N. 75 - 2022 | GENNAIO Gienneci Studios Editoriale. www.giroinfoto.com
N.75 - GENNAIO 2022
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BORGO MARCEDDÌ Band of Giroinfoto SAN GAUDENZIO NOVARA Band of Giroinfoto
PALAZZO DEI NORMANNI PALERMO Band of Giroinfoto
FIERA DEL TARTUFO ALBA Band of Giroinfoto Photo cover by Manuela Fa
WEL COME
75 www.giroinfoto.com GENNAIO 2022
LA REDAZIONE
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GIROINFOTO MAGAZINE
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Benvenuti nel mondo di
Giroinfoto magazine
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Novembre 2015, da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’outdoor, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così che Giroinfoto magazine© diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Un largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti.
Oggi Ed ecco entrati nel sesto anno di redazione di Giroinfoto Magazine. Le difficoltà degli ultimi due anni relative alla pessima gestione sociopolitica sono cresciute, intralciando il libero sfogo editoriale limitando le prerogative della rivista nello sviluppo culturale e turistico in aiuto dei territori. Nonostante tutto, e grazie all'impegno di tutti i nostri collaboratori, il progetto Giroinfoto.com non si arresta, anzi, combatte con tutte le proprie forze per pubblicare articoli utili alla valorizzazione dei territori bisognosi di visibilità. In questo periodo storico, dove tutto è ormai convertito al mondo digitale, risulta talvolta anacronistico volersi concentrare su un progetto cartaceo, sia per motivi di convenienza economica che di divulgazione. Da qui la decisione di mantenere il magazine con un format "tradizionale" per il mantenimento della qualità comunicativa, evolvendolo alla digitalizzazione favorendo la fruizione. In ultimo, vorrei ringraziare anche tutti i nostri lettori che crescono continuamente sostenendo il progetto Giroinfoto. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
Giroinfoto Magazine nr. 75
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Editoria
Ogni mese un numero on-line con le storie più incredibili raccontate dal nostro pianeta e dai nostri reporters.
Attività
Con Band of Giroinfoto, centinaia di reporters uniti dalla passione per la fotografia e il viaggio.
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Promozione
Sviluppiamo le realtà turistiche promuovendo il territorio, gli eventi e i prodotti legati ad esso.
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LA REDAZIONE
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LA RIVISTA DEI FOTONAUTI
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ANNO VIII n. 75
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20 Gennaio 2022 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDATTORE Mariangela Boni RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ Barbara Lamboley (Resp. generale) Adriana Oberto (Resp. gruppi) Barbara Tonin (Regione Piemonte) Monica Gotta (Regione Liguria) Manuel Monaco (Regione Lombardia) Gianmarco Marchesini (Regione Lazio) Isabella Bello (Regione Puglia) Rita Russo (Regione Sicilia) Giacomo Bertini (Regione Toscana) Bruno Pepoli (Regione Emilia Romagna) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Maddalena Bitelli Remo Turello Regione Piemonte Stefano Zec Regione Liguria Silvia Scaramella Regione Lombardia Laura Rossini Regione Lazio Rita Russo Regione Sicilia Giacomo Bertini Regione Toscana
giroinfoto TV LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios PER LA PUBBLICITÀ: Gienneci Studios, hello@giroinfoto.com DISTRIBUZIONE: Gratuita, su pubblicazione web on-line di Giroinfoto.com e link collegati.
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CONTATTI email: redazione@giroinfoto.com Informazioni su Giroinfoto.com: www.giroinfoto.com hello@giroinfoto.com Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale. Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www. gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.
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BORGO DI MARCEDDÌ Golfo di Oristano Band of Giroinfoto
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PALAZZO DEI NORMANNI Palermo Band of Giroinfoto
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MEMORIALE DELLA SHOAH Memo 4345 Band of Giroinfoto
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MUSEO DELLA FILIGRANA Campoligure Band of Giroinfoto PARCO ARCHEOLOGICO LILIBEO Marsala Band of Giroinfoto
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LE FOTOEMOZIONI
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MARCEDDÌ
Marceddì Il suggestivo borgo di Marceddì è una pittoresca frazione di pescatori del comune di Terralba, situato nella parte meridionale del golfo di Oristano. Esso si affaccia su un’ampia laguna con vista sul promontorio di Capo Frasca, dove un incantevole lungomare e un piccolo porticciolo, ricovero delle barche dei pescatori locali, fanno da cornice a un angolo di paradiso. Qui, il cielo, la terra e il mare fanno da padroni.
A cura di Manuela Fa
Manuela Fa Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Marceddì
Manuela Fa Photography
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Manuela Fa Photography Prima di giungere alle case, ci si immerge in una verde e lussureggiante pineta, che è il preludio all’affascinante spettacolo offerto dal piccolo e colorato agglomerato di abitazioni dei pescatori. Al centro del paese emerge lo splendore della chiesa della Madonna di Bonaria, patrona dei naviganti, costruita tra il 1927 e il 1930 su progetto dell’Ingegnere Remigio Sequi e con il contributo di tutta la popolazione. La chiesa ha un’unica navata con il tetto a capriate in legno; sulla destra si apre la piccola sacrestia, con un altare di marmo.
Nonostante le piccole dimensioni, la chiesa nasconde un forte fascino, e richiama numerosi visitatori. Oltre ad una bellezza suggestiva, la frazione di Marceddì nasconde anche una storia ricca di fascino ed interesse e le sue origini risalgono agli inizi del neolitico, attorno al IV millennio a.C.. Presumibilmente, il nome di Marceddì fu dato a questo luogo dal comandante romano Claudio Marcellino il quale, giunto sul posto nel 478 d.C. alla ricerca dell’ossidiana, dopo essere stato artefice di una vittoria sui Vandali, decise di stabilirsi nella zona.
Manuela Fa Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Marceddì
Manuela Fa Photography
La posizione strategica del villaggio, crocevia per l’estrazione e il trasporto dell’ossidiana dal vicino Monte Arci, conferì grande importanza al territorio e in particolare alla borgata. Le conferme arrivano anche dagli scavi archeologici: nel sito di Sa Punta de caserma, al di sotto della ex caserma della Guardia di Finanza, oggi ristrutturata, dove recenti scavi hanno portato alla luce tracce di un'officina ossidianica. Una teoria che è supportata anche dalla presenza della vicina NEAPOLIS, città fondata dai Cartaginesi e situata nella riva opposta della laguna (in direzione sud est), famosa per le sue terme, per l'acquedotto e descritta da Plinio il Vecchio come una delle città più importanti della Sardegna.
Si narra che il periodo romano fu florido e rigoglioso, come confermano la presenza delle numerose ville romane. Il periodo successivo fu più cupo e non si hanno importanti riscontri storici: con la caduta dell’Impero romano l’isola finì sotto il dominio dei Vandali e, successivamente, fu oggetto delle incursioni dei pirati barbareschi, i quali sfruttavano il canale naturale della valle per raggiungere il porto neapolitano e depredarlo. È ancora vivo il terribile ricordo dello sbarco dei pirati di Capitan Scacciadiavolo, che nel 1527 rasero al suolo Terralba e la vicina Arcidano.
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Nel tentativo di porre un freno a queste terribili incursioni, durante il periodo della dominazione spagnola il viceré Manuel de Moncada fece erigere un sistema di torri che comprende la Torre di Marceddì, la Torre Nuova (sulla riva opposta della laguna), la Torre di Flumentorgiu (conosciuta oggi come Torre dei corsari) e la Torre di S. Giovanni di Sinis (Capo San Marco). Questo sistema difensivo non fu efficace e non sortì gli effetti sperati: nel XIX secolo, a protezione del territorio, fu perciò necessario creare un presidio militare di istanza proprio a Marceddì.
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Dal punto di vista naturalistico il territorio è un vero e proprio contenitore di biodiversità. Gli stagni della zona (Marceddì, S. Giovanni e Corru S'Ittiri) fanno parte delle zone umide tutelate dalla Convenzione di Ramsar e sono incluse nel progetto Maristanis, un programma di cooperazione internazionale per la definizione di un modello di gestione integrata delle zone umide.
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Sull’intero territorio pende però una preoccupante “spada di Damocle”: un ulteriore innalzamento del livello del mare comporterebbe un danno inestimabile per le zone umide dell’oristanese che sarebbero tra le prime candidate a scomparire. Per questo motivo e necessario un monitoraggio costante a tutela del territorio. Ultimamente, proprio dalla Torre di Marceddì è partita la svolta ambientale. Il monumento, ristrutturato nel 2019 dal comune di Terralba, in collaborazione con la Fondazione Medsea, è diventato un osservatorio importantissimo per le zone umide circostanti.
Un simbolo che col passare degli anni sta acquisendo sempre maggiore rilevanza anche a livello nazionale. Non a caso, in occasione della decima edizione del censimento realizzato nel 2020 dal Fondo Ambientale Italiano, che chiedeva agli italiani di esprimersi sui luoghi a loro più cari e ai quali avrebbero voluto assicurare tutela e valorizzazione, la Torre di Marceddì si è posizionata al 167° posto nella classifica de “I luoghi del Cuore Fai”, grazie alle 2.596 preferenze espresse.
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Attualmente la Torre è gestita dalla proloco di Terralba e dalle associazioni locali come il FAI Gruppo Oristano e Afni Sardegna, ed è meta di visitatori occasionali, di turisti, di scolaresche e, soprattutto, di appassionati di natura. Oltre al fascino architettonico e storico, la Torre nasconde anche tante opportunità per gli appassionati di natura e avifauna. In cima si può godere di un paesaggio mozzafiato e ammirare il volo di fenicotteri, aironi di ogni specie, falchi di palude e falchi pescatore, fratini e germani, gabbiani comuni e roseo, solo per citarne alcuni, tutti abituali frequentatori delle pozze d'acqua salmastra che circondano la Torre di Marceddì.
Altra occasione da non perdere è la visita al "Giardino delle orchidee", all’interno del quale crescono spontaneamente numerose varietà di orchidee. Situato all’ingresso della borgata, il giardino è un’importante meta turistica e, grazie all’impegno delle associazioni locali nei mesi di aprile e maggio è possibile ammirarlo con delle visite guidate.
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Manuela Fa Photography Durante i mesi invernali la borgata va in letargo, per poi risvegliarsi nei mesi estivi. In particolare, nel mese di agosto è possibile assistere ai festeggiamenti in onore della Madonna di Bonaria; i riti religiosi iniziano il pomeriggio del venerdì successivo alla settimana di Ferragosto. Il simulacro, posizionato su una caratteristica barca di pescatori adagiata sul carrello di un trattore, viene accompagnato dalla cattedrale di San Pietro alla chiesetta di Marceddì, scortato dai fedeli a piedi e preceduto da un corteo di moto e motorini, che rumoreggiano all'impazzata. Il sabato la statua viene portata in processione per le vie della borgata, mentre la domenica si compie uno dei momenti più emozionanti di tutta la festa religiosa, la tradizionale processione in mare, preceduta dalla celebrazione della messa. La Santa viene posta su un peschereccio, adornato di bandierine, ed inizia la processione che l'accompagna per le vie dello stagno, seguita dai fedeli in barca, dall'alto un elicottero lancia una corona di fiori. La Madonna sosta a Marceddì per un'intera settimana e il sabato viene riaccompagnata, sempre dai fedeli, nella chiesa di San Pietro per dare così inizio ai festeggiamenti del cosiddetto “Ritorno della Santa”.
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In occasione delle festività della Madonna di Bonaria si svolge anche una importantissima sagra, molto apprezzata dai numerosissimi turisti della zona, che approfittano dell'ultimo scampolo d'estate per godere della magia della borgata, dei suoi profumi e dei sapori genuini dei piatti tipici della zona; tra questi spiccano i prelibati muggini di Marceddì, che vengono cucinati e serviti nei tradizionali punti di ristoro chiamati statzu. Il piccolo borgo di Marceddì è un luogo carico di fascino, meta ideale per fotografi e persone romantiche alla ricerca di emozioni uniche.
Manuela Fa Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Manuela Fa Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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FIERA DEL TARTUFO DI ALBA
A cura di Cinzia Carchedi e Laura Turco
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Alba
, adagiata nello splendido scenario naturale delle Langhe, di cui è la capitale storica ed economica, Alba è una città ricca di cultura, storia e tradizioni. E’ conosciuta per le sue bellezze, i suoi scorci curiosi, per le sue rinomate industrie e per i suoi prodotti gastronomici, tra cui il tartufo e il vino, venduti oggi in tutto il mondo. Rinnovato come ogni anno l'appuntamento ad Alba con la Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba, tra folklore, tradizione ed eventi enogastronomici: si perché la fiera è anche rievocazione storica e sbandieratori tra le vie della città, il Palio degli asini, degustazioni di vini. Da ogni parte del mondo arrivano migliaia di visitatori accolti, oltre che dal tartufo, da grandi vini, straordinari prodotti agricoli, la tradizione casearia, la nocciola Piemonte IGP e la bellezza della colline di Langhe, Roero e Monferrato.
Lorena Durante Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Sin dalle sue origini romane, Alba è sempre stata una città incline al commercio. I mercati hanno una storia che dura da secoli. Dapprima legati ad avvenimenti di carattere religioso, con la costituzione dello Statuto Albertino (1848) via via associate ad avvenimenti di carattere puramente civile. Con la prosperità portata dall’ Unità d’Italia il carattere commerciale della città si fece ancora più forte. Nei primi decenni del ‘900 Alba conobbe un notevole sviluppo, soprattutto dalla parte sinistra del Tanaro. Per questo motivo nel 1925 la Frazione Mussotto ottenne il consenso del comune di organizzare, agli inizi di settembre, una festa autunnale con rassegna zootecnica. Tre anni dopo, durante una riunione di tutte le principali città della provincia, anche Alba richiese e ottenne il permesso di istituire una sua festa autunnale. La prima fiera albese nacque come Festa Vendemmiale. Il tartufo entrò nella storia dell’Albese in modo del tutto naturale: triffole o tartuffoli figurano infatti fra le spese che le varie comunità sopportavano annualmente per ingraziarsi
Stefano Zec Photography Cinzia Carchedi Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
feudatari o conti o per rabbonire l’invasore di turno. Ma il tartufo trovava voce anche nei magri bilanci contadini. L'idea della Fiera del tartufo vide la sua nascita nel 1929 grazie a Giacomo Morra, albergatore e ristoratore(“incoronato" nel 1933 dal Times di Londra come il Re dei Tartufi); egli decise di valorizzare questa eccellenza riconoscendone il grande potenziale enogastronomico e turistico e utilizzando per la prima volta il nome “Tartufo d’Alba”. Il successo di questa iniziativa fu così grande che si scelse di trasformarla in una esposizione permanente, introducendo anche un premio per i migliori esemplari di tartufo. L’anno successivo si svolse in tardo autunno, un mese dopo la Fiera Vendemmiale, per favorire l’ottimale maturazione del fungo ipogeo. Fu sospesa negli anni della guerra per poi riprendere nel 1945. La Fiera Internazionale del Tartufo Bianco è senza dubbio l’evento principale d’Alba, un appuntamento imperdibile per gli amanti del pregiato fungo. I numerosi eventi organizzati in occasione della fiera si tengono nei mesi di ottobre e novembre.
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Quest'anno la 91ª edizione dedicata a TuberMagnatum Pico
dal 9 ottobre al 5 dicembre ha avuto come parola d'ordine la "sostenibilità":connessi con la natura – questo il tema per il 2021 e proprio per questo la fiera ha subito lo slittamento di una settimana seguendo la stagione tartufigena. La Fiera ha affrontato i temi della tutela ambientale, il cambiamento climatico e la sostenibilità. Nemici del tartufo le piogge acide, il disboscamento e i cambiamenti climatici: il tartufo bianco - a differenza del nero - non è coltivabile quindi importantissimo è mantenere il sottobosco intatto per mantenere la proliferazione di questa bontà indiscussa.
Cinzia Carchedi Photography
Laura Turco Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Il cuore della Fiera è senzʼaltro il Mercato Mondiale del Tartufo Bianco situato nel cortile della Maddalena, in prossimità di C.so Vittorio Emanuele - più conosciuto come “via Maestra” - oltre alla rassegna Albaqualità, allʼAlbaTruffle Show (con la possibilità di partecipare alle Analisi Sensoriali del Tartufo curate dai giudici del Centro Nazionale Studi Tartufo), alle Wine TastingExperiences dedicate ai grandi vini di Langhe, Monferrato e Roero e dai tanti gli chef internazionali che delizieranno i FoodiesMoments insieme ad ospiti, incontri e dibattiti. Nel più grande mercato tartuficolo al mondo ogni weekend è stato possibile acquistare esemplari certificati del prezioso fungo ipogeo, direttamente dalle mani dei trifolai. I tartufi acquistati in questo ambito sono numerati e certificati ogni mattina dai giudici. Gli acquirenti sono tutelati, in quanto se all'apertura il tartufo presentasse imperfezioni o marcescenza non visibili esternamente in caso di reclamo presso lo ‘Sportello del Consumatoreʼ entro le 48 il tartufo è sostituito. Purtroppo i tartufi venduti al di fuori di questo ambito non sono garantiti, correndo il rischio di incappare in commercianti poco onesti. La Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba applica un rigoroso protocollo di selezione del prodotto fresco in vendita: annualmente il Comune di Alba nomina una commissione composta da esperti che redige un regolamento per normare la vendita del Tartufo a cui tutti i venditori presenti alla Fiera, sia trifolai come commercianti, devono attenersi. Cinzia Carchedi Photography
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I giudici della Commissione Qualità eseguono giornalmente un'analisi sensoriale accurata selezionando solo i prodotti idonei alla vendita che vengono valutati, pesati e contati.
di vetro, dotato di un coperchio in silicone alimentare che tramite un foro permette - secondo le norme di sicurezza - di sentire lʼaroma prima dellʼacquisto.
A garanzia del prodotto, la Commissione Qualità consegna appositi sacchetti numerati, da utilizzare obbligatoriamente per la vendita di ogni pezzo, e nella stessa qualità di quello dei tartufi che hanno superato il controllo. Questi specifici involucri, attraverso il codice identificativo, rendono possibile la tracciabilità del fornitore: i trifolai espongono l'oro bianco in apposite teche in vetro, disposti su quello che si chiama ‘il fazzoletto del Trifolaoʼ a quadrettoni bianchi blu e rosso rigorosamente del peso di 100 gr; il singolo tartufo è stato inserito in un apposito contenitore
Il prezzo del Tartufo Bianco d'Alba (Alba non indica la zona di raccolta ma la varietà di tartufo, senza dubbio il più prelibato, rinomato e costoso della sua categoria) varia di settimana in settimana in base alla sua reperibilità e l'andamento della stagione oltre alle quotazioni ufficiali del "Borsino" del Tartufo Bianco d'Alba. Quest'anno - a causa del caldo estivo e della siccità mediamente ha raggiunto il prezzo record di oltre 4.000 euro al chilo: la quantità è stata limitata ma ottima.
La Borsa del Tartufo
(una delle più famose quella dell'Acqualagna) ha stabilito che i prezzi, in base alle pezzature fossero: piccole (fino a 20 gr) € 2000/kg medie (fino a 50 gr) € 3200/kg grandi (oltre 50 gr) € 4000/kg
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Nella giornata del 14 novembre il prezzo si attestava intorno a € 5500/kg.
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Noi abbiamo approfondito - ringraziamo Pietro dellʼUfficio Stampa che ci ha invitati allʼesperienza - la conoscenza del pregiatissimo fungo ipogeo tramite le Analisi Sensoriali del Tartufo tenute da un esperto del Centro Nazionale Studi Tartufo che ci ha guidate alla scoperta dei segreti del Tartufo Bianco dʼAlba, tra degustazioni olfattive, test sensoriali e prove pratiche. Ci è stato spiegato come si sceglie un tartufo, come distinguere la qualità, come lo si conserva e come consumarlo al meglio per un giusto apprezzamento. Partiamo dalle origini: il tartufo è un fungo ipogeo (cioè che nasce e si sviluppa interamente sotto terra)e - come tutti i funghi - è privo di clorofilla e trae la sostanza organica per il
Cinzia Carchedi Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
suo sviluppo dalle piante arboree del sottobosco con le quali è in simbiosi: il tartufo assorbe le sostanze organiche della pianta, mentre la pianta riesce ad assorbire con più facilità dal terreno acqua, sali e mentali. Il tartufo si sviluppa sotto terra a una profondità tra i 5 e i 60 cm, la forma è generalmente globosa e la grandezza - a seconda delle condizioni climatiche - varia dalle dimensioni di una nocciola a quelle di un mandarino, fino a dimensioni eccezionalmente più grandi. A influenzare la grandezza il clima e il tipo di terreno.
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Diversamente dai funghi, i tartufi - essendo ipogei disperdono le spore per la riproduzione attraverso insetti e mammiferi che attratti dal forte odore a maturazione, se ne cibano diffondendo le spore stesse nel terreno attraverso le feci. Il tartufo bianco dʼAlba non è coltivabile, quindi fondamentale è il sottobosco e le piante vicino alle quali cresce. Il terreno deve essere preferibilmente marnosocalcareo, povero di fosforo e di azoto ma ricco di potassio, al di sotto dei 700 m slm con umidità discreta anche in estate, ma privo di ristagni pertanto un pò in pendenza. Le piante favorevoli allo sviluppo del ‘tuberoʼ sono le querce, i pioppi, i salici, il carpino e il nocciolo. La cerca viene effettuata dal “trifolao” munito di tesserino (date ufficiali per la raccolta dal 21 settembre al 31 gennaio) e con lʼaiuto di cane addestrato (razza lagotto) per la ricerca: il cane, puntata la trifola, indirizza il cercatore che delicatamente la estrae per mezzo di uno zappino, avendo cura di rimettere a posto il terreno per favorire il crearsi di un nuovo frutto. Il tartufo matura da settembre a gennaio e necessita di piogge frequenti in primavera e estate e circa 3 mesi di maturazione. Ogni anno il 20 settembre si tiene il Capodanno del Tartufo – celebrato a Moncalvo, nellʼAstigiano, con lʼevento “TuberPrimaeNoctis”, in cui dopo il fermo biologico, a mezzanotte si brinda con ottime bollicine Alta Langa Docg il via ufficiale alla cerca del Tartufo Bianco in Piemonte.
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PALAZZO DEI NORMANNI
A cura di Rita Russo La città di Palermo, scrigno di tesori d’inestimabile valore storico e artistico, non poteva non essere annoverata tra i siti riconosciuti come patrimonio dell’umanità. Nel 2015, infatti, il Comitato del Patrimonio Mondiale Unesco, riunito a Bonn, ha inserito la città nella prestigiosa World Heritage List per il suo Percorso Arabo Normanno, che comprende otto strutture, tra religiose e civili, che risalgono al Regno dei Normanni nell’isola. Queste sono: Palazzo Reale, Cappella Palatina, San Giovanni degli Eremiti, Chiesa della Martorana, San Cataldo, la Zisa, il Ponte dell’Ammiraglio e la Cattedrale di Palermo, a cui si aggiungono quelle di Monreale e di Cefalù.
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Il sincretismo arabo-normanno ebbe un forte impatto nel medioevo, contribuendo significativamente alla formazione di una koinè mediterranea, condizione fondamentale per lo sviluppo della civiltà mediterraneoeuropea moderna.»
La dichiarazione di eccezionale valore universale, tratta dal “Dossier di Candidatura per l’iscrizione nella World Heritage List” del sito seriale “Palermo AraboNormanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale”, cita testualmente: «L’insieme degli edifici costituenti il sito di “Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale” rappresenta un esempio materiale di convivenza, interazione e interscambio tra diverse componenti culturali di provenienza storica e geografica eterogenea. Tale sincretismo ha generato un originale stile architettonico e artistico, di eccezionale valore universale, in cui sono mirabilmente fusi elementi bizantini, islamici e latini, capace di volta in volta di prodursi in combinazioni uniche, di eccelso valore artistico e straordinariamente unitarie.
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Dunque l’elezione di Palermo, ultima solo in termini di tempo, porta a sette il numero dei siti Unesco in Sicilia che, per questo motivo, è la regione d’Italia più ricca per onorificenze.
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PORTA NUOVA Rita Russo Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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PALAZZO DEI NORMANNI
La nostra visita al Percorso Arabo Normanno inizia dal Palazzo Reale, meglio conosciuto come Palazzo dei Normanni, la più antica residenza reale in Europa. Situato al margine occidentale del centro storico palermitano, idealmente entro le mura che delimitavano la città antica, il Palazzo Reale, che sorge sui resti dei primi insediamenti punici di Palermo, è raggiungibile percorrendo Corso Vittorio Emanuele fino a Porta Nuova, che ne delimita il prospetto nord.
dall’aeroporto Falcone Borsellino, servendosi Metropolitana, fermata Palazzo Reale - Orléans.
Al palazzo si accede attraverso un grande portale che si affaccia su Piazza del Parlamento, sulla quale aggetta il prospetto est di quest’ultimo. Questo grande piazzale di accesso al palazzo si fonde con la vicina Piazza Vittoria e con l’antistante parco di Villa Bonanno, mentre l’accesso carraio all’edificio si apre sul prospetto ovest, ubicato in corrispondenza di Piazza Indipendenza.
Il Palazzo dei Normanni ospita, al suo interno, oltre la Cappella Palatina, anche l’Osservatorio Astronomico di Palermo. Non tutte le parti del complesso monumentale sono aperte al pubblico. Attualmente, infatti, è possibile visitare soltanto gli Appartamenti Reali e la Cappella Palatina, solo nei giorni in cui non si svolgono attività parlamentari, ossia dal venerdì al lunedì. Negli altri giorni resta visitabile la Cappella Palatina, ad eccezione di quando vi si celebrano funzioni religiose.
Oltre che a piedi, passeggiando per il centro storico, questo monumento è facilmente raggiungibile anche direttamente
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Questo complesso monumentale, che da secoli ha svolto sempre una funzione politico amministrativa, è oggi la sede istituzionale del Parlamento siciliano, l’ARS (Assemblea Regionale Siciliana), che occupa l’ala est dell’edificio; l’ala ovest, di collegamento con Porta Nuova, è assegnata all’Esercito Italiano.
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La storia di questo splendido palazzo inizia tra l’VIII ed il V secolo a.C., come suggeriscono i resti dei primi insediamenti fortificati di origine fenicio - punici, inglobati nelle fondamenta del maestoso edificio ed ancora visibili nei suoi sotterranei. Ma la prima costruzione con funzione di residenza reale, denominata al Qasr o Kasr ( che in arabo significa dimora degli emiri) è attribuita alla dominazione araba, che durò dal 827 al 1091.
dei suoi uffici governativi. Con la caduta degli Svevi il Regno di Sicilia fu assoggettato al francese Carlo I d’Angiò, che fu incoronato re nel 1266.
Successivamente i Normanni, che sconfissero gli arabi sottraendo i loro due centri di potere in città, costituiti dalle due medine (il Kasr a monte e la Kalsa a mare), ampliarono e trasformarono il Castello e ne fecero il centro nevralgico della loro monarchia, realizzando quattro torri collegate tra loro da portici e giardini. In particolare fu Ruggero II di Sicilia a realizzare, nel 1132, la parte mediana del palazzo. All’interno di quest’ultimo fece edificare, immediatamente al di sopra di una chiesa preesistente (chiesa di Santa Maria delle Grazie), la magnifica Cappella dedicata ai Santi Pietro e Paolo, consacrata nel 1140, detta “Palatina” (cioè “del Palazzo”), insieme all’ampio appartamento che oggi prende il suo nome.
La ribellione contro gli Angioini, che ebbe inizio a Palermo e si diffuse in tutta la Sicilia, durò fino al 1372, anno in cui fu firmato il “trattato di Avignone”. A causa di questo lungo periodo di guerra, conosciuto come Guerre del Vespro, caduta ogni protezione, il palazzo fu depredato dal popolo.
Così l’originario Palazzo degli Emiri divenne il Palazzo dei Normanni, centro di cultura e arte europea nel periodo tra il XII e XIII secolo. Al suo interno, infatti, i regnanti radunarono i più grandi scienziati, poeti, musicisti e pittori del tempo, che crearono tesori di ogni tipo, di molti dei quali oggi è possibile apprezzare la magnificenza. Con l’arrivo degli Svevi e in particolare sotto il
regno di Federico II, duca di Svevia, conosciuto con l’appellativo di “stupor mundi” per la sua affascinante e poliedrica personalità e per la sua grande cultura, nel palazzo furono mantenute le attività di governo, mentre quelle culturali furono distaccate a Palazzo della Favara, più conosciuto come Castello di Maredolce, che si trova oggi nel quartiere Brancaccio ed è stato da poco riaperto al pubblico. Il regno di Federico II fu, infatti, caratterizzato sia da una forte attività legislativa moralizzatrice, sia da un’attività di innovazione artistica e culturale. È infatti a questo re, apprezzabile letterato, che si deve la nascita della Scuola Poetica Siciliana, movimento letterario sorto presso la sua corte ed elogiato da Dante e dai suoi contemporanei. Dopo la morte di Federico II iniziò per il palazzo un periodo di decadenza in cui venne svuotato, via via,
Il suo regno durò fino al 1282, anno in cui ebbero inizio, il Lunedì di Pasqua, i “Vespri Siciliani”, ossia i moti di ribellione del popolo siciliano contro i dominatori francesi considerati come oppressori.
Dopo la cacciata degli Angioini, la dinastia aragonese che gli succedette nel Regno di Sicilia, preferì al Palazzo dei Normanni il Palazzo Steri come dimora reale, precedentemente confiscato per fellonia ai nobili Chiaramonte. Così, a partire dalla metà del 1300, il lento ma progressivo spopolamento del Castello - Palazzo, causò anche la decadenza fisica di quest’ultimo dovuta a crolli di parti dell’edificio. Tale decadenza determinò l’utilizzo di questa struttura e di quelle ad essa limitrofe come cave per l’estrazione di materiale edilizio per la costruzione di luoghi di culto o cimiteri. Nonostante la sua devastazione e la demolizione di alcune torri, però, il
palazzo reale non fu mai abbandonato completamente. Esso, infatti, pur mantenendo solo un ruolo difensivo, fu sede del tribunale dell’inquisizione dal 1513 al 1553. Fu proprio nella seconda metà del XVI secolo che il palazzo reale ritornò alla sua originale gloria, occupando un ruolo importante. In questo periodo, infatti, a seguito di complesse vicende dinastiche, il Regno di Sicilia passò nelle mani dei sovrani spagnoli e i Vicerè lo elessero a propria residenza, abbandonando il Palazzo Steri.
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Durante il loro avvicendamento, negli anni fu modificato radicalmente l’originario aspetto dell’edificio, tra demolizioni e nuove costruzioni, con le quali scomparirono buona parte delle originarie strutture medievali. Oltre al potenziamento del sistema difensivo della reggia, essi realizzarono opere di tipo residenziale al fine di conferire all’edificio il prestigio necessario a rappresentare la Corona, secondo i criteri architettonici del Rinascimento. Il Palazzo fu, così, già predisposto per ospitare i reali di Savoia, Vittorio Amedeo II e Anna Maria di Borbone d’Orleans, la cui cerimonia d’incoronazione avvenne nel 1713. Fu per l’incoronazione di Carlo III di Borbone, nel 1735, che il palazzo subì nuovi lavori di restauro e di abbellimento decorativo, soprattutto negli appartamenti reali. Inoltre, venute meno le esigenze difensive del palazzo, furono in parte ridotti alcuni dei bastioni, trasformati in giardini pensili, e demoliti quelli orientali per la realizzazione della piazza antistante l’ingresso. I lavori di ristrutturazione del palazzo continuarono anche sotto i Borboni delle due Sicilie, per adattare la struttura alla corte di Ferdinando III, che, nel
1806, fu costretto a rifugiarsi a Palermo a seguito della conquista di Napoli da parte dell’esercito francese di Napoleone Bonaparte. Ferdinando III vi visse fino al 1813, anno in cui rientrò definitivamente a Napoli. Da questo momento i lavori di ristrutturazione del palazzo continuarono per mano del Luogotenente Leopoldo Borbone, conte di Siracusa. Purtroppo, però, durante i moti rivoluzionari del 1848, furono abbattuti altri bastioni, la dimora reale fu saccheggiata dal popolo e vennero distrutti anche gran parte degli arredi. Dopo la guerra del 1860 -1861, che terminò con l’Unità d’Italia, il palazzo divenne proprietà dello Stato e fu assegnato al Comando dei Corpi dell’Esercito. In occasione dell’Expo Nazionale del 1891 - 1892 furono rinnovati gli arredi degli appartamenti reali. Da questo momento, il palazzo fu intensamente utilizzato sia come sede amministrativa (Soprintendenza ai monumenti), sia come sede culturale (Real accademia delle Scienze, Lettere e Arti, Biblioteca filosofica, Museo etnografico Pitrè, Museo Nazionale) e furono mantenuti ad uso reale alcuni appartamenti. Giroinfoto Magazine nr. 75
Nel 1921 il governo acquisì la proprietà del palazzo. Nonostante il suo intenso utilizzo, l’edificio fu oggetto di continue ristrutturazioni e negli anni ’40 del secolo scorso anche di saggi archeologici che misero in evidenza le preesistenze anteriori agli interventi arabi, insieme a tracce di alcune strutture medievali. Con l’autonomia della Sicilia, che, nel 1947 divenne regione a statuto speciale, il palazzo fu acquisito da quest’ultima che lo elesse a sede dell’Assemblea Regionale Siciliana, mantenuta fino ad oggi. Gli ultimi interventi sicurezza di alcune stati e
di ristrutturazione, restauro e messa in parti del complesso monumentale sono effettuati dal Genio Civile di Palermo dalla Soprintendenza beni culturali ed ambientali, in più riprese, dopo il 2002, anno in cui, a causa del forte evento sismico che coinvolse la città di Palermo, furono registrati ingenti danni al patrimonio storico edilizio della città. Palazzo dei Normanni non fece eccezione in questa occasione manifestando fenomeni di dissesto statico in più parti dell’edificio, tra le quali la Sala d’Ercole,
la Cappella Palatina e la Torre Pisana. In particolare, gli ultimi lavori di restauro, effettuati dal Genio Civile di Palermo su finanziamento del Dipartimento Regionale dei Beni Culturali, sono stati finiti prima del 2015, in tempo utile per consentire che il palazzo e la Cappella Palatina rientrassero nell’itinerario arabo normanno, patrimonio dell’umanità. Questi sono consistiti prevalentemente nel restauro dell’apparato decorativo di molte sale degli appartamenti reali, seriamente danneggiate dalle lesioni causate dall’evento sismico e in alcuni casi, nel rifacimento delle dotazioni impiantistiche di esse. L’articolazione e la complessità della struttura dell’edifico hanno reso difficili gli interventi di restauro e ristrutturazione che, di volta in volta, sono stati realizzati. Per tale motivo gli ultimi lavori sono stati il risultato di una sinergica collaborazione tecnico - scientifica tra Genio Civile, Dipartimento di Ingegneria Civile, Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali e Centro per il Restauro della Regione Sicilia.
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Quando si osserva il Palazzo dei Normanni dall’esterno, non è difficile notare come esso sia costituito da un aggregato di edifici di diverso carattere architettonico e differente volumetria, in quanto afferenti a diverse epoche storiche. Esso, in pianta, mostra una forma simile ad una forcella i cui bracci intersecano l’edificio della Cappella Palatina, dando origine a due grandi cortili. In particolare, quando si osserva il prospetto est dell’edificio, quello che si affaccia sulla grande Piazza del Parlamento (una volta adibita a parcheggio del palazzo, adesso solo area pedonale), si nota sulla sinistra un imponente corpo di fabbrica dai caratteri rinascimentali, sul quale spicca un grande portale, il Portale della Carra, fiancheggiato da due colonne su alte basi, sul timpano del quale è collocata una grossa aquila marmorea. Spostando verso destra lo sguardo, ci colpisce la presenza di un piccolo edificio nel quale si individuano già le caratteristiche medievali della struttura. Esso è la Torre Gioaria o Joharia, che ospitava gli appartamenti reali del XII secolo, altrimenti conosciuta come Torre del tesoro, perché conteneva ambienti resi preziosi da una dovizia di decorazioni, costituiti per lo più da mosaici. A tale edificio segue l’imponente Torre Pisana, sulla quale si può ammirare la facciata originale decorata con arcate strombate e cieche. Queste due torri di forma quadrangolare, coeve alla Cappella Palatina, sono le uniche rimaste delle quattro realizzate originariamente dai Normanni nel Medio Evo. Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Una volta entrati dentro l’edificio ed essere passati attraverso uno stretto corridoio in pietra che lascia immaginare la maestosità della struttura originaria, si apre davanti a noi uno dei due ampi cortili di cui il palazzo è dotato, il Cortile Maqueda, dal nome del Viceré che lo fece sistemare, interamente porticato e costituito da due ordini di logge, per un totale di 72 archi sostenuti da colonne. Dal patio di questo cortile si accede alle Sale del duca di Montalto, dal nome del Presidente del Regno, Luigi Moncada, duca di Montalto, che nel 1637 le ricavò trasformando l’antico deposito di munizioni in sala di udienze estive per il Parlamento siciliano, dotandole di numerose opere d’arte. Da questa sala, tramite una scala, si accede agli scavi sotterranei nei quali si può avere visione di una porzione di un tratto della cinta difensiva che in età punico-fenicia chiudeva l’antica Panormos. Sia le Sale del duca di Montalto, oggi sede di mostre ed esposizioni, sia i sotterranei non sono attualmente visitabili. Adriana Oberto Photography
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Il piano terra e la loggia del piano nobile sono collegati tra loro dallo Scalone d’onore, realizzato agli inizi del settecento. Il primo livello del loggiato del cortile Maqueda, ospita la Cappella Palatina; al secondo piano, attraversando il Corridoio Mattarella, ricco di opere d’arte, dal Piano Parlamentare è possibile vedere alcune sale degli Appartamenti Reali. Prima tra queste è la Sala d’Ercole o Sala Parlamentare, perché al suo interno, negli ultimi secoli, si è sempre riunito il Parlamento siciliano.
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Questa sala deve il nome al tema delle sue decorazioni. Sulle pareti, infatti, si possono ammirare le raffigurazioni di sei delle dodici fatiche di Ercole, dipinte a tempera nel 1799 dal pittore Giuseppe Velasco su committenza del re Ferdinando III di Borbone. Adriana Oberto Photography
Oggi è l’aula nella quale, dal 1947, si riuniscono i deputati dell’Assemblea Regionale Siciliana, i quali costituiscono l’organo legislativo della regione.
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La sala successiva, denominata Sala dei Vicerè, altrimenti nota come Transatlantico, è così chiamata perché ospita sulle sue pareti i ritratti di 21 tra Vicerè di Sicilia, luogotenenti e presidenti del regno Borbone di Sicilia e delle due Sicilie, che governarono tra il 1747 e il 1840, in rappresentanza del re che risiedeva a Napoli. Attualmente, la sala è priva dei ritratti perché oggetto di restauro. Il percorso continua con la Sala Pompeiana o delle dame o della Regina, una tra quelle oggetto dell’ultimo intervento di restauro che ha restituito al piccolo ambiente le splendide cromie originarie. Essa risale al periodo in cui Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa, fu luogotenente di Sicilia, dopo il ritorno a Napoli di Ferdinando III. Un ambiente raffinato nel quale, sulle pareti di colore verde tendente all’azzurro, spiccano decorazioni realizzate da Giuseppe Patania secondo i modelli pompeiani tipici del neoclassicismo meridionale. Si osservano alcune scene mitologiche nelle quali il tema di Eros e Venere è il soggetto cui si riferisce tutta la decorazione della sala. Sotto il soffitto si nota un fregio con puttini ludenti tra mascheroni retti da doppie colonne che racchiudono cornucopie, trofei di caccia e vasi con fiori. Tra gli arredi spicca il grande lampadario in bronzo dorato, con putti musicanti, in stile Luigi Filippo. La successiva Sala Gregorietti, dal nome del pittore palermitano che l’affrescò, è adibita a sala di lettura per i parlamentari.
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La sala seguente, denominata Sala Cinese, fu decorata dai fratelli Salvatore e Giovanni Patricolo, su incarico di Leopoldo di Borbone, secondo la moda, imperante presso quasi tutte le corti europee tra il XVIII e XIX secolo, ispirata alle mete orientali. In questo ambiente si tentò, attraverso la sua decorazione, di rievocare i fasti della Casina alla Cinese (più conosciuta come Palazzina cinese) sita all’interno del Parco della Favorita a Palermo. Sulle pareti della sala sono rappresentati, infatti, oltre a numerosi ideogrammi sugli architravi delle porte e delle finestre, anche vari personaggi in evidenti abiti cinesi, affacciati dietro la balconata di un loggiato immaginario con travi rosse che risaltano sul colore azzurro di sfondo, sul quale sono raffigurati paesaggi montani. I vivaci colori della sala sono stati ripristinati dal recente intervento di restauro. Attraversando piccoli ambienti, ricchi di arredi e tele di notevole pregio, si giunge alla Sala dei Venti, all’interno della Torre Gioaria o Joharia (dall’arabo jawhariyya, preziosa, ingioiellata).
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Questa suggestiva sala, le cui pareti prive di intonaco lasciano ammirare la pietra viva, presenta una pianta quadrata nella quale quattro colonne in marmo grigio supportano altrettanti archi di forma ogivale. Originariamente priva di copertura al fine di consentire all’aria di circolare, la sala deve il suo nome alla rosa dei venti presente al centro dell’attuale soffitto ligneo, fatto realizzare da Vittorio Amedeo di Savoia nel 1713, quando divenne re di Sicilia. All’interno di questa torre si trovavano la Zecca e il Tiraz, il laboratorio tessile per la manifattura di stoffe preziose. Qui furono realizzati capolavori come il manto di Ruggero e la corona di Costanza. Questa sala costituisce un vestibolo che mette in comunicazione diversi ambienti. Da essa, infatti, si entra sia nella magnifica Sala di Ruggero ad est, sia nella Sala di Federico a nord, ex studio e ambiente di rappresentanza del Presidente dell’ARS, oggi aperta al pubblico.
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La Sala di Ruggero o Sala dei Mosaici, cui si accede attraversando una porta ornata da una bordura decorata a mosaico, è la stanza dell’appartamento regio del XII secolo, voluto da Ruggero II d’Altavilla, di forma rettangolare con una volta a crociera sorretta da archi con colonne di marmo e capitelli in stile corinzio. Le pareti sono rivestite, fino all’altezza di 2 metri, da lastre di marmo chiaro bordate da cornici a motivi geometrici. La parte soprastante e la volta sono, invece, interamente decorate da sfavillanti mosaici bizantini “laici” (in quanto non furono realizzati per decorare gli interni di una chiesa) a sfondo dorato. Elementi fitomorfi, zoomorfi e antropomorfi, frequentemente raffigurati su tali mosaici, sono tipici emblemi allegorici del potere normanno. Lussureggiante vegetazione, scene di caccia, animali esotici e domestici, oltre a centauri e grifi, rievocano il concetto di giardino - paradiso di tradizione islamica. I mosaici, pur avendo un tema differente, sono coevi a quelli della Cappella Palatina, della chiesa della Martorana e del duomo di Monreale. Attigua alla Sala di Ruggero è la Cappella della Regina, un esempio di stile neogotico siciliano con decorazioni a stucco bianco e oro. La pala d’altare è un olio su tela raffigurante la Madonna con Gesù e San Giovanni, opera di Pasquale Sarullo.
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Dalla Sala dei Venti, attraversando un grande portale in marmo grigio di gusto rinascimentale, una breve scalinata immette nel corridoio dell’intercapedine della Torre Pisana che porta alla Sala di Federico. In particolare, questa torre, fatta edificare da Ruggero II con il contributo di maestranze pisane, da cui deriva il nome, è da considerare come il fulcro del potere normanno all’interno del Palazzo Reale e manifesto del potere politico dei sovrani nei confronti della città. Caratterizzata da una struttura a “doppia camicia” ispirata ai palazzi dell’Africa settentrionale, essa mostra una pianta quadrata e, al suo interno, la camera centrale dell’edificio alta più di 15 metri, con la sua grande finestra e l’oblò che la sormonta, è chiamata anche Sala del Trono, perché si suppone che al suo interno vi fosse collocato il trono dei sovrani d’Altavilla. Quest’ampia sala, che è oggi priva di decorazioni, mostra in alcuni punti solo tracce dei mosaici che con ogni probabilità ricoprivano interamente tutte le pareti. Durante il regno di Federico II, questa sala era luogo di riunione della Scuola Poetica Siciliana. Restituita da poco alla fruizione, al suo interno si possono ammirare due grandi stipi monetieri in legno ebanizzato, decorati con formelle in vetro dipinto con scene bibliche, tarsie in tartaruga e colonne tortili laccate di rosso, insieme ad un pregiato tavolo del secolo XVIII, il cui ripiano è costituito da una sezione trasversale di tronco d’albero pietrificato con bordo realizzato con pasta di ametista. Il piano poggia su un supporto ligneo con palmette e quattro teste d’ariete. Un intreccio di foglie di malva discende dalle gambe, la cui parte inferiore termina con foggia di zoccolo caprino. Il magnifico tavolo era parte degli arredi della sontuosa residenza borbonica della Villa Favorita di Portici, che insieme ad altri arredi provenienti da altre dimore reali napoletane, fu trasferito alla Casina Cinese nel Parco della Favorita durante la seconda permanenza dei Borboni a Palermo. Fu poi trasferito presso questo Palazzo Reale, dove oggi è possibile ammirarlo.
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Ancora pieni di tanta bellezza, prima di terminare questo splendido percorso attraverso millenni di arte e storia, non ci resta che visitare i giardini Reali che, dopo il loro recente recupero, sono stati riaperti al pubblico e si trovano sul lato ovest del complesso monumentale, all’interno del Bastione San Pietro. Si tratta di un vero e proprio polmone verde all’interno del quale ampie aree ombreggiate sono prodotte dalle folte chiome di tre grandi Ficus Macrophylla, uno dei quali abbraccia un grande Pinus Pinea, particolare che lo rende unico nel suo genere, oltre alla presenza di innumerevoli esemplari rari. Ad ogni pianta corrisponde una didascalia che consente di fruire il giardino come un vero e proprio museo.
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A cura di Isabella Cataletto Per quanto ormai sia stato fondato da diversi anni, non molti milanesi sanno dell’esistenza o conoscono l’ubicazione del Memoriale della Shoah di Milano. Nonostante ogni anno ricorra “La Giornata della Memoria”, poche persone pensano di poterla celebrare andando a visitare questo luogo per comprendere che cosa effettivamente rappresenti. Tuttavia, parlare del Memoriale della Shoah e conoscerne la storia ha una importanza non secondaria.
Alessia Sangalli Isabella Cataletto Manuel Monaco Michela De Lazzari Silvia Scaramella Stefano Scavino
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Di fatto “Il Memoriale della Shoah” è presente, (non si può dire ‘sorge’), là dove è avvenuta la deportazione verso i campi di concentramento e di sterminio nei primi anni ‘40. Si trova su un lato del monumentale edificio della Stazione Centrale di Milano, proprio di fronte alle Poste Centrali. Quel lato della stazione, chiuso al traffico, è oggi particolarmente silenzioso, riservato al rispetto e al ricordo, pur consentendo il passaggio di qualche frettoloso viaggiatore. Nella piazzetta antistante, Piazza Edmond J. Safra, si scopre in modo inaspettato l’ingresso: una semplice vetrata con in alto l’insegna “Memoriale della Shoah di Milano” a fianco di un cartello che descrive l’origine di quel luogo. Più in là si trova un’altra indicazione: un manifesto più piccolo appeso ad un palo della luce. Nella vetrata si riflette la Milano dei nostri giorni piena di luci e colori, di cui la Stazione Centrale è il cuore pulsante.
Stefano Scavino Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Da quando questo terminal ferroviario è stato costruito è divenuto lo snodo fondamentale della città, punto di incontro di milioni di percorsi e di vite che qui si sono incrociate per ragioni di lavoro o per incontrare amori, familiari ed amici, per cercare e per trovare fortuna. Milano è la New York d’Italia: ricca, sofisticata, creativa, laboriosa, consapevole e fiera delle sue antiche ed importanti vestigia romane e di tutta la storia e l’arte di cui è stata protagonista nei secoli, eppure sempre proiettata in avanti, verso il futuro. La Stazione Centrale, alla fine degli anni ’30, era già il cuore della grande città, tutto succedeva al suo interno o vicino ad essa e per questo divenne il luogo del più feroce, disumano, meccanico progetto di genocidio di una parte di quella popolazione italiana, ma di religione ebraica, ad opera del nazifascismo.
Michela De Lazzari Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
Per quanto progressivo fosse stato in quegli anni l’allineamento del fascismo al nazismo, l’introduzione delle leggi razziali nel 1938 segnò per molti cittadini l’inizio di una forte discriminazione tra gli esseri umani. Da una parte gli ebrei, i dissidenti politici, gli omosessuali, i rom, dall’altra tutti gli altri. Di fatto gli ebrei erano stati fino a quel momento parte integrante “degli altri”, assolutamente inseriti all’interno della società italiana, mai distinti o rinchiusi in ghetti. Non esisteva neanche un ghetto a Milano. Erano parte di una variegata società fatta di operai, impiegati, piccoli imprenditori, professionisti, artigiani. Fino a quando non venne fatto un censimento per registrare all’anagrafe i cittadini di religione ebraica.
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Stefano Scavino Photography Passare attraverso la vetrata ed entrare nel Memoriale ci aiuta a comprendere come quelle leggi razziali cambiarono profondamente la società italiana: la Shoah, l’Olocausto passò proprio da qui, da questo preciso luogo. Il Memoriale è il posto dove si ripercorre, passo dopo passo, il cammino angoscioso e disperato di migliaia di persone deportate, trasferite qui dai soldati tedeschi, con i loro miseri fagotti messi insieme all’improvviso, di notte, al momento del rastrellamento. “Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio”. (Testimonianza di Liliana Segre). La guida, che ci accompagna durante il percorso, è un distinto quarantenne; il modo in cui parla, con una voce regolare, ipnotica e partecipe e, forse anche il modo in cui è vestito, ci fanno calare subito in una realtà remota e allo stesso tempo presente, riportandoci indietro agli anni ’40. Ci si trova improvvisamente vicino a quelle persone, uomini, donne, giovani, bambini; si compie con loro lo stesso cammino con gli stessi passi incerti, impauriti, lenti, ma affrettati dalle spinte dei soldati, in un immediato smarrimento totale. Una rampa sospesa porta all’area di accoglienza. Da lì, i visitatori si incamminano per il medesimo passaggio, lungo “Il Muro dell’Indifferenza”, che par simile all’ingresso di un labirinto.
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Furono l’indifferenza o la non consapevolezza unita al bisogno di “non sapere”, della cittadinanza milanese e italiana in genere a permettere che si consumasse, nel silenzio urlante che ancora avvolge questo luogo, la deportazione. Con il rumore delle sinistre operazioni, di passi, grida, comandi, pianti, latrati, ferri e legni sbattuti proprio su questi marciapiedi della stazione che fu logisticamente possibile che si compisse il crimine più efferato contro una parte dell’umanità, un genocidio. In una immagine, incompleta, si legge una parola tronca: “INDI” invece di “INDIFFERENZA”. Forse inconsciamente è stata colta solo in parte dallo sguardo, per non dover rappresentare neanche a sé stessi la totale mancanza di empatia verso quella parte di umanità che stava per subire il destino tragico della deportazione nei campi di concentramento che si trasformò, per la maggior parte di essi, in un viaggio verso la morte nelle camere a gas e nei forni crematori.
Alessia Sangalli Photography
Al termine della rampa a spirale, si accede ad uno spazio chiamato “Osservatorio” in cui è stato posizionato uno schermo: l’Istituto Luce riproduce filmati storici delle deportazioni. La loro proiezione avviene in modo ciclico e vi si assiste “entrando” in quell’area che era stata utilizzata per la manovra dei vagoni. L’occhio ne è subito catturato perché la sequenza di immagini rende tutto vivo e presente. Si vedono, tra le altre, delle guardie in un piazzale vicino ad una fila di vagoni, in una luce sinistra di un freddo mattino milanese. Proseguiamo seguendo la nostra guida e si inizia a camminare lungo il marciapiede corrispondente al binario su cui sostavano e ancora troviamo qui i vagoni in legno di quei convogli destinati all’inferno. Si percorre il binario costeggiandoli, si ha la sensazione di essere accanto a quelle persone, ci si sente, lì per lì, in una scena di un dramma teatrale. Ma non è teatro. Ci si ritrova in mezzo a centinaia di uomini e donne che gemono, bambini che piangono, latrati di cani. “Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti nei punti strategici, fra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti”. (Testimonianza di Liliana Segre).
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I vagoni sono carri bestiame in legno con le assi inchiodate. “In un momento la banchina fu brulicante di ombre” (Da “Se questo è un uomo” – Primo Levi ) In pochi attimi avveniva lo smistamento: le destinazioni per quegli esseri umani erano quattro. Un primo campo di detenzione a Fossoli, nei pressi di Modena e, poi le altre destinazioni principali: Bolzano per i dissidenti politici mandati in campi di lavoro, Auschwitz e Mauthausen per gli ebrei, divisi per età, forza fisica, salute, sesso. La numerazione doveva essere precisa, nessuno poteva mancare all’appello. Si stilavano documenti contabili, bolle di consegna, fatture per tutti quei “capi umani”. La pena per ogni errore od omissione si traduceva in una multa o in una punizione severa per i soldati o le guardie che non rispettavano il regolamento. “Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva…. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati.” (da “Se questo è un uomo” – Primo Levi).
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I vagoni venivano stipati con 70/80 persone ciascuno, i deportati spinti all’interno con sbarre e bastoni, e le porte subito sprangate. All’interno, spiragli di luce filtravano attraverso le fessure delle assi di legno, in ogni vagone c’era un solo secchio che sarebbe servito per i servizi igienici. Dopo ore di sosta al buio, fra gemiti, pianti e preghiere, il viaggio aveva inizio. “Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza.” (Testimonianza di Liliana Segre).
Il treno correva…prima verso Sud…e questo dava una effimera speranza.
I vagoni venivano trasferiti con un carrello traslatore su un montavagoni che dall’area di manovra li conduceva ai binari di partenza al piano elevato. I convogli venivano formati sui binari 18 e 19 e poi si avviavano oltrepassando la tettoia di ferro della Stazione Centrale di Milano.
“Tutti piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando al nord, verso l’Austria…era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote” “Poi, poi, all’arrivo fu Auschwitz e il rumore assordante e osceno degli assassini intorno a noi.” (Testimonianza di Liliana Segre).
Stefano Scavino Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
“Gli adulti dimostravano un certo sollievo visto che il treno non era diretto al confine” (Testimonianza di Liliana Segre). Si sapeva che a Fossoli si veniva detenuti come in un campo da lavoro. Ma poi il treno riprendeva la corsa verso Nord, verso il Brennero e a quel punto era solo disperazione.
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Alessia Sangalli Photography
In corrispondenza del secondo binario, di fronte al montavagoni, troviamo Il Muro dei Nomi sul quale vengono proiettati centinaia di nomi in sequenze continue, quasi al ritmo di quegli ultimi passi scanditi prima di salire sul vagone. Le scritte più in grande invece riportano i nomi di coloro che riuscirono a salvarsi e a fare ritorno: tutti gli altri morirono nei campi di sterminio dove in alcune circostanze furono quasi subito diretti alle camere gas o ai forni crematori. “Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco.” (Da “Se questo è un uomo” – Primo Levi)
Manuel Monaco Photography
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MEMORIALE DELLA SHOAH
Lungo le pareti del binario lo sguardo si perde nelle fotografie di alcune donne, uomini e bambini colti in attimi della loro felice vita precedente. Accanto ai loro nomi è scritta la fine a cui andarono incontro al termine del viaggio. “Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il vagone più fortunato.” (Da “Se questo è un uomo” – Primo Levi) Nella banchina di deportazione sono state posate delle lapidi con i nomi delle destinazioni: Bolzano, Auschwitz, Mauthausen. Su ciascuna lapide si trova una data dei famigerati anni 1943 e 1944, gli anni più terribili per l’Italia della Seconda Guerra Mondiale, a seguito dell’occupazione tedesca dell’8 settembre 1943, quando incominciarono le retate notturne, i rastrellamenti, gli arresti. Niente fu più come prima, comparvero SS, Kapo, collaborazionisti. Le lingue italiana e tedesca spesso si mischiavano negli striduli, crudeli, altisonanti comandi impartiti alle moltitudini che si accalcavano a fatica lungo il binario dove sostavano i vagoni.
Rita Russo Photography Isabella Cataletto Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
Dopo una notte infinita al freddo… ”Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria.” (Da “Se questo è un uomo” – Primo Levi) … il vagone sarebbe stato sollevato e portato al livello sopraelevato sul binario di uscita dalla stazione, sotto la cupa tettoia guardata a vista da un minaccioso feroce leone scolpito nella pietra. Si partiva e non si sapeva per dove e verso che cosa. Il ritorno fu solo per alcuni di quei poveri esseri umani, un ritorno che non sarà mai più sereno, senza la possibilità di dimenticare, l’impossibilità di guarire le devastanti ferite dell’anima, l’impossibilità di cancellare quel numero marchiato sulla pelle del braccio. Un ritorno segnato dal bisogno di raccontare e far conoscere al mondo, anche a quello degli indifferenti, che cosa significasse essere stati in un lager, costretti ai lavori forzati, picchiati e logorati dalle fatiche e dalle malattie, e poi vedere uomini, donne, bambini, ischeletriti, in fila dirigersi verso le camere a gas ed il “Crematorium”. “Il bisogno di raccontare “agli altri”, di fare “gli altri” partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore.” (Da “Se questo è un uomo – Primo Levi).
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Stefano Scavino Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MEMORIALE DELLA SHOAH
Manuel Monaco Photography
Il visitatore che poco prima ha varcato la porta a vetri di ingresso al “Memoriale” vive al termine uno stato d’animo di profonda commozione. Attraverso i finestrini dei vagoni in sosta si scorgono i riconoscimenti delle istituzioni. Tra questi la corona del Presidente della Repubblica Italiana, la corona deposta della Città di Milano, la corona con i colori di Israele ai cui piedi giace l’aiuola con “le pietre d’Inciampo”, simboli ebraici posti per tradizione nei luoghi di sepoltura. Si giunge alla fine della banchina di deportazione e ci si trova un cartello che indica “Il Luogo di Riflessione”. Attraverso un’altra rampa a spirale si entra in una struttura conica, illuminata dall’alto da una luce circolare gialla e calda. Lì per lì il significato sembra incomprensibile; poi lasciandosi coinvolgere dall’emozione e da un sentimento profondo si percepisce questa luce come quella del sole nello spazio. È questo l’uomo? No, non è solo questo. Il Memoriale della Shoah di Milano è sorto per affermarlo e per fare del ricordo di quelle atrocità e della memoria di tutti i milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto il seme di vita di esseri umani che possano essere capaci di esprimere tutte le potenzialità di crescita della consapevolezza a cui può portare il bene, trasformando il male in riflessione, esperienza, senso di comunità, desiderio di pace, di progresso e di evoluzione della civiltà verso sentimenti migliori: l’uguaglianza, l’amore, il rispetto, la cura, il senso della bellezza, il bisogno di conoscenza.
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Questo è lo scopo ultimo del Memoriale, in cui, nelle “Stanze delle testimonianze”, si proiettano le interviste ai sopravvissuti. Nel Memoriale è stata data primaria importanza alla creazione dell’Auditorium, uno spazio, 200 posti nel piano interrato, concepito per dar luogo ad eventi culturali, incontri e dibattiti, momenti di lettura e riflessione o ideazione di progetti che possano portare verso un futuro di evoluzione dell’umanità, in cui la Memoria sia l’humus con cui coltivare il seme di tutte le più benefiche e meravigliose potenzialità e ingegnosità umane su questo stupendo pianeta chiamato Terra.
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Rigraziamo
Talia Bidussa e il personale del Memoriale per la disponibilità e gli accrediti e si ringrazia la guida per l’interessante accompagnamento durante il percorso. MEMORIALE DELLA SHOAH DI MILANO Piazza Edmond J. Safra 1 (già via Ferrante Aporti 3) M2-M3 Stazione Centrale Ulteriori informazioni al sito: www.memorialeshoah.it
Michela De Lazzari Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MEMO 4345
A cura di Mariangela Boni
Adriana Oberto Mariangela Boni
Alla stazione di Borgo San Dalmazzo, un piccolo paese in provincia di Cuneo, l’occhio del visitatore è attratto da un’installazione: alcuni vagoni su un finto binario fanno inevitabilmente affiorare immagini storiche e cinematografiche tristemente note. Si tratta del Memoriale della Deportazione, che riproduce i carri bestiame sui quali venivano deportate le vittime dei campi di concentramento. Davanti ai vagoni campeggiano dei nomi, a ricordare che anche qui, purtroppo, si è consumato il dramma della Shoah.
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È possibile camminare lungo la piattaforma, toccare i vagoni, ma soprattutto “passeggiare” lungo le lettere, grandi e piccole, e leggere le lunghe “strisce” che riportano quei nomi. Vengono anche indicati l’età al momento della registrazione nel campo e il paese di provenienza. Le lettere e le strisce ancorate a terra sono in acciaio corten e assumeranno col tempo lo stesso colore dei vagoni; su di un vagone sono riportate le date dei due “trasporti”: 21.11.1943 – 15.02.1944. Poco oltre questa installazione si trova la suggestiva e raccolta ex chiesa di S. Anna. Si tratta di una cappella del XVII secolo sorta sulle rovine di Nostra Signora del Bedale, dei primi del Cinquecento. Fu costruita grazie alle donazioni della comunità e Sant’Anna divenne “compatrona” insieme al santo, che diede il nome al paese dove fu martirizzato. Durante i periodi bellici, vista la vicinanza allo scalo ferroviario, la chiesa venne utilizzata come magazzino e, alla fine degli anni ’90, venne sconsacrata. È al suo interno, tra le pareti affrescate, che si trova MEMO4345.
Adriana Oberto Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MEMO 4345
Inaugurato il 5 settembre 2021, lo spazio ospita un’esposizione per ricordare la vita di centinaia di ebrei che avevano trovato rifugio nella zona di Borgo San Dalmazzo e nelle valli circostanti, la reclusione nel vicino campo di detenzione e successiva deportazione di 357 di loro. L’esposizione è composta da una serie di pannelli esplicativi e da contenuti multimediali. Al centro della sala campeggiano delle valigie di legno e pacchi composti da sacchi di juta a simboleggiare i miseri bagagli dove gli ebrei in fuga avevano stipato frettolosamente i beni essenziali. Le valigie si rivelano inoltre delle comode sedute per poter fruire dei materiali video. Oltre questo allestimento scenografico vi è un’enorme teca all’interno della quale è custodita l’opera Ombre nella memoria, dell’artista cuneese Enrico Tealdi. Si tratta di una raffigurazione molto semplice, ma di forte impatto. Su uno sfondo neutro, quasi un’impalpabile nebbia, ai poli opposti, si stagliano due piccole figure umane, anonime, unite da un filo sottile. Rappresentano il passato e il presente uniti, appunto, da un filo.
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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Per costruire il presente dovremmo far tesoro degli insegnamenti del passato, perché come diceva Primo Levi “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.” Ed è un po’ questo il senso di questo memoriale che, infatti, non si limita alla narrazione degli eventi della Seconda Guerra Mondiale, ma, in una visita guidata di circa due ore, conduce il visitatore in un percorso temporale che ha radici più lontane, dall’epoca del colonialismo ai giorni nostri. Da metà Ottocento l’idea di nazione passa da un ambito culturale a uno territoriale e politico; così ogni comunità etnico –linguistica chiede di auto-governarsi nell’ambito di confini territoriali che sostiene le appartengano per ragioni storiche e non riconosce parità di diritti a coloro che, pur vivendo nei suoi confini, sono di altre nazioni. Gli Armeni, i Rom e gli Ebrei, non avendo uno Stato di riferimento, diventano indesiderati ovunque e capri espiatori ideali. Le guerre non vengono più intraprese per motivi di religione, ma per interessi economici e così le popolazioni occupate vengono dichiarate inferiori, legittimandone lo sfruttamento o persino l’uccisione. Si passa poi ai fatti della Seconda Guerra Mondiale e, nello specifico, a quelli che hanno portato gli ebrei a Borgo S. Dalmazzo.
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Troviamo anche la riproduzione del bando del 18 Settembre del 1943, con il quale il Comandante delle SS Müller intimava a tutti gli stranieri di presentarsi alla Caserma degli Alpini e agli italiani di consegnarli, pena la fucilazione. I pannelli traggono spunto dall’opera monumentale Oltre il nome delle due storiche Adriana Muncinelli ed Elena Fallo, frutto di un difficile lavoro di ricerca iniziato nel 2009 e in continuo aggiornamento. La scelta del titolo è significativa e sta a indicare la volontà delle studiose di andare oltre il nome di quelle vite spezzate e ricostruire la loro storia: da dove provenivano, quali erano stati i loro spostamenti, quali erano i loro sogni, avevano dei parenti in vita, qualcuno che li ricordasse, c’era qualche traccia del loro passaggio? A questi e tanti altri interrogativi hanno provato a rispondere le autrici, non solo per restituire le storie di quelle persone, ma anche per individuare la catena di corresponsabilità e di azioni politiche dei vari stati coinvolti (inclusi i sedicenti oppositori di Hitler), che avevano condizionato il loro percorso di perseguitati. È stato un lavoro di ricostruzione certosino e non facile: basti pensare che la base di partenza era una lista di nomi, spesso storpiati e italianizzati da qualche impiegato noncurante che li aveva registrati nel momento dell’internamento. La lista è riprodotta qui nel memoriale. Dei 357 ebrei che furono deportati da Borgo San Dalmazzo, 334 erano stranieri.
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Dopo la firma dell’armistizio di Cassibile tra l’Italia fascista e gli Anglo-Americani e la sua entrata in vigore l’8 settembre del 1943, circa 800 ebrei che si trovavano nella zona di occupazione italiana in Francia fuggirono verso l’Italia. Poiché fino ad allora gli italiani si erano opposti alla deportazione, questi speravano di trovare la salvezza oltralpe. Purtroppo, all’arrivo di molti di loro, Cuneo era stata messa sotto controllo dai tedeschi e così si procedette ai rastrellamenti e 334 di essi finirono nel campo di concentramento appositamente allestito. L’ex caserma degli Alpini “Principi di Piemonte” fu usata in due periodi consecutivi e vicini tra di loro come “Polizeihaftlager” (campo di detenzione di polizia) proprio allo scopo di raccogliere, registrare e detenere le persone riservate ai trasporti. Da qui, il 21 novembre 1943, 331 ebrei, uomini, donne e bambini, vennero trasferiti nel campo francese di Drancy, vicino a Parigi, ed in seguito ad Auschwitz, dove ne sopravvissero 39.
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Il 15 febbraio dell’anno successivo altri 26 ebrei vennero deportati nel campo di Fossoli, nei pressi di Carpi, e successivamente ad Auschwitz o Buchenwald. Di questi solo due sopravvissero. Le studiose hanno individuato 168 località d’origine oggi distribuite su 23 stati nazionali: Belgio, Olanda, Francia, Germania, Polonia, Repubblica Slovacca, Bulgaria, Ungheria, Romania, Austria, Svizzera, Serbia, Grecia, Lettonia, Lituania, Moldavia, Russia, Ucraina, Bielorussia, Azerbaijan, Algeria, Turchia e Repubblica Sudafricana. I grandi numeri si concentrano in poche grandi città: 32 a Varsavia, 19 a Parigi, 15 a Berlino, 13 a Vienna, 11 ad Anversa e 10 a Bruxelles.
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Per quanto riguarda le età, queste coprono un periodo temporale che va dal 1870, anno di nascita della persona più anziana, Ida Manasse Cossmann, al 1943, anno di nascita e di morte ad Auschwitz dei più piccoli: Eveline Lorber, Charles Kramm, Jean Maurice Saltiel, Daniel Szatkownik, Simone Marienberg e Toby Daisy Grünfeld. La maggior parte degli internati ha tra i trenta e i cinquant’anni, 46 sono bambini sotto i dieci anni e 15 anziani sopra i sessanta. Il visitatore prosegue il cammino analizzando i vari genocidi perpetrati nel corso della storia, prima, durante e dopo la Shoah. Da quello degli Herero e dei Nama in Namibia, a quello dei Romanì in Europa, a quello dei Tutsi in Rwanda e, per arrivare ai giorni nostri, a quello dei Rohingya nel Myanmar. Solo per citare alcuni esempi.
Ma non solo, li accompagna personalmente all’appuntamento con i passeurs, ad Argegno e presta loro del denaro. Appena terminata la guerra, Ermanno e Magda si recano a Demonte per ringraziare il loro salvatore, ma scopriranno che Lorenzo aveva pagato con la vita il suo altruismo, era stato catturato il 21 agosto 1944 dai fascisti e impiccato in piazza. Pietro Lovera “Mariciotta” gestisce un negozio di alimentari, quando il 19 settembre bussano alla sua porta, infreddoliti e impauriti, i Wolfinger. Herman e Rachel con i figli Nathan e Peter erano scampati al rastrellamento del giorno prima nascondendosi nel cimitero.
Arriva poi uno spiraglio di speranza: i racconti dei gesti dei Giusti. Persone benestanti e persone povere, persone giovani e anziane, famiglie o singoli, ma tutte unite da uno stesso filo conduttore: sono tutte persone che non si sono lasciate vincere dalla paura e che hanno deciso di rischiare la propria vita per difendere quella di altri, spesso sconosciuti. Così, a Demonte, il venticinquenne Lorenzo Spada, gestore di una macelleria, non esita a prendersi cura della famiglia Tedeschi composta da Ermanno, Magda e i loro tre figli: Marcello, Maurizia e Uberto. Fa cancellare i loro nomi dalla lista degli sfollati, trova loro un alloggio e, quando questo non si rivela più sicuro, li mette in contatto con le organizzazioni che fanno passare clandestinamente gli ebrei in Svizzera.
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Senza esitazioni li nasconde nel suo fienile per due settimane. Temendo che la loro presenza sia stata notata, li trasferisce in una malga estiva. Ma l’andirivieni verso la malga in quel periodo è piuttosto insolito, quindi dopo dieci giorni li accompagna più lontano, nella zona sotto il controllo dei partigiani. Vi rimarranno fino alla fine della guerra. Solo Nathan, sceso in paese per comprare delle medicine fu catturato e deportato ma, fortunatamente, è sopravvissuto. I Neumann, scampati al rastrellamento, vengono trovati l’indomani in un capanno a Madonna del Colletto da un comandante fascista. Pensavano fosse finita, invece il comandante dà loro dei soldi e li invita a scappare più lontano. Ci sono molte altre storie di giusti, a ricordarci che ci sono sempre scintille di speranza in un periodo buio e che ciascuno di noi può essere una scintilla. Infatti, il percorso si conclude rivolgendosi direttamente al visitatore con una serie di immagini che scuotono la
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coscienza: immagini delle vittime di guerra di ieri e di oggi, un bombardamento emotivo che si conclude con una semplice e profonda domanda: “E tu?”. Memo4345 si rivolge perciò a tutti noi, non solo proponendo le vicende della tragedia della Shoah, ma ribadendo il concetto di quanto sia necessario conoscere e ricordare per non dimenticare e non cadere negli stessi errori, così come scriveva Primo Levi.
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MUSEO DELLA FILIGRANA
La filigrana di Campo Ligure
L’arte lieve e gentile A cura di Monica Gotta
Monica Gotta Manuela Albanese Luca Barberis Isabella Nevoso Giuseppe Tarantino
Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MUSEO DELLA FILIGRANA
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Una storia antica legata a un filo che si dipana nella continuità … del tempo
A volte abbiamo l’impressione di perdere il filo: il filo dei nostri pensieri, il filo interiore che ci guida nella nostra vita. Potremmo sederci e leggere una storia in grado di ispirarci, di richiamare le nostre doti immaginative e creative per dare vita ai nostri tesori interiori. Come il filo di Arianna ha guidato Teseo fuori dal labirinto di Dedalo, ad un livello più creativo il filo guida l’essere umano verso le sue più alte ispirazioni spingendolo a valorizzare le sue capacità più nascoste, a volte inconsapevoli. Esiste un altro filo che ha avuto origine nell’antichità e è arrivato fino ai giorni nostri. La sua strada non è stata lineare, anzi è stata caratterizzata da innumerevoli curve lungo i secoli. È un sottile filo d’argento, ritorto, intrecciato che diventa elemento ornamentale, espressione della creatività degli artisti dell’arte orafa. Curve e intrecci si uniscono a formare arabeschi che fluttuano sulla superficie di un gioiello unico senza uguali. Più lo si osserva, più si rimane rapiti dalla perfezione dell’oggetto e più ci si perde nel dedalo degli arabeschi di un gioiello di filigrana. Per ritrovare la strada verso la nostra meta seguiamo l’onda del nostro filo d’Arianna, il nostro filo d’argento che ci condurrà a Campo Ligure.
Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MUSEO DELLA FILIGRANA
Campo Ligure è un piccolo centro nell’entroterra ligure immerso nella natura della Valle Stura e inserito nell’area protetta del Geoparco Europeo del Beigua. Nel suo centro storico si trova l’imponente Palazzo Spinola e il Castello Spinola veglia sul borgo. Le due sponde del fiume Stura sono collegate dall’antico Ponte Medioevale risalente al IX secolo. Dal 2011 è iscritto all’Associazione I Borghi più belli D’Italia ed è diventato centro depositario della tecnica orafa di matrice genovese e patria della filigrana in Liguria, comunque uno dei centri più conosciuti e apprezzati di quest’antica arte orafa. Ospita molti laboratori di filigranisti e il Museo della Filigrana voluto da Pietro Carlo Bosio.
Monica Gotta Photography
Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MUSEO DELLA FILIGRANA
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Museo della filigrana Il Museo della Filigrana rappresenta il centro di documentazione più importante a livello europeo e soprattutto nazionale. La visita di questo piccolo museo sorprende per il grande numero di opere esposte che illustrano la storia e la lavorazione della filigrana. Disposto su 3 piani, ripartito in diverse sale espositive, con pannelli descrittivi all'entrata e in ogni stanza, il museo offre al visitatore una full immersion in un'antica arte orafa, l’arte lieve e gentile della filigrana. Il percorso è basato principalmente sulla provenienza delle opere, raggruppate per aree geografiche. Dalle opere esposte si può immaginare quanta creatività è insita nella manifattura di questi oggetti unici. Campo Ligure conobbe la filigrana alla fine dell'Ottocento quando il maestro artigiano campese Antonio Oliveri, formatosi nel laboratorio genovese del filigranista Antonio Grasso, si trasferì a Campo Ligure. La storia racconta che possono essere due le motivazioni di questo trasferimento da Genova verso l’entroterra:
un’epidemia di colera che imperversò a Genova oppure una seconda teoria, più credibile, una scelta economica legata al minor costo della manodopera. Oliveri quindi fondò il suo laboratorio privato e, fino agli albori della Seconda Guerra Mondiale, altri artigiani seguirono il suo esempio, insediandosi in paese e arrivando a contare ben una trentina di laboratori. Questo fece di Campo Ligure l’autentica capitale della filigrana. Infatti, oggi viene definita Centro Nazionale del Gioiello in Filigrana. Oggi i filigranisti ancora in attività non sono più così numerosi però, da poco, è stato creato un consorzio denominato Intrecci Preziosi formato da 15 filigranisti per creare un presidio della filigrana a Campo Ligure e per trasmettere gli insegnamenti di questa tecnica artistica molto antica e molto importante. La si definisce antica perché i primi ritrovamenti risalgono al 2.500 a.C. nella zona della Mesopotamia.
Manuela Albanese Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MUSEO DELLA FILIGRANA
Storia della filigrana Alcune delle prime testimonianze dell’arte della filigrana sono antichissime. Si può dire risalgano agli albori della civiltà Medio Orientale. Ritrovamenti archeologici datano i primi oggetti con decorazioni in filigrana al 2500 a.C. scoperti nell’odierno Iraq e altri in Siria risalenti al 2100 a.C., ossia in un territorio che corrisponde all’antica Mesopotamia. Dalla Mesopotamia pare che questa tecnica artistica si sia diffusa in Oriente e successivamente in Occidente. La filigrana varcò i confini dell’India e della Cina. Parlando di tecnica orafa essa raggiunge un buon grado di maturità con la civiltà minoica e, a seguire, nella Grecia continentale. Da qui si presume che l’arte della filigrana sia arrivata in Occidente a seguito dell’insediamento delle prime colonie greche. Navigò attraverso il Mar Mediterraneo attraverso il popolo dei Fenici. I Fenici fondarono, come i Greci, le loro colonie in Italia meridionale, luogo dal quale si diffuse poi al popolo degli Etruschi. Con gli Etruschi si evolvette anche lo stile, uno stile prima più elementare ma allo stesso tempo molto ricco. Perché ricco? Perché la filigrana è chiamata anche stile arabesco proprio perché ricorda degli intrecci, come possono essere anche gli arabeschi dei tessuti. Gli Etruschi arricchirono l’arte della filigrana inserendo un nuovo elemento, la tecnica della granulazione caratterizzata dall’utilizzo di piccole sfere d'oro che venivano applicate sulla superficie del gioiello. Questo nuovo elemento artistico rese la composizione del gioiello ancora più ricca rispetto al classico intreccio di riempitura. L’ulteriore diffusione della tecnica della filigrana fece arrivare quest’arte a Genova. Siamo nel 1200 circa, il periodo delle Crociate. Gli avvenimenti di questo periodo storico portarono a scambi culturali e artistici con l’Oriente con un ulteriore arricchimento delle tecniche e delle particolarità dei manufatti. Questo fu il grande momento di splendore di questa tecnica che Genova continuò a valorizzare fino al Settecento / Ottocento. Nel periodo tra il 1600 e il 1700 la produzione di filigrana presentò un incisivo incremento e venne successivamente utilizzata per impreziosire arredi sacri e altri oggetti ornamentali. Dal 1800 in poi la filigrana conquistò tutta la stratificazione sociale. I più importanti centri della filigrana diventarono Genova, Torino, Vercelli, Cortina d’Ampezzo, Scanno, Pesco Costanzo, Agrigento e la Sardegna.
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MUSEO DELLA FILIGRANA
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Il Museo raccoglie circa 200 oggetti che appartengono alla collezione privata di Pietro Carlo Bosio, personaggio di spicco di quest’arte antica a cui il museo è intitolato. Bosio fu un importante artigiano ma, soprattutto, un collezionista. Il primo nucleo principale della collezione si fa risalire a un'asta del 1960 in cui Bosio acquistò una serie di oggetti in filigrana. Essendo anche un amante dei viaggi, questo fece sì che la collezione si arricchisse sempre più. L’attuale collezione esposta al Museo della Filigrana di Campo Ligure è una collezione di respiro mondiale in quanto gli oggetti non provengono solo dall’Europa ma anche dall’Asia, dall’Africa, dal Sud America permettendo ai visitatori di apprezzare le forme artistiche e stilistiche più varie. La diffusione delle diverse forme stilistiche si riflette di conseguenza anche sulla tecnica come può essere l’esempio dell’evoluzione del filo di riempimento. È un elemento molto importante tanto che a Campo Ligure vennero inventati ben 42 esemplari di questo filo di riempimento sul quale gli artigiani si specializzarono. Manuela Albanese Photography Questo oggetto venne realizzato a Genova e probabilmente riconduce al modello di villa sette/ottocentesca genovese. D'altra parte è anche un tipo di oggetto apprezzato dalla nobiltà, non soltanto genovese ma anche veneziana, per il gusto di vedere realizzati oggetti molto eccentrici.
Nella prima sala al primo piano del museo è esposta principalmente la filigrana proveniente dall’Italia il cui pezzo di maggiore spicco è un’imponente voliera.
Questa gabbia era accompagnata da un uccellino in filigrana d'oro che è esposto al terzo piano del museo. Quindi non ci si fermava alla mera realizzazione di un oggetto ma lo si accompagnava con una veste il più realistica possibile. La voliera è un progetto realizzato in filo di scafatura, ossia il contorno più spesso - la parte più esterna dell'oggetto. È un oggetto che dimostra una grande maestria soprattutto perché presenta particolari e dettagli molto curati. Di particolare interesse è la cupola in cima alla voliera con all'interno una rappresentazione del David di Donatello sormontata dalla bandiera genovese che ne testimonia la provenienza.
Davide Mele Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MUSEO DELLA FILIGRANA
Luca Barberis Photography
Un caso di sicuro interesse è la storia di un filigranista, Egisto Sivelli, ultimo dei Garibaldini (morì a Genova nel 1934 a 91 anni) e figlio di un filigranista. All’età di 16 anni Egisto fuggì di casa e partì insieme alla Spedizione dei Mille di Garibaldi. Il padre lavorava a Genova nel suo laboratorio tra Via Roma e Salita San Matteo. Una volta tornato a casa dalla spedizione, dove conquistò le mostrine di sottotenente, continuò la tradizione di famiglia. Esempio della sua attività è un cestino con manico reclinabile esposto nella sala vicino alla voliera. Un caso eccezionale: un Garibaldino che si dedicò alla filigrana e mantenne in vita l’attività di famiglia fino al 1945, anno in cui il laboratorio passò al figlio che interruppe poi la tradizione. Altro pezzo importante in questa sala dedicata all’Italia è la pulsantiera che unisce la filigrana con elementi in corallo originaria della Sicilia, per la precisione di Trapani. La Sicilia è ancora oggi famosa ed eccelle nell’oreficeria di corallo. In questo pezzo particolare si nota al centro una raffigurazione di San Rocco che rappresenta un aspetto importante dove la filigrana unisce oggetti di uso quotidiano con una linea di carattere religioso. Infatti vengono creati suppellettili liturgici utilizzati nelle cerimonie religiose. A tal proposito si segnala che a Campo Ligure esiste un'azienda specializzata in produzione di filigrana liturgica / religiosa che raccoglie commissioni non soltanto a Campo Ligure ma da tutta Italia.
Isabella Nevoso Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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MUSEO DELLA FILIGRANA
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Gli oggetti esposti sono anche manufatti di uso quotidiano come ad esempio i porta tovaglioli. Altri oggetti di uso quotidiano sono esposti nella teca della filigrana di Malta sui quali si nota la famosa Croce di Malta. Esiste un museo della filigrana anche a Lisbona. Il Portogallo ha una lunga tradizione nell’arte della filigrana e caratteristica principale della filigrana portoghese è la riempitura a ricciolo come si può notare dai vari oggetti esposti. Il ricciolo è appunto la cifra stilistica dell’arte portoghese. Altra caratteristica degli oggetti in filigrana è che non sono firmati come accade per altri gioielli e per una qualsiasi altra opera d’arte. Anche questa è una cifra stilistica. Dai primi ritrovamenti avvenuti in Mesopotamia si vedono esemplari supportati da una lamina metallica che nel Settecento viene eliminata. Gli oggetti creati con il supporto metallico furono realizzati con la tecnica a notte che lasciò poi spazio alla tecnica a giorno che è quella tuttora utilizzata. Il cambiamento nella tecnica eliminò lo spazio fisico utilizzato per le firme. D’altra parte la firma non era utilizzata per un motivo stilistico: l’opera di un filigranista si riconosce dalle sue particolarità e gli esperti collezionisti riescono a individuare l’autore e anche il paese di provenienza.
Isabella Nevoso Photography
Davide Mele Photography
Luca Barberis Photography Giroinfoto Magazine nr. 75
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Le informazioni sugli oggetti esposti al Museo della Filigrana sono pervenute grazie agli appunti di viaggio di Pietro Carlo Bosio che annotava tutto durante l’acquisto. Una volta che la collezione fu inserita nel museo vennero svolte anche valutazioni stilistiche e temporali proprio per accertare il periodo di realizzazione e la provenienza degli oggetti. Molti oggetti sono realizzati in argento ma si usava già anche l’oro oppure argento bagnato nell’oro. Ad oggi un filigranista di Campo Ligure sta creando oggetti di filigrana rosata.
Nella seconda sala si possono ammirare oggetti di filigrana cinese che si contraddistingue per elementi molto diversi tra di loro. Il bracciale e orecchini uniscono al metallo anche elementi naturali e vegetali come i gusci di noce mentre il ventaglio presenta anche l’elemento smaltato all’interno delle stecche. La parte figurativa è realizzata in seta di seta dipinta che poggia su una cassa di ebano rendendo questa composizione veramente molto variegata ed eccezionale.
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L'utilizzo degli oggetti è vario, da oggetti di uso quotidiano a oggetti di uso religioso e simbolico. Un pezzo che colpisce molto è il ciondolo propiziatorio che unisce l’elemento religioso a quello simbolico. È un oggetto che veniva regalato ai figli delle famiglie imperiali quando si sposavano come augurio di fecondità. I pesci in basso fanno riferimento al sesso maschile a sostegno dell’augurio di fecondità per la nuova famiglia. Altro elemento religioso sono dei piccoli scaccia spiriti che venivano appesi alle porte e alle finestre, rappresentazioni di templi e portatine funerarie, tutti pezzi riprodotti in miniatura che non hanno solo valenza decorativa ma sono portatori di un forte messaggio simbolico, religioso e di tradizione. Altro elemento che compare spesso è il fiore di loto, simbolo di purezza, oppure il drago, simbolo di forza ed energia. Spesso vediamo realizzate anche farfalle anch’esse simbolo di buon auspicio, di grazia e bellezza. Nella sala ci sono oggetti provenienti anche dall’Austria, dall’Ungheria, dall’Albania, dalla Russia e altri paesi. Ci sono anche oggetti ed elementi con chiari riferimenti alla religione ebraica come una coppia di rimonim che significa melagrana con dei campanellini che sembrano ricordare i semi del frutto e che simboleggiano la ricchezza degli insegnamenti. Altri oggetti venivano utilizzati per essere inseriti all'interno del rotolo della Torah, il testo sacro.
La mano della lettura è un altro elemento fondamentale perché non era concesso toccare le sacre scritture quando si leggevano. L’Albania invece non ha sviluppato una cifra stilistica sua perché è sempre stato un paese attraversato da molti popoli con uno scambio tra culture molto marcato. Gli elementi sono eterei da quanto sono sottili. Anche l’Egitto non ha sviluppato la sua cifra stilistica pur avendo uno stile caratterizzato da forme armoniose. Ritrovamenti archeologici in Egitto e nella tomba di Tutankhamon hanno testimoniato la presenza di gioielli in filigrana ma in Egitto è stato dato spazio ad altro tipo di tecniche. Una scatola con una pietra preziosa, una corniola, testimonia quanto questa pietra preziosa fosse importante per gli Egizi perché facilitava il passaggio verso l'aldilà. Lo stile russo presenta invece un uso inteso dello smalto, una tecnica che si basa sull'utilizzo del filo d'argento dorato. Nelle celle vuote degli intrecci viene inserito uno smalto in polvere che poi viene cotto su una superficie per non far scivolare il materiale che poi viene tolto. Si tratta di un tipo di lavorazione che si basa sul traforo e determina l'elemento stilistico principale. Molto particolari sono anche le coppe cosiddette dell'amicizia donate dagli Zar ai loro migliori ufficiali e usate per bere l’idromele.
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Giuseppe Tarantino Photography La filigrana che si diffuse in Oriente si intrecciò anche con lo stile bizantino. Un esempio di questa fusione stilistica sono delle icone religiose con una copertura di filigrana che viene chiamata abito perché aveva la funzione di coprire le icone ma di far scoprire e gli elementi essenziali che il fedele doveva vedere, ossia le mani e i volti. Un'altra funzione era quella di proteggere l’opera dal nero della fuliggine, dal fumo delle candele, un doppio uso in sostanza. Nell’Ottocento e Novecento anche Fabergé con il suo famoso uovo influenzò molto altri stili artistici. La scuola russa subì un'impennata e una diffusione massiccia proprio grazie a Fabergé e all’elemento uovo. Altri esempi e oggetti che rappresentano una trasposizione della realtà provengono da altrettanti paesi asiatici. Le palafitte e i narghilè ne sono un esempio. In Nepal si utilizzavano molto smalto e pietre preziose come testimonia una contenitore per amrita – l’acqua della vita eterna. Una leggenda su quest’oggetto racconta che contenesse una bevanda che poteva essere l’ambrosia. Miti e leggende si fondono con l’utilizzo e la creazione di questi oggetti.
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La filigrana indiana utilizza un filo più spesso mentre la filigrana cinese utilizza un filo molto più sottile per fare delle riempiture più complesse. Anche se nella filigrana indiana il filo è più spesso si nota che le riempiture, ad esempio nei cofanetti qui esposti, sono veramente molto particolari, presentano forme molto armoniose, elemento caratteristico di questo tipo di filigrana. L'oggetto più importante che si vede nella sala è sicuramente il cocchio da parata che, si dice, sia stato realizzato come dono per la Regina Vittoria nel momento in cui l'Inghilterra gestiva la Compagnia delle Indie Orientali. Altra particolarità di quest’oggetto è l’uso della filigrana d’argento accompagnata dal velluto come si vede dal sedile del cocchio. Questi oggetti fanno riferimento alla sfera del quotidiano così come altri oggetti svelano un’attenzione particolare alla simbologia. Uno spruzzaprofumi che veniva riempito con acqua e petali di rosa serviva per spruzzare il profumo sugli ospiti che varcavano la porta di casa come segno e augurio di fortuna e di felicità. Sono esposti anche due bracciali da cerimonia che presentano delle borchie che servivano a respingere gli spiriti maligni, un altro esempio di presenza della simbologia in oggetti di uso quotidiano.
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I manicotti invece, indossati da persone simboleggiavano la supremazia sociale.
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rango,
L’uccello dorato esposto al piano è quello che originariamente era all’interno della voliera mentre gli altri sono oggetti contemporanei esposti durante la mostra della filigrana, poi sospesa. Ad oggi l'attuale amministrazione ha in programma di riaprirla in quanto quest’esposizione mette in mostra lavori di filigranisti che sono ancora attivi. Vediamo anche lo stemma Oliveri che ricorda chi fu a portare la filigrana a Campo Ligure. Sono esposte anche una serie di farfalle rimaste da una mostra dedicata proprio alle farfalle che vengono da diverse parti del mondo. Un altro pezzo molto particolare esposto su questo piano del museo è il Cuore di Viana do Castelo, simbolo di dedizione e adorazione del Sacro Cuore di Gesù, che si ritrova nell'arte, nella moda e nelle arti applicate. Il cuore, insieme a un particolare tipo di orecchini di Viana e alla caravella portoghese sono stati donati al Museo della Filigrana di Campo Ligure da Manuel Freitas.
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All'ultimo piano sono anche esposti gli strumenti, gli attrezzi e le ingegnose macchine dai meccanismi complessi che venivano usati per lavorare la materia prima, oro e argento, e arrivare al sottile filo che dà vita agli oggetti di filigrana.
Famiglia Kennedy in memoria del presidente assassinato e oggi si trova nella Biblioteca di Boston. Un altro fu realizzato per Papa Paolo VI e venne poi deposto ai piedi della Madonna di Fatima.
Grazie alla moglie di Paolo Bosio, Stefania Bottero, anche lei filigranista mancata l’anno scorso, si deve il merito del completamento della collezione. In origine era una collezione privata che Bosio decise di donare al Comune di Campo Ligure per poterne fare un museo.
Grazie a questi due storici esponenti, artigiani e soprattutto artisti della filigrana si deve questo nucleo d’arte unico. Lo chiamiamo museo ma è la rappresentazione della storia mondiale di un’arte lieve e gentile e, soprattutto, è il frutto del lavoro e dell’impegno di una vita dedicata alla filigrana.
Per capire chi era Bosio ricordiamo che era specializzato in rosari monumentali. Uno di questi venne donato nel 1968 alla
Giuseppe Tarantino Photography
“…L’importante è stato, ed è, per me, l’aver portato qui a Campo Ligure oggetti tali da meravigliare chiunque; e tali anche da far capire come l’arte della filigrana sia, anche se i risultati sono ovviamente diversi, davvero eccellente, rara e meravigliosa.” Pietro Carlo Bosio
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Lavorazione della filigrana Davide Mele Photography La fusione permette di trasformare il metallo grezzo in materiale destinato alla lavorazione. Ne nascono delle verghe che devono essere ulteriormente assottigliate e ricotte. Sempre più simile a un filo il materiale viene trafilato fino ad ottenere la sezione desiderata. La torcitura permette di unire due fili distinti in una treccia dando così origine al “filo granato”. Il termine filigrana infatti deriva dall’unione di due parole latine: filum (latino = filo) e granum (latino = grano, seme) inteso, in questo caso, come granulo.
Il laminatoio a rulli piatti appiattisce il filo granato e intrecciato dandogli un aspetto dai bordi dentellati pronto per la lavorazione. Le principali fasi per realizzare gioielli in filigrana sono la scafatura, la riempitura, la saldatura e la finitura.
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La scafatura è la parte esterna del gioiello e viene realizzata con un filo piatto dotato di una maggior resistenza atta a contenere la riempitura. La sagomatura del filo avviene con attrezzi particolari e poi saldato per ottenere la forma desiderata. La riempitura si realizza con delle pinze particolari, le “bruscelle”. Si creano i riccioli e altre forme di varie misure.
Sono i panetti (panini), i rizzetti (riccioli), le resche (lische di pesce) e altre forme tipiche di questa arte orafa. Queste forme vanno a creare un mosaico dentro la scafatura e vengono saldati per formare un corpo unico attraverso numerosi passaggi sotto il cannello. Finita la procedura di saldatura i gioielli vengono lucidati. Possono anche essere successivamente sottoposti a bagni galvanici in oro, rodio, argento etc.
Cosa differenzia la filigrana dalle altre arti orafe? Oggi come in antichità i fili che compongono ogni pezzo vengono uniti solo dal calore. Non si ricorre a nessun altro materiale o lega.
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Luca Barberis Photography La visita a Campo Ligure non può terminare senza la visita a uno dei laboratori della filigrana. Nel nostro caso ci ha aperto la porta la Ditta Piombo – Il Gioiello. A fianco della vasta esposizione di oggetti e gioielli in filigrana si è potuto assistere alla creazione di alcuni “pezzi”, panetti, rizzetti e altre forme che andranno a comporre i futuri gioielli. Lasciamo parlare le immagini che descriveranno meglio delle parole la pazienza e il minuzioso lavoro degli esperti filigranisti che conferiscono a ogni gioiello l’unicità del pezzo che lo rende una piccola opera d’arte. Ognuno di noi ha il suo filo di Arianna nella sua sfera inconsapevole e intima. Seguendolo vi guiderà a incrociare la strada del filo d’argento dell’arte lieve e gentile della filigrana fino a condurvi a Campo Ligure dove troverete l’altro capo del filo: il vostro filo o il capo del filo d’argento!
Ringraziamenti:
Comune di Campo Ligure – Instagram @campoligure_turismo https://www.facebook.com/comunecampoligure Museo della Filigrana - Instagram @museo_filigrana_ campoligure – https://www.facebook.com/museodellafiligrana Ditta Piombo – Il Gioiello – Instagram @ilgioiello_filigrana https://www.facebook.com/Andrea.Franchini1986
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Argento & Oro
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Con il numero atomico 47 si rappresenta l'argento ed è l'elemento chimico nella tavola periodica che ha simbolo Ag (dal latino Argentum). È un metallo di transizione tenero, bianco e lucido. È anche il migliore conduttore di calore ed elettricità fra tutti i metalli e si trova in natura sia puro che sotto forma di minerale. Appena più duro dell'oro ha una lucentezza metallica bianca che viene accentuata dalla lucidatura. Questa è una delle caratteristiche che lo rende interessante per la produzione di gioielli oltre alla malleabilità. Con il numero atomico 79 si rappresenta l’elemento chimico oro e il suo simbolo è Au (dal latino aurum). È un metallo tenero, duttile, malleabile ed è praticamente inattaccabile dalla maggior parte dei composti chimici. Per conferirgli una maggiore resistenza meccanica viene lavorato in lega con altri metalli. L'oro è diventato nel tempo il simbolo di purezza, valore e lealtà. È noto e molto apprezzato dall'uomo fin dalla preistoria. Molto probabilmente è stato il primo metallo mai usato dalla specie umana, ancor prima del rame, per la manifattura di ornamenti, gioielli e oggetti rituali. Per le sue qualità di duttilità l'oro può essere tirato in fili e inserito in tessuti, ornamenti e gioielli di fine manifattura come la filigrana.
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Parco Archeologico di Lilibeo
A cura di Rita Russo
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Quando si raggiunge la città di Marsala percorrendo il lungomare, dal quale si gode di un’ottima veduta sulle Isole Egadi, nessun turista potrebbe mai immaginare che il grande baglio ottocentesco, conosciuto come “Baglio Anselmi”, che si incontra lungo la strada in corrispondenza del promontorio di Capo Boeo, custodisca il Museo Archeologico Regionale Lilibeo e che alle spalle di quest’ultimo si trovi un’area demaniale libera, vasta circa 28 ettari, in corrispondenza della quale si conservano i resti di una considerevole parte dell’abitato dell’antica Lilybaeum (l’originaria Marsala). Quest’area archeologica fu lasciata completamente libera dall’espansione urbana sia medievale, che avvenne in posizione arretrata rispetto alla linea di costa, all’interno di un quadrilatero delimitato da mura, sia da quella moderna soprattutto quando, verso la fine dell’Ottocento, durante gli scavi per la realizzazione di opere di pubblica utilità in questa zona, iniziarono a emergere alcuni reperti di notevole importanza. Quest’area, insieme al museo regionale, costituisce il nucleo più importante del Parco Archeologico di Lilibeo.
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L’istituzione di quest’ultimo è iniziata a partire dal 2003, grazie a finanziamenti regionali, attraverso i quali sono state acquisite due strade che attraversavano l’area archeologica; è stata edificata la recinzione della stessa e in ultimo, sono state realizzate le opere di valorizzazione e riqualificazione dell’area archeologica nella sua interezza, consistite nella creazione di percorsi di visita tra i diversi monumenti, nella realizzazione dell’illuminazione e nella posa di pannelli didattici esplicativi. Questi ultimi lavori sono stati consegnati nel 2012, ma l’intero parco archeologico, istituito nell’aprile del 2019, è in costante e continua evoluzione e miglioramento. La sede museale e istituzionale del parco, il “Baglio Anselmi”, era uno stabilimento vinicolo, costruito intorno alla fine dell’Ottocento, destinato alla produzione del vino Marsala e alla distillazione dell’alcool puro. Esso, secondo i canoni tipici delle dimore rurali siciliane ottocentesche, è costituito da lunghi corpi di fabbrica realizzati intorno a un’ampia corte (“bagghiu” dal francese antico “bail”), oggi in parte adibita a giardino. Nel 1986, due dei suoi grandi magazzini, dove venivano stivate le botti, caratterizzati da alte arcate ogivali in pietra calcarenitica, furono scelti come sede per l’esposizione e la conservazione del relitto della nave punica, recuperato dall’archeologa inglese Honor Frost (1971-1974) e dei numerosi reperti archeologici subacquei che testimoniano la fiorente attività marittima e commerciale avvenuta in questo tratto di mare e la prosperità dell’antica città. Il museo che, nel 2017, è stato completamente rinnovato grazie a un progetto di valorizzazione che ha riguardato tutta l’esposizione, è oggi suddiviso in due percorsi espositivi separati, offrendo così al visitatore non solo gli originali reperti subacquei del precedente allestimento, incrementati da nuovi rinvenimenti, ma anche materiali inediti che ripercorrono la storia dell’antica Lilybaeum, dalle origini nella colonia fenicia di Mozia, all’evoluzione e trasformazione nella città medievale di Marsala.
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Una volta entrati al Baglio Anselmi e attraversato il giardino che occupa la corte centrale della struttura, la nostra visita ha avuto inizio dall’area archeologica di Capo Boeo, attraverso le varie testimonianze emerse durante le campagne archeologiche iniziate alla fine dell’Ottocento e ancora oggi in corso di scavo. Ma è opportuno fare un passo indietro e ripercorrere i momenti più salienti della storia di questa zona per apprezzare al meglio tutti i tesori che il parco ci offre. I Cartaginesi fondarono la città di Lilibeo sul promontorio di Capo Boeo, il punto della Sicilia più vicino all’Africa, dopo che la vicina Mozia, ubicata sull’isola di San Pantaleo nella laguna dello Stagnone, fu conquistata nel 397 a.C. da Dionisio I, tiranno di Siracusa. Questa zona doveva essere già nota ai naviganti per la sua posizione strategica, tanto che l’esercito cartaginese si accampò qui nei pressi di una sorgente chiamata Lilybaion, da cui derivò il nome della città stessa.
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Essa, che occupava un grande quadrilatero, fu fortificata con poderose mura, torri e due braccia di fossato dal lato della terraferma, grazie ai quali poté resistere ai successivi assedi di Dionisio e di Pirro. Lilibeo, che per la sua imponente fortificazione fu definita dallo storico Diodoro come “città inespugnabile”, garantì la supremazia cartaginese nella Sicilia occidentale tra il IV ed il III secolo a.C. e divenne, per la sua posizione strategica, un dinamico centro commerciale e artigianale oltre che il punto di transito obbligato delle rotte marinare dal Nord - Africa verso il Tirreno, centrale e occidentale, al posto di Mozia. Solo nel 241 a.C. nella Battaglia delle Egadi, che pose fine alla Prima Guerra Punica durata vent’anni, Lilibeo si arrese al lungo assedio romano e i Cartaginesi furono costretti a cedere tutti i propri possedimenti in Sicilia alla vincitrice Repubblica romana. Durante quest’ultima dominazione, Lilibeo mantenne il suo ruolo di importante base navale per gli intensi traffici marittimi tra Africa e Mediterraneo. Si arricchì di splendide ville ed edifici pubblici tanto che Cicerone, questore di Lilibeo tra il 76 e il 75 a.C. la definì “splendidissima civitas”. Essa divenne anche una città multietnica in cui convissero pacificamente Cartaginesi, Greci e Romani. Divenuta Municipio in età augustea, la città fu elevata al rango di Colonia agli inizi del III sec. d.C. con la denominazione di Helvia Augusta Lilybitanorum. Sede di una fiorente comunità cristiana sin dal III secolo e di una Diocesi, istituita al tempo di Papa Zosimo, subì nel 440 d.C. l’incursione e una violenta persecuzione dei Vandali di Genserico. Con l'arrivo degli Arabi nel IX secolo d.C., la città sparì dalla cartina geografica, divenendo il sito archeologico attuale. Gli Arabi diedero alla città vicina il nome di Marsā ‘Ali (il porto di Alì ) da cui poi il nome attuale di Marsala. A partire dall'XI secolo, la città passò sotto la dominazione normanna, sveva, angioina, aragonese e poi sotto quella spagnola. Giroinfoto Magazine nr. 75
Rita Russo Photography Lungo il percorso all’aperto, il primo ritrovamento che s’incontra è costituito da una piccola parte delle fortificazioni occidentali della città di Lilibeo. Queste, che furono scoperte in occasione delle prime campagne di scavi, avvenute alla fine dell’Ottocento, presentano un andamento leggermente ricurvo e parallelo alla linea di costa (Muro Salinas). Sebbene il tracciato delle mura sia noto solo in parte, a iniziare dai ritrovamenti e scavi di emergenza effettuati nel centro urbano di Marsala, è stato possibile supporre che la struttura muraria che si sviluppava lungo il percorso costiero fosse a doppia cortina, alta da 10 a 14 metri e dotata di un camminamento superiore difeso da merli semicircolari, da cui i difensori potevano colpire gli assedianti che utilizzavano a quel tempo anche potenti macchine da guerra.
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Durante gli scavi più recenti condotti sulle fortificazioni nord occidentali della città (2010-2011) e non ancora ultimati è emersa la presenza di un edificio termale pubblico, di estensione ancora ignota, probabilmente realizzato quando era già cessata la funzione difensiva delle fortificazioni. Di questo edificio termale è emersa attualmente soltanto una grande sala absidata nella quale vi era l’impianto per riscaldare gli ambienti (hypocaustum) con il relativo grande forno (praefurnium) in cui si produceva aria calda ad altissima temperatura bruciando legna. Il pavimento della sala era costituito da grandi tessere bianche e lastrine marmoree, di cui rimangono solo alcuni lembi, ed era sostenuto da pilastrini (suspensurae) in mattoni e pietra lavica ancora ben visibili. La sala era utilizzata per i bagni in acque calde (calidarium) o tiepide (tepidarium). Dalle varie ricostruzioni effettuate nel tempo, grazie agli scavi eseguiti nell’area dell’antica città romana sviluppatasi sul precedente impianto punico, è stato possibile ipotizzare per questa uno sviluppo topografico regolare, nel quale a strade principali (plateiai) orientate in senso NO-SE, si intersecavano ortogonalmente strade secondarie (stenopoi) che davano origine a isolati di forma rettangolare.
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La scoperta più rilevante degli ultimi anni effettuata dalla Soprintendenza BB. CC. AA. di Trapani riguarda proprio il c.d. Decumanus maximus, la strada principale dell’impianto urbano di epoca romana perfettamente conservata, la cui denominazione di Plateia “Aelia” è stata resa nota dal rinvenimento in situ di una iscrizione che menziona la pavimentazione della Plateia Aelia da parte di un ricco liberto, Stertinius Treptus, “sua pecunia”. Sulla strada sono ben visibili sovrapposizioni tardoantiche e bizantine di uso funerario (tombe dipinte, piccola basilica). Di questa strada è stato portato alla luce un tratto lungo m. 110, ampio m. 9.50, compresi i marciapiedi. Molta cura era data all’andamento della superficie stradale, leggermente convessa (a schiena d’asino) e al deflusso delle acque piovane che avveniva grazie a canalette di scolo con il fondo pavimentato in mattoncini di cotto, disposti a spina di pesce (opus spicatum), poste lungo i margini della strada.
La pavimentazione di quest’ultima è datata presumibilmente alla tarda età repubblicana (I sec. a.C.) come documenta l’iscrizione pubblica incisa su alcune lastre, relativa al magistrato (Praetor designatus) che finanziò l’opera di monumentalizzazione della strada. Tra il V ed il VII sec. d.C. la Plateia Aelia di Lilibeo venne destinata ad una funzione di tipo funerario, totalmente opposta a quella originaria di importante arteria cittadina. Infatti, venne costruita una chiesa con abside che occupava in larghezza l’intera carreggiata della strada romana e le lastre pavimentali vennero obliterate da numerosi piani di calpestio in terra battuta che determinarono la cancellazione definitiva della più antica via monumentale romana. I defunti vennero sepolti entro tombe a lastre di calcarenite, avvolti in un sudario e accompagnati da una brocca di ceramica o raramente di vetro. In questa necropoli venne costruito un piccolo mausoleo absidato per conservare due tombe a cassa, intonacate e dipinte in rosso, con iscrizioni in greco che inneggiano alla croce, veicolo di resurrezione e protezione dei defunti contro il diavolo.
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Dall’antica strada romana, guardando dal lato opposto al mare si scorge Porta Nuova, una delle porte di accesso alla città di Marsala, dove si trova l’altro ingresso dell'area archeologica di Capo Boeo. Non molto distante dalla Plateia Aelia, ci si imbatte in alcuni isolati (insulae), dove i resti di grandi case (domus) iniziarono, a partire dal 1939, a essere riportati alla luce dopo la scoperta di un mosaico che avvenne durante gli scavi per la costruzione dello stadio comunale (che non ebbe più seguito!). Attraverso le varie campagne archeologiche condotte negli anni successivi sono stati scoperti complessivamente i resti di tre insulae, considerate testimonianze di rilevante interesse per la conoscenza della città di Lilibeo nell’area di Capo Boeo.
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In particolare, nell’insula I, la più completa, la domus è arricchita da ambienti termali e da pavimenti musivi. Per quanto la ricostruzione storica ed architettonica di essa presenti alcune lacune, ciò che è emerso nel tempo dagli scavi ha consentito agli studiosi di ipotizzare che l’isolato fosse il risultato di diverse fasi d’uso succedutesi nel tempo e che il complesso fosse originariamente composto da almeno due/tre isolati minori comprendenti anche due pubbliche strade fagocitate all’interno della domus stessa. Il piccolo isolato che ancora oggi si riesce a individuare nella zona nord della domus conteneva in origine due unità abitative impostate intorno ad un atrio tetrastilo (con quattro colonne), intorno al quale si aprivano gli ambienti principali e di servizio della casa. Successivamente una delle due unità fu trasformata in terme private con il frigidarium al posto dell’atrio tetrastilo, abbellito da mosaici sul pavimento. Formatosi a partire daI II sec. a.C., l’isolato vede la sua organizzazione monumentale, risultante dall’accorpamento di diverse parti eterogenee in un solo isolato nel II - III sec. d.C.. Venne così realizzato il vasto complesso intorno al grande peristilio con colonne che circondava un ampio giardino interno e intorno al quale si aprivano gli ambienti di rappresentanza, il più importante dei quali era il triclinium (sala dei banchetti). Rita Russo Photography
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Intorno all’Insula I sono attualmente visibili anche le tracce delle due strade che la delimitavano ad est (plateia e stenopos). Queste vennero lastricate previa regolarizzazione dei precedenti battuti, costituiti da sabbia di calcarenite, mista a minuti frammenti ceramici. Le lastre venivano in parte ricavate da altri edifici non più in uso o da spazi pubblici non lontani dall’Insula. Terminata la visita all’area archeologica esterna si ritorna al baglio dove attendono di essere visitate le due ampie sale del museo, cui si accede attraversando l’ingresso principale. Decidiamo di iniziare con la sezione di sinistra dedicata a Lilibeo lasciando per ultimo il salone dedicato all’esposizione dei rinvenimenti subacquei. Le collezioni sono costituite da reperti provenienti dalle campagne di scavo condotte a Marsala dai primi del Novecento ad oggi, insieme ad un ristretto nucleo della Collezione “Whitaker” di Mozia e ad antiche acquisizioni comunali. È da precisare che la moderna città di Marsala è stata realizzata in gran parte sovrapposta all’antica città fenicia in un continuum storico ininterrotto che ha lasciato profonde tracce nel tessuto urbano. Per questo, oltre l’area di Capo Boeo, altre aree d’interesse archeologico costituite dai resti di necropoli punico - romane e sepolcreti cristiani sono riscontrabili poco all’interno dell’edificato.
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In questa parte del museo, dunque, in ordine cronologico e topografico, viene narrata la storia della città di Lilibeo attraverso l’esposizione dei reperti provenienti dalla città antica, dalle necropoli puniche ed ellenistico - romane, compresi i materiali dei cimiteri cristiani e dei luoghi di culto di Marsala. L’esposizione principale è preceduta da una saletta nella quale sono stati raccolti reperti anteriori alla fondazione di Lilibeo, provenienti dai centri fenicio - punici di Mozia e Birgi, con i corredi delle necropoli arcaiche, insieme ai rinvenimenti preistorici e protostorici sparsi nel territorio, che attestano la frequentazione nell’entroterra lilibetano sin dal Paleolitico Superiore, tutto completato da un’ampia documentazione grafica e fotografica. Superata questa saletta, la “narrazione” vera e propria inizia con due rinvenimenti di elevato valore archeologico, oltre che di straordinaria bellezza.
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Il primo, che attende all’ingresso il visitatore, ben esposto sul suo piedistallo dentro uno spazio unicamente a lui dedicato, è costituito dalla statua della Venere Lilibetana, in marmo greco di Paros, che raffigura la dea secondo l’iconografia dell’Afrodite pudica. Questa statua, acefala e mancante di alcuni arti, è una copia romana del II sec. d.C., ispirata a un originale ellenistico di scuola micro - asiatica molto apprezzato nell’impero, specialmente in contesti architettonici che prevedevano la presenza dell’acqua. Fu rinvenuta nel 2005 nell’area archeologica adiacente alla Chiesa di San Giovanni Battista, sita a pochi passi dal museo. Il secondo reperto, disposto da solo in una teca chiusa, è costituito dalla Tessera hospitalis, che sancisce il patto di amicizia e ospitalità tra un Punico e un Greco (II-I sec. a.C.). La tessera, realizzata in avorio, porta su un lato un’iscrizione in greco, mentre sull’altro sono raffigurate due mani destre congiunte, in rilievo. Si tratta di un’importante testimonianza della compresenza e integrazione culturale a Lilibeo di famiglie di origine punica e greca, in epoca ellenistico - romana. La città romana, infatti, era fortemente impregnata di cultura greca, anche per la deportazione di una parte della popolazione di Selinunte nel 250 a.C. La seguente esposizione dei reperti provenienti dalla necropoli di Lilibeo segue un criterio cronologico e tematico che parte dai corredi funerari del periodo punico, ossia dalla fondazione della città fino alla metà del III secolo a.C..
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Tra gli abitanti di Lilibeo esistevano notevoli differenze sociali che venivano messe in evidenza proprio dall’analisi degli oggetti presenti entro le sepolture. Questi, infatti, rispecchiavano non solo l’importanza sociale del defunto, ma differivano anche in base al sesso. Per questo motivo nell’allestimento del museo, nelle vetrine di sinistra sono esposti i reperti provenienti dalle sepolture femminili e dalle tombe dei bambini, dove nelle prime si ritrovano oggetti da toeletta, quali cesoie, specchi, contenitori di cosmetici e profumi oltre a rari gioielli, mentre nelle seconde vasetti-biberon di diversa forma, sonagli e vasi in miniatura. Nelle vetrine di destra, strigili e unguentari sono gli elementi che caratterizzano, invece, le sepolture maschili. Il centro di questa prima parte della sala, è dedicato al tipo di sepoltura e ai riti funerari utilizzati durante il periodo punico. In questo periodo, la tomba più comune era la semplice fossa rettangolare, scavata nella calcarenite e destinata a contenere il corpo di un adulto. Dove la natura del terreno lo consentiva venivano scavati gli ipogei verticali a pozzo con camere funerarie al fondo, per la sepoltura di nuclei familiari di elevata condizione sociale. Un ultimo tipo era costituito dal pozzo semplice, poco profondo e privo di camera funeraria. I riti funebri, in uso contemporaneamente, erano l’inumazione e l’incinerazione. La cremazione poteva avvenire nella stessa tomba (incinerazione primaria), oppure in una fossa dalla quale i resti venivano trasferiti in cassette di pietra, anfore e olle in terracotta o in piombo (incinerazione secondaria), insieme agli oggetti più cari al defunto. Di solito le urne cinerarie, delle quali si possono osservare vari tipi in questa sezione museale, contenevano i resti di un solo individuo di sesso femminile, fatta eccezione per la cassetta di una tomba familiare (ricostruita al centro della sala), destinata a due giovani di ambo i sessi, segnalata da una stele antropoide.
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Rita Russo Photography A seguire, l’esposizione illustra la necropoli ellenistico-romana, nella quale la sepoltura di tipo punico viene sostituita da piccoli monumenti funebri dipinti, che si riscontrano fino al II sec. d.C.. Tra questi spicca un’edicola votiva del II sec. a.C. realizzata in calcarenite rivestita di stucco e dipinta; una stele a forma di tempietto con due colonne sulla fronte. Lo schema iconografico del defunto a banchetto, caratteristico del culto eroico in ambito greco, è associato a simboli punici: quelli di Tanit e del caducèo sulle colonne e il disco solare e quello lunare crescente sul frontone. Mentre nel periodo tardo antico (III - V sec. d.C) diventa di nuovo comune il riutilizzo degli ipogei per la realizzazione di sistemi catacombali.
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In fondo alla sala principale, una struttura evoca la ricostruzione delle mura di fortificazione della città coronate da merli semicircolari, erette nel IV sec. a.C. Mentre l’ultima saletta a destra di quest’ala espositiva è dedicata ai culti punici e romani, i primi dei quali sono rappresentati da una stele votiva proveniente dal Tofet o Tophet, (santuario fenicio - punico a cielo aperto, costituito da un’area consacrata nel quale venivano deposti ritualmente le ceneri di bambini e animali). Si tratta di un bassorilievo in pietra calcarea biancastra, del IV - III sec. a.C., proveniente dalla collezione Whitaker. La stele raffigura un’orante vestita con il chitone (tipica tunica greca di stoffa leggera chiusa da una cucitura), con la mano alzata nel gesto rituale della preghiera, mentre compie l’offerta davanti a un caduceo, sormontato dal segno di Tanit. All’epoca romana, invece, risalgono i torsi in marmo di Asclepius, dio della medicina e della figlia Salus/ Igea, dea della sanità fisica e spirituale (provenienti entrambi dall’insula III) che insieme governavano l’ambito della salute. Il loro culto in età romano - imperiale portò alla diffusione di numerose opere scultoree che li raffigurano. E a dire dal gran numero di statuette ritrovate, anche il culto di Venere era particolarmente rilevante nella città romana. Rita Russo Photography
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Terminata la visita alla sezione dedicata alla città di Lilibeo e alla sua necropoli, siamo passati all’ala museale destra, interamente dedicata all’esposizione dei rinvenimenti subacquei, tra i quali spicca il relitto della Nave punica, la Nave tardo-romana di Marausa, insieme a una ricca collezione di anfore da trasporto, ceppi di ancora e al carico dei relitti arabo-normanni (XI-XII sec. d.C.) rinvenuti al largo del Lido Signorino. Ad attendere il visitatore in questa sala vi è il relitto di una nave punica, naufragata nel III sec. a.C. probabilmente nel corso della Battaglia delle Egadi. Il relitto fu scoperto nel 1971 al largo dell’isola Lunga, in prossimità di Punta Scario, all’imboccatura nord della Laguna dello Stagnone di Marsala.
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Questa nave, della quale si conservano il dritto di poppa e la fiancata di babordo, parte della chiglia, dei madieri e delle ordinate che ne costituivano la struttura interna, era lunga 35 m, larga 4,80 m e ospitava circa 68 vogatori. Questo relitto, oltre ad avere un’importanza straordinaria sia dal punto di vista storico sia archeologico, in quanto collegato alle vicende della Prima Guerra Punica, rappresenta un’inequivocabile testimonianza, unica al mondo, delle tecniche di prefabbricazione delle navi fenicie già note attraverso fonti storiche riconducibili a Polibio. I corsi di fasciame e le parti strutturali venivano costruite in serie e contrassegnate con segni o lettere dell’alfabeto fenicio, per essere poi assemblate velocemente e consentire il varo di un’intera flotta in pochi giorni.
Per via della sua forma e delle caratteristiche della carena, è stata identificata come nave da combattimento a remi, ma recenti studi propendono per l’ipotesi che essa fosse propulsa anche dalle vele e che avesse la funzione di nave militare “ausiliaria”, destinata ai rifornimenti delle navi da combattimento.
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Mediante una passerella, agilmente percorribile anche dai diversamente abili, è possibile vedere da vicino lo scafo sopra il quale è stata fatta una ricostruzione della cambusa posizionando anfore vinarie e resti di ceppi da fuoco per cucinare, presumibilmente nella maniera in cui si trovavano nella realtà.
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Del relitto, coperto da banchi di sabbia, sono rimasti ben conservati, inoltre, i chiodi utilizzati per la sua costruzione, che si trovano esposti numerosi insieme ad una gran quantità di anfore di ogni forma e tipo che fanno da contorno all’esposizione centrale. Le parti del relitto furono prima poste entro grandi vasche di acqua dolce per eliminare il sale e successivamente immerse in una soluzione di acqua e cera sintetica per impregnarne la struttura interna. Infine è stato eseguito un essiccamento artificiale per eliminare tutta l’acqua residua. Alla fine della sala, ampio spazio è riservato ai relitti medievali provenienti dal litorale sud di Marsala e al carico di anforette vinarie (Relitto A: fine X-metà XI secolo; Relitto B: fine XI-XII secolo).
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Il percorso dedicato al mare si conclude in una sala esclusivamente destinata alla nave tardo - romana (fine III sec.-primi decenni IV sec. d.C.), ritrovata nel 1999 in prossimità dell’antica foce del fiume Birgi/Akityhios (attuale lido di Marausa), ubicata tra Trapani e Marsala, di fronte le isole Egadi, il cui allestimento è stato inaugurato il 13 aprile del 2019 e comprende anche pannelli didattico-illustrativi, un ricco apparato multimediale e un sistema di realtà aumentata.
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La fiancata destra del relitto è interamente ricostruita, quella di sinistra, a scopo didattico, è stata esposta su un piano orizzontale, così com’è stata rinvenuta (1999 - 2011). Il carico trovato ha attestato che essa avesse una funzione oneraria, destinata al trasporto di derrate alimentari quali frutta secca, vino e conserve di pesce, contenute in anfore, oltre che di animali utilizzati o per la dieta di bordo o per il commercio, i cui resti sono perfettamente conservati. Per la realizzazione del presente articolo, si ringrazia il Direttore del Parco archeologico Lilibeo - Marsala, Anna Maria Parrinello e il suo diretto staff.
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BASILICA DI SAN GAUDENZIO
A cura di Adriana Oberto e Silvia Scaramella
In collaborazione con:
Adriana Oberto Camillo Balossini Cinzia Carchedi Manuel Monaco
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Chiunque sia passato nei pressi della città di Novara ha potuto notare la maestosa cupola che sovrasta la cattedrale di San Gaudenzio. Emblema, fin dalla sua costruzione, della cittadinanza novarese opposta al dominio spagnolo, la cattedrale, del XVI secolo, rimane “orfana” di una cupola degna di nota finché, nel XIX secolo, Alessandro Antonelli non ne costruisce una. Giroinfoto ha visitato, ospite di Kalatà, proprio la cupola, e lo ha fatto lungo un percorso inedito: per la prima volta, infatti, è stato possibile salire a quota 100 metri e ammirare dall’interno la “pancia” della prima tazza.
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BASILICA DI SAN GAUDENZIO
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La nostra visita comincia con la salita lungo la scale della torre campanaria. Al tempo della sua erezione, con i suoi 92 metri di altezza, era la costruzione più alta della città. Fu costruito da Benedetto Alfieri, zio del più famoso Vittorio, ma anch’egli molto importante storicamente, perché architetto di casa Savoia e successore di Filippo Juvarra. Noi ci fermiamo dopo i primi 25 metri, dove alcune sale custodiscono disegni, grafici, ma soprattutto un braccio di 11 metri del compasso di legno usato per misurare il diametro della cupola, nonché il carrellino avvolgi cavi, usati durante la costruzione della stessa. È qui che comincia la storia della Fabbrica Lapidea della Basilica.
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“Ad peste, fame et bello libera nos, Domine” Per scoprire come siamo arrivati alla splendida opera che possiamo ammirare oggi, dobbiamo tornare indietro di cinquecento anni, all’epoca della guerra tra Carlo V d’Asburgo e Francesco I di Francia per il territorio di Milano, quando i novaresi, già provati dalla fame e dalla peste, hanno dovuto assistere alla distruzione della vecchia Basilica.
L’impegno dei cittadini non fu però sufficiente perché l’inizio del XVI secolo vide la morte del Tibaldi e soprattutto la diffusione di pestilenze e carestie che portarono alla chiusura del cantiere nel 1659. La Basilica al tempo aveva una copertura in legno, dipinta e decorata a finta cupola.
Impossibile per i cittadini di Novara pensare di rimanere senza la Basilica dedicata al santo patrono e così, tra il 1577 e il 1590 la Basilica viene ricostruita su progetto di Pellegrino Tibaldi, architetto appartenente alla corrente religiosa della controriforma. Il suo progetto per Novara è molto semplice: costruire nel punto più alto della città una chiesa con un’unica navata, sei cappelle laterali per insegnare la storia dei santi e il transetto che attraversa la navata per creare la Croce di Cristo (nella parte destra verranno poi collocate le reliquie del santo); la zona dell’altare doveva essere molto alta e luminosa per dar gloria a Dio. Nel 1590 la Basilica appartenente alla Civitas Novariae viene consacrata, ma il cantiere è tutt’altro che chiuso. I novaresi volevano infatti perfezionare l’edificio facendo realizzare una grande cupola, anche se non potevano certo immaginare l’opera che Antonelli avrebbe creato. La Fabbrica Lapidea non poteva sostenere in alcun modo i costi per la sua realizzazione e quindi i cittadini decisero di autotassarsi con “l’imposta del sesino” per raccogliere i fondi necessari.
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La basilica viene edificata nel XVI secolo su progetto di Pellegrino Tibaldi dopo che la basilica precedente era stata distrutta e diviene immediatamente un emblema contro la presenza dello stato assoluto che la presenza degli spagnoli aveva creato. Da notare è il plasticismo della facciata e dei fianchi, la cui struttura è mossa da nicchie, finestroni e colonne aggettanti. Fu consacrata nel 1590 quando mancavano ancora il transetto e il presbiterio, ma bisognerà attendere fino al secolo successivo per vedere proseguiti i lavori, che erano stati interrotti dalla peste e le guerre. Solo nel 1711, poi, vengono traslate le reliquie del santo e la basilica può dirsi finalmente ultimata. La struttura è ad una navata, con pianta a croce latina e di struttura tardo-rinascimentale. Possiede numerose opere d’arte, tra cui una cattedra vescovile. Nello scurolo, del settecento, sono conservate, in un’urna d’argento, le spoglie di san Gaudenzio. Dal 1985 la statua originale del Cristo Salvatore, che si trovava in cima alla guglia, è stata collocata nel transetto, dove è tuttora visibile.
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Nel 1734 la storia di Novara cambia in modo radicale e il cantiere può finalmente essere riaperto. Carlo Emanuele III durante le guerre di successione conquista con la battaglia di Guastalla i territori novaresi e sposta il confine al Ticino. Novara entra a far parte del Regno di Sardegna e Carlo Emanuele III, desideroso di riordinare la città, invia Benedetto Alfieri per valutare gli interventi necessari. L’Alfieri nota subito che la Basilica non ha il campanile: bisogna intervenire immediatamente. Nel 1753 l’architetto regio accetta l’incarico e inizia la costruzione della torre campanaria a partire dal basamento quadrato che era stato realizzato prima che il precedente cantiere fosse chiuso. Il quadrato viene trasformato dall’Alfieri prima in un ottagono e poi in un cerchio per erigere una torre campanaria alta ben 92 metri e con una caratteristica molto particolare: per la salita ci sono due scale elicoidali che si intrecciano alla leonardesca e che non si incrociano mai fino alla cella campanaria. Il campanile rappresentava al tempo anche la costruzione più alta in città, e lo rimarrà finché Alessandro Antonelli non costruirà la cupola.
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Nel frattempo, però, Novara passa di nuovo sotto il controllo di Milano, per poi ritornare sotto quello dei Savoia. Quando Carlo Felice (siamo agli inizi dell’ottocento) si occupa delle finanze regie e si accorge che la popolazione di Novara sta continuando a pagare, oltre ad altre tasse, il “sesino”, e lo fa da ben trecento anni, decide di donare l’importo accumulato alla Fabbrica Lapidea che a questo punto può iniziare a pianificare i lavori per la cupola. Mancano ancora soldi, che vengono raccolti tramite lasciti, donazioni, eredità e raccolte fondi; la volontà dei novaresi è ferma: era stata loro promessa una cupola in fase di progettazione e loro semplicemente la vogliono. Finalmente nel 1841 i lavori hanno inizio. A progettare la cupola sarà Alessandro Antonelli; il suo nome viene proposto un anno prima: il 23 maggio 1940 si era infatti radunato il consiglio della Fabbrica, che aveva scelto l’architetto. Antonelli lavorerà per quaranta anni e porterà la cupola ad un'altezza di 126 metri, facendone il simbolo di Novara, nonché un punto di riconoscimento distintivo visibile anche da molto lontano.
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Alessandro Antonelli nasce a Ghemme il 14 luglio 1798 da padre notaio e da mamma casalinga. Quintogenito di undici figli e nato dal secondo matrimonio del padre, Antonelli ha la grande fortuna di poter intraprendere gli studi che più lo interessano. Si iscrive ad un liceo artistico di Milano e poi alla facoltà di architettura dell’Accademia di Brera, prima di proseguire la propria formazione presso l’Accademia Albertina di Torino, dove si laurea ingegnere-architetto nel 1824 sotto la guida di Ferdinando Bonsignore. E’ proprio Bonsignore, l’architetto che a Torino ha regalato la Gran Madre, che coglie le potenzialità di Antonelli e lo iscrive a un concorso. Così nel 1828 vince il prestigioso Prix de Rome, che gli dà l’opportunità di trasferirsi a Roma per cinque anni e di poter studiare tutta la storia dell’architettura italiana. In più, a Roma incontra altri studenti come lui che arrivano dalla Francia e dalle prime scuole politecniche nate in epoca napoleonica, cioè i primi veri architetti. Antonelli ha quindi la fortuna di fondere la sua formazione tradizionale con l’alta ingegneria di ultima scoperta e ricavarne un suo linguaggio personalissimo che applica alla cupola di San Gaudenzio e, vent’anni più tardi, alla Mole. Infatti la cupola di San Gaudenzio viene generalmente indicata come la “sorella minore” della Mole Antonelliana di Torino, ma è di fatto un'opera precedente. A Torino viene nominato professore di architettura, prospettiva e ornato all'Accademia Albertina e mantiene l’incarico dal 1836 al 1957. La sua è una concezione funzionale dell’architettura, che si basa su di uno stile neoclassico e a volte eclettico; si impegna nella sistemazione urbanistica del centro storico della città e soprattutto del quartiere Vanchiglia, dove, oltre alla famosissima Mole Antonelliana, costruisce casa Scaccabarozzi (è il cognome della moglie e l’edificio è più noto come “fetta di polenta”) e casa Antonelli. A Novara lavora assiduamente allo sviluppo civico e urbano della città; costruisce non solo la cupola della basilica, ma anche la vicina casa Bossi e lavora al progetto di ricostruzione della cattedrale di Santa Maria Assunta.
È un personaggio determinato, ma anche generoso, il che lo porta, a seguito di incomprensioni o contrasti con i clienti, a vedere le sue opere realizzate solo in parte o con forti modifiche. Negli anni sessanta dell’Ottocento fa parte della commissione incaricata a valutare i progetti di Santa Maria del Fiore a Firenze, ma si stacca ben presto dalla commissione per presentare un progetto tutto suo, che però non viene accettato. Partecipa attivamente alla politica in qualità di consigliere regionale e provinciale e per due mesi è anche deputato del Regno di Sardegna. Muore a Torino all’età di 90 anni nel 1888. Con la sua opera forse più conosciuta, la Mole Antonelliana, Antonelli introduce innovazioni rese possibili dalle conquiste tecnologiche dell’epoca. La costruzione, riprodotta sul verso della moneta da due centesimi di euro, è uno dei principali simboli d'Italia.
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Nel 1840 Antonelli è già molto impegnato: è attivo in alcuni cantieri a Torino, insegna all’Accademia Albertina ed è consigliere comunale sia a Torino, sia a Novara. Accetta però volentieri di lavorare anche sul progetto della cupola di San Gaudenzio, anzi lo fa promettendo solennemente di “Non risparmiare onde l’opera riuscisse meno imperfetta e corrispondesse meglio che per lui si potrebbe alla generale architettura”. Il primo progetto proposto è quello che si basa sulle cupole allora “alla moda”, come quelle della cattedrale di Saint Paul a Londra, nonché degli Invalides o del Pantheon a Parigi. E siccome lo scopo era quello di donare uniformità al complesso, propone anche di rivedere la facciata della basilica stessa. I novaresi accettano, a patto che sulla stessa rimanga ben visibile lo stemma – Civitatis Novariae – già presente. Nel 1844 cominciano i lavori e Giuseppe Magistrini diventa, in qualità di direttore tecnico, il braccio destro di Antonelli; è lui che introduce l’uso, per esempio, del compasso di 22 metri di diametro e di nuove attrezzature che rendono il cantiere all’avanguardia. A questo punto i lavori subiscono una battuta d’arresto con lo scoppio della Prima Guerra d’Indipendenza e la chiusura
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della Fabbrica Lapidea per mancanza di operai, partiti al fronte; riprenderanno negli anni ‘50 del secolo e per fortuna non verranno fermati dalla Seconda Guerra d’Indipendenza. L’architetto Antonelli, nel frattempo, aveva rivisto il progetto e aggiunto circa 10 metri alla cupola. La fabbrica, però, non aveva mai ricevuto un progetto vero e proprio dall’architetto, che alla fine, nel 1860, consegna un terzo progetto, che in realtà è probabilmente la sua visione originale della Basilica. Si tratta di un progetto che, se consegnato vent'anni prima, non sarebbe mai stato accettato e che presenta una facciata stretta e una cupola molto alta: Antonelli, infatti, voleva che la sua opera fosse ben visibile e spiccasse al di sopra dei tetti delle case che già al tempo la circondavano, cosa che non sarebbe successa con la prima proposta di Antonelli. Questi continui cambiamenti e soprattutto l'audacia del nuovo progetto causano forti dissensi con la Fabbrica Lapidea; i litigi continueranno nonostante i tentativi di Magistrini di far da paciere, ma che finirà per dimettersi nel 1863. Alla fine degli anni ‘60 i lavori arrivano fino al cupolino, ma devono essere nuovamente interrotti per mancanza di fondi.
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Alessandro Antonelli torna a Torino, ma non si rassegna e mantiene una fitta corrispondenza con Novara. Alla fine la Fabbrica riapre e ci si accorda per realizzare una guglia, e non più un cupolino, che aggiungerà alti 10 metri all’edificio. In cima alla guglia, inaugurata il 16 maggio 1878, viene posta la statua del Cristo Salvatore; l’opera, altra cinque metri, è stata realizzata da Pietro Zucchi su disegno di Antonelli in rame ricoperto di foglia d’oro. Il peso della cupola, però, provocherà problemi ai piloni del Tebaldi: crepe e piccoli crolli causeranno la chiusura della basilica. In realtà Antonelli è consapevole che la cupola si è, come previsto, semplicemente assestata e risolverà la questione scavando fino a cinque metri di profondità attorno ai piloni del Tibaldi, rifacendo le fondamenta e avvolgendo i piloni in una struttura completamente nuova; i lavori, durati sei anni, eviteranno la distruzione della basilica, come avrebbe voluto la Fabbrica Lapidea. Tale decisione si dimostrò ovviamente quella giusta: l’architetto era ben conscio di quello che aveva costruito e sapeva che la struttura avrebbe retto. Il 22 gennaio 1888 la chiesa viene finalmente riaperta e restituita ai novaresi, appena qualche mese prima della morte di Antonelli. Tutta la sua vita è stata dedicata alla dimostrazione di come la moderna ingegneria e le moderne conoscenze potessero essere applicate alla tradizione: i risultati sono vertiginosi e strepitosi, e testimoniano la visione, la sperimentazione e anche il briciolo di follia propri di Antonelli.
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Nel 1985 la statua del Cristo Salvatore viene rimossa dalla cima della guglia e posizionata nel transetto della basilica. Una copia in vetroresina, benedetta dal vescovo, verrà collocata al posto dell’originale nel luglio 1994.
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La cupola di San Gaudenzio è composta di realtà da tre cupole – due interne ed una esterna. Per effettuare la visita ci viene chiesto di indossare un elmetto e l’imbracatura che ci proteggeranno in caso di pericolo. Dalla sala del compasso, che si trova nel sottotetto, camminiamo fino all'incrocio della navata della basilica col transetto; questo ci permette di ammirare la struttura del tetto, ma soprattutto la “foresta” delle capriate in legno che risalgono ai tempi di Pellegrino Tibaldi e sono perciò del XVI-XVII secolo; si vedono anche i bracci metallici usati per abbassare e risollevare il candelabro delle rose in occasione della festa di San Gaudenzio. Da qui si vede anche la base della cupola e si può apprezzare il sistema di scarico dei pesi pensato da Antonelli: ai quattro piloni del Tibaldi vengono uniti quattro archi bassi sui quali scorrono altri quattro archi molto più alti e acuti. Il problema da sormontare, però, sono le forze esercitate dalla struttura sui materiali tradizionali con cui viene costruita la cupola. Adriana Oberto Photography
Per ovviare alle sollecitazioni che i mattoni tradizionali eserciterebbero sulla malta, Antonelli e Magistrini trovano la soluzione nel modo in cui gli Etruschi usano il mattone, sbozzandolo a cuneo e minimizzando così l’uso della malta: Magistrini costruisce una macchina proprio per questo. Un altro problema è rappresentato dal granito usato nelle chiavi di volta e nei punti critici dove gli archi si uniscono ai piloni. Viene usato il ferro di Pont Saint Martin – il migliore – trasportato a Novara tramite la ferrovia, di cui la città viene presto dotata in quanto città importante sia per il regno di Sardegna, sia per il nascente regno d’Italia; questo viene fuso nelle enormi chiavi, sia fisse, sia mobili, e nelle grappe metalliche che uniscono l’interno all’esterno. A questo punto ci affacciamo dall’alto all’interno della prima cupola. Ci troviamo in questo momento a camminare sulla “pancia” della cupola e siamo in grado di vedere sia la cupola inferiore, sia quella superiore. La forma rotondeggiante è perfetta e si vedono benissimo i ben ventiquattro piloni, la vera e propria ossatura che sorregge la cupola.
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Manuel Monaco Photography Dalla prima cupola si passa al primo colonnato; si arriva così a 50 metri di altezza e si entra nella seconda cupola. Da qui si può osservare la struttura dall’interno e ammirare i giganteschi archi; notiamo anche che la seconda cupola è più stretta e “scarna”: qui ci arrivavano solo Antonelli e gli addetti ai lavori.
Questi teli sono stati tolti per la prima volta lo scorso 22 agosto per permettere il nuovo percorso di visita, ma la copertura è indispensabile durante il periodo invernale. È stato ideato e realizzato un telo tecnologicamente avanzato trasparente che permette di mantenere non solo la temperatura, ma anche la visuale.
Date le dimensioni, essa si comporta un po’ come “canna fumaria”, raccogliendo il calore che sfugge dall’interno della basilica, che risulta così molto difficile da mantenere calda. Per ovviare a questo problema, nonché per proteggere le opere d’arte all’interno della basilica, furono posti, proprio sopra questa “tazza”, dei teloni bianchi molto spessi, che trattenevano, sì, il calore all’interno, ma al tempo stesso non permettevano la vista.
Lo spazio che vediamo bianco avrebbe dovuto, in realtà, ospitare degli affreschi riportanti le glorie di San Gaudenzio e diventare, per intenderci, maestosa come la cupola del Brunelleschi a Firenze. Mancarono però il tempo e il denaro. Quello che ci è rimasto è l’”arriccio”, cioè la prima base di intonaco a cui sarebbero seguite le altre in preparazione all’affresco, e le firme degli operai che lavorarono qui dal 1880 ad oggi.
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Da qui notiamo una caratteristica strutturale molto importante: i 24 piloni in realtà non sono altro che 12 archi a sesto acuto che si intrecciato e che hanno un movimento di raccoglimento nella parte alta; sopra di loro ce ne sono altri 24 e poi ancora altri, sempre più piccoli; essi vanno a formare il cono che avrebbe dovuto reggere la guglia. La prima e la seconda cupola hanno una funzione portante, ma ce n’è un’altra, esterna – quella che viene vista da lontano – con funzione esclusivamente estetica. Qualche altro architetto, come il Borromini o il Guarini, avrebbe probabilmente lasciato la meravigliosa struttura interna a vista, rendendola magari più originale; Antonelli però è un architetto neoclassico, per il quale servono compostezza, rigore, equilibrio, armonia: crea così la copertura esterna. Percorriamo ora il secondo colonnato; da qui si gode una vista a 360° su una bellissima e irriconoscibile Novara, che ci accoglie in una splendida giornata di sole: è possibile fotografare non solo il campanile della Basilica, ma anche la navata, i tetti delle case – si vedono anche due degli altri progetti a cui aveva lavorato Antonelli: casa Bossi e il Duomo della città – finanche le Alpi.
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Nelle giornate più limpide, infatti, è possibile distinguere il Monte Rosa, il Monviso, la collina di Superga e lo skyline di Milano.
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Da qui è possibile notare i dettagli che, data l’altezza e la prospettiva, è impossibile scorgere dal basso, come le teste in bronzo dei cherubini della Torre campanaria, opera di Giacomo Aguzzini; in origine erano uniti da una serie di festoni in bronzo, che poi sono stati staccati durante la Seconda Guerra Mondiale. È inoltre possibile notare come la città di Novara e la sua provincia si siano sviluppate nel corso dei secoli: la parte ad oriente, verso Milano, ha per esempio avuto da sempre una vocazione commerciale/artigianale (e in seguito industriale) e infatti il territorio è fortemente urbanizzato. Verso sud e verso est al contrario, dove ci sono i fiumi Gogna e Sesia, il panorama diventa agricolo e si apre verso le risaie e i campi. Molto più vicino, guardando in basso, si scorgono gli edifici del centro, tra cui, Casa Giovannetti, ristrutturata da Antonelli; palazzo Bellini, da cui è passata molta della storia politica che ha riguardando anche la costruzione della basilica; l’arcata del Broletto. Un po’ più in là si vede il Duomo. Antonelli è l’artefice del suo rifacimento, che avviene mentre sta lavorando alla cupola. Poco più in là c’è l’ospedale, per cui l’architetto aveva curato la costruzione di un padiglione. Poi c’è il castello, piazza Venezia (sul sito del vecchio castello medievale) e palazzo Borsa, con la sua forma quadrangolare. L’ultima tappa del colonnato esterno è Villa Bossi, considerata la più bella villa neoclassica d’Italia, anche se il caseggiato è fortemente degradato e disabitato dagli anni ‘50 del secolo scorso. Oggi è proprietà del comune di Novara e si cerca di tutelare ciò che è ancora fruibile. Una volta rientrati saliamo a quota 75 metri. Qui gli spazi si fanno più stretti; le firme lasciate dagli operai sono più numerose. Va notato come al tempo delle scritte più vecchie (fine del XIX – inizi del XX secolo) il tasso di analfabetismo fosse molto alto: chi le ha lasciate ha pertanto potuto godere di un’istruzione e chi scrive lo vuole far notare.
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Questo è forse il posto più spettacolare lungo la visita. Si vedono i primi 24 piloni, che ormai si sono chiusi ed hanno lasciato spazio ai successivi 24 e ora convergono verso la parte interna. A questa struttura si appoggia la cupola esterna, attraverso gli archi rampanti che si vedono. All'esterno questa cupola è grigia, perché sono state graffate una ad una le pietre che la compongono, ma ovviamente da qui spicca il colore rosso, perché la costruzione è in mattoni. Inoltre le muratura tende ad assottigliarsi con l'aumentare dell'altezza, e questo perché diminuisce ovviamente il carico da reggere.
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Ci sono delle finestre attorno alla cupola, progettate da Antonelli, ma che hanno una storia interessante. Infatti, quando l’architetto presentò il progetto alla Fabbrica Lapidea, gli venne rifiutato. Pensando che i disegni non fossero chiari, li rifece e li ripresentò. La cosa andò avanti per alcune volte, finché gli fu spiegato dalla stessa Fabbrica che era impossibile pensare di aprire finestre in una cupola, perchè sarebbe crollato tutto; questo nonostante avesse spiegato più volte che la cupola esterna non supportava nessun peso – a questo servivano le cupole interne e i piloni. Come si spiega allora la presenza delle finestre? Una volta arrivato a questa altezza, Antonelli ha tagliato le finestre all’esterno e preparato intelaiature e vetri e le ha poi fatte coprire con teli di iuta dipinti con il colore dei mattoni; a testimonianza di ciò rimangono delle macchie bianche, che altro non sono che i residui dell’intonaco usato per fissare i sacchi di iuta. Questo gli permise di ingannare le varie commissioni inviate dalla Fabbrica Lapidea per controllare i lavori, e che non salivano fino a questa altezza, ma si limitavano a guardare in alto da quota 50 metri: da lì vedevano il colore rosso dei sacchi dipinti e li scambiavano per mattoni. La cupola viene inaugurata il 16 maggio 1878. Lo stesso giorno vennero rimossi i teli e la Fabbrica Lapidea si trovò con ben 48 finestre: 24 circolari e 24 rettangolari. Antonelli aveva così raggiunto il doppio obiettivo di alleggerire la struttura esterna e di fare entrare luce all’interno, che non solo illumina lo spazio attorno, ma penetra fino alla basilica sotto ed esalta tutta la costruzione.
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Cinzia Carchedi Photography
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Rimane a questo punto la parte finale della visita: si sale all’interno della guglia, tramite una scala a chiocciola, verso i 100 mt di altezza fino allo strettissimo camminamento che la circonda. È l’occasione per fare ancora qualche foto alla struttura e lanciare un’ultima occhiata al panorama attorno a noi. Desideriamo ringraziare per l’ospitalità durante la visita l’organizzazione di Kalatà e soprattutto Stefania, per le spiegazioni e gli interessanti aneddoti, e Mauro, che ha permesso a noi fotografi una visione esclusiva del luogo.
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Punta San Virgilio Autore: Giuliano Innocenti Punta San Vigilio - Lago di Garda
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Il lavoro del mare Autore: Franco Fariselli Porto Garibaldi (FE)
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