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- 2018 Novembre
N. 37 - 2018 | NOVEMBRE, Gienneci Studios Editoriale. www.gienneci.it
N.37
TORINO MAGICA NERA
BAND OF GIROINFOTO TORINO
MARRAKECH MAROCCO Di Sergio Agrò
LE SALINE TRAPANI - MARSALA Di Matteo Pappadopoli
YEARS BOB DYLAN BY SCHATZBERG Di Giancarlo Nitti
WEL COME
37 www.giroinfoto.com NOVEMBRE 2018
la redazione | Giroinfoto Magazine
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ANNO IV n. 37
giroinfoto magazine
20 Novembre 2018 DIRETTORE RESPONSABILE HEAD PROJECT MANAGER Giancarlo Nitti CAPO REDAZIONE Paolo Buccheri SEGRETERIA DI REDAZIONE E REVISIONE Silvia Belotti CAPI SERVIZIO Lorena Cannizzaro REDATTORI E FOTOGRAFI Giancarlo Nitti Redazione Cinzia Marchi Reporter Matteo Pappadopoli Reporter Sergio Agrò Reporter Mariangela Boni Reporter Band Of Giroinfoto - Torino Lorena Cannizzaro Barbara Lamboley Stefano Tarizzo Adriana Oberto Manuel Monaco Davide Tagliarino Fabrizio Rizzo Fabrizio Rossi
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Skira Editore
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INSIDE
Giroinfoto Magazine
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94 YEARS
116
24
Indice 10
DYLAN
By Schatzberg A cura di Giancarlo Nitti
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MELLE Francia A cura di Cinzia Marchi
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TORINO MAGICA Nera Band Of Giroinfoto
80
LE SALINE Trapani e Marsala A cura di Matteo Pappadopoli
94
MARRAKECH Marocco
A cura di Sergio Agrò
108
STUPINIGI Residenze Sabaude
A cura di Mariangela Boni
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TRAPANINPHOTO 2018 Corporeità
A cura di Monica Gotta
36 136
FOTO EMOZIONI Le foto dei lettori Questo mese con: Francesco Saverio Paternostro Enrico Raimondo Anna maria Noto
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by Schatzberg
Come soggetto fotografico, Dylan era il migliore. Bastava puntargli addosso l’obiettivo e le cose semplicemente accadevano. Abbiamo avuto un buon rapporto e lui era disposto a provare qualsiasi cosa.
Jerry Schatzberg
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Jerry Schatzberg Dylan suona l’armonica 1965
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By Schtzberg
Questo mese, in collaborazione con Skira editore, celebriamo un volume dedicato al rapporto del fotografo americano Jerry Schatzberg con Bob Dylan. L’edizione di 262 pagine, riunisce gli iconici scatti di Schatzberg fatti a Bob Dylan all’apice della sua carriera: i ritratti di studio, le fotografie in sala di registrazione, le rarità, i concerti. Nel 1965, Jerry Schatzberg, già ben affermato attraverso il suo lavoro con le riviste, incontrò un giovane Bob Dylan che era all’apice della sua fama. Dylan invitò il fotografo nello studio dove stava registrando un album che sarebbe diventato Highway 61 Revisited, che includeva Like a Rolling Stone, canzone che avrebbe guadagnato il primo posto nella classifica di “Rolling Stone” dei cinquecento più grandi successi di tutti i tempi. Le fotografie di Schatzberg catturano Dylan durante uno dei momenti più cruciali della storia della musica e includono le riprese di quello che sarebbe probabilmente diventato il suo più grande album, Blonde on Blonde. Immagini essenziali e intramontabili, che non solo resistono alla prova del tempo, ma sono anche diventate visivamente sinonimi di uno degli artisti più importanti del XX secolo.
Dylan ha venduto oltre cento milioni di dischi ed è uno degli artisti più venduti di tutti i tempi. Ha ricevuto numerosi premi tra cui undici Grammy Awards, un Golden Globe Award e un Academy Award. È stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, nella Minnesota Music Hall of Fame, nella Nashville Songwriters Hall of Fame e nella Songwriters Hall of Fame. La giuria del Premio Pulitzer nel 2008 gli ha assegnato una citazione speciale per “il suo profondo impatto sulla musica popolare e sulla cultura americana, caratterizzato da composizioni liriche di straordinaria potenza poetica”. Nel maggio 2012 Dylan ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom dal presidente Barack Obama. Nel 2016 è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura “per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione musicale americana”. Il volume include i reprint di interviste seminali al menestrello di Duluth, compresa la mitica A night with Bob Dylan di Al Aronowitz, pubblicata sul “New York Herald Tribune” nel 1965.
BOOK COVER
Palazzo Casati Stampa via Torino 61 20123 Milano www.skira.net
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Jerry Schatzberg regista, sceneggiatore e fotografo, nasce nel Bronx, New York, il 26 giugno 1927. Prima di diventare regista e uno dei massimi artefici della rinascita del nuovo cinema americano degli anni ‘70, è stato uno dei più famosi fotografi di moda e pubblicità degli anni ‘60, collaborando con famose riviste come Esquire e Vogue. Una delle sue immagini più famose è la copertina dell’album Blonde on blonde di Bob Dylan del 1966. Nel 1970 esordisce come regista cinematografico, dirigendo Mannequin Frammenti di una donna, interpretato da Faye Dunaway. L’anno successivo dirige un altro grande attore, Al Pacino, nel suo primo ruolo da protagonista in Panico a Needle Park. Nel 1973 vince la Palma d’Oro a Cannes con il film drammatico Lo spaventapasseri, interpretato da Gene Hackman e Al Pacino, considerato il suo capolavoro. Di minor successo i film realizzati negli anni successivi, come La seduzione del potere (1979) e Accordi sul palcoscenico (1980). Nel 1990 vince l’Efebo d’Oro-Premio Internazionale Cinema Narrativa per il film L’amico ritrovato (1989), con Jason Robards, tratto dal romanzo breve Reunion del 1971 dello scrittore tedesco Fred Uhlman, tradotto il 19 lingue.
Jerry Schatzberg Dylan durante la registrazione di Highway 61 Revisited 1965
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Jerry Schatzberg Fotografia per copertina Saturday Evening Post 1966
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Jerry Schatzberg Concerto di Mineola 1965
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Jerry Schatzberg Scherzi di Dylan 1965
Bob Dylan Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, nasce a Duluth, nel Minnesota, il 24 maggio 1941 e presto inizia a suonare pianoforte e chitarra. Dopo un’adolescenza trascorsa a Minneapolis, dove frequenta l’Università e i circoli dei giovani intellettuali della New Left iniziando ad esibirsi in pubblico, resta colpito dalla lettura della biografia di Woody Guthrie e, nel 1961, decide di trasferirsi a New York. Il contratto discografico con la Columbia arriva quasi subito e nel 1962 Bob Dylan pubblica il suo primo, omonimo LP. Il successo arriva nel 1963 con THE FREEWHEELIN’ BOB DYLAN, l’album che comunica al mondo la nascita di un nuovo eroe della folk song di protesta e di una personalità di riferimento per l’allora nascente movimento beat: ruoli che Dylan conserva tuttora nell’immaginario collettivo nonostante le sue canzoni si facciano con il trascorrere degli anni sempre più personali. La prima delle tante svolte artistiche della sua carriera avviene al Festival di Newport del 1965, dove Dylan si
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presenta accompagnato da un gruppo elettrico provocando il risentimento dei puristi del folk. Ma se per Guthrie la chitarra era un fucile, Dylan decide di ampliarne la potenza con l’elettrificazione e i suoi album di quegli anni (BRINGING IT ALL BACK HOME, HIGHWAY 61 REVISITED, BLONDE ON BLONDE) sono capolavori di intensità poetica e sonora. Alla fine degli anni ’60 (gli album del periodo sono JOHN WESLEY HARDING e NASHVILLE SKYLINE) Dylan torna con la sua musica alle radici della musica americana, mentre i ’70 iniziano con varie vicissitudini, tanto sul piano artistico che personale. Per avere un tiepido segnale positivo bisognerà aspettare PLANET WAVES, del 1974, e il tour in compagnia della Band testimoniato dal doppio BEFORE THE FLOOD. Nel 1975 esce un nuovo capolavoro, BLOOD ON THE TRACKS, preludio di un periodo di rinnovata popolarità che prosegue con l’album DESIRE e con il brano “Hurricane”. La fine del matrimonio con Sara vede Dylan cercare rifugio nella religione e aderire alla corrente dei Born Again Christians, “i cristiani rinati”: i dischi del periodo risultano però tra i più fiacchi e monotoni della sua produzione. Smaltita la sbornia mistica, il decennio seguente offre un paio di nuovi capolavori come INFIDELS e OH MERCY, mentre i ’90 aggiungono allo straordinario catalogo un eccellente UNPLUGGED e un ottimo TIME OUT OF MIND splendidamente bluesato. Il nuovo millennio è inaugurato dalla pubblicazione dell’inedita “Things have changed”, inclusa nella colonna sonora del film “Wonder boys” (2000): il brano, nel
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By Schtzberg
marzo 2001, finirà per vincere l’Oscar per la migliore canzone originale. Nel 2002 esce un nuovo disco di inediti, LOVE AND THEFT, fortemente rétro e orientato verso sonorità anni ’40-’50. Nel frattempo si intensificano le registrazioni storiche e d’archivio (il LIVE 1966 alla Free Trade Hall di Manchester con la Band, il LIVE 1975 della Rolling Thunder Revue) pubblicate nella collana “The bootleg series” e di cui fa parte anche NO DIRECTION HOME, doppio Cd che nell’autunno 2005 accompagna un cine-documentario diretto da Martin Scorsese. Impegnato costantemente sui palchi di tutto il mondo in quello che va noto come il “never ending tour” e assai meno schivo di un tempo, nel 2003 Dylan si cimenta come attore nel film “Masked and anonymous”, mentre sulla sua vita è in preparazione una pellicola diretta da Todd Haynes (che esce poi nel 2007 con il titolo di “I’m not there”). Nell’autunno del 2004 il cantautore pubblica anche “Chronicles”, primo volume di una annunciata autobiografia in più capitoli. Mentre Dylan si cimenta con successo nel ruolo inedito di disc jockey radiofonico per l’emittente satellitare Sirius XM (dai suoi “Theme time radio hour” vengono ricavati anche dei dischi), per un album di inediti bisogna attendere la fine dell’estate 2006: esce MODERN TIMES, primo lavoro in 5 anni. Nel 2008 arriva TELL TALE SIGNS, ottavo volume delle Bootleg series: un cofanetto di 2 cd (3 nell’edizione deluxe) con inediti e versioni alternative provenienti soprattutto dalla produzione degli ultimi 15 anni. L’anno successivo TOGETHER THROUGH LIFE richiama i suoni dei classici dischi Sun e Chess Records degli anni Cinquanta, ma anche sapori di canzone francese (lo spunto del disco arriva da “Life is hard”, un brano composto su commissione per il regista francese Oliver Dahan). Pochi mesi più tardi il cantautore sorprende nuovamente il pubblico pubblicando CHRISTMAS IN THE HEART, un album di inni e canzoni natalizie che attingono dal repertorio sacro e da quello secolare di artisti come Bing Crosby, Nat King Cole e Mel Tormè. Ad ottobre 2010 esce il nono capitolo delle Bootleg Series, THE WITMARK DEMOS: il disco comprende 47
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demo di canzoni registrate tra il 1962 e il 1964. In contemporanea la Sony Legacy realizza BOB DYLAN: THE ORIGINAL MONO RECORDINGS, un box che contiene i primi otto album realizzati dall’artista nella loro forma originale. A settembre 2012 esce il nuovo lavoro, TEMPEST: contiene una ballata di 14 minuti sul Titanic e “Roll on John”, dedicata a Lennon. Nel 2014 Dylan pubblica sul suo sito “Full Moon and Empty Arms”, sua versione di uno standard reso famoso da Frank Sinatra, che lascia presagire un nuovo album di studio. Nel frattempo, però continua la pubblicazione dei materiali d’archivio. Nel 2013 esce ANOTHER SELF PORTRAIT (1969–1971), tratto dalle sessioni dell’omonimo disco, e nel 2014 arriva THE BASEMENT TAPES COMPLETE, 138 canzoni tratte dalle famose sessioni con la band. Testi inediti non musicati da questo stesso periodo vengono messe in musica in “Lost on the river”, da Elvis Costello, Jim James e altri, sotto la supervisione di T Bone Burnett. Ad inizio 2015 arriva SHADOWS IN THE NIGHT, disco originariamente atteso per l’anno precedente e composto da rivisitazioni di brani del repertorio di Frank Sinatra. Alla fine dello stesso anno arriva THE CUTTING EDGE 1965-1966, 12° volume delle bootleg series dedicato al periodo di BRINGING IT ALL BACK HOME, HIGHWAY 61 REVISITED e BLONDE ON BLONDE. La raccolta esce anche in una versione con 18 CD e tutte le incisioni di studio di quel periodo. Il progetto di rivisitazioni del canzoniere americano continua nel 2016 e nel 2017 con FALLEN ANGELS e TRIPLICATE. Il 13 ottobre 2016 gli viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana”. E’ il primo musicista contemporaneo a ricevere l’onorificenza, che ritirerà in forma privata l’anno successivo, senza presentarsi alla cerimonia. Nel 2017 esce THE BOOTLEG SERIES VOL. 13: TROUBLE NO MORE 1979-1981.
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Bobby Neuwirth gioca a fotografare Dylan con la macchina di Schatzberg 1965
Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Come si avvicinò Schatzberg a Dylan Estratto dall’intervista di Jonathan Lethem, saggista statunitense a Jerry Schatzberg.
Jerry Schatzberg Lo spirito ludico di Dylan 1966
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Jonathan Lethem
Jerry, mi chiedo se tu, in un senso o nell’altro, riesca a vedere le tue foto di Dylan dall’esterno. Per quanto mi riguarda, è come se le vedessi sotto una doppia prospettiva. Da un lato, sono nato nel 1964, i miei genitori erano dei fan di Dylan e avevano una discreta collezione di LP. Quindi alcune di queste immagini sono parte del mio bagaglio, impregnate della mia percezione dell’universo culturale in cui ho avuto la fortuna di nascere. In questo senso, da bambino le davo per scontate: restituivano semplicemente l’aspetto dell’artista durante il suo periodo eroico, nella fase in cui, per dirla in modo grossolano, sembrava che tutti avrebbero voluto essere lui o almeno stare con lui. All’epoca in cui acquistavo i miei dischi di Dylan, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, c’erano molte visioni contrastanti dell’arte, della personalità e dell’immagine di Bob, ma tu hai scoperto la versione guida, con cui tutte le altre sarebbero state messe a confronto (di solito risultando inadeguate). Le più diffuse di queste immagini non sono solo buone fotografie di una persona insolitamente interessante e vivacemente reattiva alla fotocamera – anche quando finge che non ci sia nessuna fotocamera – ma sono anche segnali culturali che dicono a una generazione “qui sta accadendo qualcosa”, anche se non si sa che cosa sia. Più tardi sono diventato, per quanto sia bizzarro ammetterlo, un “dylanologo”, uno studioso non solo di tutte le fasi del suo lavoro, ma dei libri pubblicati sull’uomo e sulle sue canzoni, e infine io stesso autore di libri su di lui. In altre parole, ho iniziato a indagare i modi in cui l’immagine e l’arte di Dylan, che sembravano “uscite di getto”, sono state costruite. Ascoltare un bootleg in cui Bob e la sua band provano quindici diverse versioni di Like a Rolling Stone è un po’ come osservare venti diverse foto realizzate prima, dopo e durante l’immagine “iconica” che è stata scelta per la copertina di Blonde on Blonde (o quelle al suo interno). Per certi versi questo provoca una percezione diversa degli artisti, che appaiono più umili e umani. Ma allo stesso tempo rende ancora più miracoloso l’effetto che la versione iconica ha sulla sensibilità collettiva. Ci ricorda che l’arte sta semplicemente in quel momento, che lì è accaduto qualcosa. Insomma, tutto questo è il preambolo di una domanda abbastanza semplice: in che misura hai capito che in quel particolare frangente, con Dylan e la tua macchina fotografica, stavi facendo qualcosa che fino a quel momento non esisteva? È possibile che tu lo avessi previsto? È stata una creazione collaborativa? Tutto questo l’hai fatto a lui o con lui? Oppure è stato lui a farlo a te?
Jerry Schatzberg
Ecco, a essere onesti, sono arrivato a Dylan un po’ in ritardo. Avevo sentito parlare di lui, ma alla fine è successo grazie all’insistenza di due miei amici: ogni volta che li vedevo mi chiedevano se avessi ascoltato Bob.
A un certo punto, poiché erano così assillanti, ho dovuto fare uno sforzo estremo per accontentarli. Uno dei miei amici era qui a New York e l’altra si spostava tra New York e Parigi. Era così ostinata che, quando sapeva che ero a Parigi, mi chiamava per farmi la solita domanda. Infine, l’ho sentito come un dovere verso di loro: dovevo ascoltarlo. Ho iniziato a farlo e mi ha conquistato all’istante. Avevo sentito un sacco di musica “personale” prima di allora, perché finché esistono i cantautori esistono canzoni personali, ma la combinazione di onestà e arte che ho trovato nella sua musica era qualcosa di totalmente nuovo per me. Un giorno stavo lavorando nel mio studio con Al Aronowitz, grande giornalista di rock and roll, e Scott Ross, un disc jockey rock and roll che poi si è dedicato alla musica religiosa. Non ricordo chi stessi fotografando, ma con l’orecchio sinistro ascoltavo la loro conversazione: si parlava di Dylan. L’avevano appena incontrato e volevo inserirmi nel discorso. Così dissi: “Ehi, la prossima volta che vedi Dylan digli che vorrei fotografarlo”. Immaginai che per lui fossi uno sconosciuto, ma cosa avevo da perdere? Il giorno dopo ricevetti una telefonata da sua moglie. Disse: “Bobby ha saputo che vuoi fotografarlo”. Risposi: “Sì, mi piacerebbe molto. Spero sia possibile”. Dopo aver chiacchierato un po’, mi diede l’indirizzo dello studio in cui stava registrando Highway 61 Revisited e mi disse che sarei potuto andare lì in qualsiasi momento. Così, il giorno dopo presi la mia mini Nikon e partii per una nuova avventura. Dylan mi accolse come un vecchio amico, mi sentii il benvenuto. Voleva che ascoltassi quello che aveva registrato quel giorno. Rimasi molto impressionato e un po’ sopraffatto da tanta attenzione. Ah, dimenticavo di dire che sua moglie era la stessa amica di New York di cui parlavo poco fa; mi aveva raccontato di Dylan circa tre anni prima, poi avevamo perso i contatti, ma lei non aveva mai smesso di ammirare Bob, tanto da sposarlo. Per me fu l’inizio di una vera collaborazione; devo ammettere che alcune delle raccomandazioni di Sara hanno sicuramente giocato un ruolo in questo, dato che fino a quel momento avevo sentito parlare solamente della sua diffidenza nei confronti dei giornalisti e probabilmente i fotografi erano inclusi in quella categoria. Nello studio di registrazione godevo di totale libertà. Mi sentivo molto onorato. Lo shooting andò benissimo, erano soddisfatti dei risultati e così pensai che fosse il momento di colpire ancora. Volevo fotografarlo in un contesto in cui avrei avuto il controllo della situazione, cioè nel mio studio. Non ricordavo altre foto che lo ritraessero all’interno di uno studio. Dal momento che il mio lavoro era piaciuto così tanto, acconsentirono. Questo fu l’inizio di due anni e mezzo di ricerca su Dylan e il mio modo di vederlo. Giroinfoto Magazine nr. 37
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A cura di Cinzia Marchi
MELLE IL BORGO ROMANICO
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elle è una piccola città nel cuore del Poitou Charentes, in Francia, sorta grazie alle sue miniere d’argento e piombo, lungo il fiume Baronne.Scoperte nell’epoca romana, furono sfruttate durante tutto l’Alto Medioevo, in particolare dai Carolingi, divenne laboratorio monetario dei re Franchi.
Il borgo è anche famoso per essere una tappa del “Cammino di Santiago di Compostela”, per coloro che scelgono la via Turonensis.
Melle
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SAINT PIERRE Cinzia Marchi Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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D
urante l’epoca feudale, fra l’XI e il XII secolo, Melle diventa un punto molto importante e frequentato così che i grandi Priorati di SaintMaixent e Saint-Jean d’Angély, decisero di iniziare la costruzione di importanti edifici religiosi.
Saint Pierre
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aint Pierre, fu la prima chiesa a nascere come semplice oratorio, menzionato nel 945, e poi diventata la Chiesa di San Pierre, edificata in due periodi differenti nel XII secolo.
La particolarità di questa chiesa è che il coro e il transetto furono i primi lavori di costruzione con la seguente edificazione della navata. I numerosi capitelli, le finestre con colonne e i modiglioni costituiscono un ricco decoro a forma di animali, piante e motivi geometrici che si possono ammirare dall’esterno della chiesa. Le vetrate dell’Absidiola sud sono ornate con punte di diamante, billette e tori. Il campanile a base quadrata presenta tre arcate su ciascuna facciata, due delle quali sono cieche, colonne geminate e robuste colonne d’angolo. La nicchia del portale esterno, accoglie tre personaggi mutilati , quello seduto al centro rappresenta il Cristo con ai lati San Pietro e Paolo. Al di sotto della nicchia il modiglione riccamente scolpito e fortemente danneggiato, rappresenta il Cristo circondato dai simboli dei quattro evangelisti . Le metope tra i modiglioni rappresentano invece i segni dello zodiaco.
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SAINT PIERRE Cinzia Marchi Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
È
Saint Hilaire
la più completa delle tre chiese romaniche dal punto di vista architettonico, classificata come Patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1998 ed è proprio per questo motivo che diventa una delle tappe del cammino di Santiago di Compostela.
Deve il suo nome al primo vescovo di Poitier , morto nel 367 venendo menzionata per la prima volta nel 1080 in un cartulario (un registro manoscritto medievale). Maingot signore di Melle, donò l’edificio all’abbazia reale di Saint Jean d’Angély, la quale fece ricostruire l’edificio alla fine dell’XI secolo. I lavori terminarono nella metà del XII secolo. Nell’XI secolo vi si installò un monastero benedettino cluniacense offrendo ospitalità agli abitanti del villaggio e ai molti pellegrini di passaggio, essendo una tappa del cammino di Santiago di Compostela che raggiunse il suo picco tra l’XI e il XII secolo. In cambio dell’ospitalità, i pellegrini, erano abituati a lasciare un po’ d’argento che sarebbe servito al completamento della Chiesa. All’interno della struttura, venne adottato un piano particolare per poter canalizzare la folla dei pellegrini
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e cioè un coro deambulatorio e cappelle radiali. Con questo metodo, i pellegrini potevavo camminare intorno all’abside e fermarsi davanti le tre absidiole per venerare le reliquie deposte sugli altari. A partire dal XVI secolo le guerre di religione danneggiarono severamente la Chiesa di Saint Hilaire, soprattutto le sculture. Dopo lunghi dibattiti e conflitti tra gli abitanti di Melle, si decise di conservarla come luogo di culto per la rivoluzione. Nel 1792 lo stato organizzerà pure una votazione per separare i partigiani di Saint Hilaire e di Saint Savine. Molto trascurata, la Chiesa di Saint Hilaire, arriva nel XIX secolo in pessime condizioni con l’abside ed il campanile a rischio di crollo. Viene salvata nel 1840, grazie all’intervento di Prosper Mérimée, ispettore dei monumenti storici. I successivi restauri hanno permesso di riportare la Chiesa a un aspetto più vicino alle sue origini, in particolare con la ricostruzione del tetto. Nella costruzione della Chiesa si è dovuto tenere conto della pendenza naturale del terreno, questo spiega la scalinata che scende per entrare dal portone ad Ovest, sia all’esterno che all’interno della Chiesa.
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Essendo possibile fare il giro completo della Chiesa, questo permette di vedere le differenze dei decori tra la facciata nord, visibile dalla strada e quindi più lavorata e la facciata sud molto più semplice visto che rimaneva nascosta al passaggio della gente. Il portale nord è composto da una tripla volta, sono raffigurati temi ricorrenti nell’arte romana, i mesi e il lavoro nei campi , i segni zodiacali, la rappresentazione della lotta tra Vizi e Virtù. Sopra , un’arcata ospita un cavaliere in gran parte ricostruito e restaurato fedelmente nel XIX secolo. Il cavallo sovrasta un altro personaggio seduto, di piccola taglia con un lugo vestito. Nell’Ovest della Francia e in particola nel Poitou queste rappresentazioni equestri sono molto numerose e le opinioni di quello che rappresentano/simboleggiano sono svariate. Una di queste ipotesi è che il cavaliere rappresenti l’imperatore Costantino , quindi il cristianesimo che schiaccia il paganesimo (rappresentato dalla piccola figura).
PALAZZO TURISI Monica Gotta Sergio Agròphotography photography Giroinfoto Magazine nr. 37
L’ultima ipotesi è invece che il cavaliere era il signore della Città che allegoricamente rappresentava Costantino che proteggeva pellegrini, monaci e abitanti del villaggio. La facciata Ovest monumentale e caratteristica nello stile romanico Poitevin. La parte bassa ha tre arcate una centrale e due laterali cieche, sormontate da una cornice di modiglioni e tre finestre ornate, poi di nuovo una cornice a modiglioni e metope, un frontone triangolare e due lanterne che coronano il tutto. L’insieme di queste sculture rappresentano 5 soggetti: motivi geometrici, vegetali, animali, uomini e mostri fantastici. Nell’interno della Chiesa, nellla zona orientale, la più vecchia, si trovano il coro e il transetto restaurati nel XIX secolo. Le due navate laterali apportano luce indiretta nella Chiesa e su ogni singola colonna sono posti capitelli decorati da differenti motivi.
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Saint Savinien
elle tre chiese di Melle, la chiesa Saint-Savinien (classificata monumento storico nel 1914) era l’unica che si trovava tra le mura della città medievale.
È anche lei a possedere origini molto antiche trovandone traccia nel 1040, quando viene donata all’Abbazia di Saint-Jean-d’Angely. Nonostante i fuochi della Guerra dei Cent’anni e le guerre delle religioni la struttura rimane in buone condizioni. All’inizio del 1800, durante la rivoluzione, divenne una prigione, subendo modifiche che la allontanavano dallo stile religioso che aveva in origine. La prigione fu dismessa nel 1926 e la Chiesa fu restaurata ed adibita a locale per eventi culturali. La facciata, apparentemente sepolta nel terreno, mostra le caratteristiche architettoniche del tempo, con il portale ad arco con decorazioni molto semplici. Sul capitello sinistro, possiamo vedere due leoni che si appoggiano contro del fogliame e appena sopra la porta di legno, viene rappresentato il Cristo circonda-
to da due leoni. Sulla parte più alta, invece, la struttura presenta particolari e temi piuttosto originali come un cavaliere, dei cani e un cervo, in mezzo a loro giace un uomo nudo, una scena di discussione con un uomo che brandisce un martello e una coppia in unione . All’interno l’unica navata è molto alta, ampia e senza decorazioni tranne che su una colonna del coro, sul capitello, viene rappresentato il martirio di Saint-Savinien e un uomo che cavalca un grifone. All’interno si trova un imponente sarcofago di un cavaliere del XIII secolo con una croce merovingia. La croce, era stata rubata durante le operazioni di restauro e recuperata da un antiquario belga. Una particolarità, derivata al cambio d’uso della chiesa nel XVII secolo è ch i prigionieri incisero alcune iscrizioni sul legno interno della porta sud. Una storia molto singolare per questa chiesa con iscrizioni e sculture altrettanto originali.
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A cura di Band of Giroinfoto - Torino CAPO SERVIZIO
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VIA ROMA Giancarlo Nitti Photography
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TORINO MAGICA E MISTERIOSA “Torino è la città più profonda, più enigmatica, più inquietante, non d’Italia ma del mondo”. Giorgio De Chirico
PIAZZA STATUTO Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
39 Si parla spesso della città di Torino in termini magici ed esoterici. Il capoluogo piemontese è infatti legato a molte storie e leggende legate al tema della magia a partire dalla sua fondazione. Questa avvenne nel 28 a.C. ad opera dell’imperatore Augusto, in suo onore la città venne nominata Augusta Taurinorum e da quel momento divenne uno dei centri principali per il controllo dei confini alpini nord-occidentali dell’Impero. All’epoca la città era divisa in una zona est, quella dove sorge il sole, che secondo alla tradizione veniva associato un aspetto benigno, ed una zona ovest, quella dove invece tramonta il sole e nascono le tenebre, a cui invece era legata un’immagine più negativa e dove con il tempo vennero collocate le sepolture dei defunti e ospitate le pene capitali. Queste tradizioni si sono tramandate e moltiplicate nel corso dei secoli e ad esse, se ne sono aggiunte molte altre. Tutto questo ha ovviamente contribuito alla fama della cosiddetta “Torino Magica”, una città dove si andrebbero a concentrare le forze del bene e del male. Secondo la più seguita scuola di esoterismo, Torino è una città “di frontiera”: l’unica a far parte sia del triangolo della magia bianca (Torino-Lione-Praga) che di quello della magia nera (Torino-Londra-San Francisco). A metà si potrebbe dire tra lo zolfo e l’incenso. Numerosi sono pertanto i luoghi ed i simboli cittadini che riportano a leggende, miti e credenze su misteriose forze maligne. Risulta tuttavia evidente un legame tra la città e la sua parte più oscura che molti tendono però a negare. Non sorprende che Papa Giovanni Paolo II sembrò colto da un’inquietudine singolare durante la sua visita a Torino del settembre 1988, per il centenario della morte di don Bosco. Il quale non era affatto il bonario prete della campagna monferrina di certa agiografia popolare, bensì uno tra i santi più sulfurei e notturni del canone cattolico. Le parole pronunciate dal Papa impressionarono le cronache dell’epoca, al punto che l’ufficio stampa della Santa Sede dovette procedere a una serie di precisazioni, imbarazzanti commenti e inedite modifiche dei comunicati precedenti, cosa mai vista prima di allora.
Questo perché il Pontefice si era lasciato andare ad espressioni come: «La città di Torino era per me un enigma. Ma, dalla storia della salvezza, sappiamo che là dove ci sono i Santi entra anche un altro che non si presenta con il suo nome. Si chiama il Principe di questo mondo, il Demonio (...)». Ricordando poi la straordinaria fioritura di santità della diocesi di Torino, la città può infatti vantare una sessantina di santi negli ultimi due secoli, aveva aggiunto al di fuori del testo preparato: «Quando ci sono tanti santi è perché ce n’è bisogno (...) Tu Torino hai bisogno di una conversione eccezionale, superiore». Aveva poi rincarato la dose, gridando con voce che sembrava alquanto angosciata: «Torino, convertiti!». E al pranzo con i sacerdoti in curia, Papa Wojtyla si era rivolto al futuro cardinale Poletto: «Mi sto chiedendo come mai una Torino così ricca di santi sia ancora una città così laica». Un concetto che avrebbe espresso a tutti in modo ancora più forte: «Torino è una città piena di grandi santi. Questo vuol anche dire che la presenza del Male è ancora molto forte». Impressionante e inaudito tale atteggiamento all’interno delle cronache ecclesiali. Tanto che gli addetti stampa ebbero il loro daffare con i giornalisti per smorzare i toni, per sfumare tali intimazioni, che suonavano quasi come “profetiche” in un senso biblicamente minaccioso, pressante e affannato. Dunque, il Vescovo di Roma stesso non era per nulla estraneo alla misteriosa ambivalenza della città di Torino, che lui stesso definì come “un enigma”. E anche l’allora Cardinale Ratzinger ebbe a dire di Torino, «la luce risplende là dove il buio è fitto». Ma non dimentichiamo che Torino è anche il luogo in cui è custodita la Santa Sindone: gli anglosassoni chiamano la misteriosa figura sul telo “The Turin’s Man”. Diceva una scritta per un’ostensione ottocentesca: «Le città della Cristianità hanno Cristo per Redentore. Torino sola l’ha come concittadino».
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40 Qualcosa di inspiegabile ha attirato nel tempo a Torino l’élite dell’occultismo, da Cagliostro a Paracelso, dal Conte di Saint Germain a Fulcanelli, ultimo per cronologia storica invece è Gustavo Rol non un mago né un illusionista, ma definito da molti come un veggente guaritore, un uomo straordinario che visse a Torino per tutta la sua vita dal 1903 al 1994 anno della sua scomparsa. Si dice che “coloro che sanno” vengano a Torino per rendere omaggio al “Grande Vecchio”, il conoscitore di tutti i segreti, che risiederebbe in una sorta di fortificazione medievale in collina. Naturalmente “chi sa” non parla. Eppure chiunque visiti la collina torinese può accorgersi di qualcosa di funereo nell’aria, una sorta di melanconia nell’atmosfera: ci sono tombe ai piedi della collina (nella chiesa della Gran Madre), tombe sulla sommità della Collina (nella basilica di Superga), targhe di defunti su ogni albero del Parco della Rimembranza e sempre ai defunti è dedicata la luce del faro della Maddalena. Come ricordava Vittorio Messori: «Città unica anche in questo: sul suo punto più alto, ogni volta che scendono le tenebre, si accende non un segnale di gioia, o almeno di fiducia, ma un annuncio di memento mori».
ormai avanti con l’età, diede alla luce nel 1562, Carlo Emanuele. Il nascituro ricevette un oroscopo tracciato dal profeta in cui era predetto che sarebbe diventato il più grande capitano del suo tempo e predisse anche che sarebbe morto “quando un nove si troverà davanti a un sette”: Carlo Emanuele morì infatti a 69 anni, prima di compierne 70 e la profezia si avverò. A Torino Nostradamus fu ospitato nella villa “la Vittoria” denominata in seguito “il Morozzo” che si trovava vicino a Piazza Statuto, all’inizio dell’odierna via Michele Lessona, in quel periodo area in piena periferia e centro nero della città, in quanto caratterizzata in passato dalla presenza del patibolo, dalla casa del boia e dal luogo di sepoltura dei giustiziati. La villa, ridotta a rudere, fu devastata da un incendio e nel 1983 il Comune ordinò l’abbattimento dell’unico muro che era ancora rimasto in piedi, ad oggi tutta l’area è diventata un giardino pubblico. Il probabile soggiorno di Nostradamus è documentato solo da una lastra di marmo bruno di Baviera ritrovata negli anni Settanta in un appartamento in piazza Solferino. La lastra in origine doveva trovarsi presso la villa Morozzo, e presentava un’iscrizione in francese cinquecentesco alquanto sibillina:
Personaggi legati all’esoterismo scelsero quindi la città di Torino come fulcro per le loro attività magiche, ne è un esempio il famosissimo Nostradamus, uomo colto, che viaggiò moltissimo ed esercitò la professione di medico, ma fu anche astrologo, matematico, astronomo, erborista, alchimista e scrittore, oltre che profeta, seppur nebuloso, con le sue note quartine.
Nostradamus alloggia qui dov’è il Paradiso, l’Inferno, il Purgatorio. Io mi chiamo la Vittoria chi mi onora avrà la gloria chi mi disprezza avrà la completa rovina.
La tradizione vuole che Nostradamus soggiornò in città verso la metà del 1500, per curare la sterilità della duchessa Margherita di Valois moglie del Duca Emanuele Filiberto di Savoia. Nostradamus in quanto medico, era stato ingaggiato a causa della necessità impellente del Duca di avere un erede; condizione che gli avrebbe permesso di fare ritorno a pieno titolo a Torino, secondo il trattato di Chateau Cambresis. Nostradamus all’epoca aveva infatti la fama di essere in grado di preparare un olio miracoloso in grado di combattere la sterilità dell’uomo e della donna. Tale rimedio fece effetto e Margherita, nonostante fosse Giroinfoto Magazine nr. 37
Il significato esplicito si riferisce ai terreni circostanti la tenuta, denominati Paradiso, Inferno e Purgatorio. Vittoria era invece il nome della proprietaria della villa nel 1556. Sul significato nascosto, nessuno ancora ha trovato la chiave di lettura... Dopo gli anni Settanta si persero le tracce dell’epigrafe. Oggi si dice si trovi a Pecetto nella casa di Renucio Boscolo, uno dei massimi interpreti delle quartine di Nostradamus.
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Piazza Statuto viene ricordata come il cuore nero di Torino, il luogo cittadino più negativo in assoluto per vari e diversi motivi, che si contrappone a Piazza Castello, il simbolo della luce e delle forze positive. Storia e leggenda si intrecciano in un’interpretazione alquanto oscura di questa piazza. Durante gli scavi nell’area per la costruzione della ferrovia emersero dei ritrovamenti di età romana che testimoniarono come gli antichi romani collocarono in questa zona della città la necropoli e la vallis occisorum (Valle degli Uccisi), ossia l’area dove venivano giustiziati i criminali, posta quindi a Ovest, dove tramonta il sole e predominano le tenebre. La piazza ospita anche due simboli che gli esperti di esoterismo attribuiscono alle forze oscure. Uno è il Monumento al Traforo del Frejus, eretto nel 1879 e opera di Marcello Panissera di Veglio. Si tratta di una struttura a piramide costituita da massi trasportati appositamente dal monte Frejus ed è sormontata da un Genio alato sotto il quale si trovano delle figure marmoree di Titani. Si tratta di un’allegoria del trionfo della Ragione sulla forza bruta, anche se un’altra interpretazione la ricollega ad un omaggio ai caduti periti durante i lavori di scavo del traforo.
PIAZZA STATUTO Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Il monumento vede raffigurati degli uomini che sembrano voler salire sulla cima, quasi a raggiungere l’angelo posto sulla sommità, che tiene in mano una piuma o penna d’oca che rappresenta il sapere, mentre l’altra mano non mostra un atteggiamento benevolo nei confronti degli uomini che si stanno spingendo verso di lui, come se li volesse fermare per impedirgli di raggiungerlo, per impedirgli di raggiungere il sapere. Sulla cima del capo dell’angelo un tempo spiccava una stella a cinque punte che a livello simbolico rappresentava il microcosmo ed il macrocosmo con i cinque vertici a indicare gli altrettanti elementi metafisici dell’acqua, del fuoco, della terra, dell’aria e dello spirito. In alcuni testi si legge che l’essere alato in questione sarebbe la rappresentazione di Lucifero, “Portatore di luce” (in ebraico לליהo helel, in greco φωσφόρος, in latino lucifer “stella del mattino”, o anche del Vespero come “stella della sera”), l’angelo più bello secondo la tradizione biblica cristiana. Se la figura alata fosse interpretabile come Lucifero, bisogna notare come esso sia rivolto verso est a guida delle forze dell’oscurità che sfidano l’oriente, il sole, la luce. Infatti tutto il complesso non è rivolto in direzione del Frejus, ma piuttosto verso il fulcro della Torino Bianca di Piazza Castello.
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PIAZZA STATUTO Lorena Cannizzaro Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Oltre a questo monumento, si trova nella piazza anche l’obelisco geodetico, detto anche “Guglia Beccaria”, sulla cui sommità sorge un astrolabio che, secondo gli esperti di magia, indicherebbe il cuore delle potenze maligne della città. In realtà questo obelisco fu eretto nel 1808 su un punto geodetico, in ricordo di un vecchio calcolo trigonometrico del 1760 sulla lunghezza di una porzione di meridiano terrestre (il Gradus Taurinensis), eseguito insieme ad altri punti geografici nei comuni piemontesi di Rivoli (nel quale c’è un obelisco gemello), di Andrate e di Mondovì, ad opera del celebre geofisico matematico piemontese Giovanni Battista Beccaria. Piazza Statuto ospiterebbe anche la “Porta per l’Inferno”, che si troverebbe al centro della piazza presso la fontana del Frejus. Da sotto l’aiuola centrale, vi è infatti l’accesso che conduce al sistema fognario che qui ha il suo snodo principale. Le fognature in passato venivano anche chiamate “cloache” ossia “bocche dell’inferno”, questo elemento favorì il crearsi di leggende e credenze che vogliono la Piazza come fulcro della magia negativa o, addirittura, punto di ingresso di una delle tre Grotte Alchemiche che sarebbero presenti in città.
PIAZZA STATUTO Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Nel febbraio 1983, il Comune, con l’allora Sindaco Diego Novelli, organizzò tra le polemiche un carnevale esoterico a tema: il carnevale diabolico. Sponsorizzato dall’8 febbraio, l’organizzatore dell’evento dichiarava: “Si tenterà di evocare gli spiriti più oscuri e malefici della città, ovunque, tranne in un solo luogo: piazza dello Statuto, luogo centrale della magia nera, ombelico maledetto di Torino. Anzi per tutto il carnevale girate alla larga da quel posto”. Nell’ultima domenica di Carnevale, il 13 febbraio, nel cinema Statuto, adiacente alla piazza, in Via Cibrario 1618, divampò un inaspettato incendio. In sala vi erano circa 100 persone, 70 in platea, 30 in galleria. L’incendio scoppiò verso le 18 in galleria, gli spettatori cercarono di fuggire dalle fiamme e dall’asfissiante fumo nero che si stava alzando, ma cinque delle sei uscite di sicurezza risultarono bloccate. Saranno in tutto sessantaquattro le vittime, soffocate dalle esalazioni di acido cianidrico, prodotto della combustione del tessuto “ignifugo” delle poltrone. Si proiettava in sala “La Capra” film di successo di Francis Veber con Gérard Depardieu, è da notare che in gergo il titolo poteva assumere il significato di “iella” o “disgrazia”, ma la capra è anche uno degli animali associali al Diavolo. Gli appassionati di esoterismo che cercano coincidenze inquietanti, finirono ovviamente per trovarle. Come già detto perirono sessantaquattro persone e il numero delle vittime fu stranamente simmetrico: 31 uomini, 31 donne, 1 bambino, 1 bambina, sessantaquattro, come le caselle della scacchiera sulla quale il Diavolo giocò la sua partita. Ma anche il giorno risultò significativo, il 13, che nei Tarocchi rappresenta la carta della Morte. A queste coincidenze si aggiunse inoltre l’organizzazione del sabba carnevalesco visto come uno sberleffo rivolto al Diavolo. Ultimamente circola la voce secondo la quale sarebbero emersi nuovi elementi sul rogo dello Statuto, tali da far ipotizzare la riapertura formale dell’inchiesta, in particolare sulla causa che scatenò l’incendio. La notte precedente il rogo, infatti, nel parco della Villa della Regina - un palazzo seicentesco voluto dai Savoia,
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donato nel 1868 da Vittorio Emanuele II all’Istituto per le Figlie dei Militari, e ceduto al demanio nel 1994 - si svolse un meeting con i rappresentanti di tutte le sette sataniche europee. Ricordano molto bene il “ritrovo” alla Villa della Regina alcuni testimoni: «In quell’occasione - dice uno studioso di magia nera - una setta estremista francese operò una vera e propria diaspora, minacciando, per i giorni successivi, un atto di purificazione e di immolazione a Satana di persone innocenti». La versione troverebbe conferme presso la Gendarmeria di Montecarlo, dove il noto leader di un gruppo satanista francese, fermato in seguito per una truffa finanziaria, avrebbe riferito ai poliziotti racconti raccapriccianti legati alle vicende del 1983, la cui documentazione sarebbe stata trasmessa all’autorità giudiziaria italiana. Infine ci sarebbe una lettera anonima recapitata ad un magistrato in pensione, che prontamente la trasmise a un collega ancora in attività. Il contenuto del messaggio, scritto a mano, verosimilmente da una persona non più giovane, racconterebbe della notte nel parco della Villa della Regina, dello scontro frontale tra gli estremisti francesi e alcuni gruppi italiani (goliardi più che esoterici). «Volarono parole grosse, ci fu anche l’accenno ad una rissa che, però, venne immediatamente sedata. Ci furono quelle minacce sui sacrifici umani che i “francesi” promisero di immolare in poco tempo. «La “capra” - si leggerebbe nella lettera - era il simbolo di quel gruppuscolo e allo Statuto si proiettava quel film... Le conclusioni tiratele voi». A questi elementi che fanno leva sulla dimensione misteriosa di Torino, se ne aggiunge un altro, più concreto ma legato comunque all’origine dolosa del rogo, inizialmente esclusa dalle indagini. Il 15, il 17 e il 27 giugno dell’anno precedente, un anonimo piromane aveva tentato di appiccare incendi all’interno di tre cinema torinesi, l’Ambrosio, l’Augustus e l’Astor, sempre intorno alle 18. Lecito ipotizzare un suo possibile coinvolgimento nel disastroso incendio dello Statuto.
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A Torino, esattamente in via Alfieri all’angolo con via XX Settembre, c’è un portone inquietante, denominato “il portone del diavolo”. Il palazzo a cui appartiene è quello dei Trucchi di Levaldigi, a sua volta chiamato “il Palazzo del Diavolo”, che attualmente ospita la sede della Banca Nazionale del Lavoro. L’edificio, costruito da Amedeo di Castellamonte nel 1673, sorge su parte dell’orto degli Agostiniani Scalzi del vicino convento di San Carlo. Il grande portale misterioso invece fu commissionato da Giovanni Battista Trucchi di Levaldigi, conte e generale delle Finanze di Carlo Emanuele II, nel 1675, ad una manifattura parigina che a sua volta, per l’ideazione, incaricò tal Pietro Danesi.
Sono molte le teorie e le leggende su questo luogo. Una leggenda vuole che la notte in cui fece la comparsa il portone, un apprendista stregone avesse invocato le forze oscure e lo stesso Satana, il quale infastidito dall’invocazione, imprigionò il mago costringendolo a restare al suo interno per l’eternità.
Il battente bronzeo raffigura un Satana con tanto di corna e bocca spalancata dal cui interno fuoriescono due serpenti che scrutano i passanti. Nella colonna centrale vi è invece uno strano mostro che tiene il mondo tra i suoi artigli. Il portone fu detto “del diavolo” in quanto la tradizione vuole che i pesanti battenti siano stati collocati sui cardini di notte, di nascosto e all’insaputa di tutti.
PORTONE BNL Davide Tagliarino Photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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PORTONE DEL DIAVOLO Davide Tagliarino photography
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49 Nel 1600, il piano terreno del palazzo ospitava la sede della prima Fabbrica dei tarocchi. Coincidenza o ulteriore conferma del suo legame con il Diavolo, il palazzo all’epoca era posizionato al numero civico 15, che nei tarocchi è associato proprio al Demonio. Ma la storia dell’edificio si ricollega anche ad alcuni episodi terrificanti che si svolsero al suo interno, come la scomparsa di un soldato, o l’assassinio di una ballerina misteriosamente pugnalata durante un ballo che durò tre giorni e tre notti. Una leggenda infatti vuole che a inizi Ottocento, durante l’occupazione francese, il maggiore Melchiorre Du Perril entrò nel palazzo per consumare un pasto veloce, prima di partire con alcuni documenti segreti della massima importanza. Tuttavia l’uomo, atteso fuori dal portone, non uscì mai dal palazzo. Sembra che vent’anni più tardi, durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio, alcuni operai, abbattendo un muro, trovarono uno scheletro imprigionato e sepolto in piedi. Da ciò che rimaneva della divisa fu possibile
ricondurre i resti a Du Perril. Un’ulteriore leggenda narra che nel 1790, epoca in cui il Palazzo apparteneva a Marianna Carolina di Savoia, durante una festa di carnevale, Emma Cochet (che secondo alcuni si sarebbe invece chiamata Vera Hertz), una delle danzatrici che si esibiva per intrattenere gli ospiti, cadde a terra pugnalata mortalmente. Il colpevole non fu mai ritrovato né tanto meno l’arma del delitto. La notte stessa dell’omicidio si scatenò sulla città una tempesta di vento e pioggia con lampi accecanti, tuoni fortissimi e assordanti. Un vento freddo soffiò all’interno del palazzo provocando lo spegnimento di tutte le luci e la fuga degli invitati urlanti. La leggenda vuole che poco tempo dopo venne avvistato un fantasma che girovagava per le stanze del palazzo, quello della ballerina uccisa la notte della festa. Un’altra versione invece parla dell’apparizione, il giorno seguente all’omicidio, di un quadro raffigurante la ballerina danzare sulle fiamme dell’inferno.
PALAZZO DEL DIAVOLO Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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La magia nera a Torino si nasconde anche tra i palazzi, soprattutto nella zona di Via Alfieri, dove si scorgono numerosi simboli esoterici. In via Lascaris, dove oggi sorge una banca, c’era in passato una Loggia Massonica. Alla base di questo palazzo si possono ancora trovare delle strane fessure a forma di occhi, che un tempo dovevano essere dei punti di sfiato e/o di illuminazione per i locali nel sottosuolo. Negli anni, a causa della loro strana forma, si è diffusa la credenza che si trattasse di una stilizzazione degli occhi del Diavolo, elemento che sottolineerebbe come questo luogo fosse fortemente intriso di misteriose cariche negative.
OCCHI DEL DIAVOLO Adriana Oberto photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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VIA ALFIERI Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Tra le tante attrazioni di Torino sono sicuramente da ricordare gli splendidi edifici storici del centro. Gli edifici barocchi, in particolare, offrono all’osservatore un infinito catalogo di decorazioni, con alcuni temi che si ripresentano in varie forme e declinazioni. Uno di questi temi è quello dei mascheroni. I mascheroni grotteschi sono tra le opere cosiddette “di genere” più interessanti del panorama decorativo italiano. Spesso realizzate impiegando lineamenti zoomorfi, ispirati al mondo animale (leoni, rane, pesci, cani, uccelli, lupi) o antropomorfi, riproducenti il volto umano, o ancora fitomorfi, con forme ripescate dal mondo vegetale. Questi mascheroni grotteschi, secondo un’interpretazione largamente condivisa, posti su architravi e sulle facciate dei palazzi, hanno una funzione “apotropaica”, cioè che annulla o allontana gli influssi maligni. Anche quando i mascheroni mostrano la lingua, come per uno sberleffo, fungerebbero da scongiuro contro la sfortuna. La loro presenza caratterizza le decorazioni di diversi edifici barocchi italiani, tuttavia Torino si contraddistingue particolarmente per la loro massiccia presenza. Così mascheroni inquietanti, dalle fattezze diaboliche o ispirate ai monstrua dei bestiari medievali, possono essere facilmente rintracciabili, ad esempio al di sopra dei portali, ma anche in posti più nascosti all’occhio dell’osservatore come su batacchi, capitelli, paraspigoli.
VIA ROMA Stefano Tarizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 37
E in una città misteriosa e affascinante come Torino il mascherone appare così come una sorta di porta capace di mettere in comunicazione la sfera terrena con la dimensione soprannaturale e metafisica. Così la predominanza di mascheroni dalle fattezze diaboliche, ferine, inquietanti, rende inevitabile il collegamento con il filone della Torino magica, un mito alimentato da fatti storicamente documentabili come da narrazioni che assumono l’impronta evanescente della leggenda metropolitana. È tuttavia impossibile negare che tale dimensione tenebrosa, spesso enfatizzata per ragioni commerciali e turistiche, sia ormai parte integrante dell’anima cittadina perennemente sospesa tra oscurità e luce. L’origine della Torino magica va rintracciata ovviamente nel periodo risorgimentale quando la contrapposizione politica tra casa Savoia e Chiesa creò in Torino l’habitat favorevole per gruppi di persone che si richiamavano ad ideologie e dottrine in contrasto con la visione cristiana. Fu così che, ad esempio, la moda dello spiritismo già dilagata nell’Inghilterra vittoriana, prese piede a Torino, dove nel 1856 venne fondata la prima società spiritica italiana, ispirata alle teorie del lionese Allan Kardec. Ma anche il rapporto plurisecolare di Torino con la dinastia sabauda ebbe sicuramente il suo peso nella genesi del mito: basti pensare alle numerose pubblicazioni che trattano l’inclinazione di certi esponenti della casata per le arti magiche, l’occultismo e la divinazione.
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MASCHERONI VIA XX SETTEMBRE Stefano Tarizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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MASCHERONI Adriana Oberto photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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VIA ALFIERI Davide Tagliarino photography Giroinfoto Magazine nr. 37
57 D’altro canto Torino è anche la città della Sindone, la reliquia più importante della Cristianità, secondo la tradizione il lenzuolo che avvolse Cristo deposto dalla croce e su cui rimase impressa, per effetto d’una forza soprannaturale, la sagoma del suo corpo martoriato dai segni della Passione. È così che Bene e Male, energie positive e negative, fede cristiana e superstizione, s’intrecciano in un mélange continuo, le cui contraddizioni traspaiono nelle figure diaboliche e angeliche che ornano gli edifici, specchio di una città sospesa tra le due dimensioni. Tuttavia l’analisi dei significati simbolici sottesi a queste figure sarebbe da interpretare nella loro capacità di evocazione e suggestione. Il simbolo è infatti per sua stessa natura ambivalente, polimorfo, variabile a seconda delle epoche e delle culture, tutti fattori che rendono la loro interpretazione assai complessa e articolata.
torinese, sono allora interpretabili nella loro ambivalenza di mostri distruttori, che mirano a divorare l’eroe e a terrorizzare l’incauto passante, di custodi del luogo, in linea con i miti celtico-germanici o anche greci che spesso fanno del drago un genius loci, creatura aggressiva, ma addomesticabile con offerte propiziatorie, o ancora come guardiani di luoghi inaccessibili e segreti che, ostacolando il percorso iniziatico dell’eroe, lo costringono a battersi, consentendogli, in caso di vittoria, l’accesso a livelli più profondi di saggezza e conoscenza. L’osservazione di questi elementi relativamente a quanto riproducono e dove sono stati collocati diventa così una forma di viaggio spirituale e concettuale alla ricerca di possibili significati simbolici e delle tracce di una dimensione ultraterrena che queste figure, misteriose apparizioni nel paesaggio urbano torinese, paiono evocare.
I draghi alati che sorvegliano diversi edifici, così come le altre creature mostruose del bestiario
VIA ARSENALE Adriana Oberto photography
REAL CHIESA DI SAN LORENZO Cinzia Marchi photography
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MASCHERONI ROMA Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Uno dei luoghi più visitati a Torino dal turismo esoterico è sicuramente il Rondò della Forca. Con questo nome si indica un punto preciso, che si trova nell’area risultante dalla confluenza degli attuali corsi Valdocco, Principe Eugenio e Regina Margherita con via Cigna.
Tutt’intorno vi si trovavano prati, fossi, pozze e poche case. La forca veniva rizzata di volta in volta in quanto l’uso non era frequente e se fosse rimasta in piedi sarebbe stata oggetto di atti vandalici e magari anche di distruzione perché poco amata dai cittadini.
In realtà, il Comune di Torino non ha mai assegnato questo nome al luogo. Il nome è stato infatti tramandato dalla tradizione popolare perché qui vi avvenivano le esecuzioni capitali, sotto forma di pubblica impiccagione. Nei secoli passati l’esecuzione doveva essere pubblica e doveva coinvolgere il maggior numero di persone, per mostrare che il reo veniva punito ed intimorire gli spettatori per prevenire i reati. In quel periodo, l’attuale Rondò della Forca era in aperta campagna ed era stato scelto proprio questo luogo per la sua vicinanza alla prigione che si trovava in quella che oggi è via Corte d’Appello.
L’esecuzione capitale era preceduta da un’usanza che aveva tutto il gusto di un rituale sacrificale: al condannato venivano legati capo e mani, poi saliva sul carro in compagnia del sacerdote. Tale carro percorreva, in mezzo alla folla, le vie della città verso il luogo d’esecuzione pubblica, preceduto dai confratelli dell’Arciconfraternita della Misericordia con i loro cappucci e mantelli neri, fiancheggiato dai carnefici e dai soldati, mentre la campana del carcere coi rintocchi a morto cadenzava la marcia. Lungo tutto il percorso, il corteo era fatto oggetto a lanci di sassi o di immondizia, verso il condannato o verso il boia che lo accompagnava.
A favorire il luogo per questa funzione contribuirono inoltre la sua ampiezza in grado di contenere un numero elevato di spettatori, oltre al fatto di essere circondato da grandi pini che rendevano l’ambiente sufficientemente buio e tetro.
Arrivata l’ora dell’impiccagione, il Sindaco della Misericordia bendava gli occhi al condannato e don Cafasso concedeva l’assoluzione facendo baciare il crocifisso.
S.GIUSEPPE CAFASSO Cinzia Carchedi photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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RONDÃ’ DELLA FORCA Fabrizio Rizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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RONDÃ’ DELLA FORCA Manuel Monaco photography
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Il giorno dell’esecuzione una grande folla raggiungeva il Rondò della forca e lo spiazzo aveva l’aspetto di una festa popolare con saltimbanchi, cantastorie, venditori e… borsaioli. Nel momento cruciale si contava il numero di giri che il corpo dell’impiccato avrebbe fatto prima di restare immobile per giocarli poi al lotto. Certe volte il pubblico manifestava i suoi umori mediante lanci di sassi al condannato se la condanna era ritenuta giusta oppure alle forze dell’ordine se la condanna veniva reputata ingiusta. Oggi all’angolo con Corso Regina Margherita è possibile ammirare una statua, eretta nel punto esatto in cui una volta vi era il patibolo. Il piccolo monumento, eretto nel 1960 in occasione del centenario della morte, è dedicato a San Giuseppe Cafasso, originario di Castelnuovo d’Asti, nato il 15 gennaio 1811 e morto a Torino il 23 giugno 1860. San Giuseppe Cafasso fu, a Torino, l’apostolo dei carcerati e in particolare, dei condannati a morte che usava
accompagnare, per confortarli, fin ai piedi della forca che li attendeva. Sulla base del monumento, nei rispettivi quattro lati, si legge: “A San Giuseppe Cafasso MCMLX Qui sul Rondò della Forca ritorna la soave figura del Santo degli impiccati per ricordare che la giustizia umana ha bisogno di accompagnarsi alla carità di Cristo. I carcerati di tutta Italia hanno eretto questo monumento al loro celeste patrono nel centenario della sua morte in umile testimonianza di riconoscenza e sincero proposito di redenzione”. La storia macabra di questo slargo non è attenuata da una storia più antica, testimoniata ancora dal nome del Corso Valdocco che deriverebbe dal toponomastico latino Vallis Occisorum. L’area sarebbe, dunque, un luogo che per molto tempo fu deputato alla morte e proprio per tale motivo è diventato una delle tappe dei tour di Torino per gli appassionati di occultismo ed esoterismo.
RONDÒ DELLA FORCA Fabrizio Rossi photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Al numero 2 di via Franco Bonelli, all’epoca detta “Contrada dei Fornelli” per via dei molteplici fornelli pubblici, abitava Piero Pantoni, l’ultimo boia di Torino, il quale aveva diverse esecuzioni a carico e una moglie che per la vergogna non usciva mai di casa. La vicina chiesa di Sant’Agostino era detta la “chiesa del boia”, proprio perché nei suoi pressi venivano sepolti i condannati a morte e i detenuti deceduti in carcere. In quest’area il boia cittadino si era guadagnato a pieno titolo il privilegio di poter essere sepolto al di sotto del campanile. Diversi aneddoti e leggende sono legate alla figura del boia torinese e come i cittadini disprezzassero e temessero la sua figura. La tradizione infatti tramanda come alcuni negozi, per ricevere i suoi soldi, gli porgessero una scodella che serviva a lavare il denaro “sporco” proveniente dal suo ruolo istituzionalizzato di assassino. Anche alla figura della moglie non venivano risparmiati questi atteggiamenti, si sa infatti che i panettieri le porgevano il pane al contrario: il consorte denunciò più volte tale ingiusto trattamento alle autorità, infine un’ordinanza vietò questa pratica. Tuttavia sembrerebbe che alcuni forni di Torino cominciarono da quel momento
CASA DEL BOIA Fabrizio Rossi photography
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a cuocere uno strano pane a forma di mattone in modo che potesse essere dato al boia sempre al contrario senza che quest’ultimo potesse lamentarsi. La leggenda vuole che da questa invenzione per aggirare la legge e continuare a manifestare il disprezzo per il boia ebbe origine il pancarré, quello che viene utilizzato per i toast. Dalla pratica del mestiere del boia ebbero origine diversi modi di dire piemontesi, tra cui: “Meglio avere la moglie del boia come cliente, che essere clienti del boia”. Tuttavia il più noto ancora oggi è “bòja fàuss” imprecazione dovuta al fatto che il popolo non accettava che il boia guadagnasse denaro dall’uccisione di altri uomini, per questo i Torinesi lo battezzarono “fàuss” cioè “falso”; oppure per indicare un atto compiuto sgarbatamente si è soliti dire che “a smija ch’a daga la contenta al bòja”, cioè “sembra che dia la paga al boia”; per alludere invece ad una persona che si trovi in fin di vita si dice che “a l’ha pijà ‘l breu dle ondes ore”, cioè “abbia preso il brodo delle undici”, questo perché alle undici del mattino, un’ora prima dell’esecuzione, era usanza offrire una tazza di brodo ai condannati; oppure infine per indicare un luogo lontano si dice che “an sla forca” e cioè “è sulla forca”.
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CASA DEL BOIA Lorena Cannizzaro photography
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È nota da sempre l’esistenza di una fitta rete di cunicoli e passaggi sotterranei nel sottosuolo della città.
permettevano di scappare dalla città in modo da evitare gli eventuali contagi.
Ci si pone tuttavia la domanda sul perché Torino si sia dotata di una tale complessa rete sotterranea, talmente sofisticata da non entrare mai in conflitto con le varie gallerie esistenti. Le risposte possono essere molteplici in base ai committenti.
Oltre a queste gallerie, vi erano anche quelle legate al potere ecclesiastico. Tutte le chiese del centro erano e sono collegate da gallerie, in modo che i preti potessero spostarsi da una all’altra senza essere visti.
I Savoia le realizzarono per garantirsi in primis una certa sicurezza, successivamente ampliarono questa rete, per loro comodità, per non essere visti e per poter fuggire in caso di sommosse o invasioni. Tutti i palazzi del potere torinese, non solo Palazzo Reale, ma anche degli enti a essi correlati, come ad esempio gli Affari Interni, la Segreteria dello Stato degli Affari Esteri, l’Accademia Militare, per non parlare della Cittadella, risultavano collegati da gallerie. Una fitta rete di cunicoli e passaggi sotterranei è stata inoltre individuata al di sotto di Palazzo Madama, altre gallerie sarebbero invece partite da ogni residenza sabauda per consentire ai Savoia di raggiungere indisturbati luoghi fuori città.
Il Santuario della Consolata, ad esempio, è punto di inizio di due gallerie, una va verso la chiesa del Carmine e l’altra verso la chiesa di Sant’Agostino; da questa partono due ulteriori gallerie, una verso la Basilica Mauriziana, l’altra verso la chiesa di San Dalmazzo. Ancora, dalla galleria collegante Sant’Agostino con San Dalmazzo, parte un ulteriore sotterraneo che raggiunge la chiesa di San Domenico, passando sotto quello che fu il Tribunale dell’Inquisizione e da qui si poteva accedere alle sale di tortura del carcere ecclesiastico, così i prigionieri potevano essere trasportati e torturati senza essere visti dall’esterno.
La più famosa di tutte è la Galleria Reale, che congiungerebbe Torino a Rivoli, così ampia da poter essere percorsa in carrozza.
Potrebbero celarsi tra queste gallerie le famose grotte alchemiche? Visto che della rete di quattordici chilometri che complessivamente si dipana nel sottosuolo di Torino buona parte non è accessibile per motivi di sicurezza, non si può dare una risposta certa a questa domanda.
I nobili a loro volta crearono le gallerie probabilmente per preservare la propria incolumità, in quanto dopo il coprifuoco si poteva circolare solo muniti di lanterna e il buio rendeva le strade molto insicure.
Una cosa è sicura: il fascino misterioso e un po’ alchemico di Torino è destinato a rimanere immutato nei secoli anche grazie alle sue leggende che paiono avere comunque un qualche fondamento di verità.
Inoltre queste gallerie potevano essere alquanto utili per raggiungere, senza essere visti, possibili amanti o ancora essere impiegate per fuggire e mettersi al sicuro in caso di necessità, ad esempio durante le epidemie di peste,
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PALAZZO REALE - P.ZZA CASTELLO Giancarlo Nitti photography
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CHIESA DI SAN DOMENICO Barbara Tonin photography
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Forse non è tanto enigmatica ma un certo alone di mistero l’avvolge, sia perché si tratta dell’unica chiesa medievale in stile gotico rimasta in tutta Torino, sia perché è stata la sede di uno dei “tribunali” più efferati della città.
chiesa medievale di stile gotico della città sopravvissuta fino ai giorni nostri e insieme alla chiesa della Consolata, si può considerare di fatto, come uno dei luoghi di culto più antichi di Torino.
Si tratta della Chiesa di San Domenico, situata nel centro di Torino, all’angolo dell’omonima via all’incrocio con via Milano. La facciata della chiesa si apre su un piccolo spazio inserito nell’asse viario di via San Domenico; il corpo della chiesa si prolunga però lungo via Milano, la perpendicolare che collega Via Garibaldi con Porta Palazzo.
Eretta tra il 1227 e il 1280, la chiesa rappresentava l’edificio religioso della comunità torinese dei Domenicani, il cui annesso convento venne eretto verso il 1260; rimase però per molto tempo senza facciata, aggiunta solo nel 1334, e priva di campanile, realizzato successivamente nel 1451.
Ha come caratteristica specifica quella di essere l’unica
Nei secoli successivi, la chiesa di San Domenico, in quanto gestita dai Domenicani, fu il centro dell’Inquisizione torinese.
SAN DOMENICO Nadia Laboroi photography Giroinfoto Magazine nr. 37
70 I discepoli di San Domenico di Guzman, arrivarono nella città sabauda intorno alla metà del Duecento, da quel momento prese vita un impulso di radicale purificazione che si prefiggeva di salvaguardare l’ortodossia della Fede Cattolica contro le contaminazioni ereticali. I Frati trovarono inizialmente un modesto riparo laddove oggi sorge la Cappella delle Grazie, al fondo della navata sinistra dell’attuale Chiesa di San Domenico. Oggi, in quel punto, il ciclo d’affreschi tratteggiato dalla mano del “Maestro di San Domenico” offre ai visitatori un piccolo scrigno d’arte pittorica, forse la pagina più finemente miniata che sia sopravvissuta in Torino a rappresentare il raffinato codice espressivo della pittura murale Trecentesca. Da quel primitivo riparo si sviluppò gradatamente il complesso conventuale, che nel tempo prese forme gotiche e tardo-settecentsche per poi tornare alla purezza originale grazie agli interventi novecenteschi di Brajda e D’andrade. L’impeto evangelizzatore dei Domenicani spinse il Papa Gregorio IX ad affidare al loro Ordine, con apposita bolla pontificia (1232), la gestione degli uffici del nascente Tribunale della Santa Inquisizione, investendoli così del gravoso compito di indagare attorno alla eventuale natura eretica dei comportamenti dei fedeli che deviassero dall’ortodossia cattolica tentando di ricondurli alla verità della Fede. La Santa Inquisizione a Torino stabilì quindi “casa e
CAPPELLA DI SAN DOMENICO Adriana Oberto photography Giroinfoto Magazine nr. 37
carceri speciali” proprio a ridosso del complesso di San Domenico, affiancandosi al sistema di sanzioni civili, già da tempo operativo in città, di cui si conserva traccia nei “Decreta Seu Statuta” emanati da Amedeo VIII (1430). La documentazione scritta aiuta a fare chiarezza sullo spirito del tempo: lasciarsi scappare una bestemmia nella Torino medievale, poteva costare la perforazione della lingua, mentre offendere San Giovanni, il patrono della Città, costringeva invece al pagamento di un’ammenda di 50 Scudi. Nella chiesa trovano riposo molti esponenti dell’ordine domenicano, tra cui il beato Pietro Cambiani da Ruffia, uno dei primi inquisitori del Piemonte e Padre Reginaldo Giuliani, Cappellano degli Arditi, caduto a passo Uarieu e decorato di Medaglia d’oro al valor militare. Altro personaggio importante ivi sepolto è Emanuele Filiberto Pingone, storico torinese della corte di Emanuele Filiberto di Savoia. Al suo interno è ancora visibile ciò che resta del Trecentesco “Chiostro dei Morti”, il luogo sacro in cui venivano ospitate le spoglie mortali dei Frati Domenicani. Una delle pareti è infatti disseminata di frammenti di lapidi incise con epitaffi funebri. In particolare, due epigrafi attirano ancora oggi l’attenzione: sono l’omaggio alla memoria dell’Inquisitore Beato Pietro Cambiani di Ruffia morto “per la fede cattolica” nell’Anno del Signore 1365, i cui resti mortali trovano riposo all’interno della Chiesa, protette da un’urna.
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SAN DOMENICO Fabrizio Rizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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CAPPELLA DI SAN DOMENICO Davide Tagliarino photography Giroinfoto Magazine nr. 37
73 Sino a tempi non molto lontani, vi era l’uso di apporre la sera del 7 novembre di ogni anno, accanto alla più recente delle due lapidi, un’immagine dipinta che ritraeva il viso del Beato affiancandola con due ceri accesi a perpetuare la memoria di un uomo che, avendo consacrato la propria esistenza alla missione di proteggere la fede cattolica, cadde ucciso da dieci pugnalate, la notte del 2 febbraio 1365, nel chiostro attiguo al Convento di San Francesco a Susa. L’identificazione del sicario o dei sicari rimane ad oggi un mistero, alcuni fanno risalire l’omicidio agli eretici valdesi di Meana, ansiosi di porre a tacere il loro persecutore, altri fanno risalire l’assassinio a un misterioso viandante della Valle di Lanzo guidato da motivazioni rimaste ignote sino alle terre di Susa per uccidere il frate inquisitore.
teste di cane che osservano i passanti dalla facciata del palazzo di foggia settecentesca al civico 11 dell’antica Contrada d’Italia (Via Milano). Le teste di cane, protese a sorvegliare l’ingresso dell’edificio, incarnano perfettamente quella propensione alla difesa della Fede dagli attacchi ereticali che portò l’immaginario collettivo ad intravedere simbolicamente nella figura austera dei Frati Predicatori lo spirito che anima il cane incaricato dalla natura di tutelare l’incolumità fisica del padrone proteggendolo dalle aggressioni. Ne nacque l’usanza, dovuta anche al gioco dell’assonanza semantica con il nome del fondatore, di definire questi dotti monaci “Domini Canes” (Cani del Signore).
Anche il quartiere torinese circostante fu influenzato dalla presenza dei Domenicani, ne sono testimonianza le
I CANI DI VIA MILANO Fabrizio Rizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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VIA MADAMA CRISTINA Barbara lamboley photography
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Come già detto, Torino raccoglie molti simboli e riferimenti esoterici legati alla magia, trovando in questa città centinaia se non migliaia di luoghi che portano questo marchio. Palazzi, giardini, sculture ed affreschi sparsi nell’anglomerato urbano, fanno della “Taurinorum” una location che presenta molte sorprese mentre la stiamo visitando. Basterebbe passeggiare, per esempio, nel quartiere ormai dedicato alla movida Torinese di San Salvario, per accorgersi, alzando la testa, di un’inquietante presenza sotto il balcone di un palazzo, di un pipistrello gigante con le ali spiegate rivolto sulla strada.
Si tratta della nominata «Casa dei pipistrelli» che si trova in via Madama Cristina 19, all’angolo con via Silvio Pellico. Sono ornamenti architettonici che risalgono al 1876, durante i lavori di ampliamento della zona con la decisione del proprietario di aggiungere due elementi che potessero stupire i passanti. Ma al tempo doveva essere un boom stilistico, perchè basta spostarsi solo di qualche isolato per trovare altri decori ispirati ai pipistrelli. In un caseggiato di via Madama Cristina ai numeri 33 e 35, all’angolo con via Cesare Lombroso, un palazzo di sei piani fuori terra, mostra raffigurazioni grottesche con donne pipistrello, definite anche «Donne Vampiro» .
PALAZZO DEI PIPISTRELLI Angelo Bianchi photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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DONNE VAMPIRO - SAN SALVARIO Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Anche nel Parco del valentino e più precisamente nell’area dedicata alla ricostruzione del 1882 di Alfredo d’Andrale dell’antico borgo, troviamo riferimenti “bestiali” legati alla cultura della magia nera e dell’esoterismo. Già all’ingresso del borgo, una figura bestiale antropomorfa armata di clava, ci accoglie minacciosa, affrescata sulla parete fiancheggiante l’arcata di ingresso del ponte levatoio. Derivata da un’usanza medievale, dove era usanza spaventare gli invasori, questa figura è sovrastata anche
da una scritta quasi ormai illeggibile che recita in latino: “Se pace tu porti, accostati pure a queste porte, se guerra tu cerchi, triste e battuto ti ritirerai” Ma non è tutto, perchè in un giro curioso all’interno della struttura medievale, tra fontane, arcate e negozietti di gadget, proprio sulle mura della chiesa interna troviamo un’altro dipinto raffigurante un demone in catene custodito da San Bernardo. Anche in questo luogo, demoni e forze del bene si contrappongono.
CASTELLO DEL VALENTINO Manuel Monaco photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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CHIESA DEL VALENTINO Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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CASTELLO DEL VALENTINO Angelo Bianchi photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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I colori delle
FRA TRAPANI E MARSALA A cura di Matteo Pappadopoli
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La Sicilia è una regione ricchissima di monumenti e posti da visitare, molti sono importanti e famosissimi, ma proprio per questo alle volte si trascurano mete secondarie, ma altrettanto affascinanti che sanno regalare momenti unici. Una tra queste è senza dubbio la zona compresa tra Trapani e Marsala, dove sono situate le saline, e dedicare una giornata alla visita di questa zona ripagherà senza dubbio il viaggiatore.
Percorrendo, per alcuni chilometri, la litoranea che collega Trapani a Marsala la vista resta affascinata dallo spettacolo delle saline che si susseguono senza sosta, regalando scorci bellissimi. La zona oltre ad essere ricca di colori è sopratutto ricca di piante ed è un habitat naturale per molti volatili.
Matteo Pappadopoli photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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Matteo Pappadopoli photography
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Fermando l’auto ed inoltrandosi a piedi lungo i sentieri che costeggiano le vasche delle saline, tutti i sensi saranno risvegliati dagli odori, dai colori, dai suoni degli uccelli, e dalla densità dell’acqua che man mano aumenta se ci si sposta da una vasca di concentrazione alla successiva, sino ad arrivare all’ultima dove la concentrazione del sale è così alta che toccando l’acqua si ha come la sensazione di toccare un olio. Si viene proiettati nel passato quando si attraversano le saline, dove il sale viene estratto manualmente dall’uomo, un lavoro praticato in modo quasi inalterato da secoli, basato solo sulla forza umana e sulla sua abilità a non intaccare il fondo melmoso della salina, così come avviene con l’uso dei grandi escavatori utilizzati nel resto delle saline, regalandoci un prodotto quasi del tutto privo di impurità. Ovunque l’occhio si poserà resterà attratto, anche dal semplice defluire delle acque da una vasca di concentrazione all’altra, dove il calore del sole farà il suo lento lavoro di concentrazione dei cristalli di sale e dove le impurità per la maggior parte rappresentata da metalli più pesanti si poseranno lentamente sul fondo delle vasche.
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Si potranno osservare i salinari intenti nelle varie operazione di raccolta del sale con pale, carriole o ceste cosĂŹ come nel passato, un lavoro durissimo, sfiancante che mette a dura prova la resistenza dei lavoratori e che lascia segni indelebili sui loro corpi, asciugati ed abbronzati dai raggi del sole, che colpendo la loro pelle lascia mille rughe che raccontano delle tante ore passate tra il sole ed il sale. La raccolta avviene nel periodo estivo sotto un sole cocente tra i riverberi dei raggi sul sale che li riflette quasi come se ci fossero mille piccoli specchi rappresentati dai cristalli del sale. Le montagne di sale, che restano lungo i bordi delle vasche di raccolta ad asciugarsi sotto il sole, coperte da un telo di plastica sormontato da tegole per evitare che la pioggia possa vanificare il duro lavoro di raccolta dei salinari, assumono colori che vanno dal bianco bruno, al bianco puro ed al rosa e le cui forme e colori si riflettono sulle calme e cristalline acque della salina stessa.
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Lo scenario, delle acque delle saline, si carica di colori vividi che contrastano con qualsiasi condizione atmosferica, che sia una giornata serena con un cielo azzurro od una giornata nuvolosa, i colori della saline risalteranno di sfumature rosse grazie alla presenza nelle sue acque di alghe e crostacei. In effetti è grazie alla presenza dei Chironomidi, insetti simili alle zanzare, le cui larve di colore rosso vivono sui fondi limosi delle vasche, ed anche l’Artemia salina, piccolo crostaceo che, nutrendosi di alghe e detriti, contribuisce a mantenere limpida l’acqua, facilitandone l’evaporazione, ed anche lei nutrendosi delle alghe, che le acque della salina assumono il tipico colore rossastro, ed assieme ad anellidi, molluschi ed altri insetti e crostacei sono un anello fondamentale della catena alimentare delle saline, costituendo una fonte di nutrimento per i numerosi
uccelli presenti primo fra tutti il famosissimo fenicottero rosa. Infatti i fenicotteri nutrendosi dell’Artemia salina, presente nelle acque, che come detto si nutre delle alghe, assumono la loro tipica colorazione tendente al rosa, in effetti alla nascita il fenicottero è bianco e solo crescendo e nutrendosi dell’Artemia salina che il suo piumaggio vira verso il rosa. Animale schivo non è facile da osservare e fotografare se non con potenti zoom e restando fermi per diverso tempo, ma l’attesa sarà ripagata sempre regalandoci foto molto affascinanti.
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Ma è al tramonto che le saline assumono colori unici che contribuiscono a renderle famose, il sole con i suoi colori caldi del tramonto trova il suo naturale riflesso amplificato dai colori rossastri delle acque delle saline regalando la possibilità di realizzare foto ogni volta uniche , ma al tempo stesso straordinarie, gli occhi non saranno mai sazi di cogliere le innumerevoli tonalità che il riflesso del sole assumerà man mano che tramonterà, il rosa, il violetto il rosso acceso fino a giungere ad un porpora cupo, sempre diversi e mai uguali. Passare un’interna giornata dall’alba al tramonto lungo le calme acque della salina permetterà di immergersi nella natura ed allontanarsi dal caos e dalla frenesia della vita quotidiana, la salina con i suoi lenti ritmi scanditi dalle stagioni e più vicini all’uomo permetterà al visitatore di ritemprarsi e sarà l’occasione per fotografare spettacoli sempre unici.
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A CURA DI SERGIO AGRÃ’
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“Non bastano tutti i cammelli per comprarti un amico” è il proverbio arabo che introduce uno dei miei film preferiti: “Marrakech Express”. Oltre ad essere affascinato dalla storia di amicizia raccontata nel film, sono sempre rimasto colpito dai paesaggi del Marocco che venivano rappresentati. Quando con due mie amiche si è parlato di Marrakech non mi sono tirato indietro: il classico “pronti, partenza e via!” La città è facilmente raggiungibile con voli low-cost e con i siti di booking è facile scegliere la sistemazione più giusta alle nostre esigenze. Avendo pochi giorni a disposizione abbiamo scelto di stare nel centro della città, un grazioso e confortevole Riad nella Medina di Marrakech. I Riad sono più o meno come i nostri bed&breakfast, disposti su più piani, quasi tutti hanno un terrazzo dove ammirare la città e il panorama delle montagne. Ok, ma noi vogliamo vivere la città, quindi ci tuffiamo per le vie di Marrakech.
Sergio Agrò photography
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Il primo impatto con la città è impressionante: ci troviamo nel mezzo di una città fatta di mille vicoli stretti, mille suoni, mille colori, mille profumi!!! Dove ti giri vedi mercati ovunque, gente da tutto il mondo, motorini e bici che ti sfrecciano a pochi millimetri, cerchi un angolo per capire dove sei finito, ti fermi e capisci che
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questa è Marrakech. Pian piano comprendi come si muove la città e questo labirinto disordinato ti cattura ed inizi a prendere confidenza un po’ con tutto. La nostra prima meta è la piazza, a Marrakech basta chiedere della “piazza” e subito ti danno le indicazioni
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della grandissima Djemaa El Fna. Iniziamo a camminare, ma le mie macchine fotografiche attirano l’attenzione di un uomo, che con modi garbati, mi chiede se voglio visitare dei luoghi non turistici per fare delle foto originali: mi avrà letto nel pensiero, così accetto e lo seguo. Ci porta in piccole botteghe artigianali dove le persone lavorano il ferro ripetendo precisi battiti con il martello; ci porta anche a vedere dove si colorano le lane e mi spiega con quali sostanze vengono fatti i colori: melograno e zafferano per il giallo, henné e papavero per il rosso, menta per il verde, khol per il nero e alla fine l’indaco per il blu. Questo colore colpisce subito, lo si nota ovunque e la sua intensità lo rende unico, il blu di Marrakech non si dimentica facilmente. Ringrazio l’uomo e riprendiamo il cammino verso la Piazza.
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Arriviamo così a Djamaa El Fna e come per magia si alza il sipario. C’è un’espressione tutta italiana che potrebbe descrivere la Piazza: sembra la festa del paese! Djamaa El Fna è la festa del paese è il centro della città dove tutto converge, dove a qualsiasi ora del giorno e soprattutto della notte trovi la festa, sei avvolto dai suoni dei flauti degli incantatori di serpenti, dai tamburi degli artisti di strada, persone in abiti tradizionali che fanno ruotare i cappelli, il tutto mentre giri tra centinaia di mercatini e bancarelle.
Nella piazza incontriamo un ragazzo del posto che gentilmente ci invita a seguirlo per visitare il Suk. Nei miei viaggi ho visitato luoghi strani ma mai come i vicoli stretti dei mercatini del Suk di Marrakech.
Djamaa El Fna rappresenta il vero contrasto della città, il punto d’incontro tra la Medina e la città moderna, il luogo dove tutte le culture si mescolano e convivono insieme, non per nulla l’UNESCO nel 2001 ha dichiarato “lo spazio culturale di Djamaa El Fna un capolavoro del patrimonio immateriale dell’umanità”.
Nel Suk sembra essere tutto grigio ma ogni banco è un’esplosione di colore. Il Suk non lo si può paragonare a nessun altro mercato, va solo visitato.
Il Suk è unico per le persone che si incontrano e per quello che vendono, si può passare dalle classiche spezie e souvenir a persone che con un tornio artigianale intagliano il legno con il piede, nei Suk ti sembra tutto disordinato, una confusione unica, ma se si osserva bene ogni piccolo negozio è perfetto, pulito in ordine.
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IL SUK - Sergio Agrò photography
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IL SUK - Sergio Agrò photography
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Grazie a queste guide sono riuscito a fare degli scatti che altrimenti non avrei potuto fare, fare street photography a Marrakech non è facile bisogna soprattutto avere rispetto e conoscere la loro cultura e avere modi gentili. Il nostro viaggio continua e decidiamo di visitare le zone più esterne dal centro dalla città. Tra tutti i luoghi che abbiamo visitato vorrei citarne due, uno sono i giardini Majorelle e l’altro è il quartiere Tanneries a Bad Debbagh.
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I giardini Majorelle prendono il nome dal primo proprietario, il pittore francese Majorelle; ma solo quando lo stilista Yves Saint Laurent acquistò la proprietà e curando il giardino, lo rese unico con piante da tutto il mondo, giochi d’acqua e soprattutto con un colore dominante. Il colore è il blu, è ovunque in questo luogo, anche la casa ha un blu intenso, acceso, il blu qui è unico tanto da avere un proprio nome, infatti si chiama Blu Majorelle.
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Come detto in precedenza, Marrakech è un contrasto, ecco perché il secondo luogo che consiglio di visitare sono le Tanneries. Questo è un posto diventato turistico per le persone più coraggiose e meno schizzinose. Alle Tanneries vengono conciate le pelli con metodi naturali, prima vengono tenute in ammollo in bacini d’acqua, sbiancate con delle farine e ammorbidite con guano di piccione, infine le pelli vengo asciugate al sole stendendole sui tetti delle case. E’ questo il segreto delle pelli di Marrakech, tutto naturale. Alle Tanneries si vedono uomini che per pochi euro al giorno
lavorano le pelli immersi nei catini di cemento, lavoro che svolgono solo nelle prime ore del mattino quando non fa caldo e quando l’odore è per loro ancora sopportabile. Anche in questo luogo ci facciamo aiutare delle guide locali che oltre a visitare le Tanneries dal basso ci portano in un terrazzo e tra una carcassa di animale e l’altra riusciamo fare delle fotografie panoramiche. Visitando le Tannerie non ho mai apprezzato così tanto la menta che ci hanno regalato all’ingresso e usata al naso contro gli odori.
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Marrakech è questa! è un contrasto unico: o ti piace o non ti piace; non esiste “eh non lo so!”. Marrakech o la vedi a colori o la vedi in bianco e nero, sta di fatto però, che ogni volta che guardo le mie foto, osservo quel blu e sento ancora i profumi e i suoni della città di Marrakech.
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Stupinigi
LA PALAZZINA DI CACCIA A cura di Mariangela Boni
Finalmente a luglio mia madre si è decisa a trascorrere qualche giorno da me. Era passato quasi un anno dalla sua ultima visita, così volevo fare qualcosa di speciale. Dovete sapere che mia madre ha due grandi passioni: le passeggiate, specialmente in montagna e le visite culturali. Considerando che la prima passione riesce a coltivarla a casa propria a me non resta che tentare di alimentare la seconda. E così optai per visitare una delle residenze sabaude che mi aveva sempre incuriosita e che ancora non avevo avuto l’occasione di vedere: la Palazzina di caccia di Stupinigi.
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109 All’arrivo, dopo aver attraversato dei giardini perfettamente curati di prato all’inglese, c’è un elegante cancello a protezione della palazzina che, con l’enorme scultura a forma di cervo che campeggia sulla cupola del grande salone ovale, ricorda all’avventore la sua originaria destinazione d’uso. Infatti questa dimora era stata commissionata nel 1729 a Filippo Juvarra da Vittorio Amedeo II di Savoia per accogliere i nobili durante i loro brevi soggiorni in occasione delle battute di caccia. Tra i suoi ospiti più illustri ricordiamo Napoleone Bonaparte che la scelse come sua residenza nei primi anni dell’800, durante l’occupazione francese, e la Regina Margherita che la prese come sua dimora ufficiale. Tuttavia, uno dei suoi ospiti più famosi e amati dal popolo non
era di nobili natali: mi riferisco all’elefante Fritz. Sì, avete letto bene, un elefante in carne ed ossa. Il pachiderma venne donato nell’estate del 1827 a Re Carlo Felice di Savoia dal viceré d’Egitto, Mohamed Alì, come ringraziamento per aver ricevuto in regalo 100 pecore merinos. Fritz venne utilizzato soprattutto per intrattenere i visitatori con spettacoli, balletti e passeggiate nel parco. Purtroppo dopo 25 anni di onorato servizio l’elefante fu soppresso. Caduto in depressione per la morte del suo storico guardiano, aggredì e uccise il nuovo guardiano che, a quanto pare, lo stava forzando ad uscire dal suo recinto per esibirsi.
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Ancora oggi è possibile osservare Fritz, basta andare al Museo di Scienze Naturali di Torino o guardare la copia presente nei giardini della palazzina. Fritz non fu il solo ospite esotico, con l’intensificarsi dei contatti internazionali il giardino di corte aprì le porte a mufloni, gazzelle, camosci e canguri dando vita a quello che oggi chiamiamo zoo. Ovviamente questa magnifica residenza è stata protagonista anche di avvenimenti mondani importanti quali due matrimoni reali: nel 1773 quello tra Maria Teresa di Savoia e il conte d’Artois (il futuro re di Francia Carlo X) e nel 1842 tra Vittorio Emanuele II, futuro primo re d’Italia, e l’austriaca Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena. Negli ultimi decenni è stata utilizzata come set per fiction e film. Vi sono state girate alcune scene della fiction Elisa di Rivombrosa. Ha ospitato le riprese del film Guerra e pace, I banchieri di Dio, Prendimi l’anima, Ulysses - A dark odissey, la versione televisiva della Cenerentola di Rossini diretta da Carlo Verdone. Il fatto che fosse una residenza secondaria non deve far pensare che si tratti di un edificio spoglio: tutt’altro! Questa dimora è considerata un gioiello del rococò: uno stile che definire sfarzoso è un eufemismo. Le varie stanze sono riccamente decorate, gli arredamenti sontuosi, i lampadari di cristallo.
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Pierluigi Peis photography
Mariangela Boni photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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113 Ricordo che al nostro arrivo abbiamo chiesto quanto durasse la visita e la risposta è stata: “dipende, c’è chi riemerge dopo un quarto d’ora e chi dopo ore”.
dubbio, ciò che attira maggiormente la nostra attenzione sono gli affreschi: sono così ricchi di particolari che gli occhi sono spaesati non sapendo dove soffermarsi.
Noi scoprimmo di far parte della seconda categoria e vi assicuro che le ultime stanze le abbiamo viste frettolosamente. Il cuore della residenza è il grande salone ovale da dove si accede agli appartamenti reali e a quelli per gli ospiti.
Inoltre la tecnica del trompe l’oeil conferisce ai personaggi e oggetti raffigurati un’incredibile tridimensionalità.
L’appartamento del Duca di Chiablese, quello del re, quello della regina, quello del duca di Savoia e infine l’appartamento del principe di Carignano.
Ci sono richiami alla dea Diana, scene di caccia, motivi floreali ma anche le immancabili decorazioni cinesi, tanto in voga all’epoca.
E così procediamo da una stanza all’altra, ammirando i mobili intarsiati, gli specchi dorati, le stoffe pregiate ma, senza
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Dopo aver vagato per ore rispuntiamo al punto di partenza e realizziamo con un po’ di dispiacere che la visita è giunta al termine. Ovviamente ho raggiunto l’obiettivo: la sete di cultura di mia madre (a onor del vero anche la mia) è stata pienamente soddisfatta. Mariangela Boni
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A cura di Monica Gotta Vi porto con me in Sicilia, a Trapani per la precisione. Stilerò un “racconto” di questo evento, comporrò una “fotografia” vista attraverso i miei occhi e la mia esperienza diretta. In questi giorni ho avuto il piacere di conoscere molte persone del mondo della fotografia, dagli organizzatori a professionisti con grande esperienza e sensibilità. Ad anticipare l’inaugurazione di TrapanInPhoto, l’11 Ottobre 2018 esordisce Gocce, un evento nell’evento. Gocce si presenta con 16 esposizioni di fotoamatori e fotografi professionisti proponendo diversi generi fotografici, dall’architettura al paesaggio, moda, astrazione, reportage e still life. Gocce ha coinvolto diversi spazi espositivi sparsi per il centro storico della città di Trapani, messi a
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disposizione dai commercianti e negozianti della città. Gli scatti sono stati esposti in wine bars e pub, bar e pizzerie, gioiellerie, negozi di abbigliamento, agenzie di viaggio e laboratori d’arte. Nulla di più invitante per vagare in città, iniziare a calarsi nell’atmosfera dell’evento e godere della ben nota ospitalità siciliana! Dopo il successo delle precedenti edizioni di TrapanInPhoto, il 19 Ottobre 2018 si celebra l’inizio dell’ottava edizione della manifestazione organizzata dall’Associazione “I Colori della Vita” (http://www. icoloridellavitatp.it/) con l’inaugurazione presso l’Auditorium della Chiesa di Sant’Agostino - Piazzetta Saturno a Trapani.
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FONTANA DI SATURNO Monica Gotta photography Giroinfoto Magazine nr. 37
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La manifestazione, riconosciuta dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (FIAF), nasce per promuovere una serie di eventi culturali legati al mondo della fotografia. Il tema di quest’anno è Corporeità. Arturo Safina, Direttore Artistico dell’Associazione “I Colori della Vita”, ci fornisce alcune informazioni sulla scelta del tema dell’evento. ... ”Abbiamo scelto delle mostre di fotografi che hanno sottolineato alcuni aspetti della vita che ci lega al nostro corpo dai disturbi legati all’alimentazione influenzando negativamente il nostro corpo come il meraviglioso lavoro “Odi et amo” di Tatiana Mura, e anche “Thánatos”, come descritto e trattato da Pietro Collini sui misteri della morte come lui stesso scrive. La fotografia ci può portare in mondi preclusi ai più, come quello di una sala settoria e dei suoi riti. Arrivando ad un argomento purtroppo attuale come la prostituzione “The Body in Crisis” realizzato in Grecia da Gianmarco Maraviglia, vuole documentare le conseguenze di una situazione del genere sul corpo umano, come massima espressione della sfera intima e personale”...
Il programma offerto ai visitatori prevede un fitto calendario di appuntamenti tra mostre, incontri, presentazioni editoriali e un’occasione imperdibile per gli amanti della fotografia (fotoamatori e non), che desiderano sottoporre i propri lavori a noti critici fotografici, giornalisti, photo editor tra i massimi esperti nazionali: una giornata dedicata alla lettura portfolio, al termine della quale saranno premiati i lavori migliori.
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La serata inaugurale si apre al Museo di Arte Contemporanea San Rocco con la presentazione del libro “Resistere” di Alessio Pagani e Francesco Fiorello. Resistere, è un progetto volto a comunicare, approfondire, trasmettere e spiegare cosa c’è dentro alle fotografie: il dolore e le emozioni. Francesco Fiorello racconta la sua esperienza di due anni nelle Marche per la realizzazione del reportage e del libro insieme ad Alessio Pagani. Vivere a stretto contatto con le persone, cercare il contatto umano, stabilire una relazione per non urtare lo stato d’animo, conoscere le situazioni e le difficoltà, non programmare gli scatti nella speranza di essere discreti nel rispetto del dolore dei residenti, si è rivelato il giusto approccio per realizzare un libro volto a dare una sensazione di speranza, resistenza e resilienza dove la gente lotta per ricostruire una nuova vita. Giuseppe Pappalardo, critico fotografico e storico della fotografia, apprezza la forza delle didascalie che accompagnano ciascuna foto. Un metodo forse quasi dimenticato, che dà forza all’immagine e soprattutto ha capacità di documentazione intrinseca specialmente nel caso di un libro come Resistere. Uno scatto ricorda a Francesco un episodio carico di emozioni, l’incontro con un uomo che aveva perso il figlio e le sue proprietà nel crollo del luogo che stava immortalando. Quell’immagine però non voleva portare via la sua memoria, voleva gridare al mondo l’immenso dolore di chi ha perso tanto o tutto in quel giorno. Proiettando e scorrendo le immagini presenti nel libro scopriamo ciò che c’è dietro... la storia, la storia di ogni singola fotografia, di ogni singola persona con la sua più intima e personale esperienza.
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La serata entra nel vivo con l’apertura delle mostre presso l’Auditorium della Chiesa di Sant’Agostino dove sarà disponibile anche il buffet inaugurale sapientemente preparato dall’ Istituto Professionale Servizi per l’Enogastronomia e l’Ospitalità Alberghiera “Ignazio e Vincenzo Florio”. Le mostre Thanatos di Pietro Collini, Odi et Amo di Tatiana Mura, Body in Crisis di Gianmarco Maraviglia, Corpi in movimento e la mostra collettiva dei soci ICDV indagano il tema della corporeità in modi eterogenei, sempre attraverso l’uso del linguaggio fotografico utilizzando tuttavia strumenti ed argomenti differenti. Pietro Collini ci introduce in un mondo di immagini precluso ai più. Con Thanatos l’autore ci porta ad indagare il significato sociale, il concetto di morte, un concetto che i più cercano di negare. Pietro Collini, oltre che fotografo, pratica la professione di medico. Questa suo duplice impegno si trasforma nel progetto esposto oggi a TrapanInPhoto. Le fotografie esposte raccontano un rito, quello che si svolge in una sala autoptica, dove quasi nessuno può posare il suo sguardo. La sequenza delle immagini ci mostra un percorso all’interno del corpo umano, sempre nel rispetto verso la persona, immagini senza volti. Tatiana Mura, fotoamatrice specializzata in food photography e collaboratrice di riviste online e marchi che si occupano di cibo, presenzia all’inaugurazione dell’evento con le sue opere dedicate al tema dell’anoressia e disturbi alimentari. In questi scatti la protagonista è la forchetta insieme a diversi tipi di cibo. L’essere umano è volutamente escluso dalle immagini, scelta intesa a sottolineare l’estrema sensibilità dell’argomento. Gianmarco Maraviglia, con la sua mostra, racconta gli uomini e le donne di cui nessuno parla in Grecia, vittime di una grave crisi
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economica. L’autore indaga le conseguenze di questa circostanza facendoci scoprire attraverso le sue immagini gli effetti che ha avuto sul corpo umano. Ci narra questa storia attraverso l’aumento della prostituzione, un dato di fatto che, con il 150% di aumento della prostituzione negli ultimi tre anni, è diretta conseguenza della più grande crisi economica considerata ormai un evento internazionale.
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La manifestazione prosegue Sabato 20 Ottobre 2018 al Polo museale Agostino Pepoli con Paesaggio - incontro con Giuseppe Pappalardo, meglio noto come Pippo, che ci parlerà di “paesaggio”. A introdurre l’incontro è l’Architetto Luigi Biondo – Direttore del Polo Museale - e la Presidente dell’Associazione “I Colori della Vita”, Marilena Galia. Pippo Pappalardo, critico fotografico e storico della fotografia, chiede all’audience cosa é il paesaggio. La nozione di paesaggio viene affrontata sempre meno con gusto estetico riportandola principalmente alla geografia e alla fisica terrestre. Ambiente e territorio sono diventati sinonimi del termine “paesaggio” e questi termini non appartengono all’estetica. Per i fotografi è necessario mantenere fermo il punto artistico, percettivo ed estetico per non cadere nella trappola di farlo diventare solamente ambiente od ecosistema.
La natura estetica del paesaggio è fatta di sentimenti, emozioni, esperienza e anche di giudizi. Il fotografo “vive” il paesaggio, usa il suo occhio per vivere un’esperienza paesaggistica, il paesaggio si vede non si studia. Il fotografo è l’unico che si fa delle domande su cosa è il paesaggio. E’ l’aspetto visibile di un ambiente? E’ un panorama, ossia un paesaggio come lo si vede guardandosi intorno? E’ una veduta, come lo si vede guardando in una certa direzione? Pippo Pappalardo ci invita quindi a riflettere su come un fotografo può arrivare a conoscere e capire il paesaggio: partendo da qualcosa di “finito”, perché il paesaggio è infinito.
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Domenica 21 ottobre 2018, si apre il Concorso Portfolio 2018 presso la Chiesa di Sant’Agostino, una delle più antiche di Trapani. Noti critici e fotografi si sono alternati nella visione delle singole opere fotografiche e hanno fornito un parere critico, consigli, suggerimenti di carattere tecnico, artistico, editoriale. Hanno presenziato alla lettura: Sandro Iovine (giornalista, curatore di libri e mostre, critico fotografico e direttore responsabile di FPmag), Gianmarco Maraviglia (fotogiornalista e docente IED Milano), Pippo Pappalardo (critico fotografico e storico della fotografia), Chiara Oggioni Tiepolo (direttore artistico Officine Fotografiche Milano), Orietta Bay (Delegato Regionale Ligure FIAF, Docente di fotografia e critico), Fabio Savagnone (fotografo pubblicitario e fine art). E’ stato esposto il portfolio vincitore della passata edizione del Concorso Nazionale “Salvatore Margagliotti” – 7a edizione - anno 2017 dal tema “La tradizione della pesca. Dal pescato alla trasformazione”: I pescatori di Portopalo di Stefano Biserni (primo classificato 2017). Sono stati presentati 14 portfolio fotografici di 12 autori. La giuria, composta dai lettori citati in precedenza, ha stabilito i criteri di giudizio attraverso i quali valutare i portfolio presentati. La giuria si è trovata in sintonia nella scelta del vincitore come nel raccomandare una menzione speciale, non prevista, per un altro portfolio. Il vincitore del Concorso Portfolio 2018, Giuseppe Iannello, è un fotografo siciliano che ha ridestato vecchie immagini d’archivio, proiettandole sul Cretto di Burri e fotografandone poi l’insieme. Il suo portfolio dedicato a Gibellina dal titolo “Gibellina 1968. Otto minuti dopo le tre” racconta di Gibellina, il nuovo paese, sorto dopo la distruzione della vecchia Gibellina a causa del devastante terremoto del 1968 che la annientò e dove ora sorge il Cretto di Burri. Con questo lavoro ha voluto sottolineare la disconnessione tra presente e passato, tra due generazioni dove gli anziani non si sentono a casa e dove i giovani percepiscono una forte mancanza di appartenenza alle vecchie tradizioni.
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Vite sospese in una transizione che pare non avere fine. Traspare la dicotomia tra il vecchio e il nuovo, tra la generazione che ha vissuto la distruzione e i giovani che hanno vissuto la ricostruzione, dicotomia irrealisticamente sostenuta dall’uso del bianco e nero. Una menzione speciale è stata assegnata ad Alessandro Ingoglia, fotografo siciliano, per il portfolio “L’anima dei pupi”, realizzato in bianco e nero.
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Abbiamo preso visione di presentazioni di genere diverso, alcune realizzate a colori, la maggior parte in bianco e nero. In questo momento la fotografia in bianco e nero, monocromatico per utilizzare un termine traslato dalla lingua inglese, gode di un straordinario consenso sia tra fotografi professionisti che fotoamatori. Condividiamo quindi il pensiero di Win Wenders, celebre regista tedesco, quando sostiene che ...”il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e nero”...?
Per chiudere l’intensa giornata di domenica ci ritroviamo al Museo d’Arte Contemporanea San Rocco per assistere a “Conversando di fotografia!” con Augusto Pieroni e Pippo Pappalardo. Ad introdurre l’incontro sarà Don Liborio Palmeri, direttore del Museo. Augusto Pieroni insegna da oltre vent’anni storia e critica della fotografia e linguaggi visivi contemporanei. Già docente universitario, é anche lettore di portfolio, giurato e conferenziere, suoi articoli e saggi sono stati pubblicati su riviste internazionali. In quest’occasione gli è stato consegnato il Premio per la Cultura Fotografica 2018 “Salvatore Margagliotti” con la seguente motivazione per celebrare il suo impegno e il suo vasto lavoro. Giroinfoto Magazine nr. 37
“Ad Augusto Pieroni per averci insegnato che le immagini, con le quali pensiamo e rappresentiamo il mondo, quello dentro e quello fuori di noi, possono diventare i mattoni di un nuovo racconto, meditato, fondato, espressivo, con il quale comunicare, quindi fare comunione, anche quando le immagini possono apparire tra loro distanti e opposte”. Facendo riferimento a “Portfolio!”, Augusto Pieroni si sofferma sul concetto di “sapere cosa si fa”, “perché lo si fa” o almeno credere di saperlo per avere una propria centratura. L’obiettivo del suo lavoro è portare avanti il lavoro delle persone. L’essere consapevole che una parte del suo lavoro è entrato nel vissuto di alcune persone, è quanto lo ha maggiormente soddisfatto.
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Pippo Pappalardo interviene sostenendo che Augusto Pieroni ha toccato molti argomenti che passano dalla storia della fotografia alla teoria della fotografia, al modo di concepire e realizzare la nostra concezione dell’immagine, entrando nel vivo di chi si confronta con l’immagine. Riflettiamo su due fotografie messe su un tavolo: esse dialogano, cercano un contatto, comunicano.
Da questo concetto l’autore ha costruito un libro formidabile che si chiama “Portfolio!”. Il portfolio diventa il percorso metodologico di una volontà di organizzare le cose del mondo, diventa il discorso della passione, passione che è la volontà di capire il caos e il disordine per indurci a mettere ordine. Ordine in una sequenza di fotografie.
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Lunedì 22 Ottobre 2018, continuano gli incontri con “La storia oltre l’immagine”, presentata da Gianmarco Maraviglia. Gianmarco si racconta a partire dalla sua adolescenza, i suoi studi e il suo inizio come fotografo professionista. Si è completato in qualità di fotogiornalista ideando il suo primo progetto partendo dal concetto di interculturalità presente nella sua famiglia, decifrando la realtà attraverso le cose che lo circondano, raccontando il tutto attraverso una parte. Presenta due suoi reportage “Blooming in the black garden” e “Blooming on the other side of the river” realizzati con il collega Karl Mancini,
un racconto sui paesi non riconosciuti dalla comunità internazionale, territori controllati ed occupati nati dalle guerre del 1993-94 tra paesi confinanti. Il lavoro tratta principalmente del senso di identità dei giovani nati nello stesso anno del loro paese. Osservando le immagini di questi progetti, notiamo la passione, l’empatia e l’impegno sociale di Gianmarco che vuole portare agli occhi del mondo delle storie difficili che si consumano in luoghi sconosciuti a molti di noi. Attraverso i suoi occhi e le sue immagini possiamo provare a capire meglio gli esseri umani ed i loro conflitti, interiori e non.
Giovedì 25 Ottobre 2018 è in programma un evento molto atteso dagli organizzatori di TrapanInPhoto, Racconti Jazz - Incontri fotografici in 7/8 con l’autore Pino Ninfa e Vincenzo Fugaldi. Pino Ninfa, di origini siciliane, testimonial per diversi brand fotografici come Leica e Canon, nasce come fotografo in bianco e nero, avendo iniziato a scattare con la pellicola.
E’ un attimo quello che definisce il concetto di fotografia, che racconta quel particolare momento e deve far vedere allo spettatore qualcosa di più dell’ovvio evitando la superficialità. Infatti sono le storie ad essere le compagne di viaggio del nostro tempo e permettono di contestualizzare le immagini nello spazio e nel tempo.
Dopo anni e il passaggio al digitale resta ancora affezionato al bianco e nero, pur essendo consapevole che alcune fotografie rendono il senso dell’immagine a colori. Attualmente sviluppa progetti sul territorio nazionale ed internazionale legati allo spettacolo e al reportage. L’interesse per la musica e per il sociale sono i temi fondamentali del suo lavoro fotografico.
Il lavoro di Pino Ninfa è anche altro. La fotografia, oggi, può anche essere “sociale”. Segue, in diverse parti del mondo, progetti volti a migliorare le condizioni di vita di persone in difficoltà con particolare attenzione alle donne e alle persone affette da handicap. Ha lavorato in zone povere con problemi diversi e molto gravi. Racconta le sue esperienza in Giordania, ad Aleppo ed in altri luoghi poco accessibili. La fotografia ci permette di entrare in queste zone e di tornare e ragionare su concetti lontani dal nostro sentire quotidiano. Raccontando uno dei suoi scatti ci fa capire quale clima riesce a creare la fotografia, la capacità di mettere tutti in relazione, le persone si divertono ed esplorano, lo fanno con capacità di incontro e da ciò si può immaginare quanti meccanismi la fotografia riesce ad attivare con una semplice azione che è quella di un semplice click. La capacità di scattare una fotografia ed entrare in relazione con i soggetti ripresi rende quella foto speciale e non tutti riescono a farlo. Infatti il mezzo, la macchina fotografica, lavora per il fotografo non il contrario.
Nel volume che presenta a TrapanInPhoto, Pino unisce testi alle fotografie, lo fa per raccontare le fotografie, tesse una narrazione per descrivere la musica e gli artisti e lo costruisce come un vero e proprio viaggio. Con i racconti di questo volume Pino ci presenta, attraverso la sua personale visione, l’energia che si può sprigionare dall’incontro della musica con la fotografia. Infatti il jazz non è solo musica, è anche uno stile di vita. Pino è riuscito a rendere e far vedere attraverso le sue foto lo spirito intrinseco del jazz come modo di vivere. Scorrendo i suoi scatti spiega come sono state realizzate le immagini del libro, con quali mezzi, visione, tempo e posizione. Giroinfoto Magazine nr. 37
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Venerdì 26 Ottobre 2018 un folto pubblico presenzia ad un altro incontro da non perdere, la presentazione del libro Il Valzer di un giorno di Franco Carlisi con Gaetano Siracusa. Franco Carlisi ha iniziato a dedicarsi alla fotografia nel 1994. In questi anni ha svolto la sua attività fotografica prevalentemente nei paesi del bacino del Mediterraneo e nella sua isola. E’ Direttore di Gente di Fotografia, rivista di cultura fotografica ed immagini. Il libro, vincitore del Premio Bastianelli 2011, esplora il rito del matrimonio siciliano. Le immagini di Franco Carlisi, attraverso il bianco e nero, ci restituiscono un’immagine vitale, quella del matrimonio, da vero e proprio narratore di una storia. “Il giorno è quello del matrimonio, in una Sicilia nascosta, periferica, esplorata oltre il recinto delle codificazioni, delle forme convenzionali entro cui i protagonisti del rito matrimoniale costruiscono la loro recita. E’ un libro che sembra viaggiare controtendenza. Non c’è traccia della staticità, della concettosità, di quel tono anemico che sembrano dominare in tanta parte della fotografia contemporanea” (Cit. http://www.ilvalzerdiungiorno.it/). Gaetano Siracusa, fotografo dagli anni ‘80, introduce e presenta la seconda edizione di “Il Valzer di un giorno”, seconda edizione giustificata dal grande successo della prima. Il successo ha posizionato il libro in maniera eccentrica rispetto al panorama editoriale. Le immagini di questo libro sono accompagnate da testi che ne esplicano il contesto, ma sono le immagini stesse a dare il piacere di essere osservate. Il bianco e nero è molto contrastato, ci propone una trasfigurazione poetica dei volti della Sicilia degli anni ‘90, raggiunta attraverso un sapiente uso della luce. Carlisi va oltre l’esperienza visiva quando, nelle sue immagini, le figure tendono a svanire con i loro contorni e ad andare oltre l’evidenza visiva. Il libro ha una configurazione dell’immagine fotografica diversa dal solito, con una resa descrittiva molto dettagliata. Il linguaggio del libro risulta quindi orientato
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al nucleo del meccanismo fotografica, la sorpresa.
dell’immagine
Qual’è l’elemento che determina l’efficacia delle fotografie di Franco Carlisi? E’ l’improbabilità di ciò che vediamo, ma anche una visione complessiva dell’immagine dove c’è ordine, struttura, forma. Difficilmente utilizziamo lo sguardo per creare un’emozione estetica e quindi vivere un’esperienza. La forza delle immagini di Carlisi sta nel creare e comporre l’immagine in una frazione di secondo, contestualizzata nello spazio-tempo, con la capacità di far vivere quest’esperienza a chi osserva le sue immagini. Sensibilità, tensione e conoscenza: questo è il modo di Franco Carlisi di raccontare un matrimonio secondo Mauro Galligani intervenuto alla serata di presentazione. Franco Carlisi racconta l’anima del suo libro e come gli ha portato grande fortuna. E’ un’analisi sociologica e, al centro della ricerca, non c’è tanto il rito sacro quanto la sacralità della vita al di là di ogni convinzione ideologica. Ha cercato, attraverso la Sicilia, di ritrarre l’animo umano. Quello che lo interessa non è l’informazione, ma il loro valore simbolico e la loro universalità. Pensate ad essere seduti un in bar con degli amici e, ad un certo punto, sentite una voce, un nome che vi porta in un altro posto, in un altro tempo. Questo è ciò che fa la buona fotografia, riesce a metterci in contatto con un frammento della vita degli altri che noi riconosciamo come nostra. Le fotografie di questo libro hanno avuto successo a tutte le latitudini perché riescono a “fotografare” un istante, quell’istante dove si abbassano le maschere, dove cade il velo e si fotografano le persone nella loro autenticità. Volgendo al termine della manifestazione, Sabato 27 Ottobre 2018 ascoltiamo Lectio Magistralis con Mauro Galligani presentato Giacomo Di Girolamo, Direttore di TP24.it. Giacomo Di Girolamo introduce l’incontro partendo dal “giorno d’oggi”. Tutti sono in grado di fare fotografie e girare video con uno strumento molto diffuso, lo smartphone.
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Alla nuova generazione manca però la capacità di capire cosa è veramente una fotografia. Noi nasciamo, viviamo e lavoriamo per raccontare storie.
Nel suo intervento racconta come spesso sono i fotoamatori a sorprendere per il talento dimostrato e il ricambio nel fotogiornalismo viene proprio dall’amatoriale.
Nasce quindi spontaneo indagare su come i giovani d’oggi utilizzano i Social Media come Facebook ed Instagram, cosa è un’immagine, cosa è un fotoracconto nel loro mondo e nel mondo virtuale.
E’ fondamentale essere consci che non si può partire per un paese senza conoscerlo, è necessario avere informazioni sufficienti per poter collegare le immagini che andranno a comporre il servizio. In questo ci sono giornalisti più bravi di altri a capire quello bisogna comunicare attraverso le fotografie. Le fotografie devono correre con la parola, la parola e la fotografia devono essere un tutt’uno per trasmettere le giuste informazioni.
Mauro Galligani ha collaborato con diversi giornali seguendo i grandi avvenimenti della cronaca internazionale, dalle guerre in America Centrale, in Africa, Balcani, Caucaso e in Medio Oriente, alla vita nell’Unione Sovietica, paese, cultura e protagonisti di cui testimonia ogni cambiamento. Ha passato cinquant’anni in giro per il mondo con centinaia di reportage, durante i quali ha incontrato tutti i fotoreporter delle più importanti testate internazionali. Galligani fa informazione, parla della fotografia per i giornali, che è completamente diversa da quello che si suppone, e della fotografia in funzione del giornale.
Arrivare a scattare certe fotografie implica sacrificio, come quello di arrivare in un posto difficilmente raggiungibile, arrivare al momento giusto e riuscire attraverso lo scatto a raccontare la storia del soggetto fotografato nonché a raccontare la storia che ci si è prefissati di raccontare. La fotografia in sé è l’atto finale di un processo lungo e faticoso, basata a volte sul dolore del prossimo e deve essere trattata con un minimo di speranza o di discrezione.
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Dopo aver presenziato a questi incontri durante i quali si è “conversato” di fotografia in tutte le sue sfaccettature e in modo estremamente dettagliato mi sorge spontaneo porre una domanda per nulla scontata. Una domanda che è già stata posta e ci si è posti innumerevoli volte. Cos’è la fotografia? Fotografia significa letteralmente “scrivere con la luce”. Ma cosa è diventata nel corso della sua storia? E’ passione e mezzo di aggregazione, è il concetto da esprimere con il giusto linguaggio, è raccontare una storia, è memoria, è diventata arte, pensiero, movimento, informazione, denuncia, documentazione, emozione e studio, è forma espressiva. Quindi è realtà, quella realtà che si crea nell’attimo in cui il soggetto ritratto nell’immagine incontra lo stato d’animo del fotografo e si stabilisce una relazione unica e particolare. Una nota fotografa e fotogiornalista nata nel 1908, Gisele Freund affermò che ...”Dieci fotografi di fronte allo stesso soggetto producono dieci immagini diverse, perché, se è vero che la fotografia traduce il reale, esso si rivela secondo l’occhio di chi guarda”... Infatti ognuno di noi, attraverso la sua esperienza, il suo sentire e il suo modo di “vedere il mondo” percepisce qualcosa di diverso nella realtà che nessun’altro avrebbe potuto immaginare o trovare, perché nasce dalla profondità dell’anima di ciascuno di noi. Poniamoci una domanda non troppo scontata: perché scattiamo una fotografia?
Qualcuno vuole trasmettere emozioni, altri la utilizzano come “memoria” e ricordo dei “momenti salienti della vita”, per catturare un istante. Alla fine concorderemo sul fatto che ciò che tutti noi, fotografi amatoriali e fotografi professionisti, vorremmo realizzare con uno scatto è liberare la nostra fantasia e trasmettere le nostre emozioni a coloro che guarderanno le nostre immagini, raccontare un attimo di vita oppure una storia appassionata. Un modo per unire le persone, i loro pensieri e le loro emozioni. Che sia stata stampata da una pellicola, scattata da una macchina fotografica professionale o semplicemente da un cellulare, uniamoci nell’impegno di far sì che le fotografie non si perdano nei meandri del Web o finiscano nell’oblio della memoria di un dispositivo mobile non più funzionante. “Osserviamo” la fotografia come la “legge” Augusto Pieroni, riflettiamo sulla definizione di “paesaggio” come ci invita a fare Pippo Pappalardo, conosciamo il mondo attraverso le storie di Gianmarco Maraviglia, pensiamo a come la fotografia mette in relazione le persone come dice Pino Ninfa, fotografiamo le persone nella loro autenticità come afferma Franco Carlisi e raccontiamo una storia attraverso uno scatto come ci invita a fare Mauro Galligani. L’invito di tutti gli esperti intervenuti a TrapanInPhoto è quello di riflettere, continuare a studiare, esplorare e condividere la cultura della fotografia in modo che possa crescere, maturare e perfezionarsi ad ogni scatto di ogni fotografo.
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La manifestazione, l’obiettivo sociale e la valorizzazione del territorio. TrapanInPhoto si propone anche come progetto di sviluppo locale per la valorizzazione del territorio. Oltre alla diffusione dell’arte della fotografia, l’obiettivo è quello di promuovere questa zona della Sicilia con tutti i suoi usi, costumi e consuetudini, nonché con le sue bellezze paesaggistiche e turistiche, le sue tradizioni culturali ed eredità storiche, il patrimonio agricolo ed enogastromico, le riserve naturali, le sue risorse e il rispetto dell’ambiente. La promozione dell’arte della fotografia, l’azione di sensibilizzazione nei confronti di istituzioni ed operatori locali attraverso la manifestazione ha fatto sì che si generasse un forte contatto tra persone, enti ed associazioni. Obiettivo che sarà anche traguardo della manifestazione del 2019. Un ringraziamento va tutti coloro che hanno reso possibile l’organizzazione di TrapanInPhoto a partire dall’Associazione “I colori della vita” e quanti citati di seguito come patrocinio, partner della manifestazione, Media Partner ed ospiti. TrapanInPhoto vi invita alla nona edizione nel mese di Ottobre 2019 per “conversare di fotografia” con tutti voi!
Ringraziamenti Istituto Professionale Servizi per l’Enogastronomia e l’Ospitalità Alberghiera “Ignazio e Vincenzo Florio” di Erice Trapani - per la realizzazione del buffet presentato all’inaugurazione Alfredo Gimmanco - Live electronics con Luca Valenza alle percussioni e Giovanni Balistreri al sassofono con il pezzo “Il Corpo Risuona - percorsi sonori su partiture fotografiche” intrattenimento musicale.
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Patrocinio Comune di Trapani Partner della Manifestazione Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Museo interdisciplinare Agostino Pepoli di Trapani Diocesi di Trapani Museo San Rocco Istituto Tecnico Economico Statale “L. Sciascia” Ordine degli ingegneri Conservatorio Scontrino di Trapani Media Partner TELESUD TRAPANI e TVio Radio102.it e TP24.it FPmagazine.eu IdeazioneNews.it TrapaniOggi.it Giroinfoto Magazine ClickMagazine
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NIGHT IN LONDON
Autore: Francesco Saverio Paternostro Luogo: St Paul’s Cathedral - Londra Giroinfoto Magazine nr. 37
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THE SACRED IN RUINS
Autore: Enrico Raimondo Luogo: Monastero Sant’Anna de Aqua Vivis - sito in Mondragone/Caserta/Italia
SCALA CUBISTA
Autore: Anna Maria Noto Luogo: Praga - Casa della Madonna Nera Giroinfoto Magazine nr. 37
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