo Pellegrin (1964) con le immagini della folla a San Pietro durante la veglia per la morte di Giovanni Paolo II e con le immagini dei migranti sui barconi, dai cui occhi traspare il sogno di una nuova vita. In contrasto con questa serie di fotografie, sfilano davanti ai nostri occhi le immagini delle sfilate milanesi con modelle eteree, truccate modo eccessivo con gli abiti dei grandi stilisti come Cavalli.
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PAOLO PELLEGRIN Nasce a Roma, studia architettura e fotografia e inizia la carriera come freelance. Per un progetto sull’HIV riceve il primo di dieci World Press Photo Awards. Nel 2005, entrato in Magnum, segue la veglia per la morte di Papa Giovanni Paolo II. Dà così vita a una serie di volti e di espressioni dei fedeli. Su una nave di Medici senza Frontiere documenta il fenomeno della migrazione, un fenomeno triste quanto attuale. Le foto dei dietro le quinte delle sfilate milanesi (2006) testimoniano la costruzione della parvenza che poi apparirà sulle passerelle ma senza sfarzo, senza contenuto umano.
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Manuela Albanese Photography ALEX MAJOLI Quasi a tendere la mano ai giorni nostri la visita si conclude con una serie di immagini molto forti di Alex Majoli (1971). L’autore, con lo stile teatrale che lo caratterizza, rappresenta la pandemia che ha attraversato trasversalmente il pianeta senza guardare in faccia etnie, religioni, culture, generi e classi sociali. Il consiglio è di farsi trasportare dalle immagini, in un viaggio che parte dai racconti dei nostri nonni fino ai giorni nostri, cercando di cogliere i ricorsi storici che stiamo vivendo, le analogie tra passato e presente.
Majoli è un fotoreporter di guerra nato a Ravenna. Inizia la carriera a 15 anni e successivamente realizza i primi reportage del conflitto jugoslavo. Altri lavori di rilievo sono un progetto sulla chiusura di un ospedale psichiatrico in Grecia e un lavoro sulla vita nelle città portuali. Con Magnum crea il progetto ambientato nei night club romagnoli, la caduta del regime talebano in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq.
L'ITALIA DI MAGNUM Genova Palazzo Ducale
fino al 18 ottobre 2021
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Un gioiello tardorinascimentale nella Tuscia Palazzo Farnese Conosciuto anche come Villa Farnese, è una vera e propria sorpresa nel cuore della Tuscia, in Lazio.
A cura di Adriana Oberto
Domina il paese di Caprarola, la cui strada principale fu appositamente progettata per valorizzare il palazzo e mettere in luce ancora di più la potenza della famiglia Farnese.
Adriana Oberto Manuel Monaco
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Il paese di Caprarola si trova in Lazio, sul versante sud del monte Cimini. È in posizione privilegiata perché si trova tra due vie consolari romane (ora strade statali): la via Cassia e la via Flaminia.
Caprarola
Pur trovandosi in Tuscia (denominazione data all’Etruria alla fine del dominio etrusco, N.d.R.), la sua fondazione è più recente e risale al XI secolo. I monti della zona, infatti, erano considerati impervi e impenetrabili, cosa che ha di fatto ritardato la creazione di insediamenti umani. Il paese fu conteso durante il medioevo da alcune famiglie feudatarie, tra cui gli Orsini e i D’Anguillara, per arrivare ai Riario-Della Rovere. Fu però durante il Rinascimento e con l’avvento della famiglia Farnese, il cui cardinale Alessandro divenne Papa col nome di Paolo III, che il paese crebbe di importanza. Fu questa famiglia a volere la costruzione del palazzo e a farne una residenza rappresentativa della propria ricchezza e potere. Le strade sono strette e tortuose e risalgono lo sperone tufaceo intrecciandosi le une con le altre in un tipico assetto medievale. Tale assetto fu stravolto nel XVI secolo contemporaneamente alla costruzione del palazzo e su ordine dei Farnese, che vollero la creazione della Via Dritta (ora via Filippo Nicolai), in modo che il centro del paese fosse subordinato al palazzo che sorge in cima. Per fare questo, l’architetto Jacopo Barozzi da Vignola fece alzare il livello stradale e furono abbattuti i vecchi palazzi per fare spazio a ponti e piazze. Tale assetto è giunto a noi pressoché intatto ed è una delle attrattive del paese, seconda solo al palazzo stesso.
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È solo una delle numerose residenze fatte costruire dalla famiglia nei territori sotto il proprio dominio, ma la sua architettura peculiare e i meravigliosi affreschi che la abbelliscono ne fanno uno dei migliori esempi di architettura manierista in Italia. Fu concepito in origine come una fortezza con carattere difensivo, così come lo erano le altre dimore signorili del territorio in quel periodo (XV - XVI secolo). I lavori iniziarono nel 1530, quando il cardinale Alessandro il Vecchio ne affidò ad Antonio da Sangallo il Giovane la progettazione. Quest’ultimo progettò una rocca di forma pentagonale con bastioni angolari e portò avanti i lavori fino alla sua morte, avvenuta nel 1546. Un anno più tardi, il nipote di Alessandro, suo omonimo e soprannominato “il Giovane”, volle continuare i lavori affidando il cantiere a Jacopo Barozzi da Vignola, il quale cambiò il progetto, visto che ormai erano venuti meno gli scopi difensivi.
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Egli mantenne la pianta pentagonale, ma trasformò la costruzione in un imponente palazzo rinascimentale: al posto dei bastioni d’angolo furono progettate delle ampie terrazze che davano sulla campagna; al centro fu progettato un cortile circolare di due piani, con quello superiore leggermente arretrato rispetto all’inferiore; infine, la collina fu tagliata con delle scalinate, in modo da isolare il palazzo e sottolinearne la posizione privilegiata. La villa, quindi, divenne la residenza estiva del cardinale Alessandro il Giovane e della sua corte. L’architetto Barozzi da Vignola diresse personalmente i lavori fino alla sua morte nel 1573, quando il progetto era ormai praticamente completato.
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Coetanea alla costruzione dal palazzo è quella della Via Dritta, ovvero la via centrale del paese. Gli ambienti del palazzo sono divisi in due zone: la zona estiva a nord-est (dove le stanze erano più fresche perché non esposte al sole) e quella invernale a sud-ovest.
C’è una piccola costruzione all’interno dei giardini, scelta dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi come residenza estiva durante la presidenza (1948-1955).
Le stanze della servitù e quelle di servizio furono costruite separate dalle altre e talvolta ricavate dallo spessore del muro. Vicino all’area riservata alla servitù c’è la scala del cartoccio: si tratta di una rampa a forma elicoidale che al tempo permetteva anche l’invio di messaggi riservati: essi venivano inseriti in un cartoccio di carta appesantito da sabbia o sassolini; questo scorreva, per gravità, in una guida nel corrimano, raggiungendo velocemente il piano inferiore. Le decorazioni delle stanze del palazzo sono spettacolari. Gli affreschi, le grottesche e gli stucchi vennero realizzati tra il 1561 ed il 1575 dai più grandi artisti del '500: Taddeo e Federico Zuccari, il Bertoja, Antonio Tempesta, Raffaellino da Reggio e Giovanni De Vecchi. Onnipresente è lo stemma della famiglia Farnese (costituito da sei gigli azzurri posti tre in capo, due al centro ed uno in punta su sfondo giallo oro), che appare nelle stanze e altri luoghi del palazzo. Alle spalle del palazzo, realizzati attraverso un sistema di terrazzamenti e arroccati sul colle, si trovano gli Orti farnesiani (il nome è lo stesso di quelli della famiglia sul colle Palatino a Roma). Si tratta di un giardino tardo rinascimentale, collegato al palazzo tramite dei ponti. I lavori dei giardini iniziarono nel 1565 e durarono fino al 1630 ad opera di due architetti: Giacomo del Duca e Girolamo Rainaldi. Giroinfoto Magazine nr. 71
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Appartamento invernale
Appartamento estivo.
Sala dei Cigni
Sala di Giove.
Scala Regia
Armeria. Sala della Guardia
Dall’atrio al pian terreno, si entra direttamente nella sala della guardia – con affreschi di Federico Zuccari, l’antica sede dei palafrenieri, a cui era affidata la sorveglianza. Da qui si accede al cortile circolare e alle sale del piano terreno, chiamato anche il Piano dei Prelati. Il Cortile Circolare è una peculiare soluzione architettonica, non conforme alle regole dell’epoca, su cui si basa la realizzazione del palazzo, che esternamente ha forma pentagonale, ma il cui cortile interno è, appunto, circolare. Questa disposizione fu progettata inizialmente da Antonio Sangallo il Giovane per volere di Alessandro Farnese il Vecchio, in un periodo in cui era importante costruire il palazzo a scopo difensivo. I lavori furono però sospesi per 13 anni – dal 1546 al 1559 – e furono ripresi dal Vignola quando la posizione dei Farnese (che nel frattempo erano saliti al soglio pontificio) rendeva necessaria la costruzione di un palazzo residenziale che testimoniasse la potenza e ricchezza della famiglia. Così il Vignola fu costretto a lavorare sul progetto incompiuto del Sangallo e a trasformarlo secondo le nuove direttive; il cortile superò così la sua funzione meramente tecnica e assume quella di concatenamento dell’intero progetto. Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Inoltre il cortile non costituisce il mezzo (cioè non vi è una scala, né al suo centro, né nei portici) per accedere ai piani superiori. Attorno al cortile strutturato su due piani, di cui il superiore leggermente arretrato rispetto all’inferiore, si trovano due porticati - interamente affrescati da Antonio Tempesta - che danno accesso alle camere. Queste si affacciano sul cortile, ma sono anche collegate internamente le une alle altre. Fanno infine parte delle sale al piano inferiore, oltre a quella all’ingresso, la sala di Giove, la sala dei Cigni e le sale inferiori degli appartamenti invernali ed estivi, suddivisi in quattro stanze ciascuno. Quelli estivi hanno soffitti affrescati che rappresentano le stagioni; il soffitto più bello di quelli invernali rappresenta la Vergine e l’Unicorno. Gli affreschi sono di Taddeo Zuccari.
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A questo punto si sale al piano superiore tramite la scala regia. La scala regia, progetto del Vignola, che probabilmente si era ispirato alla scala realizzata dal Bramante in Vaticano, è accessibile dalla sala della guardia. Si tratta di una spettacolare scala affrescata in tutta la sua lunghezza (pareti e soffitto ospitano affreschi, grottesche, arabeschi e allegorie) da Antonio Tampesta; è a forma elicoidale “a lumaca” e parte dai sotterranei (dove arrivavano le carrozze e che non sono visitabili) e arriva ai loggiati del piano nobile (gli appartamenti del cardinale). È sormontata da una cupola, anch’essa affrescata, con al centro lo stemma dei Farnese. Le decorazioni della scala hanno un forte valore simbolico e raccontano la storia dell’ascesa della famiglia e i suoi fasti. Viene anche rappresentata l’evoluzione dello stemma, in origine un unicorno, che si trasforma in giglio e infine in sei gigli. Costruita in peperino (la tipica pietra locale), ha un robusto parapetto balaustrato e trenta colonne doppie doriche con i gigli farnesiani in cima ai capitelli. Si dice che l’alzata degli scalini fosse stata progettata apposta per permettere al cardinale di raggiungere i piani superiori a cavallo, ma si tratta probabilmente soltanto di una diceria, visto che non ci sono testimonianze certe e gli scalini stessi non hanno scalfitture che potrebbero essere state causate dagli zoccoli. In ogni caso tutte le scalinate (quelle esterne che portano al palazzo e quelle dei giardini fino ad arrivare alla casina del piacere in cima) hanno la stessa alzata. Adriana Oberto Photography
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Torrione. Solitudini. Lanifici.
Penitenza
Aurora.
Giudizi Sogni
Concilio. Angeli
Fasti Farnesiani.
Mappamondo
Portico Cappella.
Scala Regia Salone d'Ercole
Una volta arrivati in cima, si esce sul porticato superiore del cortile circolare, dove si trova il piano nobile, sicuramente la parte di maggiore valore ed interesse artistico del palazzo. Si ha quindi accesso ad una serie di sale, che con le loro decorazioni celebrano fatti reali o allegorici legati alla famiglia Farnese. La prima sala che si incontra è la sala di Ercole, una loggia con cinque finestroni che danno sul paese sottostante e sui possedimenti della famiglia. I dipinti alle pareti si integrano con la vista sul paesaggio circostante e raffigurano le cittadine del ducato di Castro e Roncilione, nonché le capitali del ducato di Parma e Piacenza. Su uno dei lati corti si trova la fontana rustica; in origine, l'acqua sgorgava da un amorino addormentato e veniva dal fiume che si vede sullo sfondo. Stucchi e mosaici danno spessore ai fondali; le statue dei fanciulli che versano l’acqua sono in marmo cipollino. Meraviglioso è il soffitto, i cui affreschi, realizzati da Francesco Zuccari, raccontano la leggenda di Ercole che diede origine al lago di Vico. Ercole, rappresentato in mezzo al lago con una lancia sormontata dal giglio dei Farnese, simboleggia il cardinale Alessandro, artefice di numerose opere atte a migliorare le terre circostanti (ad esempio l’abbassamento del livello del lago e la costruzione di un acquedotto). Giroinfoto Magazine nr. 71
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L’ambiente successivo è la cappella; di forma circolare (l’ambiente corrisponde allo spazio simmetrico rispetto alla scala regia), era ad uso esclusivo del cardinale. La volta è affrescata da Federico Zuccari (che prese il posto del fratello Taddeo dopo la sua morte) con scene dell’Antico Testamento. Al centro vi è l’affresco di Dio che crea il mondo, raffigurato in maniera molto simile alla Creazione di Adamo di Michelangelo nella Cappella Sistina; si tratta di un messaggio auto-celebrativo del cardinale, che mirava al soglio pontificio. Sulle pareti, invece, sono rappresentati apostoli e santi. Dietro l’altare, la Pietà è una replica su muro di quella dipinta su tela da Taddeo Zuccari e che il fratello tenne per sé. Il pavimento del Vignola rispecchia la disposizione dei riquadri della volta. La sala che segue è quella dei Fasti Farnesiani. Essa dimostra, più di qualunque altra, l’abilità della famiglia di auto-referenziarsi, con una capacità di comunicazione che precorre i tempi. È decorata con una serie di affreschi interamente dedicati all'esaltazione della dinastia dei Farnese, nello stesso modo in cui lo sono quelli del Salotto di palazzo Farnese a Roma e la Sala dei Cento Giorni alla Cancelleria, che era la residenza romana del cardinale Alessandro.
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Gli affreschi sono solenni, datati e commentati con iscrizioni; raccontano i momenti più importanti della storia della casata: gli episodi più antichi si trovano sulla volta, quelli più recenti sulle pareti e sembrano degli arazzi. Al centro della volta c’è lo stemma farnesiano originale con sedici gigli, che furono successivamente ridotti a nove e infine a sei. Le opere sono di Taddeo Zuccari, realizzate tra il 1562 e 1565. Uscendo dalla sala dei Fasti Farnesiani si passa ad un altro lato del palazzo, quello rivolto a nord-est, dove una successione di stanze porta al torrione. La prima sala, l’anticamera del Concilio, è dedicata interamente a celebrare la vita di Papa Paolo III, in assoluto il membro più illustre della famiglia. Gli affreschi sono di Taddeo Zuccari e culminano al centro della volta con la cerimonia della nomina a pontefice. Seguono gli appartamenti estivi del cardinale. Queste sale sono più piccole rispetto alla altre e diventano man mano più intime; hanno pareti nude, perché i sontuosi paramenti di seta o di cuoio furono venduti all’asta dalla famiglia nel 1681. La prima è la sala dell’Aurora, così chiamata dal soggetto della volta, al cui centro si trova, appunto, l’Aurora, opera del Vignola; ai quattro angoli troviamo il crepuscolo e la notte, e ancora la Luna e Mercurio.
FASTI FARNESIANI Adriana Oberto Photography
CONCILIO
AURORA
In seguito, raggiungiamo la Sala dei Lanifici, che aveva funzione di guardaroba, la Sala della Solitudine, lo studio del cardinale Alessandro, e il gabinetto dell’Ermatena, così chiamato perché sulla volta sono raffigurati Hermes e Atena.
SOLITUDINE Giroinfoto Magazine nr. 71
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Al vertice del pentagono si trova il Torrione, che presenta un magnifico soffitto in legno del Libano a cassettoni con al centro l’onnipresente stemma farnesiano con gli unicorni posti a protezione del giglio. Si arriva così alle stanze dell’appartamento invernale, il quale si sviluppa simmetricamente rispetto a quello estivo. La prima sala, la Sala della Penitenza, era la sala da pranzo del cardinale. Venne decorata da Jacopo Bertoja con scene che consigliano parsimonia e mortificazioni; il soffitto ospita l'esaltazione della croce, sostenuta da tre Angeli. Un breve passaggio nel porticato del piano nobile conduce alla stanza successiva, La sala del Mappamondo, meravigliosa, per la ricchezza e la spettacolarità degli affreschi. Si tratta del salone di rappresentanza dell’appartamento invernale, così chiamata perché alle pareti è raffigurato il mondo come era conosciuto nel XVI secolo, quando l’interesse suscitato dalle grandi navigazioni richiedeva che la sua rappresentazione fosse adeguata alle nuove conoscenze.
TORRIONE
Le carte geografiche sono opera di Giovanni Antonio da Varese; Giovanni de’ Vecchi è probabilmente l’autore dell’affresco sul soffitto. La volta, invece, ospita una mappa celeste che descrive le costellazioni attraverso i personaggi mitologici che le rappresentano. Le stelle sono distribuite attentamente secondo le mappe anch’esse aggiornate per rispecchiare le nuove conoscenze. Seguono, infine, la stanza degli Angeli, la stanza dei Sogni, con la raffigurazione del sogno di Giacobbe e la stanza dei Giudizi, che era la camera da letto del cardinale, così chiamata per la raffigurazione del giudizio di Salomone sul soffitto. Gli affreschi sono del Bertoja. Da qui la visita procede nel giardino del palazzo.
ANGELI Giroinfoto Magazine nr. 71
PENITENZA
MAPPAMONDO
SOGNI
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All’esterno dei due lati degli appartamenti troviamo due giardini quadrati, che si aprono a ventaglio e sono collegati da ponti sopra il fossato, che una volta erano di legno. Essi furono progettati dal Vignola negli anni ‘80 del XVI secolo e si connotano come giardini segreti, cinti da alte mura. Sono composti dal ninfeo di Venere nel giardino estivo, la grotta dei satiri in quello invernale, e, tra i due, il ninfeo del Pastore. La presenza dei giardini è caratteristica per eccellenza della villa cinquecentesca; essi, infatti, sono la naturale prosecuzione all’aperto della residenza e completano l’asse formato dalla piazza di fronte al palazzo e il palazzo stesso. A questo complesso monumentale lavorarono il Vignola, Giacomo del Duca e Girolamo Rainaldi.
diventato una sorta di rifugio per il cardinale, dal quale ammirare il palazzo e la campagna circostante. Successivamente, attraverso una serie di viali e terrazzamenti, si arriva alla Casina del Piacere. Costruita tra il 1584 e il 1586, La casina (o palazzina) del Piacere era la residenza estiva del Cardinale Alessandro. Essa si trova al centro di un complesso che sfrutta la conformazione collinosa del terreno. Partendo dal primo terrazzamento – il più basso – troviamo la Fontana del Giglio. Da qui, attraverso due scalinate divise da una catena d’acqua (sono in peperino e rappresentano dei delfini che versano acqua), si arriva alla Fontana del Bicchiere o dei Fiumi.
Proseguendo alle spalle dei giardini si arriva al parco, inizialmente pensato come luogo di caccia e successivamente
Manuel Monaco Photography Siamo arrivati al punto più alto dei terrazzamenti, dove si trova la palazzina, luogo in cui il Cardinale Alessandro amava pranzare nelle giornate estive. Il complesso è un capolavoro del tardo manierismo, splendido esempio di giardini all’italiana, che raggiunsero in questa regione la loro massima espressione. A questo punto la visita è finita e non ci resta che tornare sui nostri passi fino ai giardini bassi, per poi uscire da un cancello laterale. Possiamo così ancora una volta ammirare non solo l’architettura del palazzo, ma anche la disposizione del paese di Caprarola ai suoi piedi. Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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A cura di Rita Russo
Maria Concetta Piazza Rita Russo
M.Concetta Piazza Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Eccellenza siciliana nella produzione di miele Il miele è un alimento naturale di certo conosciuto da tutti che per millenni ha rappresentato l'unico alimento zuccherino, concentrato, disponibile. Quando ci capita di assaggiarlo, sappiamo sicuramente apprezzarne le qualità e forse riconoscerne dal gusto anche l’essenza da cui deriva, ma difficilmente ci soffermiamo a pensare all’attività che viene svolta per consentire la sua produzione, a cominciare proprio dall’affascinante mondo delle sue dirette produttrici: le api. Per conoscerne i particolari ci siamo affidati alle competenze di Alessandro Brucia e della moglie Angela Camarda, titolare di “Regina di Sicilia”, un’azienda di apicoltura a conduzione familiare, con sede ad Alcamo, in provincia di Trapani, prevalentemente specializzata nella produzione di miele di qualità.
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Ad un punto di svolta della loro vita, nel 2012, Angela ed Alex hanno deciso di fare diventare un vero e proprio lavoro la passione di quest’ultimo per le api. E a giudicare dai riconoscimenti più volte assegnati dagli esperti del settore alla loro sia pur giovane produzione, ci sono riusciti bene. Il loro miele di sulla, agrumi e millefiori, ha conquistato, infatti, il premio “due gocce d’oro” per l’ottima qualità, rispettivamente alla trentaseiesima, trentasettesima e quarantesima edizione del concorso “Grandi Mieli D’Italia”, organizzato dall’Osservatorio Nazionale Miele, che si tiene ogni anno a Castel San Pietro Terme. Un’azienda, dunque, che costituisce una vera eccellenza tutta siciliana. Il nostro viaggio nel mondo dell’apicoltura, seguendo l’intero iter produttivo, inizia, così, da un angolo della campagna di Alcamo in provincia di Trapani, in prossimità del suo parco eolico, nel quale ad attenderci troviamo Alex e una parte delle sue trecento arnie, collocate su uno stretto pianoro in posizione panoramica dal quale, oltre la città di Alcamo con il massiccio di Monte Bonifato alle sue spalle, si scorge anche una piccola porzione di mare, quello che bagna il golfo della vicina Castellammare.
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Esperto di apicoltura da circa vent’anni, il ruolo di Alex nell’azienda è legato prevalentemente al lavoro che si svolge in campagna, cioè quello di allevatore di Ape Nera Sicula (Apis mellifera siciliana). È questa, infatti, la prima informazione che ci fornisce Alex a proposito del suo allevamento. Questa specie ha resistito, più di ogni altra, ai danni inflitti dall’uomo sull’ambiente attraverso l’uso dei pesticidi, diventando pressoché immune anche ai cambiamenti climatici, che oggi affliggono il pianeta intero. Non si tratta, dunque, di una specie esotica ma di una specie italiana, tipica proprio del territorio siciliano. Infatti, questa piccola e operosa creatura, caratterizzata dall’addome molto scuro e da una peluria giallastra, ha colonizzato la zona occidentale dell’isola. Alla fine degli anni ottanta, l’ape nera sicula è stata “salvata” dall’estinzione da un apicoltore siciliano sulla base di studi svolti su questa specie dall’entomologo palermitano Pietro Genduso. Di lontane origini africane, quest’ape deve la sua resistenza al fatto che è rimasta allo stato selvatico per molto tempo e sa sopravvivere anche senza trattamenti farmacologici. Per di più, essa ha la particolarità di non andare in blocco di covata durante i mesi invernali e di produrre, pertanto, miele di nespolo e di mandorlo, particolarmente ricchi di antiossidanti. Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Portata in quattro delle isole minori siciliane (Alicudi, Filicudi, Vulcano e Ustica) per la sua riproduzione in purezza, dalla sua riscoperta, quest’ape è stata oggetto di continui studi che hanno portato al progetto per avviarne la riproduzione sulla terraferma, supportato sia dalla Regione Sicilia sia da Slow Food, del quale l’ape nera sicula è diventata presidio al fine di reintrodurre, tutelare e valorizzare la specie e la sua produzione. Questo piccolo e tenace essere è anche molto docile, tanto da poter essere gestito senza particolari protezioni ed è produttivo anche a temperature elevate, oltre i 40 gradi, quando le api di altre razze si fermano. Sebbene l’indole di tali api sia tra le migliori, prima di aprire le sue arnie, Alex ci dota delle protezioni necessarie per condurre il nostro reportage in totale sicurezza e preparato il suo affumicatore, inizia la procedura di apertura della prima arnia.
Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 71
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Quando il fumo, prodotto da un combustibile bruciato dentro un contenitore di lamiera, penetra dentro l’alveare, le api sentendosi in pericolo si preparano a fuggire, ingozzandosi di miele. Esse, dunque, divengono meno aggressive perché avendo l’addome pieno non possono incurvarlo per pungere. È a questo punto che l’allevatore può intervenire all’interno dell’alveare continuando ad inviare fumo fino al termine del suo lavoro. Una volta terminata l’affumicatura, le api rientrano nell’alveare ventilandolo per cacciarne il fumo residuo e dopo poco tempo riprendono le loro attività.
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Il mestiere dell’apicoltore consiste essenzialmente nel procurare ricovero e cura, in funzione del periodo e delle condizioni ambientali, alle famiglie di api che vengono ospitate nelle arnie. In cambio di tale accoglienza, l’allevatore raccoglie una discreta quota del loro prodotto che consiste in: miele, polline, c’era d’api, pappa reale, propoli e talora, apitossina o veleno d’api. L’arnia, popolata da una sola famiglia di api, è una struttura modulare costituita da favi mobili, nei quali le api stesse trovano dimora. Essa è costituita da un numero variabile di casse di legno impilate, di forma vagamente piramidale, formate da quattro assi che, in basso, poggiano su un telaio sporgente da un lato a formare un balcone, detto telaio di volo, che, nel caso di arnie adatte al nomadismo, può essere chiuso da uno sportellino rimovibile e che costituisce la porta d'accesso per le api.
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La prima cassa, quella più bassa, si chiama corpo dell’alveare, è alta 35 cm e costituisce il dominio privato o nido delle api, dove vivono e si sviluppano le larve e dove tutto ciò che viene depositato costituisce la riserva di provviste sufficienti per vivere e consentire lo svernamento della colonia. Le casse successive costituiscono il melario, dove le api depositano parte del miele. Queste sono dominio dell’allevatore. In entrambi le parti dell’alveare vengono posti i favi mobili, costituiti da telaietti in legno sui quali viene applicato un foglio di cera naturale goffrato che serve da guida alle api ceraie per la creazione degli alveoli.
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Un’asse di legno copre, infine, la sommità delle scatole, detto coprifavo, seguito da un coperchio di legno impermeabilizzato che chiude definitivamente l'arnia. La presenza dei favi mobili dentro quest’ultima consente d’intervenire al suo interno senza distruggerlo, sia per effettuare i controlli sanitari sia per raccogliere i prodotti dell’alveare. Infine, quando le arnie sono posizionate in fila, vengono dipinte con diversi colori per consentire all’ape bottinatrice di riconoscere l’arnia di provenienza. Allo stesso scopo vengono disegnati simboli geometrici sul lato di entrata dell’arnia. Le api, infatti, riescono a distinguere bene sia i colori sia alcune forme e viene così scongiurato il pericolo di deriva. Nella storia dell'apicoltura, le arnie più primitive non avevano favi mobili ed erano dette bugni o "bugni villici". Le prime arnie prodotte dall’uomo furono realizzate con ceste di paglia o di vimini, impermeabilizzate con una copertura di creta o mista a sterco. Ma le antesignane delle moderne arnie a favi mobili, sono state quelle greche costituite da cesti rovesciati verso l’alto, contenenti legnetti e ricoperti di pietre o corteccia.
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In tale caso, le api costruivano i favi appesi ai legni mobili posti superiormente e la sfasatura delle pareti, analoga a quella naturale dei favi, non provocava la saldatura di queste ultime, che è tipica, invece, dei bugni villici. L’uso e l’allevamento delle api sono pratiche molto antiche che risalgono alla cultura egizia, per passare poi a quella greca e romana, che inserì il miele nella propria alimentazione, codificandone l’uso in gastronomia. L’utilizzo del miele è citato anche nelle religioni ebraiche e musulmane. Ma è l’Ottocento che segna una svolta nel campo dell’apicoltura, con l’adozione della moderna arnia a favi mobili, dello smielatore centrifugo e dei fogli cerei. Dopo aver aperto una ad una le sue arnie, controllato sia le condizioni dell’ape regina di ognuna di esse sia la quantità di miele presente in ogni favo e prima di prelevare quelli da sottoporre a smielatura in laboratorio, Alex ci spiega il funzionamento gerarchico di una colonia di api e le fasi della loro produzione, accompagnato dal ronzio delle nostre amiche e a qualche atterraggio di fortuna sugli obiettivi delle nostre macchine fotografiche.
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Rita Russo hotography Giroinfoto Magazine nr. 71
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La gerarchia di una famiglia d’api ha il suo vertice in una sola regina (unica femmina fertile dell’alveare), dall’addome più lungo di quello delle altre, cui seguono a cascata le api operaie (femmine sterili), un piccolo numero di fuchi (maschi) e la covata (larve). Per potersi riprodurre e sopravvivere, una colonia d’api cerca di accumulare, durante la stagione migliore, il quantitativo massimo possibile di provviste per poter fronteggiare l’inverno.
La regina resterà, così, feconda per l’intero periodo di vita che durerà da quattro a cinque anni. Da ogni uovo fecondato nascerà un’ape operaia; mentre da un uovo non fecondato nascerà un fuco. Quando la regina vergine, per qualche specifico motivo, come ad esempio il maltempo, non ha la possibilità di fare il volo nuziale uscendo dall’alveare, inizierà a deporre ugualmente le uova, ma solo quelle non fecondate, decretando così la fine della famiglia.
La popolazione della colonia varia secondo l’avvicendarsi delle stagioni. Essa è più numerosa nei periodi in cui abbondano le risorse naturali allo scopo di poter fare un maggiore raccolto (dai 30.000 ai 70.000 individui), per scendere fino a circa 6000 individui nei periodi invernali, al fine di ridurre al minimo il consumo delle provviste. La popolazione non può scendere, però, al di sotto di un certo limite che è quello necessario a garantire il mantenimento della temperatura all’interno dell’arnia ed il rilancio della colonia in primavera.
L’individuazione della regina per un apicoltore risulta facilitata da una particolare marcatura che spesso viene praticata sul dorso di quest’ultima, il cui colore viene scelto in base all’anno di nascita, dato importante per stabilirne l’età esatta e prevenire eventuali sciamature, che normalmente avvengono quando una regina è troppo anziana per la colonia. Si verifica così un abbandono dell’alveare dell’anziana regina insieme ad un nutrito numero di api operaie.
L’ape regina può nascere naturalmente da un uovo fecondato, identico a quello da cui nasce un’ape operaia, la cui larva viene, però, nutrita esclusivamente a pappa reale o può provenire da un allevamento apposito ed essere inserita nella colonia dall’apicoltore stesso. In natura, essa si sviluppa in una cella, la cella reale, appositamente costruita, più grande delle ordinarie celle dell'alveare e orientata verticalmente anziché orizzontalmente. La regina vergine, dopo venti giorni dalla sua nascita, esce fuori dall’alveare per intraprendere il volo nuziale, uno solo in tutta la vita, durante il quale si accoppia con diversi fuchi, finché il ricettacolo seminale di cui è dotata non è pieno. La fecondazione avverrà in un secondo momento, quando ogni uovo che uscirà dall’addome della regina sarà fecondato da uno degli spermatozoi, raccolti e conservati nel suddetto ricettacolo seminale. Mentre i fuchi termineranno il loro ciclo di vita subito dopo l’accoppiamento.
Dopo aver controllato le dimensioni delle celle, la regina, ben protetta dalle sue operaie, depone un uovo fecondato (ape femmina) in una cella di dimensioni normali, mentre un uovo non fecondato (fuco) in una cella più grande. Nei periodi migliori, la regina può deporre anche 2000 uova al giorno. Dopo tre giorni dalla sua deposizione, l’uovo si schiude e ne nasce una larva, che viene alimentata dalle nutrici, per i primi tre giorni con pappa reale, liquido secreto dalle loro ghiandole faringee e poi con polline e miele. Al decimo giorno, la larva ha completato la sua crescita e le api operaie provvedono a “opercolare” la cella, ossia a chiuderla con la cera. Al dodicesimo giorno la pelle della larva si rompe scoprendo la “pupa”. All'interno di essa, i tessuti della larva si trasformano in ape che sarà definitivamente formata dopo tre settimane.
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Durante il periodo di maggiore produzione, le api operaie assumono compiti specifici in funzione della loro età. Esse, infatti, per i primi tre giorni hanno funzione di spazzine, si dedicano così alla pulizia delle celle e le rivestono di propoli. Dal 4° al 10° giorno divengono nutrici, preparando prima le celle che accoglieranno le uova e successivamente nutrendo le giovani larve con la pappa reale secreta dalle loro stesse ghiandole. Alla fine di questo periodo, potranno iniziare a fare i loro primi voli intorno all’alveare. Dall’11° al 16° giorno divengono costruttrici o ceraiole. Infatti, dopo l’atrofizzazione delle ghiandole faringee, si ha lo sviluppo di quelle sericipere (produttrici di cera). Pertanto, queste api contribuiscono all’ampliamento dei favi, alla pulizia e alla regolazione termica dell’alveare (agitando le ali da ferme), alla sua protezione contro i predatori, come le vespe e i ladri, come le api che provengono da altri alveari.
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Dal 16° al 20° giorno, divengono becchine e si occupano di portare via dall’alveare le api morte. Dal 21° giorno e fino alla fine della loro vita diventano bottinatrici. Esse vanno in giro per la campagna, fino ad una distanza massima di 3 km dall’alveare per approvvigionare quest’ultimo di nettare, melata, polline, propoli e acqua. Il loro ciclo di vita si completa in genere per sfinimento durante un ultimo giro di bottinaggio. Alla fine dell’estate o all’inizio dell’autunno nascono delle operaie che vivranno da 5 a 6 mesi, dal corpo ricco di acidi grassi. Il loro lavoro consisterà nel proteggere la regina, mantenere costante la temperatura dell’alveare e preparare l’arrivo delle nuove generazioni.
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Per differenziare la produzione e offrire alla sua clientela un’ampia varietà di miele, migliorandone di volta in volta la qualità, ogni anno durante il periodo produttivo, Alex adotta la tecnica della transumanza, spostando gruppi di arnie da una campagna all’altra, tra le provincie di Palermo, Agrigento e Trapani, alla ricerca di piante nettarifere spesso unifloreali. Gli spostamenti avvengono caricando di notte le arnie e scaricandole all’alba nel posto prescelto.
dell’azienda, della quale si occupa generalmente la moglie Angela, ossia quella dell’estrazione e del confezionamento del prodotto per la sua commercializzazione.
Il miele, infatti, è prodotto dall’ape sulla base di sostanze zuccherine che essa raccoglie in natura. Queste sono date dal nettare, prodotto dalle piante da fiore e dalla melata, che è prodotta da alcuni insetti che suggono la linfa degli alberi e la trasformano in un liquido ricco di zuccheri.
Assistiamo subito all’operazione di disopercolatura delle celle dei favi. Con un apposito attrezzo a forma di forchetta, infatti, Alex procede all’apertura degli alveoli eliminando il sigillo di cera che li chiude. Il prodotto così ottenuto viene depositato in uno specifico contenitore d'acciaio nel quale viene raccolto il residuo di miele misto alla cera. Questa operazione si rende necessaria al fine di agevolare la fuoriuscita del miele quando i favi vengono inseriti nello smielatore centrifugo, operazione immediatamente successiva alla disopercolatura.
La melata viene raccolta dalle api solo quando la quantità di nettare disponibile è bassa. La produzione del miele comincia nel gozzo dell’ape bottinatrice, durante il volo di rientro all’alveare. Il tenore d’acqua del nettare può arrivare fino al 90%. Dunque, quest’ultimo una volta rigurgitato dall’ape, deve essere disidratato per assicurarne la conservazione.
Così, dismessi gli abiti protettivi, raggiungiamo il centro di Alcamo dove, in un locale formato da due vani sito a pian terreno, troviamo tutto l’occorrente per ottenere un prodotto genuino, assolutamente privo di trattamenti chimici.
Per questo le bottinatrici depongono, in strati sottili sulle pareti delle celle, il nettare decomposto dall’enzima presente nel gozzo e le api ventilatrici mantengono all’interno dell’alveare una corrente d’aria costante che provoca l’evaporazione dell’acqua. Quando il quantitativo d’acqua raggiunge una percentuale del 17 - 18% il miele è maturo e viene immagazzinato in altri alveoli che, una volta pieni, vengono opercolati, ossia sigillati con uno strato di cera. Una volta ritirati i melari, il cui prelievo viene effettuato dopo circa 6-7 giorni dal termine della fioritura e comunque quando i 2/3 delle cellette dei favi sono stati opercolati, Alex ci invita a seguirlo al laboratorio, per mostrarci la seconda fase dell’attività
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Una volta inseriti i favi nello smielatore, dopo pochi minuti il miele per effetto della forza centrifuga è già pronto per essere versato nei maturatori, attraverso un fitto filtro che raccoglie le eventuali impurità rimaste. Si tratta di contenitori d’acciaio nei quali il miele viene fatto decantare per circa venti giorni. Prima del suo inserimento nel maturatore, con un particolare tipo di rifrattometro chiamato mielometro, viene controllato il grado di umidità del miele che deve mantenersi tra il 17 e 18%. Se dovesse risultare troppo alto, occorrerebbe procedere alla deumidificazione.
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Il miele, decantato e privato della schiuma, può essere confezionato nei barattoli per la vendita al dettaglio. Tutti i tipi di miele che non subiscono particolari trattamenti industriali o chimici sono soggetti a cristallizzazione, un processo naturale che avviene proprio perché il miele è una soluzione sovrassatura di zuccheri. Il tempo di cristallizzazione è più o meno rapido in funzione della quantità di zuccheri presenti, della temperatura di conservazione, dell’umidità e dell’agitazione della massa e può avvenire dopo poche settimane o anche dopo un anno.
Durante il periodo di decantazione vengono a galla, oltre alle ultime impurità, anche le bolle d’aria inglobate nel miele durante la fase di centrifuga che formano la schiuma.
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+ INFO:
Apicoltura Regina di Sicilia di Angela Camarda Via Ragona 26 – 91011 ALCAMO (TP) www.reginadisicilia.it
Anche il colore del miele varia oltre che in funzione del tipo di nettare dal quale viene prodotto anche dal periodo in cui esso viene depositato. Infatti, i colori più chiari si ritrovano nel miele prodotto all’inizio della stagione che divengono sempre più scuri man mano che ci si avvicina alla fine della produzione. Dopo aver terminato l’operazione di smielatura, Alex ci mostra, nel locale a fianco, la loro ultima produzione già confezionata in vasi di varie grammature, pronti per l’etichettatura e la commercializzazione. Sebbene l’annata 2020 e quella attuale siano risultate scarse a causa della siccità e dei repentini cambiamenti di clima che hanno pesantemente afflitto entrambi gli anni, dimezzando la quantità prodotta in precedenza, la produzione di miele “Regina di Sicilia” non ha perso la sua elevata qualità e soprattutto la sua varietà che spazia tra miele di sulla, agrumi,
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cardo, colza, mandarini, nespolo, eucalipto e millefiori che, alla degustazione, si sono dimostrati davvero all’altezza dei premi ricevuti. Anche se tra i prodotti dell’alveare il miele è quello che prevale, Regina di Sicilia produce anche modeste quantità di polline fresco, pappa reale e propoli. Infine, l’azienda produce anche sciami per impollinazione, dal momento che l’Ape nera è richiesta dai serricoltori per l'impollinazione delle colture protette (angurie, cantalupi, fragole, ecc..) essendo, nella sua rusticità, attiva e funzionale nelle situazioni estreme dei tunnels, nei quali dagli 0° gradi della notte possono seguire i 40° gradi del giorno. Il miele “Regina di Sicilia”, oltre che in alcuni punti vendita di Palermo, Alcamo e Castellammare, è venduto anche on line su www.bottegasicana.com .
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E IL SUO "PRESEPE" A cura di Margherita Sciolti e Erika Luotto
Barbara Tonin Erika Luotto Fabrizio Rossi Giancarlo Nitti Margherita Sciolti Mariangela Boni
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Immerso nelle colline nella parte nord della provincia di Asti, al confine con quella di Torino, incontriamo il comune di Aramengo, un piccolissimo paese di circa 567 abitanti. Nell'intercalare del gergo colloquiale italiano l'espressione andare a ramengo, originariamente forma dialettale della frase andare ramingo, assume il significato di andare in rovina (e perciò non avrebbe nessuna attinenza con Aramengo). Altre fonti legano invece questa espressione proprio al comune astigiano che, nel Medioevo, essendo il comune più periferico del ducato, venne prescelto quale luogo di confino per i "condannati per reati relativi al patrimonio e soprattutto per gli autori fallimentari”. In questo minuscolo comune scopriamo la Scuola Nicola Restauri, che affonda le sue radici in tempi lontani. È Guido Nicola, padre di Anna Rosa, che, insieme alla moglie Maria Rosa, nel 1947 avvia l’attività di restauro ereditando la passione per l'arte e il restauro dal nonno materno, Giovanni Borri, pittore, restauratore ed antiquario a Genova e Torino, sfollato poi ad Aramengo in tempo di guerra.
Torino
Aramengo
Asti
Guido Nicola, figlio di contadini, aveva cominciato a vedere le opere d’arte che portava il nonno materno e ad appassionarsi. Terminata la guerra, il nonno gli diede la possibilità di studiare presso i laboratori di due bravi restauratori: Angelo Abossetti, dal quale apprende soprattutto la pratica nel restauro conservativo ed Ettore Patrito, chimico e restauratore molto all’avanguardia in quegli anni. Mentre il giovane Guido studiava l’arte del restauro, nel tempo libero, perfezionando e sperimentando insieme alla moglie le tecniche del mestiere, per poter mantenere la famiglia si dedicava all’attività di barbiere. Verso la fine degli anni cinquanta il laboratorio di Guido e Maria Rosa riceve le prime commesse da parte delle Sovrintendenze artisticoculturali.
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GUIDO NICOLA Roproduzione da libro: il piccolo grande uomo di Amarengo
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Il primo salone del laboratorio, nel retro della casa, nasce ad Aramengo nel 1968, ampliandosi successivamente nel 1979 e nel 1985 con altri locali. L’interesse per il restauro coinvolge presto anche i figli Gian Luigi e Anna Rosa, che, crescendo circondati da opere d’arte, iniziano giovanissimi ad appassionarsi e a collaborare con i genitori trovando ognuno un proprio spazio all’interno del laboratorio. Ogni componente della famiglia è rimasto travolto da questa passione e ha sviluppato un interesse, specializzandosi ognuno in un diverso settore. Gian Luigi, suo fratello, si orienta verso il restauro conservativo degli affreschi, opere lapidee e in terracotta e nel recupero di reperti archeologici, soprattutto egizi, mentre Anna Rosa, affiancata dalla mamma Maria Rosa, che nel frattempo si era specializzata in carta pergamena e tessuti, acquisisce manualità nel restauro, appunto, delle opere su pergamena, ma trova la sua naturale predisposizione nel restauro integrativo pittorico su dipinti, sculture e affreschi. Nello specifico, la specializzazione di Anna Rosa è la reintegrazione pittorica, di dipinti su tela e su tavola e di affreschi, ovvero l’ultima fase del restauro, quella della ricostruzione delle parti mancanti. Nel 1975 il laboratorio ha già raccolto un buon numero di allievi che vive in famiglia con i Nicola, come si usava nelle botteghe del periodo rinascimentale.
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All’interno del laboratorio si generano quattro ditte artigiane ognuna con una propria specializzazione: quella di Guido, di Gian Luigi, di Anna Rosa, nelle quali i tre titolari lavorano con i rispettivi coniugi, e quella di Giuseppe Chiappino, nipote di Guido. Anna Rosa inizia giovanissima a lavorare presso l’atelier di famiglia e, conseguita la maturità artistica presso il Liceo Artistico Accademia Albertina di Torino, si dedica a tempo pieno al restauro con grande passione ed entusiasmo. Il marito di Anna Rosa, suo compagno al Liceo Artistico, viene anche lui contagiato da questa attività e collabora con la moglie seguendo la parte di diagnostica, raggi X, infrarossi, ultravioletti ed in particolare la pulitura delle opere. Le diverse competenze e professionalità vengono messe a disposizione di una nuova società: la Nicola Restauri, che nasce nel 1988, che è coordinata ancora oggi proprio da Anna Rosa e da suo marito.
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Dal 1979 fino al 1996 Anna Rosa è titolare anche di una ditta artigiana nella quale lavora insieme al marito Nicola Pisano e ad alcuni collaboratori. Nel 1983 consegue a Roma, presso il Centro di Fotoriproduzione e Legatoria, l’Attestato di Abilitazione al restauro di mappe di grande formato e altro materiale cartaceo e pergamenaceo degli Archivi di Stato, il quale le consente di ricevere numerosi affidamenti da parte di vari Comuni per il recupero di documenti e mappe catastali anche di grande formato.
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Negli stessi anni esegue il restauro di importanti opere su tela e su tavola commissionate dalla Sovrintendenza torinese per la Galleria Sabauda. Dal 1988 ad oggi, opera, insieme al fratello Gian Luigi in veste di Direttore Tecnico Responsabile nella Nicola Restauri S.r.l., curando ed effettuando personalmente restauri sia in laboratorio che in cantieri esterni; si occupa della progettazione degli interventi e del coordinamento dei diversi settori d’intervento. Sono diversi i committenti che richiedono l’intervento della Nicola Restauri per ridare vita alle opere d’arte: dalle Soprintendenze ai musei, dalle chiese ai collezionisti privati. Anna Rosa si occupa anche di tutte le pubblicazioni legate all’azienda ed è spesso chiamata a tenere lezioni e conferenze sul restauro e a illustrare i lavori svolti dal laboratorio. È molto apprezzata la sua semplicità e chiarezza di esposizione che, grazie anche al contributo delle presentazioni con supporti mediatici, che lei stessa cura sia nei contenuti che dal punto di vista grafico, rendono il tema di facile comprensione anche a chi non ha competenze tecniche nel settore.
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Barbara Tonin Photography Dal 2015 è Presidente dell’Associazione Eredità Culturale Guido Nicola per il Restauro dedicata, appunto, a suo papà. All’interno del Laboratorio troviamo tutta la raccolta di pigmenti, alcuni anche molto antichi, che vengono utilizzati per riprodurre i colori delle varie opere. Alcuni però non vengono più utilizzati essendo tossici, come ad esempio il bianco di piombo o il giallo di arsenico. Altri invece non si utilizzano perché non sono stabili alla luce, mentre vengono utilizzate tutte le terre che sono molto più stabili. Nel restauro, tutte le tinte e i materiali vengono testati e sottoposti alle prove di invecchiamento. Ci sono anche alcune colorazioni molto difficili da reperire, per esempio il rosso cocciniglia che ormai non viene più prodotto, ma che fino agli anni ‘70 veniva utilizzato per il Punt e Mes, un liquore rosso che era tinto proprio con questo pigmento. Questa tintura veniva realizzata con un insetto molto piccolo che viveva sugli alberi di fico d’india.
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Il laboratorio, inizialmente, comprendeva soltanto la prima sala ed era stato attrezzato per i dipinti di grandi dimensioni, con il carroponte, un transelevatore che permetteva di spostarsi in tutte le direzioni e con un tavolone enorme centrale che consentiva di lavorare su un dipinto molto grande senza calpestarlo.
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Tra le varie opere abbiamo potuto ammirare un grande mappamondo, che proviene dal Museo di Alessandria, arrivato in pessime condizioni ma che, grazie al loro lavoro, è stato perfettamente restaurato. Questo mappamondo, che rappresenta un globo terrestre del 17461748 realizzato da frate Francesco Maria da Vinchio e copiato dai globi del Coronelli, ha la particolarità di non essere stampato ma tutto disegnato a mano.
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Nel secondo salone ci ha mostrato il sipario dipinto del teatro della Rocca Ubaldinesca che arriva da Sassocorvaro nelle Marche. Anna Rosa e i suoi collaboratori hanno fatto diversi interventi anche su tantissimi quadri danneggiati durante il terremoto dell’Aquila, innescando un’operazione di volontariato per salvare queste opere.
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clienti, che a loro volta hanno adottato un’intera opera, sono state restaurate altre 9 opere e stanno raccogliendo i fondi che serviranno per coprire le spese per il restauro di altre tele.
Nel 2002 hanno ricevuto il premio ai salvatori dell’Arte, premio dedicato a Pasquale Rotondi che aveva salvato i maggiori capolavori italiani nella Rocca Ubaldinesca. Dopo il terremoto era stata organizzata in questa sede una mostra delle Madonne ferite dal terremoto con l’invito di partecipare alla raccolta fondi al fine di poter salvare le opere. La Nicola Restauri ha deciso di adottare una tela di Giulio Cesare Bedeschini, in pessime condizioni, che era su un altare della Chiesa di San Francesco da Paola. Il tetto della Chiesa era crollato e la tela è rimasta sotto le macerie per molti mesi e quando hanno ritirato la tela era gravemente danneggiata. Grazie al loro intervento è stata restaurata ed è tornata all’Aquila. Quando si sono resi conto dell’enorme quantità di lavoro che c’era da fare, hanno deciso di proseguire l’iniziativa del Premio Rotondi e la Curia gli ha affidato altre opere, alcune in condizioni pessime. Grazie all’organizzazione di cene, mostre, visite guidate in laboratorio, l’esposizione del presepe e con l’aiuto di alcuni
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E IL SUO "PRESEPE"... Oltre al restauro Anna Rosa è un’inesauribile concentrato di passioni artistiche: la sua passione più grande è quella di lavorare al Suo Presepe, che per lei è come un gioco. Sin da piccola ha sempre dimostrato una grande propensione alla creatività e al disegno. La passione per il presepe è iniziata per caso: quando sua figlia era piccola, Anna Rosa ha iniziato a realizzare le varie parti costruendo lei stessa le statuine per far giocare la figlia.
Margherita Sciolti Photography Dopo il terremoto dell’Aquila, per la prima volta, Anna Rosa ha iniziato a dare uno scopo alle sue creazioni: trovare il modo di sensibilizzare le persone, organizzando una mostra di due pittori e allestendo al centro il suo presepe e realizzando un calendario raccogliendo, con le offerte ricevute, dei fondi per il restauro delle opere danneggiate. A questo evento hanno partecipato diversi personaggi, tra cui l’Associazione La Cabalesta di Castelnuovo Don Bosco, che gestisce insieme all’Associazione InCollina, l’apertura dell’Abbazia di Vezzolano. Questa Associazione ha apprezzato moltissimo le sue creazioni e ha deciso di esporre il Presepe nell’Abbazia di
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Vezzolano per la prima volta nel 2012, attirando migliaia di visitatori. Da allora, ogni anno, il suo presepe viene allestito ed esposto nel periodo natalizio all'Abbazia di Vezzolano e attira sempre più persone (l’ultima esposizione del 2019 ha attirato circa 10.200 visite) e le offerte raccolte hanno permesso negli anni di salvare alcune opere d’arte in gravi condizioni danneggiate dal sisma del 2009 a L’Aquila.
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IIn quell’occasione però ci furono anche delle visite “non gradite”, ovvero dei topi che hanno mangiato l’impianto elettrico e diversi pezzi del presepe realizzati in fimo. I visitatori però erano talmente entusiasti e vogliosi di ritornare a vederlo, tanto da spingere Anna Rosa a continuare ad ampliare la sua opera. Anna Rosa iniziò allora a cercare dei materiali che non fossero così appetibili per i topi. Facendo delle ricerche e prendendo spunto dai presepi partenopei, ha iniziato a prendere confidenza con la tecnica della ceroplastica per realizzare le sue miniature: la stessa cera e la stessa tecnica utilizzata per i presepi napoletani ma il suo non ha nulla a che vedere con quelli campani in quanto non rispetta né lo stile né l’epoca, ma si tratta di un intero paese realizzato con questa tecnica. È un presepe senza epoca e senza stagioni precise, con atmosfere poetiche che raccontano storie ed emozioni
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attraverso gli atteggiamenti e le espressioni dei personaggi, uno diverso dall'altro, realizzati in miniature grandi anche pochi millimetri ma incredibilmente realistiche. Per questo motivo forse non è corretto definirlo “presepe”. Anna Rosa ha iniziato a modellare i suoi personaggi e le botteghe ispirandosi a ricordi legati alla sua vita e al suo lavoro, cercando di rendere realistiche le botteghe artigiane e le bancarelle, curando nei dettagli ogni particolare. Il tutto realizzato di getto utilizzando pasta da modellare o cera, legno, filo di ferro, ritagli di stoffa e altri materiali poveri e di recupero, con un’incredibile dovizia di particolari, riproducendo la vita artigiana e contadina di un tempo passato, ricreando botteghe e scorci di paesaggi ispirati al Monferrato con una minuziosità e una precisione indescrivibili. Tutte le sue creazioni sono un concentrato di precisione ricche di dettagli tanto da avere un’anima.
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Nulla nel suo presepe è dipinto, il colore è ricavato proprio dalla pasta della cera. Per esempio per creare un pezzo di carne o di prosciutto utilizza della cera bianca e della cera rossa. Da internet prende spunto per i dettagli e grazie al mix di colori riesce a ricreare perfettamente il muscolo e le venature della carne. In questo modo anche tagliandolo a fette, il pezzo continuerà ad avere le caratteristiche reali della carne o del prosciutto. Per realizzare i salumi, assembla tutti i pezzi di cera, immergendoli in altra cera marroncina per ricreare la pelle del salame, successivamente li lega proprio come un vero salumaio e per dare l’effetto della muffa, li cosparge con della cenere. Per essere il più precisa e realistica ha studiato da un macellaio la tecnica dei vari passaggi per lavorare i salumi. I pesci vengono realizzati con cera d’api, paraffina e carnauba sciolta a bagnomaria, colorata con i pigmenti e modellata a caldo.
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Per dare gli effetti lucidi e delle sfumature li immerge in un bagno di resina. Una delle sue ultime creazioni, nate durante il periodo del lockdown, è la bottega dei dolci: un lavoro enorme con cui ha realizzato tutte le caramelle, le liquirizie, le confezioni e i pacchetti con i materiali originali di quelle vere riutilizzando per esempio la carta di una caramella ritagliata in piccoli pezzi e riempita con un po' di cera. Le liquirizie invece sono state realizzate utilizzando un filo elettrico. Tra tutte le sue creazioni troviamo anche la miniatura di Anna Rosa, una sorta di autoritratto, all’interno di una bottega che rappresenta il laboratorio della “Presepara”, mentre in un’altra bottega, su tre piani, ha ricreato il laboratorio da cui ha avuto inizio l’attività: al piano inferiore si può vedere la bottega del barbiere dove lavorava suo papà, in mezzo la casa dove è cresciuta Anna Rosa, con la miniatura di sua mamma e lei da piccola e al piano superiore il laboratorio.
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Tra le nuove realizzazioni, che non sono ancora state esposte a Vezzolano, c’è il banco dei dolciumi e delle caramelle, il frantoio in cui tutte le olive sono state realizzate una per una e la riproduzione di un cortile contadino dove, nel periodo estivo, le famiglie si riunivano per spannocchiare il granoturco, che veniva considerato come un momento di festa. Uno dei suoi pezzi forti è la macchina del verderame minuziosamente riprodotta, così come la paglia creata con la posidonia, una pianta acquatica trattata in candeggina e trasformata per renderla il più possibile realistica. Una delle novità nelle miniature da lei realizzate sono delle rappresentazioni di nature morte che verranno esposte, sempre al fine di raccogliere fondi per restaurare le opere, in una mostra denominata “Minia Natura”. In questa mostra potremo ammirare rappresentazioni perfette di frutta e verdura, dal banco del contadino al mercato a piatti di frutta e cibi vari riprodotti nei minimi dettagli. Anna Rosa ha ammesso che alcuni pezzi l’hanno messa decisamente in difficoltà ma, alla fine, ingegnandosi e
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riprovando a oltranza, è riuscita a realizzare la miniatura nel migliore dei modi. Un esempio è quello del polpo che le ha procurato non poche difficoltà nel riuscire a ricreare il colore violetto in tutte le sue sfumature e nel riuscire ad attaccare tutte le ventose. Molte persone sono interessate all’acquisto dei suoi meravigliosi pezzi ma Anna Rosa non vuole staccarsi dal suo tesoro anche perché sa quanto impegno e quanta fatica ci vogliono per realizzare ogni singolo particolare. Le sue realizzazioni sono infatti create solo nei suoi ritagli di tempo sfruttando ogni attimo libero dalla mattina presto, alla sera tardi o addirittura la notte e nelle sue pause pranzo. Tutta la composizione del suo presepe è descritta nella sua pubblicazione Introduzione al presepe. Anna Rosa con il suo carisma e la sua semplicità ci ha accompagnato in un viaggio affascinante permettendoci di entrare nel suo mondo magico che ci ha portato indietro nel tempo facendoci immedesimare in momenti di vita contadina che finora avevamo solo sentito nei racconti dei nostri nonni.
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Autore: Raimondo Enrico Bagnoli (NA) Giroinfoto Magazine nr. 71
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Le prime luci della sera Autore: Giuliano Innocenti Porto Canale - Cesenatico Giroinfoto Magazine nr. 71
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Scalatori a Torino
Autore: Monica Pastore Maurizio Puato posiziona l’installazione floreale degli artisti Ferrero e Giammello sul monumento ai caduti del Frejus. Giroinfoto Magazine nr. 71
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ARRIVEDERCI AL PROSSIMO NUMERO in uscita il 20 ottobre 2021
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APPASSIONATI A NOI
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CRE T TO DI BURRI Giancarlo Nitti
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