Giroinfoto magazine 74

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N. 74 - 2021 | DICEMBRE Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com

N.74 - DICEMBRE 2021

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ZUCCHE DI MURTA Band of Giroinfoto TRAPANI IN PHOTO X EDIZIONE Band of Giroinfoto

MUSEO ORTO BOTANICO ROMA Band of Giroinfoto

RODOLFO MARASCIUOLO L'ARTE DI CREARE BELLEZZA Band of Giroinfoto Photo cover by Luca Barberis


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74 www.giroinfoto.com DICEMBRE 2021


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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio.

Oggi Dopo più di 5 anni di redazione e affrontando un anno difficile come il 2020, il progetto Giroinfoto continua a crescere in modo esponenziale, aggiudicandosi molteplici consensi professionali in tema di qualità dei contenuti editoriali e non solo. Questo grazie alla forza dell'interesse e dell'impegno di moltissimi membri delle Band of Giroinfoto (i gruppi di reporter accreditati alla rivista e cuore pulsante del progetto) , oggi distribuite su tutto il territorio nazionale e in continua crescita. Una vera e propria community, fatta da operatori e lettori, che supportano e sostengono il progetto Giroinfoto in una continua evoluzione, arricchendosi di contenuti e format di comunicazione sempre più nuovi.

Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati.

Per l'anno 2021 affronteremo nuove sfide per offrire ancora più esperienze alle nostre band e ai nostri lettori, proiettando i contenuti su nuove frontiere dell'intrattenimento, oltre la carta stampata, oltre l'on-line reading, oltre i social, per rendere più forte la nostra teoria di aggregazione fisica, reale interazione sociale e per non assomigliare sempre di più a "pixel", ma a persone in carne ed ossa che interagiscono fra di loro condividendo la passione della fotografia, della cultura e della scoperta.

Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili.

Un sentito grazie per averci seguito e un benvenuto a chi ci seguirà da oggi, ci aspettano esperienze indimenticabili da condividere con tutti voi.

Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.

Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

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CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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ZUCCHE DI MURTA

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CHIESA DI SAN FIORENZO

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MUSEO ORTO BOTANICO

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TRAPANI IN PHOTO

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ZUCCHE DI MURTA 35ª edizione Band of Giroinfoto

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CHIESA DI SAN FIORENZO Storie di santi e dannati Band of Giroinfoto

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MUSEO ORTO BOTANICO Roma Band of Giroinfoto

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TRAPANI IN PHOTO X edizione Band of Giroinfoto

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MONTAGNE I giganti della terra Skira editore


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MARASCIUOLO

RODOLFO MARASCIUOLO L'arte di creare bellezza Band of Giroinfoto

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VILLA LITTA Lainate Band of Giroinfoto

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VILLA LITTA

ALES STENAR La stonehenge svedese A cura di Remo Turello

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LEGNI DI MARE Marina di vecchiano Band of Giroinfoto

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IL PRESEPE DI PENTEMA Museo a grandezza naturale Paolo Paolillo e Stefano Zec

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LE FOTOEMOZIONI Matteo Martini Barbara Tonin

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108 ALES STENAR

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ZUCCHE DI MURTA

A cura di Monica Gotta Il 6 novembre 2021 è stata inaugurata la 35ª edizione della Mostra della Zucca a Murta edizione patrocinata dal Comune di Genova e dal Municipio V Val Polcevera. Le zucche candidate ai premi sono state portate a Murta dal 31 ottobre al 5 novembre, sono state catalogate, bollinate ed esposte nei giorni di apertura della mostra per essere votate. Il taglio del nastro è stato fatto del fumettista e illustratore Enzo Marciante all’inaugurazione della mostra alle 10.30 del 6 novembre 2021.

Luca Barberis Giuseppe Tarantino Isabella Nevoso Monica Gotta

Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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ZUCCHE DI MURTA

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Quest’anno sono riprese in presenza le manifestazioni della tradizione come la famosa “Sagra delle Zucche di Murta”. Il nome corretto della manifestazione è

“Dalla A … alla Zucca … tutto sulle Cucurbitacee”. Questo è un appuntamento che si ripete da 56 anni e attira moltissimi visitatori. L’evento racchiude in sé i concorsi delle zucche, gastronomia, eventi e promozione del territorio. Tutto ciò è strettamente connesso ai valori e al patrimonio enogastronomico del territorio genovese – della Val Polcevera in particolare. Durante la manifestazione si possono gustare diversi piatti legati alle origini culinarie liguri.

Murta Genova

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ZUCCHE DI MURTA

Isabella NevosoPhotography L’evento è stato attivo per due fine settimana di seguito, il 6 e 7 novembre 2021 e il 13 e 14 novembre 2021. L’ultima domenica, alle 18, è stata premiata la zucca più strana, quella più bella, i lavori scolastici più interessanti e le migliori vetrine allestite con composizioni di zucche nei negozi della Val Polcevera aderenti all'iniziativa "Vetrine in festa". Due fine settimana dedicati alle cucurbitacee a 360 gradi! Tema del 2021 è stato “Murta: È tornato il <tempo> della zucca con un viaggio tra ombre, lancette, pendoli e ritmi”. All’ingresso la nuova meridiana ha accolto i visitatori di questa edizione e resterà a testimonianza di questa importante manifestazione, la prima in presenza dopo l’emergenza Covid-19 e scandirà il tempo per il futuro.

In automobile occorre uscire all’uscita autostradale di Genova – Bolzaneto (A7 Genova-Serravalle), si attraversa Pontedecimo e si imbocca lo svincolo che conduce direttamente alla frazione di Murta sulle pendici del torrente Polcevera. Da sapere che durante lo svolgimento della mostra della zucca l’accesso alle auto è interdetto e si può raggiungere Murta esclusivamente con il bus dedicato.

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MURTA Se non avete mai udito parlare di Murta è bene sapere che è una frazione del Comune di Genova in zona Bolzaneto immerso nel verde, e nonostante la vicinanza alla città, è una piccola realtà alle porte di Genova, situata al centro della Val Polcevera: un tempo numerose famiglie genovesi benestanti avevano qui a Murta le loro residenze estive di campagna.

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ZUCCHE DI MURTA

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e il motivo per il quale Murta è soprannominata il “Paese delle Zucche”. C'è chi dice che questa fama sia originata non tanto da una particolare predisposizione del terreno alla coltivazione delle zucche, quanto al carattere, per così dire, deciso e tenace dei suoi abitanti.

Murta è nota anche per il suo splendido roseto che si sviluppa nella suggestiva cornice dell’ottocentesco cimitero che con le sue sepolture antiche è un gioiello dell’arte funeraria e del patrimonio architettonico della Val Polcevera. Ma veniamo al motivo per il quale qui si svolge la mostra della zucca

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ZUCCHE DI MURTA

Isabella Nevoso Photography

Tutti noi conosciamo le zucche e sicuramente le colleghiamo alla festa di Halloween dove fanno la parte di quelle che intimoriscono i bambini con le loro facce stranamente intagliate. Quando si parla di zucche l’immaginario collettivo rimanda immediatamente alla festa di Halloween, dove le zucche finemente intagliate sembrano mostri pronti a spaventare grandi e piccini richiamando la leggenda di Jack O’Lantern. A Murta, invece, si possono vedere esemplari strani e particolari, anche quelli da record tra cui la zucca più lunga – in un’edizione passata la più lunga misurava 3 metri e 11 cm ancor oggi visibile nei locali della mostra, quella più grande e quella più strana. Quest’anno la più lunga misurava 2 metri e 88 cm!

Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

Come in ogni edizione sono state premiate la zucca più grossa, la più lunga, la più strana e, ovviamente, la più bella. Le ultime due saranno premiate in base alla votazione dei visitatori. La zucca più bella è una lagenaria "a bottiglia" (n° 36) presentata dalla Signorina Ficarra Margherita di Murta. La zucca più strana è una tipo pasticcina di colore giallo avorio a sella piana (n° 29), presentata dal Signor Ghirelli Bruno di Genova. (la zucca a forma di stella) Una menzione speciale è stata assegnata al Sig. Menzio Alessandro di Andezeno (TO) per aver presentato una zucca castagna a forma di ghianda.


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ZUCCHE DI MURTA

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Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

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Luca Barberis Photography

Nell’atmosfera accogliente di Murta la mostra si presenta con allestimenti finemente curati nella cornice del bosco che la avvolge con la bellezza dei colori dell’autunno, gli stessi colori delle protagoniste di questi due fine settimana: le zucche. Quando si arriva a Murta si trovano diversi stand gastronomici allestiti con piatti realizzati a base di zucca ed è anche possibile degustare il vino novello bianco Valpolcevera. Tra questi piatti ci sono le famose frittelle di zucca, salate e dolci a seconda di come si preferiscono. Dopo l’assaggio possiamo dire essere divine! Da gustare anche le torte dolci e salate, tortelli, gustose marmellate e zuppe.

È l'occasione per assaggiare piatti dell'antica tradizione ligure e ricette a base di zucca, il tutto accompagnato dal vino bianco novello. Altro posto dove poter pranzare con gusto è la Società Operaia Cattolica San Martino di Murta che, attraverso la disponibilità di volontari, ha preparato uno spazio ampio per i visitatori. Tra i piatti forti, oltre ai tortelli di zucca, è stata fatta la polenta a mano e l’asado. Insomma la piccola frazione genovese si trasforma in una mostra eno-gastronomica a cielo aperto!

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ZUCCHE DI MURTA

Giuseppe Tarantino Photography All’interno dell’edificio che ospita la mostra invece si possono acquistare marmellata e confettura di zucca profumate alla cannella o allo zenzero nonché delle splendide crostate condite con questa meravigliosa marmellata. Non mancano le torte salate fatte con la polpa di zucca e altri ingredienti segreti! Tutte delle vere prelibatezze a base di questo frutto, povero di calorie (18 kcal per 100 gr) ma molto nutriente, ricco di vitamine e di proprietà benefiche. Presso gli stand si può trovare il Ricettario di Murta all’interno del quale si trovano diverse ricette a base di zucca. Una di questa è la Torta di Zucca alla Murtese. Da visitare è anche la splendida Chiesa di San Martino di Murta. In stile barocco, presenta un’unica navata con 6 altari laterali dedicati a santi. Nel 1947 in una nicchia alla sinistra della navata è stata collocata una statua della Madonna della Guardia. A Murta vi è una particolare devozione, trovandosi il paese a poca distanza dal santuario a lei dedicato. Durante la mostra della zucca gli altari vengono decorati con composizioni realizzate con fiori, frutta e naturalmente zucche.

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Giuseppe Tarantino Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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ZUCCHE DI MURTA

www.murtaezucche.it

Cenni storici: Le origini della coltivazione della zucca sono incerte. La testimonianza più antica proviene dal Messico, dove sono stati trovati semi di zucca risalenti al 7.000 / 6.000 a.C. Questo ortaggio raggiunse l'Italia in tempi antichi e, sin da subito, trovò nel nostro Paese un ambiente di crescita ideale, tanto che già i romani ne esaltavano le qualità. Adattandosi facilmente a qualsiasi habitat, in Italia ha trovato un clima fertile per crescere. Alcune delle proprietà più interessanti della zucca sono le seguenti. Intanto questo frutto polposo e arancione aiuta a ridurre il colesterolo, protegge cuore e arterie ed è ricco di antiossidanti. Oltre alla vitamina A, la zucca contiene anche le vitamine B1, C ed E insieme al betacarotene, ai folati e molti minerali tra cui calcio, fosforo sodio e potassio. Pertanto favorisce la salute della vista, della pelle e il potenziamento del sistema immunitario che, in questo momento di pandemia, sicuramente può servire a tutti noi. Ma non finiscono qui le sorprese nascoste all’interno di una zucca! Le particolarità della zucca non sono poche. La zucca è un frutto che si presta a mille ricette: si consuma cucinata al forno, al vapore, nel risotto o nelle minestre, fritta nella pastella, alcune si conservano tagliate a fette ed essiccate. Particolarmente famosi sono i tortelli alla mantovana, ripieni appunto dell'omonima varietà di zucca. Di questo ortaggio non si butta niente.

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Si può cuocere ed essiccare la buccia per farne una polvere, i semi si possono abbrustolire e utilizzare in cucina nella preparazione di piatti oppure sgranocchiarli come snack calma fame. Sapete quante varietà di zucca esistono? Tra le commestibili si possono annoverare circa 30 varietà di zucca. Le più conosciute sono la zucca mantovana, la zucca Trombetta di Albenga, la zucca Delica, la zucca Berretta di Piacenza, la zucca Marina di Chioggia, la zucca Lunga di Napoli, la zucca Butternut, la zucca Violina, la zucca Moscata di Provenza, la zucca di Hokkaido, la zucca americana, la zucca blu d’Ungheria e tante altre. Ognuna di esse ha forma, dimensioni, peso e colore diverso. La buccia può essere liscia o rugosa, la polpa può essere più o meno consistente. Sapete come sceglierla? Date dei piccoli colpetti sulla sua scorza e preferite quelle che producono un rumore sordo. I colori delle zucche vanno dal verde scuro a quello più chiaro, dal giallo all’arancione, possono essere anche striate. Gusto e profumo sono tipici della varietà di appartenenza e questo rende ciascuna varietà di zucca più adatta a certe ricette e piatti particolari. Si potrebbe parlare per giorni delle nostre zucche! Scopritele portandole nella vostra cucina e nei vostri piatti autunnali e invernali. Al prossimo anno con la prossima Mostra delle Zucche!


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MURTA Il Roseto di Murta è racchiuso nella cornice del Cimitero Monumentale di Murta, un piccolo gioiello di arte funeraria e patrimonio architettonico nascosto nella Val Polcevera. Fu edificato nel 1835 per ottemperare alle nuove disposizioni del Regno di Sardegna in merito alle sepolture. Il cimitero è stato dichiarato luogo di interesse dalla Soprintendenza per i Beni Storici e Paesaggistici della Liguria nel 2013. Il progetto di recupero del Cimitero di Murta e l’impianto delle rose nasce dal lavoro del Comitato Culturale Quellicheatrastacistannobene. Oltre al recupero del cimitero il comitato si impegna per valorizzare sia il territorio di Trasta e Murta sia il patrimonio storico e paesaggistico della zona.

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Luca Barberis Photography Il cimitero, che è stato in uso fino agli anni Trenta del Novecento è poi andato in disuso all’apertura del Cimitero della Biacca di Bolzaneto. C'è stata una lunga fase di abbandono pur essendoci ancora alcune sepolture di famiglia che sono in realtà ancora attive. Questa fase di abbandono ha consentito da un lato la conservazione delle sepolture più antiche, dall'Ottocento ai primi anni del Novecento, ma ha anche consentito lo sviluppo della vegetazione. Quando, nel 2019, i volontari hanno preso in carico il cimitero, questi hanno trovato tutta la porzione dietro la croce celtica coperta di vegetazione e di rovi. Tuttavia si intravedeva ancora qualche spiraglio di bellezza e, anche in questa situazione di abbandono totale, restava comunque un luogo estremamente affascinante.

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Infatti vi sono stati sepolti personaggi di importanza storica come ad esempio la sorella di Giuseppe Mazzini, Maria Antonietta Masuccone Mazzini. Una delle cose singolari del cimitero è la presenza di molti elementi floreali sulle sepolture, tra cui incisioni e bassorilievi. È venuto alla luce che la presenza dei fiori nel giardino è sempre stata molto importante. La decisione di adornare questo luogo con le rose è riconducibile al desiderio di valorizzarlo mantenendo vive le antiche caratteristiche anche attraverso la cura stessa delle rose e del cimitero.


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ZUCCHE DI MURTA

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Un’altra caratteristica del cimitero sono i lumini in stile Liberty, in ferro con vetrino rosso, ancora presenti su alcune tombe anche se molti sono stati vandalizzati o rubati. Lo stile preponderante del cimitero è il Liberty. Infatti, su molte sepolture si vedono cornici di fiori ed edera, simbolo di eternità. L’edera per i Celti era simbolo di immortalità e, altra particolarità di questo luogo, è la presenza di una croce celtica. Essendo simbolo di un culto pagano viene da chiedersi il motivo per cui appare in un luogo cristiano. Un mistero da risolvere!

Visitando il piccolo cimitero si notano ancora le foto sulle sepolture. Anche se molte sono sbiadite alcune invece sono ancora visibili e perfettamente conservate, come quella di Osvaldo, un bimbo piccolo e sorridente che accoglie i visitatori di questo luogo, riscoperto dietro un intrico di vegetazione. I volontari hanno anche recuperato parte degli epitaffi presenti sulle tombe. Sono dediche o poesie che nell’Ottocento i familiari scrivevano come saluto ai loro cari. Questa collezione di poesie rinate è un ulteriore patrimonio da preservare.

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L’attuale bellezza del cimitero, oltre all’arte e alla storia, è dovuta alle rose cinesi. Sono rose particolari appartenenti alla sezione chinensis. Presentano rami lunghi e rossi con un bocciolo molto allungato. Sono rose che devono essere potate poco e sono molto resistenti, sempre in fiore in tutte le condizioni di clima e questa è la loro peculiarità più evidente. Le rose che si trovano nella sezione di sinistra appena entrati sono le prime arrivate dalla Cina insieme ai vascelli della Compagnia delle Indie. Questa classe di rose è molto importante per la storia delle rose perché hanno portato la rifiorenza - prima le rose erano

Esiste anche una rosa verde, si chiama rosa viridiflora. La particolarità è la sua infiorescenza verde che intensifica il colore verso la maturità e tende a diventare più rossiccia. Altre rose hanno la caratteristica di intensificare il colore dei petali quando il fiore matura, quindi i petali esterni che si sono aperti per primi sono di colore più scuro e intenso rispetto a quelli più interni. I colori sfumano dal rosa al bianco. Altre rose vivono nelle foreste e se ne vede un esempio anche qui, una pianta di grandi dimensioni. La rosa mutabilis invece presenta dei boccioli molti piccoli che nascono gialli, poi passano all’arancione e con la maturità diventano rosa. Da qui il loro nome e è conosciuta anche come Rosa delle Farfalle.

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soltanto le rose di maggio - hanno portato la varietà di colori come il giallo e il rosso intenso e hanno portato profumi particolari come il profumo di tè. Una delle classi delle chinensis sono le rose tè ossia le rose dell’Ottocento, ricche di petali e di profumo proprio per via dell’aroma di tè. Queste discendono da ibridi provenienti dai giardini Cinesi, introdotti in Europa agli inizi del XIX secolo. Il loro fascino è dovuto alla delicatezza e ricchezza dei colori, sfumati e sensuali, infinitamente variabili a seconda dell’esposizione, del tipo di terreno e delle condizioni climatiche.

Non si fermano qui gli esemplari unici che crescono a Murta. Per maggiori informazioni sul roseto e le rose presenti in questo giardino eterno potete visitare il sito: www.rosetodimurta.it Attraverso il recupero del cimitero e la conservazione del roseto si intende valorizzare la storia e creare anche il futuro della valle attraverso il rinnovamento e la riqualificazione della Val Polcevera con il suo patrimonio. In primavera si auspica di poter inaugurare la Via delle Rose, un percorso pedonale e circolare che da Trasta si snoderà nella valle arrivando a Murta per poi tornare al punto di partenza. Ringraziamo per averci raccontato questa storia unica e per il lavoro che viene svolto per salvare la storia della nostra città.

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CHIESA DI SAN FIORENZO

Storie di santi e dannati

A cura di Lorena Durante e Barbara Tonin

Barbara Tonin Lorena Durante Samuele Silva

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CHIESA DI SAN FIORENZO

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Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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CHIESA DI SAN FIORENZO

A volte i gioielli più preziosi li troviamo per caso, in posti dove non avresti mai pensato di cercare. Non solo le grandi città d’arte possono offrire tesori inestimabili e opere degne di essere ricordate e valorizzate. È il caso della piccola Chiesa di San Fiorenzo.

Ubicata accanto al cimitero di Bastia, poco lontano da Mondovì, nelle basse langhe del cuneese, un tempo era una semplice cappella e segnava uno dei crocevia delle strade romane: la via romana detta Sonia, tra Vado e Bene Vagienna, e la via dell’alta langa verso Alba Pompeia, l’odierna Alba. Era consuetudine, infatti, collocare chiesette, edicole e cappelle nelle biforcazioni, negli incroci e nei lunghi tratti, per aiutare il viandante nella scelta del percorso corretto e per dargli ristoro.

Nei secoli è stata tramandata la credenza che la chiesa fosse stata costruita sul tumulo che conteneva le spoglie di Fiorenzo. Questi era un ufficiale della Legione Tebea, vittima della persecuzione perpetrata da Diocleziano. Risalente agli inizi dell’anno 1000, nei secoli la chiesa ha subito diversi rimaneggiamenti, tra cui un ampliamento per accogliere i sempre più numerosi fedeli, la costruzione di un portico successivamente rimosso, il campanile e soprattutto i magnifici affreschi.

La scelta di edificare San Fiorenzo in questo luogo, però, è legata anche al culto popolare.

Mondovì Barbara Tonin Photography

Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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CHIESA DI SAN FIORENZO

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San Fiorenzo è a pianta rettangolare. L’area presbiteriale è stata edificata in un tempo successivo alla sua realizzazione e crea discontinuità tra i due ambienti: un arco trionfale, infatti, divide il presbiterio dalla navata riservata ai fedeli. La facciata frontale esterna è decorata con un rosone e una lunetta affrescata, che rappresenta la Madonna col Bambino assieme a San Fiorenzo e San Giovanni Battista. Sulla parete laterale destra, sempre all’esterno, si trovano San Cristoforo, di nuovo la Madonna col Bambino e l’Annunciazione. La copertura della chiesa è architravata. L’illuminazione è data, oltre dal rosone, da piccole finestre poste in alto sulle pareti laterali (alcune di queste sono state murate nel tempo) e nel presbiterio. L’antico ingresso posto sulla parete destra è tutt’ora utilizzato.

Barbara Tonin Photography

Samuele Silva Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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CHIESA DI SAN FIORENZO

Varcato il portale d’ingresso, il visitatore viene sicuramente colpito, al primo sguardo, dalla vivacità dei colori e dalla varietà dei personaggi degli affreschi. Ogni singolo centimetro delle pareti perimetrali e del presbiterio ne è ricoperto con scene della storia di Gesù e dei Santi, risalenti al XIV secolo. Andiamo a vederle più nel dettaglio. Come già accennato, un arco introduce all’area presbiteriale con un affresco dedicato nuovamente all’Annunciazione: Maria, benedetta da una colomba mentre approfondisce i testi sacri nel suo studiolo (sopra a destra), e l’Arcangelo Gabriele in alto a sinistra. A divulgare il messaggio evangelico, troviamo sui piedritti frontali dell’arco San Domenico (a sinistra) con il giglio della purezza e San Francesco che ostenta le stimmate (a destra). Completano la decorazione i Santi che, in quell’epoca, davano maggior conforto ai fedeli: Giovanni Battista che proclama il riconoscimento di Cristo, Lorenzo che aveva rinunciato ai suoi averi per aiutare i bisognosi, Caterina di Alessandria a cui si rivolgono balie e nutrici, Margherita di Antiochia ausilio per le partorienti e invocata contro l’infertilità e altri, quali San Girolamo e Antonio Abate. Proseguendo all’interno del presbiterio, viene riproposta l’iconografia canonica: sulle vele della volta il Cristo che benedice i fedeli e gli apostoli Matteo, Marco, Luca e Giovanni che scrivono i Vangeli. La parete di fondo (vela del Redentore) racconta la Crocefissione, in basso mostra il martirio di Sebastiano (a sinistra), la Madonna col bambino tra Fiorenzo e Martino (Patrono di Bastia) e San Michele Arcangelo (a destra) che pesa le anime assieme a Bartolomeo. Samuele Silva Photography

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Da notare, in basso tra Martino e Michele Arcangelo, un prelato con un bambino che conduce un animale e, sotto Sebastiano, altre tracce di affreschi di periodi precedenti, su cui rimangono molti quesiti irrisolti. Sopra la Crocefissione, l’Altissimo con le Sacre Scritture attorniato dagli Angeli. Seguendo invece i bordi delle vele, troviamo due coppie di tondi che si suppone raffigurino i volti della famiglia dei Della Torre, Signori di Mondovì e committenti dell’opera. Altri due tondi, invece, raffigurano due volti caricaturali e popolareschi (forse qualcuno impegnato nell’opera?). Nella vela sulla destra Giorgio uccide il Drago e coppie di Serafini fungono da custodi.

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Gli affreschi tra l’arco trionfale e la porta laterale d’ingresso raccontano le “Storie di Fiorenzo”. Ma chi era in origine Fiorenzo? Purtroppo non ci sono fonti certe sulla figura del Santo, ma diverse ipotesi. Quella più diffusa tra la critica agiografica ritiene che questi appartenesse alla Legione Tebea e fosse sfuggito alle varie persecuzioni messe in atto su ordine dell'imperatore Massimiano. Scampato al massacro di Agauno in Svizzera, fu inseguito e martirizzato in territorio monregalese. Altra ipotesi su Fiorenzo è che fosse vittima dei Saraceni tra l’XI e il XII secolo e che avesse liberato il contado dalla peste, raffigurata simbolicamente con le serpi. Un’analisi più recente delle fonti agiografiche, tuttavia, ritiene che la rappresentazione bastiese della vita di San Fiorenzo sia, in realtà, la combinazione delle vicende di due individui differenti ma omonimi. Le “Storie di Fiorenzo” sono raccontate in nove riquadri. Partendo dall’alto a sinistra troviamo di nuovo la Madonna col Bambino tra Sebastiano (a sinistra) e Fiorenzo (a destra), che benedice un fedele inginocchiato. Questo riquadro può essere considerato sia il prologo che l’epilogo del ciclo e il personaggio in bianco potrebbe rappresentare la confraternita bastiese di S. Sebastiano, patrocinatrice dell’opera. A fianco, Fiorenzo rinuncia all’attività militare e, nel terzo riquadro, predica nelle campagne. Nei pannelli intermedi, Fiorenzo è chiamato a giudizio, bastonato e decapitato. Nel registro più in basso, infine, Fiorenzo viene invocato nella sua sepoltura, nel quadro centrale vediamo l’invasione dei mostri nel contado e nel terzo l’invocazione del Santo e la liberazione dal flagello.

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Samuele Silva Photography Continuando sulla parete della navata destra della chiesa, salta sicuramente all’occhio il riquadro che più si distingue: la beatitudine del Paradiso nella Gerusalemme celeste e l’orrore dell’Inferno. Significativo anche per le dimensioni rispetto ad altri affreschi analoghi presenti nel territorio circonstante, l’opera contrappone le due condizioni di vita ultraterrena sia come contenuti sia con l’ausilio dei colori: l’incoronazione della Vergine tra Angeli, Santi, Beati, Martiri, canti e preghiere, dove spiccano il rosso e il giallo, contrapposto a scene di tortura e morte perpetrate da mostri infernali, dipinti con colori più cupi quali il verde, il marrone e il grigio. Da notare i due regni divisi dalle mura di Gerusalemme e la presenza di cartigli e scritte col chiaro intento di imprimere il messaggio in modo chiaro e immediato ai fedeli bastiesi. Il riquadro, a differenza di tutti gli altri, va letto dal basso all’alto. La fascia pittorica più in basso è la premessa: il rispetto delle Sette Opere Misericordiose (fare elemosina, sfamare gli affamati, dissetare gli assetati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati, curare gli infermi e seppellire i morti sono i precetti del Cristo, raffigurato come un crociato) condurrà i fedeli al cospetto dell’Angelo guardiano, che li accompagnerà in Paradiso. Oppure, seguire i Sette Vizi Capitali (Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira e Accidia) condurrà alla porta dell’Inferno, raffigurata dal Leviatano.

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I Sette Vizi Capitali sono rappresentati come dannati che cavalcano animali. La raffigurazione dei Vizi come commistione di esseri umani e bestie si rifà alla tradizione medioevale. Tale pratica è conosciuta come “Gotico delle Alpi”, è ampiamente diffusa nel territorio circostante e in tutto l’arco alpino. La schiavitù ai vizi è rappresentata dalla catena che i dannati portano al collo e che li lega l’un l’altro indissolubilmente, negando definitivamente la libertà. Il senso di marcia tende ad allontanare le anime dalla porta del Paradiso e conduce dritto in bocca al feroce Leviatano, ingresso dell’Inferno. La sequenza comunemente conosciuta dei vizi deve essere letta da destra a sinistra, ovvero in ordine di arrivo al mostro: la Superbia rappresentata da un re con la spada su un leone, che guida la processione; l’Avarizia è una vecchia su un levriero, scheletrica con abiti laceri con una borsa piena di monete; la segue la Lussuria dipinta come una donna su un caprone, che alza di proposito la veste per far mostra della gamba e che si contempla su uno specchio; al centro l’Invidia raffigurata come una dama ben vestita su una scimmia, animale notoriamente propenso a imitare gli altri; segue la Gola illustrata come un giovane su una volpe, che porta uno spiedo e beve da un’anfora; l’Ira, forse il più drammatico, è un uomo su un orso (animale che insidia le greggi e facilmente irritabile) che si accoltella alla gola; per ultimo l’Accidia riprodotta come un uomo accasciato su un asino, stolto, ottuso, debole.

Sopra la cavalcata dei vizi e accanto al giubilante Paradiso, Satana, al centro della scena, si mostra in tutta la sua ferocia e crudeltà a divorare anime con le sue molteplici bocche. È seduto su due dannati con la testa appoggiata su dei libri, che simbolizzano i giudici che hanno tradito la legge. Le zampe, invece, sono appoggiate su un peccatore che rappresenta gli avvocati, condannati per superbia. Tradimento e superbia sono anche i peccati di Lucifero, motivo per cui tali figure vengono dipinte assieme alla Bestia. Alla destra di Satana sono illustrati i supplizi imposti agli altri vizi: il taglio della mano per gli iracondi, lo strappo della lingua per i maldicenti (invidia) e l’ingozzamento con oro fuso per gli avari e gli usurai. L’ultima scena purtroppo non è leggibile. Sopra questi, un goloso viene infilzato col suo stesso spiedo. Tutti i dannati sono accasciati su una pira e legati per mezzo di serpi. Alla destra del goloso un demone porta sulle spalle un domenicano, per ricordare che il peccato aleggia anche tra il clero, mentre alla sua sinistra l’albero degli impiccati mostra i dannati appesi per la parte del corpo che ha peccato, secondo un’iconografia del Purgatorio di San Patrizio.

Accanto al Leviatano, un demone con un flauto e col tamburo scandisce forse il tempo di marcia oppure con la sua lugubre musica predice la condizione di vita a cui stanno andando incontro, come un banditore prima di una incursione in un villaggio.

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Barbara Tonin Photography Dalla parte opposta a questi, accanto alla torre, una meretrice viene cavalcata e fustigata da due demoni, un diavolo nero ghigna vedendo arrivare una gerla piena di anime portate da un mostro demoniaco e un sodomita bastonato viene trafitto da una serpe che gli esce dalla bocca. A sinistra di Lucifero una ruota cala e pesca da un forno i peccatori; più sotto, due demoni torturano con una forca e un ronciglio un gruppo di dannati sulle fiamme e, a destra di questi, un altro diavolo fa scontrare le teste di due peccatori, volendo simboleggiare la testardaggine e i seminatori di discordie, tipici dei partigiani delle fazioni opposte (si vedano gli stemmi del giglio francese e dell’aquila milanese sopra le schiene, a evocare i tumulti avvenuti in quel periodo in Piemonte).

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Il ciclo di affreschi continua sulla stessa parete proponendo nuovamente una contrapposizione: la vita di un Santo, che ha basato la sua esistenza sulla fede e sulla negazione delle tentazioni. Barba folta bianca, mantello scuro col simbolo del tau, così come il bastone con una croce a forma di tau con una campanella, accanto ai piedi un porcellino e un fuoco guizzante: è questa l’iconografia con cui viene raffigurato Sant’Antonio Abate. Nei 326 metri quadrati di affreschi trova spazio anche una parte dedicata a questo popolare Santo. Sant’Antonio Abate nell’ambiente rurale era strettamente legato alle epidemie e in particolare al Ignis sacer, o Herpes zoster, che ancora oggi conosciamo come “fuoco di Sant’Antonio”. Nel periodo di massima diffusione di questa epidemia, la devozione per lui in Europa era davvero profonda e per questo lo troviamo raffigurato in tantissime chiese perché considerato capace di alleviare sofferenze e tormenti. Per questo motivo viene spesso raffigurato con un maialino perché dal grasso di questo animale si ricavavano degli emollienti per lenire le piaghe. Il ciclo più grande di affreschi dedicati a Sant’Antonio è in Francia a Clans, ma per quanto riguarda l’Italia, a Bastia Mondovì troviamo il ciclo più esteso con ben 12 grandi quadri su quattro registri alla fine della navata di destra. Il dipanarsi delle storie racconta gli eventi della vita cenobitica del Santo, tralasciando i primi vent’anni di vita ascetica. La lettura inizia dal più alto registro, da sinistra verso destra, raccontando gli episodi principali dell’esistenza del Santo dal periodo del deserto fino all’ultimo riquadro che rappresenta le esequie del Santo: Antonio si avvia verso il deserto, esorcizza un idolo, oltrepassa un fiume infestato dai coccodrilli, assiste alla costruzione del convento e sogna le persecuzioni ariane; incontra il fauno che gli mostra la via, incontra e abbraccia Paolo eremita, spartisce con Paolo il pane portato da un corvo, seppellisce Paolo, si difende dalla tentazione della carne, affronta l’assalto dei demoni, subisce le percosse dei demoni.

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L’ultimo riquadro con le esequie di Sant’Antonio, reca la testimonianza della committenza datata 1472 con il nome del committente Bonifacio Turrino (della Torre). Questa testimonianza, visto che è stata posta nell’ultimo intervento pittorico della chiesa, sta probabilmente ad indicare che questa committenza vale per tutto il complesso pittorico di san Fiorenzo. Qualche dubbio però rimane se si pensa che anche nella scena iniziale delle Storie di San Fiorenzo era stata segnalata la presenza di un offerente, nonché tra i volti dei tondi del presbiterio. Sulla parete della facciata di fondo sono affrescate le storie della Vergine e dell’Infanzia di Gesù. Purtroppo la parte alta e quella bassa della decorazione hanno patito i danni dell’umidità ma il ciclo di affreschi risulta ancora abbastanza integro. Le scene si presentano riquadrate su due registri e rappresentano episodi tratti dal protovangelo di Giacomo e dai Vangeli apocrifi: sopra, la preghiera al tempio, il fidanzamento di Maria, la natività di Gesù e l’adorazione dei Magi; sotto, la strage degli Innocenti, una dama incoronata, il miracolo del grano, Lazzaro dei lebbrosi e il miracolo della palma. Una meditata osservazione delle scene rappresentate suggerisce alcune riflessioni, la più importante e legata alla storia riguarda la figura femminile ritratta nel riquadro a sinistra del portale, riccamente vestita, con il capo velato reggente una corona. Essa non appartiene alla schiera dei Santi per l’assenza del nimbo. I documenti di archivio riguardanti casa Savoia riportano che il territorio di Bastia era retto dal 1449 dal Marchese Teodoro della famiglia dei Della Torre di Mondovì. Nel 1463 però in seguito a disordini, provocati dal mutamento della politica sabauda, i Della Torre diventano signori del paese vicino Roccacigliè, mentre a Bastia si insedia Giano di Savoia; quindi potrebbe essere che questa figura, i cui vestiti rimandano per associazione di colori ai Savoia, si riferisca a questo periodo di “governo” sul territorio.


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Dalla parete della controfacciata (navata sinistra) fino al presbiterio, trovano collocazione ventidue scene che illustrano le storie della Passione di Cristo, dall’entrata in Gerusalemme alla Resurrezione. Tra questi vengono descritti l’ultima cena, la lavanda dei piedi, Giuda vende Gesù, la preghiera nell’orto degli ulivi, l’arresto di Gesù, Gesù davanti a Caifa, Gesù deriso, Gesù davanti a Erode, la flagellazione e Giuda impiccato. Nel registro inferiore vediamo Gesù coronato di spine, Ecce Homo, Pilato si lava le mani, l’annuncio della condanna a morte, la salita al Calvario, Gesù viene inchiodato alla croce, la crocifissione, la deposizione, la sepoltura, la resurrezione e la discesa al Limbo. Tutti i riquadri sono della medesima dimensione ad eccezione di quello che rappresenta la crocefissione che trova posto in centro con una maggiore estensione. Sopra a questi, una serie di tondi ritrae i Profeti, identificati da dei cartigli. La presenza dei cartigli si riscontra anche nelle scene più articolate e complesse. A differenza del registro più in alto, quello inferiore presenta scene crude e violente. Il sadismo verso Gesù e la rappresentazione delle ferite vengono enfatizzate assumendo una connotazione molto teatrale ed esagerata, tipica della cultura alpina e subalpina, in contrapposizione alla pacatezza e alla consapevolezza di Gesù che alla fine vedrà trionfare la vera Fede e la salvezza. La decorazione si colloca in un momento precedente alla parete di destra ed è stata sovrapposta a precedenti raffigurazioni di cui si ignorano i soggetti ma di cui è rimasta una piccola traccia di una Madonna con bambino sotto la discesa del limbo. I dipinti antecedenti cancellati sembrano rapportabili agli inizi del XV secolo. Lo stato di conservazioni di questo ciclo è discreto, la parte inferiore ha subito i danni dell’umidità dovuti alla posizione della chiesa addossata al terreno e la parte superiore è stata compromessa invece dalla rovinosa caduta del tetto nel 1972 per una nevicata eccezionale.

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Anche i restauri susseguitisi nel tempo hanno portato purtroppo interpolazioni arbitrarie e rifacimenti discutibili. Gli ultimi restauri della chiesa sono terminati nel 1999 e proprio allora è stata costituita l’associazione San Fiorenzo che con i suoi volontari si occupa delle aperture e delle visite guidate. L’attività divulgativa è anche rivolta alle scuole offrendo la possibilità di gite organizzate e in questa splendida cornice l’associazione si occupa di organizzare mostre e concerti ed eventi legati alla cultura e al territorio. In merito alla valorizzazione di quest’ultimo, il presidente dell’associazione San Fiorenzo in collaborazione con la pro loco di Niella Tanaro, un paesino limitrofo, sta portando avanti un progetto di valorizzazione e recupero di altre chiese che, come San Fiorenzo, si trovavano sulla via del sale ed erano un riparo per i pellegrini. Si tratta di ben altre nove chiese che sono disseminate tra le colline e le borgate poste lungo il Tanaro.

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A cura di Laura Rossini

I circa 12 ettari di parco su cui si espande l’Orto Botanico di Roma, ai piedi del Gianicolo, non sono solo luogo di studio e di conservazione di specie vegetali provenienti da tutto il mondo, ma sono un vero e proprio museo a cielo aperto.

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Un’oasi di tranquillità dalla quale rimirare la caotica Urbe che si sviluppa tutta intorno e, soprattutto, un vero e proprio polmone che ci permette di respirare non solo ossigeno, ma anche un po’ di antica “paideia”. E’ così che nell’antica Grecia veniva chiamata, nella sua accezione più ampia, la forma più alta di cultura basata sul sapere e tale da permettere a ciascun individuo di diventare un cittadino in grado di dare il proprio contributo alla società cui apparteneva. Oggi il Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università la Sapienza di Roma, in questa splendida cornice, organizza convegni, manifestazioni, esposizioni per grandi e piccoli. Il fine è lo stesso degli antichi greci anche se oggi si chiama “sviluppo sostenibile” e si realizza con modalità di comunicazione ovviamente più moderne ed accattivanti.

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Si è iniziato con un cenno storico sulle vere origini della pianta del cacao che sono da attribuire alle popolazioni Olmeche originarie del Messico, le quali che utilizzavano il cacao come bevanda energetica già tra il 1.400 e 400 A.C. I Maya, invece, vennero molto dopo e furono i primi a coltivare piantagioni di cacao, per poter accrescere la disponibilità delle fave che venivano usate anche come moneta di scambio con le altre tribù. Nel mese di Ottobre si è svolta la manifestazione Roma Cacao e Caffè. Una tre giorni di convegni, esposizioni e degustazioni. Su vizi e virtù di questi alimenti si sono confrontati alternati docenti, chef e produttori di nicchia. Profumi e colori che hanno scaldato il cuore dei partecipanti. Nella serra Arancera, che un tempo serviva per il ricovero invernale delle piante di agrumi, oggi adibita a centro conferenze si è svolta quella su “Cacao senza rimorsi” a cura di Mauro Serafini, docente ordinario della facoltà di Biologia Farmaceutica coadiuvato dalla dott.ssa Chiara Toniolo che ha parlato della lavorazione della pianta del cacao.

Per l’arrivo del cacao in Europa si è dovuto attendere fino al 1519 con il ritorno dal Messico della spedizione di Hernan Cortez. L’imperatore Montezuma, vedendolo arrivare, pensò che fosse la reincarnazione del Dio Quetzalcoàtl così come previsto nella profezia. Versò allora nelle coppe di Cortes il famoso “cibo degli Dei” che consisteva in una bevanda a base di cacao, farina di mais e spezie dal gusto non particolarmente apprezzabile. Cortes, però diversamente da Colombo, né intuì il potenziale e al suo ritorno in patria chiese ai monaci spagnoli di modificare la ricetta messicana per renderla più gradevole al palato e così fu. Bastò sostituire le spezie con un po' di zucchero.

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L’uso della cioccolata allo stato solido così come lo conosciamo, in forma di barretta, si diffuse solo dopo l’invenzione da parte dell’olandese Van Houten nel 1825 della pressa per il cacao che permise la separazione delle fave (parte solida) dal burro (parte grassa). Da quel momento in poi si sono susseguite invenzioni e modifiche alla ricetta originaria per mano dei più grandi maestri cioccolatieri che ancora oggi continuano a creare vere e proprie opere d’arte per il nostro palato. Oggi però ci troviamo davanti ad un bivio, da una parte uno dei più grandi vizi capitali, la gola e dall’altro la nostra salute e quella del pianeta.

In questo il professor Serafini ci conforta facendoci un elenco di tutte le fake news sul cacao in circolazione e ribadendo che è consigliabile l’assunzione giornaliera da uno a tre cubetti (10-20 gr) di cioccolata amara con concentrazione di cacao oltre il 70%, soprattutto a colazione insieme a frutta semi e cereali. Con qualche piccola accortezza, nelle quantità e nelle modalità di somministrazione, ad esempio, mai dopo i pasti e mai insieme al latte che sembra inibisca l’assorbimento dei flavonoidi nell’intestino. Solo alcune persone con determinate patologie sono fortemente limitate nell’utilizzo, per il resto:

Cacao e cuore

può ridurre l’incidenza di ictus ed infarto e contrastare il colesterolo “ cattivo” LDL; favorisce l’abbassamento della pressione ed ha una azione protettiva dei vasi sanguigni.

Cacao e memoria

l’utilizzo del cacao ha effetti benefici su memoria e funzioni cognitive.

Cacao e denti

i tannini, floruri e fosfati presenti sulla superficie della fava di cacao sembra svolgano un ruolo importante nella difesa dello smalto e nella protezione da carie e placca. In questo caso sarebbe deleterio l’utilizzo dello zucchero per cui la concentrazione di cacao sale all’80% per essere efficace.

Cacao e pelle

stanno aumentando gli studi che confermano l’azione protettiva di alcuni componenti del cacao.

Cacao e umore

gratificazione del palato, sensazione di benessere, svolgono un ruolo importane stimolati dalla seratonina. Il magnesio e le sostanze eccitanti come le ammine aiutano la concentrazione ed alleviano la stanchezza.

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Mangiamo Cacao, quello buono, poco, salvaguardiamo la nostra salute. Riducendo il consumo, migliorando la qualità, si potrà anche dare una mano alle piantagioni che oggi risentono del cambiamento climatico e dell’eccessivo sfruttamento da parte dell’uomo. Non dimentichiamoci infatti che l’innalzamento della temperatura sta danneggiando le coltivazioni che hanno assoluto bisogno di un clima tropicale. Come ha spiegato la Dott.ssa Toniolo, si possono eseguire esperimenti in box per controllare come cambiano le sostanze nutritive durante la procedura di essicazione e studiare i migliori processi da applicare in produzione per una qualità migliore, ma non si potrà mai sostituire il processo naturale di maturazione della pianta se non nel proprio habitat, per cui è necessario salvaguardarlo.

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con il professore con domande e curiosità, rendendo questa esperienza più ricca di quanto già non fosse. Subito fuori dalla sala convegni sono stati allestiti degli stand di singoli produttori ognuno con la propria storia particolare e degna di nota, che in pochi passi, ha permesso di viaggiare in tutto il mondo. C’è stata anche una dimostrazione: una bambina ha mostrato come si possono ridurre in polvere le fave di cacao con gli utensili artigianali. Il profumo del cacao amaro ha pervaso l’ambiente, creando una piacevole sinestesia che ha coinvolto gusto e olfatto.

All’insegna dell’inclusione è stata preziosa l’interprete LIS (lingua dei segni) che ha tradotto per i presenti non udenti tutto l’intervento permettendo ai partecipanti di interagire

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Le barrette tutte con concentrazione altissima di cacao dal 60% in su sono prodotte in Nicaragua con tostatura a basse temperature e filiera a KM 0. I colori delle confezioni e la grafica della Fabrica de Chocolate MOMOTOMBO richiamano i luoghi lontani delle piantagioni. Un grafico molto semplice e chiari ripercorre le fasi della lavorazione. Poco più in là invece il vero peccato di gola, una pasticceria francese a Roma. Le Levain nata dalla passione dello chef Giuseppe Solfrizzi per i dolci d’oltralpe. Alla base sempre la grande qualità dei prodotti, la cura per le lavorazioni ed il gusto del bello. Un angolo di Parigi a Trastevere tanto per sognare ripensando al film “Chocolat”.

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Nello stesso stand è stato possibile conoscere Emanuele Bernabei che ci catapulta al di là dell’Oceano in Brasile con una aroma intenso di caffè. Ha messo la sua vita al servizio della sua passione con tanto coraggio, un po’ d’incoscienza data dalla sua giovane età e tanta risolutezza. Come dice lui, da tecnico ed analista di processi informatici a torrefattore. Del suo racconto ci ha colpito che da Italiano avrebbe voluto insegnare ai brasiliani a fare il caffè, ma solo dopo anni passati a studiare questa materia ha capito che forse a noi sfugge qualcosa.

Per te cos’è l’aroma di caffè ? ti sto parlando mentre tosto dei campioncini di caffè, che domani assaggerò. Quale momento migliore per descrivere l'aroma? Tutto nasce dalla tostatura/cottura, è proprio qui che si creano quegli aromi e sapori che ritroviamo nel nostro caffè, dal macinato alla tazzina. Avete mai fatto i pop corn a casa o cucinato una torta? In tostatura sono proprio questi gli aromi principali, dal pan tostato, pop corn, biscotti. Direi inebriante.

Il rispetto per la materia prima, i profumi ed i rituali di un alimento che ha un anima volubile. Un breve estratto dalla sua intervista:

Raccontaci i tuoi segreti “Elemento principale sicuramente del nostro prodotto è l'acquisto della materia prima, acquistiamo direttamente senza intermediari da due paesi (Brasile e Perù). Con i ragazzi del Perù (the 7 Elements) e Brasile (Cocarive / CQT coffee), con i quali ormai collaboriamo a stretto contatto da circa 3 anni, costruiamo di anno in anno il caffè, scegliendo insieme la tipologia di lavorazione e le quantità da importare. La scelta di materia prima incide un buon 60%-70% sulla tazza finale, per questo assaggiamo tutti i lotti prima di ogni acquisto. Inoltre siamo maniaci anche nella tostatura, dal blend ai lotti più rari non si troveranno caffè bruciati e cotti in maniera eccessiva, proprio per esaltare quello che la materia prima ha da dare.

Raccontaci del “ vero caffè “ il caffè filtro che abbiamo sorseggiato insieme è forse il modo di bere caffè più diffuso al mondo. Noi siamo abituati al gusto intenso ed aggressivo dell'espresso, alcuni invece ancora bevono il caffè nella moka. Il caffè filtro è decisamente l'opposto all'espresso, in tutto e per tutto. La materia prima è la stessa (anche se l'ottimale sarebbe l'utilizzo di un caffè tostato più "chiaro" , ovvero una cottura più delicata per eliminare completamente la parte amara) ma la bevanda che si ottiene è molto diversa: Il caffè filtro non ha crema, è meno corposo dell'espresso. Il caffè filtro non si beve in 20 secondi, ma è un modo di bere caffè più lento, paragonabile ad un tè o ad una tisana. La bevanda è meno intensa ed aggressiva, decisamente delicata e facile da bere anche senza zucchero. Mi sono avvicinato al caffè filtro nel 2012, ora non ne faccio più a meno. Ovviamente non lo consideriamo come il metodo migliore in assoluto, anzi, ogni metodo va rispettato per quello che riesce ad esprimere (dall'espresso alla moka, ibrik, napoletana, filtro, french press etc...) ma ci piace condividere una forma alternativa al nostro modo di bere caffè, spesso troppo frenetico.

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In chiusura, prima di lasciare ci accoglie il continente asiatico. Ci avviciniamo allo stand dove la chef accoglie i partecipanti con un bellissimo sorriso e scorgiamo sul bancone l’inconfondibile forma dei Dorayaki con un packaging di colore bianco-azzurro ed in un attimo siamo catapultati nel fantastico mondo di Doraemon famoso manga Giapponese degli anni 80 (sigla cantata dagli Oliver Onions). Il Gatto spaziale che ne andava matto. Nella tradizione Giapponese questi dolci sono molto amati dai bambini e per loro costituiscono una merenda sana e leggera. La scommessa fatta da Hiromi Cake è quella di portare in Italia la tradizione Giapponese adattandola al gusto nostrano. Ingredienti sani, sapori e profumi della cultura orientale che si fondono con quella occidentale. Abbiamo avuto il piacere di conoscere la chef Mitzuko Takei. Ci ha spiegato che i dolci che produce sono frutto della cura e della passione con la quale si dedica al suo lavoro. Mette il suo cuore in tutto ciò che produce, sposa l’arte del vivere ZEN, perché è importante illuminare la giornata di una persona con un piccolo gesto.

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Rimaniamo affascinati dalla sua semplicità e dolcezza e respiriamo un po’ d’Oriente. Non lontano da noi c’è uno dei luoghi più suggestivi dell’orto botanico: il Giardino Giapponese con i suoi acerci, i giochi d’acqua e laghetti. Un giardino da passeggio sul modello Kaiyu-Shiki Teien realizzato da Nakajima Ken. Qui ritorna il sapere scientifico, la parte più alta della cultura. La passeggiata nei boschi in Giappone è una prescrizione medica raccomandata dal Ministero della Salute sin dagli anni ’80. Di recente oltre alla riduzione dello stress e alla regolarizzazione della pressione sanguigna è stata scoperta una reazione positiva del sistema immunitario. Shinrin-yoku il “bagno nella foresta” ormai è conosciuto ed apprezzato anche in occidente. Non ci resta che lasciarci andare, fare due passi e attendere la prossima mostra a cielo aperto.


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#Luci di Sicilia

A cura di Rita Russo

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In una tiepida giornata dal clima primaverile fuori stagione, come quelle che solo la Sicilia sa regalare, il 19 novembre ha preso il via la decima edizione di Trapaninphoto, dopo una pausa forzata di due anni legata all’evento pandemico a tutti tristemente noto. Questa manifestazione, dedicata interamente al mondo della fotografia, è stata organizzata, come ogni anno, dal

Gruppo Scatto dell’Associazione I Colori della Vita di Trapani, sotto la direzione artistica di Arturo Safina, con il patrocinio della FIAF, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

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Quest’edizione, fortemente voluta anche come segno di ritorno alla normalità dopo l’emergenza pandemica, dal titolo #Luce di Sicilia, ha visto come protagonista principale proprio quest’isola, terra che ha prodotto da sempre grandi talenti in ogni disciplina e nella quale storia e tradizioni si intrecciano ad arte e cultura sullo sfondo di splendide bellezze naturali. Questo tema è stato affrontato, sotto differenti aspetti, attraverso le immagini di fotoamatori e di autorevoli fotografi di fama nazionale ed internazionale, tutti siciliani. Il programma della rassegna si è presentato anche quest’anno denso di eventi - mostre fotografiche, presentazioni di libri, incontri con autori e lettura portfolio - aperti a tutti, che si

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sono svolti in quattro suggestive sedi di particolare pregio artistico, ubicate nel centro storico della città siciliana, inseriti prevalentemente nei due fine settimana compresi tra il 19 e il 28 novembre 2021. Un’occasione imperdibile per gli amanti del mondo della fotografia che ha offerto numerosi spunti di arricchimento culturale e professionale attraverso lo scambio di opinioni con i professionisti del settore, dotati di grande esperienza e sensibilità, presenti durante l’evento.


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Per l’intera durata della manifestazione, in giro per il centro storico trapanese, presso alcuni negozi di vario genere commerciale, sono state esposte le immagini scattate da fotoamatori siciliani che hanno dato vita all’iniziativa denominata Gocce - Foto in città, un vero e proprio evento nell’evento. Una mostra diffusa come mezzo non solo per pubblicizzare la manifestazione, ma anche per stimolare la curiosità di chi non si è mai avvicinato a questo mezzo espressivo dalle mille sfaccettature. Inoltre, in occasione dell’anniversario di TrapaninPhoto è stata realizzata una pubblicazione che, come scrive nella sua prefazione al libro Pippo Pappalardo, fotografo, critico e storico della fotografia, << …intende celebrare dieci anni di “lavoro intorno alla fotografia”. Il verbo celebrare, stavolta, va letto nel senso di ricordare, memorare, rivivere e quindi, non dimenticare. E quando parliamo di “lavoro intorno alla fotografia” ci riferiamo a quell’universo di eventi, di operazioni, di fenomeni che le girano intorno, senza mai dimenticare che, in tutto questo, ci sta un componente determinante ed essenziale che è la passione. …>>

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Numerosi sono stati gli Sponsor e i Media Partners che con il loro supporto hanno consentito sia la perfetta riuscita dell’intera manifestazione sia l’ampia diffusione di questo importante evento, che presenta pochi eguali sull’intero territorio nazionale. La prima giornata di TrapaninPhoto è stata caratterizzata da numerosi appuntamenti che si sono susseguiti a ritmo incalzante a partire dalle 17:30 di venerdì 19 novembre, ora in cui è stata ufficialmente aperta la sua X edizione presso il Complesso Monumentale San Domenico - costituito da una tra le più antiche chiese della città e dall’annesso ex convento con il chiostro con l’inaugurazione di due mostre: quella intitolata “2020: l’Anno del Covid” di Matteo Biatta, unico lavoro non prodotto in Sicilia e l’altra dal titolo “Poggioreale: la città fantasma”, una collettiva realizzata con le fotografie dei soci del Gruppo Scatto ICDV.

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Sebbene il tema conduttore della manifestazione sia stata la Sicilia, era quasi impossibile non trattare un argomento come quello del Covid-19, purtroppo ancora attuale, che, nei primi mesi di diffusione del virus all’inizio del 2020, ci ha visti tutti spettatori di situazioni cui nessuno avrebbe mai immaginato di dover assistere e che hanno funestato, soprattutto, quattro cittadine lombarde, tra cui Brescia. Infatti, gli scatti di Matteo Biatta, fotografo professionista, nato in questa città e specializzato in reportage, documentano in maniera eloquente il clima di emergenza, di paura e di profonda tristezza, vissuto in prima persona, girando fra le strade deserte della sua città e non solo, durante i due mesi di lockdown. Matteo Biatta, che collabora con alcune agenzie di stampa nazionali ed internazionali, non è nuovo a situazioni di forte impatto, avendo documentato, attraverso i suoi reportage fotografici, l’interno di alcuni ospedali africani in Togo e Benin, il dramma delle mine in Bosnia vent’anni dopo la fine della guerra e la situazione post Ebola in Sierra Leone, tre mesi dopo la fine dell’epidemia.

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Tutte situazioni che, grazie alla distanza dei luoghi nelle quali si sono verificate, sono rimaste, per l’autore, distanti e bloccate negli scatti prodotti durante i reportage. Invece, nel caso del Corona Virus che, totalmente sconosciuto, nei primi mesi ha mietuto innumerevoli vittime libero di circolare indisturbato, l’autore ha vissuto questa terribile esperienza a un passo da casa sua, con la costante paura di poter essere coinvolto direttamente o, ancora peggio, di coinvolgere i propri affetti personali a causa del proprio lavoro. Gli scatti, tutti a colori, documentano le situazioni più significative legate al periodo del lockdown, da quelle che mostrano la gestione interna degli ospedali a quelle esterne ad essi, nelle quali i riti religiosi venivano officiati in chiese e moschee completamente vuote, a quelle che ritraggono la consegna del cibo a chi, affetto dal virus in forma lieve, veniva isolato nei cosiddetti Covid Hotel, strutture alberghiere prestate alla comunità e trasformate in luoghi di vera e propria detenzione domiciliare per evitare la diffusione del virus o ancora grosse città, come Milano e Venezia, totalmente deserte, immerse in un’atmosfera spettrale e al contempo surreale.

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Ma senz’altro gli scatti di maggiore impatto emotivo sul pubblico sono stati quelli nei quali è tangibile il dramma vissuto in quel periodo dai familiari dei defunti per COVID, sia per l’impossibilità di rendere loro l’ultimo saluto e celebrare il rito funebre, assolutamente vietati entrambi, sia per la difficoltà di gestire il gran numero di salme, divenute impossibili sia da cremare che da tumulare nei cimiteri ormai privi di spazi. In tali situazioni, in particolare, il Comune bergamasco di Ponte San Pietro, in quel periodo, si è visto costretto ad adibire un capannone industriale a deposito di bare, peraltro, di fattura piuttosto spartana. Il reportage di Matteo Biatta è senz’altro lo spaccato di una terribile pagina di attualità che si spera non si verifichi più e rimanga solo nella memoria di tutti. Nella sala attigua, la mostra collettiva dei soci del Gruppo Scatto (Massimo Aversa, Luciano Bianco, Nino Castiglione, Tonino Corso, Vito Curatolo, Simona De Togni, Giuseppe Di Giorgio, Maria Luisa Faraci, Lorenzo Gigante, Paolo Pironi,

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Arturo Safina, Mimmo Todaro), curata da Mauro Ancona e Tonino Corso, attraverso le 26 fotografie esposte, ha voluto raccontare la città fantasma di Poggioreale, distrutta durante il terribile terremoto che coinvolse i paesi della Valle del Belìce, il 14 gennaio del 1968, puntando ai dettagli di un’architettura profondamente segnata che pur essendo divenuta un rudere restituisce ancora oggi l’immagine dell’antico borgo. Il sapiente utilizzo del b/n ha permesso, inoltre, di esaltare, senza distrazione alcuna, la drammaticità dei luoghi. Luoghi senza tempo, avvolti in un assordante silenzio che, dopo più di cinquant’anni, provocano ancora forti emozioni in chi vi si avvicina.


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Negli altri locali del complesso monumentale San Domenico sono state ospitate le mostre collaterali di Lorenzo Gigante (TP) «Tramonto... Spettacolo... Emozione... Sogno…» con i suoi magnifici tramonti trapanesi; quella di Salvatore Titoni (TP) «Emozione numero cinque» che ha mostrato l’antico rito siciliano della presa d’occhio per togliere il malocchio (o presunto tale) e quella di Giuseppe Di Giorgio (Camporeale - PA) «Storie di sbarchi» che mostra volti e situazioni di migranti arrivati nella terra dell’accoglienza: la Sicilia. A seguire, nella Chiesa di Sant’Agostino, sita in Piazza Saturno in pieno centro storico a fianco della splendida omonima fontana, si è svolto il secondo appuntamento previsto in programma. In questa sede è stata inaugurata la mostra collettiva #LucediSicilia, realizzata con gli scatti di noti nomi della fotografia siciliana: Romano Cagnoni, Franco Carlisi, Mauro Galligani, Tony Gentile, Gianfranco Iannuzzo, Giuseppe Leone, Melo Minnella, Pino Ninfa, Angelo Pitrone, Arturo Safina, Tano Siracusa, Roberto Strano.

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Una Sicilia, varia e dai mille aspetti, raccontata attraverso le immagini di paesaggi e volti del presente e del passato, talora immersi in un’atmosfera onirica; dalle foto che denunciano una condizione umana al margine e da quelle che documentano periodi bui di questa terra legati alla mafia, a causa della quale la Sicilia è stata marchiata a fuoco da un’etichetta stereotipata, diffusa in tutto il mondo; dalle tradizioni ormai estinte come quella della mattanza; dai riti religiosi e dagli “sguardi” di un tempo e da un viaggio tra i vicoli e le case del passato di una città come Agrigento che ha ormai cambiato volto, ma non troppo. Insomma, un caleidoscopio di facce della stessa medaglia, tra colore e bianco e nero.

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Il lungo pomeriggio inaugurale di Trapaninphoto si è concluso in una splendida sede con un’esposizione di tutto rispetto: quella degli scatti giovanili di Giuseppe Tornatore, dal titolo “Artigiano della memoria”, presso il Museo di arte contemporanea San Rocco. A pochi passi dalla Chiesa di S.Agostino, il Palazzo San Rocco, è stato destinato nel 2012 a polo museale interdisciplinare, divenendo la sede ufficiale ed istituzionale del museo. Restaurato grazie ai contributi provenienti dall’Otto per mille, insieme a quelli di alcuni privati ma nessun contributo pubblico, è stato inaugurato nel 2014. L’atrio del palazzo, che contiene le vestigia della chiesa dedicata al santo, è stato trasformato in un Oratorio dalla capienza di circa 70 posti, con una piccola abside che accoglie un'immagine moderna del Crocifisso (opera di Marco Papa). Mentre il museo, che occupa le sale adiacenti all’Oratorio, appare come la continuazione naturale di esso per la sua funzione estetica e didattica, tipicamente legata ad ogni luogo di culto. In questa sede, oltre alla mostra permanente di alcune opere di importanti artisti provenienti da 25 nazioni, vengono ospitati anche concerti e allestite mostre temporanee dedicate all’arte contemporanea e alla fotografia, come nel caso di quella di Tornatore, che resterà aperta fino al 6 gennaio 2022, a differenza delle altre che hanno avuto termine il 5 dicembre.

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Giuseppe Tornatore nasce a Bagheria ed è noto in tutto il mondo per i suoi film, grazie ai quali ha vinto numerosi premi, tra cui l’Oscar con il film Nuovo cinema paradiso nel 1988. Non tutti sanno, però, che ha iniziato giovanissimo a lavorare nel campo della fotografia e ha ricevuto anche in questo caso diversi riconoscimenti dalle riviste fotografiche nazionali. Le sue prime realizzazioni cinematografiche, che hanno un genere documentaristico, hanno avuto come argomento la Sicilia, le tradizioni popolari e i suoi personaggi di rilievo come il pittore Renato Guttuso e gli scrittori Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia. E questi sono stati sempre gli argomenti da cui l’artista ha tratto ispirazione non solo nella sua lunga filmografia, ma anche nei suo scatti. A introdurre la mostra di Tornatore è stato Don Liborio Palmeri, responsabile e curatore del museo, che ha illustrato il criterio d’impaginazione utilizzato nell’esposizione dei venti scatti del regista, prestati dal Museo Guttuso di Bagheria, che ritraggono momenti di questa città negli anni compresi tra il 1960 ed il 1970: un vero e proprio viaggio tra i temi più cari a Tornatore e trattati nei suoi film, ma con una connotazione temporale legata alla naturale evoluzione della vita, dalla fanciullezza alla vecchiaia. Le foto iniziali, infatti, sono quelle che ritraggono i bambini in varie situazioni, spesso protagonisti dei suoi film, come nel caso di Nuovo Cinema Paradiso. Quelle finali ritraggono gli anziani e in queste non manca un chiaro riferimento alla morte. Tra questi estremi ritroviamo gli scatti dedicati agli animali, anch’essi spesso protagonisti dei suoi film e quelli che trovano

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spunto dalla cultura siciliana degli anni ’60 - ’70, quando la lettura era spesso quella che si faceva sui manifesti cinematografici o sui cartelloni pubblicitari per strada e più raramente sui giornali. Non mancano, infine, le foto scattate a personaggi illustri della cultura siciliana come Renato Guttuso e Ignazio Buttitta.


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La giornata successiva, sabato 20 novembre, è stata interamente dedicata agli incontri con i fotografi ed è iniziata presso la Chiesa di S. Agostino da dove è stata trasmessa, in diretta streaming, una lunga intervista a Matteo Biatta, condotta da Sandro Iovine, sul tema “Emergenza Coronavirus, come raccontare una pandemia”. Sandro Iovine, giornalista e critico fotografico, è direttore responsabile della rivista online FPmag, un magazine che rivolge la propria attenzione principalmente alla fotografia attraverso numerose sezioni, tra le quali quella dedicata alle video interviste, FPmagtalk. Durante la diretta, tenutasi davanti a molti amanti della fotografia e agli studenti dell’Istituto d’istruzione secondaria ad indirizzo turistico “Sciascia e Bufalino” di Erice (tra l’altro partner organizzativo della manifestazione per la gestione dell’apertura delle mostre fotografiche al pubblico), Iovine ha puntato l’attenzione su argomenti che vanno oltre le immagini vere e proprie (peraltro proiettate durante la diretta) e che, in

genere, sono poco noti ai non addetti ai lavori, ossia a tutto ciò che riguarda la committenza e le specifiche richieste ricevute da questa, insieme alle difficoltà operative incontrate durante lo svolgimento del lavoro di reportage, al di là di quelle legate meramente al contagio. Matteo Biatta ha, quindi, raccontato di non aver avuto particolari difficoltà nel circolare liberamente durante il periodo del lockdown, sebbene sia stato fermato più volte dalle forze dell’ordine. Infatti, in quanto giornalista professionista era munito di incarico professionale da parte di agenzie di stampa sia nazionali che estere. Le richieste ricevute da queste ultime sono cambiate man mano che la situazione evolveva e, con un po’ di amarezza mista a rassegnazione, Matteo ha, anche, affermato che la quasi totalità delle foto prodotte durante questo periodo è stata diffusa per il 90% su testate giornalistiche estere piuttosto che nazionali, tra cui The Guardian, The Wall Street Journal, RollingStone, ecc., comprese alcune testate russe.

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Alla domanda riguardante, poi, le autorizzazioni necessarie a scattare le foto soprattutto nei luoghi chiusi, l’autore ha sostenuto che il tempo dedicato agli scatti, in genere, occupa solo il 20% del tempo totale necessario per la consegna del lavoro. Il restante 80% è quello che ci vuole per assolvere a tutte le formalità burocratiche e non solo, occorrenti per accedere nei luoghi d’interesse soprattutto in particolari contesti e, finalmente, realizzare il reportage fotografico. Chiaramente nel caso del Covid, vista l’eccezionale situazione di pericolosità, l’attenzione è stata maggiore. La seconda parte dell’intervista è stata rivolta al Dr. Claudio Pace, medico di famiglia, intervenuto per portare la testimonianza di carattere scientifico riguardo alla situazione vissuta a Trapani e in Sicilia, sia agli inizi dell’emergenza, quando, al contrario della zona lombarda, Trapani è stata considerata Covid free, sia attualmente.

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Il secondo appuntamento di questa giornata, una tavola rotonda dal tema La fotografia siciliana, si è tenuto nella splendida sede del Museo Regionale Agostino Pepoli, tra opere d’arte di ogni genere e di straordinaria bellezza, alla presenza di due grandi della fotografia siciliana, di notevole spessore culturale: Franco Carlisi e Tano Siracusa, introdotti dal Direttore del museo, Arch. Roberto Garufi, da Arturo Safina e dal Presidente dell’Associazione ICDV, Marilena Galia. Il Museo A. Pepoli, che è uno dei più importanti musei della Regione Siciliana, nasce nei primi anni del ‘900 come museo civico, per mano del conte Agostino Sieri Pepoli, nel trecentesco ex convento dei Carmelitani, contiguo all’importante Santuario della SS.ma Annunziata, dove è custodita e venerata la statua della Madonna di Trapani, attribuita a Nino Pisano (metà sec.XIV ca.). In esso il conte Pepoli espose la sua collezione privata, insieme ai dipinti della scuola napoletana, donati successivamente dal generale Giovanbattista Fardella. Diventa Museo Nazionale dopo la Seconda guerra mondiale e viene, infine, acquisito dalla Regione Siciliana nel 1977.

Denominato, nel 2010, Museo Interdisciplinare Regionale Agostino Pepoli è il capofila anche dei musei archeologici di Mazara del Vallo e Favignana e del Museo del Sale di Trapani. Questo museo, oggi suddiviso in cinque principali sezioni marmi e lapidi, dipinti, arti industriali, scultura rinascimentale e memorie del Risorgimento - , ospita oltre ad importanti collezioni di opere di prestigiosi autori tra sculture e dipinti, anche opere in corallo, argento e sculture presepiali di straordinaria bellezza, insieme al “Tesoro nascosto”, frutto di numerose donazioni alla Madonna di Trapani. Nella sezione Risorgimento, in un’ampia sala del pian terreno, tra i cimeli d’interesse storico di quel periodo, è custodita, in perfetto stato di conservazione, una ghigliottina d’epoca borbonica. Macabro strumento di morte che fu attivo, in tutto il territorio della provincia, dal 1842 fino al 1860 ca.

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Dunque, in un’ampia sala, tra tesori di ogni genere, davanti ad una platea attenta e numerosa, i due illustri ospiti hanno affrontato il tema della serata secondo due differenti punti di vista. Il primo a intervenire è stato Tano Siracusa, nato ad Agrigento e siciliano anche nel cognome. Durante il suo intervento, l’autore attraverso una serie di sillogismi ha spiegato come, nel tempo, è cambiato il suo modo di fare fotografia e le esigenze che lo hanno portato a tale cambiamento, compreso il passaggio dall’analogico al digitale. Tano ha cominciato a fotografare nei primi anni ’80, svolgendo la sua professione prevalentemente nei paesi del sud del mondo oltre che nella sua città, alternando il reportage d’impostazione bressoniana a un uso più diaristico e introspettivo del mezzo fotografico. Nel suo intervento ha presentato una serie di scatti, realizzati, nei primi anni della sua carriera, ad Agrigento e dedicati alla processione di San Calò, il santo nero protettore della città, che raggiunse la Sicilia alla fine del V secolo, in fuga dai Vandali ariani. Proprio per questo, oggi, San Calò è divenuto, inevitabilmente, anche il protettore dei migranti che, neri come lui, a migliaia fuggono dall’Africa e dal vicino oriente, scappando da guerre, fame e persecuzione, per approdare sulle spiagge siciliane. L’autore ha spiegato, secondo il suo punto di vista, il motivo per il quale il tema della processione è sempre stato molto ambito, soprattutto dai fotografi siciliani, partendo dal significato della parola “guardare”, che, in siciliano, come in spagnolo, in francese e in altre lingue neolatine, vuol dire custodire, tenere a bada, sorvegliare.

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Dunque chi guarda comanda. Ma ciò può avvenire solo nella realtà. Mentre durante la processione, dove tutto è rappresentazione teatrale lontano da questa, il fotografo è libero di riprendere senza essere “guardato”. Durante gli anni successivi, insieme ai suoi reportage realizzati all’estero, continua a lavorare nella sua terra e nel ‘92 realizza, insieme a Lillo Rizzo, un lavoro denuncia sull’ospedale psichiatrico di Agrigento. Nasce, dunque, in Tano l’esigenza di fare informazione attraverso il mezzo fotografico, nel tentativo, spesso vano, di produrre dei cambiamenti. Ma ben presto si rende conto che la fotografia da sola non è sufficiente a questo scopo e rivolge la sua attenzione alle immagini in movimento, senz’altro più eloquenti di quelle fisse e prive di parole. Secondo l’autore, che manifesta una visione baudelairiana della fotografia, questa è ben lontana dall’arte, ad eccezione del periodo in cui, a metà dell’Ottocento, si stabilì un legame e una connessione tra questa, ancora agli inizi e l’arte impressionista. E, soprattutto, la ritiene irreale in quanto restituisce l’istante, fermando il tempo. Dal momento che l’uomo stesso vive immerso nel tempo che scorre, le immagini in movimento, sono il mezzo più indicato per riprodurre la realtà. Per questo, da una decina d’anni a questa parte, specie dopo l’avvento della fotografia digitale e la conseguente inesistenza di supporti tangibili sui quali riprodurre le immagini, spesso relegate esclusivamente a un monitor, Tano Siracusa produce i suoi lavori, dai temi attuali e dal forte impatto emotivo, mescolando fotografie a videoclip.

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Nel secondo intervento, Franco Carlisi, nato a Grotte (AG), laureato in ingegneria elettrica e fotografo dal 1996, ha illustrato il suo modo di vedere la fotografia contrapponendolo a quello di Tano Siracusa. Infatti, mentre quest’ultimo ha utilizzato le immagini come mezzo d’informazione al fine di aiutare gli altri, Carlisi, nei suoi scatti ha da sempre ricercato se stesso. La sua analisi introspettiva trova forza nella continua ricerca e cattura dell’istante, nel seguire un movimento che ha un potere evocativo nella mente e permette di creare un frammento di vita aperto all’immaginazione di chi guarda. La fotografia per Carlisi non restituisce il passato ma fa parte della nostra vita e ci dona una dimensione nuova tra presente ed eternità. Una visione onirica di una fotografia che l’autore considera arte. Durante l’incontro Franco Carlisi, che ha al suo attivo diverse pubblicazioni e numerose mostre, ha presentato agli astanti due raccolte di scatti che hanno reso ancora più chiaro il suo concetto di fotografia.

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Nella prima ha mostrato alcune foto tratte dal suo libro di maggior successo, dal titolo Il valzer di un giorno. Una raccolta di immagini in bianco e nero, scattate “fuori campo” durante un giorno particolare, quello del matrimonio, in una Sicilia intima, esplorata al di là delle normali codifiche e delle convenzioni entro le quali normalmente i protagonisti del rito costruiscono la loro recita. La seconda presentazione ha mostrato il lavoro di ricerca della sua identità attraverso alcune immagini realizzate con la tecnica dell’“open flash” durante tutta la sua attività di fotografo. Un viaggio introspettivo, rigorosamente in bianco e nero, attraverso il quale la tecnica utilizzata è stata funzionale per raccontare proprio le difficoltà trovate nel riconoscersi in una precisa identità, dopo essersi reso conto, durante il suo percorso, di come quella siciliana sia molteplice e stratificata, oltre che, a volte, contraddittoria.


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La serata si è conclusa con la consegna del Premio per la Cultura Fotografica 2021 “Salvatore Margagliotti” proprio a Franco Carlisi, peraltro, dal 2006 direttore della rivista di immagini e cultura fotografica Gente di Fotografia. Nella motivazione scritta da Pippo Pappalardo si legge: “Si conferisce il Premio Margagliotti, dedicato alla cultura fotografica, oggi giunto alla sua decima edizione, all’Ing. Franco Carlisi, insigne fotografo siciliano, distintosi per la qualificata attività professionale e per l’eccellente presenza culturale sul territorio nazionale. In particolar modo, la direzione della Rivista “Gente di Fotografia” e le iniziative editoriali ad essa collegate hanno destato, grazie al suo contributo, l’assopito interesse dei fotografi e degli studiosi della materia, costringendoli a riflettere, rimeditare e rivedere la cultura accumulatasi negli anni passati per liberarla

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dai pregiudizi, dai luoghi comuni e dalle esasperazioni accademiche e intellettuali fini a se stesse, assai spesso cause di futili polemiche e di vani, se non vuoti, contenuti. In tal senso l’operato di Franco Carlisi ha guidato, come fotografo e come operatore culturale, una sorvegliata quanto risoluta critica ad una vicenda fotografica a volte chiusa su se stessa e restia a cercare le ragioni per cui era nata: la ricerca, la documentazione e la rappresentazione del vero, del giusto, del bello e, quindi, del buono.”

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Domenica 21 novembre, presso il complesso monumentale San Domenico, si è svolto il Concorso Portfolio 2021. Cinque i partecipanti che, provenienti da diverse città siciliane, hanno presentato complessivamente 7 portfolio, che sono stati letti dai già noti professionisti della fotografia, protagonisti delle giornate precedenti: Franco Carlisi, Tano Siracusa e Matteo Biatta, che oltre ad esaminare singolarmente ogni portfolio, hanno fornito, agli autori in gara, anche suggerimenti, consigli e pareri tecnici. I lavori proposti hanno presentato la Sicilia, tema della manifestazione, sotto aspetti differenti, realizzati spaziando tra generi fotografici diversi: dai ritratti in studio, allo still life eseguito con la tecnica del light painting, alla street photography, alla foto concettuale, al reportage. Al termine dell’esame dei portfolio, che ha impegnato tutta la mattinata, nel pomeriggio si è riunita la giuria che, presieduta da Franco Carlisi, ha proclamato come unico vincitore della X

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edizione di TrapaninPhoto, Salvo Titoni, fotografo trapanese appartenente al Gruppo Scatto ICDV, con il suo lavoro dal titolo “Emozione numero 5”. In nove scatti in bianco e nero dal taglio quadrato, peraltro esposti tra le mostre collaterali della manifestazione, l’autore ha sapientemente riportato in vita un’emozione vissuta da bambino, legata a un rito, per lo più celebrato dalle donne anziane di famiglia, depositarie di tradizioni quasi sempre in bilico tra sacro e profano, difficilmente sconosciuto a un siciliano, quello della “pigghiata d’occhio”, rimedio popolare utilizzato per togliere il malocchio. La giuria ha, dunque, premiato il reportage di Salvo Titoni “per la capacità di saper interpretare una realtà residuale restituendola nella sua forma più viva e poetica senza l’aiuto di una superflua impalcatura concettuale.”


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Due sono stati i libri presentati durante l’intera rassegna. Il primo, dal titolo Fotogazzeggiando di Toti Clemente, curato da Pippo Pappalardo, è stato presentato durante il weekend iniziale. Nella vita capita, talora, di sentire l’esigenza di voler raccontare qualcosa o semplicemente di dover riordinare le idee su certi argomenti. È quello che è accaduto all’autore che, soprattutto in un periodo di fermo quale quello legato al covid, prendendo spunto dalle sue foto, ha raccolto le idee e insieme a qualche racconto legato ad esperienze di vita ne ha fatto una sorta di diario. Il secondo libro, che è stato presentato il 26 novembre, aprendo il secondo fine settimana di TrapaninPhoto, ha visto come protagonista Gianfranco Jannuzzo, affermato attore di teatro, cinema e televisione, nato ad Agrigento. Appassionato di fotografia fin da ragazzo, ricomincia a fotografare in analogico in questi ultimi anni e realizza il suo primo libro di fotografia dal titolo Gente mia, presentato da Angelo Pitrone (fotografo, docente di Storia e tecnica della fotografia all'Università di Palermo). L’autore ha raccontato le foto contenute nel libro, con tratti di intenso coinvolgimento, evidenziando le persone che

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sono state fotografate, dopo avere instaurato con i soggetti "profondi" rapporti umani. In cento immagini Jannuzzo racconta Agrigento, scenario ideale per i suoi ricordi, raccogliendo foto scattate negli anni ’70 cui si aggiungono quelle realizzate negli ultimi anni, senza soluzioni di continuità. Senza curarsi della cronologia temporale degli scatti, si affida al racconto che scaturisce dalle immagini. La fotografia di Jannuzzo non ha bisogno di essere descritta, interpretata o raccontata e non ha bisogno di didascalie. È già racconto. L’autore narra, attraverso i suoi scatti, il passato e lo attualizza, momento per momento. Nel libro i bambini sono protagonisti assoluti e le foto sono rigorosamente in b/n. Agrigento è una città sui generis che mantiene una sua trasversale visione del mondo ma non è riuscita nel corso degli anni a costruire una propria identità. La sua storia recente è soprattutto fatta di ricordi, memoria, nostalgia. L’unico dato distintivo che caratterizza questa città, comune anche alla Sicilia intera, è il culto dell’amicizia, il senso della solidarietà, l’orgoglio di appartenervi, la generosità e l’amore che sono ben identificati da Gianfranco Jannuzzo.


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Sabato 27 novembre la mattinata è stata dedicata all’interessante incontro con Giacomo di Girolamo, giornalista e direttore del portale TP24.it, dal titolo “Poggioreale e non solo: il racconto dei piccoli borghi italiani” e in collegamento via web con Marco Giovannelli, presidente di ANSO, Associazione Nazionale Stampa Online. Tra sabato pomeriggio e domenica 28 novembre si è tenuto il Workshop di reportage con Roberto Strano: una full immersion nella fotografia sociale e in bianco e nero. Strano, infatti, fotografo professionista con un curriculum di tutto rispetto, vive a Caltagirone lavorando in Italia e all’estero e si dedica alla fotografia di reportage con particolare attenzione a quella sociale. Dal 1990 svolge un’intensa attività di ricerca ottenendo diversi riconoscimenti anche internazionali. Ha al suo attivo numerose mostre e pubblicazioni. In particolare, nel 2012 ha realizzato un workshop di reportage all’Università di Fortaleza dal quale, dopo due anni di lavoro nelle favelas del Brasile, è nato un reportage contro il turismo sessuale.

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professionista, hanno avuto modo di approfondire argomenti riguardanti la realizzazione di un reportage in tutte le sue fasi: dal progetto, all’organizzazione del lavoro vero e proprio, alla gestione delle riprese e delle stampe. L’incontro con Strano ha costituito di certo per i partecipanti una grande opportunità di crescita, non solo fotografica ma anche culturale. Con il workshop di Roberto Strano, TrapaninPhoto ha chiuso i battenti con un bilancio assolutamente positivo per il grande interesse ancora una volta destato nel pubblico e, soprattutto, per lo spessore culturale, professionale e umano dei suoi numerosi ospiti. Non resta, quindi, che attendere la prossima edizione!

Dunque, i partecipanti al workshop, dopo avere eseguito delle riprese in giro per la città di Trapani in presenza del fotografo

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Ospiti: Matteo Biatta, giornalista fotografo Franco Carlisi, fotografo e direttore di Gente di Fotografia Tano Siracusa, fotografo Roberto Strano, fotografo Sandro Iovine; giornalista fotografo, direttore responsabile della rivista online FPmag Gianfranco Jannuzzo, attore Angelo Pitrone, fotografo e docente di Storia e tecnica della fotografia all'Università di Palermo Giacomo di Girolamo, giornalista direttore di TP24 Marco Giovannelli, Presidente di ANSO

Mostre: 2020 - l’anno del Covid di Matteo Biatta Artigiano della memoria di Giuseppe Tornatore #Luce di Sicilia collettiva fotografica Poggioreale: la città fantasma collettiva a cura dei soci del Gruppo Scatto ICDV Mostre collaterali: Lorenzo Gigante, Salvo Titoni, Giuseppe Di Giorgio Lettori dei portfolio: Tano Siracusa, Franco Carlisi, Matteo Biatta Ringraziamenti: Don Liborio Palmeri, responsabile e curatore del Museo San Rocco Don Francesco Vivona e la D.ssa Maria Pia Viola, per la Chiesa di Sant’Agostino Arch. Roberto Garufi , direttore del museo Pepoli di Trapani Giacomo Tranchida, sindaco di Trapani I ragazzi dell’Istituto d’istruzione secondaria ad indirizzo tecnico - turistico “Sciascia e Bufalino” di Erice

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Djurdjura (2308 metri), Atlante, Algeria © Shutterstock

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I giganti della terra a cura di Massimo Zanella, con un testo di Nives Meroi

La montagna è simbolo di valori, sentimenti, stati d’animo e aspirazioni umane, nonché emblema del rapporto tra uomo e natura che viene esplorato, descritto e riscoperto in questa nuova grande pubblicazione

Quassù non vivo in me, ma divento una parte di ciò che mi attornia. Le alte montagne sono per me un sentimento.

30 × 35 cm, 224 pagine cartonato ISBN 978-88-572-4585-0

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Partendo dalle sette vette (le montagne più alte per ciascuno dei continenti della Terra) e dagli ottomila (le quattordici montagne della Terra che superano gli ottomila metri di altitudine sopra il livello del mare), questo spettacolare volume fotografico illustra le più famose montagne del mondo suddivise nei vari continenti (Nord America; Sud America; Europa; Africa; Asia; Oceania).

Kilimangiaro Tanzania © Shutterstock

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Monte Denali Alaska Stati Uniti © Shutterstock


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Monte Whitney Sierra Nevada California, Stati Uniti © Shutterstock

Dalle vette dell’Himalaya e del Karakorum, che formano “il tetto del mondo” alla Patagonia, luogo estremo, frontiera dell’immaginazione, ricca di scenari naturali che sembrano essere l’inizio e la fine di tutto. Attraverso le montagne, è possibile scoprire una nuova dimensione del continente africano, dalle scogliere a picco dei canyon dell’Atlante alle nevi del Kilimangiaro e Ruwenzori. L’Alaska offre visioni incantate di quel regno di gelo su cui il Denali, la montagna più alta del continente nordamericano, svetta per oltre 6.000 metri. E ancora, l’Europa e le Alpi, le vette del Monte Bianco e del Monte Rosa e la magia delle Dolomiti, Patrimonio dell’Umanità Unesco dal 2009, sistemi montuosi di eccezionale bellezza e dalle caratteristiche geologiche uniche. Monte Cervino Alpi Italia e Svizzera © Shutterstock

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Vinicunca Ande Regione di Cuzco Perù © Shutterstock

Il lettore è accompagnato in questo straordinario viaggio tra le vette del mondo da autorevoli compagni di viaggio, scrittori: filosofi, pensatori (e non solo) che ci hanno lasciato pagine immortali dedicate alla montagna: citazioni di Dante Alighieri, John Muir, Paulo Coelho, Victor Hugo, Lord Byron, Jane Austen, Friedrich Nietzsche, William Shakespeare, Jeanne Moreau, JRR Tolkien e Haruki Murakami compaiono nel libro accanto alle immagini più spettacolari della superficie terrestre.

Monte Whitney Sierra Nevada California Stati Uniti © Shutterstock

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Dolomiti Gruppo del Catinaccio Alpi Italia © Shutterstock

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RODOLFO MARASCIUOLO

Rodolfo Marasciuolo

L'arte di creare bellezza

Adriana Oberto Barbara Tonin Cinzia Carchedi Fabrizio Rossi Giancarlo Nitti Laura Turco Maria Grazia Castiglione Mariangela Boni Massimo Tabasso

A cura di Barbara Tonin Giroinfoto Magazine nr. 74

Adriana Oberto Photography


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RODOLFO MARASCIUOLO

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Le opere di Rodolfo Marasciuolo nel verde di Torino Torino è una città amata da sempre. Ne hanno decantato la sua bellezza storici, artisti, scrittori, ma anche tutti coloro che l’hanno visitata. Lo splendore della città di Torino, tuttavia, non risiede soltanto nella storia e nell’architettura, ma anche nelle vaste aree verdi, che mitigano l’impatto urbanistico. I viali alberati, le aiuole e i numerosi parchi si integrano armoniosamente con strade e palazzi, donando un tocco di colore alla città. A contribuire a vivacizzare le aree verdi sono i preziosi giardinieri del Comune, che per perizia e creatività, donano ad aiuole e parchi non solo forma, carattere ed estetica, ma anche parte della loro personalità e della loro interiorità artistica. Passeggiando per le piazze e i parchi, può capitare anche di imbatterci in alcune opere d’arte. Sono le realizzazioni di Rodolfo Marasciuolo, giardiniere e manutentore comunale, che dà il tocco finale alle bellissime creazioni dei colleghi. Abbiamo deciso, allora, di cercarle tutte e di conoscere anche il suo creatore. In piazza Carlo Alberto, a sinistra dell’ingresso della biblioteca, troviamo un piccolo angolo lettura: una pila di libri su un tavolinetto, una tazza di the, una lampada e una ragazza che legge. Dall’altra parte una violinista in bicicletta trainata da farfalle, che la conducono “verso il lato soleggiato della vita” (Jeffrey Glassberg).

Mariangela Boni Photography

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RODOLFO MARASCIUOLO

Al giardino roccioso lV ale n

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Parco del Valentino

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Giardino Roccioso

Fiume

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È proprio qui che troviamo alcune tra le più incantevoli composizioni floreali e arboree di Torino e anche l’installazione più fotografata di Marasciuolo: una coppia di lampioni innamorati seduti su una panchina. In principio, il lampione era uno soltanto, in compagnia di due gatti. Ma a nessuno piace la solitudine ed è così che è arrivata una compagna. Come Adamo nell’Eden. L’amore, l’attesa, la tenerezza, la gioia di un incontro e la libertà sono i temi più cari all’artista.

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Al Parco del Valentino, la creazione più bella dei giardinieri, ovvero il “Giardino roccioso”, attira ogni giorno cittadini e turisti.

Giancarlo Nitti Photography

Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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Poco lontano dalla coppia-lampioni, il Principe Rospo attende la sua principessa nel secchio di un pozzo e due gatti furbacchioni tentano di rubare i pesci al pescatore addormentato. Il gatto è una figura ricorrente tra le opere dell’artista, sicuramente ad omaggio della sua piccola musa, la gatta sconosciuta che, al loro primo incontro, gli ha rubato il pranzo. Laura Turco Photography

Mariangela Boni Photography

Giancarlo Nitti Photography Non lontano, troviamo un altro gatto che si stiracchia su una roccia dello stagno. Nel laghetto più grande, invece, spicca una composizione che non può passare inosservata: la fata che si diverte col gioco della settimana e una delle cinque farfalle le fa da sassolino. Spostandoci verso l’uscita del giardino roccioso, nascosti e protetti dal canneto, mamma airone nutre il suo piccolo nel nido. Maria Grazia Castiglione Photography

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Massimo Tabasso Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

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Giardini La Marmora

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Lasciamo, poi, il Valentino e ci dirigiamo ai Giardini La Marmora. Qui Marasciuolo ha deciso di “mettere in scena” la sua opera più sentita e intimamente amata dagli abitanti del quartiere: l’incontro tra un uomo e una donna, raccontato a puntate. Una per ogni primavera. Sogno di un incontro, è il desiderio che abbiamo tutti di incontrare la persona con cui trascorrere la nostra vita. Questa storia inizia con un uomo che arriva in bicicletta e si siede poi su una panchina, con una rosa appassita in mano, forse per un precedente incontro mancato. Un gatto e delle farfalle, appoggiati alla bicicletta, gli fanno compagnia. La seconda puntata ci svela che il personaggio se ne va, ma lascia il suo libro, una lettera e la rosa sulla panchina, nella speranza che vengano ritrovati dalla sua anima gemella.

Maria Grazia Castiglione Photography

Rimangono anche due farfalle, simbolo delle due anime. La primavera successiva porta il sogno più intimo del nostro protagonista: lui con l’amata, che se ne vanno assieme sulla bicicletta, simboleggiando il lungo e felice cammino che condivideranno. Nella quarta puntata il sogno diviene realtà: una finestra incornicia i loro profili che si baciano, coronando il loro amore. Il gatto e le farfalle completano l’opera portando allegria e completando il senso di famiglia.

Cinzia Carchedi Photography

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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RODOLFO MARASCIUOLO

Mariangela Boni Photography Nella puntata successiva vediamo la donna che innaffia i fiori e, riparandosi dal sole con un ombrellino, cura il suo giardino. L’opera ricorda molto il famoso quadro di Renoir. Quest’ultima installazione e la coppia in bicicletta sono molto cari ai passanti della zona, perché evocano in loro rimembranze di affetti e gesti passati. La donna con l’ombrello, infatti, è rimasta per due primavere, su richiesta di un signore a cui la figura ricorda il magico momento in cui ha visto per la prima volta il volto dell’amata. Questa è la prova che il messaggio di Marasciuolo, attraverso le sue opere, arriva al cuore della gente. L’atto del curare il giardino equivale a prendersi cura di qualcuno e dell’amore stesso verso qualcuno. Ogni oggetto presente e ogni azione hanno un forte simbolismo, che può anche essere diverso per ognuno di noi, personale, ma il cui messaggio arriva a tutti. L’ultima puntata potremo vederla la prossima primavera e non vogliamo svelarla. Diciamo soltanto che ci saranno il libro e l’ombrellino per il sole, decorato ancora con i pizzi della mamma di Marasciuolo.

Cinzia Carchedi Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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Ma come vengono le idee? Vengono osservando, andando in giro, leggendo. È così che nascono tutte le sue composizioni. Come, ad esempio, il turet con Pinocchio che legge e il Grillo parlante in ozio, destinato a una biblioteca. Oppure i gatti che giocano tra loro o, ancora, la lumacona gigante che cammina tra piante e fiori enormi. L’opera, tuttavia, che più ha nel cuore l’artista è una voliera con dei libri all’interno e delle farfalle che da questi volano via. L’idea è venuta osservando la foto di un carcerato con le braccia fuori dalle sbarre, che sorreggevano un libro. Leggendo ci si sente liberi, leggeri e lontani dalla propria condizione. I pensieri volano via da qualsiasi situazione e portano una sensazione di libertà. La composizione, invece, che più si discosta dal suo stile rimanda alla simbologia cimiteriale: Il tempo e le velate. Una donna velata che lancia due dadi, simbolo dell’imprevedibilità della vita e con l’altra tiene una clessidra alata, ovvero lo scorrere del tempo, al cui interno scorre sabbia dorata, perché ogni istante è prezioso.

Barbara Tonin Photography

Adriana Oberto Photography

Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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RODOLFO MARASCIUOLO

Tra le opere di Marasciuolo ci sono anche quelle dedicate a eventi culturali, come ad esempio la settimana della Mobilità sostenibile o a giornate dedicate all’ecologia: velocipedi costruiti con le assi delle panchine dismesse o farfalle, simbolo della purezza dell’aria, che pompano la ruota di una bicicletta o, ancora, la violoncellista in omaggio alla musica. L’ispirazione che ha generato le creazioni di Marasciuolo, nasce dalla richiesta di preparare delle aiuole speciali per le Olimpiadi del 2006. È così che l’artista ha voluto dare il tocco finale alle magnifiche composizioni floreali dei colleghi. Il riciclo di materiali dismessi, come il metallo, la plastica e il legno (il suo preferito), che diventano arte e sentimento. Scarti che si

Adriana Oberto Photography

Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

trasformano in simboli e messaggi. Oggetti che raccontano storie, incontri, affetti ed emozioni. Creare è una passione che l’artista porta con sé fin da bambino e che non ha mai lasciato. Ci racconta che tutti dentro nascondono creatività, ma che spesso non viene espressa a causa delle situazioni. Scalpelli, saldatrice e mani; oggetti che la gente non vuole più; idee che prendono forma dai sentimenti, dalle attese e dagli incontri, dai colori, dalla bellezza. È così che nascono le opere di Marasciuolo. Opere che fanno bene a lui, ma che, soprattutto, fanno bene a noi.


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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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VILLA LITTA

Antonio Pedone Manuel Monaco Sandro D'Angelo Sara Mangia Silvia Scaramella

La magnificenza incontra il gioco A cura di Manuel Monaco Sandro D'Angelo Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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1585.

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VILLA LITTA

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Lainate

Un mecenate cadetto della famiglia Borromeo, imparentato con i Visconti signori di Milano, decide di far costruire una villa che rispecchi il prestigio della sua famiglia e che allo stesso tempo sia luogo di svago e divertimento.

In seguito al Catasto Teresiano del 1721, Giulio Visconti Borromeo Arese fece costruire un nuovo edificio detto Palazzo Occidentale o “Quarto Nuovo”.

Quel mecenate era Pirro I Visconti Borromeo e, per la sua nuova villa, prese spunto dalle dimore medicee come Palazzo Pitti. La proprietà sorge sull'asse viario del Sempione, in una posizione strategica, ed è perlopiù costituita da terreni agricoli. Il progetto prevedeva, oltre alla costruzione di una maestosa villa, la creazione di un ninfeo in grado di contenere degli automi per realizzare dei giochi d'acqua.

Pochi anni dopo la Villa fu ereditata dal marchese Antonio Litta che modificò il giardino secondo i canoni dell’epoca, avvalendosi di scultori ma, soprattutto, dell’architetto e pittore Francesco Levati. Il giardino fu rimaneggiato ancora nell’Ottocento diventando così un giardino all’inglese. Il periodo di prosperità della villa si interruppe nel 1870 quando venne confiscata e passò sotto il demanio statale. In seguito si susseguirono una serie di nuovi proprietari fino al 1970 quando venne acquistata dal Comune di Lainate.

Per portare a compimento l'opera vengono quindi chiamati i migliori artisti lombardi: l'architetto Martino Bassi, Marco Antonio Prestinari, Camillo Procaccini e altri ancora. Ovviamente, come ogni villa che si rispetti, il giardino completa la costruzione. Giardino orientato lungo l'asse Sud-Nord, interrotto dal ninfeo e terminante in un'esedra.

Da allora il Comune è impegnato in un’opera di restauro che non si è ancora conclusa.

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VILLA LITTA

L’accesso alla villa avviene attraverso l’imponente portale che si affaccia su largo Vittorio Veneto. Varcato il portone si accede al cortile nobile e ci si trova davanti al palazzo cinquecentesco e al suo colonnato mentre, sulla sinistra, trova spazio il “Quarto Nuovo” facilmente distinguibile grazie alle sue facciate in mattoni di cotto. Il palazzo cinquecentesco è caratterizzato da diverse sale affrescate visitabili in autonomia. Il palazzo settecentesco, come accennato, è un edificio con facciate in mattoni di cotto di tre piani che, da un lato, si affaccia sul cortile nobile con un portico ad arcate, mentre dall’altro si affaccia sul teatro naturale di cui parleremo in seguito. Anche questo edificio è visitabile in autonomia e il piano terreno si compone di ben undici stanze.

Mari Mapelli Photography

Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

Antonio Pedone Photography


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VILLA LITTA

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Sandro D'Angelo Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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VILLA LITTA

Spicca la presenza del camino in pietra e del parafuoco datato 1722. A completamento il lampadario originale in legno intarsiato.

Manuel Monaco Photography

Sulle pareti, all’interno di riquadri, si possono leggere le corrispondenti scritte in latino di: "Virtù", “Onore”, “Lode”, “Amore” e “Gloria”.

La sala delle virtù

Sandro D'Angelo Photography

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Antonio Pedone Photography


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L'Anticamera Era l’ambiente dedicato ad accogliere gli ospiti, in stile liberty o preliberty.

Caratteristica la presenza di un armadio cassaforte senza serratura. La sua chiusura e apertura avveniva tramite la rotazione delle teste. Il lampadario in ferro battuto è originale. Manuel Monaco Photography

La sala degli assi

Caratterizzata da ampie vetrate e pareti decorate con tavole di legno. Analoghe decorazioni sono visibili anche all’interno del Castello Sforzesco di Milano. La differenza è che qui il soffitto è affrescato con un motivo che riproduce una tovaglia ricamata. Il lampadario in ferro battuto è del Novecento.

La sala da pranzo

È sicuramente la sala più affascinante dell’intero palazzo. Sorge dove nel ‘700 vi era il “parcheggio” delle carrozze. Si presenta in stile neoclassico / impero con specchiere, lampadari e pavimento a mosaico. Gli arredi originali, come per il resto della residenza, sono andati perduti ma rimane tuttavia la grande stufa di ceramica che era utilizzata per riscaldare l’ambiente. Degno di nota anche il soffitto affrescato.

Manuel Monaco Photography

Questa sala permette di accedere al teatro naturale: una parte del parco, creato nel ‘700, circondato da filari di tassi che, all’epoca, erano potati a forma di piramide tronca il tutto circondato da un corridoio di carpini che, con la sua lunghezza di 800 metri, è la galleria artificiale verde più lunga d’Europa. Come suggerisce il nome questo spazio era, ed è, particolarmente indicato per rappresentazioni artistiche all’aperto.

Camillo Balossini Photography Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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VILLA LITTA

Gli automi che vediamo oggi non sono quelli originali dell’epoca ma delle ricostruzioni basate sulle fotografie degli originali e sulla documentazione dell’epoca.

Il Ninfeo

Il punto forte di tutto il complesso è sicuramente il Palazzo delle Acque, meglio noto come Ninfeo, all’interno del parco della Villa. La costruzione del complesso durò 4 anni e iniziò nel 1585. La visita è esclusivamente guidata e il complesso è composto da una serie di spazi e di sale disposti in modo simmetrico intorno all’ambiente denominato Atrio dei Quattro Venti. Le sale servivano da museo e contenevano quindi opere d’arte e oggetti curiosi collezionati dalla famiglia. Questo luogo era pensato come luogo di delizie e divertimento per gli ospiti. Divertimento garantito da un sistema idraulico tuttora funzionante e decisamente all’avanguardia collegato a una serie di automi in grado di realizzare diversi giochi d’acqua. L’ingresso al Ninfeo avviene attraverso un viale culminante in una scalinata in cima alla quale vi è il primo automa: l’automa della nobiltà. Il nome deriva dai simboli della casata viscontea, la corona nobiliare e i corni da caccia che sono rappresentati.

Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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Antonio Pedone Photography

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Sandro D'Angelo Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

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Durante il percorso di visita i volontari dell’Associazione Amici di Villa Litta guidano il visitatore alla scoperta dei vari spazi e dei giochi d’acqua.

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Sembra che la tecnica utilizzata dal Procaccini per realizzare queste sale sia più unica che rara tant’è che, pensate, la composizione utilizzata per la mistura è tutt’oggi sconosciuta!.

La visita dura circa un’ora e permette di ammirare i vari giochi e le “trappole” che venivano attivate attraverso la complicità di fontanieri nascosti in spazi ricavati appositamente nei vari ambienti. Si possono quindi ammirare sedute con getti d’acqua uscenti dagli schienali, fontane a pavimento e non solo! Degne di nota sono le stanze che erano adibite a museo. Al loro interno non sono presenti trappole ma sono riccamente decorate con mosaico bicromatico, sui pavimenti e sulle pareti, e con mosaico in ciottolo dipinto sui soffitti. Le stanze sono comunque state progettate per essere bagnate e, infatti, sono dotate di pavimenti inclinati e scoli. I colori sono quelli originali. Ogni stanza ha una decorazione differente, sempre realizzata a mosaico. I ciottoli utilizzati per i mosaici provengono da cava, se neri, e da fiume, se bianchi.

Manuel Monaco Photography

Sara Mangia Photography

Lorena Durante Photography

Manuel Monaco Photography

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Come accennato in precedenza, le sale convergono nell’Atrio dei Quattro Venti, un ambiente ottagonale le cui pareti sono rivestite di travertino e su cui vi sono delle nicchie che ospitavano le statue dei venti secondo la tradizione greca (putti cavalcanti dei draghi). Essendo il centro della disposizione simmetrica è un luogo di passaggio molto frequentato per cui riccamente decorato. Si possono ammirare infatti le statue di Venere, Mercurio, Marte e Apollo ma anche le quattro stagioni. Alzando lo sguardo non si può che rimanere ammaliati dall’affresco sulla volta raffigurante una loggia colonnata. La particolarità dell’affresco risiede nel fatto che le colonne, se non guardate dal centro dell’Atrio, sono storte. Questo era voluto per spingere l’ospite verso il centro in modo che si potesse poi azionare la trappola: il malcapitato veniva quindi accerchiato e bagnato dai getti d’acqua che fuoriescono dal pavimento.

Sandro D'Angelo Photography

Rita Russo hotography Antonio Pedone Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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La parte più suggestiva è sicuramente l’Emiciclo della Venere. Si tratta di una serie di gallerie e grotte realizzate staccando da vere grotte carsiche la roccia e attaccandola a delle arcate realizzate appositamente.

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Sandro D'Angelo Photography

Lo scopo di tutto ciò era far “immergere” l’ospite nel mito della Venere al bagno, Venere che è accompagnata dalle ninfe delle acque. Al centro dell’emiciclo c’è quindi la statua di Venere e, alle sue spalle, vi è l’unica galleria finestrata che si rivolge all’esterno della Villa, detta “Grottone”. Dall’esterno tuttavia si vede solamente la sagoma sinuosa della Venere che viene bagnata, tant’è che è stata soprannominata dai lainatesi la “Vegia Tuntona” (vecchia tentatrice). Il Grottone invece è stato aperto nel ‘700 per illuminare l’Emiciclo e, solo in seguito, è stato poi decorato ispirandosi a elementi naturali, sempre sfruttando la tecnica del mosaico.

Manuel Monaco Photography

Sandro D'Angelo Photography

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La visita guidata termina nel giardino, davanti alla fontana Galatea, nel punto di intersezione tra l’asse principale del complesso e l’asse stradario dei viali che conducevano ai possedimenti della famiglia. La vasca è in marmo di Carrara (la balaustra è invece in marmo rosa). Al bacino centrale si accede grazie alla presenza di quattro scalinate su cui sono adagiate le statue di coppie di ninfe (Flora e Pomona, Imeneo ed Euterpe, il Sonno e il Silenzio) e due divinità campestri. I putti sorreggono gli stemmi delle famiglie Borromeo, Visconti, Arese e Litta. Dal bacino emergono due tritoni e una sirena avvolti da un serpente marino intenti a sorreggere una conchiglia su cui vi sono la ninfa Galatea e Cupido. Ma non è tutto: è ancora possibile visitare il giardino all’italiana con la limonaia e rilassarsi nel parco pubblico (accessibile liberamente).

Desideriamo ringraziare l’Associazione Amici di Villa Litta per averci permesso di visitare la VIlla e per averci guidato alla scoperta del ninfeo. Ringraziamo anche il signor Giuseppe Venuti per la disponibilità e gli accrediti forniti. Per ulteriori informazioni si consiglia di visitare il sito ufficiale: www.villalittalainate.it Biglietteria e ingresso Largo Vittorio Veneto, 12 - 20020 Lainate (MI) Telefono: + 39 02 9374282

Sandro D'Angelo Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

Manuel Monaco Photography


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Sara Mangia Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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la Stonehenge svedese A cura di Remo Turello

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Per chi ama i luoghi suggestivi e dal grande fascino, è d’obbligo visitare almeno una volta nella vita Ales Stenar (le Pietre di Ale), nel sud della Svezia. Si tratta di un complesso megalitico costruito su di un promontorio che si affaccia direttamente sul Mar Baltico. Il verde dei prati, l’azzurro del cielo e le pietre che li separano formano un panorama indimenticabile, e il fatto che il luogo sia ancora poco affollato dai turisti non fa che accrescerne la bellezza. Ma, di cosa si tratta? Come per tutti i siti simili, non sono ben chiari né l’origine né il significato di questo luogo. Si tratta di 59 grandi massi di arenaria dal peso che arriva fino a 1,8 tonnellate, con una disposizione che ricorda una barca, lunga ben 67 metri. Le pietre non sono tutte uguali, ma sono di forme e dimensioni differenti: quelle poste verso la prua giungono a superare i tre metri, mentre quelle a poppa sono un po’ più basse e misurano fino a due metri e mezzo. Infine, le due pietre poste agli opposti sono le più alte, a evidenziare gli estremi della nave.

Remo Turello Photography

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Remo Turello Photography

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Una delle prime descrizioni di questo sito risale al 1624, quando venne usato per la prima volta il nome di Ales Stenar (Als Stene), anche se si trovano riferimenti ad esso agli inizi del 1500, in una lista delle terre possedute dalla diocesi di Lund. Solo nel 1919, però, vennero effettuati i primi lavori di restauro. Nel 1989, invece, iniziarono gli scavi per studiare scientificamente il luogo e cercare di darne una datazione. Durante questi lavori, venne ritrovata una pentola di creta decorata, sepolta all’interno del cerchio. Il suo contenuto era formato da oggetti provenienti da epoche differenti, ma anche da ossa umane e ceneri. Usando la datazione al carbonio-14 gli studiosi riuscirono a stabilire che alcuni resti risalivano al periodo tra il 330 e il 540 d.C.; altri invece, come un pezzo di cibo carbonizzato, risalivano al periodo successivo, tra 540 e 650 d.C.. La maggior parte dei reperti ha fatto quindi pensare che questo sito fosse stato edificato in un periodo intorno al 600 d.C., ma su un’area già destinata a luogo funebre in periodi precedenti. Infatti, uno dei campioni ritrovati risaliva al 3500 a.C. circa. Queste scoperte non hanno permesso di comprendere a pieno il significato del luogo. Il nome forse deriva dal capo dei vichinghi Ale o Ales il Forte, che si riteneva fosse sepolto proprio lì. Secondo altre teorie si trattava di un luogo di culto dei vichinghi, costruito per ricordare e onorare i caduti in mare, cosa che spiegherebbe la forma allungata che richiama quella di una nave. Infine, altri studiosi ritengono che la posizione delle pietre sia legata in qualche modo alle ore del giorno o ai giorni dell’anno. Non c’è nulla di certo in tutte queste teorie, sembra solo che la posizione delle due pietre agli estremi abbia un vero significato. Infatti, la pietra di prua e quella di poppa indicano rispettivamente la posizione in cui il sole tramonta durante il solstizio d’estate e quella in cui sorge durante il solstizio d’inverno.

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Altri luoghi simili si trovano sparsi un po’ per tutta la Svezia; navi di pietra furono innalzate dai vichinghi nel periodo compreso tra l’800 e il 1050 d.C.. Monumenti come questi vennero costruiti anche durante la prima età del bronzo, all’incirca tra il 1100 e il 400 a.C., ma essi avevano forme leggermente differenti. Probabilmente, sia i siti di un periodo che quelli dell’altro erano luoghi di sepoltura e di culto, ma non si sa ancora nulla di certo; forse grazie a futuri studi e indagini sarà possibile scoprire qualcosa di più su questi luoghi così ricchi di mistero. Tralasciando queste congetture, rimane comunque il fascino di un posto bello e intrigante, posizionato su una altura che si affaccia sul mare. La tranquillità e la pace che si sentono tutto intorno creano un’atmosfera sospesa nel tempo. Anche le greggi di pecore che pascolano nei prati intorno al promontorio aumentano questa sensazione, permettendo di fare un vero ‘viaggio nel passato’ in pochi passi. Infine, il fatto che non ci siano mezzi a motore che possano percorrere il sentiero che dall’ultimo paese porta al sito, non fa che migliorare la situazione e trasportarci perfettamente al tempo dei vichinghi.

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Per raggiungere la collina su cui sorge il complesso di Ales Stenar si parte dal piccolo paese di Kaseberga. Si tratta di un pittoresco villaggio di pescatori, costruito a poca distanza dal mare. Da qui si diramano alcuni sentieri che, oltre a condurre in poco al promontorio, permettono di visitare al meglio i dintorni. È una zona di grandi attrattive: le basse colline che si affacciano sul mar Baltico sono coperte da verdi prati, percorsi più da placide pecore che da umani.

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Spesso, dietro ad una svolta in un sentiero e alla fine di una salita, si scoprono scenari inaspettati: campi di zucche che colorano i prati, variopinte vele da parapendio che planano nel cielo, portate dalla brezza sempre presente, navi che solcano il mare all’orizzonte dirette verso chissà quale destinazione, e le immancabili bandiere gialle e blu che sventolano al vento.

Remo Turello Photography

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Sempre percorrendo uno di questi piacevoli sentieri si raggiunge una discesa che porta a un piccolo molo. Tavoli e panchine di legno permettono già da lì di godere della bellezza del posto, ma scendendo se ne può apprezzare anche la vita. Come nella vicina Kaseberga, le costruzioni sono in legno, ben curate e decorate. Si possono trovare locali in cui mangiare il pesce appena pescato, ma anche negozietti di prodotti dell’artigianato locale: un ottimo modo per premiarsi dopo aver passato la giornata passeggiando lungo le spiagge e i sentieri che seguono il bordo del mare. Colline, spiagge e pace sono caratteristiche di tutta la zona, non solo dei dintorni di Kaseberga. A pochi chilometri di distanza si trova la cittadina di Ystad. Ci troviamo in Scania, una delle regioni del sud della Svezia, che, fino a pochi secoli fa, faceva in realtà parte della Danimarca: solo in seguito al trattato di Roskilde del 1658 questa zona passò da uno stato all’altro. Si trattava infatti di una terra molto contesa, essendo una delle regioni agricole più produttive di tutto il Nord Europa. Inoltre, dista davvero poco da Copenaghen: attraversando il ponte di Oresund, il più lungo ponte strallato d’Europa, si passa dalla capitale della Danimarca a Malmo, una delle principali città della Scania. Da lì, in un’oretta di viaggio in macchina, si raggiunge tranquillamente Kaseberga. È possibile raggiungere il Sud della Svezia anche prendendo un traghetto dal nord della Germania e sbarcando a Trelleborg. In entrambi i casi, durante il viaggio è possibile ammirare gli splendidi scenari di questa regione, prima di giungere alla perla rappresentata da Ales Stenar.

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Remo Turello Photography


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Per approfondire e capire meglio cosa si nasconde dietro questi luoghi così misteriosi, giunti fino a noi da epoche molto lontane, abbiamo posto alcune domande al professor Massimo Centini, esperto docente di antropologia culturale.

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Professore, ci può spiegare cosa sono i complessi megalitici? I megaliti, come dice il nome, sono pietre molto grandi che possono essere posizionate sole o raggruppate in insiemi in modo da formare delle strutture o monumenti che risalgono al tempo preistorico. In base al loro posizionamento si possono dividere in gruppi diversi.

Quali sono le principali tipologie che sono giunte fino a noi? Tra le più importanti possiamo sicuramente ricordare i menhir, i dolmen e i cromlech.

Iniziamo allora dai menhir. Sono una delle forme di megaliti più conosciute, il cui nome deriva dal bretone men, pietra, e hir, lunga. In genere si identificano come un monolito infisso nel suolo con dimensioni varie e di forma tendente al parallelepipedo. I menhir possono essere isolati o disposti in allineamenti o circoli. Si tratta di strutture che sembrerebbero ricordare gli obelischi, ovviamente più rozzi e privi di lavorazione, e sono considerate le realizzazioni che sembrerebbero aver preceduto la costruzione dei dolmen.

Anche i dolmen sono molto famosi, forse tra i più iconici monumenti megalitici. Sì, esatto. Anche il termine dolmen deriva dal bretone dol, tavola, e men pietra, ed è costituito da una lastra di pietra orizzontale posta su altre verticali infisse nel terreno: si forma così una struttura simile ad una camera che veniva utilizzata come sito per le inumazioni. Si tratta senza dubbio dell’esempio più emblematico di megalitismo ed è divenuto una sorta di “icona” utilizzata per contrassegnare, anche in modo fantastico e senza riferimenti storici, la scenografia in cui si svolsero le cerimonie nel periodo più recente della preistoria. Dalle ricostruzioni romantiche con improbabili druidi, sacrifici e culti inventati, fino al mondo di Asterix, l’effettiva dimensione scientifica del dolmen risulta spesso completamente ridisegnata sulla base del mito e della leggenda.

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ALES STENAR

E infine c’è il cromlech. Il cromlech è un complesso, il cui nome deriva da crom, curva e lech, pietra, ed è costituito da una serie di pietre infisse nel terreno disposte a circolo; in Inghilterra troviamo la definizione stones circles, cerchio di pietre.

La famosa Stonehenge. È il cromlech conosciuto più vasto al mondo; è costituito un complesso che misura circa centomila metri quadrati.

Cos’è successo di questi luoghi col passare dei secoli, quando hanno perso le loro funzioni originali?

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In genere, all’interno dei cerchi di pietra rimasti in piedi in epoca storica, in particolare dopo l’affermazione del Cristianesimo, la tradizione popolare ha posto tutta una serie di figure leggendarie. Possiamo dire che per certi aspetti queste storie hanno dato una nuova vita a questi misteriosi complessi litici, che forse altrimenti sarebbero andati dimenticati o distrutti.

Ora passiamo più nello specifico al nostro soggetto: Ales Stenar. Da quello che ci ha detto possiamo affermare si tratti di un cromlech, non dalla forma circolare come Stonehenge, ma più allungata a ricordare una nave. Esistono altri luoghi simili? Sì, esistono altri complessi simili, soprattutto nel sud della Svezia. I più rappresentativi in tal senso si trovano nella grande isola di Glotland, dove sono numerose le “tombe a nave”. Si tratta di costruzioni simboliche realizzate con pietre erette che descrivono la sagoma di una nave con la prua alta e i fianchi inclinati. In pratica un modello che rimanda alla nave vichinga a cui i costruttori delle imbarcazioni di pietra si dovettero quasi certamente ispirare. Il loro fascino è indubbio: secondo alcuni archeologi le navi di pietra rappresentano una delle testimonianze più emblematiche della tradizione del popolo vichingo che ebbe nella nave non solo un mezzo di trasporto fondamentale, ma anche un elemento simbolico determinante presente in numerose manifestazioni della propria cultura. Solo su quest’isola si possono trovare circa trecentocinquanta complessi a forma di nave, un vero e proprio “cimitero di navi” di pietra.

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Come ci diceva prima, luoghi come questi sono ricchi di leggende e personaggi fantastici. Ce ne può raccontare qualcuna che riguardi quest’isola? Secondo Giordane, storico del VI secolo, Gotland era la terra dei Goti: da quella grande isola giunse una delle popolazioni barbariche più importanti che divise l’Europa in tanti regni. Secondo la tradizione locale, il primo uomo a calcare la terra di quest’isola fu un certo Tjelvar, che ebbe la forza e l’intelligenza di combattere gli spiriti malvagi stanziati in quei luoghi. Infatti, i demoni avevano l’abitudine di far inabissare l’isola al tramonto e farla riemergere dalle acque al mattino: Tjelvar frantumò l’incantesimo accendendo un grande fuoco che per tutta una notte illuminò l’isola a giorno. Da allora quelle terre non furono più travolte dalla magia degli spiriti malvagi e restarono per sempre sulla superficie dell’acqua.

Molto suggestiva. Ma, a parte gli aspetti leggendari, quale poteva essere il significato di questi complessi a forma di nave? Remo Turello Photography

Le navi di pietra costituiscono la testimonianza della tradizione rituale vichinga secondo la quale le anime dei morti dovevano intraprendere il loro viaggio verso l’aldilà servendosi di un’imbarcazione. Significativamente le imbarcazioni realizzate con pietre infisse, hanno alcuni menhir di maggiori dimensioni ai vertici per rappresentare la prua e la poppa, come appare anche nelle incisioni rupestri scandinave raffiguranti le navi vichinghe.

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Un intreccio tra storia, cultura e tradizioni popolari davvero affascinanti che vale tanto per le “navi” come Ales Stenar quanto per gli altri complessi megalitici. Sì, con l'affermarsi del Cristianesimo molte espressioni del culto delle pietre furono demonizzate e la loro eco cadde nel dedalo del folklore. E così un dolmen divenne la tavola per il sabba, un menhir la pietra lanciata da Ercole nella sua lotta contro i giganti, ecc. In genere quindi, i massi con forma anomala furono posti in relazione al soprannaturale, entrando a far parte di un complesso simbolico vasto e diffuso. Se entriamo nel vivo nella valutazione antropologica, atta a stabilire le cause che portarono al posizionamento privilegiato di un certo masso prima nella tradizione mitico-religiosa precristiana e in seguito nel folklore, ci rendiamo conto dell'importanza svolta anche dal contesto geomorfologico del luogo. Così va considerato, oltre all'aspetto fisico dell'ambiente, il posizionamento del masso rispetto ai più antichi stanziamenti abitativi, la sua eco nella religiosità popolare e nella tradizione leggendaria, le oggettive tracce lasciate dalla cristianizzazione e le attuali credenze ancora vive intorno alla testimonianza litica anomala.

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Ci sarebbero quindi molti aspetti diversi da considerare e analizzare per cercare di comprendere il vero significato di complessi megalitici come quello di Ales Stenar. E anche così non è detto che riusciremo a scoprirli, tutto ciò che ci rimane si perde nelle credenze popolari che riguardano quei luoghi.

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Grazie professor Centini per tutto quello che ci ha raccontato. Sicuramente ora sappiamo qualcosa di più riguardo ad Ales Stenar e ai complessi simili, anche se forse, l’unico modo sicuro per distinguere le leggende dalla realtà sarebbe quello di poter fare un viaggio a ritroso nel tempo.

In genere queste credenze sorgono sulla base di un'ancestrale memoria pagana, che attraverso strade diverse è riuscita a non perire totalmente, entrando a far parte del patrimonio folklorico religioso popolare. Un’ultima traccia di ciò che era in origine il significato vero di quei complessi.

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LEGNI DI MARE

È affascinante il contrasto tra lo scenario estivo e quello invernale che si nota passeggiando sulla spiaggia quando è terminata la stagione dei bagni, le giornate si sono accorciate e tutt’intorno si diffonde la luce caratteristica degli ultimi giorni d’autunno. Proprio in questo periodo ti colpisce la differenza tra lo scenario estivo, che tutti ben conosciamo, e quello invernale, perché ora, lì dove il mare abbraccia la terra, incontri i doni lasciati dalle mareggiate noti come

A cura di Giacomo Bertini

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Di questi non conosciamo la provenienza né la loro storia, ma solo in quel particolare momento accendono la nostra fantasia. In autunno il venir meno dello sfruttamento commerciale della spiaggia che caratterizza la stagione estiva lascia spazio alla creatività e alla libertà d’espressione, ed ecco che molte persone, utilizzando quei legni creano strutture intrecciate di vari tipi di rami, che assomigliano a piccoli rifugi rivolti verso il mare, sfruttati, per soli pochi minuti, per l’ultimo saluto al sole che scompare oltre la linea dell’orizzonte. Osservando più da vicino queste strutture è bello notare che, nonostante la consapevolezza di una loro caducità, gli ideatori si sono adoperati con impegno, fantasia e rispetto, dimostrando che ogni tanto è necessario dare spazio all’atto creativo che ci dà l’entusiasmo di realizzare qualcosa di nuovo.

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Intorno a tali strutture si svolgono semplici momenti di vita con bambini che giocano e disegnano sulla sabbia, adulti che si rilassano ascoltando il suono delle onde, mentre il cielo diventa sempre più colorato, segnando con stupende variazioni cromatiche il passare delle ore. Si trovano anche tracce di ciò che rimane di un falò che, con molta probabilità, nelle ore notturne ha illuminato e riscaldato un gruppo di persone intente a trascorrere del tempo in compagnia, magari accompagnati dalla musica di una chitarra, e a godersi gli ultimi raggi del sole autunnale. Anche se l’accensione di fuochi è assolutamente vietata all’interno del parcò naturale di cui questo tratto di spiaggia fa parte; fa piacere pensare che sia stato fatto con la massima cautela e prestando attenzione a non porre in pericolo la flora e la fauna.

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In effetti la maggior parte delle persone si muove in questi luoghi con rispetto e con attenzione al fine di preservare il delicato equilibrio come, ad esempio la salvaguardia delle zone di nidificazione dei volatili. Coloro che percorrono la spiaggia con le sue pozzanghere lasciate dalle mareggiate e con le sue dune che danno al tutto un “movimento” sempre diverso, si soffermano a osservare gli innumerevoli “legni” lasciati ovunque dalle onde. Vi sono forme sempre uniche che sembrano tutte modellate dalla fantasia di un artista, piuttosto che dalla casuale erosione dell’acqua salmastra e della sabbia.

ricerca del pezzo più originale e dalle forme più strane, quasi a volerne leggere la storia e la provenienza. Quel legno che appare più segnato dal tempo trascorso in mare e sbiancato dalla salsedine nel modo più singolare possibile avrà una nuova vita, magari come oggetto di arredamento in qualche salotto. Quindi quel “legno di mare” potrà trasformarsi in una lampada, in una scultura o in un ripiano.

Molti di coloro che attraversano queste grandi distese disseminate di rottami di legno si soffermano a esaminarne la forma, la consistenza e lo stato di conservazione, alla

Rita Russo Photography

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Dietro a questa pratica vi è una diffusa attività artigianale che avvicina le persone anche ad altre spiagge più distanti, in altre località dove pure si possono trovare i legni marini, perché è solo grazie a questi pezzi unici che gli artigiani possono dare libero sfogo alla loro fantasia e ottenere un prodotto unico e ambito da tanti. In molti casi non si ritiene neppure necessario l’intervento dell’artista e si preferisce mantenere le forme originali nelle quali ognuno può scorgere ciò che la fantasia e l’immaginazione gli dettano, come l’enorme tronco che compare in una delle foto e che richiama l’idea di un grosso coccodrillo che riposa dopo un lauto pasto. Passeggiando su questa spiaggia si ha la sensazione di trovarsi in un luogo dal quale si può accedere attraverso

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un portale magico che in un tempo, e in uno spazio dove è possibile vivere nell’atmosfera rarefatta di epoche lontane dove l’individuo la libertà, la fantasia e la natura prevalgono sulla tecnologia e sulla razionalità di cui oggi rischiamo di ritrovarci schiavi. Il punto è che tra non molto tempo, quello che adesso viene visto come dono, con l’arrivo della stagione estiva, per qualcuno sarà visto come rifiuto ingombrante, da eliminare a tutti i costi, per dare spazio alle strutture prefabbricate di affollati stabilimenti pronti ad accogliere nel massimo comfort il chiassoso turismo balneare. Allora, molto probabilmente, le stesse persone che oggi hanno passeggiato lungo la battigia guidate da sensazioni, emozioni e sentimenti così intimi, saranno sopraffatti dalla frenesia dell’estate o dal desiderio di un pigro relax.


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Non è però solo la stagione estiva con l’esigenza di sfruttare la spiaggia a fini commerciali che trasforma quei legni in rifiuti da eliminare: può accadere, infatti, che qualche mareggiata più violenta del solito riversi sulla battigia una quantità tale di legname da trasformare radicalmente lo scenario e allora quei legni diventano eccessivi e ingombranti rifiuti da smaltire senza troppe remore. Se volessimo volare alto anche nel trattare questi piccoli argomenti potremmo citare qui la seguente riflessione di Hegel: secondo cui “Quando un fenomeno aumenta quantitativamente, oltre al cambiamento quantitativo ve ne è uno anche qualitativo del paesaggio”. Dove un legno depositato è un oggetto da valorizzare, una distesa di legni sono rifiuti da eliminare. In alcune di queste spiagge (va detto) la pulizia è svolta con metodi non invasivi, prestando attenzione a non rimuovere quei cumuli di legna utili a garantire la formazione delle dune che, a loro volta, forniscono protezione alla flora e alla fauna e possono contribuire a rallentare l’erosione della costa.

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Questa realtà che non risulta così scontata, se non per gli addetti ai lavori, suscita anche una riflessione su quante volte queste spiagge sono state attraversate o frequentate da qualcuno non propriamente rispettoso dell’ambiente e che non si è curato di mettere in atto quei piccoli accorgimenti che possono contribuire alla salvaguardia di una specie animale o, addirittura, dell’ecologia dell’ambiente stesso. Spesso non si valuta in tutta la sua utilità la presenza di questi pezzi di legno adagiati sulla sabbia, mentre dovremmo ricordare la loro importante funzione per quanto riguarda la formazione di quell’habitat ideale per molte specie animali come il Fratino euroasiatico, un uccello molto piccolo che vive in ambienti umidi, ormai a rischio di estinzione. Il Fratino li sfrutta per nidificare e proteggere le sue uova. Per questo motivo, vengono realizzate aree a protezione assoluta per impedire che vengano danneggiati i nidi. Solo riflettendo con attenzione su tutto ciò si percepisce l’utilità di questi legni di mare per garantire l’ecosistema che offre possibilità di vita a tutti gli abitanti della spiaggia, meritandosi l’appropriato appellativo di dono delle mareggiate. Una delle spiagge del litorale toscano, particolarmente ricca di “legni di mare” è quella di Marina di Vecchiano, posta sotto la tutela del Parco di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli. Un luogo praticamente incontaminato, che offre una visione di rara bellezza di dune sabbiose popolate da una flora tutta particolare, resistente ai venti marini e al salmastro e attraversate da passerelle di legno poco invasive che consentono di raggiungere la riva senza disturbare la fauna né danneggiare la flora.

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PRESEPE DI PENTEMA

A cura di Paolo Paolillo e Stefano Zec

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viaggio in un museo a grandezza naturale Il grande Luciano De Crescenzo definiva una parte degli esseri umani presepisti, come una delle conseguenze della suddivisione del globo in mondo d’amore e mondo di libertà. Nel primo c'erano proprio loro, volti a dedicare la loro vita al racconto del 25 dicembre. Amore è quello che ti viene in mente, scendendo la strada che porta all'imbocco del borgo di Pentema. Sì, perché si capisce fin da subìto che l'amore per chi vive questi territori e questa realtà è grande, perché bisogna avere cuore per portare avanti la tradizione e la vita rurale, a memoria di valori che diluiscono appena 40 km più a sud, quando incontri la grande città. Basta uno sguardo, un fulmineo colpo d'occhio e già si capisce con chi si avrà a che fare. Pochi fronzoli, dritto allo scopo, Pentema è una frazione di Torriglia, da cui dista 10 km, abbarbicata sul fianco del monte Prelà, nel Parco Naturale Regionale dell'Antola. Complice la giornata felice dal punto di vista meteorologico, il sole, che sta piano piano scendendo dietro i monti in lontananza, regala un panorama da mille e una notte, con le gobbe verdi che diventano come dune di sabbia nel deserto mediorientale.

Torriglia

Stefano Zec Photography

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Stefano Zec Photography

Neanche il tempo di parcheggiare che incontriamo le prime “scene”, come vengono chiamate le riproduzioni della vita attraverso manichini. Le statue a grandezza naturale sono state create dagli stessi volontari e da alcuni scultori, mentre gli arredamenti e gli oggetti sono il frutto di donazioni e ricerche nelle case dei pentemini. Sono tante, sono disseminate per tutto il borgo ed esprimono i concetti della vita del fine ‘800/primi '900: durezza, semplicità, organizzazione.

Dalla signora che amava venir su da valle a “bordo di un asino”, al fornaio dove le donne si recavano alla vigilia delle feste per cuocere le loro torte o canestrelli, fino alla figura del magnano, ossia colui che ridava verve alle pentole. Particolare la figura del “Medicone”, un erborista che dopo una vita avventurosa in America del Sud ed Inghilterra era tornato nel paese natio per offrire cure con rimedi naturali agli abitanti del borgo.

Il giro è stato meraviglioso, pieno di curiosità e personaggi con cui si potrebbero scrivere dei libri.

Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 74

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Stefano Zec Photography Giroinfoto Magazine nr. 74


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Insomma, un pomeriggio magico, in uno dei periodi più magici e suggestivi dell'anno. E chi meglio della voce diretta degli organizzatori dell'iniziativa, che quest'anno compie 27 anni, possono descrivere che cos'è il presepe di Pentema:

Si parla di qualcosa di piuttosto impegnativo, perché l'organizzazione, la preparazione e la realizzazione richiedono un sacco di tempo, visto che cerchiamo di curare al meglio questa ricostruzione del mondo contadino degli inizi del '900, quasi fino agli anni '50.

“È fondamentale, è importante per il paese, perché è l'evento più importante realizzato dal GRS Amici di Pentema (Gruppo Ricreativo Sportivo, l'associazione di promozione sociale del posto, ndr). Questo è un evento che ha reso il paese abbastanza famoso, infatti, il presepe di Pentema, dopo 27 anni, è una cosa che un po' tutti conoscono.

A noi sembra – come dire – importante e qualificante per il paese, che non è facile da raggiungere, anche se si trova solo a 40 km da Genova, e non è esattamente sulle principali vie del turismo. Pentema, però, racchiude la particolarità di questa zona, dato che un paese con questa struttura qui non si trova, con la chiesa al centro e un insieme di case attorno.

Stefano Zec Photography In più, la valle in sé ha tutto un valore paesaggistico, storico e culturale. Negli anni tra le due guerre, per esempio, era molto popolato e c'era una gran vita che si sviluppava, quella stessa vita che cerchiamo di sviluppare nelle “scene” del presepe: una vita certamente faticosa, dura, tanto che il rischio dello spopolamento esiste, dimostrato dal fatto che chi ha potuto se n'è andato.

Questa valle, poi, offre ancora un'opportunità di escursionismo e, anche, di turismo eco-sostenibile. Certo, ci fosse anche un lavoro di rete o il ripristino di vecchie mulattiere, ecco, sarebbe importante per la valle, da sempre un crocevia, un punto di passaggio per la Valbrevenna, per andare all'Antola, in Val Borbera, ripercorrendo la strada che portava i contadini a lavorare nelle risaie.

Per noi, al giorno d'oggi, è importante una riscoperta di un mondo così affascinante, sia per il paesaggio che per la ricchezza di storia e cultura che andiamo a rappresentare. Tutto ciò non è così differente dalla vita che si affronta tuttora in diverse parti del mondo, o come è stata in passato da tanti paesi d'Italia, come possono essere i Sassi di Matera o in Francia.

Ecco, uno sviluppo di questo concetto di escursionismo – a piedi, a cavallo – piuttosto che opportunità di pernottamento nelle varie località toccate, potrebbe essere un progetto interessante”.

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Il presepe di Pentema è unico perché...? “Il presepe di Pentema, pur non essendo l'unico, visto che ce ne sono a Biella, in Emilia e in altri posti, rimane lo stesso peculiare perché le ambientazioni che ci sono qui altrove non si trovano, perché il paese – grazie ad un piano regolatore che lo tutela – è identico a com'era cent'anni fa. Le case che vedete sono quelle autentiche di un tempo, mentre in altri posti le rappresentazioni avvengono in piccole cittadine, per esempio”.

Si può dire che il presepe sia il cuore pulsante e rappresenti il paese nelle sue caratteristiche? “Si, riflette il suo carattere e poi, comunque, Pentema è una piccola comunità tutt'ora e dove tutti si conoscono e, quindi, c'è una condivisione del progetto, del lavoro e della fatica. In altre parole, della vita che, in questi tempi, è faticosa e rara, da salvaguardare”.

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Com'è visto nel territorio il presepe? C'è collaborazione? “Allora, Pentema è una piccola frazione del comune di Torriglia. Penso che per il Comune, il presepe di Pentema sia certamente un valore, un fiore all'occhiello che mostra una realtà profondamente diversa da quella di Torriglia, che è più cittadina. Dal punto di vista paesaggistico Pentema è un ambiente diverso, più aspro e selvaggio. Qui c'è una cultura più di montagna, è campagna, ma siamo a 800 metri. Una volta è venuto un ragazzo inglese e ha detto che assomiglia molto a Minas Gerais (in Brasile e – se permettete - il paragone è molto calzante, ndr). C’è l’appoggio del Parco dell’Antola, del quale il borgo fa parte, ci sono rapporti positivi con il CAI, che organizza ogni anno (covid permettendo) la “Rigantoca” e con altre associazioni di escursionismo, c'è un buon rapporto con la Valbrevenna, collegata a Pentema da mulattiere tuttora percorribili.

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Quante persone coinvolge la realizzazione del presepe e quante persone sono rimaste a vivere a Pentema? “Nell'organizzazione, alcuni sono molto più coinvolti però, nel complesso, possiamo parlare di 25/30 persone e mezza, perché c'è anche Lia (la nipotina piccola, ndr). In paese, le persone che sono rimaste a vivere qui sono un po' pochette, direi meno di dieci, mentre per le feste c'è abbastanza gente. In estate, invece, ci saranno 100/150 persone”.

Ce ne andiamo che si è fatto buio, ma saremmo stati volentieri ancora un po' a sentire i racconti di Pentema, sorseggiando un vin brulè o mangiando due canestrelli tipici della zona. Forse, aspettare il Natale in luoghi come questi, assaporare il senso di festa che si è perso e che qui è ancora fulgido, la voglia di rallentare e godersi – con le persone care – momenti intimi, magari lasciandosi anche andare al bicchiere in più e qualche chiacchiera su tizio o caia, è il vero segreto di questi posti. O, forse, la loro sincera magia.

Un grazie a Mari, che ci ha spinto fin quassù e a Giulia, Luigi, Lia, preziose guide e a Franca e a Marialaura, narratrici di una delle tradizioni più longeve e suggestive di tutto il nostro meraviglioso territorio ligure. Il presepe sarà visitabile dal 24 dicembre al 9 gennaio orario: 10-17. Tempo di visita consigliato: 1 o 2 ore http://www.pentema.it/ https://www.facebook.com/pentema.grs contatti: grs.pentema@gmail.com

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Bonjour Paris Autore: Matteo Martini Champ de Mars - Parigi

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Mole riflessa Autore: Barbara Tonin Torino

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