Giroinfoto magazine 73

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N. 73 - 2021 | NOVEMBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.73- NOVEMBRE 2021

www.giroinfoto.com

LAGO MASSACIUCCOLI Band of Giroinfoto FAVIGNANA TONNARA FLORIO Band of Giroinfoto

SOMMERGIBILE PROVANA TORINO Band of Giroinfoto

ABBAZIA SAN FRUTTUOSO CAMOGLI Band of Giroinfoto Photo cover by Giacomo Bertini


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73 www.giroinfoto.com NOVEMBRE 2021


LA REDAZIONE

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Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.

Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.

Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.

Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.

Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.

Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.

Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.

Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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LAGO MASSACIUCCOLI

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TINA MODOTTI

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PAGLIARE DI TIONE

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LAGO MASSACIUCCOLI Storia e attualità Band of Giroinfoto

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TINA MODOTTI Donne, Messico e Libertà Band of Giroinfoto

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PAGLIARE DI TIONE Dove il tempo non vale niente A cura di Dino Natale

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FAVIGNANA Tonnara Florio Band of Giroinfoto

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MONDI SOMMERSI L'incanto del profondo Skira editore


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ABBAZIA DI SAN FRUTTUOSO

PORTOFINO. SAN FRUTTUOSO, CAMOGLI Tour Liguria Band of Giroinfoto

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VILLA NECCHI

VILLA NECCHI 2021 Band of Giroinfoto

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SOMMERGIBILE PROVANA Torino Band of Giroinfoto

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NEMO'S GARDEN Orto subacqueo A cura di Pierluigi Peis

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LAGO MASSACIUCCOLI

Giacomo Bertini Letizia Angeli

Storia & attualità A cura di Giacomo Bertini

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Con il suo bacino di quasi 7 km2 e una profondità che varia da 1 a circa 4 metri, il lago di Massaciuccoli bagna per la maggior parte le terre paludose dei comuni di Massarosa e Viareggio nonché un lembo meridionale appartenente alla frazione di Migliarino Pisano.

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LAGO MASSACIUCCOLI

Giacomo Bertini Photography Formato grazie alla depressione originata dalla formazione dell’Appennino nella laguna costiera tra il fiume Serchio a sud e il fiume Camaiore a Nord, era conosciuto fin dall’epoca romana come lago delle Fosse Papiriane, una zona caratterizzata da ampie aree paludose che comprendevano, appunto, anche l’attuale bacino lacustre. Nel Medioevo divenne zona di confine contesa tra il Comune di Lucca e il Comune di Pisa e successivamente entrò a far parte del Granducato di Toscana. Nel corso dei secoli fu oggetto di interventi di bonifica da parte dei governanti o dei privati, tra i più significativi quelli del Governo granducale e dell’imprenditore olandese Van der Stratt, che, nel tempo, si occuparono di bonificare vaste aree paludose e di scavare numerosi canali per la regimazione delle acque provenienti dalle colline circostanti e dalle piene del lago per indirizzarle nel fiume Serchio.

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LAGO MASSACIUCCOLI

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Verso la metà del XVIII secolo da parte del Governo della Repubblica di Lucca fu intrapresa una vasta opera di bonifica sulle rive settentrionali del lago con la costruzione del canale emissario Burlamacca e delle «cateratte vinciane» che permisero il controllo dei flussi marini e lacustri. Venne effettuato anche un ulteriore scavo per la realizzazione del Fosso della Bufalina, considerato il principale emissario del lago, che però si rivelò un fallimento a causa della sua scarsa pendenza e della foce esposta al Libeccio, fattori che provocano il frequente insabbiamento del canale.

Nel XIX secolo, tra le opere di bonifica, si registrano anche quelle del noto architetto Lorenzo Nottolini, che ideò un progetto, in verità mai realizzato, su commissione del Ducato di Lucca, che prevedeva lo scavo di un letto artificiale per il fiume Serchio che sarebbe andato a sfociare in mare più a nord, drenando le acque del lago e delle paludi. Alla fine dell’Ottocento il famoso compositore Giacomo Puccini si innamora a prima vista della quiete e della forza ispiratrice che il lago gli offre e va ad abitare in una villa sulle sue sponde, oggi trasformata in un museo ricco di ricordi e cimeli del Maestro. In questo luogo, oltre alla tranquillità che il lago gli offriva per lo svolgimento della sua attività artistica, Puccini trovava anche l’opportunità di dedicarsi a un’altra sua forte passione: la caccia agli uccelli acquatici.

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LAGO MASSACIUCCOLI

Giacomo Bertini Photography

Come vedremo successivamente, era consueto per le famiglie benestanti sfruttare le lussuose dimore di campagna sulle rive o nei dintorni del lago per organizzare battute di caccia ospitando illustri personaggi appassionati di questa pratica sportiva, usufruendo di appostamenti fissi celati tra la fitta vegetazione di cannelle e circondati dalle tese per richiamare la selvaggina. È superfluo specificare che erano pochi coloro che potevano permettersi questo tipo di caccia come semplice attività di svago; infatti, per una parte non irrilevante di chi abitava intorno al lago, la caccia e la pesca, costituivano l’unico modo per soddisfare le loro quotidiane esigenze alimentari, ed hanno rappresentato, fino a non molti decenni fa, una risorsa dell’economia locale, grazie alla vendita della cacciagione e del pescato o per le varie attività commerciali ad esse collegate.

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Tra le modalità più comuni adottate nella pratica venatoria sul lago vi era quella che prevedeva l’utilizzo di barchini dalla forma allungata e stretta e a chiglia piatta, ideale per muoversi anche nei bassi fondali di canali e stagni. Un’altra tipica modalità era quella della caccia in botte: veniva utilizzata una botte galleggiante ancorata sul fondo e adeguatamente mimetizzata, nella quale prendeva posto il cacciatore dopo aver disposto tutt’intorno stampi di uccelli acquatici e zimbelli. Tale modalità era utilizzata in particolare per la caccia ai palmipedi. Come rimessa per i barchini, che venivano lasciati in acqua, venivano utilizzati dei ricoveri consistenti in capanni costruiti con pali ricoperti di rami e di frasche, oppure, tuttalpiù, con pannelli di legno o di metallo.


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La tecnica di pesca era caratterizzata dall’utilizzo di una complessa struttura su palafitte chiamata «bilancia», costruita in legno, lamiera e, più recentemente, vetroresina o eternit, materiale quest’ultimo oggi proibito, come è noto. Su queste strutture veniva montata una grande rete, che brandeggiava a mo’ di bilancia, sollevata da grossi argani azionati a mano, da questo particolare movimento deriva il nome che si estende all’intera struttura. Con la grande rete era facile catturare un gran numero di pesci al loro passaggio. Negli anni Sessanta e Settanta, grazie a una legge che rese possibile esercitare la pesca liberamente con solo una licenza rilasciata dall’amministrazione provinciale, si registrò una crescita nella costruzione delle «bilance», favorita anche dal miglioramento delle condizioni economiche degli abitanti del luogo.

Questo cambiamento da lì a pochi decenni provocò, però, anche il declino di tale tipo di pesca. Ad accentuare tale tendenza contribuì anche il peggioramento della qualità delle acque e una consistente diminuzione del consumo di pesce d’acqua dolce, ciò spinse i pescatori ad abbandonare tale attività e di conseguenza la manutenzione di molte di queste strutture, che sono andate incontro ad un rapido degrado. Oggi, navigando nel lago, si può avere l’esatta percezione dei cambiamenti che si sono succeduti, a partire dagli appostamenti, fissi galleggianti o collocati su palafitte, alcuni dei quali ancora utilizzati, o alle «bilance» ancora ben conservate, mentre a poca distanza si possono notare cumuli di macerie.

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Giacomo Bertini Photography Dinanzi a questi cambiamenti le autorità locali, come il Parco Regionale di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli e il Comune di Massarosa, i proprietari dei terreni e le associazioni naturalistiche, quali «Oasi Lipu» e «RiVivilago», si sono adoperate sinergicamente a intraprendere un percorso finalizzato al raggiungimento di un equilibrio che consenta alle attività turistiche e ludiche di svolgersi nel rispetto della natura e degli abitanti del posto. Le difficoltà non sono mancate a causa dell’evoluzione economica e sociale molto più rapida degli aggiornamenti

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normativi, ma grazie agli sforzi di tutti sono emersi i primi benefici che rendono incantevole una passeggiata sulla riva del lago o, addirittura, un’escursione in barca. L’associazione «RiVivilago» è tra le sostenitrici di uno sviluppo controllato e si impegna nella promozione di una sempre più forte educazione naturalistica diretta a chi si avvicina al lago, sforzandosi di far crescere maggiore attenzione, consapevolezza e rispetto per l’ambiente contro maleducazione e vandalismo.


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Di questa associazione fanno parte cacciatori, pescatori, proprietari di «bilance», sportivi e amanti della natura; quindi, grazie al concorso di tutte queste variegate componenti, si crea un circolo virtuoso che contribuisce a riportare sul lago equilibrio e attività sostenibili. Le 400 «bilance» ancora esistenti, ma esposte all’usura e al degrado, avranno bisogno di un tempestivo intervento di salvaguardia per evitare che si trasformino in altri rifiuti ammassati sulle rive del lago. Una tale urgenza è ben presente all’attenzione sia delle associazioni naturalistiche che dei proprietari, alcuni dei quali

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già si sono meritoriamente impegnati nella manutenzione e nel recupero di una quarantina circa di queste strutture. Un’altra importante realtà che opera per la salvaguardia del lago è l’Oasi Lipu. Grazie ai suoi capanni, raggiungibili con una passerella in legno, lunga circa 800 metri, molti amanti della fotografia e del birdwatching possono incontrare tramonti mozzafiato e oltre 160 specie di animali che abitano il lago nelle diverse stagioni dell’anno.


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Un’attività molto importante per la conservazione della fauna selvatica svolta da questa associazione è il censimento degli animali che vivono nel lago, censimento svolto con l’aiuto di esperti attraverso il monitoraggio diretto e con il delicato metodo di ascolto del canto, reso assai difficoltoso dalle presenze legate alle migrazioni primaverili e autunnali. Nella struttura sede dell’Oasi Lipu si trova un museo sull’Ecologia della Palude, composto da dove si possono osservare, come se ci si trovasse nell’ambiente naturale, gli animali realizzati in artificiali fedelissimi alla realtà.

piccolo tre sale immersi modelli

Inoltre, è possibile effettuare brevi escursioni autonome o guidate sul lago, grazie alla disponibilità di barche a remi, o canoe a motore elettrico, per rendersi conto di persona dei fenomeni naturali che questa riserva può offrire.

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Prevalentemente nella stagione primaverile ed estiva, sul lago si svolgono diverse attività sportive, in particolare canottaggio, canoa e vela. Si tratta di iniziative che favoriscono la convivenza di un ambiente naturale-culturale unico, con la pratica di una disciplina sportiva assolutamente non invasiva ed estremamente rispettosa dell’ambiente. Navigando sulle acque del lago la nostra attenzione è attirata da una sontuosa villa in stile neogotico toscano. Si tratta della storica Villa Ginori, risalente al 1737 quando il Marchese Carlo Benedetto Ginori Lisci fece trasformare un vecchio edificio nella villa oggi visibile. Gli esterni sono caratterizzati dalla presenza di una torre che domina il paesaggio, dal parato in mattoni rossi con bifore e colonnini in marmo bianco e da un romantico imbarcadero, ossia un porticciolo privato un tempo utilizzato anche dal compositore Giacomo Puccini, che lo raggiungeva attraversando il lago dalla sua villa situata sulla sponda opposta.

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Non solo intorno allo specchio d’acqua si trovano elementi di interesse artistico o storico: infatti, a breve distanza, sopra un’altura di poco sopraelevata rispetto al livello del lago, si trovano i resti di una villa e di un complesso termale, risalenti al I secolo d.C., della famiglia di origine etrusca dei Venulei. Qui, ottimo punto panoramico da dove si può osservare l’intera estensione del lago, sono conservati diversi reperti provenienti dagli scavi effettuati nelle zone circostanti esposti in parte in questo vero e proprio museo a cielo aperto mentre altri si trovano all’interno di una struttura coperta. L’equilibrio creato attorno a questo lago è unico nel suo genere e si percepisce osservando con attenzione le testimonianze della presenza dell’uomo nel corso del tempo. Una presenza che non ha mai guastato in modo irrecuperabile l’armonia dei luoghi.


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Letizia Angeli Photography

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TINA MODOTTI

Donne, Messico e Libertà A cura di Manuela Albanese Dario Truffelli Monica Gotta Manuela Albanese

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TINA MODOTTI

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Manuela Albanese Photography

Tina Modotti, all’anagrafe Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini nacque ad Udine nel 1896 per poi morire lontano dalla patria in Messico nel 1942. Tina fu attrice, fotografa e attivista. Visse negli Stati Uniti, in Messico, in Russia e nell’Europa degli anni ’30 divisa tra fascismo e antifascismo.

«Ogni volta che si usano le parole "arte" o "artista" in relazione ai miei lavori fotografici, avverto una sensazione sgradevole dovuta senza dubbio al cattivo impiego che si fa di tali termini. Mi considero una fotografa, e niente altro».

[ Tina Modotti ]

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TINA MODOTTI

Filo conduttore della vita di Tina Modotti sarà il tema della libertà. Essendo nata poverissima, avrebbe potuto sfruttare la sua bellezza intraprendendo la carriera di attrice, per avere una vita agiata ma il suo desiderio di libertà la portò a studiare e a seguire le sue doti artistiche. Tina a soli dodici anni si trovò costretta ad andare a lavorare in una fabbrica tessile. Nel 1912 il padre di Tina per trovare fortuna emigrò in America e, dopo due anni, la figlia lo seguì. Una figura molto importante per la sua carriera fu lo zio Pietro Modotti che possedeva uno studio fotografico.

StefanoTruffelli Zec Photography Dario Photography Giroinfoto Magazine nr. 73

È proprio da lui che apprese le prime nozioni e iniziò a cimentarsi nella professione. Si appassionò al mondo della fotografia e lo zio, andandone molto fiero, dedicò molto tempo a insegnarle come usare la macchina fotografica per esprimere emozioni e immortalare delle situazioni che sappiano, da sole, raccontare quello che chi scatta vuole raccontare. Nel 1918 si sposò con il noto pittore Roubaix de l'Abrie Richey in arte Robo e insieme si trasferirono a San Francisco. Nella nuova città, oltre a coltivare il suo matrimonio, iniziò una carriera teatrale che in pochi anni sfociò nella realizzazione di tre film.


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La sua carriera nel cinema ebbe vita breve perché non riusciva ad accettare come veniva venduto e presentato al pubblico il suo corpo, si sentì percepita come oggetto e mai apprezzata per le sue doti. Tina smise di essere attrice, ma non modella, infatti posò per i grandi muralisti. Fu l’incontro con Edward Weston ad avvicinarla nuovamente alla fotografia. Fra i due nacque una relazione. Il marito, scoperto il tradimento, fuggì in Messico.Tina cercò di raggiungerlo pochi mesi dopo ma arrivò tardi, egli era morto di vaiolo due giorni prima. Fra il 1925 e il 1926 tornò a San Francisco, dove conobbe la fotografa Dorothea Lange, grande documentarista della grande depressione americana, acquistò una camera Graflex e insieme a Weston rientrò in Messico e intraprese con lui un viaggio di tre mesi nelle regioni centrali raccogliendo immagini per il libro di Anita Brenner Idols Behind Altars.

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Il legame affettivo con Weston si deteriorò e il crescente impegno politico le fece abbandonare l’arte. Fu costretta a lasciare il Messico perché ingiustamente accusata di aver preso parte all’attentato al presidente messicano e all’uccisione del suo compagno di allora, il giornalista cubano Mella. Ritornò in California e si dedicò nuovamente alla sua grande passione. Tina visse di fotografia ed eseguì molti ritratti, si unì al pittore e militante Xavier Guerrero (che ben presto andò a Mosca alla scuola Lenin), aderì al Partito Comunista, lavorò per il movimento sandinista nel Comitato "Manos fuera de Nicaragua" e partecipò alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conobbe Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern.

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TINA MODOTTI

Non rinunciò mai ai suoi ideali, pertanto la sua libertà di pensiero e la coerenza che sempre avvolsero la sua vita la portarono a rinunciare all’offerta di accoglienza fatta dagli Stati Uniti; divenne una rifugiata politica ed errò tra Russia, Germania e Spagna dove si impegnò direttamente nella guerra per dare soccorso alle vittime di questa e, in particolare, ai bambini. Al termine della guerra di Spagna tornò in Messico, ma ormai molto affaticata visse accanto al compagno Vittorio Vitali che alla sua morte decise di istituire il Comitato Tina Modotti allo scopo di rendere pubblico il suo lascito artistico che aveva destato interesse anche al Moma di New York dove le fu dedicata una retrospettiva con quaranta scatti nel 1977. Nel corso degli anni il suo cammino si incrociò con quello di personaggi come Diego Rivera, Robert Capa, Ernest Hemingway, Pablo Neruda e Frida Khalo.

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Il Mudec nasce da un recupero di archeologia industriale nell’area dell’ex fabbrica Ansaldo, in zona Tortona. Le fabbriche dismesse sono state trasformate in laboratori, studi e nuovi spazi creativi. Il Mudec vuole essere un luogo d’incontro fra le culture e le comunità.

«Metto troppa arte nella mia vita e di conseguenza non mi rimane molto da dare all’arte». [ Tina Modotti ]

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TINA MODOTTI

Attraverso le immagini di Tina, la mostra in particolare vuole raccontare la storia di un’artista di grande sensibilità. Il percorso espositivo si snoda seguendo l’evoluzione creativa della Modotti, si parte dalla ricerca naturalistica e dai primi ritratti sino ad arrivare allo still life e alla fotografia più marcatamente sociale del periodo politico. Dalla fine degli anni Venti Tina userà la sua macchina fotografica per raccontare la verità e le immagini sono cariche di messaggi. Grazie alle sue fotografie diventa più semplice comprendere il Messico degli anni Venti sia politicamente che socialmente. Purtroppo a causa delle sue attività politiche venne espulsa dal Messico. Questo provocò anche la fine della sua carriera artistica. La mostra che abbiamo avuto il piacere di visitare ci ha fatto approfondire la conoscenza di un’artista forse più conosciuta all’estero che in patria. La sua vita, seppur breve, è stata intensa e varia ed è evidente lo stretto legame tra il suo percorso artistico e l’evoluzione del suo orientamento politico. Tina Modotti è stata donna, artista e cosmopolita. Manuela Albanese Photography

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PAGLIARE DI TIONE

A cura di Dino Natale e Luciano Sergiacomo

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PAGLIARE DI TIONE

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Ai piedi del Monte Sirente, a una quota di circa 1.100 mt. tra la stupenda parete nord del Monte Sirente e l’alta Valle del fiume Aterno, nei pressi di Tione degli Abruzzi in provincia de L’Aquila, è rinato da qualche anno un villaggio: “Le Pagliare di Tione”, antico insediamento agro-pastorale dove “il tempo non vale niente”. Definizione data nella prima metà degli anni ’20 dall’etno-linguista Gerhard Rohlfs durante il suo viaggio in Abruzzo.

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PAGLIARE DI TIONE

ABRUZZO

In epoca medievale, terminato il rigido inverno, contadini e pastori della Valle Subequana salivano sull’altopiano per coltivare i terreni e pascolare le greggi in quella che usualmente viene chiamata “transumanza verticale” con lo scopo di coltivare le terre montane per la sussistenza alimentare delle famiglie dei pastori e contadini e garantire nei pascoli dell’altopiano un foraggio migliore per il bestiame. La piana era infatti interamente coltivata con legumi, grano solina, farro e patate. Qui edificarono alcuni insediamenti rurali costituiti da diverse strutture in pietra adibite allo stoccaggio del foraggio degli animali, per questo denominate “pagliai”. Successivamente esse sono state anche adibite ad abitazioni da parte dei pastori che pascolavano le greggi nella zona.

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Dalla metà del secolo scorso le casette non sono più utilizzate per gli scopi originali, di questa comunità rimangono i racconti narrati dai più anziani di Tione davanti a uno scoppiettante camino. Molte costruzioni negli anni sono crollate; più di recente alcune di esse sono state acquistate e risistemate da parte di privati cittadini del luogo e anche da stranieri che le frequentano per pochi giorni l’anno.


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La ristrutturazione edilizia è stata realizzata senza alterare la struttura originaria, così che l’insediamento non ha perduto in alcun modo la sua autenticità. L’energia elettrica è prodotta da pochi pannelli fotovoltaici installati sui tetti e nessuna antenna o altro segno della modernità è stato aggiunto, tanto che internet e telefono non hanno segnale e il silenzio è rotto solo dal muggito di qualche mucca che può capitare di incontrare o dall’ abbaiare di qualche cane lupo.

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La facciata si alza su un piazzale erboso ed è dotata di una gradinata che dà accesso al portale, due finestre, un oculo in alto e la cavità che ospita la campana. Al centro del villaggio si scopre la presenza più originale: un grande pozzo circolare rivestito di pietra, ricavato da un inghiottitoio naturale, dal quale veniva attinta l’acqua piovana scendendo e salendo lungo due gradinate interne e simmetriche.

Non ci sono più i contadini con la loro transumanza verticale, ma non sono nemmeno comparsi negozi, alberghi o ristoranti, benché gli edifici siano oggi seconde case. Si tratta sempre e comunque di proprietà private da trattare con rispetto. Il villaggio è disposto a quote diverse con una cinquantina di casette di pietra autonome, distribuite a maglie larghe sui terrazzi del pendio. Costruite con pietra calcarea a pianta quadrata o rettangolare, con il tetto a spiovente, le unità più semplici si sviluppano su due piani sovrapposti quello superiore adibito ad abitazione e quello inferiore a stalla per rimessaggio foraggio e bestiame. Le unità più ampie vedono l’edificio residenziale, arricchito da verande e cortili (le antiche aie per la trebbiatura), separato dal locale della stalla e dal pagliaio. Nel cuore del villaggio sorge la cappella dedicata alla Madonna di Loreto, piccola come si addice ad alta quota. Monica Pastore Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Alle Pagliare di Tione ha sede un’associazione culturale “Il melo di nonno Dario”, signore di Tione che con dedizione e amore, ha potato un melo prospiciente il suo pagliaio affinché producesse fino ad oggi frutti piccoli ed aspri, poco appetibili soprattutto per noi esseri umani abituati a frutti molto ricercati ed esotici. Eppure, nonno Dario curava il suo melo “perché altrimenti la natura avrebbe preso il sopravvento”. L’associazione crede in un recupero coerente del borgo, non solo per riviverlo ma per viverlo: una differenza non da poco. Per far conoscere e vivere le Pagliare, l’associazione organizza nei periodi estivi attività varie all’aria aperta per grandi e piccini: dalla caccia al tesoro per famiglie, alle degustazioni dei tipici prodotti locali (formaggi, ricotta di pecora, legumi, Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 73

pane di solina e la tipica “fritta dorata” costituita da pane bagnato nell’uovo e fritto) oppure il mercatino dell’artigianato coinvolgendo le realtà locali. Il melo di nonno Dario si occupa anche manutenzione dei sentieri, insieme ad altri enti ed associazioni, al Parco Regionale Sirente Velino e al Comune di Tione degli Abruzzi. L’associazione è senza scopo di lucro, apartitica, e si basa sul volontariato. I comuni di Tione degli Abruzzi e Rocca di Mezzo danno all’associazione un contributo a consuntivo e rendicontazione delle spese sostenute. La tessera associativa annuale costa 15 euro e comprende degustazioni e la partecipazione alle varie attività dell’anno.


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Non sono solo queste rustiche architetture a rendere interessante questa zona montana ma, soprattutto, l’imponenza dolomitica del Monte Sirente e delle sue Valli limitrofe. Nell’altopiano oltre al villaggio delle Pagliare di Tione sono visibili anche le Pagliare di Fontecchio e Fagnano, meno frequentate ma di bellezza non inferiore. Dalle Pagliare di Tione, infatti, partono numerosi sentieri fino al Sirente e all’Altipiano delle Rocche; l’itinerario che conduce alle Pagliare di Fontecchio è di circa 10 km tra andata e ritorno. Non vi sono sensibili differenze rispetto all’altro villaggio, salvo le peggiori condizioni di conservazione.

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Si possono così apprezzare l’integrazione tra la pietra delle pareti e il legno dei pavimenti, la presenza del camino, le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana e le opere di canalizzazione, la gestione degli spazi di lavoro e di riposo. Ulteriore elemento di interesse sono i muretti, i recinti di pietra quadrati e circolari, gli stazzi notturni per gli ovini. Il panorama è godibile in ogni direzione e spazia dal Sirente, che l'aria limpida dà la sensazione di poterlo toccare con mano, alla catena del Gran Sasso e alla Maiella, come dire due Parchi Nazionali e uno Regionale. L’intera area è ideale per escursioni a piedi, a cavallo, in mountain bike e con le ciaspole negli inverni con abbondanti nevicate.

Osservando però con attenzione gli edifici si può ricostruirne la progressiva evoluzione storica dalle forme più semplici dei ricoveri spartani alle dimore residenziali più “confortevoli”. La distanza rilevante dai paesi del fondovalle sconsigliava il faticoso pendolarismo giornaliero; la soluzione preferibile era quella di spostare l’intera famiglia in una dimora stabile pur se temporanea. Era così possibile sfruttare appieno le ore di luce delle lunghe giornate estive per il lavoro agricolo nei campi, per la trasformazione dei prodotti agricoli, per l’allevamento del bestiame e per la lavorazione del latte. Il ritorno in paese avveniva periodicamente per poter rifornirsi di beni di prima necessità. Avendone l’opportunità è vivamente consigliabile la visita interna delle case.

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Altro itinerario non meno interessante e bello è il sentiero 17 che porta dalle Pagliare di Tione a Rocca di Mezzo su terreno di medie difficoltà della distanza di circa 10 Km. Scendendo verso Tione c’è poi la magnifica valle Subequana, con Goriano ,Beffi con il suo superbo castello, Acciano; un' ampia valle, prevalentemente collinare, costellata da borghi medievali e solcata dal fiume Aterno; villaggi d'altura in pietra e splendide terrazze sulla catena montuosa del SirenteVelino, tutto questo a pochi chilometri dalla città dell'Aquila, in un territorio spesso sconosciuto a molti aquilani che in parte in questi posti hanno le loro origini familiari. Abbiamo raggiunto la località delle Pagliare di Tione in una limpida e stupenda giornata autunnale il giorno prima del lockdown di ottobre 2020.

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Dall’ Autostrada A24-A25 Roma-Pescara, siamo usciti al casello autostradale di Pratola Peligna-Sulmona. Proseguendo poi per Corfinio, Raiano, Castelvecchio Subequo, Secinaro e Goriano Valli siamo arrivati a Tione. Di qui abbiamo girato a sinistra prima della Chiesa di San Nicola e di fronte l'ufficio postale e proseguito in salita per la strada che porta alle Pagliare. L’insediamento è raggiungibile con una strada ben segnalata che inizialmente è asfaltata e a un certo punto diventa sterrata ma facilmente transitabile. Dall’uscita dall’autostrada Casello di Pratola Peligna la distanza è di circa 40Km la gran parte su strade asfaltate e facilmente percorribili.

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Un consiglio per chi decidesse da far visita alle Pagliare: non ci sono servizi, è un borgo disabitato e la rete telefonica è praticamente assente: tuttavia è proprio questa la sua particolarità; qui si respira una pace e tranquillità che è davvero difficile trovare da altre parti e poi… le casette, i prati, la vista sul Sirente: semplicemente unico. Per chi volesse poi soggiornare in zona vi sono comunque alcune strutture ricettive (in particolare Bed and Breakfast) nei paesi di Tione, Secinaro o a Castelvecchio Subequo. Per un tour fotografico ogni stagione ha il suo fascino, in quanto la natura la fa da padrona. Ci si sente veramente immersi nel paesaggio, è come tornare indietro nel tempo... tanto silenzio, di quello che ti rigenera!

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DANZANDO SULLA MOLE FAVIGNANA

Tra le duecento isole che, incastonate come preziose gemme, popolano l’intero Mar Mediterraneo, quella più vicina alla più grande di tutte, la Sicilia, è l’isola di Favignana, la maggiore dell’Arcipelago delle Egadi, del quale fanno parte anche Levanzo, Marettimo, Isola della Formica e altri scogli minori. Favignana, estesa poco più di 19 kmq, il cui nome deriva dal Favonio (termine con il quale i Romani indicavano il vento caldo proveniente

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da S-SW), dista circa 6 miglia dal porto di Trapani e fa parte di questa provincia, insieme alle altre isole dell’arcipelago. Le Egadi rappresentano il lembo emerso della catena montuosa sottomarina che collega la Catena Maghrebide dell’Africa settentrionale con quella Appenninica Siciliana.


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Rita Russo Photography In particolare, la forma di Favignana, definita dal pittore Salvatore Fiume una “farfalla sul mare”, rispecchia appieno la sua costituzione geologica. Infatti, le ali sono costituite dalle spianate calcarenitiche quaternarie e il corpo è formato dalla dorsale montuosa mesozoico-terziaria, di natura calcareo dolomitica, che l’attraversa al centro in direzione nord - sud.

La cima più alta è costituita da Monte Santa Caterina, con i suoi 314 metri di altezza, sulla quale sorge l’omonimo forte. La sua costituzione geologica determina anche la presenza, lungo i 33 km di sviluppo costiero, di un’alternanza di falesie e cale all’interno delle quali le spiagge, spesso sabbiose e bianchissime, si alternano a coste rocciose.

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Cala Rossa

Favignana è tra le poche isole del Mediterraneo in cui è possibile accedere facilmente da terra alla maggior parte delle sue numerose baie e spiagge che, essendo distribuite lungo tutta la costa, consentono di trovare sempre un punto di accesso al mare, qualunque sia la direzione da cui spira il vento. Tra le cale che si incontrano percorrendo la costa verso est, Cala Rossa è quella che nel 2015 è stata premiata dal sito SkyScanner per essere la spiaggia più bella d’Italia. La leggenda racconta che questa cala fu teatro della battaglia conclusiva delle guerre puniche e dunque prenda il nome dal sangue versato dai Cartaginesi sconfitti dai Romani.

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La sabbia bianchissima, alternata alla roccia calcarenitica, rende l’acqua di un colore che varia dal celeste al blu e la trasparenza di quest’ultima produce un effetto ottico tale da dare l’impressione che le barche ormeggiate, piuttosto che galleggiare, siano sospese.


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Tra le altre spiagge sabbiose dell’isola, sul lato sud si trovano Cala Azzurra e Lido Burrone, una delle poche spiagge attrezzate; mentre, prossima al porto e al paese si trova la Praia.

Praia Lido Burrone Cala Azzurra

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DISNEY MUDEC FAVIGNANA

Altre baie come Cala Rotonda, Cala Faraglioni, Punta Longa e Punta Sottile offrono spiagge libere con ciottoli. In particolare dalle ultime due, site a ovest dell’isola, si godono tramonti mozzafiato di rara bellezza. Per gli amanti della scogliera e dei tuffi imperdibili si segnalano, inoltre, Scalo Cavallo e Bue Marino. Numerose sono, infine, le grotte, sia superficiali sia semi sommerse e sommerse, legate all’intenso carsismo che caratterizza le rocce carbonatiche costituenti il substrato della fascia costiera.

Cala Faraglioni Punta Sottile

Scalo Cavallo

Cala Rotonda

Bue Marino Punta Longa

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Quando si raggiunge Favignana in traghetto o in aliscafo, si è subito colpiti oltre che dal Forte di Santa Caterina, anche dalla corposa struttura dell’Ex stabilimento Florio e dall’omonimo palazzo in stile liberty che costituiva la residenza della famiglia Florio sull’isola. Ed è attraverso questi edifici che è possibile leggere gran parte della storia di essa. Sebbene la presenza umana a Favignana risalga al Paleolitico superiore e l’isola fosse conosciuta da tutti i popoli dell’antichità, tra i quali i Greci, i Fenici che la utilizzarono per i loro intensi traffici commerciali e i Romani che sconfissero i Fenici, di tutti questi popoli sono rimaste solo alcune tracce riscontrabili in zona S. Nicola.

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Dopo il crollo dell’impero Romano, le Egadi caddero prima nelle mani dei Vandali e dei Goti e poi in quelle dei Saraceni che costruirono alcune torri di avvistamento. Ma fu a partire dal 1081, sotto il regno di Ruggero d’Altavilla, che Favignana visse un periodo florido. Con i Normanni, le Isole Egadi oltre a riavere pace e prosperità, tornarono alla pratica della religione cristiana che si diffuse in tutto l’arcipelago. Le torri saracene, una volta conquistate, furono ampliate e trasformate in forti: il forte San Giacomo (all'interno dell'excarcere, in paese) e quello di Santa Caterina (in cima alla montagna).

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Durante il periodo aragonese, ai signori dell’isola fu concessa, unitamente al dominio di Favignana, la facoltà di realizzare due tonnare, chiamate S. Leonardo e San Nicolò. Dal 1416 la Sicilia cominciò ad essere governata dai viceré spagnoli che dotarono l’isola di numerosi forti e torri di guardia, in vicinanza delle spiagge, per combattere le frequenti scorrerie dei corsari che, in quel periodo, tormentavano le coste. In particolare, sia il forte di Santa Caterina che quello di San Giacomo furono ampliati nella forma e nelle dimensioni attuali, alla fine del XV secolo, dall’allora Signore di Favignana, Andrea Riccio. Nel 1640 l’isola passò al genovese Camillo Pallavicino che fece opere di bonifica del suolo, introdusse l’agricoltura e costruì le prime case, trasformando le

grotte, precedentemente usate come abitazioni, in fienili e stalle. Durante gli anni del successivo dominio borbonico (1734-1848) sulle Due Sicilie, non mancarono cospirazioni contro la dinastia dei regnanti considerati tiranni. I Borboni attuarono una politica di repressione estrema contro i cospiratori. Circa 32000 persone furono rinchiuse in carcere e molte di queste furono condannate alla detenzione proprio nel forte di S. Caterina. Questo venne in parte demolito e devastato nel 1860 dai rivoltosi, che portarono via dall’edificio perfino le inferriate e vi devastarono anche la cappella. Nel 1874, Ignazio Florio prese possesso delle Isole Egadi e delle tonnare, acquistandole dal marchese Pallavicino. La famiglia Florio rappresentò il periodo più florido per l’arcipelago.

Grazie alla pesca del tonno e alle attività economiche ad essa relative, Favignana divenne la “Regina delle tonnare”. Oltre al grandissimo impulso dato all’economia isolana, i Florio cambiarono l’aspetto dell’isola, sia sistemando l’intero arco portuale, sia costruendo il Palazzo in stile liberty, la Camparia (dove venivano costruite le barche e le reti), lo Stabilimento e la chiesetta di S. Antonio, avvalendosi della collaborazione dell’architetto Giuseppe Damiani Almeyda. Dal periodo Borbonico fino al fascismo, l’isola fu utilizzata soprattutto come prigione e luogo di confino per gli avversari politici. Durante il secondo conflitto mondiale Favignana, per la sua posizione strategica, fu dotata di un’imponente rete di casematte e fortificazioni militari, in gran parte ancora oggi conservate. Giroinfoto Magazine nr. 73


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Il Forte di Santa Caterina che, arroccato sulla cima della montagna più alta, vigila come un avvoltoio su tutta l’isola, adibito dai Borboni a prigione, ha ospitato sia banditi che importanti uomini politici, come il mazziniano Giovanni Nicotera, insieme ad altri componenti della sfortunata spedizione di Sapri, che venne poi liberato dai garibaldini dopo lo sbarco dei Mille. Durante la Seconda Guerra Mondiale il forte venne usato per difendere l’isola e fu dotato di postazioni di artiglieria. Oggi è abbandonato e ridotto ad un rudere pericolante, in parte vandalizzato, esposto agli agenti atmosferici e ai forti venti che soffiano sull’isola quasi tutto l’anno. Difficile resistere alla tentazione di salire in cima! Per soddisfarla è possibile percorrere a piedi una mulattiera, in parte a gradoni, che si inerpica a zig zag sull’accentuato pendio che incombe sul paese e che si raggiunge imboccando la strada dietro l’Ex Stabilimento Florio. Difficilmente intuibile la traccia dell’impronta saracena e normanna della fortezza, all’esterno di essa si notano frequenti elementi di archeologia militare, come un vecchio radar dismesso, sui quali la ruggine campeggia indisturbata. L’edificio, che ha una forma rettangolare con sporgenze simmetriche ai quattro angoli, fu realizzato con blocchi di pietra calcarea locale.

Forte Santa Caterina

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Il piano terra era infossato nella roccia e, a partire dal XVII secolo, in questa fossa venivano detenuti i prigionieri politici. Il primo piano era costituito probabilmente dai locali di alloggio per la guarnigione e sopra di esso vi era la terrazza di avvistamento. Un piccolo fossato correva lungo la facciata e l’ingresso era possibile attraverso un ponte levatoio che successivamente fu sostituito da un corridoio. La luce all’interno dell’edificio penetrava attraverso un gran numero di finestre, feritoie, spiragli e buche. Al suo interno vi era anche una cappella dedicata a Santa Caterina, nella quale veniva celebrata la messa per i detenuti. La veduta mozzafiato che si gode dal forte vale la faticosa salita. Infatti, dalla cima si può ammirare non solo tutta Favignana e le altre isole dell’arcipelago, ma anche gran parte della costa trapanese e nelle giornate prive di foschia è possibile assistere ad uno splendido tramonto su Marettimo, la più distante tra le Egadi. Nonostante le condizioni di abbandono in cui attualmente versa questa struttura, essa resta, comunque, un luogo ricco di storia e di attrattiva.


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Altro sito colmo di fascino che ha reso nota l’isola, è costituito dal maestoso complesso di edifici denominato Ex Stabilimento Florio delle Tonnare di Favignana e Formica, che accoglie con imponenza il visitatore una volta raggiunto il porto, uno degli esempi di archeologia industriale più famoso di tutta la Sicilia. Con i suoi 32.000 metri quadrati, di cui 3/4 coperti, è stato, fino al 1982, il più grande, importante e moderno stabilimento industriale del Mediterraneo per la lavorazione del tonno, luogo di riferimento per l’economia dell’isola, avendo dato lavoro a più di ottocento persone. Dismesso e rimasto chiuso dal 2003 al 2010 per lavori di restauro, lo stabilimento è oggi di proprietà del Museo Regionale “A. Pepoli” di Trapani e adibito a museo, aperto al pubblico.

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In esso, oltre a testimonianze della storia dell’isola attraverso reperti archeologici subacquei della Battaglia delle Egadi (241 a.C.) e altri recuperi effettuati nell’arcipelago, è possibile conoscere tutte le modalità della pesca e del processo di confezionamento del tonno in tutte le sue fasi, attraverso esaurienti visite guidate.


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Ex Tonnara Florio

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Quella dei Florio e dell’industria del tonno è la storia che ha maggiormente segnato il recente passato dell’isola. I Florio erano una famiglia di mercanti di origini calabresi, che tra l’800 e i primi ‘900 costruirono un impero economico, commerciale e industriale in Sicilia, divenendo una delle famiglie più ricche d’Italia di quel periodo. Il capostipite della famiglia, Paolo, padre del futuro senatore Vincenzo, si trasferì nella ricca Palermo nel 1783, quando Bagnara Calabra fu distrutta da un violento terremoto e impiantò in città una fiorente attività di aromateria, commerciando in spezie, prodotti coloniali e chinino (rimedio contro la malaria). Quando nel 1807 Paolo morì, vista la giovane età del figlio Vincenzo, gli successe il fratello minore Ignazio, il quale gestì con grande capacità l’attività iniziata dal fratello, istruendo e avviando al contempo all’attività di famiglia il nipote Vincenzo che gli era stato affidato. Alla morte dello zio, Vincenzo, ormai ventinovenne, gli successe nell’attività paterna. Nel giro di poco tempo, grazie anche alle esperienze che lo zio Ignazio gli aveva permesso di fare, facendolo studiare e viaggiare, Vincenzo intraprese numerose iniziative industriali, tra cui quella della produzione del vino marsala e del cognac, del tabacco e del cotone e con grande lungimiranza anche quella delle tonnare. Seguendo, infatti, le orme dello zio Ignazio, che aveva preso in affitto la tonnara di San Nicola e di Vergine Maria a Palermo, Vincenzo acquisì anche quella dell’Arenella. Uomo brillante e di larghe vedute, egli si accostò con successo non solo al settore della navigazione, fondando nel 1840 la Società dei battelli a vapore siciliani, con i quali venivano assicurati i collegamenti con l’America, ma anche all’industria dello zolfo che in Sicilia ebbe un notevole incremento.

Grazie alle sue capacità imprenditoriali, Ignazio sperimentò un innovativo metodo di conservazione. Il tonno venne, infatti, conservato, dopo la bollitura, sott’olio (non più sotto sale) dentro scatole di latta. Egli, oltre ad accrescere il patrimonio familiare, si avvicinò alla vita politica del paese divenendo anch’esso Senatore del Regno d’Italia, ma morì poco più che cinquantenne. Gli successe il figlio maggiore, Ignazio jr., che ereditò l’impero di famiglia, sperimentando anche nuove attività, come la fondazione del quotidiano L’Ora, l’apertura del lussuoso albergo Villa Igea (dal nome della figlia), nato originariamente come centro per la cura dei malati di tubercolosi, la costruzione dei cantieri navali a Palermo (ancora oggi esistenti) e l’apertura del teatro Massimo. Sebbene si sia rivelato un vero e proprio mecenate finanziando e seguendo i lavori di diverse opere e circondandosi sempre di artisti, letterati e dei regnanti più potenti del mondo, Ignazio jr., protagonista con la moglie Donna Franca del periodo della Belle époque palermitana, purtroppo non mostrò le stesse capacità imprenditoriali dei suoi predecessori e ciò portò al graduale e irreparabile tracollo dell’azienda di famiglia. Ben presto, per far fronte ai debiti, egli fu costretto a vendere nel 1937 anche Favignana e la tonnara, con tutti i diritti di terra e di mare, ai Parodi di Genova che continueranno la lavorazione del tonno fino al 1982, anno in cui lo stabilimento chiuderà definitivamente. Pur concludendosi così il legame dei Florio con le Isole Egadi, l’eredità soprattutto umana e il bagaglio culturale lasciato da questa famiglia alle isole è di certo immenso. Ignazio jr. morì nel 1957.

Nel 1841 Vincenzo prese in gabella, dai marchesi Pallavicino, anche la tonnara di Favignana con un contratto di 18 anni che non rinnovò più, nonostante gli ottimi profitti ottenuti da quest’attività. Alla morte di Vincenzo, avvenuta nel 1868, il figlio Ignazio, detto Senior, si ritrovò a gestire un vero e proprio impero che ampliò non solo realizzando la fonderia Oretea a Palermo, necessaria per la produzione dei componenti per la realizzazione delle proprie navi che raggiunsero il numero di novantanove, ma acquistando anche le isole Egadi e le tonnare, dalla famiglia genovese Pallavicino, al prezzo di lire 2.750.000. Riprese in mano così l’attività di pesca e di conservazione del tonno, facendo ristrutturare la tonnara e costruire lo stabilimento dall’architetto Giuseppe Damiani Almeyda.

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Per visitare l’Ex Stabilimento, affacciato sul mare e sulla spiaggia Praia, si attraversa un grande portone in ferro sul quale, sopra il simbolo della famiglia Florio, costituito da un leone che si abbevera lungo un fiume dove cresce la pianta della china, si legge la scritta “L’industria domina la forza”. Varcato il portone, un giardino a macchia mediterranea accoglie il visitatore e immediatamente sulla destra si può osservare la prima trizzana (deposito per le barche della tonnara) a due porte che consentiva l’alaggio ed il varo di due grandi imbarcazioni per il rimorchio del pescato, dette parascarmi (palischermi) o varcazze (barcacce). Superato il giardino e l’arco con le lapidi che ricordano gli anni di cattura più fruttuosi, si giunge alla Piazzetta, l’ingresso della zona di produzione.

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Dalla Piazzetta si accede a diversi locali, tra i quali il magazzino del prodotto finito, oggi divenuto l’Antiquarium delle Egadi, testimonianza della navigazione intorno a queste isole fin dall’epoca più antica. La tappa successiva è la Casa dell’Olio, il cuore del ciclo produttivo. Una volta bollito, lasciato scolare e stivato nelle latte a seconda della qualità, della pezzatura e del peso, il tonno raggiungeva questa sala su nastri trasportatori. Le latte, posate sui grandi tavoli di pietra, venivano così riempite di olio dalle operaie che, con una bottiglia al collo, versavano goccia a goccia il prezioso liquido sul tonno, finché questo non ne assorbiva più. Dopo 24 ore le latte venivano inviate alla galleria per l’aggraffatura, ossia la chiusura con il coperchio e da lì passavano alla “california”, un locale nel quale venivano sterilizzate a 105° circa. La denominazione di questo locale derivava dal fatto che gli operai associassero il caldo e il forte vapore di questa sala al clima della California, ritenendola erroneamente regione tropicale. Una volta sterilizzate, le latte venivano fatte raffreddare e portate nel magazzino, dove un operaio addetto controllava la perfetta condizione di ognuna di esse, prima della loro commercializzazione in tutta Italia, trasportate direttamente con le navi della flotta Florio. Sulle latte di ogni dimensione e colore a seconda del taglio di tonno contenuto, oggi visibili all’interno del museo, era riportato lo stemma dei Florio, che fu mantenuto anche dai nuovi proprietari, i Parodi, dopo il passaggio di consegne, i quali aggiunsero sopra il logo solo le iniziali A.P. di Angelo Parodi.

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Tutto ciò che era necessario alla produzione veniva realizzato all’interno della fabbrica stessa dalle maestranze addette, persino le latte. In particolare, all’Expo Universale del 1891-92, che fu organizzata a Palermo, la Florio presentò le innovative scatolette di latta con apertura a chiave.


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Appena fuori dalla Casa dell’Olio, lungo un corridoio esterno sono presenti le caldaie e le relative ciminiere. Le grandi pentole di rame esposte lungo questo camminamento servivano a cuocere in acqua molto salata il tonno, già selezionato, lavato e diviso per qualità, per un tempo differente a seconda del taglio da cuocere. Una volta cotto, il tonno veniva fatto scolare in apposite ceste forate ed il giorno dopo inviato alla stivatura per proseguire il ciclo sopra indicato.

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Continuando il percorso esterno, si raggiunge l’area definita “Bosco” nella quale, sotto il patio, alle funi che scendono dalle travi di legno venivano appesi i tonni per la coda che, una volta decapitati e sventrati, venivano lasciati a dissanguare prima di essere avviati alla successiva trasformazione. Di fronte al Bosco, la grande trezzana a quattro porte serviva per l’alaggio e il varo dei grandi vascelli che, provenienti dalla tonnara, scaricavano i tonni proprio in prossimità di quest’area. La pesca del tonno con la rete detta tonnara, che ha una storia millenaria, costituisce il più tradizionale metodo per la cattura del tonno rosso, oggi ormai poco utilizzata. La mattanza è solo la parte terminale della complessa macchina da pesca. Per quanto possa sembrare ai più una pratica barbara, in realtà ad essa erano collegati oltre agli interessi economici

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anche forti contenuti storici, sociali e culturali. La mattanza era un vero e proprio rituale, con molti riferimenti religiosi.

esse trovavano posto i tonnaroti che, sollevando il fondo della rete con la sola forza delle braccia, facevano affiorare i tonni in superficie.

La figura fondamentale della tonnara era costituita dal rais, il capo, ruolo spesso tramandato di padre in figlio. Uomo dotato di grandissima conoscenza del mare, al rais spettava il compito e la responsabilità di montare la struttura a terra e di calarla a mare, disponendola solitamente a croce, oltre quello di vigilare in ogni momento su di essa per tutto il periodo. Egli dirigeva poi le concitate operazioni di pesca, impartendo ordini dalla sua imbarcazione, detta muciara, incitando i pescatori al ritmo di canti, denominati cialome.

Mentre questi si dibattevano violentemente l’uno contro l’altro tingendo l’acqua di rosso, venivano agganciati e issati sulle barche stesse. Il lavoro dei tonnaroti favignanesi iniziava sempre il 23 aprile per San Giorgio, quando veniva calata la tonnara.

Ai lati della camera della morte, erano poste due imbarcazioni a remi più grandi, chiamate vascelli, di levante e di ponente. In piedi sul bordo di

Nel periodo primaverile, infatti, i tonni rossi, ogni anno, entravano dall’Oceano nel Mediterraneo per riprodursi e tornare poi nuovamente nell’Atlantico. E la tonnara era un sistema di pesca sostenibile, perché veniva catturato solo il 10 per cento dei tonni di passaggio. In questo periodo, dunque, veniva collocata in mare questa trappola fatta da reti disposte in maniera da formare delle camere comunicanti.

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Le reti, che venivano calate inizialmente davanti il porto di Favignana, erano posate a circa 40 m di profondità, avevano uno sviluppo areale di 320.000 kmq, erano lunghe 1 km ed erano necessari circa 8 km di rete per formare le camere. Una volta entrati dentro le reti, ancorate al fondo con conci di calcarenite, i tonni non riuscivano più ad uscire e grazie all’intervento dei tonnaroti, questi venivano fatti passare da una camera all’altra fino a condurli all’ultima, chiamata camera della morte, unica rete chiusa al fondo e sollevabile. Le reti restavano in mare per alcuni mesi, periodicamente controllate per stabilire il numero di esemplari imprigionati. Raggiunto un certo numero si procedeva alla mattanza. Le cialome, vere e proprie melodie ritmate e canti propiziatori, derivate da canti popolari di origine araba, erano parte imprescindibile del rito della mattanza. Esse, infatti, erano necessarie al fine di scandire il ritmo dei movimenti dei tonnaroti che le intonavano prima, durante e dopo la mattanza stessa del tonno.

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Anche il sistema delle croci e la croce posta all’entrata della tonnara, sulla quale il santo raffigurato doveva proteggere la pesca, avevano funzione propiziatoria. La mattanza, dunque, era un connubio tra riti e suggestione, religione e mistero, nel quale alla lotta tra uomo e natura si affiancava l’orrore della morte. L’ultima mattanza a Favignana risale al 2007. Da allora, a causa della pesca intensiva, fuori e dentro il Mediterraneo, con metodologie tutt’altro che sostenibili, il numero dei tonni è diminuito notevolmente. I pochi e piccoli esemplari che riescono a raggiungere le nostre acque non bastano per mantenere in piedi questo tipo di attività industriale, che oggi si è trasformata piuttosto in una limitata attività artigianale.


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Le bellezze naturali di Favignana, che spaziano tra mare (acque cristalline e variegata fauna e flora marina) e terra (ricca avifauna e vegetazione terrestre) la rendono una meta ambita per gli amanti della natura a 360°. E proprio per preservare le bellezze naturali dell’arcipelago, nel dicembre 1991, è stata istituita l’Area Marina Protetta Isole Egadi che, con un’estensione di circa 54.000 ettari, è la riserva marina più grande del Mediterraneo. Essa, che ha la finalità di tutelare gli habitat naturali, con particolare riferimento alla salvaguardia delle risorse marine, alla regolamentazione della pesca e alla necessità di conservare la biodiversità in un’ottica di sviluppo sostenibile, si occupa di promuovere numerosi progetti di tutela ambientale, tra i quali quello di proteggere la più estesa e meglio conservata prateria di Posidonia oceanica (circa 12.000 ha) che popola i fondali delle isole dell’intero arcipelago, dominando il paesaggio marino sommerso anche a profondità molto elevate, grazie all’eccezionale limpidezza delle acque marine. La posidonia ha una notevole importanza ecologica non solo perché è considerata il polmone del Mediterraneo, dal momento che produce una gran quantità di ossigeno e assorbe CO2, ma anche perché contribuisce a mitigare l’erosione costiera attraverso la formazione delle banquette, strutture prodotte dallo spiaggiamento delle foglie morte a causa delle mareggiate. Inoltre, al suo interno vivono molti organismi animali e vegetali che nella prateria trovano nutrimento e protezione.

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L’AMP è stata suddivisa in zone in cui sono associati diversi divieti ed attività consentite. In particolare, l’intera isola di Favignana ricade in zona C (riserva parziale), nella quale sono consentite la balneazione, la navigazione, l’ancoraggio e le immersioni solo se autorizzate dall’AMP, eccezion fatta per l’area intorno a Cala Faraglione che ricade in zona B (riserva generale) dove sono consentite, solo ai residenti, la navigazione, la sosta e le immersioni entro i 500 m dalla costa. La pesca subacquea è comunque vietata in tutta l’AMP. Essa, inoltre, da un paio di anni, gestisce, per conto della Regione Siciliana, l’accoglienza dell’area museale dell’Ex Stabilimento Florio. Tra le tante specie animali che popolano queste isole, oltre alla rarissima foca monaca, da tempo considerata estinta in Italia, la cui presenza è stata documentata di recente nell’isola di Marettimo, si trovano alcune specie di tartarughe marine, tra le quali quella più comune e diffusa è la Caretta caretta. Allo scopo di proteggere questa specie dai numerosi incidenti cui sono soggette o a causa dell’inquinamento o a causa di collisioni con imbarcazioni da pesca o da diporto, dal 2015 è operativo, a Favignana, il Centro di Primo Soccorso per Tartarughe Marine, gestito dall’AMP in collaborazione con le associazioni ambientaliste WWF Italia e Legambiente.

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Questo centro, aperto tutto l’anno, accoglie e cura esemplari di tartarughe in difficoltà, recuperati nei Compartimenti Marittimi di Trapani e Mazzara del Vallo e attraverso un numero di telefono dedicato “SOS Tarta” 3385365759, attivo h24, è possibile a chiunque segnalare direttamente un esemplare in difficoltà, così da garantire una tempestività di intervento e di soccorso, aumentando la percentuale di sopravvivenza di questi animali. Il centro è diviso in due settori: un pronto soccorso vero e proprio dotato di sala operatoria, che occupa attualmente il piano semi cantinato del prestigioso Palazzo Florio, residenza in stile liberty e neogotico di proprietà del Comune di Favignana, sito nel cuore del centro storico dell’abitato, in prossimità del porto; ed un’area riservata alla cura e alla riabilitazione delle tartarughe che occupa un piccolo locale all’interno dell’ex Stabilimento Florio, dove,

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attraverso visite guidate, è possibile apprendere nozioni base sulla biologia ed ecologia delle tartarughe marine e sulle pratiche da seguire in caso di avvistamento e recupero di esemplari in difficoltà, allo scopo di consentire un successivo reinserimento in mare degli animali curati.


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Favignana è nota anche per le sue numerose cave, prevalentemente distribuite sulla parte orientale dell’isola, che hanno rappresentato per lungo tempo una fonte economica importante per i suoi abitanti. Infatti, le calcareniti, rocce sedimentarie ricche di fossili che ne testimoniano l’origine marina, impropriamente definite tufo (roccia, invece, di origine vulcanica), per la loro compattezza, sono state estratte e utilizzate nell’edilizia come pietra concia, sin dai tempi della dominazione romana, sebbene il massimo sviluppo dell’attività estrattiva sia stato raggiunto tra il 1700 ed il 1950. I tagli, le cavità e le gallerie che hanno avuto origine a causa di quest’ultima, vere e proprie opere d’arte scavate dai “pirriaturi” (maestri esperti nell’estrazione della pietra), sono oggi state trasformate, specialmente da privati cittadini, in suggestive abitazioni e giardini ipogei.

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I metodi di estrazione praticati per la realizzazione delle cave a Favignana erano essenzialmente di due tipi: a cielo aperto (a fossa) o in galleria e la determinazione del metodo di scavo dipendeva esclusivamente dalla condizione orografica del terreno. Il primo metodo prevedeva la realizzazione di una cava attraverso la squadratura di una superficie orizzontale, delle dimensioni di 10x10 m circa e la successiva eliminazione della vegetazione e del cappellaccio, lo strato di alterazione superficiale della roccia che aveva uno spessore variabile tra 1 e 2 metri, fino a quando non veniva raggiunta la pietra più compatta e di colore biancastro.

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La cava, pertanto, veniva realizzata strato per strato permettendo ai cavatori di estrarre la roccia dall’alto verso il basso, avendo cura di lasciare dei conci sul fondo di ogni strato al fine di formare una scala, unico elemento di accesso alla cava stessa. Il secondo metodo prevedeva, invece, la creazione di cave a sviluppo orizzontale il cui avvio avveniva o attraverso grotte naturali, situate prevalentemente lungo la costa o attraverso l’apertura di una galleria su una parete verticale di una cava a cielo aperto, lasciando intatte alcune porzioni di roccia che fungevano da sostegno verticale. Le gallerie potevano avere uno sviluppo anche di centinaia di metri. Quest’attività muoveva eserciti di lavoratori che oltre ai cavatori erano costituiti anche dai carrettieri che spostavano i blocchi fino ai punti di imbarco e dai marinai che esportavano la pietra sulla terraferma attraverso tipiche imbarcazioni siciliane da trasporto a vela, chiamate “schifazzi”.

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I punti in cui oggi è possibile vedere esempi di cave di calcarenite sono Scalocavallo, Cala Rossa e Bue Marino. In particolare, in corrispondenza del primo, dove vi è un esempio di entrambi i metodi di estrazione, sono ancora visibili, prospicienti la costa, alcuni piani inclinati ricoperti di lastre calcaree, attraverso i quali i conci venivano fatti scivolare e caricati sugli schifazzi. Per la redazione di questo articolo si ringrazia, in particolare, il Direttore dell’AMP Egadi, Tata Livreri, per aver reso possibile la visita del Centro di recupero tartarughe marine e dell’Ex Stabilimento Florio, grazie alla competenza e alla gentilezza dei suoi collaboratori. + INFO www.ampisoleegadi.it


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Pesce pagliaccio delle Seychelles (Amphiprion fuscocaudatus) affondato tra i tentacoli di un anemone di Mertens (Stichodactyla mertensii) in compagnia di un curioso gamberetto commensale (Ancylocaris brevicarpalis).

Seychelles, Mahé © 2021 Vincenzo Paolillo

Fotografie di mondi sommersi L'incanto del profondo

Un viaggio alla scoperta della vita subacquea attraverso le suggestive immagini di Vincenzo Paolillo Acque salate, ma anche acque dolci, ricche di una gamma magnifica di viventi, immortalati dalle fotografie di Vincenzo Paolillo, in questo senso vero e proprio strumento di conoscenza e tutela delle specie ac- quatiche. Un repertorio di colori, luci e ambienti fantastici, ma anche di movimenti e vita. Immagini che insegnano più di molte parole, che fanno conoscere e ammirare l’incredibile ricchezza di forme e di colori della vita sot- tomarina. Fotografie suggestive, ricche di luce e di movimento, che ritraggono pesci coloratissimi che si muovono sinuosi, foreste di alghe, colonie di coralli, enormi spugne e gorgonie, granchi e conchiglie, eleganti meduse, possenti megattere e temibili squali: un mondo dai toni accesi, popolato e silenzioso, nel quale si snoda la lunga storia dei suoi abitanti.

edizione italiana e inglese 24 × 30 cm, 264 pagine cartonato ISBN 978-88-572-4517-1 I, -4523-2 E

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Immagini che insegnano a comprendere il valore della biodiversità e a conoscere la straordinaria ricchezza di vita presente nelle acque, l’ambiente dove la vita stessa è nata, miliardi di anni fa. Suddiviso in cinque sezioni (Colore; Forma; Luce; Movimento; Luoghi magici), il volume che presenta le splendide fotografie subacquee di Vincenzo Paolillo è introdotto da una presentazione di Mario Tozzi e da un saggio di Angelo Mojetta (Oltre la superficie).

Vincenzo Paolillo nasce nel 1939 a La Spezia, dopo la fine del secondo conflitto mondiale si trasferisce a Chiavari (Genova) dove porta a termine tutti gli studi fino alla laurea in Giurisprudenza, quindi a Genova dove tuttora risiede e dove ha svolto, fino a qualche anno fa, l’attività di avvocato specializzato in diritto del lavoro.

Nel 1975 inizia a fare le prime immersioni, riuscendo così a coniugare tre grandi passioni: i viaggi, il mare e la fotografia. Nel 1981 decide di partecipare a due concorsi di fotografia subacquea: nel primo organizzato dalla rivista “Mondo Sommerso” – all’epoca la più importante nel settore in Italia – intitolato “Oscar mondiale della fotografia subacquea” ottiene il terzo posto per il complesso delle opere presentate e una delle sue immagini viene giudicata la più bella tra quelle in gara; nel secondo, organizzato a Ravenna da Foto Mauro, vince nella categoria “Macrofotografia”.

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Variante cromatica gialla del nudibranco tropicale noto come “ballerina spagnola” (Hexabranchus sanguineus).

Filippine, Cebu © 2021 Vincenzo Paolillo

Da allora e fino al 1989 partecipa con successo a tutti i principali concorsi di fotografia subacquea in Europa, negli Stati Uniti e in Australia conseguendo oltre sessanta premi: tra i più importanti due Palme d’Oro, una nel 1986 nel diaporama, l’altra l’anno successivo per le immagini a colori, al “Festival mondial de l’image sousmarine” di Antibes; il primo posto assoluto al concorso internazionale di Lazise nel 1987, in quello organizzato dalla rivista tedesca “Tauchen” nel 1985, e nella biennale di Bruxelles del 1984; sempre il primo posto nelle stampe a colori all’“Underwater Festival” in California nel 1985 e nel 1987, al festival della foto subacquea di Anversa del 1984, al festival di Atene nel 1985 e nel 1986, nelle diapositive alla “Photographic Competition” della U.P. Society (Stati Uniti) nel 1987, al “Limerick Festival” in Irlanda nel 1983 e all’“VII Festival di Brighton” in Inghilterra. Nel 1988 viene invitato dalla Confederazione mondiale delle attività subacquee – su segnalazione della federazione belga, essendosi affermato nuovamente al


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Femmina di pesce pappagallo scuro (Scarus niger).

Egitto, Mar Rosso © 2021 Vincenzo Paolillo

Festival di Anversa l’anno precedente – a partecipare, insieme ad altri diciannove fotografi di tutta Europa e del Nord America, alla più importante competizione di fotografia subacquea in estemporanea di quell’anno, il “Royal Blue Dolphin” ad Aqaba e risulta vincitore.

Il lavoro sull’Amazzonia – di cui in questo libro compaiono diverse immagini, alcune inedite – realizzato insieme a Gianfranco D’Amato, è stato pubblicato in diverse riviste europee, ed è stato oggetto di diverse mostre di cui una ad Antibes e un’altra all’Acquario di Napoli nel 1993.

Al “Nikon Photo Contest International 1985/86”, concorso fotografico cui in quell’edizione partecipano oltre settemila fotografi di tutto il mondo, ottiene il terzo posto con una foto subacquea, tale è il successo che l’anno successivo verrà creata una specifica categoria per quel genere di immagini.

Sempre con Gianfranco D’Amato un documentato servizio su alcune popolazioni della Papua Nuova Guinea con un puntuale riferimento ai lavori degli etnologi che le hanno studiate (Malinowski, Margaret Mead) è stato pubblicato in riviste italiane ed europee.

Nel 1986/87 inizia l’attività pubblicistica. Da allora ha collaborato e pubblicato con le più importanti riviste italiane ed europee sia subacquee sia di natura e ambiente. Tra le prime, in Italia: “Aqua”, “Il subacqueo”, “Sub”; in Europa: “Tauchen”, “Apnea”. Tra le seconde, in Italia: “Airone”, “Oasis”, “Vie del Mondo”, “Atlante”, “Ligabue Magazine”, “Newton”, “Focus” (ma anche Biografia “Panorama”, “Il Venerdì di Repubblica”, “Lo specchio dei tempi”); in Europa: “Geo” in Germania; “Grands Reportages” e “Terre sauvage” in Francia; “Rutas del mundo” in Spagna e “New Wave”: la rivista dell’Oceano Indiano.

Con lo stesso D’Amato ha pubblicato alcuni servizi terresti e subacquei sul Borneo malese. Nel 1997 pubblica con l’editore White Star Seychelles, un libro di immagini prevalentemente subacquee.

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Una coppia di pesci angelo francesi (Pomacanthus paru) si aggira tra spugne e gorgonie in un giardino sommerso tipicamente caraibico.

Cuba © 2021 Vincenzo Paolillo

Da quella data inizia a redigere testi e fornire il materiale fotografico, in prevalenza subacqueo, per diversi volumi per la stessa White Star (Relitti. Le migliori immersioni del mondo, Coralli e deserti, Sinai, I grandi parchi nazionali del mondo, Animali preistorici del XX secolo, Relitti. Immersioni nella storia, Santuari della natura tra gli altri), oltre che Oceani per Mondadori, Il grande Atlante del mare per Fabbri Editori, Liguria per Sagep, Il patrimonio dell’umanità per Touring Club Italiano. Nel 2006 con Alberto Vanzo pubblica per Gribaudo il libro Mare di Liguria, che vince il Plongeur d’Or al festival di Antibes. La mostra “Mare di Liguria”, con Alberto Vanzo, è stata esposta al “II Festival della Scienza a Genova” nel 2003. Una mostra personale di Paolillo ha avuto luogo nel 1988 all’Acquario di Imola e nel 2009 al Galata Museo del Mare di Genova. È stato invitato a partecipare, con venti tra i più noti fotografi subacquei del mondo, alla mostra “Mare Nostrum” al Théâtre du Vieux-Colombier di Parigi.

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Un’insolita inquadratura di un nudibranco tropicale (Phyllidiopsis shireenae).

Malesia, Mabul © 2021 Vincenzo Paolillo


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l pesce palla minacciato si gonfia per impedire, o quanto meno rendere difficile, al predatore il mangiarlo; la sfera è il mezzo di difesa che mette in atto questo pesce palla a punti bianchi (Arothron meleagris).

Maldive © 2021 Vincenzo Paolillo

Anemone tozzo (Telmatactis cricoides).

Portogallo, Madera © 2021 Vincenzo Paolillo

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PORTOFINO, SAN FRUTTUOSO, CAMOGLI

Da Portofino Vetta alla Baia di San Fruttuoso, fino a Camogli A cura di Monica Gotta

Dario Truffelli Davide Mele Giuseppe Tarantino Monica Gotta

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PORTOFINO, SAN FRUTTUOSO, CAMOGLI

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Spesso in Liguria il mese di ottobre regala ancora delle giornate calde e ricche dei colori dell’estate. Considerate le temperature decisamente piacevoli, è un buon momento per organizzare questa passeggiata rilassante tra i boschi e il mare della Liguria. Come per ogni escursione è opportuno informarsi preventivamente sulle condizioni meteorologiche prima di avventurarsi in una camminata. È anche consigliabile indossare indumenti e calzature adeguati, avere con sé dei bastoncini da trekking per i tratti più scoscesi e una scorta di acqua. Si può iniziare la passeggiata che porta alla splendida Baia di San Fruttuoso da San Rocco di Camogli, oppure partire dal piazzale dell’Hotel Portofino Kulm. La scelta dipende dal tempo che si ha a disposizione e dal percorso che si preferisce affrontare. Si tratta di un tragitto spesso intrapreso a livello turistico almeno nella sua prima parte, che attraversa il Parco di Portofino, in quanto accessibile a tutti. Se si sceglie di intraprendere il percorso ad anello e tornare indietro, passando per la località Batterie, si deve invece considerare di avere un minimo di accortezza in quanto si percorrono alcuni tratti impervi e presumibilmente scivolosi.

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PORTOFINO, SAN FRUTTUOSO, CAMOGLI

L'escursione che raggiunge San Fruttuoso di Camogli è un'ottima sintesi di quello che la Liguria rappresenta a livello visivo: un continuo contrasto di verde e di blu, tra alberi e mare, salite e discese continue, buon cibo e panorami mozzafiato.

La storia narra che il santo, colpito dalla peste, si allontanò dall’abitato per rifugiarsi nel bosco. Fu un cane a salvargli la vita portandogli un pezzo di pane tutti i giorni.

L’itinerario regala una discreta quantità dei paesaggi tipici della Liguria: terrazzamenti, edicole votive, le tipiche stradine liguri – le cosiddette creuze in dialetto, ossia strade/percorsi stretti che portano al mare – e, al termine del percorso, si raggiunge la famosa Abbazia di San Fruttuoso, adagiata nella baia omonima e accessibile solo a piedi oppure dal mare.

San Rocco offre un belvedere sul mare, un luogo con una posizione privilegiata da dove si vedono Camogli, Genova e, in giornate particolarmente limpide, anche luoghi più distanti. Si prosegue poi attraverso alcuni piccoli orti, in mezzo alle case, inerpicandosi per salite piuttosto ripide e ciottolate, contornate dagli ulivi. Le indicazioni sono per Portofino Vetta ed è proprio lì vicino che ci si ritrova dopo circa mezz'ora di salita, a 412 metri sopra il livello del mare.

Il percorso più lungo parte dalla splendida piazzetta della Chiesa di San Rocco, davanti alla quale peraltro si trova una statua di un cane. Qui si commemora infatti la fedeltà dell'animale e ancora oggi viene elargito un premio annuale a chi tra di essi si distingue per azioni particolari nella zona.

Pietre Strette Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Da qui parte la nostra escursione Nelle giornate prive di foschia si possono ammirare due golfi, il Golfo Paradiso e il Golfo del Tigullio, nonché le Alpi Marittime e Apuane. Da qui le indicazioni da seguire sono quelle per la località Pietre Strette, facilmente identificabili perché rappresentate da un cerchio rosso vuoto. La salita è molto meno ripida e passa attraverso il bosco, permettendo, come si diceva, di ammirare la varietà paesaggistica del territorio ligure. Sembra di essere in montagna, eppure poco più in là si scorgerà il mare, con una palette di colori che va dall’acquamarina al blu intenso.

Davide Mele Photography

Da qui si trovano poi le indicazioni per San Fruttuoso, rappresentate con lo stesso simbolo. Si prosegue sempre in mezzo al bosco, in discese a tratti piuttosto ripide e dove occorre infatti prestare attenzione.

Giuseppe Tarantino Photography

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PORTOFINO, SAN FRUTTUOSO, CAMOGLI

Scendendo, quasi alla fine dell’escursione, si vedrà la Torre di Andrea Doria restaurata dal FAI (Fondo Ambiente Italiano). Fu costruita nel 1562 circa per difendere il borgo e la sorgente d’acqua contro le incursioni barbariche. Sulle facciate rivolte al mare si può vedere lo stemma della Famiglia Doria. Da qui, percorrendo alcune gradinate, si arriva al borgo di San Fruttuoso, dove sorge l'abbazia, anch’essa bene del FAI. La Baia di Capodimonte – detta Baia di San Fruttuoso – nasconde un’altra meraviglia, oltre all’abbazia, celata dalle acque color acquamarina della baia. Si tratta del Cristo degli Abissi, che si può ammirare solo immergendosi in queste acque cristalline.

Dario Truffelli Photography

La Baia di Capodimonte

Per coloro che praticano immersioni subacquee non mancano le curiosità e i tesori sommersi da visitare. Nell’area del parco marino ci sono alcuni relitti visibili. Per organizzare le immersioni ci si può rivolgere ai gruppi di divers esperti che fanno escursioni subacquee. Non vedrete solo una parte della storia della zona da questa particolare angolazione, ma anche una flora e una fauna sottomarina meravigliose immerse nel magico silenzio delle profondità marine.

era segnalata fin da tempi antichi come punto di rifornimento per i navigatori per la presenza di una fonte d’acqua. Forse, per questo motivo, nacque la leggenda di un drago a guardia della preziosa riserva di acqua dolce, presente tutt’oggi. Con questa leggenda si interseca quella dedicata al vescovo di Tarragona e alle reliquie del santo. Con la costruzione della parte di chiesa affacciata sul mare da parte della Famiglia Doria, lo stile gotico si unì a quello romanico già presente. Le incursioni piratesche resero necessaria la costruzione di diverse torri lungo la costa ligure a difesa del territorio. Una di queste fu costruita proprio qui da Andrea Doria. Nel 1954 venne immersa la statua del Cristo degli Abissi al largo della baia. Si tratta di una statua di bronzo, alta circa due metri e mezzo, che rappresenta un Cristo con le braccia tese al cielo, opera dello scultore genovese Guido Galletti. La statua fu calata in mare su proposta di Duilio Mercante, un personaggio molto conosciuto nel mondo dell’attività subacquea italiana, che lo volle in memoria di tutti i morti in mare. Ogni anno, l’ultima domenica di luglio, una cerimonia ricorda i morti in mare. Dall’abbazia parte una processione con le torce. Questa arriva alla spiaggia, dove i sub prendono le fiaccole e raggiungono il Cristo. Al rientro dei sub viene celebrata la messa in spiaggia.

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Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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L’Abbazia di San Fruttuoso

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L’abbazia, lambita dal mare e avvolta dal verde, esempio di architettura romanico-gotica ligure, ha una storia che affonda le sue radici in un lontano passato. La leggenda racconta che nel VIII secolo d.C. Prospero, vescovo di Tarragona, in fuga dalla Spagna invasa dagli Arabi, si rifugiò in questo luogo per edificare una chiesa che avrebbe conservato le reliquie del martire Fruttuoso. Il sito parve essere l’ideale perché di difficile accesso e per la presenza, ai tempi, della fonte d’acqua. Oggi San Fruttuoso è il protettore dei naviganti. Nel X secolo d.C. l’abbazia fu ricostruita e divenne un monastero benedettino. Essa subì modifiche nel corso della sua storia: alcune di queste furono ad opera della Famiglia Doria, che vi trasferì il sepolcro familiare nel XIII secolo e costruì il loggiato. Tale concessione fu data dai monaci dell'abbazia in cambio di fondi per l’ampliamento dell'edificio verso il mare. Si tratta di una parte dell'abbazia molto antica, voltata a botte e soppalcata ben due volte. Si ipotizza che precedentemente fosse un refettorio o una sala capitolare.

Monica GottaPhotography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Sono state svolte diverse indagini archeologiche piuttosto rilevanti nell'ambito dell'archeologia monastica, condotte, a partire dal 1985, dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria. Le ricerche hanno evidenziato la frequentazione del posto già dall’epoca tardo-romana. Tali indagini hanno permesso di scoprire alcuni aspetti dell'abbazia altrimenti non identificabili, come ad esempio l'esistenza di un passaggio, a sud dell'edificio monastico, che forniva da ricovero per le imbarcazioni e ne permetteva l'accesso direttamente dal mare; questo doveva essere costruito come una sorta di ponte levatoio, in modo da evitare attacchi da parte dei pirati. Il passaggio comunicava con il sepolcreto dei Doria, ma fu poi chiuso per l'addossamento della tomba di Giacomo Doria il Maggiore. L'attuale varco di passaggio, così come la spiaggia sottostante, hanno avuto origine dall'alluvione del 1915, che ha causò danni ingenti alla chiesa. L'aspetto attuale si deve ai lavori di ripristino del 1922. Nel complesso è stata allestita un’area museale dedicata alla storia dell’abbazia. Sono esposti pezzi venuti alla luce durante i restauri, tra cui ceramiche da tavola utilizzate dai monaci. Da questa sala, adornata da uno dei due ordini di splendide trifore, si scorge il mare e il panorama unico della Baia di Capodimonte. Nel 1983 l'Abbazia è stata donata dalla Famiglia Doria al FAI, che ne cura costantemente ogni spazio, avendo eseguito anche i lavori di restauro. Monica Gotta Photography

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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L’Icona di San Caralampo San Caralampo, vestito da vescovo con il Vangelo nella mano sinistra e la destra benedicente, si presenta di fronte al centro della raffigurazione. Si tratta di un’icona cosiddetta agiografica, dove al centro è raffigurato il santo e sulla cornice sono rappresentate le scene della sua vita in piccoli riquadri. Fu vescovo in una città della Grecia nord-orientale; fu venerato perché compì molti miracoli e il suo culto si diffuse in tutto il mondo ortodosso. La tradizione popolare racconta che avesse il dono di rendere fertile la terra e perciò è molto popolare negli ambienti contadini.

Monica Gotta Photography

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Giuseppe Trantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Da qui si può tornare a San Rocco di Camogli o a Portofino Vetta a piedi, ripercorrendo il sentiero, oppure utilizzare il servizio di traghetti che portano a Camogli, Rapallo e Santa Margherita Ligure. Abbiamo scelto di tornare a Camogli in traghetto per avere la possibilità di ammirare dal mare questa parte di costa ligure che presenta delle caratteristiche particolari.

Dario Truffelli Photography

Il viaggio in traghetto

Una parte del Promontorio di Portofino è formata da calcari del Monte Antola – rocce di colore grigio con righe bianche. L’altra parte è formata dal conglomerato di Portofino, che forma la parte del promontorio rivolta verso il mare. Si presenta con costoni che scendono nel mare e determinano cale e insenature, nonché la formazione di grotte.

La navigazione dalla Baia di San Fruttuoso a Camogli è breve. Lasciando San Fruttuoso si vede allontanare l’abbazia con la sua meravigliosa architettura. Si passa davanti a Cala dell’Oro, si doppia Punta Chiappa, la cui scogliera si protende nel mare di un profondo blu, e ci si ferma qualche minuto a Porto Pidocchio. In questo punto della costa, da aprile a settembre, viene utilizzata la tonnarella, un sistema di pesca tradizionale altamente sostenibile e praticato ormai unicamente in questo luogo della Liguria. Con questo metodo solo il pesce di taglia media rimane imprigionato nelle camere, non viene ucciso ma solo reso visibile tra le due barche. I pescatori hanno così la possibilità di scegliere il pesce commerciabile e lasciare vivo il restante liberandolo. La tonnarella è stata citata in alcuni documenti risalenti al 1600, ma si pensa sia molto più antica. Oggi la Cooperativa dei Pescatori di Camogli porta ancora avanti orgogliosamente questa tradizione, calando in mare le reti che costituiscono la tonnarella, di cui la più grande si chiama pedale. Si tratta di reti in fibra di cocco che, oltre ad essere sostenibili, permettono lo sviluppo di alghe e invertebrati che rappresentano una fonte di cibo per il pesce e lo attirano.

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Camogli

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Porto Pidocchio Punta Chiappa Cala dell'oro San Fruttuoso

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Davide Mele Photography L’arrivo al borgo marinaro di Camogli è fatto di splendidi scorci di mare e di scogli, di edifici storici come il Castello della Dragonara, nonché delle tipiche case liguri, la cui caratteristica principale sono i colori pastello, in uno spettacolare ambiente marinaresco. Altra sorpresa che certo non deluderà il visitatore è ciò che offre in tema di prelibatezze alimentari e ce ne si accorge non appena scesi dal traghetto. Si può gustare un cono di fritto di pesce appena arrivati, cucinato su una barca ancorata al molo. Non dimentichiamo che Camogli è famosa per la Sagra del Pesce e per le enormi padelle che vengono utilizzate per friggerlo. E’ quindi una garanzia di qualità. A causa della pandemia quest’evento è stato rimandato per salvaguardare la salute degli innumerevoli visitatori che ogni anno arrivano a Camogli, ma ci si augura di poterla nuovamente vedere nel 2022.

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Facendo qualche passo all’interno delle vie del borgo si trovano diversi esercizi che producono una meravigliosa focaccia tradizionale, nonché la focaccia di Recco. Non mancano gustosissimi gelati artigianali che potrete assaporare seduti ai tavoli dei locali, oppure passeggiando sulla spiaggia. Se preferite un aperitivo non avrete che l’imbarazzo della scelta: basta scegliere quale scorcio panoramico vorrete avere davanti agli occhi mentre sorseggiate il vostro cocktail. A Camogli si trovano anche diverse attività artigianali e, passeggiando, si possono trovare negozi e negozietti che propongono molti pezzi unici, curiosi e sicuramente adatti a diventare un piccolo regalo per qualche persona cara. Spesso sono a tema marinaro, ma si trovano anche proposte di altro genere. Non manca nulla per poter godere di una giornata ricca di esperienze: dal bosco alla storia, dalla spiaggia al mare, per concludere con dell’ottimo cibo.

Giuseppe Tarantino Photography

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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VILLA NECCHI

Alina Timis Camillo Balossini Mari Mapelli

Un’incantevole dimora A cura di Alina Timis

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VILLA NECCHI

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MILANO si fa presto a dire Milano, ma nella città del design e della moda da vedere non ci sono solo il Duomo, il Castello Sforzesco, il Cenacolo o il Teatro alla Scala. Passeggiando ci si può trovare improvvisamente davanti a fontane che odorano di cloro, a stradine strettissime, a enormi orecchie di bronzo usate come citofono, frutto di scelte e personaggi di un passato non sempre facile da ricostruire. Ma è anche la città moderna e del futuro, detta la ‘’New York italiana’’. Al di là dei soliti itinerari ci sono monumenti celebri e ville maestose, musei a cielo aperto, palazzi coloratissimi, gente famosa e gente qualunque, aneddoti, miti e segreti, dall’architettura agli spazi verdi, dai grattacieli alle vie dello shopping, dai ristoranti agli hotel.

Villa Necchi Piazza Duomo

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VILLA NECCHI

Villa Necchi Campiglio fa parte della storia di una Milano dell’alta borghesia, di una Milano industriale, dinamica e in continua espansione. Progettata a partire dal 1930, la sua realizzazione avviene tra il 1932 e il 1935 rappresentando, ai tempi, un punto di arrivo per le trasformazioni di una zona che, contrassegnata dalla presenza di antiche proprietà monastiche e di palazzi nobiliari dotati di grandi giardini, è stata ulteriormente edificata nel corso degli anni. Ed è stata proprio la connessione tra verde, quiete, serenità e prossimità al centro cittadino a spingere l’inizio della costruzione della villa. Casa Necchi Campiglio andava quindi a insediarsi in un contesto di grande fascino architettonico-paesaggistico. Nello stesso quartiere si potevano già ammirare il palazzo Fidia, in origine Villa Zanoletti, oggi sede del Circolo Mozart, i palazzi della Società Buonarroti-Carpaccio-Giotto riuniti dal grande arco in affaccio su corso Venezia, gli edifici di Piazza Duse ed il Planetario, aperto nel 1930 per contemplare il cielo stellato.

Il terreno scelto all’inizio degli anni ’30 dal dottor Angelo Campiglio, ricco industriale lombardo, e dalle sorelle Gigina e Nedda Necchi, si trovava nel tratto di Via Mozart di fronte al palazzo Fidia, in un mosaico di aree verdi. La famiglia, conosciuta per la produzione di ghise smaltate e delle note macchine da cucire, era composta da Angelo Campiglio (1891-1984), la moglie Gigina Necchi (19012001) e la cognata Nedda (1900-1993). I tre erano sempre pronti ad accogliere in un elegante ingresso i personaggi illustri che frequentavano la residenza, tra cui anche Maria Gabriella di Savoia, conosciuta nel 1959, a cui avevano riservato una camera durante i suoi soggiorni milanesi. Nonostante il loro patrimonio e l’alta posizione sociale, le sorelle Necchi tutt’oggi vengono ricordate come persone semplici, spontanee, aperte, curiose, discrete ma, soprattutto, generose.

Mari Mapelli Photography

Camillo Balossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Camillo Balossini Photography La casa, silenziosa e accogliente era sempre aperta agli amici. La famiglia Necchi è sempre stata una famiglia molto unita, basta osservare la convivenza armoniosa dei tre fratelli: Gigina, Nedda e Vittorio, di cui ancora oggi, amici e parenti ne parlano con simpatia. Angelo Campiglio dopo essersi laureato in medicina, lascia la specializzazione e su invito del suocero Necchi, entra a far parte dell’impresa di famiglia e fonda la NECA, società che mantiene la proprietà della fonderia di ghisa e che produce caldaie e sanitari. I coniugi Campiglio, Gigina ed Angelo, vivevano a Pavia ma volevano da tempo trasferirsi a Milano, dove spesso frequentavano gli eventi mondani, soprattutto gli spettacoli alla Scala. Da qui nasce il loro desiderio di acquistare una casa, vicina al centro città che possa ospitare un grande numero di invitati. Il nome della famiglia Necchi è sempre stato noto a tutti i livelli sociali: la loro macchina da cucire si trovava in tutte le case italiane. La villa, inserita in uno dei ‘’più signorili quartieri della città’’, viene costruita dall’impresa Gadola, sulla base di un disegno di rara semplicità, sotto gli sguardi attenti dell’architetto Piero Portaluppi, progettista affermato, di brillante creatività e dotato di uno spiccato carisma mondano, che ebbe la fortuna di costruire una villa da 2000 metri quadri senza limiti di budget, un vero sogno per qualsiasi architetto. Giroinfoto Magazine nr. 73

Alina Timis Photography Il suo compito era di mantenere le caratteristiche di morfologia e di impianto proprie di una dimora di grande prestigio: una residenza ampia e confortevole per dare ospitalità agli amici. La sfida era proprio questa, costruire una villa in città di grande fascino e prestigio ma con tutti i comfort della modernità di quell’epoca. Il cantautore e storico leader dei Timoria, ha proposto un inedito parallelo tra il percorso pavesiano e la beat generation intervallando alcune sue canzoni con brani letti meravigliosamente dall’attore di teatro Gipeto.


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Nel giardino si trovano una piscina, tra le prime costruite a Milano su un terreno privato riscaldata con una speciale serpentina, dotata di un sistema automatico per il ricambio dell’acqua e anche un campo da tennis. La bellissima porta di rame, zinco e argento sembra blindare il giardino d’inverno. Il primo approccio avviene attraverso la portineria, un edificio minuscolo ma di sicuro interesse, che può essere apprezzato al meglio percorrendo via Mozart provenendo da Via Vivaio. Materiali di rivestimento come il granito e gli inserti di marmo preannunciano eleganza e ricchezza autentica ma senza essere vistosa. Ogni affaccio della villa possiede una propria individualità sia nel disegno sia nei dettagli. La doppia parete in vetro del giardino connette il fronte del giardino a quello di ingresso, all’epoca popolato da piccole serre ‘’arredate’’ con piante grasse.

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L’abitazione, che si ispira al nascente razionalismo, è arretrata rispetto alla strada e articolata su più piani: gli spazi di servizio, compresa la cucina, si trovano nel seminterrato; i locali di ricevimento e soggiorno al primo piano; le camere da letto al piano superiore e le stanze per il personale di servizio nel sottotetto. I soggiorni della villa, molto vasti, si possono collegare tra loro tramite porte scorrevoli a scomparsa. Ecco, quindi, come la necessità e il desiderio di scambi reciproci tra le stanze, tra l’interno e l’esterno, tra il giardino e la casa, viene realizzato attraverso un sistema di filtri, di piani scorrevoli e trasparenti. Grazie all’impiego di moderni accorgimenti tecnici, quali l’ascensore, i montacarichi, i citofoni, i telefoni, la piscina riscaldata, le grate di protezione e le vetrate manovrabili elettricamente, gli impianti delle cucine e di riscaldamento, la villa si distingue come un esempio di villa urbana che riesce a coniugare eleganza, funzionalità e tecnologia.

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Camillo Balossini Photography

L’ingresso alla villa è caratterizzato da spigoli vivi e linee nette della facciata, si possono ammirare anche le doppie vetrate laterali dell’entrata, che addolciscono il passaggio all’interno e offrono nello stesso tempo riparo per le piante collocate tra le due pareti trasparenti. L’ottone è tra i materiali privilegiati nell’architettura, a cominciare dall’entrata, dove viene sfruttato per scandire le fasce orizzontali della vetrata. Varcata la soglia dell’ingresso, si entra quindi nella grande Hall, che con i suoi alti soffitti, funge da snodo tra le due ali principali della dimora; quella a sinistra composta principalmente da sale ricreative e quella di destra dedicata alla sala da pranzo e allo studio.

L'ingresso

l primo piano è riservato alle stanze private e i locali del sottotetto sono riservati alla servitù. Risalta subito il lusso, caratterizzato soprattutto dall’alta qualità dei materiali e la vastità degli spazi. Per quanto riguarda l’illuminazione troviamo tante fonti luminose lungo le pareti, potenziando il lampadario centrale con lampade a terra. Tutti i dipinti e le sculture esposti su questo piano appartengono alla gallerista e storica dell’arte milanese Claudia Gian Ferrari che dona nel 2010, prima della sua scomparsa, alcune delle sue opere al FAI.

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La biblioteca Tra le sale della casa, la biblioteca è quella che testimonia di più il gusto e la raffinatezza del progettista Portaluppi. La libreria, che riveste interamente le pareti lunghe e ne sfrutta tutta l’altezza, è vista come una sala da conversazione, da lettura, da intrattenimento sociale, dove i famigliari e gli amici si scambiavano idee.

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Oltre agli enormi armadi si nota anche la presenza di due tavoli da gioco degli anni Trenta, opera di Guglielmo Ulrich, realizzati in legno di mogano in tre esemplari e presentano un ricco rivestimento interno delle gambe in lamina di ottone. Era la stanza principale, dedicata al gioco delle carte, uno dei passatempi preferiti della famiglia. Un altro elemento importante è l’inserimento del camino integrato nel disegno geometrico delle scaffalature. Puro nelle linee, gioca unicamente sulla bicromia dei marmi: granito nero di Anzola per l’esterno e per l’interno granito chiaro. Nello stucco del soffitto possiamo vedere la vera firma dell’architetto, particolarmente cara a Portaluppi, dove l’intreccio delle costolature introduce nella casa il motivo della losanga, figura ricorrente nell’arte applicata dell’epoca. Grazie all’inserimento di una seconda griglia più sottile di rombi, ne crea una versione agile e mossa. I numerosi volumi sugli scaffali denotano una famiglia intenta alla lettura. Fanno parte della collezione: romanzi, con preferenza per i

Alina Timis Photography testi francesi, preferibilmente in lingua originale, volumi d’arte italiana e moderna, libri di viaggio e naturalistici. All’inizio del Novecento, nella stanza si trovava anche un pianoforte che poi ha lasciato posto ad una scrivania genovese di richiamo rococò. Oltre ai dipinti e alle fotografie, la sala espone alcune sculture provenienti della collezione Gian Ferrari.

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Il salone

dalle mosse forme neo-rococò, superfici piane e spigoli vivi, divani e sedute di gusto tipicamente settecentesco.

Un tradizionale lampadario Luigi XV prende il posto di tre fantasiose lampade a ombrello disegnate da Portaluppi, ma la A partire dal 1938 i Necchi Campiglio si servirono della modifica che più trasforma il progetto nel 1935, è l’inserimento collaborazione dell’architetto Tomaso Buzzi per alcuni in porte e finestre di ampi tendaggi riccamente drappeggiati, interventi architettonici e per gli arredi della villa che, realizzati con ricami antichi, facendo in modo che la sala si fortunatamente, non fu colpita dai bombardamenti bellici. trasformi nel più ospitale salotto di conversazione. Geniale e inesauribile disegnatore, per 40 anni Buzzi è impegnato come decoratore, arredatore, restauratore, architetto di giardini per l’alta borghesia di tutta Italia. Gli Agnelli, i Falck, i Pirelli sono alcuni dei suoi clienti. Dal 1946 fino al 1957 prepara bozze per nuovi mobili o rivestimenti, consigliando acquisti di antiquariato e seguendo in prima persona alcuni lavori di manutenzione ordinaria, funge da tramite tra mercanti ed esecutori che sceglie con cura, verificando personalmente l’esperienza e l’affidabilità. Con l’arrivo di Buzzi, l’impianto esplicitamente lineare e moderno che aveva caratterizzato gli esordi della villa portaluppiana è destinato ad avere vita breve: nell’arco di pochi anni verranno rimossi gli arredi anni Trenta per privilegiare pezzi in stile Luigi XV e Luigi XVI. Non è nota l’epoca precisa della fase principale di tale cambio di rotta, ma il nuovo allestimento ideato da Buzzi segna profondamente l'immagine del salone, che vede consolle

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Tra gli interventi del Buzzi va segnalata anche l’ampia cornice a specchio e legno dorato della vetrina verso la biblioteca, in modo da creare un collegamento visivo tra le due sale e sottolineare la fluidità degli spazi della casa. Tra i dipinti della collezione Gian Ferrari esposti nella sala, oltre a due Nature Morte di Giorgio Morandi, segnaliamo anche le straordinarie opere di Giorgio de Chirico, Oreste ed Elettra e il Ritratto di Alfredo Casella.


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Quasi interamente proiettata verso l’esterno, la veranda si apre sul giardino attraverso le due pareti vetrate, tanto da esprimere forme e principi più adatti ad abitazioni di villeggiatura immerse nella natura. Nella parte edificata si intravede un’elegante cornice volta ad accogliere e valorizzare la luce e i colori della natura circostante. Anche lo sfruttamento della doppia vetrata per creare una serra lungo le pareti della stanza conferma l’attenzione di Portaluppi per le più recenti soluzioni architettoniche. Questo tipo di struttura ovviamente non offre sicurezza, pertanto l’architetto rimedia inserendo nel locale due massicce grate scorrevoli in alpacca (detta anche argentone), trasformando un semplice corpo di protezione in un elemento dall’alto valore decorativo ed estremamente curato; tutte le finestre sono dotate di un triplice sistema di chiusura a scomparsa, persiane e doppi vetri separati manovrabili a

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seconda delle esigenze degli abitanti e delle stagioni dell’anno. Prezioso è anche il pavimento in travertino, marmo verde Roja e marmo verde Patrizia. Ancora più prezioso, è il magnifico tavolo in lapislazzuli di asciutto disegno portaluppiano, sul quale è esposto un bel gruppo di vasi cinesi del XVIII-XIX secolo. La sala è tra le più autentiche della casa perché è rimasta inalterata per tutto il XX secolo, salvo alcune eccezioni. La grande scultura bronzea, presente nella sala, è un’opera del 1930 dell’artista milanese Adolfo Wildt e raffigura Il puro folle, il giovane eroe consacrato alla ricerca del Santo Graal, ovviamente anche quest’opera appartiene alla collezione Gian Ferrari.

La veranda Mari Mapelli Photography Camillo Balossini Photography

Lorena Durante Photography

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Lo studio Decisamente maschile, studio del padrone di casa, era una vera stanza di lavoro: è presente una cassaforte per l’argenteria di casa e due armadi per l’archivio professionale di Angelo Campiglio. Il soffitto originario della camera, ideato da Portaluppi, con un fantasioso motivo a labirinto viene presto coperto con un controsoffitto neutro a riquadri bianchi, probabilmente su disegno di Buzzi. Lo studio, arredato in stile moderno, comprendeva anche una scrivania in radica di faggio anni Trenta, poi sostituita da uno splendido tavolo in mogano di epoca Impero, realizzato nella famosa bottega toscana di Giovanni Socci. Nello studio un grande specchio che permetteva al padrone di casa di sapere in anticipo quale ospite stesse entrando nel giardino. Per quel che riguarda i dipinti, accanto a tre opere di Filippo de Pisis, si segnala la Natura morta con libri di Carlo Carrà del 1932.

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Il fumoir

Il fumoir è la stanza che più di ogni altra ha subito una radicale trasformazione per mano di Tomaso Buzzi. È dotato di un basso camino dal profilo geometrico, inserito in un unico mobile che corre lungo tutta la parete. L’arredo è costituito da poltrone a pozzetto di gusto decò, un tavolino a spigoli vivi e un vivace lampadario a cerchi sovrapposti. Tutto questo si intravedeva nel 1935. Successivamente viene sostituito l’arredamento con divani a schienale curvilineo, console di richiamo settecentesco e soprattutto un imponente camino con una modanatura rinascimentale. Opera di Buzzi anche le due nicchie voltate, in cui inserire i settecenteschi reggi candelabro. Da notare anche la particolare cromia color crema del soffitto. Per quel che riguarda i dipinti, la stanza è dedicata a Mario Sironi, presente con otto pezzi provenienti dalla collezione Gian Ferrari. Si può intravedere anche il tappeto del fumoir bruciacchiato dalle ultime sigarette gustate davanti al camino.

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La sala da pranzo Con un ricco rivestimento in pergamena, realizzata in radica con profilature in ottone, era composta da tavolo, sedie, vetrina buffet e contro-buffet, quest’ultimo ornato da pannelli raffiguranti le ‘’Tre caravelle di Cristoforo Colombo’’.

Per rendere la sala più calda e accogliente, sono stati realizzati un gruppo di pregevoli arazzi realizzati a Bruxelles tra la fine del XVI secolo e l’inizio del secolo successivo che fanno passare in secondo piano la splendida pannellatura di pergamena della metà degli anni Trenta. Si possono ammirare anche le due mensole in alabastro fiorito con sinuosi sostegni in ferro, il soffitto a stucco con motivi naturalistici (alberi, fiori, serpenti e aironi) e astrologici (segni del toro e del cancro), il centrotavola in lapislazzuli, agata e corallo eseguito da Alfredo Ravasco, le porte in radica di olmo, le finestre a tutta altezza. Le grandi finestre offrono un’ampia vista sul giardino della villa soprattutto sulla piscina.

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In base a una piantina originale della casa, la stanza doveva essere un guardaroba d’appoggio per i padroni, trasformata poi, grazie a un armadio a muro, in un deposito di fucili da caccia.

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La fuciliera

Vista la grande passione per lo sport, sempre al piano terra, ci sono altri ripostigli per sci e scarponi. L’attività venatoria è senz’altro lo sport preferito e più praticato dagli uomini di casa e dai loro amici. La stanza, anche se di dimensioni ridotte, comprende anche un tavolo in noce con sostegni di faggio e riprende decori affini per la rete protettiva in ottone del calorifero, elemento d’arredo molto diffuso nella villa. Il busto di giovane donna raffigurato nella scultura La canzone marinara raffigura Alba Bortolotti, figlia dello scultore Timo Bortolotti e madre di Claudia Gian Ferrari.

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La camera da letto Coniugi Necchi Campiglio

Nella stanza matrimoniale, l’intervento di Buzzi è particolarmente evidente dalla parete avvolgente corredata da nicchie illuminate per incorniciare il letto. Quest’ultimo ha un rivestimento in raso con ricami antichi, che prevede un decoro tessile anche per la porta scorrevole della camera. L’arredo è composto da pezzi di antiquariato, tra i mobili della stanza si evidenzia una coppia di cassettoni del XVIII secolo di manifattura romana, degli oggetti in porcellana a forma di gatto data la passione delle due sorelle per questo animale, oltre ai vari dipinti di Antonio Maria Crespi Castoldi. Nella stanza da bagno trionfa pienamente il marchio Portaluppi, a partire dalle dimensioni e dal rivestimento in marmo arabescato. I doppi lavandini, la grande vasca da bagno, le cabine destinate a toilette e doccia, il set anni Trenta di spazzole in tartaruga, siglato con la ‘’G’’ dorata di Gigina contraddistinguono un ambiente di lusso.

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La camera da letto Nedda Necchi

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Entrando nella stanza da notte di Nedda Necchi si respira un’aria romantica, dalla vista del grazioso letto a baldacchino agli eleganti mobili inglesi e toscani del XVIII-XIX secolo. Una raccolta di quadri, vetrine con porcellane di Doccia e Cozzi e altre manifatture italiane ed europee documentano la vita di una donna dolce e raffinata. Nel bagno, invece, un’incisione di Chagall e un acquerello di De Pisis, tanto da voler allestire nel seminterrato una piccola collezione privata, tra cui si distinguono le opere di Lucio Fontana, René Magritte, Joan Mirò, segno che tra tutti i membri della famiglia, lei era l’unica che apprezzava l’arte contemporanea. Oltre a spazzole e pettini, il bagno rispecchia lo stesso stile e materiali di quello della sorella, con l’aggiunta di bottiglie e porta profumi.

Mari Mapelli Photography

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Molto moderna per l’epoca, Portaluppi è riuscito a ricavare uno spazio per la camera da letto, il bagno e l’irrinunciabile spogliatoio per gli ospiti. Una semi parete in marmo nero, chiusa lateralmente da tende, funge da divisorio per il bagno completo e curato nei minimi dettagli. Il portico ad arco che si affaccia sul giardino, inizialmente pensato come spazio aperto dall’architetto, venne chiuso successivamente con una vetrata per creare un piccolo soggiorno riparato.

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zona ospiti

Come in tutte le case signorili, non poteva mancare il guardaroba, con una serie di mobili della fine degli anni Trenta di proporzioni aggraziate ed eleganti, i rivestimenti in seta degli armadi sono di ottima qualità, gli interni degli stessi presentano la stessa cura della stanza padronale. L’elegante dimora progettata da Portaluppi prevede anche una scala secondaria, illuminata da grandi vetrate e impreziosita da un rivestimento di finto marmo.

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A differenza delle altre case museo di Milano, villa Necchi Campiglio è una vera e propria villa in città. L’abitazione, donata al Fondo Ambiente Italiano nel 2001 dalle sorelle Necchi, è stata restaurata, trasformata in un museo e aperta al pubblico nel 2008.

Unisce il seminterrato al sottotetto della casa, zona riservata al personale di servizio e composta da tre camere da letto, salottino e bagno. A fianco alla cucina e al locale destinato alla pulizia di argenteria, si trova la sala da pranzo per il personale di servizio, nei toni del bianco e del verde e la sala dove venivano stirati i vestiti.

L’elegante struttura è arricchita da numerosi dipinti, sculture e arredi, alcuni acquistati dai proprietari e altri donati successivamente al FAI e qui esposti. Fra questi vengono menzionate le opere d’arte della collezione Gian Claudia Ferrari, Alighiero ed Emilietta de Micheli, con dipinti di Rosalba Carriera, Canaletto e Tiepolo, mobili francesi e raffinate ceramiche lombarde. La particolarità di questa dimora moderna è l’aver conservato il suo aspetto originario, caratterizzato da un’armonica fusione tra architettura, decorazione, arredi e opere d’arte. Vista la sua maestosa struttura viene voglia di controllarsi l’abito per vedere se si è abbastanza in ordine prima di entrare.

+ INFO Villa Necchi si trova in Via Mozart, 14, Milano www.fondoambiente.it Orari di apertura: da mercoledì alla domenica dalle ore 10:00 alle ore 18:00 gestita da FAI. È consigliata la prenotazione.

Camillo Balossini Photography

Camillo Balossini Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Adriana Oberto Cinzia Carchedi Domenico Gervasi Elisabetta Cabiddu Maria Grazia Castiglione Massimo Tabasso

A cura di Elisabetta Cabiddu

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All’interno del Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po nelle vicinanze del Ponte Isabella, si trova uno dei pochi reperti navali di dimensioni importanti rimasti in Italia: lo storico sommergibile “Andrea Provana” (in onore dell’ammiraglio piemontese Andrea Provana che partecipò alla battaglia di Lepanto del 1571). Più precisamente si trova la sezione centrale del sommergibile con la torretta e i cannoni. Portato a Torino nel 1928, per celebrare il primo decennale dalla fine della Prima Guerra Mondiale, è stato recentemente restaurato e può essere visitato, previa richiesta, presso l’A.N.M.I. “Grosso” che lo custodisce, la cui sede si trova in viale Marinai d’Italia 1. Grazie alla nostra guida Maurizio Santovito è stato possibile visitare sia il museo navale che il sommergibile “Provana”.

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A.N.M.I "Grosso"

Associazione Nazionale Marinai Italiani

TORINO

Nel 1896, per iniziativa del Sottocapo timoniere Giuseppe Torta, nasceva a Torino la Società di Mutuo Soccorso fra i militari della Regia Marina, che negli anni successivi sarebbe poi diventata l’Associazione Nazionale Marinai d’Italia (A.N.M.I.) Nel 1925, sotto la denominazione di Società Marinai in Congedo in Torino, la sede si trasferì in riva al Po, vicino al Ponte Isabella in Viale Marinai d’Italia 1, dove attualmente risiede. Nel 1933, nel cortile interno della sede, fu posizionata la parte centrale dello scafo del sommergibile “Andrea Provana”, unità della I Guerra Mondiale e oggi meta di visite guidate e di grande interesse storico.

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Verso la fine degli anni ’40 la Società assunse l’attuale denominazione di “Gruppo medaglia d’oro Umberto Grosso”, eroe della II Guerra Mondiale. Oggi l’A.N.M.I. di Torino ha circa 120 iscritti, la maggioranza sono marinai, sottoufficiali e ufficiali in congedo della Marina Militare, senza distinzione di grado e di categoria, ma sono iscritti anche soci simpatizzanti. L’associazione ha uno scopo ricreativo e culturale, inoltre, si prefigge di rendere sempre più stretti i rapporti tra i soci e i marinai in servizio, al fine di tener vivo il ricordo dei compagni che hanno servito la Patria sul mare e perpetuarne la memoria. Le associazioni A.N.M.I. sono diffuse su tutto il territorio nazionale ed estero: sono circa 470 di cui 17 all’estero, i soci iscritti sono circa 46.000 dei quali 594 all’estero (Australia, Brasile, Canada, Stati Uniti e Germania). La presidenza Nazionale dell’ANMI è a Roma, all’interno della caserma “Lante” sede del Comando della Marina Militare.

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Museo navale Oggi l’A.N.M.I. (Associazione Marinai Italiani) di Torino gestisce un piccolo museo marittimo al piano terra della propria sede. Il museo, dedicato a ricordo dei marinai scomparsi, nasconde cimeli navali, modellini di sommergibili e sottomarini e, inoltre, conserva numerose fotografie lasciate dai soci. A ogni oggetto appartiene una storia affascinante da scoprire come ad esempio i reperti navali che incuriosiscono il visitatore portandolo a chiederne la storia alla guida. In particolare, nel museo ritroviamo uno scafandro d’epoca di un palombaro con gli scarponi, un giroscopio elettromeccanico per controllo rotta di un siluro, cappelli da marinaio di vario tipo, vecchi sistemi di comunicazione di varie dimensioni, radar e telefoni del secolo scorso. Ci sono poi bandiere tra cui quella della Marina Militare e quella della Marina Mercantile, molto simili fra loro e la cui differenza è che in quella della Marina Mercantile manca la corona rostrata ed in più il Leone di San Marco non possiede la spada ma il libro dei vangeli aperto e la zampa sopra il libro.

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Cinzia Carchedi Photography

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Adriana Oberto Photography

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Altre bandiere importanti sono quella del Regno SardoPiemontese che è stata la prima bandiera d’Italia ma, soprattutto, quella della Real Marina perché l’Ammiraglio che aveva fondato la Real Marina, poi diventata Regia Marina e oggi Marina Militare, era l’ammiraglio piemontese di Chiomonte Giorgio Des Geneys. Ogni anno ad agosto ci si reca a Chiomonte dove c’è il monumento in onore dell’Ammiraglio e si celebra la cerimonia del cambio bandiera: si toglie la bandiera dell’anno precedente e la si sostituisce con quella del Regno Sardo-Piemontese. Tra i diversi oggetti navali, inoltre, ritroviamo: il modellino dell’Andrea Provana prodotto da un socio, il modellino della Vespucci e i “crest”.

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Oggi quest’ultimi si utilizzano come cimelio (simbolo dello stemma araldico di un reparto militare) da regalare da una nave a un’altra o tra gli enti e da mettere su uno scudo di legno ma, in origine, rappresentavano i tappi dei cannoni sulle navi, normalmente circolari. Nel 2012 l’A.N.M.I. ha anche ospitato una delegazione dei familiari dell’equipaggio del sottomarino nucleare russo Kursk, quello affondato nel mare di Barents nell’agosto del 2000 e di cui all’interno della sede museale sono presenti diversi reparti, quali piatti e un libro contenente delle fotografie e delle lettere. Sempre a scopo museale al di fuori del museo ma comunque nel cortile della sede A.N.M.I. sono esposti, oltre alla sezione centrale del sommergibile Andrea Provana: la consolle di comando lanciasiluri filoguidati e il relativo schema di comando, la torretta butoscopica Galeazzi, un minisommergibile filoguidato “MIN”, siluri, lancia siluri e mine.

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Come funziona un sommergibile Quando il sommergibile naviga in superficie si riempiono le “casse di zavorra” d’aria e le valvole, i cosiddetti “sfoghi”, rimangono chiuse. Durante la fase di immersione: gli sfoghi delle casse di zavorra vengono aperti lasciando fuoriuscire l’aria che viene sostituita dall’acqua marina. Infatti, il mezzo subacqueo, spinto anche dall’azione dell’elica e dei timoni di profondità, si immerge e le casse di zavorra si allagano completamente rendendo il mezzo pesante e annullando la spinta di galleggiamento. Il dosaggio del mezzo avviene regolando la presenza di acqua di mare nelle casse di compenso, interne all’unità. Gli spostamenti in quota e quelli di rotta vengono effettuati mediante l’azione dei timoni di profondità e di direzione.

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Durante la fase di emersione gli sfoghi vengono chiusi e viene immessa aria ad alta pressione nelle casse di zavorra espellendone l’acqua contenuta, in tal senso il sommergibile si alleggerisce e sale in superficie dove completa lo svuotamento delle casse di zavorra riportandosi nella condizione iniziale. L’aria ad alta pressione per lo svuotamento è inviata tramite delle bombole contenenti circa 300 kg di aria compressa: tali bombole dovevano essere sempre tenute cariche e i marinai dormivano al di sopra delle stesse.


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Differenza tra un sommergibile e un sottomarino I due termini non sono sinonimi tra loro, infatti i sommergibili e i sottomarini sono due tipologie differenti di mezzi di trasporto subacqueo. Il sommergibile è un mezzo di superficie che può andare in immersione ma è concepito per navigare, avere più autonomia ed essere più veloce quando si trova in superficie, da qui il motivo per cui i sommergibili avevano i cannoni a prua e poppa proprio perché molte delle battaglie si svolgevano in superficie. Il sottomarino, invece, è un mezzo navale costruito e concepito per avere migliori prestazioni di manovra in immersione e ha quindi una forma più affusolata che lo rende più veloce e più autonomo sott’acqua piuttosto che in superficie.

Massimo Tabasso Photography Domenico Gervasi Photography

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"Andrea Provana" LA STORIA Il sommergibile “Provana” fu progettato dal Maggiore Cesare Laurenti del Genio Navale, costruito nel 1915 presso i cantieri Fiat San Giorgio di La Spezia e varato ufficialmente dalla Regia Marina il 27 gennaio 1918. Si trattava di un mezzo da combattimento, ma non partecipò mai a nessuna azione di guerra perché entrò in servizio solo nel settembre del 1918, una settimana prima del termine della Prima Guerra Mondiale. Nell’ottobre 1920 il sommergibile fu assegnato all’Accademia Navale di Livorno dove venne impiegato per l’addestramento dei marinai. Solamente nel 1923 il mezzo venne utilizzato come protezione da un eventuale contrattacco durante la crisi di Corfù, quando la flotta italiana occupò l’isola greca a causa di un contenzioso. Il “Provana” fu usato ancora per l’addestramento dei cadetti fino a marzo 1927 quando uno dei motori esplose a causa di un incidente ferendo alcuni marinai; allora fu portato a La Spezia dove si decise di non ripararlo perché ormai caratterizzato da una tecnologia obsoleta e a gennaio 1928 fu messo in disarmo.

Adriana Oberto Photography

Tuttavia, la parte centrale dello scafo, compresa di torretta e camera di manovra, venne conservata e portata nel capoluogo piemontese per l’Esposizione Mondiale del 1928 nell’ambito della Mostra sulla Regia Marina: la sezione di sommergibile, parzialmente interrata, fu posta all’ingresso del padiglione della Marina.

Maria Grazia Castiglione Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Terminata l’esposizione, nel 1933 il sommergibile fu salvato dalla demolizione perché il potestà di allora si era fatto carico delle spese del trasporto da Torino Esposizioni alla sede attuale dell’A.N.M.I. e venne collocato, questa volta fuori terra, dove ancora oggi è visitabile all’interno, mantenendo l’allestimento originale. Tra il 1927 ed il 1928 la Marina fece anche degli esperimenti sul sommergibile per poter imbarcare gli idrovolanti, i quali venivano già utilizzati come primo trasporto passeggeri e atterravano al ponte Isabella. Gli idrovolanti avevano le ali smontabili e venivano infilati in dei cassoni per poter essere poi utilizzati come ricognizione aerea in mezzo al mare ma il progetto non andò a buon fine. Oggi al parco del Valentino è presente un monumento a ricordo.

Domenico Gervasi Photography

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Il sommergibile Andrea Provana pesava 762 tonnellate in emersione e 924 in immersione: era lungo 67 m e largo 5,8 m e poteva pescare fino ad una profondità di 3,81 m. L’apparato motore, costituito da due motori Fiat da 1300 HP, raggiungeva una velocità di 17 nodi. L’armamento contava sei tubi lanciasiluri da 450 mm e 2 cannoni in superficie. L’equipaggio era composto da 40 persone di cui 5 ufficiali e 35 marinai. Il sommergibile era caratterizzato da una cabina di comando, una piccola cella dove riposava il comandante, una torretta, una cucina ed un bagno che si trovavano all’esterno e che pertanto potevano essere utilizzati solamente quando il mezzo riemergeva e previa asciugatura degli stessi. Attualmente è possibile visitare lo storico reperto ossia la cabina di comando, la torretta e la cabina del comandante.

Adriana Oberto Photography

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L'INTERNO La nostra guida Maurizio Santovito, dopo averci illustrato la storia dell’Andrea Provana, permesso di visitare il Museo e i vari reperti presenti presso la sede dell’A.N.M.I. ci conduce all’interno del sommergibile. La parte del sommergibile che si osserva esternamente, circolare e con al di sopra le travi, è quella originale mentre quella più esterna, tramite la quale si forma un’intercapedine, è stata aggiunta in seguito. La particolarità della costruzione del “Provana” è l’unione delle lamiere: oggi le lamiere vengono unite mediante saldatura mentre all’epoca si utilizzava la chiodatura (rivetti) secondo la quale i chiodi incandescenti si infilavano dentro dei fori, si ribattevano e poi raffreddandosi si formava un pezzo unico. Questa tipologia di unione in un sommergibile potrebbe rappresentare però un difetto perché impedisce infatti che si possa andare a profondità elevate e, infatti, il “Provana” poteva raggiungere massimo 20-25 m e solo in emergenza circa 50 m. Questa è stata una delle motivazioni per cui a seguito dell’incidente avvenuto nella sala motori si era poi deciso che il sommergibile non venisse riparato in quanto i successivi sommergibili venivano già costruiti con la tecnica della saldatura proprio per permettere il raggiungimento di quote più profonde.

I fori permettevano di pareggiare la pressione esterna dell’acqua con quella interna e di poter poi risalire in superficie facendo fuoriuscire l’acqua sempre dagli stessi fori. Nella sezione centrale del “Provana” è possibile visitare la camera di manovra nella quale era necessario che ci fossero tre timonieri: uno al timone di comando, per la direzione, e due ai timoni di profondità. La direzione veniva impartita tramite due periscopi: uno “di scoperta” più grande e uno “di attacco” più sottile e meno visibile a distanza e che lasciava una scia in mare minore rispetto a quello di scoperta permettendo così di avvicinarsi meglio alle navi. L’autonomia sott’acqua del “Provana”, come di tutti i sommergibili dell’epoca, era ridotta all’ordine di alcune ore e non giorni, sufficienti comunque sia per attaccare che per sfuggire da eventuali navi visto che ai tempi non c’erano i mezzi per colpire un sommergibile in profondità. Il “Provana” al suo interno non aveva alcun sistema elettronico o oleodinamico e per questo motivo all’interno della camera di comando si osservano ingranaggi, catene, alberi, un profondimetro, un manometro, gli indicatori di inclinazione del timone di profondità, il sistema di comunicazione con la plancia, nel caso i telefoni fossero fuori uso e ancora parecchie valvole di tutte le dimensioni (le piccole, ad esempio, servivano per mettere in assetto il sommergibile mentre le grandi per l’aria ad alta pressione che ne permetteva la risalita in superficie).

Attraverso i fori l’intercapedine si riempiva di acqua e il sommergibile andava in profondità. Esso era formato da due scafi quello resistente dove si trovava il personale e quello non resistente che conteneva le cime di ormeggio, varie strutture e travette.

Elisabetta Cabiddu Photography

Cinzia Carchedi Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Quando il sommergibile era a quota periscopica si poteva utilizzare la cosiddetta canna snorkel dalla quale entrava l’aria esterna permettendo così di stare in profondità e comunque tenere i motori diesel accesi. Nel caso in cui però la canna snorkel fosse stata inondata e chiusa, i motori prendendo comunque l’aria dall’interno avrebbero continuato a funzionare generando in tal modo una depressione all’interno del sommergibile che ne provoca l’emersione e per questo motivo il sommergibile era dotato di un altimetro, necessario appunto per capire di quanto si salisse in superficie e quindi permettere l’eventuale blocco dei motori. Proseguendo è possibile osservare una piccola cabina del comandante, il camerino, dotato di un letto e di un comò. Al di sopra della camera di manovra tramite delle ripide scalette è possibile accedere alla torretta. La visita si conclude all’esterno dove è presente la porta di accesso all’unico servizio igienico, utilizzabile solamente dagli ufficiali e comunque solo in fase di emersione. Dalla parte opposta al bagno era presente la cucina a carbone, anch’essa utilizzabile solo quando il sommergibile era in superficie. Se siete dalle parti del Parco del Valentino e volete approfondire un pezzo di storia d’Italia non perdete l’occasione di visitare il sommergibile “Provana”.

Maria Grazia Castiglione Photography

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A cura di Pierluigi Peis Il cielo è limpido in questa giornata di fine giugno, il mare calmissimo e il sole si riflette come in uno specchio, vado a far colazione al bar del campeggio dove ho passato la notte, caffè e cornetto al cioccolato. Sono a Savona, a poche centinaia di metri dal ponte che la divide da Vado Ligure. Mi faccio una doccia, sistemo le mie cose, chiudo la tenda e poi con la macchina mi dirigo verso Noli, una quindicina di chilometri a ponente, dove ho appuntamento per un'immersione al Nemo's Garden alle 14, è presto ma voglio fare un giro per vedere un po' la costa e Capo Noli, percorrere per un po' l'Aurelia che si snoda tra le falesie a picco sul mare, in uno scenario aspro ma molto suggestivo e scenografico.

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Un tuffo nell'orto subacqueo La mattinata è davvero fantastica e nonostante sia lunedì, molte persone sono già in spiaggia. Una volta parcheggiato me ne vado in un chiosco con vista mare e faccio merenda con due pezzi di focaccia e una coca cola in completo relax. Ne approfitto per fare un giro per il centro storico di Noli, un antico e importante centro marinaro. Dal 1192 per circa seicento anni fu la capitale della repubblica omonima, legata in una sorta di protettorato alla repubblica di Genova. Si avvicina l'ora dell'appuntamento, prendo il borsone dal baule della macchina e mi dirigo verso il diving che si trova all'interno del complesso dell'hotel Capo Noli, a pochi passi dal mare. Arrivo un po' in anticipo ma trovo già la guida che mi accompagnerà nell'immersione. Facciamo due chiacchiere, firmo qualche scartoffia, mi dà una bombola e preparo l'attrezzatura.

Noli

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Pierluigi Peis Photography

Una volta pronti facciamo i pochi passi verso l'acqua con le pinne in mano, quando l'acqua mi arriva più o meno all'altezza della vita ci infiliamo anche le pinne e comincia l'immersione. Non ci dirigiamo subito verso il Nemo's Garden (o orto di Nemo) ma più in profondità, per ammirare una gorgonia solitaria in mezzo alla sabbia e, risalendo, alcuni bassi scogli che affiorano dalla sabbia.

Potrebbero essere anche cose interessanti ma io fremo per vedere ciò per cui sono venuto fino a qui. All'improvviso, mentre risaliamo seguendo la pendenza del fondo e la profondità piano piano diminuisce, si cominciano ad intravvedere le sagome delle cupole trasparenti ancorate al suolo con delle grandi catene e quello che sembra lo scheletro di un albero. L’impressione è quella di trovarmi al cospetto di una città futuristica di un qualche lontano pianeta o una fantomatica città sommersa venuta fuori da un racconto di fantascienza. Mentre ci avviciniamo l'emozione aumenta, il colpo d'occhio è impressionante.

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L'orto di Nemo è un progetto sperimentale molto interessante e molto suggestivo. In poche parole si tratta di una serra per coltivazioni idroponiche sotto la superficie del mare. Con coltivazione idroponica si intende fuori dal suolo. Non potendo trasportare il terriccio sott’acqua, per gli elevati costi e per l’impatto ambientale, è stato sostituito con del substrato inerte che può essere argilla espansa, fibra di cocco, perlite, lana di roccia o zeolite. La serra è composta da sette biosfere ancorate su un fondale tra i sette e nove metri, monitorate con sofisticate attrezzature da una sala controllo fuori dall'acqua che osserva temperature, umidità, ossigeno, anidride carbonica e altri fattori importanti per le piccole coltivazioni. Le biosfere sono delle mezze sfere trasparenti di plexiglass, di circa due metri di diametro e una capienza di duemila litri d'aria, fissate al suolo con delle grosse catene, vuotate dall'acqua dove, con diversi sistemi di supporto, si coltivano diversi tipi di piante.

Pierluigi Peis Photography Giroinfoto Magazine nr. 73


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Ogni sfera contiene dalle 65 alle 95 piante. Hanno cominciato con il basilico, la coltura più tipica della Liguria e ingrediente essenziale per il pesto, per poi coltivare fragole, lattuga, erbe aromatiche e altre piante. La bassa profondità e la trasparenza delle biosfere garantiscono che i raggi del sole portino la luce sufficiente per la fotosintesi clorofilliana. La temperatura quasi stabile dell'acqua durante il giorno e l'escursione termica che si verifica all'interno tra la notte e il giorno, fanno sì che l'acqua di mare sul fondo della biosfera, evapori e si condensi sulla superficie interna della semisfera.

praticamente chiuso, crescono sane e velocemente senza l'ausilio di pesticidi o insetticidi. Una fase molto delicata è il raccolto. L’acqua salata non deve entrare a contatto con le colture, sulle quali avrebbe un effetto devastante, per cui gli addetti devono sciacquarsi con acqua dolce e trasportare il raccolto in contenitori stagni e proteggerli dalla luce solare.

Diventata così acqua dolce scivola, si incanala e si raccoglie per poi, con l'aggiunta dei giusti nutrienti, alimentare le piante che sviluppatesi in un ambiente tanto particolare,

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Rita Russo Photography

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L'idea geniale è venuta all’ingegnere Sergio Gamberini, Presidente dell’Ocean Reef Group, un’azienda a conduzione famigliare specializzata in attrezzature e servizi per sub. Il progetto comincia a prendere forma nell'estate del 2012 con una piccolissima biosfera dove venne piantato del basilico e anno dopo anno le biosfere si ingrandirono e aumentarono fino alle odierne sette, grazie ai continui ed esaltanti successi. Il progetto è anche quasi del tutto eco sostenibile, gli impianti di controllo e monitoraggio sono alimentati da dei pannelli solari posti vicino alla spiaggia antistante. Le sette biosfere, con l'albero in metallo, che riprende la forma dell'albero della vita dell'expo di Milano 2015, formano un'oasi nel fondale sabbioso dove brulica la vita marina e mentre fluttuo e nuoto tra le strutture, mentre ammiro e scruto dentro le diverse biosfere, sono circondato da tantissimi pesci di diverse forme e colori e riesco anche a vedere due bellissimi cavallucci marini.

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Nella bombola ho ancora più della metà dell'aria ma dopo poco più di un’ora arriva il momento di risalire e uscire dall'acqua. Nonostante l'immersione in pochi metri d'acqua, il tempo è volato e l'avventura è stata molto gratificante ed entusiasmante.

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Finita l'immersione mi dicono che il giorno seguente col gommone si va a fare un’immersione nei fondali dell'Isola Gallinara e decido di unirmi a loro, lavo la mia attrezzatura e la metto a sgocciolare per poi lasciarla lì. Vado al bar a bere una birra poi con calma rientro al campeggio veramente soddisfatto della giornata.

Avevo in programma solo l'immersione al Nemo's Garden ma il diving riesce ad organizzarmi un’altra immersione, sempre da riva, dal lato opposto di quella precedente, tra gli scogli e il sabbione, quindi dopo una pausa al bar e qualche chiacchiera indosso di nuovo la muta e l'attrezzatura e sempre con le pinne in mano raggiungiamo la spiaggetta da dove inizia l'immersione. Il mare e la visibilità sono sempre ottimi e anche quest'immersione si rivela facile e molto interessante, anche questa a scarsa profondità e quindi abbastanza lunga, poco più di un’ora.

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