N. 72 - 2021 | OTTOBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.72 - OTTOBRE 2021
www.giroinfoto.com
GENOVA JEANS Band of Giroinfoto DISNEY MUDEC MILANO Band of Giroinfoto
X° FIERA MONDIALE DEL PEPERONCINO Band of Giroinfoto
MUSEO DEI 5 SENSI SCIACCA Band of Giroinfoto Photo cover by Monica Gotta
WEL COME
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LA REDAZIONE
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GIROINFOTO MAGAZINE
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Benvenuti nel mondo di
Giroinfoto magazine
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.
Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.
Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.
Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.
Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.
Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.
Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
Giroinfoto Magazine nr. 72
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11/2015 Giroifoto è
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Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
Attività
Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
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Promozione
Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI
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ANNO VII n. 72
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20 Ottobre 2021 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
giroinfoto TV LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.
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CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.
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GENOVA JEANS
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I N D E X
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CIVITA BAGNOREGIO
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LAGO DEI CAMOSCI
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DISNEY MUDEC
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GENOVA Jeans Band of Giroinfoto CIVITA DI BAGNOREGIO La città che muore A cura di Adriana Oberto LAGO DEI CAMOSCI Evento in natura Band of Giroinfoto
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DISNEY MUDEC MILANO If you can dream it, you can do! Band of Giroinfoto
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V BIENNALE FOTO/INDUSTRIA 2021 Food Mast
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X° FIERA MONDIALE DEL PEPERONCINO
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PAVESE FESTIVAL 2021 Band of Giroinfoto
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PAVESE FESTIVAL
VILLA ADRIANA Tivoli A cura di Rossella Falcone
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SCIACCA Museo diffuso dei cinque sensi Band of Giroinfoto
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FOTOEMOZIONI Maria Grazia Castiglione Manuela Albanese Michele Sodi
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106 VILLA ADRIANA
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GENOVA JEANS
A cura di Monica Gotta
LA BLUE LINE GENOVESE La conferenza stampa del 2 settembre 2021 dà il via a Genova Jeans. In apertura viene proiettato il video di Jack Favoretti che ripercorrere la storia del jeans, capo iconico nel mondo con un forte legame con la città di Genova. A partire dai teli di lino e cotone tinti con l’indaco (1540), si passa alla visione “green” del futuro, all’ecosostenibilità, per arrivare all’ingresso del jeans nel mondo della moda quando diventa immagine delle giovani generazioni. Il video termina con uno sguardo al passato: siamo nel 1860, sullo scoglio di Quarto, dove un violinista vestito da garibaldino onora la Spedizione dei Mille che partirono per unire l’Italia con i jeans e la camicia rossa. Così si inizia a tracciare la storia del jeans con gli interventi di molti personaggi istituzionali che hanno contribuito a dare vita a Genova Jeans.
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Dario Trufe lli Federico F igari Isabella N evoso Monica Go tta Silvia Barb ero Stefano Z ec Tiziana Bu glione
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GENOVA JEANS
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Federico Figari Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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GENOVA JEANS
Monica Gotta Photography Tra i molti volti di spicco a parlare e introdurre Genova Jeans ci sono il Sindaco di Genova Marco Bucci, l’Assessore Regionale allo Sviluppo Economico Andrea Benveduti, l’ideatrice e presidente del Comitato Promotore di Genova Jeans Manuela Arata, il Presidente dell’Agenzia ICE Carlo Ferro e per ArteJeans Ursula Casamonti. Gli argomenti che spiccano come fil rouge dell’evento sono i seguenti: recuperare la tradizione del jeans, implementare la visibilità della città rivitalizzando l’aspetto commerciale e turistico, migliorare la qualità di vita dei cittadini e la fruibilità del centro storico, dare priorità all’ecosostenibilità, migliorare le condizioni di lavoro e sostenere il settore della moda. L’evento è stato creato con la volontà di recuperare una tradizione genovese: il jeans. Partendo dal presupposto che in passato servisse a coprire le barche e la merce sulle navi - ma questa è solo una delle versioni sulla nascita del jeans - quest’evento donerà visibilità alla città attraverso la valorizzazione di un patrimonio del passato per costruire la visibilità del futuro così come è accaduto con la costruzione e l’apertura del nuovo ponte San Giorgio.
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GENOVA JEANS
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Tiziana Buglione Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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GENOVA JEANS
Stefano Zec Photography
Si diceva fil rouge ma Genova l’ha voluta chiamare Blue Line. Al giorno d’oggi il jeans è usato da tutti, da tutte le culture, a tutte le età, in tutto il mondo. Per questo è veicolo di un messaggio importante volto al futuro: produrre facendo dell’ecosostenibilità una priorità, ma non solo. Produrre con meno acqua, meno coloranti e bio compatibili è una priorità senza dimenticare di migliorare anche le condizioni di lavoro. Altro obiettivo legato all’evento è il recupero delle vie del centro storico e di alcuni palazzi storici sulla Via del Jeans. Il progetto “Carruggi” mira infatti al miglioramento di questa affascinante porzione della città rivitalizzando l’aspetto commerciale, quello turistico e anche la qualità di vita dei cittadini e la fruibilità da parte di chi la vive o semplicemente la visita.
Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
Si tratta di un piano integrato che comprenderà, oltre a quanto sopra, anche interventi fisici quali la riqualificazione di 11 piazze, interventi di manutenzione e innovazione tecnologica. Altro fiore all’occhiello di Genova Jeans sono le mostre tra cui spicca ArteJeans, una collezione di opere donata da artisti che sarà implementata negli anni a seguire. Il progetto comprende anche la volontà di esportare la mostra all'estero, come ad esempio a Londra, negli Stati Uniti, in Svizzera e così via.
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GENOVA JEANS
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Silvia Barbero Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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GENOVA JEANS
Il cotone
è una fibra vegetale uti lizzata fin d una pianta all’antichità chiamata g . Viene prod ossypium h Erodoto racc otto da erbaceum. onta che fu Alessandro dalle terre ch M agno a port e confinano arlo in Occid con l’India. Nei suoi sc ente ritti Erodoto afferma ch di Alessand e l’ammirag ro Magno, N lio della flo earco, appro attualmente tta dato sull’iso chiamata F la di Ikaros ailaka in Ku luogo utiliz – wait – scop zavano ques rì che i resi ta pianta co frutti per pro denti del n dei “ciuffi durre i loro di lana” al p abiti. Siamo osto dei nel V sec. a .C. Tuttavia mo lti ritrovamen ti archeolog cotone era ici dimostra probabilmen no che la fi te utilizzata diversi pop bra di già prima d oli in tutto il el V sec. a. mondo. Il commerci C. da o in Europa di questa p partire dal 1 regiata fibra .100. si intensifica Il cotone arr a iva prevalen temente da Genova e V l mondo ara enezia sono bo e orienta i due magg fibra di coto le. iori porti do ne. ve si importa la A Venezia a rriva dall’Eg itto e dalla A Genova a Siria, le vari rriva dal No età più preg rd Africa, d iate. mediterran alle isole ee, dall’And alusia e anch Puglia e da e dalla lla Calabria .
or oggi
anc ne resta
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i coto a fibra d ll e d mentre a z enien rientale ordv o ro e p . in e a ig n en dell l’or oto Traccia della fibra di c akiou, denota timonia l’origin b s i m te m o o e b n h c o due no grec bo coto gia, dal dall’ara Bamba to a iv r . e ima è de teria pr re anch cotone ella ma d arriva d a a re ia n o iz a tt u afric va in ior prod a Geno il magg ecento ta u n q e in iv C d . dal oco, nitense A partire a che, dopo p . ine statu o di scoprire ic ig e r r n e o i to m d o ess dall’A tone ra di c o perm Uniti, solo co le di fib va hann ne dagli Stati o n mondia ento si importa e G i d to ae o to n c c r li i o o tà d Caro del P Dall’Ott se quali ee e l’altra da i listini r e e n iv d e h Ricerc portate ia e Tenness rg ivano im che ven Louisiana, Geo a ll a d a un . Virginia za aratteriz ’India, c ll a d . te ans nien e del je a prove lorazion signific o e c h c la , r pe um lizzato la indic fera iene uti La paro v e h c e indigo a nte to com o m n ia il colora h to c s si rbu da un a cipio colorante o tt a tr s prin Viene e e il cui tinctoria otina. indig
L'indaco
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Dario Truffelli Photography
Il Metelino è stato oggetto di restauro per ospitare la mostra ArteJeans e diventerà un pezzo del Museo del Jeans. In sostanza questo è un progetto diffuso e in progress che spera anche nell’arrivo di collezionisti che abbiano intenzione di donare i loro pezzi. La Via del Jeans potrebbe offrire, in un futuro poco distante, jeans personalizzati o cuciti in 24 ore data anche la vicinanza di Via Pré al terminal crocieristico che porta circa due milioni di turisti all'anno. Il focus dell’evento è quindi il jeans, uno strumento di lavoro che Genova ha fatto diventare arte e un ulteriore incentivo al turismo che farà di Genova moderna la città che valorizza e affonda le sue radici nel passato. Quest’iniziativa, inserita tra le 70 manifestazioni fieristiche che stanno ripartendo quest’anno, porta l’attenzione sulle risorse pubbliche da impegnare al meglio a sostegno dell’internazionalizzazione e dell’export post Covid-19. Aiutare le imprese a cogliere il momento della ripartenza della domanda e a riposizionarsi rispetto ad alcuni mega trend che caratterizzeranno i mercati internazionali - che sono il digitale e la sostenibilità è uno degli obiettivi del futuro dell’economia. Genova Jeans diventerà la manifestazione internazionale del segmento denim della moda e, insieme alla nautica e al floreale, sarà la terza icona genovese e veicolo di visibilità per la città di Genova. In prospettiva si prevede anche una ricaduta economica su ristoranti, alberghi e attività turistiche e culturali prestando più attenzione al territorio e alle piccole e medie imprese. Per celebrare l’evento la Lanterna, simbolo della Superba, si illuminerà di blu tutte le sere per dare risalto al patrimonio culturale di Genova.
Dario Truffelli Photography
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GENOVA JEANS
"Ora andiamo in strada e osserviamo Genova Jeans dal vivo".
Seguiamo la Blue Line Il percorso inizia nella Biblioteca Universitaria con il racconto delle origini genovesi del jeans grazie a reperti storici e postazioni multimediali. Qui si trovano anche l’infopoint e la biglietteria. Scendendo da Via Balbi verso Via Pré si trovano le vetrine in cui Diesel ha esposto la sua visione del futuro del jeans. A Palazzo Cattaneo Adorno in Via del Campo si trova “DIESEL’s replica of the first jeans ever”. Il percorso si snoda nei vicoli, tra botteghe storiche e showroom che hanno esposto nelle loro vetrine la visione del jeans a Genova. Al Mercato Comunale in Piazza dello Statuto si trova la mostra “Behind the seams. Quanto credi di sapere del tuo jeans?” realizzata in collaborazione con Candiani Denim che ha come obiettivo il risveglio culturale di coloro che compreranno il loro prossimo paio di jeans.
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È un’esibizione interattiva che racconta la produzione del jeans, l’impatto che ha sull’ambiente e le nuove soluzioni sostenibili. Al Museo del Risorgimento, accanto ai jeans dei Garibaldini, è stata esposta l’opera donata dal famoso artista inglese del jeans Ian Berry, “Ritratto di Giuseppe Garibaldi” che rende omaggio all’eroe genovese. Sulla strada del jeans si trova anche una postazione di upcycling aperta da uno dei partner tecnici, Green Chic che raccoglie capi in tessuto jeans usati. Nel Sottoporticato di Palazzo Ducale si trova “DIESEL’s denim heritage. A walking in its archive” dedicata ai pezzi iconici dell’archivio privato dell’azienda, usciti per la prima volta dalla celebre fabbrica. Poco distante si trova il Museo Diocesano dove si possono ammirare i “Teli della Passione”, tessuti tinti con l’indaco, progenitori del jeans.
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Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Isabella Nevoso Photography
Ultima tappa del percorso è il Metelino, sede della mostra “ArteJeans, un mito nelle trame dell’Arte contemporanea”. Qui sono raccolte 36 opere donate alla città da artisti contemporanei di livello internazionale. Il progetto ArteJeans ha lo scopo di unire l’arte contemporanea con il jeans traslando l’arte sulla tela jeans, idea piuttosto innovativa. Per la realizzazione delle opere esposte al Metelino, Candiani ha offerto agli artisti dei teli jeans da interpretare artisticamente. La prima esposizione si è tenuta a Villa Croce lo scorso anno, purtroppo oscurata dalle misure restrittive della pandemia.
La sfida è stata montare una mostra di artisti di tutte le età provenienti da arti diverse come la plastica, la scultura o la pittura.
Piazza del Campo e i Truogoli di Santa Brigida hanno invece ospitato spettacoli di vario genere, dalla street dance alla musica.
Le conferenze a tema jeans sono state parte del programma della manifestazione, raccontando la storia di questo iconico capo di abbigliamento dalle origini sino ai giorni nostri affrontando anche il tema della produzione ecosostenibile.
Dario Truffelli Photography
Dario Truffelli Photography
Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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GENOVA JEANS
È tutta una
questione d
i acqua
Conoscend o ora la sto ria del jean marinai e n s, che era st on per i cow ato creato p boy, si evid questo tess er i enzia lo stre uto ha con tto rapporto l'a cq Per creare u ua. che n paio di jea ns possono litri d’acqua es e questo ha sere neces sari fino a 2 inevitabilm 0.000 ente un imp atto ecolog Pertanto si ico. può facilmen te compren massa di je dere quanto ans sia noci la produzio va per l'amb delle sosta ne di iente in part nze chimich icolar modo e dannose nelle riserv per via rilasciate d e idriche ci al processo rcostanti. Oltre a ciò il di tintura tessuto rive stito in PVA microplastic ri lascia grad he ogni volt ualmente fi a che viene Per questo bre e lavato. le troviamo negli ocean profondità i, nelle acqu e in superfi e costiere, cie. Il cibo che m in angiamo e l’acqua che microplastic b ev he. iamo contien e le
Siamo nello showroom di Via Pré 100. Uno dei soci racconta la storia dell’azienda e dello spazio visitabile durante Genova Jeans. Sono tre i soci di Doria e Dojola, due italiani e uno austriaco. Due di loro sono per metà genovesi, un Raineri della Croce di Dojola e l’altro è Francesco Doria Lamba. Il terzo socio, austriaco, si chiama Johannes Schullin motivo per il quale l’azienda ha anche una sede in Austria. Il logo dell’azienda nasce un pò per scherzo riprendendo lo storico logo di Levi Strauss sul quale due cavalli tirano un pantalone jeans che non si strappa (The Two Horse Brand). Rappresenta la resistenza del capo fatto per i cowboy anche se, in realtà, prima era stato fatto per i marinai. Per questo motivo il cavallo è stato sostituito con una nave del periodo intorno al 1500. Lo spazio è diviso in due parti: uno per raccontare la storia dell’azienda, uno per raccontare la sostenibilità che include la storia di questa prima edizione di Genova Jeans. Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Isabella Nevoso Photography In azienda c’è la storia di Francesco Doria Lamba che, riscoprendo il proprio passato e andando a studiarlo ha scoperto l’esistenza di una tintoria Doria nel 1583 a una ventina di metri dall’attuale showroom. Una storia abbastanza incredibile, stupefacente e inaspettata che lega indissolubilmente l’odierna realtà con un passato antico legato a Genova. La seconda parte racconta la sostenibilità con i teli Candiani. Candiani è un produttore italiano di tessuti jeans e teli jeans che lavora con i grandi marchi e anche con piccole aziende, quindi con Diesel ma anche con Doria e Dojola. Questi teli escono da macchinari non di ultima generazione, macchinari che ancora facevano il tessuto con la navetta e quindi escono a tutta altezza, a 80 cm con la cimosa. Ciò si traduce in “non ci sono sprechi”. Per i loro prodotti in denim Doria e Dojola utilizzano questo tipo di tessuti e pertanto evitano di avere sprechi. Inoltre, ed è poi la cosa più importante, questi tessuti sono fatti con una tecnologia che si chiama COREVA, una tecnologia che ha brevettato Candiani circa un anno fa. Significa che sono 100% biocompostabili quindi, in determinate condizioni, si sciolgono completamente e non inquinano. Uno
dei problemi che attanagliano il mondo è l’enorme sovraproduzione, nel food, nella moda e naturalmente anche in altri settori. Uno degli obiettivi da perseguire è ridurre le produzioni per evitare che i prodotti rimangano per secoli nell’ambiente.
IANI
I CAND COREVA D
ta? o ciclo di vi la fine del su al te si an pi li, per le in coriando fertilizzante ans ridotto s diventare si può. Il Je gi og A Può un jean EV COR st. tecnologia nta compo Grazie alla 6 mesi, dive di ro gi l della ne e, ssuti prima biodegrada nforzare i te ri r pe o at utilizz ive: il PVA, olio. imiche catt iche buone. base di petr a o ic Sostanze ch et stanze chim nt si so e o er ch an lim un po e si sono tessitura, è ia te sapere ch a tecnolog è importan hé rc pe co . Kitotex, un A Ec V P al e e. e algh una soluzion to da funghi ha trovato turale deriva tura privo a Candiani na tin rc o er di ce ri lim so di Il team un proces ilizza un po re ut i, za iz an al di re di energia an da C consente di il consumo brevettata egradabile o al -50% e od fin bi a o qu er ac o di Questo polim l ce il consum tiche e ridu izzazione de di microplas tono la real en ns co A . rale COREV fino al -30% he. izzato natu ato elastic microplastic fil il e x 10 te al 0% di o iv Il Kito pr to za i. m elasticiz di Candian primo deni EASY-FADE ra tu riduzione a tin un di ia nsentendo a tecnolog co o ov at nu fil l la è ICE lavarlo perficiale su INDINGO JU arie per de l’indaco su iche necess mantenere im di ch te ze et an m Per ici. gia e sost -68% di chim acqua, ener superficie. di acqua e drastica di ondità e in 4% of -8 i pr nd in , ui Q re . ie te st en co m e va qu successi , nelle ac ntiene le beviamo co negli oceani l’acqua che le troviamo e o am gi man Il cibo che he. microplastic i! A voi i cont
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Dario Truffelli Photography
Una parte dello showroom è dedicata al problema degli oceani visto che siamo proprio di fronte al mare, oceani che sono pieni di plastiche sciolte oppure non ancora sciolte e comunque pieni di additivi chimici. Ne scaturisce una triste verità: purtroppo ognuno di noi introduce nel proprio organismo il corrispettivo di una carta di credito di plastica a settimana, sostanzialmente sono circa in media 5 grammi a settimana e fino a 20 kg nella vita. Nelle lavorazioni del tessuto gli additivi sono sempre quasi sempre chimici mentre questo tessuto usa additivi che derivano da materiali animali, da carapace o da vegetali. Solo da pochi anni l’umanità ha capito che bisognerebbe fare più attenzione a queste criticità anche se il fare qualcosa per ora è molto poco. Se ne parla molto ma questo è ovviamente un percorso obbligato per migliorare e ridurre l’impatto sull’ambiente tenendo presente che il solo fatto di produrre ha un impatto sull'ambiente. L’azienda produce anche prodotti in cashmere, seta e lana spesso in abbinamento alla tela jeans ma non necessariamente. Giroinfoto Magazine nr. 72
Per Doria e Dojola il jeans è una parte molto importante della produzione, intanto perché di origine genovese e per lo standing diverso, più giovane che dona all’azienda.
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Gino Repetto è uno dei fondatori di InJeans e gestisce l’attività in Via Pré a Genova. InJeans nasce per volontà di un gruppo di amici, un’attività non è sul jeans ma per il jeans, dopo decine di anni che a Genova non c'era più una produzione di jeans.
la pelletteria Flavio del Carmine che ha prodotto delle borse con inserti in jeans e l’artista Simon Clavière-Schiele, l’anima creativa di quest’avventura, esporrà a Palazzo Bianco (da settembre fino a fine gennaio 2022) una sua opera sul jeans all’interno di una mostra sull’arte del ricamo.
Siccome i jeans sono stati inventati a Genova i soci hanno cercato e trovato un partner tecnico individuato in Rosso35Silky che produce jeans a Carignano. Sono ispirati e fatti con il tessuto che si utilizzava nel Cinquecento, ossia un misto di lino e cotone.
Quest’opera rappresenta l’allegoria della lotta tra Nimes e Genova sulla paternità del jeans. Quindi denim si rifà a Nimes e jeans oramai sappiamo tutti che proviene da Genova.
È tessuto molto leggero, fresco e diverso dai jeans che siamo abituati a comprare oggi. Levi’s l’ha fatto diventare più strutturato proprio come lo conosciamo oggi anche per un discorso di resistenza, di rivetti e di brevetto. L’attività della start-up mira a riscoprire le origini del jeans e rifarlo come nacque in passato. InJeans ha collaborato con
Sul foulard disegnato da Clavière si vedono il coccodrillo – simbolo di Nimes - e il grifone – simbolo di Genova - che si contendono la paternità del jeans. Poi ci sono gli altri simboli legati al jeans come il cotone, l’indaco, le Indie e San Francisco, sede della Levi Strauss. Da qui nasce la serie di foulard di InJeans in diversi colori e dimensioni.
Isabella Nevoso Photography
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GENOVA JEANS
Monica Gotta Photography
ArteJeans è un progetto nato a Londra da un’idea di Francesca Centurione Scotto Boschieri (ambasciatrice di Genova nel mondo) e di Ursula Casamonti (Tornabuoni Arte). Il comitato critico, composto da Ilaria Bignotti, Luciano Caprile e Laura Garbarino, ha invitato degli artisti di arte contemporanea a interpretare una tela di jeans Candiani di due metri per un metro e ottanta seguendo la loro creatività. C’è chi l’ha voluta elaborare un po' di più con intagli, chi ha voluto impreziosirla con dei ricami oppure delle rielaborazioni tridimensionali. Tutti, nonostante il loro diverso
background artistico e il loro stile, hanno incluso la loro ispirazione nelle opere che ora si vedono esposte al Metelino. Ne è nata una rete concettuale di idee e ispirazioni diverse ma interconnesse tra loro con un forte legame al concetto del mare, del lavoro e della realtà di Genova.
cardine per il Museo diffuso del Jeans, uno spazio ristrutturato ma molto rough (grezzo), simile a uno spazio post industriale e underground che ben si adatta a queste opere.
La mostra è nata originariamente a ottobre 2020 con una prima edizione più contenuta a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. A partire dall’anno scorso sono quindi state collezionate delle opere di artisti di fama internazionale e di generazioni diverse che sono il primo nucleo di opere che si spera possa diventare il
Stefano Zec Photography
Dario Truffelli Photography
Dario Truffelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Il Fil Bleu è sicuramente l’omaggio a Genova in quanto le opere sono state donate dagli artisti stessi e, nel corso di quest’anno, si sono aggiunti altri 11 artisti. L’incontro al Metelino con Francesca Centurione Scotto Boschieri è stato di grande interesse. Dalle sue parole si evince quanta passione sia stata infusa nella creazione di questa mostra e del futuro Museo del Jeans. È stato un grande sforzo che ha ripagato pienamente l’impegno che ha portato alla realizzazione di questo progetto ambizioso e unico nel suo genere. Tra le opere esposte, nello spazio aperto del Metelino, spicca Tréssa, un’installazione site-specific. Quest’opera è stata realizzata da un gruppo di trenta studenti seguiti dall’artista Francesca Pasquali durante un workshop. Si tratta di trenta liane lunghe circa 14 metri ottenute annodando scarti di jeans. Anche in quest’installazione c’è il richiamo a Genova, ai nodi marinari a pazienti rattoppi di vele, un richiamo all’essenza della Superba. Il workshop continuerà a Londra congiungendo nuovamente un filo ai cui capi si trovano due antiche potenze marinare.
Queste opere custodiscono nella loro essenza un messaggio, che sia diretto alla città che accoglie la mostra oppure a concetti che uniscono l’arte al quotidiano. Ma questi artisti non sono stati i primi ad utilizzare il jeans per un’opera d’arte! Il passato si connette inevitabilmente con il presente. L’edificio del Metelino rappresenta infatti la connessione simbolica tra la Darsena, dove il jeans veniva immagazzinato prima di essere caricato nelle stive delle navi, e il centro storico. L’auspicio è quello di far crescere il Museo del Jeans di anno in anno in modo che ogni edizione porti nuovi contributi e donazioni che saranno esposte in diverse location lungo la Via del Jeans. Questo sarà il futuro!
GLI ARTISTI Simone Berti, Alberto Biasi, Tomaso Binga, Henrik Blomqvist, Enzo Cacciola, Pierluigi Calignano, Letizia Cariello, Roberto Coda Zabetta, Maurizio Donzelli, Ulrich Egger, Giovanni Gaggia, Goldschmied&Chiari, Riccardo Guarneri, Emilio Isgrò, Ugo La Pietra, Marco Lodola e Giovanna Fra, Claudia Losi, Carolina Mazzolari, Ugo Nespolo, Giovanni Ozzola, Valentina Palazzari, Gioni David Parra, Francesca Pasquali, Gabriele Picco, Pino Pinelli, Fabrizio Plessi, Gianni Politi, Laura Renna, Marta Spagnoli, Vedovamazzei, Serena Vestrucci, Cesare Viel, Gianfranco Zappettini.
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Civita di Bagnoregio è una bellissima e antichissima cittadina del Lazio, nella Tuscia viterbese, un luogo straordinario, ma delicato. Abitata da poco più di una decina di persone proprio a causa della fragilità del luogo, rimane viva grazie ai turisti, che ne animano le vie.
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Civita si trova al centro della Valle dei Calanchi. È circondata da due valli – La Valle del rio Torbido e la valle del rio Chiaro – che un tempo costituivano la via di accesso. Queste, dalla valle del Tevere, portavano fino al lago di Bolsena.
I calanchi sono una forma erosiva caratterizzata da piccole valli e sottili creste. Sono privi di vegetazione; il terreno argilloso è impermeabile, il che riduce l'infiltrazione e favorisce il deflusso superficiale dell’acqua, che dilava lo strato superficiale alterato.
Si tratta di un territorio argilloso, formatosi in tempi antichi quando il mare si è ritirato. Questo strato è soggetto a forte erosione, causata degli agenti atmosferici, dai torrenti, nonché dal disboscamento.
L’erosione che ha formato i calanchi che, in quanto tali, sono in continua evoluzione, unita a frequenti frane e all’azione di terremoti, è stata la causa, nei secoli, delle criticità dell’abitato di Civita, della sua parziale distruzione, nonché dell’abbandono da parte degli abitanti, che si sono trasferiti nella vicina Bagnoregio.
Al di sopra se ne trova un altro – tufaceo e lavico – che è più duro e resistente, ma che diventa oggetto di frane a causa del terreno sottostante.
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Civita di Bagnoregio ha origini antichissime. Fu proprio la presenza di acqua in abbondanza ad attirare l’uomo, quella stessa acqua che causa l’erosione del territorio circostante. I primi insediamenti della zona risalgono al periodo Villanoviano (IX-VII sec. a.C.). La fondazione della città, di cui non si conosce il nome, risale a circa 2500 anni fa per mano degli Etruschi. Il luogo era in posizione strategica per il commercio, perché vicina alle più importanti vie di comunicazione del tempo. Inoltre era vicina alla foce del Tevere, anch’esso grande via di navigazione dell’Italia centrale. Del periodo etrusco rimane il “Bucaione”, un profondo tunnel scavato nella roccia che, dalla città, porta alla valle dei calanchi. Erano inoltre presenti, in passato, numerose tombe di origine etrusca poste alla base della città o sulle pendici della parete di tufo; queste sono però ormai scomparse sotto una delle innumerevoli frane che hanno coinvolto la zona. E infatti già gli Etruschi si trovarono a far fronte a smottamenti
Il Medioevo portò periodi di pace alternati ad altri più tristi, come quello legato alla dominazione dei Monaldeschi della Cervara, già signori di Orvieto, che furono cacciati dalla popolazione. Essi infatti avevano tentato di stabilire un certo controllo sulla città con il fine di mantenere un presidio guelfo contro i ghibellini di Viterbo; tale controllo si tramutò in effettivo dominio: nel 1457, a seguito della loro oppressione in campo amministrativo e fiscale, gli abitanti si ribellarono e distrussero il castello della Cervara, dal quale i Monaldeschi esercitavano il loro potere. La città divenne in seguito libero comune per un breve periodo nel XII sec., per poi finire sotto il dominio della Santa Sede. Purtroppo questo è anche il periodo in cui le opere messe in atto da etruschi e romani a protezione del territorio non vennero mantenute, cosa che portò a un rapido degrado del territorio. A questo va aggiunto lo sfruttamento agricolo nella zona dei calanchi che aveva rimosso la copertura dei boschi, privando così il terreno delle radici degli alberi che ne prevenivano naturalmente l’erosione. Fino al XVII secolo l’abitato si estendeva su un vasto altopiano, che comprendeva non solo quella che adesso è Civita, che era la parte più importante, ma anche il paese di Bagnoregio, che al tempo era solo un quartiere e si chiamava Rota. Dell’altopiano rimangono oggi solo due spezzoni, che sono la conseguenza di impostanti eventi sismici: l’11 giugno 1695 un fortissimo terremoto provocò il crollo delle parti più esposte a valle
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e terremoti e avevano avviato opere di canalizzazione della acque piovane e contenimento dei torrenti. Con l’arrivo dei Romani nel 265 a.C. queste opere vennero riprese e ampliate e Civita visse un periodo di prosperità, portata dagli scambi commerciali, facilitati dalla comodità di accesso alla strada che da Bolsena portava al fiume Tevere, al tempo solcato da navi mercantili. Purtroppo le stesse vie di comunicazione resero la zona vulnerabile alle incursioni barbariche. Tra il 410 e il 774 la città cadde nelle mani di Visigoti, Goti, Bizantini e Longobardi, finché Carlo Magno non la liberò e consegnò alla Chiesa. A cavallo dei secoli VIII e IX incominciò ad affermarsi il toponimo Bagno Regis, trasformatosi poi in Balneoregium, Bagnorea ed infine Bagnoregio; il nome deriva da una leggenda, secondo la quale esistevano delle terme (bagni) già ai tempi dei Romani, che anche il re Longobardo Desiderio avrebbe frequentato a causa di una grave malattia.
dell’abitato, l'apertura di numerose crepe nel terreno e distrusse il ponte che la collegava al quartiere di Rota. Nel 1699, quando già gran parte della popolazione se n’era andata, le istituzioni pubbliche vennero trasferite a Rota. La città, che ormai era stata fortemente spopolata e il cui abitato era già ristretto, subì un altro forte crollo nel 1764, che portò via altre parti della cittadina. Da allora in poi frane e smottamenti si susseguirono e il paese continuò a ridursi. Nel 1819 la Sacra Congregazione del Buon Governo di Roma ordinò ai cittadini di abbandonare le proprie case e trasferirsi a Bagnoregio, ma l'ordine riguardava solo le case più vicine alla rupe vicino alla chiesa di San Bonaventura, perché coloro che vi abitavano non volevano lasciare il proprio borgo.
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Sempre nel XIX secolo si incominciarono a vedere i primi interventi sistematici per la salvaguardia del luogo e venne costruito un primo ponte nel 1850. Nel 1922 fu la volta di un secondo ordine di evacuazione verso una borgata da costruirsi appositamente, ma tutto rimase fermo e ulteriormente bloccato dalla guerra. Nel 1944 i tedeschi in ritirata fecero saltare il ponte in muratura e nel 1963 crollò la passerella in legno che lo sostituiva.
Il ponte che vediamo oggi fu costruito per intervento del Ministero dei Lavori Pubblici e venne inaugurato il 12 settembre 1965; nonostante deturpi il paesaggio si tratta di un’opera necessaria per garantire il collegamento al borgo. Complessivamente, dal XV secolo ad oggi sono state documentate quasi 150 frane dettagliatamente descritte in manoscritti, cronache, documenti e pubblicazioni varie.
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Fu così che Civita si guadagnò l’appellativo di “città che muore”. La sua posizione, unita al rinnovato interesse verso la sua particolarità e la natura del luogo hanno dato però, di recente, un forte impulso al turismo, che ne ha interrotto l’abbandono e ne ha permesso una parziale rinascita. È ora uno dei borghi più belli del Lazio e non solo, tanto da essere entrata nella lista dei Borghi più belli D’Italia ed è candidata a diventare patrimonio mondiale dell’umanità dell’UNESCO.
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Sulla strada tra Civita e Bagnoregio esisteva un antico convento, fondato da San Francesco nel XII secolo. Ciò che romane ora è un bar. Dal belvedere di questo convento (San Francesco vecchio) si gode di una bellissima vista su Civita ed è possibile accedere alla grotta di San Bonaventura. Bonaventura da Bagnoregio, al secolo Giovanni Fidanza, fu cardinale, filosofo e teologo, nonché uno dei più importanti biografi di san Francesco d’Assisi. Venne canonizzato da papa Sisto IV nel 1482 e proclamato dottore della Chiesa nel 1588. È il patrono della città di Bagnoregio e ad esso è legato un episodio importante e profondamente connesso al luogo. Secondo quanto lui stesso racconta, da bambino si ammalò gravemente. La famiglia pregò san Francesco di benedirlo e guarirlo. San Francesco era di passaggio in quella zona, proprio allo scopo di fondarvi un convento, e “alloggiò” per alcuni giorni in quella che era una tomba etrusca scavata nella roccia del belvedere. Una volta guarito il piccolo Giovanni, lo salutò con le parole “Bona Ventura”; da allora in paese tutti chiamarono il bambino Bonaventura e questi mantenne il nome quando entrò nel convento di San Francesco. Adriana Oberto Photography
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Ai tempi del suo massimo splendore Civita aveva cinque porte. Ne rimane solo una, la Porta di Santa Maria, o della cava, che costituisce l’unico accesso alla città, se si esclude il tunnel “Bucaione”. La porta si chiama così perché nei pressi vi era la chiesa dedicata alla Vergine Maria. Si chiama anche “porta cava” perché, prima di essere riadattata nel Medioevo
e acquisire un arco gotico, era stata scavata nel tufo degli Etruschi. Ai lati della porta furono posti due bassorilievi rappresentanti un leone che tiene tra gli artigli una testa umana. Sono a ricordo della vittoriosa rivolta popolare del 1457 contro la famiglia dei Monaldeschi. Si arriva alla porta attraverso il ponte sospeso pedonale, costruito sopra la sella morfologica di accesso alla città,
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che si è man mano abbassata nel corso dei secoli a causa degli smottamenti del terreno. Il ponte supera il forte dislivello presente tra la parte bassa di Bagnoregio, dove si trova il parcheggio per i residenti del borgo e coloro che alloggiano nelle strutture ricettive, e la porta stessa. Passa sopra parte della valle dei calanchi, permettendo a chi lo intraprende di godere di scorci preziosi sul territorio circostante, nonché la vista del borgo da vicino. Nell’area del ponte in epoca medievale sorgevano alcuni importanti complessi, come la rocca di Castel Gomizi, il convento di san Francesco e la zona di Mercatello, dove si svolgeva il mercato. Alcune case alla base del ponte riportano ancora oggi il nome di Mercatello, sebbene conservino ben poco della conformazione del borgo originario.
PORTA SANTA MARIA Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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INGRESSO BORGO Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Passata la porta di Santa Maria si è avvolti dallo spirito del borgo medievale. Entrare qui, infatti, rappresenta una sorta di viaggio nel tempo, in quanto il borgo è rimasto delle dimensioni che aveva nel XIII secolo, quando da queste parti arrivò San Francesco e padre Bonaventura era ancora un bambino e si chiamava Giovanni. Questi viveva ovviamente all’interno del borgo e la sua casa venne in parte trasformata nel XVI secolo in una chiesa a lui dedicata. Fu danneggiata dal terremoto del 1695, abbandonata e ricostruita nel 1703. Subì però ulteriori crolli nel 1764 e la montagna continuò a franare a valle finché, nel 1826, fu definitivamente abbandonata.
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Dopo una breve camminata si arriva in piazza San Donato, su cui sorge l’omonima chiesa. In origine in quel luogo sorgeva un tempio romano. Risale al VII sec., quando la sua struttura era basilicale, con un porticato esterno, ed era più corta di quella attuale, perché mancavano il presbiterio e il coro. La chiesa subì alcuni rimaneggiamenti nel XVI secolo, che la portarono alla struttura attuale, e passò così dallo stile romanico a quello rinascimentale. Ospita le reliquie di San Ildebrando, vescovo della città nel IX secolo, un crocifisso ligneo del Quattrocento (scuola di Donatello) e un affresco della scuola del Perugino. Rimase sede vescovile fino al 1699 quando, in seguito al terremoto del 1695, questa fu trasfe
SAN DONATO Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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STABILIZZAZIONE Adriana Oberto Photography
Nella stessa piazza si trova l’antico palazzo rinascimentale della famiglia Alemanni, risalente al 1585. Ospita attualmente il museo geologico e delle frane. Il museo è dedicato prevalentemente alla storia geologica di Civita, a partire dalla conformazione del terreno che sorregge la città e dei calanchi, passando per i fenomeni naturali e umani che hanno portato al degrado del borgo, fino ad arrivare alle opere che sono state intraprese per la sua salvaguardia. Civita e i calanchi sono infatti un’area di interesse paesaggistico altamente rilevante e vanno salvaguardati e valorizzati; le caratteristiche del paese lo rendono praticamente unica a livello nazionale ed internazionale. Il terreno è soggetto a costante monitoraggio e vengono attuate opere di stabilizzazione.
PALAZZO ALEMANNI Adriana Oberto Photography
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La visita prosegue lungo le stradine oltre la piazza ed intorno ad essa. Si tratta delle strette strade tipiche di un borgo medievale. Esse si snodano seguendo un reticolato “allungato” in direzione leggermente inclinata sud, sud-ovest/nord, nord-est; ai loro lati si trovano casette di pietra e piccole chiese. Non mancano le balconate con vista sui calanchi. Molte abitazioni sono state ristrutturate e adibite a ristorante o bed & breakfast per accogliere i numerosi turisti. È da notare che Civita è un borgo esclusivamente pedonale, se si eccettuano i ciclomotori e gli eventuali
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piccoli motocarri che riforniscono il paese e trasportano gli ospiti delle strutture. Grazie alle sue caratteristiche uniche il borgo è stato più volte set cinematografico. Qui sono stati girati film italiani, ma non solo. Tra i più recenti menzioniamo la miniserie televisiva Pinocchio del 2009, Questione di Karma e Puoi baciare lo Sposo del 2017 e 2018. Ha inoltre ispirato il film di animazione di Hayao Miyazaki Laputa – castello nel Cielo; anche per questo sono numerosi i turisti giapponesi che visitano Civita.
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A questo punto non ci resta che tornare sui nostri passi e uscire dal paese percorrendo il ponte. Nel ritornare a Bagnoregio è immancabile la tappa – se già non l’abbiamo fatta – al summenzionato belvedere di San Bonaventura, da cui si gode di una spettacolare vista sulla città. È anche il luogo perfetto per fotografare il borgo al tramonto, ora in cui il sole, che scende approssimativamente dietro le nostre spalle e alla sinistra, dona alla pietra del borgo e alla collina su cui sorge una meravigliosa luce dorata.
Poiché il posteggio alla base del ponte ha capienza limitata, tutti coloro che non risiedono nel borgo – o non hanno diritto a quei posti – devono lasciare l’autovettura a Bagnoregio, in prossimità del belvedere di San Bonaventura, per poi scendere a piedi per la strada carrabile – o meglio ancora per la rampa di scalini che parte dal belvedere stesso – fino al ponte. Dalle 8:00 alle 20:00 l’accesso al borgo è a pedaggio. Attraversare il ponte costa 5 euro a testa. Attraverso questa forma di prelievo è possibile finanziare i servizi sociali, quali il trasporto disabili o le ambulanze, e abbassare le tasse comunali, che ultimamente si sono ridotte a zero. E’ inoltre un modo per rendere consapevoli i turisti, per i quali il borgo diventa più prezioso, e arginare il turismo di massa: se una cosa costa denaro, se ne ha più rispetto.
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A cura di Monica Pastore
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A pochi chilometri da Torino, in direzione val Susa, poco lontano da Avigliana e i suoi laghi, svetta la Sacra di San Michele, un punto panoramico esclusivo da cui osservare tutta la vallata. Essa è il monumento simbolo del Piemonte ed è anche luogo di numerosi percorsi per sportivi di diversa natura. Lungo la ciclovia dell’antica Via Francigena troviamo il Lago dei Camosci, che in precedenza ospitava Vertical Point (luogo di ritrovo per gli scalatori della ferrata, che porta alla sacra). Infatti, proprio accanto al Lago c’è la partenza della Ferrata Carlo Giordia, che risale il versante nord del Monte Pirchiriano fino ad arrivare alla Sacra. La Ferrata è anche costituita da due ponti sospesi che aggiungono adrenalina e un punto di vista esclusivo al percorso.
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Sant'Ambrogio di Torino
Sacra di San Michele
Nella primavera 2021 riapre l’attuale Lago dei Camosci come luogo d’incontro per grandi e piccini, con i suoi 6500 metri quadri di verde, un lago e un punto ristoro, diventa un centro culturale che spazia tra spettacoli, corsi, proposte culturali e percorsi narrativi. Questo luogo nasce come osservatorio naturalistico, da cui godere del paesaggio suggestivo ai piedi del Monte Pirchiriano e della Sacra di San Michele. La caratteristica del luogo è proprio la presenza dei camosci, che al mattino presto e alla sera scendono a valle alla ricerca di cibo e acqua; pertanto, è possibile osservarli anche da molto vicino.
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Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Il Lago dei Camosci è gestito dall’Associazione Culturale STAR in collaborazione con l’impresa sociale Anima Giovane che si occupa di educazione e formazione umana. Il nome della STAR è un acronimo che descrive la sua mission: un lavoro che parta dalle STORIE perché sono il mezzo più potente che l’uomo ha a disposizione per raccontare e diventare protagonista della realtà in cui vive; lavorando con i TERRITORI vicini e lontani, arricchendosi della contaminazione continua tra le ARTI, gli spazi culturali, i mondi educativi; per ultimo ponendo al centro di tutto la
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RELAZIONI, perché è solo grazie a una costruzione positiva e creativa con gli altri che si può continuare a sognare. Anima Giovane è un’impresa sociale che valorizza la società: lavora sul territorio, con l’obiettivo di individuare, far scoprire e rafforzare le competenze che ogni persona può offrire per realizzare una comunità solida; che crede nei giovani costruendo possibilità per mettere fianco a fianco professionisti e giovani. I suoi progetti mirano a raggiungere un obiettivo sfidante, dove tutti i partecipanti devono collaborare.
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Lorenzo Rigatto Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Il Lago dei Camosci, tra le numerose attività, questa estate ha organizzato
CAMOSCI SOUND: La musica incontra la montagna. Una rassegna di concerti che iniziano al tramonto, quando si iniziano a sentire le pietre che ruzzolano dalla roccia per il passaggio dei camosci. I concerti sono godibili dal prato, volendo anche su comodi cuscini posati a terra. Gli ospiti sono stati numerosi e si sono esibiti da giugno ad agosto, portando a fans e amatori della buona musica, stili e generi diversi. Il tutto immerso in una cornice idilliaca. La rassegna musicale si apre con il folk degli Alpalachians, passa attraverso il blues, il jazz, il pop e si conclude con i suoni misteriosi di Carlot-ta e il rock dei Pindhar:
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THE ALPALACHIANS Alex Gariazzo: voce, chitarra, mandolino Carlot-ta: voce, piano, tastiere, chitarra Cecilia: voce, arpa
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La ruvidezza delle Alpi Occidentali incontra l’immaginario degli Appalachi in questo progetto musicale nato dalla comune fascinazione di tre musicisti piemontesi per il folk dell’America del Nord e per i suoi luoghi pieni di simboli. Le radici blues di Alex Gariazzo accolgono le atmosfere oscure di Carlot-ta e le melodie terse di Cecilia in un repertorio di riscoperta che intende attraversare l’infinito canzoniere americano, raccoglierne alcune tracce e consegnarle ai linguaggi dell’alt-pop europeo e della musica d’autore. I suoni delle corde e del legno di chitarre e arpe, ammorbiditi o inaspriti da organi, fisarmoniche e pianoforti, sorreggono le armonie delle voci in un divertissement che non ha certo la pretesa dell’appropriazione, bensì lo spirito leggero e puro dell’esplorazione: un approccio diretto e ludico alla musica, per ricordarci quanto possa essere divertente e profondo suonarla e ascoltarla, evocando spazi lontani, muovendo a sé anche le montagne.
Cecilia è un’arpista e cantautrice torinese. Diplomata al Conservatorio di Torino, ha conseguito il Master in Nuovi Linguaggi per l’arpa al Conservatorio di Milano. Ha pubblicato due album di canzoni Guest (2015), Cupid’s Catalogue (2019) - e collezionato centinaia di concerti in Italia ed Europa, suonando al fianco di Niccolò Fabi come opening del tour estivo 2015 - e di Max Gazzè - come musicista al Festival di Sanremo 2018. Ha fatto parte del cast dello spettacolo teatrale Cantabile2 per un tour in Danimarca ed è autrice della colonna sonora della prima serie teatrale italiana 6Bianca, prodotta dal Teatro Stabile di Torino in collaborazione con Scuola Holden.
Alex Gariazzo, biellese, dal 1995 è cantante e chitarrista della Treves Blues Band, storico gruppo italiano con il quale ha all’attivo 8 album e centinaia di concerti in Italia e all’estero, oltre a svariate partecipazioni radiofoniche e televisive e l’apertura dei concerti di Bruce Springsteen, Counting Crows, Deep Purple, ZZ Top, John Mayall, Charlie Musselwhite, John Hammond e molti altri. Tiene seminari sul Blues e sul rapporto tra blues e popular music da solo o in compagnia di Fabio Treves. È coautore del libro I 100 dischi ideali per capire il blues (Ed. Riuniti, 2001). Il Dizionario del Pop Rock di Zanichelli lo cita tra i migliori chitarristi blues italiani.
CARLOT-TA Carlot-ta (Vercelli, 1990) è cantautrice e pianista. Ha all’attivo tre album di canzoni e più di 400 concerti in Italia e all’estero (MiTo Settembre Musica, Premio Tenco, Premio Ciampi, JazzMi, Auditorium Parco della Musica, Liverpool Sound City, Veneto Jazz, Festival dei Due Mondi etc.). Le sue canzoni sono state utilizzate per campagne pubblicitarie e colonne sonore. Il suo secondo album, Songs of Mountain Stream (2014), prodotto da Rob Ellis (Marianne Faithfull, Pj Harvey, Anna Calvi) è un disco dedicato alle Alpi. Murmure (2018), il suo ultimo lavoro discografico è un album di canzoni originali per organo a canne, percussioni ed elettronica, registrato tra Italia, Svezia e Danimarca.
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FEDERICO SIRIANNI Accompagnato dalla violinista ELISABETTA BOSIO. Cantautore genovese, adottato in età adulta da Torino, è considerato erede della grande “Scuola genovese dei cantautori”.
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Ospite giovanissimo al Premio Tenco 1993, vince in seguito il Premio Musicultura della Critica (2004), il Premio Bindi (2006) e il Premio Lunezia Doc (2010). Ha pubblicato quattro dischi e il libro/disco L’uomo equilibrista (Miraggi edizioni). L’ultima produzione discografica, Il Santo (2016), ha ricevuto la Menzione Speciale del Club Tenco per la manifestazione Musica contro le mafie. È stato autore musicale e attore per il Teatro della Tosse di Genova, ha insegnato Songwriting alla Scuola Holden di Torino ed è Tutor per il progetto della Regione Liguria “Cantautori nelle scuole”. È in scena, oltre che con il suo concerto, con “Qualcuno era comunista – omaggio a Giorgio Gaber”, patrocinato dalla Fondazione Gaber, con i musicisti originali del teatro-canzone e la regia di Arturo Brachetti. È in uscita il nuovo album Maqroll, ispirato alle narrazioni di Alvaro Mutis.
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ESTEL LUZ Estel Luz, Italo-colombiana, nasce nella provincia biellese; per oltre un decennio collabora con diversi progetti dell’underground italiano e non e con la band Dotvibes; dal 2015 si trasferisce per un lungo periodo nel Regno Unito e inizia un percorso solista con il primo mixtape Rooms in Lo-fi esibendosi in Italia, UK e USA; il suo primo disco Queens esce nell’ autunno 2019, periodo in cui parte anche la amata attività radiofonica con Amazonas Fm su Radio Banda Larga, una web radio attiva tra Torino e Berlino.
MIRCO MENNA Mirco Menna, bolognese, classe 1963, dapprima batterista, esordisce come cantautore nel 2002 con l’album Nebbia di idee e per questo lavoro è premiato al MEI di Faenza come artista emergente dell’anno. L’album si fregia del plauso autografo di Paolo Conte: “…finalmente un disco saporito ed elegante”. Alla fine del 2005 esce per l’etichetta Storie di Note il secondo disco, Ecco, che vanta un prezioso incipit in versi firmati e detti da Fernanda Pivano. Dal 2006 al 2008 collabora in qualità di cantante e frontman con Il Parto delle Nuvole Pesanti, gruppo con cui debutterà a Mittelfest nel 2007 con lo spettacolo Slum, produzione dei Filodrammatici di Milano. Nel febbraio 2010 debutta lo spettacolo ‘Spreco’ (di e con Massimo Cirri e Andrea Segrè con disegni originali di Altan) di cui firma ed esegue le canzoni di scena. Il successivo lavoro discografico, …e l’italiano ride, con Banda di Avola, è accolto con grande favore da pubblico e critica internazionale. Ospite all’edizione 2010 del Premio Tenco, gli viene poi assegnato il Premio italiano Musica Popolare al MEI, come miglior disco dell’anno. Nel 2014 esce Io, Domenico e tu, riconoscimento a Domenico Modugno, segnalato per la Targa Tenco tra i cinque migliori album della categoria. Nello stesso anno pubblica il libro 118 Frammenti Apocrifi (Ed. Zona). Nel febbraio 2017 debutta in veste di protagonista nel Faustus, opera teatrale di Max Manfredi. Alla fine dello stesso anno esce Il senno del pop, nuovo album di canzoni originali e nella primavera 2021 SeStoQui (è perché vi voglio bene).
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L’ORAGE
PINHDAR I Pinhdar sono la cantante e autrice Cecilia Miradoli e il musicista e produttore Max Tarenzi, in passato fondatori della rock band Nomoredolls e del festival internazionale A Night Like This. Ad essi si aggiunge nella formazione live il polistrumentista Alessandro Baris. Parallel è il loro secondo album uscito il 26 marzo 2021 per l’etichetta inglese Fruits de Mer Records. Dopo l’omonimo esordio del 2019, ben accolto anche all’estero, soprattutto nel Regno Unito dove hanno già realizzato 2 brevi tour, in questo nuovo lavoro la fusione di dream pop e trip hop del duo di Milano trova una peculiare e moderna chiave di lettura, in equilibrio tra avvolgente eleganza, ritmiche risucchianti e conturbante cupezza, senza rinunciare a influenze new wave, shoegaze e indie rock.
Alberto Visconti, Rémy e Vicent Boniface sono il trio che costituisce la base e il motore artistico del celebre gruppo valdostano L’Orage. Con questa formazione i tre musicisti hanno calcato i principali palcoscenici della penisola (Concertone del primo maggio, Arena di Verona, Sferisterio di Macerata, Carroponte e tanti altri) e registrato 5 album di canzoni originali più un EP dedicato ai canti Partigiani. Vincitori assoluti di Musicultura nel 2012 sono stati consacrati, nel 2013, dalla collaborazione con Francesco De Gregori, collaborazione poi rinnovata nel 2015. Tra le altre collaborazioni importanti si ricordano quella con Enrico Erriquez Greppi, cantante della Bandabardò che è stato produttore e ospite del loro quarto album Macchina del Tempo (Sony Music, 2015) e quella con l’attrice Jasmine Trinca. Di loro Carmen Consoli ha detto: “Ascoltateli, sono grandi!”. Tutti attivi in altri gruppi o progetti musicali i tre musicisti propongono, in trio, uno spettacolo variegato che spazia dai brani originali de L’Orage a una selezione inaspettata e sorprendente di riprese e rivisitazioni del repertorio dei grandi cantautori del passato da Brassens a De Gregori, dai Beatles a De Andrè da Lucio Dalla a Leonard Cohen senza dimenticare il repertorio tradizionale che costituisce da sempre il territorio naturale della famiglia Boniface (Trouveur Valdotén). Sul palco CAMOSCI SOUND si sono esibiti in una formazione duo.
Miradoli e Tarenzi hanno adottato un approccio minimalista riducendo il loro sound a una combinazione di pochi fattori strettamente necessari. Ampio spazio è riservato alle parti vocali, che dal canto più melodico si aprono a sussurri e inserti spoken, sino a influenze operistiche o derive irregolari che richiamano suggestioni tra Portishead e Kate Bush. Le trame strumentali sono invece date dall’uso di sintetizzatori analogici, chitarre e batteria elettronica. Preannunciato a gennaio dalla sua title track scelta come primo singolo, l’album è stato interamente registrato durante il lockdown causato dall’epidemia di COVID-19 ed è stato successivamente coprodotto a distanza da Howie B, celebre musicista e produttore scozzese già al lavoro con artisti tra i quali Björk, Massive Attack, Tricky, Everything But The Girl, U2 e in Italia Marlene Kuntz, Casino Royale.
Monica Pastore Photography
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Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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LAGO DEI CAMOSCI
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Il lago dei camosci è un posto diverso dal solito per ascoltare un concerto. I camosci che scendono dalle montagne che lo circondano, il cielo stellato e il silenzio ne fanno un luogo magico dove trascorrere una bella serata in famiglia o con gli amici. Concludiamo con un consiglio: vestitevi a cipolla! Nel pomeriggio, nelle giornate di sole, potrebbe fare caldo; tuttavia, trovandosi in montagna, la sera le temperature scendono parecchio.
Lorena Durante Photography
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DANZANDO DISNEY MUDEC SULLA MOLE
A cura di Isabella Cataletto e Silvia Scaramella Giroinfoto Magazine nr. 72
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“Disney. L’arte di raccontare storie senza tempo” è il titolo della mostra che ha aperto al pubblico il 2 settembre scorso al MUDEC di Milano. La mostra, promossa dal Comune di Milano e prodotta da 24 ORE CulturaGruppo 24 ORE, a cura della Walt Disney Animation Research Library, ha visto anche la collaborazione di Federico Fiecconi, storico e critico del fumetto e del cinema di animazione.
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Il percorso espositivo propone una triplice chiave di lettura e desidera mostrare al grande pubblico, attraverso le opere originali provenienti dagli Archivi Disney, il lavoro di ricerca creativa che si nasconde dietro ad un risultato artistico perfetto agli occhi di tutti, come quello dei capolavori Disney.
I bozzetti preparatori di ricerca creativa mostrano la quantità di tentativi e di prove, di tecniche e di strumenti che si celano dietro le singole scene dei film d’animazione che ben conosciamo, nonché la grande capacità di captare l’essenza delle favole per farle essere sempre attuali e fruibili.
Disney, con il suo approccio creativo innovativo nello storytelling, ha trasformato in film d’animazione il patrimonio narrativo delle culture del mondo e le tradizioni epiche: i miti, le leggende medievali e il folklore, le favole e le fiabe. Miti, leggende, favole e fiabe sono anche le quattro sezioni che accompagnano il visitatore lungo il percorso espositivo e in cui si ritrovano le origini delle storie dei capolavori Disney.
L’animazione è infatti il medium che trasforma immediatamente in realtà le narrazioni, avvicinando i personaggi del racconto allo spettatore in modo tangibile ed emozionante. Se il valore simbolico delle storie è rimasto intatto nel tempo, le tecniche di produzione si sono evolute sempre di più.
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Il secondo obiettivo del percorso espositivo è proprio quello di mostrare come nasce un film d’animazione, il cosiddetto “dietro le quinte”, entrando nel vivo dello studio e del processo creativo. Si tratta di un processo lento, ma costante che trasforma un’idea iniziale in immagini, che a loro volta si sovrappongono e si fondono per dare vita ai singoli personaggi e alle ambientazioni prima di trasformarsi in fotogrammi. La terza chiave di lettura promuove l’interpretazione personale e attiva dell’arte dello storytelling. Il visitatore può, infatti, percorrere le sale della mostra diventando protagonista e narratore di un nuovo racconto. E chi potrebbe fare meglio dei bambini? Proprio per questo motivo sono state studiate postazioni interattive che permettano ai più piccoli di sperimentare gli elementi strutturali fondamentali per dare vita a qualsiasi narrazione. L’obiettivo è infatti quello di costruire il proprio racconto, che si comporrà in tempo reale grazie a un piccolo ‘libretto’ da portare con sé a casa. Raccontare storie senza tempo senza rubare mai il fascino della sorpresa è un’arte meravigliosa che nasconde un lavoro di ricerca creativa e di studio a cui la mostra vuole dare risalto e rilievo.
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È il concetto che è alla base del “Sogno Americano” che, non sempre e non per tutti, si realizza. Ogni idea nasce da una visione, da un’immagine, a volte da uno schizzo. Una visione, con qualche personaggio buffo o un animale antropomorfo, deve essere balenata nella mente di un ragazzo di nome Walt Disney, che avventuroso e temerario e senza un soldo in tasca, decide di fondare con suo fratello Roy, nel lontano 1923, la Disney. L’idea è quella di realizzare disegni dei buffi personaggi che ha nella mente, o che ha trovato in qualche fiaba, facendoli diventare dapprima “fumetti” per delle pubblicazioni per bambini.
Isabella Cataletto Photography L’idea cresce nella sua mente, in modo naturale e senza freni, dandogli l’ispirazione di dotare i buffi personaggi di movimenti, quindi realizzando le prime animazioni, avvalendosi anche della collaborazione di esperti disegnatori appassionati di “animazione”. Già nel 1928 nasce un personaggio straordinario, unico ed eternamente presente, ormai, nella mente di grandi e piccini che hanno attraversato tutte le generazioni del ‘900 sino ai giorni nostri: Topolino, anzi Mickey Mouse! Il successo immediato fu sicuramente dovuto al fatto che Topolino era, e tuttora è, un animale uomo o un uomo animale. In quanto animale uomo è dotato di grandi poteri arcani, per certi versi simili a quelli delle divinità dei grandi miti dell’umanità. È un essere intelligente, astuto, simpatico e vince sempre. Ma soprattutto è il campione della giustizia, colui che riporta l’ordine e il bene. Giroinfoto Magazine nr. 72
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L’altro personaggio ideato da Walt Disney, anni dopo, grazie all’enorme successo di Topolino, è Paperino, Donald Duck. Paperino nasce dalla consapevolezza umana del limite. Il limite che emerge nella vita, nelle possibilità reali, che si mostra nei comportamenti e nelle caratteristiche umane. Paperino è un essere furbastro ma allo stesso tempo ingenuo, vuole raggiungere i suoi scopi spesso attraverso espedienti e quasi sempre fallisce. Spesso, si ritrova solo, misero e deriso.
Entrambi i personaggi, fra i più famosi nella gamma amplissima dei personaggi della Disney, incontrano in modo immediato gli opposti delle inclinazioni, delle tensioni e dei desideri degli esseri umani, dai primi anni di vita fino all’età adulta. L’eroe, nell’universo Disney, è sempre presente, come negli archetipi, da cui derivano la tradizione orale, i miti e le fiabe. L’eroe è vittorioso sui soprusi e sul male; tuttavia, accanto al vittorioso, appare sempre una di queste figure: il cattivo, il pericoloso, il sopraffattore e/o il perdente.
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Disney riprende le figure degli archetipi, dei miti, i personaggi delle fiabe, della narrazione orale e li trasforma in creature comprensibili ai bambini. Il bambino è il centro intorno al quale viene costruito un mondo infinito con mille personaggi che trovano subito spazio, perché, in qualche modo, già esistenti nella sua mente. Un ruolo centrale lo hanno anche i sentimenti umani: la volontà di imporsi e vincere e di affermare il bello e il bene, ma anche il senso di abbandono, la fragilità, la paura e il fantasma della morte. Ecco l’eroe che sconfigge l’orco, che rischiara il buio, che protegge dal mondo oscuro e misterioso. Ecco il debole che escogita piccoli espedienti per andare oltre i propri limiti, ma la sua ingenuità e la sua inesperienza glielo impediscono. Topolino e Paperino incarnano gli estremi originari delle caratteristiche umane, figure archetipiche presenti nella mente.
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Questa è la magia e la potenza dell’incontro di piccoli e grandi con questi due personaggi e con molti altri personaggi dei miti e delle fiabe, a cui la Disney ha dato il contorno e il colore del disegno e, con l’animazione, il movimento: insomma, la vita.
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Sin dagli albori della civiltà gli esseri umani hanno voluto rappresentare le proprie gesta, le situazioni di vita, i misteri della fertilità propiziata dalle divinità, il tripudio dei raccolti, le battute di caccia, il combattimento con gli animali, la tensione verso il cielo e verso le stelle, l’interpretazione della morte e della rinascita attraverso le pitture rupestri. In alcuni casi si è tentato di dare alle pitture rupestri, alle rappresentazioni dei Sumeri e degli Egizi, l’effetto e la sensazione del movimento, con estrema difficoltà. Vengono prodotte dalla Walt Disney, in ogni epoca del ‘900, le riedizioni di riti e miti ancestrali, le figure di protagonisti di antiche fiabe, la cui matrice è forse unica, in virtù dell’inconscio collettivo, ma è di volta in volta, da ogni civiltà e popolazione, ritrovata e tramandata in modo diverso, pur sempre con la presenza di tutti gli archetipi. Ma è Disney ad introdurre, nei primi decenni del ‘900, una grande innovazione: i personaggi diventano vivi nel movimento, sono uomini con movimenti animaleschi, animali con fisionomie, espressioni e intelligenza umana. Qualche decennio prima i fratelli Lumière avevano inventato il cinematografo: il cinema è un’illusione ottica, è ciò che il cervello umano percepisce attraverso la vista di sequenze velocissime di immagini differenti nell’azione ripresa.
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La stessa cosa che avviene con l’animazione di Walt Disney e dei suoi autori, ma non si tratta, in questo caso, di fotografie bensì di disegni che vengono uniti in sequenze e animati dalla velocità della proiezione: si tratta di un’arte ancora più raffinata rispetto al cinema. Sono necessari disegni molto precisi, basati sullo studio approfondito del movimento del corpo umano e degli animali, reso tuttavia spettacolare dall’introduzione del tema del sogno e della magia.
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I meravigliosi personaggi della Disney sono tutti dotati di poteri magici o di singolare bellezza o di orrenda spaventosa bruttezza; i buoni sono vincenti e armonici e i cattivi cupi, arcigni, brutti e perdenti, oppure semplicemente goffi, ridicoli, o stupidi. Rappresentano il bene e il male, nella continua eterna umana contrapposizione. Poiché un bambino non può cogliere le sfumature, i passaggi, la complessità della vita, ecco rappresentati gli estremi dell’umano e delle vicende della vita. E per quanto infantili questi schemi possano essere, catturano sempre anche la mente dell’adulto nella ricerca, a volte, di qualche semplice risposta. Nei decenni successivi, a partire dal 1940, la Disney porta i suoi personaggi al cinema in lungometraggi. La produzione di animazioni diventa via via più complessa e alla Disney viene in aiuto l’evoluzione della tecnologia. Il Management della Disney è, infatti, da sempre molto attento all’arrivo di nuove tecnologie nel mondo dell’industria: è proprio la Disney, fra le prime, a sposare e far proprio il technicolor, la nuova possibilità di stampare pellicole cinematografiche a colori, senza il quale un film capolavoro come “Fantasia” non avrebbe mai potuto raggiungere l’apice dell’arte cinematografica. Lo stesso vale per altri famosissimi film che hanno riempito per anni le sale cinematografiche di tutto il mondo, facendo realizzare incassi colossali.
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La seconda straordinaria tecnologia che verrà adottata è il Fantasound, precursore del sistema di ottimizzazione del suono Dolby, che dà la possibilità di diffondere l’audio in modalità stereo ad alta fedeltà. Esso è il sistema audio che accompagna la prima uscita del film “Fantasia” nel 1940. Fatto estremamente significativo è che tutte le aziende che inventano o forniscono tecnologie alla Disney diventano, in pochi anni, colossi industriali. Due esempi sono proprio la Technicolo e il Fantasound, prodotti e forniti da un’azienda di nome HEWLETT & PACKARD, che diventerà negli anni un leader mondiale nella produzione di computer. Walt Disney morì nel 1966; successivamente suo fratello Roy prese le redini e portò avanti il Gruppo, ormai un colosso mondiale, per alcuni anni. Venne poi a mancare nel 1971. Già molti anni prima della sua morte, Walt aveva compreso che al centro del suo impero industriale era collocato il bambino. E, proprio per condurre il bambino nell’universo dei sogni e della magia, aveva realizzato il primo enorme parco di divertimenti, Disneyland, nelle vicinanze di Los Angeles. L’immediato successo di Disneyland portò il Gruppo a realizzarne altri negli Stati Uniti e nel resto del mondo, ad esempio a Parigi e Tokyo. Fra i managers del Gruppo entrò, a un certo punto, Charlotte Clark, che realizzò il primo pupazzo di Topolino. Nacque così il reparto del Merchandising, che divenne in poco tempo la Divisione Merchandising della Disney. E così aprirono e si moltiplicarono i Disney Stores in tutte le città del mondo.
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La rapida crescita del business in tutti i settori pose tuttavia la Disney, a fasi alterne, in difficoltà economiche. Dopo l’entrata allo Stock Exchange di New York, gli occhi di investitori voraci nel mondo dei grandi capitali produssero assalti finanziari ostili. Ma il Gruppo resse, anche dopo la morte di Roy, con l’avvicendamento ai vertici di amministratori e top managers capaci. In anni più recenti, gli anni 2000, uno degli amministratori e top manager della Disney incontra un inventore. Egli è il fondatore della Apple, Steve Jobs, il quale, sulla scia del successo mondiale dei suoi computer, molto adatti alla computer grafica, aveva intuito il valore della tecnologia di una Start-Up di quei tempi, la Pixar, e l’aveva comprata, nel 1986, per una decina di milioni di $. La Pixar aveva stupito il mondo della computer grafica con le sue costose stazioni grafiche, ma soprattutto con i suoi impressionanti software di animazione dell’immagine. Produrre lungometraggi animati è un’opera enorme ed estremamente complessa, si tratta di poter elaborare miliardi di sequenze di immagini per produrre film di alta qualità e di lunghezza sufficiente. L’elaborazione del colore e della grafica di qualità erano ormai diventati un must nell’industria del cinema, ma ciò che ancora mancava era l’elaborazione di effetti speciali con l’animazione e l’effetto della tridimensionalità. Fu così che lo spirito di “Stay Hungry, stay Foolish” incontrò lo spirito di “When you wish upon a Star… makes no difference who you are” (la canzone nel film Disney “Pinocchio” del 1940).
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Mentre Steve Jobs aveva comprato la Pixar dalla Lucas Film nel 1986 per pochi milioni di $, la Disney l’acquistò, dopo il successo dello straordinario film “Toy Story”, (il primo lungometraggio realizzato completamente in computergrafica in 3 dimensioni), da Jobs nel 2006 per alcuni miliardi di $. Cosa dire ancora della Disney? Si potrebbe dire ancora molto, come la lunghissima la lista di titoli di film di enorme successo: “Avventure di Peter Pan” (1953), “Lilli e il Vagabondo” (1955), “La carica dei cento e uno” (1961), “Mary Poppins” (1964), “Il Libro della Giungla”,”La Bella e la Bestia” e tantissimi famosissimi titoli recenti come “Black Panther” e “Frozen – Il Regno di Ghiaccio” La mostra al MUDEC di Milano racconta tutto questo e invita piccoli e grandi, nella sezione ludico-didattica, a cimentarsi nel racconto di una storia e a narrarla con le figure e il movimento. Lo slogan è sempre lo stesso: “IF YOU CAN DREAM IT, YOU CAN DO IT!”
MUDEC Museo delle Culture di Milano Via Tortona, 56 DATE 02/09/2021 – 13/02/2022 ORARI Lun 14.30 ‐19.30 | Mar, Mer, Ven, Dom 10.00 ‐ 19.30 | Gio, Sab 10.00‐22.30 Per ulteriori informazioni: https://www.mudec.it/ita/ tel. 02/54917 (lun-ven 10.00-17.00) E-mail: info@mudec.it c.museoculture@comune.milano.it
RINGRAZIAMENTI Desideriamo ringraziare la redazione de Il Sole 24 Ore Cultura e in particolare Elettra Occhini per averci permesso di raccontare una storia senza tempo.
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V BIENNALE FOTOINDUSTRIA
MAST A Bologna dal 14 ottobre al 28 novembre 2021 si tiene la quinta edizione della Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro promossa e organizzata da Fondazione MAST con 10 esposizioni nel centro storico e una al MAST.
01. ANDO GILARDI Giovani donne portano zucche sulla testa. “Le zucche, d’estate sono mangime, d’inverno cibo”. Quando il gallo canta a Qualiano, ampia fotoinchiesta di Gilardi sulla sindacalizzazione dei braccianti agricoli, in questo paese particolarmente sentita. Qualiano (Napoli), ottobre 1954. © Fototeca Gilardi
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04. BERNARD PLOSSU Parigi, Francia 1972 © Bernard Plossu
La Fondazione MAST presenta la quinta edizione di FOTO/INDUSTRIA, la prima Biennale al mondo dedicata alla fotografia dell’Industria e del Lavoro, che si svolgerà a Bologna dal 14 ottobre al 28 novembre, curata da Francesco Zanot, con 10 mostre in sedi storiche del centro cittadino e una al MAST. Titolo di Foto/industria 2021 è Food, un tema di fondamentale importanza per il suo inscindibile legame con macroscopiche questioni di ordine filosofico e biologico, storico e scientifico, politico ed economico. Al centro della Biennale si trova il soggetto dell’industria alimentare: il bisogno primario del cibo si sovrappone a quello delle immagini, in un percorso che si sviluppa all’interno di una materia insieme senza tempo e di stringente attualità, considerati i rapidi sviluppi di un settore che risponde alle più importanti trasformazioni in
atto su scala globale: la questione demografica, il cambiamento climatico e la sostenibilità. Attraverso il filtro della fotografia, “specchio dotato di memoria”, l’alimentazione costituisce in questo percorso lo specchio di un’epoca e di una civiltà, capace di raccontarne il rapporto con la tradizione, la natura, la tecnologia, il passato, il futuro e molto altro ancora. “Il cibo è un fondamentale indicatore per analizzare e comprendere intere civiltà – scrive nel testo introduttivo del catalogo della Biennale il direttore artistico Francesco Zanot -. Le modalità attraverso cui gli alimenti vengono prodotti, distribuiti, venduti, acquistati e consumati sono in costante cambiamento e racchiudono pertanto alcuni caratteri distintivi di un’epoca, un
periodo storico o un ambito culturale e sociale... Il cibo è linguaggio. Come la fotografia, gli alimenti incorporano e diffondono messaggi. Il risultato è un cortocircuito: qualsiasi fotografia di cibo è il frutto di un processo di ri-mediazione. Inoltre, fotografia e cibo hanno un legame speciale con la tecnologia. La fotografia nasce come tecnica. Camera oscura, pellicola e obiettivo sono conquiste dell’ingegno umano messe al servizio della scienza, dell’arte, della memoria e della trasmissione di informazioni. Per quanto riguarda il cibo, il punto di svolta è costituito dalla comparsa dell’agricoltura, che conduce dal nomadismo alla coltivazione e all’allevamento stanziali attraverso una serie di profonde innovazioni tecniche”.
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V BIENNALE FOTOINDUSTRIA
Tra i principali argomenti trattati nelle 11 mostre in programma, che ripercorrono un secolo di storia dagli anni Venti ad oggi figurano: l’industria alimentare e il suo impatto sul territorio; il rapporto tra cibo e geografia; la meccanizzazione della coltivazione e dell’allevamento; la questione del grano; l’evoluzione del cibo nel corso del tempo; l’alimentazione organica e naturale; la cucina; le tradizioni locali; i mercati; la pesca nei mari e nei fiumi.
03. JAN GROOVER Senza titolo / Untitled circa 1988-1989 © Musée de l'Elysée, Lausanne – Jan Groover Archives
Undici fotografi tutti di caratura internazionale. Tre artisti italiani: Ando Gilardi, tra le figure più eclettiche e originali della storia della fotografia italiana, protagonista della mostra “Fototeca” al MAST con una combinazione di reportage fotografici e materiali estratti dal pioneristico archivio iconografico che ha fondato nel 1959; Maurizio Montagna con il lavoro “Fisheye”, realizzato appositamente per questa Biennale e dedicato al fiume Sesia e alla sua valle, (Collezione di Zoologia del Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Bologna) e Lorenzo Vitturi (“Money Must Be Made”, su Balogun, il mercato più grande e complesso di Lagos in Nigeria, Palazzo Pepoli Campogrande). Otto artisti stranieri: Hans Finsler considerato tra i padri della fotografia oggettiva degli anni ’30 (“Schokoladenfabrik”, serie realizzata nel 1928 su commissione dell’azienda dolciaria Most, San Giorgio in Poggiale); Herbert List, fotografo tedesco membro della Magnum Photos (“Favignana”, 40 immagini sulla mattanza dei tonni nell’isola nel 1951, Palazzo Fava); il francese Bernard Plossu (“Factory of Original Desires”, spezzoni di vita in tutto il mondo e ritratti legati a persone e Giroinfoto Magazine nr. 72
cibo nella quotidianità, Palazzo Fava); Mishka Henner (“In the Belly of the Beast”, una selezione di tre progetti sul rapporto tra uomo, animali e tecnologia realizzati utilizzando materiali preesistenti, Spazio Carbonesi); il giapponese Takashi Homma (“M + Trails”, immagini delle facciate dei negozi di McDonald’s in paesi lontani accostate a una sequenza sulle tracce di sangue lasciate dai cacciatori di cervi in Giappone, Padiglione Esprit Nouveau); l’olandese Henk Wildschut (“Food”, immagini delle nuove tecnologie per una produzione sempre più massiccia e intensiva dell’industria alimentare, Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna, Palazzo Paltroni); l’artista americana Jan Groover nota per le sue nature morte (“Laboratory of forms“, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, una retrospettiva di tutta la sua carriera a partire dalle celebri nature morte riprese nella cucina della sua abitazione); la ricercatrice e attivista palestinese Vivien Sansour (“Palestine Heirloom Seed Library”, un progetto per salvaguardare antiche varietà di semi e proteggere la biodiversità, Palazzo Boncompagni).
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03. HERBERT LIST Tonno issato dopo la cattura, Favignana Italia, 1951 / Tuna being hoisted up after the catch, Favignana, Italy 1951Collezione MAST. Courtesy of The Herbert List Estate / Magnum Photos
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01. TAKASHI HOMMA Chambéry 2000/2010 © Takashi Homma. Viasaterna, Milano.
Courtesy
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Il catalogo. La pubblicazione che accompagna la Biennale Foto/ Industria 2021 costituisce allo stesso tempo il catalogo delle mostre in programma e un libro di cucina autonomo e funzionale, con lo chef e scrittore Tommaso Melilli che interpreta le immagini e i temi di ogni mostra attraverso una ricetta originale. “Questo libro – afferma Zanot – è anch’esso un ibrido. Serve a mettere insieme una cena speciale per gli ospiti, ma anche per esplorare, a partire dalle immagini proposte, il passato e il presente di una materia che ci riguarda tutti i giorni della nostra vita”.
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Programma eventi. Le mostre sono come di consueto accompagnate da un corposo programma di eventi a ingresso libero: visite guidate con gli artisti in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Bologna, talk, workshop di fotografia, performance, proiezioni, tavole rotonde e attività didattiche per i più piccoli. Foto/Industria, promossa e prodotta dalla Fondazione MAST, nasce nel 2013 con l’intento di sostenere e diffondere la cultura della fotografia e condividere con la città la missione culturale della Fondazione, ente non profit internazionale legato al gruppo industriale Coesia, concepita come tramite tra l’impresa e la comunità. Il MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) è un luogo di condivisione e collaborazione che ospita diverse attività, tra cui la PhotoGallery che con la propria collezione di fotografia industriale e del lavoro curata da Urs Stahel e con l’allestimento di mostre temporanee, è oggi l’unica istituzione al mondo dedicata alla fotografia del lavoro.
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01. MISHKA HENNER Feedlots, Coronado Feeders, Dalhart, Texas 2012 © Mishka Henner. Courtesy of the artist and Galleria Bianconi, Milano
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X° FIERA MONDIALE DEL PEPERONCINO
A cura di Laura Rossini
Gianmarco Marchesini Photography
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Laura Rossini Gianmarco Marchesini
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manifestazione ha acceso non una candela per segnare un percorso di speranza, ma una vera e propria miccia pronta ad esplodere. Reate, come la chiamavano i Latini, ha scommesso sulle sue ricchezze naturali, storiche, culturali partendo dalle specialità culinarie, e ha vinto per il suo cuore. Un cuore ancora ferito dal terremoto di Amatrice e dal Coronavirus, che ha deciso di battere più forte per far sentire a tutti quanta forza e vita c’è nell’ Umbilicus Italiae. Non sono nostre impressioni, ma le riflessioni condivise di alcuni dei protagonisti che abbiamo intervistato.
L’Italia ha un cuore piccante che batte forte e tinge di rosso l’intero stivale.
A testa bassa gli organizzatori sono partiti dall’osservanza delle regole e hanno costruito il palinsesto di 5 giornate colme di eventi.
Si è svolta a Rieti dall’1 al 5 Settembre la decima edizione della Fiera mondiale del Peperoncino. Grande successo sia per la partecipazione da parte degli espositori che dei visitatori. I complimenti vanno agli organizzatori che sono riusciti a trasformare questo appuntamento in un modello da imitare a livello nazionale. Ogni aspetto è stato curato con grande attenzione e, soprattutto, professionalità per far sì che l’appuntamento, annullato nel 2020 a causa della pandemia, potesse diventare occasione di ripartenza non solo per la città, ma per l’intera regione. Il risultato è stato che la
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Il centro storico di Rieti senza paura, né condizionamenti, è stato chiuso. Sono stati dislocati in diverse piazze gli stand gastronomici e i palchi per spettacoli, intrattenimento e convegni. I giardini del Vignola hanno ospitato gli show cooking dell’Associazione Professionale Cuochi Italiani, capitanata da Fabrizia Ventura. Nel chiostro di Sant’Agostino sono state installate circa 200 teche contenti più di 400 specie di peperoncini provenienti da tutto il mondo. Sono stati predisposti percorsi storico-turistici ed eventi sportivi dalla città al Monte Terminillo.
Un giro a 360° intorno a sua maestà il peperoncino. Spezia e condimento dalle origini antichissime. In circa 9000 anni di storia ha aiutato molte delle popolazioni del Sud del mondo a sopravvivere. Utilizzato come rimedio naturale, come condimento in diete poco varie e povere di elementi nutrizionali. Protagonista di riti, superstizioni e detti popolari fa parte ormai del nostro vissuto. Le persone che non amano il piccante sono viste con diffidenza da chi ama il cibo come gli astemi da chi ama il buon vino. Arrivato a noi dalle Americhe con Cristoforo Colombo, inizialmente snobbato dagli ambienti più facoltosi, oggi sale sul podio con i vincitori del premio Nobel per la Medicina. Infatti, l’americano David Julius ha utilizzato la capsaicina per identificare un sensore nelle terminazioni nervose della pelle che risponde al calore. La capsaicina è la sostanza chimica contenuta nella parte interna del peperoncino che sostiene i semi. È irritante per l’uomo o qualsiasi altro mammifero e sviluppa una reazione di calore e bruciore a seconda del grado di concentrazione. Il relativo grado di piccantezza è indicato dalla scala di Scoville che prende il nome dal suo inventore. Sotto il colonnato del Chiostro di Sant’Agostino ci siamo persi nel fantastico mondo dei peperoncini. Più di 400 varietà con forme, colori, piccantezza e provenienze diverse.
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Habanero Ivory Specie Chinense Origine Messico
Sabino
Piccantezza 100.000 shu 300.000 shu
Specie Annuum Origine Italia Piccantezza 180.000 shu
Black Tongue sc Specie Annuum Origine Bolivia
Buena Mulata Specie Annuum Origine Nicaragua
Piccantezza 50.000 shu 100.000 shu
Piccantezza 30.000 shu 50.000 shu
Alcuni esempi di varietà di peperoncino Jimmy Nardello's
Golden Cheyenne Specie Annuum Origine Sud America Piccantezza 30.000 shu 50.000 shu
Antillais 14.5
Specie Annuum Origine Italia
Specie Chinense Origine Africa
Piccantezza 0 shu
Piccantezza 300.000 shu 500.000 shu
Lemon Drop Specie Baccatum Origine Perù Piccantezza 15.000 shu 30.000 shu
Laura Rossini Photography
Trinidad Scorpion Long sr Specie Chinense Origine Tobago Piccantezza 800.000 shu 1.000.000 shu Giroinfoto Magazine nr. 72
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In effetti Cristoforo Colombo che pensava di poter fare un vero affare importando i semi di questa pianta, rimase fortemente deluso quando capì che la coltivazione era talmente facile da moltiplicarne in poco tempo l’offerta abbattendo irrimediabilmente il prezzo e infrangendone i sogni da business man. Oggi è impossibile catalogare tutte le varietà derivanti dalle diverse combinazioni e ibridazioni, ma tra queste il posto d’onore spetta al Peperoncino Sabino. Nato dalla fantasia dei fondatori della fiera L’Associazione “Rieti cuore piccante” che 5 anni fa hanno chiesto al Centro Appenninico del Terminillo “Carlo Jucci” di creare un peperoncino bello, buono, profumato, resistente al clima, elegante e rigoglioso. Un progetto ambizioso che a 5 anni dalla combinazione iniziale del seme del peperoncino “diavolicchio” di origine calabrese con il seme della varietà Brazil può finalmente iniziare il percorso per ottenere il riconoscimento di varietà autoctona e puntare al riconoscimento IGP.
Laura Rossini Photography All’ombra del campanile del Duomo, in Piazza Cesare Battisti, all’entrata dei giardini del Vignola, incontriamo Alessandra Padronetti presso lo stand della Si.mar. Uno splendido sorriso nascosto dalla mascherina, ma i suoi occhi dicono tutto. Porta avanti l’attività fondata dal nonno Natale nel 1952 rivolta prevalentemente a prodotti per l'agricoltura. Da sempre punto di riferimento importante per la città e la provincia perché opera con serietà e dedizione. Coordina la sua società e quelle ad essa collegate al fine di garantire al territorio i prodotti migliori, selezionati con cura. Ha ampliato l’offerta merceologica inserendo l’apicoltura, piante da orto (Ortoflora) e da frutta (Vivai Caldarini). Ha selezionato i migliori fornitori di sementi (Blumen) substrati (Brill) nutrizione e bio ( Fito). Per poter sopravvivere come realtà economica in questi ultimi due anni ognuno ha fatto la sua parte. È proprio Alessandra a dirci che i reatini sin dai primi momenti di difficoltà come il terremoto di Amatrice, si sono stretti gli uni agli altri dandosi forza, sperando e lavorando a testa bassa per un futuro migliore giorno dopo giorno senza preoccuparsi di cosa sarebbe stato, ma agendo. Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Ci presenta con orgoglio il vaso di peperoncino sabino. Fieri di aver potuto presentare il frutto del proprio lavoro ad avventori di tutta Italia. Le aspettative iniziali erano bassissime, ma la fiera è stata un vero successo. Partita dieci anni fa in sordina come gemellaggio con la città di Diamante fino ad arrivare nel 2021 a essere riconosciuta come Fiera Internazionale. "Reatini 1 – Cristoforo Colombo 0". Il lavoro puntuale di collaborazione e dialogo politico economico, richiama ai tavoli tecnici numerose Ambasciate. Oggi sì che c’è un interesse mondiale dietro questa povera spezia.
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Laura Rossini Photography Scorgiamo nel Giardino del Vignola le “Germinazioni in Rosso“ di Giuseppe Carta. Installazione di sculture dedicate alla spezia che solitamente aggiunge quella marcia in più a tutto ciò che incontra. Il peperoncino è cultura e la cultura produce opere d’arte che, in questo caso, celebrano il peperoncino. Le sculture sono posizionate su piedistalli e corredate da codice QR per la descrizione dell’opera e dell’autore. Sono state scelte a decoro dei giardini che la sera si trasformano in palcoscenico per lo show cooking dei cuochi dell’Associazione Professionale Cuochi Italiani – Lazio capitanati dal Direttore Chef Fabrizia Ventura. Riusciamo ad incontrarla e a strapparle un’intervista prima dell’ultima gran serata. Lei sì che incarna lo spirito del peperoncino. Fabrizia Ventura, reatina d’adozione, Chef Designer, Laureata in Storia dell'arte con specializzazione in Disegno, Incisione e Grafica. Docente Miur, Alberghiero Amatrice, Alberghiero Safi Elis Roma, Scuola di cucina TU CHEF, Direttore dell'APCI LAZIO (Associazione Professionale Cuochi Italiani), ideatrice e promotrice del marchio Cook Design ITALY e SUSCItalia. Ci racconta con fierezza del progetto impegnativo ma vincente nato tre anni fa: lo Space Lab per lavorare insieme agli allievi junior chef dell'Alberghiero di Amatrice. Di anno in anno, cerca di alzare l’asticella, allargando la partecipazione all’evento anche ad altre scuole di cucina. Si tratta di veri e propri laboratori dove gli allievi assistono gli chef professionisti nella preparazione di tutti gli show cooking delle serate e nella gestione anche di tutte le attività ad esse connesse. Dalla scelta delle materie prime, degli strumenti per la lavorazione, agli abbinamenti tra cibo e vino. Dalla progettazione e ideazione del piatto allo studio per la presentazione del prodotto finito. Mettiamo a disposizione di questi ragazzi i migliori professionisti provenienti da tutta Italia.
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Laura Rossini Photography
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"Uno chef non deve più solo saper cucinare, ma deve conoscere e gestire un discorso di mediaticità. Deve sapere collaborare e interagire con i colleghi, con i fornitori e con i clienti". Ovviamente si è partiti dal territorio e dai prodotti tipici per arrivare a dedicare momenti di approfondimento tematico come la degustazione di vini ed oli, l’affinamento del formaggio, o prodotti tipici locali come il guanciale di Amatrice, il pecorino di Sommati, lo zafferano del cicolano o di altre culture regionali come la stroncatura Calabrese. In realtà non si tratta di un vero e proprio show cooking, ma della possibilità di far vivere ad allievi e persone comuni delle vere esperienze. Il Peperoncino è il condimento per eccellenza insieme al sale e come tale può essere utilizzato in vari modi ed in questo i reatini sono maestri. Ci spostiamo in piazza Oberdan dove sono concentrati gli stand dedicati al food piccante e non solo provenienti da tutta Italia.
Mai bevuto una birra al peperoncino? A Rieti si può. Dall’idea di Claudio Lorenzini nel 2010 nasce Alta quota, un birrificio artigianale a Cittareale. La moglie Silvia ci racconta la loro storia.
Gianmarco Marchesini Photography
"Abbiamo iniziato nel 2011 con la prima edizione della fiera mondiale del peperoncino che ci ha portato un grandissimo successo anche grazie alla birra chicano. La prima birra in Italia al peperoncino.
Abbiamo prodotto inizialmente una limited Edition, ma subito dopo abbiamo pensato di farla diventare invece una birra annuale. Importanti sono stati i consigli dell’Accademia Italiana del peperoncino che ci ha consigliato di utilizzare il peperoncino rocoto. Anche se di origine peruviana abbiamo utilizzato quello nostrano e l’abbiamo inserito in una birra bionda con aggiunta di farro. Volevamo che i prodotti locali utilizzati fossero quelli delle nostre zone per valorizzare e caratterizzare il territorio. Il grado di piccantezza non doveva essere eccessivo né invadente. Si doveva sentire un leggero pizzicorio solo dopo qualche sorso. Il peperoncino ci ha portato fortuna in un certo senso perché l’esperienza per noi si è rinnovata con la presenza in fiera tutti gli anni. Nel 2019 visto il progetto del peperoncino Sabino abbiamo pensato di sperimentare un nuovo abbinamento ed è nata AXI, apprezzata tanto dagli italiani quanto dagli stranieri". Laura Rossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Dal produttore locale di Genziana con lo slogan SE BO BE BI (se vuoi bere bevi), alla Cioccolateria Napoleone di Piazza Oberdan che sperimenta sempre nuove idee come la RIetella, una crema spalmabile aromatizzata al peperoncino e tanti altri gusti. La fiera del peperoncino si è dimostrata una grande opportunità e vetrina per tutte le attività presenti sul territorio, siano esse ricettive, storicoculturali, sportivo-naturalistiche. È stato un gran successo e non ci resta che aspettare l’anno prossimo, ma Rieti è sempre lì e sta diventando un’eccellenza in ricettività, accoglienza e organizzazione di eventi. La materia prima c’è…basta visitare il sito www.visitrieti.com Nei mesi di Ottobre e Novembre si susseguono iniziative di ogni tipo dislocate in tutto il territorio. Ogni scusa è buona. Ringraziamo gli addetti stampa della fiera, l’organizzazione e tutti coloro che hanno reso speciale questo evento. Alessandra Padronetti Lo chef Designer Fabrizia Ventura Silvia Lorenzini
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A cura di Lorena Durante
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Le Langhe non sono solo vino e cibo, ma sono anche luoghi di cultura e Santo Stefano Belbo ne è la conferma. Il piccolo paesino incastonato tra le colline al confine tra langhe e Monferrato è il paese natale di uno dei maggiori intellettuali del XX secolo: Cesare Pavese ed ogni anno nell’anniversario della sua nascita viene organizzata una rassegna che porta sul palco musica, arte, teatro accompagnati da mostre e presentazioni di libri. Il Pavese festival, realizzato grazie alla Fondazione Pavese, da ben vent’anni ogni anno invita grandi protagonisti del panorama culturale italiano a dialogare con lo scrittore, le sue opere e i luoghi che le hanno ispirate.
"Quello che cerco l'ho nel cuore, come te" ecco la frase scelta come tema per il festival 2021. Un invito all’ascolto interiore per tornare alla propria verità, dopo un lungo periodo di inquietudini e incursioni nell’ignoto causate anche dalla pandemia in corso.
Lorena Durante Photography
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Il programma di quest’anno (9, 10, 11, 12 settembre) si è aperto giovedì 9 settembre con la presentazione di una nuova proposta editoriale curata da Marcello Fois e fortemente voluta dalla Fondazione Cesare Pavese in collaborazione con Emons: l’audiolibro dei Dialoghi con Leucò, interpretati da Michela Cescon, Paolo Cresta, Alessandro Curti, Marcello Fois, Iaia Forte e Neri Marcorè e accompagnati dalle musiche di Gavino Murgia. Le serate del festival, invece, hanno visto sul palco per primo Alessandro Preziosi con una prima nazionale del recital ispirato all'ultimo romanzo di Pavese, "La luna e i falò", per proseguire con Neri Marcorè con un'interpretazione dei "Dialoghi con Leucò" accompagnata dalle note di Domenico Mariorenzi e per ultimo il sabato sera Omar Pedrini (la serata a cui abbiamo partecipato noi di Giroinfoto) con un viaggio on the road ispirato alla passione di Cesare Pavese per la cultura e la letteratura americane.
Due altri importanti momenti del festival sono stati la presentazione della mostra di Concetto Fusillo, pittore, scultore e incisore siciliano, dedicata a D'Annunzio e Pavese, nella chiesa sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo, e la presentazione del libro di Martina Merletti, nella splendida cornice della Cantina Marcalberto. Non è mancata nel programma anche una passeggiata tra le colline che circondano Santo Stefano Belbo scandita dalla lettura di brani pavesiani a cura di Paolo Tibaldi, occasione per inaugurare il MOM (Multimedia Outdoor Museum), un vero e proprio museo del territorio all’aperto. Il MOM come si può leggere nella sua presentazione vuole portare i visitatori di questi luoghi a camminare nella cultura e nel paesaggio in 5 percorsi iconici adatti a tutti. Ogni sentiero è caratterizzato da un tema: Letteratura, Musica, Mito, Emozioni e Sentimenti, Territorio e tradizioni; grazie ad un'applicazione da scaricare si verrà guidati durante la camminata in viaggio virtuale attraverso un approfondimento dell'universo di Cesare Pavese e delle tradizioni di langa.
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L’ultima giornata del festival, domenica 12 settembre, è iniziata con la presentazione del progetto This Must Be Ultra: un’ultra maratona in solitaria e un dialogo a distanza per ricordare Cesare Pavese, da Torino a Santo Stefano Belbo, progetto a cura di Claudio Lorenzoni e Valentina Cei, in collaborazione con il Museo a Cielo Aperto di Camo. Nel pomeriggio si è esibito il duo-rivelazione del festival di Sanremo: Colapesce e Dimartino, in dialogo con il giornalista Massimo Cotto per quello che sarà l’evento di chiusura del festival Borgate dal Vivo. Ma a chiudere la ressegna è stato il teatro con lo spettacolo “Caro Maestro” di Valerio Binasco e Giulio Graglia, ispirato al carteggio che rivela la passione non ricambiata tra Luigi Pirandello e l’attrice Marta Abba.
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Ma torniamo all’evento di sabato sera al quale grazie all’invito della Fondazione pavese abbiamo potuto assistere, Omar Pedrini che era già stato al festival l’anno passato è tornato accompagnato per la serata da Simone Zoni, giovane allievo del cantante, in un duo elettroacustico. Sul palco si sono avvicendati anche Davide Apollo, dei Precious Time cover band dei Timoria, e da Gipeto Braccato con uno spettacolo diviso tra musica e letture. Il cantautore e storico leader dei Timoria, ha proposto un inedito parallelo tra il percorso pavesiano e la beat generation intervallando alcune sue canzoni con brani letti meravigliosamente dall’attore di teatro Gipeto.
Una nuova rilettura che privilegia il rapporto sentimentale tra i due, ricostruito attraverso una serie di lettere scritte tra il 1926 e il 1936.
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Omar Pedrini Sentiamo direttamente dalle parole di Omar, che cosa rappresenta per lui Pavese, il Pavese Festival e come li vive: “È un grandissimo piacere, nonché un onore, essere qui per la seconda volta in questi ultimi anni: uno per la mia passione per Pavese che mi ha fatto amare questi luoghi, come sarebbe impossibile non fare, e poi perché sono stato stimolato proprio da Pier, il direttore, ad andare a cercare in Pavese qualcosa di Vitale; quell’energia che credo i “pavesofoli” apprezzino molto, ossia far capire che la vita è ciò che è al centro sia della sua opera che nella sua vita. Lo scopriamo spesso nei suoi saggi e lo scopriamo quando racconta gli altri nella sua saggistica. Questo spettacolo nasce appositamente per il Pavese festival, in quanto è nato a tavola, come piace fare a me e come piace fare ai piemontesi. Con il presidente Pierluigi, parlavamo come nell’immaginario comune Pavese sia visto come una figura perennemente malinconica, perennemente sconfitta, talvolta, e tutto questo ci ha fatto venire la voglia di raccontare un Pavese diverso, che non significa tradire né il testo né l’artista, ma far capire che la lettura di Pavese è vita. È sempre anche nei momenti bui una spinta per la vita. Allora cosa meglio del rock per individuare questi angoli dei suoi scritti o dei suoi pensieri? Quindi abbiamo studiato con Gipeto, con Pierluigi e con gli altri miei collaboratori un percorso sull’America, perché in alcuni passi abbiamo letto della sua ricerca dell’America, della sua speranza dell’America come un luogo nuovo. Non Giroinfoto Magazine nr. 72
dimentichiamo che uscivamo dal fascismo, per cui usciti dal ventennio che lui subì in tanti modi e a cui lui si oppose, comincia a guardare all’America come nel paese dove qualcosa di nuovo potesse nascere e anche questo è vita, anche questo è speranza. Anche per questo ho fatto questo percorso un po’ particolare lungo la speranza, la vita, la vitalità che c’è in Pavese, che spesso magari non vogliamo vederla, perché l’immagine sua storicamente è stata offuscata da alcuni aspetti della sua biografia, su tutti il suicidio. Il mio rapporto è liceale, quindi nasce dal liceo, come molti ragazzi che qui si innamorano di Pavese e dei “poeti maledetti” francesi. Insomma, sono le letture giovanili più amate. Poi negli anni ho iniziato a conoscerlo meglio anche attraverso i libri minori per cui è un autore che risulta nuovo ogni volta. Mi capita spesso di riguardare film e di ritrovare degli aspetti che non avevo colto nella prima visione. Con Cesare Pavese ho spesso questa sensazione o mi accade di non ricordare di ritrovare degli aspetti che avevo trascurato alla prima lettura. È un autore pregno e alcune sue pagine sono pesanti come peso specifico, quindi rileggerlo è un consiglio che do a coloro che lo amano perché ha aspetti che non emergono magari alla prima lettura
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Il Pavese Festival e altri importanti eventi culturali sono resi possibili grazie alla Fondazione Pavese, nata nel 2004 ed erede del Centro studi Pavese che era stato istituito nel 1973 dal comune di Santo Stefano Belbo. Il suo Consiglio di Amministrazione è composto da 5 membri: il sindaco del Comune di Santo Stefano Belbo, un rappresentante della famiglia Pavese e i tre rappresentanti del comune, della provincia di Cuneo e della Regione. Prima del Concerto abbiamo intervistato Pierluigi Vaccaneo, direttore dell’ente dal 2010, Laureato in lettere Moderne, ha fondato IVM Multimedia nel 2005 e da oltre 15 anni si occupa di nuovi media e divulgazione culturale.
Dott. Vaccaneo, che cosa rappresenta per lei Cesare Pavese? Cesare Pavese per noi è un’opportunità. È uno dei più grandi scrittore del ‘900 italiano, riconosciuto in Italia e in tutto il mondo. Personalmente, rappresenta un pezzo della mia vita. Sono sanstefanese e, come lo scrittore, condivido queste colline; per me Pavese rappresenta quindi le mie terre, un simbolo di quell’identità inseguita da Anguilla, protagonista di “La luna e i falò”, che cerca nel suo viaggio a Santo Stefano Belbo prima, poi Se ritorniamo alle sue opere, alle sue parole e ai suoi pensieri, in America e poi di nuovo a Santo Stefano. Quindi, è sicuramente qualcosa che sento dentro, un sentimento vediamo invece che la sua era una ricerca di vita, una ricerca quotidiana di passione, di abbandono alla vita. molto profondo e molto importante. Poi c’è invece il valore più comunitario, collettivo e qui andiamo a parlare del grandissimo scrittore che ha portato la cultura americana in Italia, la psicanalisi e l’antropologia, discipline che in quegli anni, contestualizzando il suo lavoro culturale in quel periodo storico, erano anche considerate fuorilegge o comunque non consone a quello che era l’abitudine italiana. Oggi Pavese è un’opportunità di divulgazione culturale, di conoscenza individuale, è un’opportunità di crescita individuale e collettiva che deve essere guardata da due punti di vista: quello accademico, in quanto scrittore da sempre è studiato, letto e conosciuto e riconosciuto, e quello personale e divulgativo. E qui entriamo nel ruolo degli enti culturali perché dobbiamo fare anche qualcosa di più profondo, rispetto alle Accademie e alle Università. Dobbiamo cercare di prendere il messaggio pavesiano e tradurlo in qualcosa che sia utile per l’intera comunità: l’appassionato, il lettore, lo studioso e anche per chi ancora non lo conosce.
I suoi personaggi erano personaggi giovani, pieni di vita, adolescenti vivaci, quindi si capisce che se facciamo questo raffronto vediamo a quel punto un potentissimo contenuto, che può diventare importantissimo per le nostre generazioni attuali, le giovani generazioni e le vecchie. Tutti quelli che leggono questo scrittore, trovano poi una risposta alle inquietudini e ai dubbi che si hanno quotidianamente.
Questo bisogno di ricerca interiore è anche ribadito nella frase che è stata scelta come tema di quest’anno del Pavese Festival? Si esattamente, per questo festival abbiamo scelto la frase “Quello che cerco l’ho nel cuore come te”, che è la frase che Ulisse dice alla dea Calipso nei “Dialoghi con Leucò” per far capire alla dea che i loro due destini non si possono far abbracciare, non possono collimare e dunque rifiuta la proposta di amore eterno che egli aveva fatto alla dea.
Vediamo che quando questa operazione riesce, ad esempio con linguaggi tipo il Pavese Festival, il messaggio viene accolto e apprezzato. Le nostre iniziative vogliono essere proprio questo: un mezzo, che tramite strade diverse, porta a tutti il pensiero pavesiano, cercando di farlo comprendere e farlo proprio. Quando vediamo che cade quella barriera di diffidenza che le persone hanno nei confronti di un autore, ricordato purtroppo dai più soltanto per l’”atto estremo”.
E questo significa che dobbiamo ritornare al nostro destino, ritornare alla nostra verità, alla nostra identità; essere consapevoli della nostra strada e del nostro percorso e stare lì dentro, senza immaginare di essere altrove. Gli occhi che campeggiano sulla locandina, ci sono perché stiamo vivendo ancora oggi, dopo due anni con le mascherine, un contatto con le persone solo con gli occhi. Questa situazione potrebbe anche essere un’opportunità per cercare di trovare e recuperare, attraverso lo sguardo, quell’interiorità che magari abbiamo dimenticato. Ma il suicidio non deve essere l’unica lente attraverso cui si Tale ricerca può sicuramente fare bene non solo a noi stessi, guardano i suoi scritti. ma soprattutto anche alla collettività e alla comunità. E il ruolo della cultura è anche questo. Giroinfoto Magazine nr. 72
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La Fondazione offre agli appassionati di Pavese vaste opportunità di studio, approfondimento e attività per conoscere profondamente lo scrittore. Di particolare interesse sono ad esempio i “Dialoghi con Pavese”. Ci può raccontare qualcosa sui contenuti? Quest’anno dedichiamo il festival ai “Dialoghi con Leucò”, che forse è il testo più complesso dello scrittore e probabilmente il meno letto e conosciuto, proprio perché affonda le sue radici nel mito greco e nella sua storia. In realtà Pavese lo ritiene come l’unico scritto che abbia veramente un messaggio, perché per lo scrittore rappresenta un viaggio interiore attraverso i personaggi del Mito. Il festival è stato inaugurato il 9 settembre con la presentazione di un audiolibro sui ”Dialoghi con Leucò”, pubblicato in collaborazione con la casa editrice Emons, e cui abbiamo abbinato anche un libro cartaceo. L’idea era proprio questa cercare di creare un prodotto che fosse nuovo, perché anche per la casa editrice è un prodotto nuovo (libro+audiolibro), che mai è stato realizzato fino ad oggi. La lettura dei 27 dialoghi è stata affidata a grandi attori del teatro italiano, quali Neri Marcorè, che è stato ospite in una delle serate del festival.
Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
L’intervento di Neri è stato proposto cercando ancora una volta proprio la forma del dialogo: un duetto tra racconto e musica italiana. Per esempio, Neri ha letto “L’isola”, ha trovato una canzone che esprimesse gli stessi contenuti di Pavese e l’ha cantata, creando un interessante grande dialogo. Questo è proprio il nostro modello, il nostro modo di operare: cercare delle contaminazioni, creare incroci di linguaggi per trovare la strada giusta, in modo tale che ognuno possa capire quello che gli piace ed avvicinarsi a Pavese. Il nostro obbiettivo da una serata come quella con Neri è che le persone vadano a casa e prendano dalla libreria i “Dialoghi con Leucò” o se li scarichino (oramai i diritti sono liberi). Se succede questo, allora davvero il nostro compito è andato a buon fine.
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LA FONDAZIONE PAVESE Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Il museo e la biblioteca sono una risorsa ricchissima per gli studiosi e gli appassionati. Il catalogo comprende anche video, e-book e audiolibri. Sono stati pensati per uno specifico target di utenti o sono la naturale evoluzione verso il mondo digitale?
Abbiamo inizialmente lanciato un podcast, anche in questo caso fatto grazie ad un gruppetto di ragazzi molto brillanti, che hanno cominciato a proporre sul web le pillole di cultura, che non sono bignami o semplificazioni della cultura, ma semplicemente dei piccoli spot culturali. Come per il “Moby Dick”: tre minuti che ha unico obiettivo non quello di spiegare il romanzo o raccontarne la storia, ma piuttosto di stimolare la curiosità, di far venire voglia di andare a prendere il testo per poterlo approfondire.
Io credo che sia quello che dobbiamo fare noi oggi, perché chiaramente non possiamo più pretendere di fare cultura come giustamente si faceva quaranta o cinquant’anni fa. Oggi dobbiamo capire quali sono gli strumenti che abbiamo a disposizione e cercare di usarli anche in maniera combinata e innovativa.
Noi quello che dobbiamo fare è accendere la scintilla, come appunto accendere un falò. Questo è un po’ il nostro mestiere.
L’innovazione che cos’è? Guardare cosa hai sul tavolo e cercare di combinarlo in maniera diversa rispetto a come era stato combinato prima e questo significa creare dei prodotti nuovi. Questo è quello che abbiamo cercato di fare noi, ad esempio, prima di lanciare l’audiolibro dei “Dialoghi con Leucò”. Lorena Durante hotography
L’interazione con gli utenti è molto sentita dalla Fondazione. Ci può parlare delle visite guidate e dei tour nei luoghi pavesiani? C’è un messaggio che volete trasmettere, soprattutto ai più giovani? Ci occupiamo di tour e delle visite, ma vorrei anche parlare di gite di classe. Nella gita di classe, che tutti noi abbiamo fatto e che noi prima del lockdown ospitavamo quotidianamente partendo dal mese di aprile fino alla fine della scuola, vedevi questi ragazzi che arrivavano ed erano già mal predisposti.
Ecco, credo che nei confronti di Pavese, ma nella cultura in generale, ci sia tanto preconcetto: l’adolescente e le nuove generazioni trovano nello scrittore una risposta alle loro domande, una guida nel loro percorso di crescita e di formazione, perché Pavese scrittore era un ragazzo, o meglio, era un uomo alla ricerca del suo “ragazzo pavese”, di quello che probabilmente non è mai riuscito a vivere appieno, perché schiacciato dalla necessità dell’”uomo pavese” di diventare scrittore. A Pavese un suo insegnante delle scuole superiori Augusto Lorena Durante Photography Monti disse: “Insomma, sei giovane, sei un ragazzo. Inforca una bicicletta e vatti a divertire!” e lui gli rispose: “Non posso abbandonarmi a vivere, la letteratura è un’amante troppo gelosa”.
Arrivavano con il viso un po’ annoiato, consapevoli di dover passare due ore magari noiose. In realtà, se riuscivamo a trasmettere loro qualche input e qualche messaggio, allora vedevi che incominciavano ad incuriosirsi e cominciavano a chiedere informazioni. Molte volte, dopo la visita, ci sono arrivate delle mail in cui questi ragazzi ci raccontavano che avevano letto Pavese e non si immaginavano di trovare un romanzo così meraviglioso.
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La fondazione creata inizialmente per curare le manifestazioni del centenario della nascita dello scrittore è diventata un punto di riferimento per tutte le iniziative nazionali e internazionali relative allo scrittore. Oltre al festival pavese si occupa di organizzare mostre, eventi enogastronomici come la “Notte di Festa” e occuparsi dell’apertura del Museo Pavesiano, della casa Natale dello scrittore. Nella nostra visita a Santo Stefano Belbo siamo riusciti a visitare il Museo allestito all’interno della sede della fondazione insieme alla biblioteca comunale e la chiesa sconsacrata adiacente dei Santi Giacomo e Cristoforo, adibita ad auditorium con 100 posti a sedere. Il Museo Pavesiano è un percorso interattivo e una raccolta di documenti e fotografie. Nella chiesa abbiamo potuto ammirare una serie di cinque grandi tele (200cmx300cm) dell’artista milanese Ernesto Treccani (1920-2009) dedicate a “La luna e i falò” e donate al Comune di Santo Stefano Belbo e la mostra di Concetto Fusillo allestita e inaugurata in occasione del Pavese Festival.
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L’ultimo piano della Fondazione Cesare Pavese è adibito a foresteria per studenti e studiosi provenienti da tutte le parti del mondo.
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Un’ altra importante tradizione portata avanti dalla fondazione è il Premio pavese, un famoso premio letterario istituito nel 1984 dal Comune e assegnato con cadenza annuale con sede nella casa natale dello scrittore a Santo Stefano Belbo. Tra gli autori insigniti del Premio Pavese nel corso delle passate edizioni si ricordano: il critico d’arte Vittorio Sgarbi, la scrittrice Margaret Mazzantini, l’autore Alessandro Baricco, (2012); lo scrittore e semiologo Umberto Eco(2011); il giornalista Gad Lerner, l’astrofisica Margherita Hack, (2010); lo scrittore Andrea Camilleri, (2009); lo scrittore Alberto Bevilacqua gli scrittori Antonio Debenedetti e Raffaele Nigro (2001); il giornalista Marcello Sorgi (2000). Le sezioni in cui il Premio è suddiviso sono tre e intendono rappresentare i tanti ambiti in cui Pavese aveva lavorato: narrativa, editoria, traduzione e saggistica, riconoscendo in ciascuno una personalità che si è distinta nel corso degli anni per passione, cura del lavoro, creatività, continuo confronto con il mondo. Il Premio si è arricchito dal 2020 inoltre, di una sezione dedicata alle scuole in cui vengono premiati i ragazzi che hanno partecipato al concorso dedicato ai temi del romanzo “La luna e i falò” con un premio in materiale didattico a sostegno delle loro classi in un periodo complesso per tutte le scuole d’Italia.
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Per maggiori informazioni:
Fondazione Cesare Pavese
Piazza Confraternita, 1 12058 Santo Stefano Belbo Tel 0141843730 - Fax 0141844649 Email: info@fondazionecesarepavese.it Web: www.fondazionecesarepavese.it
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Cesare Pavese
Cesare Pavese, nato a Santo Stefano Belbo nelle Langhe, visse quasi sempre a Torino, dove entrò in contatto con esponenti dell'antifascismo. Intraprese il lavoro editoriale, diresse (1934) la rivista "La Cultura", ma quando (1935) la rivista fu soppressa dal regime fascista, venne arrestato e condannato a tre anni di confino. Graziato, dopo un anno, tornò a collaborare con l'editoria, svolgendo un intenso lavoro di saggistica e traduzione di autori inglesi e americani, (tra gli altri D. Defoe, H. Melville e J. Joyce) e prendendo parte all'antologia Americana (1941), curata da E. Vittorini. Sua prima opera fu la raccolta di poesie Lavorare stanca (1936), la cui seconda edizione (1943) comprende anche l'importante saggio Il mestiere di poeta.
romanzo Il compagno (1947); i Dialoghi con Leucò (1947); i testi di narrativa di Prima che il gallo canti (1949); i tre lunghi racconti che costituiscono La bella estate (1949). Il punto più alto della sua attività, la pubblicazione del romanzo La luna e i falò (1950), coincise con il culmine della sua crisi esistenziale che lo spinse a togliersi la vita in una stanza d'albergo a Torino. Dopo la sua morte furono pubblicate le poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951); i racconti Notte di festa (1953); il romanzo Fuoco grande (1959), scritto con B. Garufi e soprattutto l'interessantissimo diario (1932-1950), edito con il titolo Il mestiere di vivere (1952, 1990).
Nonostante le numerose, intense amicizie, Pavese visse gli anni dell'anteguerra e della guerra in uno stato di solitudine psicologica intensa e dolorosa a causa anche di una vita sentimentale difficile e tormentata. Nel romanzo Paesi tuoi (1941) che lo impose all'attenzione della critica, sono già presenti tutti i temi della sua produzione più matura. Per tutto il periodo della Resistenza, alla quale non partecipò direttamente, si rifugiò presso una sorella nel Monferrato. Qui scrisse i racconti di Feria d'agosto (1946). Dopo la Liberazione Pavese iniziò un periodo di impegno politico nel Partito Comunista e di grande creatività: scrisse il
“Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là.”
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Viaggio fotografico nel passato
A cura di Rossella Falcone
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"Ogni piacere si arricchisce del ricordo di piaceri trascorsi".
Leggendo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, ero curiosa di vedere dove le parole potessero prendere forma, impaziente di guardare con occhi miei i luoghi della memoria. Villa Adriana è stato un viaggio tridimensionale nella storia e nelle emozioni che, passo dopo passo, mi riempivano gli occhi e la mente.
[Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano]
Ripercorriamolo insieme.
Mentre il sole illumina l’opus reticolatum del quadriportico che circonda il Pecile, si può già percepire la bellezza e la maestosità di un’area archeologica che rispecchia squisitamente la sintesi della cultura greco-romana con influenze egizie.
In particolare, il lungo muro adrianeo costituisce la struttura centrale che sosteneva due falde di tetto. In quel lato del quadriportico dove i turisti possono entrare e iniziare a visitare le rovine esisteva, infatti, una apertura che dava sia verso il giardino sia verso l’esterno.
La Villa in stile adrianeo - dichiarata Patrimonio dell’UNESCO nel 1999 - rappresenta la maestria dell’unione di cultura e architettura visionaria. La costruzione, voluta da Publio Elio Traiano Adriano (76138 d. C. ), non è una struttura comune, ma è immaginata e progettata dall’imperatore stesso come un insieme di edifici con diverse funzioni, valorizzati da giardini, fontane, statue e vasche artificiali.
Tale soluzione consentiva di passeggiare al riparo, girando attorno alle mura sia d’estate (in ombra) che d’inverno (al sole), grazie alla posizione perfettamente allineata da est a ovest. Si dice anche che fosse costruito in questo modo per dare la possibilità di passeggiare dopo pranzo.
Dai piccoli particolari si possono immaginare i colori, le decorazioni, la varietà dell’articolazione delineata in strutture innovative e l’amore di Adriano per l’arte e la bellezza, visibile anche nella vastità dei giardini e aree verdi che costellano le rovine.
In effetti, se si percorre tutto il perimetro del Pecile per sette volte, si percorre esattamente la distanza che permetteva la digestione, in base ai consigli degli antichi medici romani. Il Pecile è voluto proprio per riportare in scala più ridotta la Stoà Poikìle di Atene, cioè un portico nei pressi dell’agorà, costruito nel V secolo a.C., le cui pareti erano dipinte di vari colori da pittori illustri.
Entrando sotto l’arco di ingresso del quadriportico, si può cogliere la cura voluta per i dettagli nella costruzione di ogni angolo della Villa.
PIAZZA D'ORO PALAZZO
PESCHIERA
TEMPIO DI VENERE
HELIOCAMINUS
TEATRO MARITTIMO PECILE
INGRESSO
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CENTO CAMERELLE
SERAPEO GRANDI TERME
CANOPO
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La Villa, situata vicino Tivoli, a circa 30 chilometri dalla capitale, e distribuita su un’area di 120 ettari e è stata utilizzata da Adriano soprattutto nell’ultimo periodo del suo impero a scopi governativi. L’imperatore infatti non amava la reggia del Palatino e il caos dell’antica Roma. L’area della Villa includeva palazzi, diverse terme, teatri, templi, librerie, quartieri di abitazione per cortigiani, pretoriani e schiavi. Gli stili che si possono incontrare durante la passeggiata tra edifici e rovine sono molto diversi fra di loro, proprio perché si voleva ricostruire in parte quello che l’imperatore aveva visto nel corso dei suoi lunghi viaggi. Continuando a camminare tra alberi, aiuole e siepi ben curate, si può scorgere in lontananza una delle prime strutture presenti nella tenuta imperiale, le Terme con Heliocaminus. Queste terme, le più antiche della villa, sono chiamate in questo modo proprio perché all’interno dell’edificio si riconosce un heliocaminus nella sala circolare più grande.
La sala fungeva da sauna ed era un ambiente particolarmente riscaldato, oltre che dai raggi solari, anche da un sistema tradizionale che permetteva la circolazione di aria calda proveniente dai forni laterali. Il calore dei forni, circolando sotto il pavimento permetteva un continuo riscaldamento, infatti sotto le rovine si intravedono i fori di passaggio dell’aria che al tempo erano nascosti da marmi pregiati e mosaici. La sala è, inoltre, coperta da una cupola cassettonata, con un occhio centrale che permetteva ai raggi del sole di entrare e illuminare maggiormente gli spazi insieme alle grandi e numerose finestre direzionate verso il percorso del sole. L’esposizione di tali ambienti a sudovest consentiva di sfruttare al massimo l’azione dei raggi solari sia per la luce che per il calore, studiata proprio per riscaldare e rendere vivibili gli ambienti quando i Romani si recavano alle terme per rilassarsi e frequentare i bagni, come solito rituale giornaliero. Guardando le rovine non si può non immaginare la frenesia dei tanti che lavorano ai forni e la quiete e rilassatezza dei patrizi romani mentre godevano dei servizi a disposizione; infatti, alle spalle della sala è riconoscibile il frigidarium, dove si poteva accedere dopo la sauna.
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La stanza che oggi si intravede era costruita con una grande piscina a forma di semicerchio circondata da un portico colonnato. Una sorta di ambiente di passaggio che permetteva di giocare con le temperature e che costituiva il passaggio ad un secondo ambiente, meno freddo e riscaldato chiamato calidarium; nelle rientranze delle pareti di questo ambiente erano ricavate le due vasche rettangolari per i bagni caldi. Immaginando i mosaici e i marmi che caratterizzavano ogni angolo delle terme, non si può non immaginare e restare stupiti dell’accuratezza dei dettagli e la magnificenza di questo edificio.
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I resti delle strutture riportati alla luce dagli scavi confermano come questa fosse veramente una delle più ricche e famose ville romane. Il Teatro Marittimo è proprio un gioiello incastonato nell’insieme di opere architettoniche da poter visitare. Si trova nei pressi dell’estremità Est del Pecile un edificio tra la Sala dei Filosofi, le Terme con Heliocaminus e il Cortile delle biblioteche. Il Teatro ha una struttura che ha al centro una piccolissima isola artificiale a forma di cerchio. Attorno all’isola attualmente c’è una piccola piscina che al tempo di Adriano era continuamente rifornita da acqua corrente e fresca. Tutta la struttura e la piscina circolare sono circondate da un porticato di colonne ioniche coperto da una volta a botte. Per accedere all’isola centrale esistevano due piccoli ponti girevoli che collegavano la piccola oasi dell’imperatore al mondo esterno. Proprio nei giochi d’acqua si coglie veramente come Villa Adriana sia stata pensata e come la mobilità dell’acqua e i riflessi all’interno degli ambienti dell’isola siano fondamentali non solo nel Teatro Marittimo, ma anche in altre zone della residenza. Infatti, l’acqua consentiva di creare giochi di luce ed ombre contro la staticità delle alte colonne o delle pareti di marmo, che con la luce del sole riflessa nell’acqua prendevano forma e potevano imprigionare lo sguardo di chi abitava quegli ambienti.
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Questa domus privata dell’imperatore era una sorta di residenza minore all’interno della residenza imperiale. All’interno delle decorazioni dell’atrio, si intravedono, infatti, soggetti marini che hanno dato il nome al complesso. Se si immagina di accedere all’isoletta centrale, a sinistra del peristilio del colonnato di ingresso, si possono vedere due piccole stanze, chiamate cubicula, a forma di croce; a destra, invece, erano posizionate e terme private di Adriano con ambienti in miniatura che ricordano quelli delle terme con Heliocaminus. In tal modo, l’imperatore poteva godere del tepidarium e calidarium, per poi potersi spostare con comododità verso un bellissimo frigidarium circondato da colonne e decorato finemente, da cui si poteva accedere alla piscina laterale che circonda il piccolo isolotto per poter fare un bagno alla luce del sole.
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Le Grandi Terme prendono il nome dalle dimensioni mastodontiche di queste rovine che sono particolarmente grandi se messe a confronto con tutte quelle presenti nella Villa.
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ormai crollate, ma anch’esse si possono ricostruire con l’immaginazione.
Entrambi i complessi delle Piccole e Grandi Terme erano collegati, da un corridoio sotterraneo che permetteva l’accesso ai praefurnia ed erano direttamente raggiungibili dal personale di servizio alloggiato nell’area delle Cento Camerelle, che si trova sul lato del Pecile ed è ancora oggi visibile. Nelle Cento Camerelle, in cui alloggiavano le centinaia di schiavi che servivano la villa, sono una struttura semi interrata costituita da tante piccole stanzette, l’una di seguito all’altra. All’interno di queste piccole residenze di servizio presumibilmente non esisteva un pavimento o pareti adornate, contrariamente a tutti gli altri edifici che possiamo incontrare ancora oggi nel nostro percorso. Le Grandi Terme sono immediatamente riconoscibili dalla forma circolare e dalla copertura a calotta con il solito occhio centrale che illumina la sala per la sudatio o sauna. La calotta è ormai crollata e, dunque, si può soltanto immaginare l’impressione che un abituale visitatore delle terme potesse avere entrando in una stanza così imponente. Come per le altre terme anche queste cercano di sfruttare al massimo la luce del sole con l’utilizzo di grandi finestre,
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Andando avanti nella visita si possono incontrare i tepidaria, stanze riscaldate, al di sotto delle quali sono visibili i mattoni forati che permettevano la circolazione dell’aria calda. Si susseguono poi i calidaria , in origine delle grandi vasche per il bagno caldo che veniva fatto prima di accedere al frigidarium, la zona centrale delle terme. Il frigidarium era un’ampia sala rettangolare con volta a crociera, che costituiva la piscina per il bagno freddo. In tutti gli ingressi che i romani potevano incontrare durante il loro percorso termale potevano trovare colonne di stile ionico imponenti e finemente lavorate e la vasca absidata era abbellita originariamente da statue delle quali si possono ancora notare le nicchie nella parete di fondo. Dal frigidarium si poteva accedere, oltre che all’ambiente circolare per la sudatio, anche ad un’ampia sala riscaldata, affacciata sul lato meridionale, che presenta la peculiarità di un soffitto decorato da stucchi con motivi geometrici.
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Nella seconda fase di costruzione della villa viene realizzata una struttura di collegamento tra più zone del Palazzo Imperiale, dalla quale si potevano raggiungere il Triclinio Estivo, l’Edificio con Peschiera, il Peristilio Esterno e la Piazza d’Oro. E si poteva accedere ad un vasto ambiente rettangolare porticato con pilastri scanalati e trabeazione a metope e triglifi di tipo dorico. Il portico era coperto con volta a botte e rivestito di lastre di marmo sia sulle pareti che sul pavimento. Al centro della parete semicircolare, arricchita di nicchie, era collocato un gruppo di statue, di cui resta il basamento. Proprio da questa zona di passaggio, camminando si poteva entrare nel Palazzo Imperiale che era ed è ancora nella nostra immaginazione, il cuore della residenza e della vita politica e privata dell’imperatore e della sua corte. Una scala consentiva l’accesso principale dal Cortile delle Biblioteche al livello del Palazzo collocato in alto rispetto alle altre strutture. Il palazzo imperiale si articola in più settori, ed è anch’esso circondato da spazi con giardini, cortili, piccole stanze private, tutte abbellite da statue, marmi, mosaici e colonne.
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Il portico del palazzo, caratterizzato da una serie continua di piccole nicchie rettangolari e una circolare sul muro di fondo, è stato associato ad una biblioteca, infatti, si pensa che nelle rientranze dei muri fossero collocati originariamente gli scaffali per i volumina (libri). Da uno dei due ambienti, si accede al Triclinio dei Centauri, una sala suddivisa in tre navate da due file di colonne, il cui pavimento mosaicato, ricco ed elaborato, comprendeva figure con vari soggetti, come ad esempio il quadro con centauri assaliti dalle belve e quadri con divinità e maschere visibili oggi solo a Berlino e nei Musei Vaticani. Nella zona centrale è tuttora visibile il pavimento a mosaico bianco con frammenti di marmi colorati. Sul lato opposto, invece, si può ancora intravedere un grande ninfeo ancora interrato.
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Il luogo decisamente più affascinante della villa è il Canopo. Arrivata all’ultima tappa della mia visita mi chiedevo come sarebbe stato passeggiare tra quelle colonne e immergermi nella vasca centrale, soprattutto di notte o al lume di candela, quando le statue si riflettono nell’acqua e creano un effetto rifrangente. Questa struttura è l’esempio di come l’imperatore voleva portare nella villa anche stili differenti, tra i quali quello egiziano. Il Canopo, infatti, evoca l’abbraccio del fiume Nilo, nel suo delta, tra le città di Alessandria e Canopo, quest’ultima dedicata al culto di Serapide (Dio Greco-Egizio Signore dell'universo.
Avvicinandosi si sente di essere immersi nel passato, tra le fronde degli alberi si intravedono file delle cariatidi e dei seleni canefori (portatori di cesti) in lontananza. Le altre statue che si vedono al centro e ai lati della piscina raffigurano Hermes, purtroppo ormai acefalo, Ares e due amazzoni. La coppia di statue più particolari che si trovano proprio all’inizio della piscina sono quelle che rappresentano il fiume Nilo e il Tevere, riconoscibili grazie alla presenza della sfinge e della Lupa con due gemelli.
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Sul fondo del Canopo si nota lo stibadium per i banchetti all’interno dell’ampio padiglione. La sala conferma che questa struttura era stata pensata proprio come un grande spazio per le feste all’aperto, arricchito da giochi d’acqua, cascatelle, canali. Anche il mosaico di pasta di vetro sulla grande volta dell’esedra conferiva al padiglione l’aspetto di un monumento e, purtroppo, oggi possiamo solo vederne pochi resti. Immaginando la scena nell’antichità si possono vedere in lontananza i patrizi romani, adagiati su tappeti e cuscini, all’interno dello stibadium, posizionato all’ombra, che durante il convito erano rinfrescati dallo scorrere dell’acqua, e conversvano c accompagnati da un'atmosfera tranquilla e rilassante.
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All’interno della volta, si pensa che potessero esserci numerose sculture; anche nel lago si ipotizza la presena di sculture che emergevano dall’acqua : su un dado in muratura nella zona meridionale era posizionato il gruppo di Scilla, mentre sul lato opposto era verosimilmente collocato il coccodrillo-fontana di marmo cipollino.
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Museo diffuso dei cinque sensi A cura di Rita Russo
Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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La Sicilia è un territorio che non finisce mai di stupire sotto ogni aspetto e riserva grandi sorprese non soltanto al turista che trascorre qui le sue vacanze ma anche a chi vi risiede. È questo il caso di Sciacca che conosciuta da sempre, in maniera riduttiva, come “la città del carnevale”, è oggi divenuta un polo turistico a 360° grazie all’iniziativa di
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una cooperativa sociale che, sfruttando anche il momento di stanca legato al periodo pandemico per consolidare il progetto, ha trasformato il centro storico della cittadina in un vero e proprio “Museo diffuso dei cinque sensi”, perché è attraverso esperienze sensoriali che è possibile fruire di tutte le bellezze custodite in questo scrigno pieno di storia, arte e tradizioni.
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SCIACCA
Rita Russo Photography
Sciacca, seconda città della provincia di Agrigento per numero di abitanti, è sita sulla costa sud occidentale dell’isola e si affaccia sul Canale di Sicilia con i suoi 33 km circa di litorale, costellato da numerose spiagge dorate poco affollate che incorniciano acque cristalline. Il suo centro storico, con una vaga forma ad anfiteatro, si sviluppa lungo un pendio sul quale gli spostamenti pedonali sono resi più brevi attraverso le numerose scalinate, quasi tutte ornate da maioliche variopinte in stile saccense, che intersecano una fitta maglia di stretti vicoli che, dall’ampio porto peschereccio, raggiungono la parte più alta del paese.
Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
Il tessuto urbanistico del centro storico si sviluppa tra le porte e le antiche mura della città che, ricostruite e ampliate più volte nel corso dei secoli, testimoniano la lunga storia di questo centro. In direzione est, visibile da ogni punto della città, si erge il Monte Kronio il cui nome richiama quello di Kronos, divinità della mitologia greca, simbolo del tempo divoratore. Il monte, dal quale si gode di un bellissimo panorama sulla città, è celebre per la presenza di grotte termali, le stufe di San Calogero, i cui vapori benefici, scaturiti dalle profondità del monte, sono conosciuti fin dall’epoca antica.
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Un po' di storia Sebbene sul territorio saccense siano state ritrovate testimonianze storiche di insediamenti riconducibili al periodo preistorico e a quello punico, compreso tra il VII ed il IV secolo a.C., nell’Alto Medioevo, come in gran parte dell’isola, anche in questa zona fu marcata la presenza islamica. Gli Arabi, infatti, conquistarono la città nell’840 che da Terme Selinuntine divenne l’attuale Sciacca (il nome di Terme Selinuntine, che deriva dalla presenza di sorgenti termali, fu dato alla colonia fondata dagli abitanti di Selinunte, in territorio saccense, nel VII secolo a.C.). Con gli Arabi, quest’ultima diventò sede di distretto amministrativo territoriale e capitale di altri distretti vicini. La presenza araba influenzò il suo tessuto urbano. Infatti, di ciò si ritrova ancora oggi traccia nel sistema viario, a volte labirintico, costituito talora da vicoli ciechi o sfocianti in cortili interni. Nonostante le innovazioni tecniche e produttive apportate durante la loro dominazione, i coloni arabi non rinunciarono alle risorse cerealicole locali caratteristiche dei latifondi. Così essi fondarono al loro interno numerosi casali e promossero un ammasso del frumento nel porto di Sciacca, che divenne uno dei principali punti di collegamento nei traffici con la Libia e la Tunisia. Durante il periodo islamico i sudditi dell'Emirato di Sicilia poterono mantenere le loro usanze in piena libertà. Per questo motivo insieme agli stessi arabi convissero altre identità culturali tra le quali una nutrita e fiorente comunità ebrea, che si stabilì nella parte settentrionale del centro abitato. Nel 1087 Sciacca fu conquistata dai Normanni e annessa alla Contea di Sicilia, già creata da Ruggero I d’Altavilla nel 1061. In questo periodo furono mantenute le divisioni distrettuali esistenti ai tempi dell’Emirato di Sicilia e Sciacca continuò a mantenere il ruolo di capitale delle vicine circoscrizioni territoriali. Al Conte Ruggero si deve la costruzione delle fosse granarie del “Caricatore”, che si trovano a sud del Borgo della Cadda, anch’esso fatto realizzare dal nobile per contenere l’afflusso degli ebrei, insieme alla riorganizzazione del servizio navale e all’imposizione del dazio sul grano da esportare. Furono ricostruite, inoltre, le mura e i bastioni della città ed eretto il Castello Vecchio, del quale oggi resta solo qualche traccia. Sciacca mantenne per lungo tempo il suo status di città demaniale, eccetto per il periodo in cui Ruggero la concesse in feudo alla figlia Giuditta (o Giulietta) che fuggita con il cugino Roberto I di Bassavilla contro il volere del padre riuscì ad essere perdonata da quest’ultimo per intercessione di un eremita. Ruggero, ottenuta la dispensa del Papa, li unì in matrimonio e Giuditta, ricevuta in dote la città con tutto il suo vasto territorio, per riconoscenza, fece erigere tre chiese: San Nicolò la Latina, la Matrice e il Monastero delle Giummare.
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È per questo che il ricordo di Giulietta, morta nel 1134 e considerata come la seconda fondatrice di Sciacca, resta sempre vivo nei suoi abitanti. Durante il successivo periodo storico, quello legato alla dinastia sveva nel Regno di Sicilia, Sciacca, riottenuto lo status demaniale, potè godere di diversi privilegi. I beni della contessa Giuditta passarono a Federico II che ereditò anche tutti i feudi normanni e confermò tutti i privilegi di cui godeva la città. Il suo successore fu il figlio Corrado II che, nonostante l’ostilità papale nei suoi confronti, mantenne il regno fino alla sua morte, avvenuta nel 1254. A quest’ultimo subentrò il fratellastro Manfredi (figlio illegittimo di Federico II) che incoronato re di Sicilia nel 1258, sempre in contrasto con il papato, mantenne Sciacca città demaniale con tutti i suoi privilegi. Agli Svevi succedettero, nel 1266, i sovrani della dinastia Angioina, quando Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, sconfisse e uccise a Benevento Manfredi di Sicilia. Ma il loro governo non ebbe vita facile perché, per contrastare i soprusi inferti alla popolazione siciliana dai reggenti angioini, nel 1282 scoppiò la rivolta dei Vespri Siciliani, partita da Palermo all’ora dei Vespri del lunedì dell’Angelo di quell’anno, durante la quale a Sciacca, come in tutta la Sicilia, fu fatta strage di francesi. Nel frattempo in quell’anno, il Regno di Sicilia passò in mano agli aragonesi, con la proclamazione di Pietro III d’Aragona a re di Sicilia, con il nome di Pietro I, cui succedette Federico d’Aragona (Federico III di Sicilia).
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Dal 1282 numerosi furono i contributi della città di Sciacca a sostegno delle lunghe guerre contro gli Angioini. Fra le tante va ricordata la sua partecipazione alla battaglia di Ponza, nel 1300. Un’altra battaglia si combatté proprio a Sciacca nel 1302 e il suo assedio durò quarantacinque giorni. Infatti, una pestilenza scoppiata nel campo nemico che ne decimò l’esercito, costrinse Carlo II a ritirarsi e a chiedere la pace che fu firmata lo stesso anno a Caltabellotta. Il Re Federico III, per riconoscenza dell’eroismo dimostrato dal popolo saccense, concesse loro l’esenzione dai dazi doganali sulle merci esportate ed importate, facendo diventare Sciacca città franca. Ma la pace non durò a lungo e, dal 1312, divenne teatro di diversi conflitti tra potenti e nobili famiglie che parteggiavano per le due dinastie: le famiglie Palizzi e Chiaramonte per gli Angioini e le famiglie Peralta e Ventimiglia per gli Aragonesi. Nel 1355 Sciacca passò in mano ai Peralta. Qui fu istituita la carica di Capitano di guerra per la difesa della città, affidata a Guglielmo Peralta, marito di Eleonora d’Aragona che divenne, durante il regno di Federico IV, il signore più potente della città e della zona circostante. Dopo la morte del suo successore, il figlio Nicolò, avvenuta nel 1391, il re Martino I per assicurare le buone relazioni tra le nobili famiglie della zona si recò a Sciacca promettendo in sposa la figlia di Nicolò, Margherita Peralta, a suo zio Artale
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de Luna (appartenente ad una famiglia di origine spagnola) nonostante la donna amasse il coetaneo Giovanni Perollo, figlio di un’altra nobile famiglia di origine francese. Il matrimonio celebrato nel 1400 fu la causa del “caso di Sciacca”. Infatti, la guerra civile che si scatenò in quel periodo fu causata proprio dalle controversie sorte tra le due famiglie, Perollo e Luna, che ebbero come teatro il Castello Nuovo, costruito alla fine del 1300 da Guglielmo Paralta e proseguirono per generazioni fino al 1529, anno in cui Giacomo Perollo fu ucciso dal conte Sigismondo Luna, morto poi suicida nel Tevere dopo la sua condanna a morte e la confisca dei suoi beni. La conseguenza di questa guerra civile fu la decimazione della popolazione di Sciacca, ridotta ad un totale stato di miseria e di abbandono e un lungo periodo di decadenza per la città, che dal 1529 durò fino al 1712. Dopo la breve parentesi del regno dei Savoia, nel 1718 Sciacca si sottomise al governo spagnolo ristabilitosi nel frattempo in Sicilia. Ma la reazione dell’Austria a questa nuova condizione comportò un nuovo assedio per la cittadina. Smantellato il governo spagnolo, Sciacca obbedì all’imperatore Carlo VI d’Asburgo, che ristabilì la pace tra le città di Tripoli, Tunisi e la stessa Sciacca, che nonostante vivesse ancora in miseria venne agevolata nei suoi commerci avendo scongiurato il pericolo dei corsari che infestavano i mari lungo quelle rotte. Nel 1734 con la ricostituzione del Regno di Sicilia da parte di Carlo di Borbone, a Sciacca fu istituito il consolato del mare. La città iniziò così a riprendere i suoi traffici commerciali sia via mare sia via terra. Nel 1816, dopo anni di indipendenza, Ferdinando di Borbone riunì in un unico stato i regni di Sicilia e Napoli, con la denominazione di Regno delle Due Sicilie, abbandonando per sé il nome di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia ed assumendo quello di Ferdinando I delle Due Sicilie. Egli, abrogando la costituzione del 1812, instaurò nella regione un regime autoritario. Sciacca, che divenne provincia di Agrigento, partecipò con i suoi patrioti alle rivolte per l’indipendenza dalla tirannide dei Borboni. Il 1860 fu segnato dall’arrivo di Garibaldi in Sicilia, il quale preferì sbarcare nella vicina Marsala, vista la presenza delle flotte borboniche nelle acque di Sciacca. Egli, acclamato ugualmente dal popolo saccense, dichiarò decaduto il governo borbonico e proclamò l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. Nel ‘900, secolo dei conflitti mondiali, anche Sciacca pagò un notevole contributo di sangue sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale e in occasione di quest’ultima fu sede di una base aerea ben mimetizzata, utilizzata dalla Regia Aeronautica.
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Sciacca, città turistica nota da sempre per il suo carnevale, oggi si offre al visitatore come un museo a cielo aperto in grado di essere vissuto intensamente sotto ogni suo aspetto, utilizzando tutti e cinque i sensi, necessari per gustare il sapore dei cibi, guardare le mille sfumature di bellezza, i colori e i tesori di un tempo, udire il suono delle voci del mercato o dei pescatori o ancora della natura, realizzare con le proprie mani piccoli souvenir sotto l’occhio esperto dei maestri artigiani e, infine, respirare l’odore acre dei vapori sulfurei o il profumo dei frutti di questa terra unica.
Museo diffuso dei cinque sensi di Sciacca nasce, ad aprile del 2020 in piena pandemia, dall’idea di Viviana Rizzuto, fondatrice e presidente della prima Cooperativa di Comunità siciliana, denominata “Identità e bellezza”, allo scopo di promuovere e valorizzare il territorio saccense, non soltanto attraverso gli occhi ma vivendolo direttamente. Credendo appieno nelle potenzialità della sua terra, Viviana lascia la Svizzera dove lavora come project manager presso un’azienda locale e si imbarca in questo innovativo progetto, stimolata dal desiderio di rivalutare turisticamente un territorio ricco di tesori di ogni tipo, come quello della sua Sciacca, entrato negli ultimi anni in sofferenza per un notevole calo di presenze legato soprattutto alla chiusura del polo termale.
Una cooperativa di comunità è un modello di innovazione sociale e al contempo uno strumento di sviluppo territoriale, nel quale i cittadini sono produttori e fruitori di beni e servizi. Essa, per essere tale deve avere come esplicito obiettivo quello di produrre vantaggi a favore della comunità stessa alla quale i soci promotori appartengono. Obiettivo che deve essere perseguito attraverso la produzione, appunto, di beni e servizi che incidano in modo stabile e duraturo sulla qualità della vita sociale ed economica della comunità stessa. In un primo tempo il lavoro principale del gruppo capeggiato da Viviana è stato quello di coinvolgere, sensibilizzare e far prendere coscienza alla comunità intera dell’immenso patrimonio (storico artistico, artigianale, paesaggistico ed enogastronomico) offerto dal territorio, allo scopo di trasmetterlo e condividerlo Giroinfoto Magazine nr. 72
Da qui nasce l’idea di sfruttare a tutto tondo il patrimonio storico, naturalistico e umano che il territorio offre, sconfinando dagli stereotipi più generalizzati. Così Viviana, che ha avviato questa nuova realtà sia grazie all’articolata struttura organizzativa della cooperativa, sia grazie al pieno coinvolgimento dell’intera comunità cittadina, ama definire Sciacca come “Un Museo a cielo aperto, dove le porte della città sono gli ingressi del museo, le strade sono i corridoi, le vetrine e le finestre sono le teche e il tesoro che viene offerto è l’identità di chi ci vive”.
con il visitatore, dando vita al progetto di valorizzazione e promozione turistica basato sulle esperienze. Superate le iniziali e comprensibili diffidenze dei cittadini, legate anche a questo innovativo modo di vedere la gestione turistica del territorio, oggi è la stessa comunità, composta da artigiani, strutture ricettive, ristoranti, associazioni culturali e di categoria, che, stimolata dai risultati ottenuti in poco tempo, si rende disponibile affinché il progetto condiviso possa raggiungere nuovi obiettivi. Così la comunità, costituita da tutti i settori commerciali ed artigianali, si trasforma in un unico oste pronto ad accogliere e condividere i propri tesori, la propria quotidianità e i propri saperi secolari con il visitatore. Un grande e innovativo progetto di promozione e programmazione turistica che, al passo con i tempi, non trascura neppure la
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sostenibilità ambientale, intraprendendo azioni volte alla protezione dell’ambiente e alla sua tutela, rispettando ecosistemi e biodiversità ed evitando sprechi. Tra queste azioni sono comprese anche la riduzione del consumo
di plastica monouso e l’utilizzo di saponi di origine naturale e locale in tutte le strutture che fanno capo al progetto.
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Il visitatore che arriva a Sciacca oggi incontra un gruppo di persone che ha organizzato un sistema di ospitalità e di esperienze che non solo lo accoglie, ma lo coinvolge a tal punto da farlo diventare “cittadino temporaneo” e quindi parte integrante della comunità, “costringendolo” sovente a prolungare il proprio soggiorno in città o addirittura a offrire il proprio contributo alla comunità stessa che lo ha accolto. Dunque, diventando un “cittadino temporaneo” è possibile vivere Sciacca attraverso itinerari e percorsi, creati in base alle proprie esigenze, per scoprire ed esplorare la città e i suoi dintorni, accompagnati da guide locali o in perfetta autonomia, grazie ad audioguide totalmente gratuite che raccontano storie, luoghi ed esperienze. Attività che coinvolgono tutti i sensi e permettono di comprendere a fondo l’anima di Sciacca. Tra l’altro una capillare rete di Infopoint, diffusi sul territorio, costituiti dagli stessi componenti della comunità, assicurano al visitatore una continua informazione durante l’intera giornata, rendendogli più semplice il soggiorno, grazie all’utilizzo di strumenti multimediali che consentono di superare qualsiasi barriera linguistica, insieme ad una grande
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quantità di materiale divulgativo, tra cui una mappa semplice e intuitiva, scaricabile anche sul proprio cellulare, nella quale con immediata facilità è possibile individuare e raggiungere i luoghi oggetto d’interesse. L’innovativo progetto di Viviana, “Sciacca museo dei cinque sensi” ha ricevuto, nel frattempo, oltre al sostegno della Fondazione Comunitaria di Agrigento e Trapani anche il plauso della Fondazione Italia Patria della Bellezza, la cui missione è rimettere al centro il valore del patrimonio culturale, artistico, monumentale e paesaggistico del nostro Paese. Sono oltre cinquanta le esperienze che possono essere offerte al turista. Tra queste non poteva mancare un percorso per gli amanti della comunicazione sui social, un Selfie trail appunto, che si svolge tra i “punti di vista” più suggestivi e scenografici della città, da fotografare e condividere immediatamente, per raccontare Sciacca alla propria community.
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Tra le esperienze da fare quando si arriva in questa cittadina, di certo la prima è quella di girare tra i vicoli e i quartieri della città vivendo la sua storia attraverso la disposizione del tessuto urbano e il suo patrimonio architettonico, sia civile sia religioso sia militare. Senza dubbio alcuno raggiungendo il centro del borgo è impossibile restare indifferenti davanti allo splendido panorama che si gode da Piazza Angelo Scandaliato, l’antica Piazza del Popolo, da sempre luogo di ritrovo di intere generazioni di saccensi, dalla quale, dal suo lunghissimo balcone, si può ammirare in tutta la sua completezza il grande porto peschereccio che insieme a quello turistico si stagliano sul mare azzurro, il cui unico confine è costituito dall’orizzonte. Su di essa insistono la chiesa di San Domenico e l’ex convento dei Gesuiti, oggi sede del municipio.
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Il grande porto ospita circa cinquecento natanti tra pescherecci e piccole imbarcazioni. La flotta peschereccia, che comprende circa 140 barche, è la seconda in Sicilia dopo quella di Mazara del Vallo. Tale attività impegna in totale quasi duemila persone. I tipi di pesca più noti sono lo strascico, la sottocosta e il palangresi. La pesca più praticata, che è quella del pesce azzurro "a cianciolo", esportato in tutto il mondo, fa di Sciacca il primo produttore europeo.
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PORTA SAN SALVATORE Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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L’influenza araba e normanna nella città è testimoniata dalla presenza delle spesse mura difensive, intervallate di tanto in tanto dalle cinque antiche porte, delle quali solo tre sono rimaste in perfetto stato di conservazione: Porta San Salvatore, Porta Palermo e Porta San Calogero. L’intervento di ristrutturazione più recente subìto dalle antiche mura, ricostruite più volte nel corso dei secoli, risale al 1550. In quel periodo fu il Viceré Giovanni de Vega a dirigerne i lavori, durante i quali le mura furono rinforzate con alcuni bastioni armati. In un secondo momento, sempre per iniziativa dello stesso viceré, furono rinforzate le mura della zona nord della città con appositi bastioni che vanno dall’attuale porta San Calogero a Porta Palermo: il bastione San Calogero, il Vega, il Gusman e più a sud il Verrana.
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Al suo posto si ritrova una magnifica scalinata a zig zag, da poco riqualificata attraverso la ricostruzione dei pilastrini, arricchiti da 27 cachepot e 57 mattonelle in pregiata maiolica, realizzati entrambi dai maestri ceramisti della rete del museo diffuso. In particolare, alcune mattonelle raccontano il “caso di Sciacca”.
Tra gli edifici militari ritroviamo i due castelli: il vecchio e il nuovo. Il primo, eretto durante l’invasione normanna e passato poi alla casata dei Perollo, era sito nella parte orientale della città nella zona compresa fra gli attuali cortili Chiodi, Rizza e Carini. Di questo maniero oggi resta solo traccia di una delle tre entrate sulla quale è scolpito lo stemma dei Perollo.
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Il Castello Nuovo, conosciuto anche come Castello Luna, fu eretto nel 1380 da Guglielmo Peralta e divenne di proprietà dei conti Luna dopo il matrimonio di Margherita con Artale de Luna. Il complesso, a pianta poligonale, sorge sulla roccia viva, in posizione dominante nella parte alta e orientale del centro storico e i suoi resti sono oggi visitabili giornalmente. Anticamente presentava due piani: il piano terra per la servitù e il piano superiore per l’alloggio del conte e dei suoi familiari. L’ingresso posto a nord prevedeva un ponte levatoio.
Numerosi sono gli edifici di culto che costellano il centro storico, non tutti aperti e accessibili al pubblico. Tra questi, il maggior numero sono stati edificati durante il periodo medievale e successivamente ricostruiti o ristrutturati in epoca rinascimentale o barocca, mentre altri sono stati edificati direttamente in questi periodi.
Da questo si accedeva ad un cortile, che precedeva il castello vero e proprio, dove si trovavano le scuderie e una cappella dedicata a San Gregorio. Il complesso si compone di quattro parti: la cinta muraria, la torre grande o mastio e quella cilindrica, entrambe a nord e il palazzo del Conte a ovest. Della prima torre, a pianta quadrangolare, che aveva la funzione di sorvegliare la cinta, il cortile interno e il terreno esterno, rimane oggi solo la base perché crollata durante il violento terremoto del 1740; mentre la torre cilindrica, che si eleva su due piani, si è conservata per intero e ospita attualmente un piccolo museo.
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Tra le chiese risalenti al XII secolo, realizzate durante il dominio normanno, la più nota è la Basilica di Maria SS. del Soccorso. Si tratta, infatti, della chiesa principale della città, Duomo o Matrice, che si trova a Piazza Don Minzoni, a pochi passi da Piazza Scandaliato. Fondata nel 1108 da Giuditta per espiare il peccato di “concubinaggio” fu originariamente dedicata a Santa Maria Maddalena che divenne la patrona di Sciacca. Dell’antica chiesa normanna resta solo l’esterno delle tre absidi. Essa fu ristrutturata nel 1656 dall’abbate Michele Blasco e dedicata a Santa Maria del Soccorso, patrona della città per aver debellato la peste nel 1626.
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Nella nicchia dell’altare maggiore svetta la statua in marmo della Madonna del Soccorso realizzata da Giuliano Mancino e Bartolomeo Berrettaro. Ogni 2 febbraio e 15 agosto, in un’atmosfera di grande coinvolgimento, la statua della Madonna, ornata dei gioielli donati dai devoti, viene portata a spalla da 100 marinai scalzi in una scenografica processione che celebra la liberazione della città dalla terribile pestilenza del 1626.
Preceduta da un piccolo sagrato recintato con balaustre, la facciata barocca della chiesa, con elementi rinascimentali, è rimasta incompiuta nel coronamento ed è priva del campanile destro. Essa è decorata da colonne e portali ad arco e arricchita da tre sculture realizzate da Giandomenico e Antonino Gagini e presenta tre varchi di accesso. La statua di San Calogero abbellisce l’ingresso laterale destro della chiesa, su corso Vittorio Emanuele, contraddistinto da rampe di scale, davanti le quali si trova la fontana del Mascherone. All’interno essa presenta tre ampie navate con monumentali archi in stile normanno e colonne ioniche. La volta della navata centrale è decorata da un affresco che raffigura momenti della vita di Santa Maria Maddalena, opera di Tommaso Rossi. Al suo interno sono custoditi alcuni sarcofagi di noti personaggi della società saccense come il botanico Gerardo Noceto e il nobile Bartolomeo Tagliavia. Nella cappella laterale destra si può ammirare un tabernacolo marmoreo realizzato dai fratelli Gagini, raffigurante i Santi Pietro e Paolo e le storie della Passione di Cristo.
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Tra il XV e il XVI secolo l'aristocrazia terriera costruì in città sontuosi palazzi. Tra i tanti, il Palazzo Tagliavia di San Giacomo, all’epoca della sua massima espansione, occupava un’area di più di 4000 mq. compresa tra le vie Licata, Vittorio Emanuele, Piazza Friscia e Via Bevilacqua. Al palazzo originario erano annessi diversi immobili abitati anche da altri membri della famiglia. In seguito alla divisione ereditaria, il palazzo fu diviso e trasformato in maniera dissennata, danneggiando e stravolgendo l’antica costruzione. Di questa restano oggi integri la facciata su Corso Vittorio Emanuele e il fronte in stile neogotico fiorito su Piazza Friscia. Proseguendo il cammino attraverso gli stretti vicoli del centro storico, ci si imbatte in un intero quartiere, quello
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della Cadda, che grazie all’attività svolta in questi ultimi anni dall’associazione culturale “Ritrovarsi”, è stato trasformato da antico quartiere malfamato in una galleria di arte contemporanea a cielo aperto, attraverso la realizzazione di murales che lo hanno valorizzato e colorato. Fra le tante esperienze offerte dal museo diffuso, vestiti i panni di “cittadino temporaneo”, è stato possibile viverne due tra quelle che più identificano Sciacca, per la lunga tradizione che le caratterizza, la ceramica e il corallo, incontrando direttamente i Maestri di questi antichi saperi. La ceramica rappresenta una voce importante dell'economia della città e una tradizione che con ogni probabilità ha avuto inizio nel XIV secolo, come suggerito dalla riscoperta di antiche fornaci risalenti a quel periodo.
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Dunque, giunti presso uno dei laboratori del museo diffuso, oltre ad ammirare le svariate magnifiche creazioni in maiolica apprezzandone la bellezza, l’armonia delle forme e la vivacità dei colori che, peraltro, impreziosiscono ogni angolo della città, è stato possibile anche diventare ceramista per un’ora e, sotto la guida esperta del maestro, affondare le mani nell’argilla, seduti davanti al tornio e plasmarla, trasformandola in un oggetto da poter portare via.
Essa, infatti, essendo composta prevalentemente da tefrite, roccia magmatica effusiva facilmente erodibile, grazie all’azione continua del moto ondoso si sgretolò, inabissandosi nel giro di cinque mesi e ritornò a far parte delle profondità del Canale di Sicilia. Al suo posto rimane oggi un vasto banco di roccia lavica, conosciuto anche come banco di Graham, dal nome dato dagli inglesi all’isola, riscontrabile a 6 m di profondità.
Altrettanto affascinante è stato incontrare uno dei Maestri Corallari del museo diffuso che ci ha permesso di conoscere la singolare storia del “Corallo di Sciacca” e apprezzare la particolarità della sua lavorazione nella creazione di gioielli unici, esclusivi di una delle eccellenze più tipiche dell’artigianato saccense. Questo corallo, che proviene dai fondali prossimi alla città di Sciacca e cresce tra i 50 ed i 200 m di profondità, è unico al mondo e per questo mantiene la denominazione di provenienza.
Quest’attività vulcanica ha però lasciato a Sciacca un’eredità di tutto rispetto costituita dal preziosissimo corallo fossile, il cui colore rosso, tipico del Corallium Rubrum mediterraneo, famiglia cui esso appartiene, assume sfumature particolarissime che variano dall’arancio, al salmone-rosa pallido, con striature grigie fino al nero - brunastro. È proprio questa variazione di colore, frutto delle alte temperature legate all’attività vulcanica sottomarina, che determina l’unicità di questo corallo.
La sua storia è strettamente legata a quella dell’Isola Ferdinandea o l’isola che non c’è. Essa, infatti, apparve nel 1831, a circa 26 miglia nautiche (48 Km) dalla costa saccense, nello specchio d’acqua tra Pantelleria e Sciacca, a seguito di un’eruzione sottomarina di un vasto apparato vulcanico (il Vulcano Empedocle) che ne fece emergere la vetta, formando una piccola isola. Essa suscitò l’interesse di alcune potenze straniere europee, come la Francia e l’Inghilterra, che cercando nel Mediterraneo punti strategici per gli approdi delle proprie flotte, apposero ognuna la propria bandiera sull’isola, rinominandola e rivendicandone la proprietà. I Borboni non furono da meno e la battezzarono con il nome di Ferdinandea, in onore del Re delle due Sicilie. Ma fu l’isola stessa a mettere a tacere tutte le dispute sul suo possesso.
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Esso, inoltre, in sintonia con uno dei punti fondamentali sul quale si basa il progetto del museo diffuso, ossia la sostenibilità ambientale, è l’unico esempio di corallo al mondo totalmente ecosostenibile perché, essendo di origine fossile, il suo prelievo dai fondali non danneggia alcuna barriera corallina vivente. Infatti, durante i movimenti conseguenti alle eruzioni vulcaniche che portarono all’emersione dell’Isola Ferdinandea e al suo successivo inabissamento, furono naturalmente sradicati ingenti quantità di corallo che si accumularono sul fondo come sedimento. Dal 2012 il corallo di Sciacca, esportato soprattutto a New York, è finalmente tutelato da un consorzio formato da alcune aziende specializzate nella sua lavorazione. Questo consorzio preserva l’identità della pregiata gemma marina in tutt’Italia e all’estero e promuove metodi di lavorazione artigianali, contingentandone anche il recupero.
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Il corallo grezzo, che presenta dimensioni ridotte rispetto al corallo asiatico, recuperato sotto forma di ammasso roccioso, dopo l’asportazione del fango e delle concrezioni calcaree sviluppatesi nel fondo degli abissi, abbandonato l’iniziale colore marrone, mostra il suo incredibile colore arancione salmonato. Come nel caso della ceramica, anche nel laboratorio orafo è possibile lavorare con le apposite attrezzature, sempre sotto l’attenta ed esperta guida del maestro, un piccolo frammento di corallo per realizzare un monile da portare con sé per sempre, rendendo indelebile il ricordo del soggiorno trascorso nella “città della bellezza”.
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Poco fuori dal centro abitato è possibile raggiungere la riserva naturale di Monte Kronio (chiamato anche Monte San Calogero), tramite un sentiero che ha inizio nel quartiere residenziale di c.da Isabella e arriva fin su al santuario di San Calogero, attraversando la macchia mediterranea. Prossime a quest’ultimo e lungo il pendio di Monte Kronio alcune grotte carsiche, dalle quali fuoriescono vapori alla temperatura di circa 38° - 40°, collegate tra loro da una rete di gallerie, testimoniano la presenza di fenomeni di vulcanismo secondario, legati all’attività di Empedocle, il vulcano sottomarino situato nella catena dei Campi Flegrei del Canale di Sicilia, ubicato circa 40 km al largo di Capo Bianco (Cattolica Eraclea), responsabile dell’origine dell’isola Ferdinandea. Si tratta delle più antiche terme del mondo perché frequentate sin dal Paleolitico dagli uomini preistorici. Il santuario di San Calogero, che sorge sulla cima della collina, in posizione dominante, è uno dei più importanti tra quelli dedicati al santo, molto venerato nel territorio agrigentino. La chiesa fu realizzata in prossimità della grotta nella quale quest’ultimo visse come eremita, a cavallo tra il V ed il VI secolo d.C., dove curava i suoi fedeli, grazie ai vapori che fuoriuscivano e fuoriescono tuttora dalle profondità della terra, da diverse malattie, soprattutto reumatiche. L’imponente edificio religioso fu iniziato nel 1530 e terminato nel 1644. Al suo interno, arricchito da una ricca decorazione barocca, è custodita, dentro una custodia lignea settecentesca, la statua di San Calogero, scolpita Antonello Gagini nel 1535 e consegnata dal figlio Giacomo Gagini nel 1538.
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Un’altra affascinante e suggestiva struttura, anch’essa fuori dal centro abitato di Sciacca, è costituita dal Castello Incantato, un museo all’aperto. Un ampio spazio nel quale si trovano una serie di sculture raffiguranti teste umane scavate e scalpellate nella roccia, che nell’immaginario dell’artista contadino Filippo Bentivegna, emigrato nel 1913 negli Stati Uniti e rimpatriato in Italia nel 1919, rappresentavano i sudditi del regno che egli aveva creato e di cui era il Signore. Al centro del podere sorge la casetta dove viveva Bentivegna, le cui pareti interne sono decorate da disegni raffiguranti grattacieli che ricordano il suo soggiorno in America e da un pesce che contiene nel proprio ventre pesci più piccoli che, probabilmente, simboleggia la traversata dell’artista all’interno della nave che lo condusse a New York. Alcune sue opere sono oggi esposte presso il Museo dell'Art Brut di Losanna. Per finire non si può trascurare, tra i cinque sensi, il gusto che può essere soddisfatto, oltre che dalle varie specialità gastronomiche saccensi, soprattutto dai due dolci tipici della città, costituiti dall’“Ova murina” e da “i cucchiteddi” entrambi ideati dalle suore, tra il Medioevo e il Rinascimento. Il primo veniva fatto nel periodo estivo e serviva a sostituire il cannolo siciliano, visto che in estate già anticamente la ricotta non veniva prodotta. In merito all’origine del nome di questo dolce esistono due scuole di pensiero. Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 72
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Una deriva dalla traduzione letterale in “Uova Moresche”, poiché furono i Mori che portarono gli ingredienti principali di questo dessert, come il cacao, la cannella e la vaniglia, che gli conferiscono il colore scuro all’esterno. L’altra scuola, invece, fa derivare il nome da una similitudine con la carne della Murena, fuori scura e dentro bianca. Esso si presenta come una crêpe di colore scuro, che avvolge una crema a base di latte, scaglie di cioccolato e zuccata. Il colore scuro deriva dalla presenza nell’impasto di cacao, mandorle e cannella. I cucchiteddi sono, invece, pasticcini di pasta di mandorle a forma di mezzo cucchiaio, farciti con zuccata (confettura di zucche verdi di origine araba diffusa e apprezzata in ogni angolo della Sicilia) e poi glassati o ricoperti con zucchero a velo. Tale dolce fu eseguito per la prima volta nel 1380 dalle suore di clausura del Monastero saccense di Santa Maria dell'Itria. Tutto questo è solo una minima parte di ciò che può essere vissuto a Sciacca. Non resta, dunque, che scoprirla e attivare “i cinque sensi”.
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