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2018 Dicembre
N. 38 - 2018 |DICEMBRE, Gienneci Studios Editoriale. www.gienneci.it
N.38 -
TORINO E LA GRANDE GUERRA BAND OF GIROINFOTO TORINO
TRIS PIEMONTESE STREET & FOOD Band of Giroinfoto
SAVANNAH ALL AMERICAN REPORT Di Giancarlo Nitti
SINAI IL DESERTO Di Sergio Agrò Photo cover by Sergio Agrò
38 www.giroinfoto.com DICEMBRE 2018
la redazione | Giroinfoto Magazine
fotografare e viaggiare due passioni un’ unica esperienza Benvenuti nel mondo di Giroinfoto magazine©. Una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle bellezze offerte dal nostro pianeta. Una lettura attuale e innovativa, che accoglie, oltre i migliori professionisti della fotografia da reportage, anche le immagini e le esperienze di chiunque sia appassionato di viaggi e fotografia. Con i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, Giroinfoto magazine ha come obiettivo, essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la condivisione di migliaia di luoghi e situazioni sparsi per il nostro pianeta. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Uno largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e testi, indipendentemente dal valore professionale dell'autore. Una raccolta di molteplici idee e progetti di viaggio, frutto delle esperienze e lavori eseguiti da esperti nel settore del reportage fotografico, che hanno saputo confrontarsi con le condizioni climatiche e socio-politiche, con le difficoltà imposte dalla natura, per catturare l'immagine e la spontaneità selvaggia della stessa. Troverete anche articoli tecnici, dove prendere spunto per ottenere scatti sempre perfetti e con idee sempre nuove per rendere le fotografie più interessanti. Giroinfoto.com© , con la sua rivista e la sua rete web è la più grande community di foto-viaggiatori che accoglie chiunque voglia condividere le proprie esperienze di viaggio o semplicemente farsi coinvolgere dai racconti pubblicati. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti
LA RIVISTA DEI FOTONAUTI Progetto editoriale indipendente
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ANNO IV n. 38
giroinfoto magazine
20 Dicembre 2018 DIRETTORE RESPONSABILE HEAD PROJECT MANAGER Giancarlo Nitti CAPO REDAZIONE Paolo Buccheri SEGRETERIA DI REDAZIONE E REVISIONE Silvia Belotti CAPI SERVIZIO Lorena Cannizzaro
Fabrizio Rizzo Fabrizio Rossi Mariangela Boni Nadia Laboroi Angelo Bianchi Cinzia Carchedi Floriana Speranza Giancarlo Nitti Sergio Agrò
REDATTORI E FOTOGRAFI Giancarlo Nitti Redazione Monica Gotta Reporter Sergio Agrò Reporter Barbara Lamboley Reporter Elisa Bosco Reporter
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Band Of Giroinfoto - Torino Lorena Cannizzaro (capo servizio) Barbara Lamboley Giulia Migliore Barbara Tonin Stefano Tarizzo Manuel Monaco Davide Tagliarino
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Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale.
Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www.gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti. MEDIA PARTNER Instagram @Ig_piemonte @ Ig_valledaosta @Ig_lombardia_ @ Ig_veneto @ Ig_liguria @ Ig_emiliaromagna @cookin_italia @cookin_piemonte
INSIDE
Giroinfoto Magazine
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Indice 10
SAVANNAH
All american report A cura di Giancarlo Nitti
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ANATOLIA Turchia A cura di Monica Gotta
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TRIS PIEMONTESE Nizza Monferrato Caraglio Galliate
Band of Giroinfoto
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SINAI Il deserto A cura di Sergio Agrò
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TORINO STORIES La Grande Guerra Band Of Giroinfoto
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LYON Fascino storico e religioso A cura di Barbara Lamboley
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FOTO EMOZIONI Le foto dei lettori Questo mese con: Giuliana Mastromanno
PUBBLICA
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VI PRESENTIAMO
I NOSTRI
REPORTS E' con orgoglio che pubblichiamo le statistiche e i volumi qui presenti relativi alle analisi aggiornate al mese di: Dicembre 2018
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Articoli totali sul magazine
Articoli pubblicati dagli utenti
Nuovi Reporters
Foto singole pubblicate
Copertura degli articoli sui continenti
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GEORGIA
Oggi capoluogo della contea di Chatham nello Stato della Georgia, fu fodata nel 1733 sul fiume omonimo divenendo immediatamente la capitale della provincia della Georgia della colonia britannica. Il centro di Savannah, denominato Historic District, mantiene in gran parte il piano urbano originale prescritto dal suo fondatore Generale James Oglethorpe, rivivendo ogni giorno la storia che l’ha attraversato.
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A cura di Giancarlo Nitti
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Grazie alla sua collocazione strategica sull’Oceano Atlantico, l’insediamento divenne un’importante roccaforte sudista nel corso della Guerra Civile. Una leggenda narra, che con la vittoria degli unionisti e la marcia su Atlanta, il generale a capo dell’invasione William Tecumseh Sherman, non distrusse la città poiché era stato impressionato dalla sua straordinaria bellezza, risparmiandola. Savannah contiene anche molti riferimenti cinematografici e narrativi, come il famosissimo film sull’opera letteraria di Margaret Mitchell “Via col vento” , dove Rossella O’Hara viene ospitata dalla zia Pittitat durante l’assedio della città. Ma anche il più recente “Forrest Gump” (1994), ha reso Savannah famosa per la panchina di Forrest dove racconta la storia della sua vita. La panchina non è visibile nella sua posizione filmografica (Chippewa Square), perchè l’installazione era esclusivamente ai fini di registrazione delle scene, ma viene conservata all’interno del Savannah History museum.
Per gustare a pieno la particolare atmosfera che aleggia sulla città, basta incamminarsi lungo la Bull Street, il corso principale che attraversa 24 suggestive piazzette con splendide residenze costruite tra il XIX ed il XX secolo. Nella down town cittadina si trovano interessanti location come il City Market, recentemente restaurato, con i suoi negozietti di antiquariato, Fort Jackson e Fort Pulaski National Monument, che testimoniano i trascorsi bellici della regione. Molto particolari sono anche i parchi cimiteriali che racchiudono i cimiteri storici della città come il Colonial Park Cemetery e il Laurel Grove. Nell’attraversare la città si noteranno anche le caratteristiche architetture delle chiese come massima rappresentazione dei tempi coloniali come la Cathedral of St. John the Baptist, innalzata all’inizio dell’Ottocento, il Temple Mickve Israel, la più antica sinagoga degli Stati Uniti, terminata nel 1878 e la St. John’s Church oggi sede della Diocesi della Georgia. Un’esperienza da non perdere è il giro dell’Historic district a bordo di una carrozza trainata da cavalli.
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La capitale dei fantasmi Ma la città non mostra solamente il volto storico coloniale. Più di 80 cimiteri e una cinquantina di “case stregate” fanno di Savannah la capitale mondiale dei fantasmi e dei fenomeni paranormali, dove migliaia di appassionati e anche “professionisti” della caccia ai fantasmi trovano in questo luogo pane per i loro denti. Qui, nel profondo sud degli Stati Uniti, quasi ogni edificio ospita un suo fantasma e molti di loro vantano più di una leggenda. In passato è stata uno dei maggiori centri per la recluta e il concentramento di schiavi e scenario di cruente battaglie durante la Guerra d’Indipendenza. Una tale varietà di disgrazie come incendi ed epidemie, sembrano giustificare le decine di anime vaganti presenti in questa città, vittime di una serie di omicidi misteriosi ornati da pratiche voodoo che completano il quadro di una città dove i morti non sono meno importanti dei vivi. Nel 2003, l’Istituto Statunitense di Psicologia Paranormale ha proclamato Savannah “la città più stregata d’America”. Jason Hawes, fondatore della Atlantic Paranormal Society e presentatore del programma “Cacciatori di fantasmi”, afferma che “Savannah è letteralmente costruita sopra i suoi morti”. Sarà quindi molto facile a Savannah, trovare delle proposte di tour basati su leggende tetre e fenomeni paranormali, offrendo raccapriccianti passeggiate a piedi o su carri funebri, di notte e di giorno.
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Il centro dell’attività paranormale è il Colonial Park Cementery. Inaugurato nel 1750, questo cimitero è dimora di oltre 10.000 anime, tra le quali quella di Rene Rondolier di cui la leggenda racconta che uccise due giovani prima di essere impiccato e che il suo fantasma si aggiri tra le lapidi o appaia appeso ai rami degli alberi. Mercer Williams House è per esempio un’altra tappa obbligatoria nel percorso ispirato ai fantasmi. Trasformata oggi in museo, vi è stato ambientato il romanzo “Mezzanotte nel giardino del bene e del male” di John Berendt con il film omonimo diretto da Clint Eastwood. In questa villa in stile italiano, “abita” lo spettro del facoltoso Jim Williams, un famoso restauratore che usava dare sontuose feste e il cui amante fu assassinato in circostanze misteriose. Altre location interessanti sulla tematica ectoplasmatica sono: Davenport House con bensì due fantasmi di una bambina vestita con abiti d’epoca e un gatto. Il The Olde Pink House, con il fantasma di James Habersham, il titolare di un ristorante ancora attivo che si impiccò nelle cucine. La sua anima vaga per il ristorante verificando che tutto sia in ordine e salutando i clienti. Il Kehoe House, con gli spiriti dei bambini residenti in questa casa e che rimasero intrappolati nel camino.
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COLONIAL CEMETERY SAVANNAH Giroinfoto Magazine nr. 38
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La visita perfetta Visitare Savannah nel suo paesaggio urbano, sprigiona quel tipico fascino delle caratteristiche cittadine del sud, con la vegetazione tropicale e le strade a ciotoli lungo le quali si passeggia piacevolmente ammirando gli edifici che testimoniano lo stile coloniale. Una città a misura d’uomo di dimensioni tali da poter essere tranquillamente girata a piedi o come consigliato prima, in carrozza e con il caratteristico trenino “HOP ON HOP OFF” che tocca tutti i punti di interesse. Oltre all’attrazione principale degli edifici storici perfettamente manenuti e preservati, la visita della città può estendersi con tante altre attività, in ogni periodo dell’anno. La comunità propone infatti molti festival gastronomici e concerti all’aperto, mostre d’arte e rievocazioni storiche attraendo migliaia di turisti provenienti da ogni parte del mondo nel distretto storico più grande degli Stati Uniti. Un buon inizio della visita sarà quindi immergersi totalmente nell’atmosfera unica di Savannah, incamminandosi lungo la via principale del centro, la Bull Street e percorrendo un tragitto ordinato tra le piazze indicate dalla mappa. Tra viali e piazzette, come già detto si trovano residenze antiche, ma anche tanti esercizi commerciali, bar e ristoranti. L’attenzione si poserà sicuramente su Oglethorpe Square, dove si affaccia la Owens-Thomas House, una maestosa villa in stile Regency realizzata nel 1800 con al suo interno una collezione di mobili e decorazioni dell’epoca, tessuti pregiati e porcellane cinesi.
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SAVANNAH HISTORIC DISTRICT MAP
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Tra le altre residenze storiche c’è la casa natale di Juliette Gordon Low, la fondatrice delle Girls Scout e la Mercer William House, la residenza di Jim Williams, un noto mercante d’arte originario di Savannah la cui storia è raccontata nel film “Mezzanotte nel giardino del bene e del male”. Imperdibile anche l’elegante dimora Old Pink House, che oggi ospita un rinomato ristorante di specialità tradizionali del sud. Tutte residenze che sono anche parte dei ghost tour organizzati.
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CITY MARKET SAVANNAH Giroinfoto Magazine nr. 38
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Una volta assaporato il walking tra la storia di savannah, il tour può continuare, per gli appassionati di shopping, tra i negozietti di articoli d’artigianato e boutique del City Market, un edificio che ospita ristoranti, esercizi commerciali, gallerie d’arte e locali serali con musica dal vivo. Il City Market è il fulcro di tutte le attività della down town cittadina ed è comodamente situato al centro dei quattro isolati tra Ellis e Franklin Square. La location offre anche una vivace vita notturna con concerti e fiere.
Ma la visita a questa grandiosa città non è limitata al centro storico, da cui si può arrivare tramite una serie di rampe e scalini a River Street, una pittoresca passeggiata che si snoda lungo le sponde del fiume Savannah. Su questa via storica, un tempo si trovavano i magazzini del cotone che oggi sono stati convertiti in locali, ristoranti tipici e negozi. Anche qui, in estate, è luogo di festival ed eventi che animano la città. Sempre affacciato sul fiume, ma nella parte orientale della città, si trovano il Fort Jackson e il Fort Pulaski, edifici che testimoniano le guerre che hanno coinvolto Savannah. Savannah non si fa mancare neanche la spiaggia dove rilassarsi al sole. A soli 15 minuti dal centro si trova Tybee Island, una meta molto popolare tra residenti e i turisti con spiagge per prendere il sole, nuotare e fare tour in barca o in kayak.
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FORT PULASKI SAVANNAH Giroinfoto Magazine nr. 38
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A cura di Monica Gotta
Un viaggio in Turchia è una splendida esperienza per coloro che decideranno di farlo. E' un grande paese con una forte identità culturale. Tuttavia i suoi abitanti sono ospitali e cordiali, la cucina ha una lunga tradizione da scoprire in tutte le sue sfumature di gusto, di colore, dal salato al dolce. Le città sono costellate di magnifici palazzi riccamente adornati, la campagna conserva un'atmosfera tradizionale e zone piÚ impervie regalano al visitatore degli scorci paesaggistici unici nelle loro caratteristiche e nei colori.
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A
natolia o Asia Minore, come fu nota ai latini,
è una regione peninsulare dell’Asia occidentale, comprende gran parte dell’odierna Turchia e le appartiene politicamente.
Fu sede d’insediamenti preistorici e culla delle più antiche civiltà mediorientali. Il suo nome deriva dal greco anatolè, “paese di levante”, “punto dove sorge il sole, Oriente”. L’Anatolia fu sottoposta alle principali dominazioni tardo-antiche e medievali che si avvicendarono sul Mediterraneo orientale e sugli altipiani montuosi al confine con l’Asia. Fu rivendicata dal movimento nazionalista di Mustafa Kemal, meglio noto con il nome di Atatürk, come il nucleo territoriale nel quale sarebbe rinato lo Stato Turco, dopo la perdita dei territori europei e mediorientali e di gran parte del dominio insulare. La Penisola Anatolica è stata la culla di una moltitudine di civiltà e di organizzazioni statali durante tutto il corso della storia dell’umanità. La posizione strategica di comunicazione fra Asia ed Europa, fa dell’Anatolia la culla di numerose popolazioni e civiltà fin dall’età preistorica.
Prima di partire informatevi accuratamente sulle condizioni climatiche del paese che è suddiviso in aree diverse. Il clima si distingue in tre zone climatiche: una meridionale calda e secca - mediterranea, una settentrionale - mediterranea ma più umida, e una interna con clima spiccatamente continentale. Pertanto, a seconda della destinazione e del periodo in cui visiterete la Turchia, potrete trovare differenze notevoli a seconda delle zone da visitare e del periodo scelto. Nelle zone interne l’estate è solitamente calda e secca, mentre d’inverno le temperature sono piuttosto rigide. La zona in cui si trova Ani è infatti una zona interna, al confine con l’Armenia, influenzata dalle correnti fredde provenienti dalla vicina Russia e in parte dall’altitudine di circa 1.400 metri sul livello del mare. La stagione migliore è la primavera fino all’inizio dell’estate, prima della fine del mese di Giugno. In questo periodo potrete godere anche dello spettacolo della fioritura che è assolutamente emozionante. I colori indimenticabili di questi paesaggi impervi saranno accompagnati dallo sbocciare dei colori brillanti della natura. Anche il periodo autunnale regala buone temperature e altri spettacoli naturali.
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Per arrivare in Turchia sono disponibili voli aerei a prezzi abbordabili verso Istanbul ed Ankara dalle quali potrete raggiungere Kars con un volo interno di circa due ore. Una soluzione alternativa ed avventurosa è viaggiare con i mezzi pubblici. Ci sono autobus di diverse compagnie in partenza da Istanbul e da Ankara verso la città Kars. A seconda di quanto siete “audaci” potrete approfittare di questo viaggio per ammirare i panorami, fare amicizia con l’autista che sarà ben felice di condividere con voi informazioni, notizie utili, indicazioni sui piatti della cucina turca da non perdere, i segreti dei luoghi più impensati e imparerete qualche vocabolo della lingua turca. L’affitto di una macchina invece vi darà la libertà di programmare delle tappe di vostro interesse durante il viaggio di circa 1.450 km da Istanbul e circa 1.100 km da Ankara. Ci sono diverse tappe di interesse a seconda del tragitto che deciderete di intraprendere, tra cui le città di Trabzon ed Erzurum, il Monastero di
Instambul
Sumela, il Tortum Gölü (Lago di Tortum) ed altre ancora come il Monte Ararat, il Palazzo di Ishak Pasha procedendo verso sud nelle vicinanze della città di Dogubayazit. Inoltrandosi ulteriormente in questo territorio assolutamente spettacolare si arriva a Van, situata sull’omonimo lago salato da cui possiamo prendere un volo di ritorno per Istanbul od Ankara. Le sistemazioni alberghiere sono di facile reperimento e dotate di tutte le facilities a cui siamo abituati. In alcuni casi si possono definire “spartane” considerando luoghi poco frequentati dal turismo, ma sempre pulite, decorose e gestite da persone disponibili ed estremamente amichevoli. Suggerisco di “perdersi” nei mercati locali tra spezie, frutta, tessuti, tappeti, piccoli pezzi di artigianato e gustare delle piccole dolci delizie gastronomiche che si trovano per strada oppure la dolcissima baklava a base di pasta fillo, miele e noci di cui esistono alcune varianti a seconda della località.
Trabzon Ankara
Tortum
Erzurum
Kars Ani
Dogubayazit Van
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Ararat
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Aggiungo una nota per le lettrici femminili. Tenete a mente che in questo paese, per entrare nelle moschee e in luoghi sacri è necessario avere spalle e gambe coperte, spesso anche il capo, e piedi scalzi. Non è inusuale trovare all’ingresso di questi luoghi pezzi di abbigliamento che vengono affittati per poter entrare nel luogo che desiderate visitare. Consiglio però di arrivare attrezzate, considerando la mia personale esperienza in una di queste situazioni della quale ho una mia fotografia “divertente” o “quasi imbarazzante”!
restaurate ed adibite ad edifici amministrativi. La Fethiye Camii, una chiesa russa ortodossa del XIX secolo convertita in moschea, torreggia maestosa a sud del centro.
Per giungere ad Ani si passa attraverso la città di Kars luogo nel quale si notano testimonianze dell’influenza russa trapiantata nell’Anatolia nordorientale. Edifici color pastello ed un reticolo urbano organizzato in modo ordinato. Si possono vedere residenze russe belle époque e in stile baltico, molte delle quali sono state
Il sito archeologico di Ani, 45 km a est di Kars, collocato tra le gole del fiume Akhurian e la valle Tzaghkotzadzor, è meritevole di una visita accurata ed è uno dei patrimoni dell’Unesco meno valorizzati. Il primo impatto lascia chiunque meravigliato. Sotto l’altopiano, nella valle sottostante, si trovano della antiche abitazioni rupestri e grotte.
Dedicate una giornata alla visita di Kars in attesa di dirigervi verso Ani. Non ci sono mezzi pubblici per raggiungere il sito. Si può trovare con facilità un taxi chiedendo al proprio albergatore. A differenza di alcuni anni fa non è più necessario avere il permesso speciale rilasciato dalla polizia.
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Grandi edifici in pietra disposti su prati ondulati, punti di riferimento di una città fantasma con quasi 100.000 abitanti che un tempo era la maestosa capitale dell’Armenia e rivaleggiava con Costantinopoli in quanto a potere e gloria. Le suggestive rovine, l’altopiano spazzato dal vento a ridosso del confine turco-armeno e la totale mancanza di presenza umana creano uno scenario misterioso che non si dimentica. Nel silenzio surreale interrotto soltanto dal soffio del vento e dal gorgoglio del fiume lungo il confine, riflettete sul passato di questa terra: il prospero regno, il solenne cerimoniale della liturgia armena, viaggiatori, mercanti e nobili che seguono i propri affari lungo la Via della Seta.
edifici religiosi e fortificazioni erano tra i più avanzati, sia a livello tecnico che artistico, del mondo. La sua posizione strategica fu anche motivo di diversi tentativi di conquista da parte di molte popolazioni fino alla calata dei Mongoli nel 1236 che la colpì molto duramente. Nel suo periodo di massimo sviluppo, all’interno delle mura di Ani vivevano tra i 100.000 ed i 200.000 abitanti e la città, nota in tutta la regione per lo splendore e la ricchezza, fu rivale di Costantinopoli, Il Cairo e Baghdad. Successivamente fu abbandonata e dimenticata per secoli. Il terremoto del 1319 distrusse gran parte di Ani e lo spostamento delle rotte commerciali ne accelerarono il declino.
La capitale fantasma del regno di Uratru, chiamata anche la “Città delle 1001 chiese” oppure la “Città dei 40 cancelli”, era al crocevia di diverse strade commerciali tra Oriente e Occidente e i suoi palazzi,
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In tempi recenti, a seguito della decifrazione di una tavoletta rinvenuta alla fine del XIX secolo, è stato scoperto un reticolo di più di 800 tunnel al di sotto della città di Ani con abitazioni, templi, trappole.
La massiccia Arslan Kapisi, la Porta del leone, probabilmente deve il suo nome ad Alp Arslan, il sultano selgiuchide che conquistò Ani nel 1064, ma forse anche all’arslan (leone) raffigurato nel rilievo del muro interno.
Alcuni dei monumenti a cui dedicare particolare attenzione ad Ani sono la Arslan Kapisi, la Chiesa del Rendentore, la Chiesa di San Gregorio ribattezzata Moschea della Vittoria e sede del patriarcato ortodosso di Ani.
E’ chiamata anche porta del leone per via di un bassorilievo che raffigura un leone nell’atto di camminare.
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Iniziando la passeggiata nell’infinita piana incontrerete il Tempio del Fuoco, dedicato al culto di Zoroastro. Si pensa sia stato costruito tra il I secolo e la prima metà del IV secolo a.C. Gli unici resti consistono in quattro colonne e potrebbe essere stato convertito successivamente in cappella cristiana. Sotto un hamam dell’XI secolo, in una posizione difficile da notare vicino alle mura che separano Ani dalla gola dell’Arpa Çayi, si trova la Resimli Kilise ossia “La Chiesa con Dipinti”. La Chiesa di San Gregorio l’Illuminatore, intitolata all’apostolo degli Armeni, fu costruita nel 1215 dal nobile devoto Tigran Honentz e, benché l’interno sia stato danneggiato dalle intemperie e da atti di vandalismo, si presenta in condizioni migliori rispetto alla maggior parte degli edifici del sito. La caratterizza la lunga iscrizione armena scolpita sui
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muri esterni e i vivaci affreschi che raffigurano scene della Bibbia e della storia della chiesa armena. Ben conservate anche alcune sculture a rilievo con figure di animali. A poca distanza si presenta la Chiesa di San Gregorio di Abighamrets. A pianta rotonda costruita dallo stesso architetto che ha creato la Chiesa del Redentore, presenta delle nicchie sormontate da rilievi a conchiglia. Da qui si può ammirare il villaggio scavato nella roccia con le numerose grotte.
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Un’altra sorpresa in materia di maestosità ci aspetta quando si arriva in vista del Castello di Ani. Le sue estese rovine includono metà di una chiesa diroccata. Oltre la İç Kale, su una formazione rocciosa al di sopra dell’Arpa Çayi, si trova una piccola chiesa chiamata Kiz Kalesi (castello della vergine). Entrambe si possono ammirare solo da lontano perché si trovano in una zona vietata ai visitatori. Arrivati alla Menüçher Camii noterete che è un’interessante miscela di caratteristiche armene e selgiuchidi, ciò fu conseguenza della scelta dei Selgiuchidi di impiegare architetti, ingegneri e scalpellini armeni. La lavorazione della pietra alterna il colore rosso al nero ed è un elemento distintivo di questa moschea risalente al XI secolo e il cui minareto a pianta ottagonale è ancor ben conservato. Intarsi in pietra policroma decorano il soffitto. La struttura accanto alla moschea potrebbe essere
stata una medrese o un palazzo dei Selgiuchidi. Scenograficamente abbarbicato sull’orlo della gola dell’Arpa Çayi, il Convento delle Vergini è chiuso al pubblico. Anch’esso costruito da Tigran Honentz, presenta una risulta agevolmente visibile caratteristica cappella con la cupola dentellata ed è circondato da un muro difensivo. Dalla Menüçher Camii è chiaramente visibile ma, per osservarlo da più vicino, si può scendere lungo i gradini di pietra che portano verso la Via della Seta, giù nella gola. Più avanti si trovano le misere rovine di un ponte, anch’esso inaccessibile, proprio sotto la Menüçher Camii.
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Più avanti, ci si imbatte in un edificio grandioso, il più imponente monumento visibile ad Ani, la Cattedrale. Situata sull’altopiano e successivamente rinominata Fethiye Camii, ossia Moschea della Vittoria, la sua costruzione fu avviata nel 987 e portata a termine nel 1010. I tre portali erano utilizzati come ingressi separati, riservati al patriarca, al re e al popolo come vuole la tradizione ortodossa armena. [Foto DSC_607+608+616] Ci sono altre rovine, altri monumenti da scoprire oltre a quelli descritti. Si lascia scorrere lo sguardo sull’altopiano, sul paesaggio e le sue ondulazioni caratterizzate di tante sfumature colorate. La visita ad Ani è unica, indimenticabile, fuori dal tempo e dallo spazio. E’ come calarsi nel passato, nel passato di un altro mondo di cui si percepisce ancora la chiara presenza. Un’esperienza di cui fare tesoro e a cui dedicare il giusto tempo. Le immagini che vedete mostrano solamente un luogo della regione anatolica, ma sono state riprese e sono parte di un viaggio lungo quasi 4.000 km attraversando città, villaggi, zone di campagna e di montagna. Personalmente sono rimasta affascinata da tre luoghi in particolare: il Monastero di Sumela, la Cittadella di Ani e la fortezza di Ishak Pasha.Tuttavia è impossibile scordare l’entusiasmo provato ad ogni nuova tappa del viaggio e la curiosità di conoscere le meraviglie nascoste di questo paese ricco di scenari naturalistici e paesaggistici incantevoli ed unici, cultura, storia ed espressione artistica. Il viaggio si concretizza in un dialogo tra il luogo e chi lo osserva, diventa il veicolo per l’interazione con l’ambiente nel quale si è calati e la conoscenza dei luoghi. La fotografia è lo strumento per divulgare e diffondere il dialogo che ho vissuto con questa realtà, come l’ho osservata attraverso il mio “occhio fisico ed interiore” e il mezzo per trasmettere a voi la mia personale esperienza di questo luogo così particolare ed indimenticabile. Alla fine del viaggio, quando giungerà l’inevitabile momento di lasciare questo meraviglioso paese, ne rimarrà un piccolo frammento nel vostro cuore.
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CALIFORNIA OREGON WASHINGTON IDAHO MONTANA WYOMING UTAH ARIZONA NEVADA
AGOSTO 2019 16 GIORNI E 14 NOTTI ALL AMERICAN
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la partecipazione è soggetta ad iscrizione alla community “band of giroinfoto”.
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ROAD TRIP
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ALL AMERICAN REPORT PROJECT Ad agosto ne vedremo delle belle. Band of Giroinfoto esplorerà i territori dell’ovest americano nelle sue diversità climatiche, ambientali e culturali. Dalla famosa San Francisco alle fredde coste dell’Oregon, passando per i parchi dei Mountain States, per i canyon dello Utah e Arizona, fino ai deserti del Nevada e California. Un viaggio fotografico in piena libertà dove occhi e cuore proveranno emozioni irripetibili. ROAD TRIP 2019 è riservato unicamente ai membri della community “Band Of Giroinfoto” a cui si può aderire gratuitamente per svolgere attività fotografiche e redazionali tutto l’anno con persone appassionate e inclini allo spirito di condivisione e aggregazione. Se non sei ancora iscritto alla community puoi chiedere informazioni all’indirizzo: events@giroinfoto.com
ALL AMERICAN
REPORT
ROAD TRIP 2019 Non è un prodotto turistico, ma un’attività aggregativa coordinata dall’organizzazione redazionale di Giroinfoto magazine.
SAINT PIERRE Cinzia Marchi Photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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TRIS PIEMONTESE
NIZZA M.TO
CARAGLIO
GALLIATE
ASTI
CUNEO
NOVARA
Novembre è stato il mese dei tour gastronomici per Band of Giroinfoto, che in collaborazione con Cookin Piemonte, ha partecipato a una serie di manifestazioni celebrative della tradizione locale di tre aree geografiche piemontesi: Nizza Monferrato, Caraglio e Galliate. Grazie alle amministrazioni comunali, le associazioni culturali, i consorzi territoriali e alcune aziende locali, la redazione di Giroinfoto magazine è stata invitata alle manifestazioni con il compito di promuovere l’identità territoriale attraverso l’azione mediaticaeditoriale per informare e coinvolgere il pubblico in una soluzione moderna ed innovativa.
Le visite territoriali e la partecipazione alle manifestazioni, ha permesso di evidenziare i punti di forza e di unicità del patrimonio tradizionale che caratterizzano le aree, creando uno strumento mirato alla loro valorizzazione e fruizione. Dette operazioni di valorizzazione, con la conseguente promozione turistica, vengono svolte attraverso un’ottica orientata al concetto di immagine, quale strumento capace di consolidare e salvaguardare il senso di identità che permette al pubblico di riconoscere e apprezzare, i valori dei contenuti culturali del luogo promosso.
PIEMONTE
VALLE D’AOSTA
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ITALIA
HISTORY
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Galliate
Nizza Monferrato
Caraglio
Lorena Cannizzaro Davide Tagliarino Sergio Agrò Giancarlo Nitti Elisa Bosco Giroinfoto Magazine nr. 38
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18 novembre 2018
NIZZA MONFERRATO Il Cardo gobbo e la Bagna Caoda
Un connubio antico quanto la cucina povera di queste terre, ormai divenuto il simbolo della gastronomia piemontese e orgoglio del territorio.
ci si trova in un ambiente caldo ed accogliente per degustare i prodotti locali in compagnia di altre centinaia di persone attratte dall’evento culturale nicese.
Tutto inizia con un pranzo a base di Bagna Caoda, Cardo gobbo e altre verdure cotte e crude, sotto il Foro Boario di Piazza Garibaldi a Nizza Monferrato.
Nell’occasione, vengono consegnati i meriti gastronomici con la premiazione del “Gobbo d’oro” allo Chef Enrico Crippa e la targa di riconoscimento alla ditta Aliberti s.r.l. per la produzione di un amaro in cui uno degli ingredienti è proprio il cardo gobbo, reputata un’idea geniale per la valorizzazione del prodotto locale unico al mondo.
Grazie ai volontari della Pro Loco diretti dal presidente Bruno Verri e l’assessore alle manifestazioni Marco Lovisolo con la collaborazione delle organizzazioni territoriali,
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45 Ma la giornata di festa non si conclude qui. Dopo una camminata per il centro di Nizza Monferrato, tra bancarelle di prodotti alimentari locali e artigianato, nel pomeriggio si sono svolte le premiazioni di due contest fotografici organizzati da IG Asti (la community Instagram ufficiale della provincia d’Asti), amministrata da Debora Branda, legati a due importanti manifestazioni nel territorio astigiano. La frenetica Corsa delle botti di Nizza Monferrato e il famoso Palio d’Asti, eventi svolti nel trascorrere dell’estate. I vincitori sono stati premiati con i vini locali di Barbera d’Asti DOCG e Nizza DOCG. Proseguono le rappresentazioni degli eventi con un video realizzato da alcuni studenti dell’università di Torino per il progetto sulla corsa delle botti 2018 del master in promozione e organizzazione turistico culturale del territorio e del volume editoriale del Cardo Gobbo a cura del Comune di Nizza Monferrato. Per terminare, l’agenzia di formazione professionale delle colline astigiane di Agliano terme, ha offerto un rinfresco serale con protagonisti gli immancabili prodotti locali.
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A PROPOSITO DI
Cardo gobbo Il Cynara cardunculus, più noto come cardo gobbo è per denominazione d’area di produzione di Nizza Monferrato e coltivato anche in alcuni comuni limitrofi poggiati sui terreni sabbiosi del fiume Belbo. La denominazione “gobbo”, deriva dal tipo di coltivazione a cui è sottoposto, che per superare la rigidità dell’inverno, viene parzialmente interrato. L’ortaggio, in questo modo, nel tentativo di cercare la luce, si curva verso l’alto assumendo la caratteristica forma gobba. La parte interrata del gambo si rende quindi di colore bianco, rimanendo più tenero e delicato al palato. LE ORIGINI Chiamato anche carciofo selvatico, questa pianta ha origine mediterranea, probabilmente dell’Etiopia, anche se alcuni resti sono stati rinvenuti nei corredi funebri delle tombe egizie. Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis historia, lomenziona come un ortaggio pregiato. Anticamente i semi e germogli venivano utilizzati per produrre il caglio per i formaggi e ne ritroviamo alcune testimonianze solo intorno al XV secolo, dove due medici della corte sabauda li annoverava. Nel 1770, il cardo gobbo è menzionato nel rinomato libro di cucina “Il cuoco piemontese” nel loro
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abbinamento più classico: con la Bagna Caoda. LA LEGGENDA Esiste anche una leggenda di origini scozzesi, quali utilizzarono il cardo addirittura come simbolo nazionale associandolo ad un detto in latino: “Nemo me impune lacessit”, che tradotto significa “chi mi provocherà, non resterà impunito”. Infatti, la leggenda narra, di un’incursione vichinga nel cuore della notte, dove gli invasori, avvicinandosi all’accampamento scozzese per i campi, misero i piedi sui cardi ed urlando dal dolore diedero l’allarme ai dormienti scozzesi, che si organizzarono ed evitarono l’occupazione della Scozia. IN SALUTE ED IN CUCINA Il cardo è assai noto per i suoi effetti benefici sul fegato riattivando il metabolismo delle cellule epatiche ed è utile per affrontare i problemi della digestione . Nella cucina è ottimo crudo abbinato alla sua sposa, bagna caoda, ma viene consumato anche cotto, bollito e poi fatto saltare in padella con burro e latte per i contorni della carne.
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A PROPOSITO DI
Bagna Caoda Chiamata anche “arma di allontanamento di massa”, la bagna caoda è un piatto della tradizione piemontese. A parte gli scherzi, letteralmente tradotta dal piemontese baɲa ˈkɑʊ̯da, significa semplicemente “salsa calda” e più che un piatto tradizionale è un rito conviviale, dove i commensali condividono il cibo in un unico caratteristico recipiente in terracotta, il Fojòt (fornello), unica controindicazione è l’assunzione di notevole quantità di aglio con le conseguenze olfattive di chi ci starà accanto nei giorni successivi all’ingerimento. LE ORIGINI Quello che oggi è il Piemonte, anticamente era un territorio proteso fino alle saline provenzali e le foci del Rodano, dove era facile procurarsi uno degli ingredienti principali, cioè l’acciuga salata, tramite le rotte commerciali delle “vie del sale” sulle Alpi Marittime. Si dice inoltre, che in epoca sabauda, si utilizzava il commercio delle acciughe per evitare il pagamento dei dazi sul sale, ma ai tempi, in realtà, la “gabella” del sale era una tassa obbligatoria e non legata all’importazione.
Questo piatto, a base di aglio, acciughe e olio, fu a lungo bandita dalle classi nobili, le quali la consideravano un cibo grezzo, non consono ad una alimentazione raffinata, in particolare per la maleodorante presenza dell’aglio. Rimanendo nell’obra della povertà contadina per diversi secoli, una prima descrizione dettagliata della bagna càuda la si deve a Roberto Sacchetti, uno scrittore e giornalista del fine ‘800, dove descriveva in un suo testo del 1875 la ricetta nella versione che oggi si conosce. LA RICETTA Per questo gustosissimo intingolo occorrono, per una porzione, circa 100gr di acciughe dissalate una testa d’aglio, molto olio EVO e una noce di burro. Il procedimento di cottura è lungo e paziente. Si tratta di sciogliere l’aglio spelato, nell’olio e burro a fiamma bassa, fino a farlo diventare una crema omogenea, dove poi avverrà l’aggiunta delle acciughe che una volta sciolte daranno vita alla tipica salsa color marrone chiaro, dal profumo inconfondibile. Completerà la pietanza un vasto assortimento di verdure tipicamente piemontesi da intingere nel Fojòt.
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NIZZA M.TO Cardo gobbo e Bagna Caoda Giroinfoto Magazine nr. 38
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25 novembre 2018
CARAGLIO
Il filatoio e la tradizione della Val Grana
Per la quarta edizione della rassegna EXPA, organizzata dall’Ecomuseo terra del Castelmagno, si sono svolte le fasi conclusive di un intero anno di attività volte alla valorizzazione delle tradizioni, del folklore e dei prodotti tipici della Val Grana. Teatro della festa, come di consueto è il Filatoio di Caraglio, unica testimonianza di setificio antico rimasto in Europa. La visita inizia con la mattinata dedicata alla struttura del Filatoio Rosso o Filatoio Galleani, edificato in soli due anni e terminato nel 1678 per volere di Giovanni Gerolamo Galleani. Un periodo in cui la zona era intimamente
legata alla seta, con la produzione di filati serici, economicamente importanti a cavallo tra il ‘600 e ‘800, per le innovazioni tecniche sviluppate in quei tempi. Il setificio fù attivo fino agli anni ‘30 del XX secolo e successivamente convertito in caserma nel 1939, fino al 1943, anno in cui iniziò lo stato di abbandono per diversi decenni. Il Comune di Caraglio, nel 1999 lo acquisì restaurandolo con il contributo europeo, il quale Consiglio, già dal 1990 lo aveva
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51 dichiarato il più insigne monumento storico-culturale di archeologia industriale in Piemonte. È così che oggi, l’antico fabbricato, accoglie uno spazio espositivo che ospita mostre d’arte, con il permanente ‘Museo del Setificio Piemontese’. A ora di pranzo, l’atteso momento espositivo, ma soprattutto degustativo, dei prodotti locali della Val Grana. A partire dal saporitissimo e pregiato formaggio d’alpeggio Castelmagno DOP e altre pietanze prelibate con i tipici frutti della terra come l’aglio di Caraglio, la Patata Ciarda, lo zafferano, le farine di grano e il tartufo di Montemale. Continua la festa nel filatoio antico con folkloristiche musiche e balli occitani, con il caratteristico suono della Ghironda, facendo da colonna sonora allo spazio dedicato ad alcune opere d’arte ed esposizioni di artigianato locale. In collaborazione con Cookin Piemonte e IG Cuneo, diretti da Carlo Berenguez, sono stati premiati con prodotti locali i vincitori del contest fotografico EXPA2018 nella tematica della valorizzazione del territorio. Canti tradizionali, spettacoli e buon cibo accompagneranno gli invitati fino a sera inoltrata.
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A PROPOSITO DI
Aglio di Caraglio “A Caraj l’an piantà j aj j an nen bagnaj, j aj sun seccaj” Che in piemontese significa: A Caraglio hanno piantato l’aglio, ma non l’hanno bagnato e l’aglio è seccato. La filastrocca popolare testimonia l’antico legame di questo paese con la coltivazione dell’aglio. Un’attività interrotta intorno agli anni ‘50, che però continua a vivere nella tradizione. Infatti, la terza domenica di novembre e il 23 giugno, si ricorda questo tipico prodotto locale con i produttori che presentano il raccolto e donano una testa d’aglio ai bambini nati da poco come buon augurio. Un piccolo Consorzio locale mantiene viva la coltivazione dell’aglio, riprendendo e recuperando solo recentemente l’ecotipo originario, grazie a una famiglia di Caraglio, che ha preservato la semente autentica. LE PARTICOLARITÀ Oggi l’aglio di Caraglio è un presidio Slow Food per valorizzare il prodotto e per supportare il consorzio che lavora per mantenere il suo particolare ecotipo. L’aglio infatti si presenta con un bulbo di piccole dimensioni (dai 20 ai 60 mm) e gli spicchi affusolati con striature rosso vinaccia. L’aglio di Caraglio è delicato e profumato, gustoso ma non invasivo e particolarmente digeribile.
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LA PRODUZIONE Considerato l’oro bianco di Caraglio, la coltivazione è orientata al rispetto della terra e della stagionalità, poiché favorisce la biodiversità. Il disciplinare agronomico, prevede che la coltivazione avvenga senza diserbo chimico e che la lavorazione sia rispettosa delle tradizioni e limitata ai confini territoriali di Caraglio, concimando la terra unicamente con letame proveniente dagli allevamenti di Castelmagno. Anche se non tutte le aziende del territorio siano certificate “bio”, comunque tutte seguono la metodologia biologica e bio-integrata diretta dal Consorzio indirizzando la produzione verso l’agricoltura biologica. L’asciugatura, l’essiccatura e la conservazione avvengono tramite l’apposizione dei mazzi in pendeis (pannelli), in luogo ventilato, asciutto, luminoso ma non al sole diretto. La pulizia e il confezionamento dell’aglio avvengono manualmente.
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A PROPOSITO DI
Castelmagno DOP Un glorioso monumento alla storia casearia piemontese. Il Castelmagno DOP è un formaggio d’alpeggio di media stagionatura a pasta semi dura, facente parte della categoria degli erborinati o pasta blu, come per esempio il conosciutissimo gorgonzola, per le striature di colore verde date dalla presenza delle speciali muffe di tipo Penicillium. LE ORIGINI La storia è antichissima, ne troviamo già traccia in un manoscritto del 1277, di una sentenza arbitrale del Marchese di Saluzzo per un contenzioso di terra per i pascoli tra i comuni di Castelmagno e Celle di Macra. Ma alcune leggende su questo formaggio, lo nominano ancora in tempi più remoti, come quella di Carlo Magno che, una volta assaggiato senza scartare le muffe, se ne innamorò, non facendolo mai mancare alla sua tavola. Nel corso dei secoli, lo ritroviamo oggetto di scambi, dazi e gabelle legate a nomi storici come Vittorio Amedeo II di Savoia e i Papi di Avignone, fino ad arrivare all’800, periodo di maggiore diffusione, dove il Castelmagno si consumava nei più rinomati ristoranti d’Europa soprattutto a Londra e Parigi. Dopo un periodo di declino, rischiando seriamente di scomparire, rimase quasi sconosciuto fino agli inizi degli anni ’80 del ‘900, iniziando una nuova ascesa alla notorietà.
Il Castelmagno ottiene nel 1982 il riconoscimento nazionale DOC e successivamente, nel 1996, il riconoscimento europeo DOP. CARATTERISTICHE Il formaggio è ottenuto dal latte vaccino di più mungiture di vacche d’alpeggio come la Piemontese, la Bruna Alpina e la Pezzata Rossa, autoctone dell’arco Alpino locale. Il latte bovino è addizionato con latte ovino e caprino, e le particolari varietà di erbe dei pascoli conferisce l’unicità del sapore a questo formaggio. La stagionatura minima è di 60 giorni, in forme cilindriche dal diametro di 15-25 cm, con un peso fariabile dai 2 ai 7 kg. Il risultato è un formaggio dalla crosta giallo-bruno e una pasta bianco-gialla erborinata dalle muffe, dal sapore delicato, tendente al piccante con l’aumento della stagionatura. Il Castelmagno DOP, può essere prodotto, stagionato e confezionato esclusivamente nei territori amministrativi dei comuni di Castelmagno, Monterosso Grana e Pradleves.
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1 dicembre 2018
GALLIATE Riso e sacralità
L’eccellenza e la qualità racchiusa in un chicco di riso. Così esordisce, Luigi Capittini, mostrando un chicco di riso prodotto dalla sua riseria fondata dall’avo Giuseppe Capittini nel 1881. Oggi, giunti ormai alla quinta generazione, gli eredi Luigi, Italo, Nadia e Gabriele Capittini, si avvalgono di macchinari tecnologicamente avanzati, senza trascurare però la tradizione, che permette di rendere il loro prodotto di eccellenza e garantito in termini di freschezza e genuinità.
Siamo a Galliate, in provincia di Novara, sulle sponde del Canale Cavour, si trova la Riseria Capittini, dove inizia la visita con le amorevoli spiegazioni e i racconti del titolare. In un’ambiente che profuma ancora di storia con i molini e le attrezzature di un tempo, Luigi ci spiega come avviene la produzione del riso, dal risone mietuto a giusta maturazione, alla sbramatura, che consiste nella rimozione della lolla, il rivestimento del chicco e ottenendo così in un primo procedimento il riso integrale o riso sbramato. Questo riso semigreggio, viene poi raffinato
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per mezzo delle sbiancatrici con superfici abrasive rotanti, che rendono la forma regolare e arrotondata del chicco. Si ottiene così il riso raffinato, che viene ancora pulito e separato dai chicchi scuri, rotti e irregolari. Sono molte le qualità di riso che oggi Capittini produce, ma il vero cavallo di battaglia è il tipo Carnaroli, uno dei più pregiati risi italiani. A pochi passi dalla riseria, camminando lungo il Canale Cavour, si trova la chiesa di San Pietro in Vulpiate, più nota come Santuario del Varallino, una curiosa chiesetta di paese risalente al 1400, che al suo interno cela dieci cappelle laterali ricche di statue ed affreschi che ripercorrono il ciclo dei misteri del Rosario. La visita è accompagnata dalle spiegazioni di Vanessa Mineo, amministratice di IG Novara e Giulia Varetti, amministratice di IG Vercelli e Biella, che hanno organizzato l’intera giornata a Galliate.
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A PROPOSITO DI
Riso Carnaroli “Dutür, se fèm?” Angelo De vecchi, risicoltore del paullese, rispose al suo fattore: “Insistiamo, se troviamo la qualità che dico io, darò a quel riso il tuo nome” È il 1945, ed è da questo racconto che nasce la qualità del Carnaroli, un incrocio tra il Vialone e il Lencino, su consiglio del Sig. Carnaroli, che sconfortato dagli scarsi risultati della coltivazione, diede l’idea al risocoltore. La combinazione perfetta, che resiste ancora oggi dopo 70 anni, oggi è il tipo di riso più pregiato per le sue caratteristiche di assorbimento degli aromi e sapori, per la tenuta di cottura e per il risultato della matecatura. Il riso Carnaroli è ideale sia per i risotti che per le insalate fredde. LA TIPICITÀ Diverso dal più comune riso Arborio, per il maggiore contenuto di amido, la consistenza più soda e il chicco più lungo. Appartiene alla classe dei risi “superfini” della varietà japonica, con un chicco allugatodi colore perlato di circa 7mm.
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Il suo sapore è leggermente dolce, molto resistente ed elastico in cottura, infatti è noto per non scuocere e non si disgrega rimanendo compatto. Ha una bassa tendenza a perdere l’amido e una buona capacità di assorbire i liquidi durante la mantecatura. Il Carnaroli, ha anche un valore nutrizionale particolare, avendo 349 kcal per 100gr di prodotto, di cui 7,4gr di proteine, 78gr di carboidrati e 0,6gr di grassi. LOCALIZZAZIONE E CERTIFICAZIONE Attualmente esistono diverse varietà di riso Carnaroli tra le più pregiate vi è la varietà del Carnaroli DOP Zaccaria, prodotto in Baraggia, nel vercellese, estendendosi nelle zone circostanti nei terreni coltivati a risaia del novarese e della Lomellina, in Lombardia. Un fattore molto importante per gli intenditori di questa varietà è la ricerca del prodotto da semente certificato, per darne la garanzia della tipicità e tracciabilità. Infatti, grazie all’adozione di semente certificata, che si rinnova ogni anno nel ciclo di certificazione a cura dell’ENSE (Ente Nazionale Sementi Elette), sì è certi di poter assaporare il gusto autentico del Carnaroli.
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Santuario del Varallino CHIESA DI SAN PIETRO IN VULPIATE
Poco fuori dal centro abitato di Galliate, nei pressi del Canale Cavour, si erge questa piccola chiesa divenuta santuario di devozione a Maria grazie ad un’artista sconosciuto che nel XV secolo, affrescò un’immagine della vergine nell’atto di porgere al Bambino una pera. L’affresco fu ritenuto miracoloso secondo una leggenda di una donna posseduta dal demonio e liberata dallo spirito maligno mentre passava nei pressi della chiesetta. La donna grata del miracolo fece una donazione per l’ampliamento del santuario. Già nel 1500, la cappelletta iniziò ad essere ampliata, fino ad assumere le forme attuali, strutturata a pianta ellittica con un ampio presbiterio e dieci cappelle laterali dove sono rappresentati i quindici Misteri del Rosario. Sul lato destro si aprono le cappelle dei Misteri della Gioia, sul sinistro quelle dei Misteri del Dolore, nel presbitero sono raccolti i Misteri della Gloria. Al Santuario, lavorarono numerosi artisti dal secolo XVII al secolo XIX, tra questi i più importanti furono lo scultore romano Dionigi Bussola (1612-1687), allievo del Bernini e il valsesiano Lorenzo Peracino (1710-1789), che ha lasciato il suo capolavoro nella decorazione della cupola, raffigurante l’Incoronazione della Vergine e il Paradiso. L’esterno del santuario è stato realizzato tra il 1886 e il 1894 su disegno del sacerdote e architetto galliatese don Ercole Marietti. Il Santuario prese il nome di Varallino perché ricorda in scala ridotta il Sacro Monte di Varallo Sesia.
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GALLIATE Riso e sacralitĂ
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SINAIDESERT Liberta’, Pace e Bellezza A cura di sergio Agrò
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SINAI DESERT Sono ormai dieci anni che vado nel Mar Rosso a fare immersioni, ed ho sempre visto Sharm el Sheikh come la meta più vicina e comoda per una settimana di fotografia subacquea. Questa volta però è stato diverso. Quando ho visto le foto dei canyon presenti nel deserto del Sinai, ho scritto un messaggio al mio amico: “Wally, voglio andare anche qui..” “Sergio, c’è solo una persona che ti può portare nel vero deserto del Sinai ed è il ‘desertologo’ Luciano Cogliati, lo chiamano anche Sheikh Nour e capirai anche il perché!”.
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SINAI DESERT Ad oggi non ho mai incontrato di persona Luciano, questo mi dispiace, ma quello che ha organizzato per me è stato davvero incredibile ed emozionante.
sosta per uno scatto e proseguiamo il viaggio al punto di ritrovo con i Beduini che ci guideranno nel deserto.
“Sergio, oltre il canyon, vedrai molto di più!”. Luciano ha subito apprezzato la mia passione per la fotografia e la voglia di ricercare luoghi poco turistici dove scattare fotografie uniche. A condividere questo viaggio di un solo giorno, c’era anche la bellissima Natalia con cui abbiamo cercato qualche scatto in contrasto con il deserto; oggi purtroppo non vi parlo di lei ma del deserto, vi parlo della casa di Sheikh Nour.
Al piccolo villaggio, faccio conoscenza con Atia una persona gentile che ci invita subito nella sua casa a bere un the.
La partenza da Sharm el Sheikh è all’alba in direzione nord, verso Dahab Nuweiba, ancora un po’ assonnato cerco di immaginare il deserto, ma nella mia mente ho sempre le classiche dune di sabbia e la curiosità sul deserto roccioso del Sinai cresce chilometro dopo chilometro. Al bivio di Dahab, dove ho sempre svoltato a destra per andare a fare immersioni al famoso “Blue Hole”, questa volta si va dall’altra parte, verso il deserto del Sinai. Il benvenuto ce lo dà una montagna imponente davanti a noi è massiccia e i suoi strati colorati possono raccontare milioni di anni di storia, piccola
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Mi rendo conto che è il vero “the nel deserto” nella vera casa dei beduini, sedendoci per terra davanti ad una piccola brace, sorseggiamo il the. Ripartiamo con il fuoristrada e salutando i bambini del villaggio, ci spostiamo verso il deserto Wadi Gazala e raggiungiamo così la nostra prima meta: il canyon Salama. Il Canyon si percorre facilmente a piedi ed è una piacevole passeggiata lungo le pareti rocciose colorate e disegnate dal vento e dall’acqua. Ogni angolo è una scoperta, non si può resistere a non catturate con fotografie i contrasti di forme e colori del canyon. Alcune pareti sembrano davvero essere dipinte, si passa dal rosso, al bordeaux, al giallo e all’ocra, ogni colore è una piccola pennellata di storia. Alla fine del canyon ritroviamo la nostra jeep e riprendiamo il nostro viaggio.
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SINAI DESERT Ci fermiamo a Wadi Disco, al tempo della guerra era un accampamento di soldati israeliani, oggi è un piccolo villaggio di quattro famiglie beduine della tribù Mzeina. Qui tutti conoscono Sheikh Nour ed i suoi amici sono loro ospiti, entriamo nell’accampamento del più anziano ed insieme beviamo il the. Farag coltiva olive e lavora nell’oasi ed il suo sguardo e la sua espressione ci trasmettono il senso di pace e serenità che si vive nel deserto. Chiedo a lui il permesso di poter scattare una foto quando vengo distratto dai fratellini che giocano nel villaggio, corrono, ridono e sono allegri. Ma è solo quando i bambini sono zitti che si sente il rumore del silenzio del deserto. E’ quasi assordante, in quel momento mi giro e faccio
uno scatto al paesaggio minimale di Wadi Disco, porterò sempre con me l’immagine degli alberi, del deserto e del cielo blu. Una vera emozione. Arriva quasi l’ora del pranzo ma prima di giungere all’oasi Ain Khudra ci fermiamo ad ammirare delle incisioni rupestri sulle rocce. La penisola del Sinai è un passaggio naturale tra il continente asiatico e quello africano, nella sua lunghissima storia è stato oggetto di numerose carovane e migrazioni umane è il primo pensiero che ho avuto guardando le incisioni, ho immaginato un beduino seduto sulle rocce che disegnava ciò che vedeva: uomini e cammelli che si muovono nella stessa direzione.
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SINAI DESERT Per nulla stanchi arriviamo all’oasi Ain Khudra, è davvero incredibile, il miracolo del fenomeno dell’acqua nel deserto, all’ombra delle palme ci sediamo e osserviamo come i beduini preparano il pranzo. Su di una brace a terra e avvolto nell’alluminio, il pollo viene fatto cuocere con le verdure grazie ai liquidi e ai vapori. Una bontà. Dopo la pausa, riprendiamo con la seconda parte del nostro viaggio con tante emozioni ed incredibili luoghi da vedere. I paesaggi scorrono, mentre sulla nostra jeep, gustiamo l’avventura di andare in luoghi dove non esistono strade e dove pochissime persone sono riuscite ad arrivare.
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Si giunge così ad un masso conosciuto come il “Fungo”, staccato dalla montagna, il vento ha disegnato perfettamente il gambo ed il cappello di questa roccia, il tempo di una fotografia e riprendiamo il tour verso un luogo davvero magico. Purtroppo il sole in inverno cala presto e quindi dobbiamo accelerare il passo per arrivare in tempo ad ammirare il tramonto a Nawamis. Finalmente una strada asfaltata, ma non facciamo in tempo a gioirne che subito il nostro beduino pilota svolta nel nulla e sempre nel nulla, sale una collina e poi ancora scende, impossibile conoscere quei luoghi se non si è un beduino. Increduli e sorpresi arriviamo a Nawamis.
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SINAI DESERT Saliamo la collina a piedi e notiamo queste costruzioni circolari, sono più o meno trenta.
La conclusione di una giornata così fantastica non poteva che non essere con il tramonto a Nawamis.
Il diametro è di circa 3/5 metri, sono alte quasi un metro e mezzo e fatte con pietre finemente lavorate ed incastrate le une con le altre, con una precisione maniacale. Noto che tutte le costruzioni hanno una sola porta e questa è in direzione del tramonto. Siamo in un luogo sacro, davanti a noi ci sono trenta tombe dell’età del rame, hanno circa cinquemila anni.
Salutiamo la casa di Sheikh Nour e mille pensieri mi fanno compagnia nel viaggio del ritorno.
L’emozione riempie i nostri occhi di stupore e ammiriamo increduli questa magnificenza dell’uomo antico. Non mi sarei mai aspettato di trovare un luogo perfettamente tenuto e pieno di storia nel deserto del Sinai.
Oggi in tanti possono andare nel deserto, non è difficile, ma quanti realmente lo vivono, quanti lo ascoltano ma soprattutto quanti lo porteranno per sempre dentro? Luciano è riuscito in tutto questo, Grazie Shiekh Nour.
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Torino
I MONUMENTI TRA LE STRADE DI TORINO “(...) Lo strascico di spasimi, di dolori lasciato dalla guerra si andava a poco a poco attenuando e nel Paese, come su fertile campo su cui la bufera abbia imperversato senza tuttavia poterne asportare tutto il limo fecondo, si iniziava lentamente un risveglio di spiriti, di coscienze, che portava il pensiero a ristudiare i gravi problemi del recente passato ed il cuore ad onorare gli eroi che si erano immolati per la salvezza della Patria. Si era tardato anche troppo a ricordarsi di tanta balda giovinezza votatasi alla morte per il bene di tutti! Era necessario che dal sangue versato sorgesse la voce a monito dei presenti e dei futuri: voce di riconoscenza e di esaltazione. E l’Italia fu tutta unita a commemorare, a glorificare il suo Esercito.” I. Occella, Presidente dell’Istituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati, 1933.
TORINO
Angelo Bianchi Barbara Lamboley Barbara Tonin Cinzia Carchedi Fabrizio Rizzo Fabrizio Rossi Floriana Speranza
Giancarlo Nitti Giulia Migliore Mariangela Boni Nadia Laboroi Sergio Agrò Stefano Tarizzo
CAPOSERVIZIO: Lorena Cannizzaro
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79 I MONUMENTI DELLA GRANDE GUERRA TRA LE STRADE DI TORINO Si chiude con questo anno il centenario della Grande Guerra, per commemorare il quale, si sono svolte diverse iniziative in tutte le città italiane. Oltre un milione di vittime per una pagina storica tra le più tragiche del Novecento, un conflitto nel quale l’Italia si presentò per la prima volta come Stato unito. La città di Torino naturalmente non è stata da meno ed ha attuato tutta una serie di iniziative per valorizzare i luoghi della memoria, il patrimonio storico, artistico e documentario, la rete museale e il sistema espositivo. La città stessa si è presentata come un museo a cielo aperto dove le sue sale, ovvero le piazze e i giardini, sfoggiano i diversi monumenti commemorativi esposti come preziose opere. Ora affronteremo brevemente la storia della nascita di tali monumenti per poi approfondire quelli caratterizzanti la città sabauda. Il fenomeno dell’erezione dei monumenti ai caduti della Grande Guerra iniziò già prima della sua stessa conclusione, ovvero direttamente sul campo di battaglia, dove vennero talora eretti dei ricordi piuttosto improvvisati, ricavati alla bell’e meglio con i materiali e i poveri strumenti che erano concretamente a disposizione in trincea.
si diffonderanno di lì a pochi anni, anche a una certa distanza dal fronte, come accade nel 1917 alla Volta di Brescia. La firma dell’armistizio conferì ovviamente al fenomeno un orizzonte davvero molto ampio, e anzi si potrebbe persino dire che le prime accese polemiche in merito alla questione dei monumenti ai caduti risalgono a nemmeno un mese dopo il termine ufficiale del conflitto, tanto è vero che già nel dicembre 1918, sulle pagine di «Emporium», il polemista Ettore Janni stigmatizzava ironicamente l’invasione di tali monumenti, giungendo addirittura a sostenere che «la condizione della Germania è invidiabile», poiché la sconfitta la mise al riparo dalla proliferazione di brutti monumenti. Non tutti però condividevano tale opinione, ad esempio, sul «Corriere della Sera» del 3 aprile 1919, Ugo Ojetti – proponendo un ragionamento di fatto più politico che estetico – si espresse a favore dei monumenti, in quanto sancivano «la giustizia di questa guerra, la tolleranza di questo popolo e dei suoi confini»: a suo avviso, infatti, dopo aver chiesto agli italiani di combattere una guerra che aveva causato milioni di morti, non celebrare adeguatamente i caduti avrebbe anche significato rischiare di offrire argomenti ai disfattisti che la guerra l’avevano sempre osteggiata, e che a questo punto – dopo le privazioni degli anni del conflitto – potevano avere buon gioco nel cavalcare lo scontento della popolazione.
In alcuni rari casi, inoltre, con la stessa precoce cronologia è possibile incontrare monumenti di più ampio respiro, sebbene ancora piuttosto diversi da quelli che
LA NASCITA DI UN MONUMENTO AI CADUTI I monumenti ai caduti si moltiplicarono da quel momento a ritmo serrato, occupando le piazze, le mura e i cimiteri di quasi ogni paese d’Italia. Si può quindi considerare tale fenomeno come il frutto di una spinta popolare proveniente dal basso. Di norma, infatti, i promotori dell’erezione del monumento non erano neppure le amministrazioni comunali, ma comitati di privati cittadini, quasi sempre chiamati «Comitato pro erigendo Monumento ai Caduti in Guerra». Tali comitati si componevano, in genere, soprattutto dai membri delle famiglie più agiate di una località, appartenenti alla borghesia imprenditoriale o alla grande proprietà fondiaria: si trattava dunque, per lo più, di persone che potevano contribuire con relativa facilità alle spese per l’erezione del monumento, possedendo la preparazione culturale e l’educazione patriotticorisorgimentale necessari per comprendere appieno il significato del monumento e per condividere le finalità che
rappresentava. Tuttavia non mancarono casi di contributori decisamente meno abbienti: infatti, esaminando i documenti contabili dei comitati, ci si imbatte spesso anche in commoventi donazioni di entità minima (una lira, due lire, persino mezza lira) erogate da uomini e soprattutto donne, di frequente madri di soldati scomparsi, dalle condizioni economiche davvero modeste, che si privavano di ciò che possedevano per ricordare un figlio, un marito, un fratello o un amico. Una volta reperiti i finanziamenti, il secondo fondamentale compito di questi comitati consisteva nell’individuare gli artisti a cui affidare il progetto e la realizzazione del monumento stesso. In tal senso, le strade possibili erano sostanzialmente due: l’incarico diretto o tramite regolare concorso, con tutte le complicazioni burocratiche del caso che inevitabilmente finivano per rallentare l’iter esecutivo. Giroinfoto Magazine nr. 38
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LE TIPOLOGIE DEI MONUMENTI AI CADUTI La forma commemorativa più semplice e diffusa risulta quella della lapide, che senz’altro si rivelò essere la soluzione migliore laddove non vi fossero fondi a disposizione per i lavori necessari per erigere un monumento vero e proprio (oltre al lavoro dello scultore e dell’architetto e all’acquisto e al trasporto dei materiali necessari, bisognava infatti prevedere anche ai lavori di sterro e ad interventi ingegneristici di una certa rilevanza); inoltre, per ragioni di economia e di poco ingombro, la lapide risulta di norma la soluzione più utilizzata per le commemorazioni all’interno di edifici pubblici come scuole, università, tribunali e ospedali. Una seconda tipologia molto diffusa è anche quella del monumento sostanzialmente architettonico a cui segue per diffusione quella dei parchi della Rimembranza, veri e propri monumenti vegetali nei quali ogni albero piantato ex-novo dopo la guerra è nominalmente legato ad uno specifico caduto, ed acquista di conseguenza un preciso significato simbolico legato al concetto di rinascita. La più diffusa tipologia monumentale risulta però essere senza alcun dubbio quella scultorea, che conobbe peraltro un’enorme quantità di varianti; e si potrebbe aggiungere, per sottolineare la rilevanza per certi aspetti poco conosciuta di tali monumenti, che in molti piccoli centri di provincia essi costituirono le sole visibili testimonianze civiche della storia della comunità locale, il che davvero rende evidente come essi possano forse essere considerati come dei beni demoetnoantropologici di notevolissimo rilievo. In questi la figura largamente più rappresentata è per ovvie ragioni quella del fante. La guerra era stata di fatto combattuta in trincea dai fanti, i quali erano quindi anche i protagonisti assoluti – quantitativamente ed emotivamente – delle sculture dei monumenti ai caduti. Per la verità, nell’inevitabile riferimento di alcuni artisti alla scultura cimiteriale e monumentale del passato, capita anche di incontrare degli improbabili cavalieri classicizzati e classicizzanti, tuttavia si tratta di casi piuttosto rari. Il soldato viene ritratto in alcune situazioni e in alcuni atteggiamenti standardizzati: la sentinella che veglia sui confini della Patria, l’assalitore (con il fucile o all’arma bianca, con la bomba a mano), il ferito ma indomito o infine il morente. È chiaro tuttavia che la scelta della tipologia di rappresentazione non era del tutto indipendente dalla politica, in quanto le immagini della sentinella e dell’assalitore comunicavano in primo luogo vittoria e convinta partecipazione alla guerra, mentre il ferito e il morente trasmettevano inevitabilmente un’idea di sconfitta. Non a caso, dunque, quando a metà degli anni Venti il fascismo instaurò il suo regime, i soldati feriti e morenti – pur non scomparendo mai del tutto, anche perché talora tra il progetto e la realizzazione del monumento Giroinfoto Magazine nr. 38
passavano molti anni – tendettero se non altro a diminuire. Dunque la figura del soldato, in tutte le sue varianti, è la figura largamente prevalente quando nel monumento si intende raffigurare direttamente il soldato che ha partecipato al conflitto, che la guerra l’ha sofferta sulla propria pelle e che soprattutto ha vinto la battaglia. Moltissimi scultori e committenti di monumenti, però, optarono per raffigurare solo simbolicamente quegli stessi concetti a cui il soldato dava corpo e sostanza con la propria fisicità e le proprie azioni: in questo specifico contesto, la figura decisamente più rappresentata risulta quella della Vittoria, anch’essa presente in moltissime varianti e non solo nella versione più classica con ali e inserti di alloro o di palma. Molto diffusa è anche la rappresentazione della Patria, di norma esemplificata nella figura di una donna disarmata e in genere corredata dalla bandiera. L’epoca d’oro dei monumenti ai caduti finì però nel 1927, quando iniziarono ad essere promossi i “monumenti utili” che assunsero l’aspetto di una scuola o ancor più tipicamente di un asilo, o talora, più raramente, di un ospedale. Esempi simili si trovano in realtà sin dal 1918, specialmente nei piccoli paesi dalle modeste possibilità economiche, nei quali la proposta di investire il denaro della comunità nella creazione di edifici utili si era fatta strada sin dall’immediato dopoguerra. Negli anni Trenta, però, il regime si fece promotore dell’erezione dei grandi sacrari dei Caduti, il cui orizzonte è tuttavia considerevolmente diverso rispetto alle opere precedenti: essi, infatti, non erano dei semplici monumenti, ma dei giganteschi complessi monumentali. E ogni sacrario pur avendo una propria specifica identità, presentava degli elementi in comune con gli altri. Il primo elemento è la presenza di un percorso, che porta il visitatore a camminare all’interno del monumento stesso e ad assumere così un ruolo dinamico in mezzo ai caduti. Il secondo elemento è la riduzione delle componenti scultoree ai simboli del fascismo (il gladio, la fiaccola sacra e il fascio littorio), che letteralmente finiscono per sostituirsi ai simboli dello Stato. Il terzo elemento è la drastica semplificazione della forma, che conduce all’eliminazione pressoché totale dell’ornamentazione e all’adozione di forme geometriche elementari al fine ultimo di privilegiare un senso di compattezza, robustezza, solidità. Il quarto elemento è il legame con il territorio, perché i sacrari furono tutti costruiti a brevissima distanza dai campi di battaglia e in luoghi di grande suggestione storica e paesaggistica. Infine, come quinto elemento fondamentale, di fatto tutti i sacrari godono di una sorta di splendido isolamento nel contesto, poiché grazie alla collocazione in posizioni molto esposte (speroni di roccia, colli, ecc.) essi sono volutamente visibili a chilometri di distanza, per cui divengono di fatto dei catalizzatori dello sguardo e dei veri e propri riferimenti artificiali nel paesaggio.
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GIARDINI LA MARMORA
Il giardino La Marmora, sito nell’area tra via Cernaia, via San Dalmazzo, via Bertola e via Stampatori, a Torino, è anche conosciuto con il nome di “Giardino dei Bersaglieri”. Questo è dovuto sia alla sua intitolazione ad Alessandro La Marmora (1799-1855), uno dei generali più importanti del Risorgimento italiano, sia per la copresenza di due monumenti posti in ricordano dell’Arma. Ad Alessandro La Marmora, proveniente dalla nobile famiglia piemontese dei Ferrero della Marmora, si deve proprio la formazione del Corpo dei Bersaglieri, una specialità dell’Arma
MONUMENTO A LA MARMORA Stefano Tarizzo photography
di fanteria dell’Esercito italiano, istituito con regio brevetto del 18 giugno 1836, dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia. Ed è proprio il generale La Marmora il bersagliere rappresentato in divisa con la spada sguainata che svetta nel monumento posto al centro del giardino. Tale opera fu realizzata nel 1867 da Giuseppe Cassano (18251905) e Giuseppe Dini (1820-1890) in ricordo del generale che morì a causa del colera il 7 giugno 1855 in Crimea, all’età di 56 anni.
MONUMENTO A LA MARMORA Barbara Tonin photography Giroinfoto Magazine nr. 38
82 I MONUMENTI DELLA GRANDE GUERRA TRA LE STRADE DI TORINO Un’ulteriore monumento rappresentante l’Arma dei Bersaglieri lo si trova più in disparte rispetto a quello relativo al famoso fondatore, all’angolo tra via Bertola e via Stampatori. Si tratta del Monumento al centenario dei Bersaglieri, eseguito da Giorgio Ceragioli (1861-1947) e collocato nel giardino nel 1936. Il monumento si compone di una massiccia struttura lapidea di forma quadrangolare e da un rilievo bronzeo rappresentante un manipolo di bersaglieri che muove compatto all’assalto, animato e guidato dall’allegoria alata della Patria vittoriosa. Le due parti, il gruppo bronzeo e la struttura lapidea, sembrano poste in totale disarmonia tra loro, per via della resa delle forme e dei diversi materiali con cui sono state realizzate; tuttavia proprio grazie a questi elementi, la scultura assume un messaggio significante, riflettendo sui temi della morte e della memoria. L’idea di commemorare i caduti del corpo militare risale alla volontà dei commilitoni di ricordare le imprese dell’Arma e dei loro compagni scomparsi. Fu il Presidente generale della sezione del corpo torinese, Luigi Bossi, insieme con tutte le sezioni dell’Associazione Nazionale Bersaglieri, che decise di celebrare l’anniversario del centenario della fondazione dell’Arma con un segno tangibile e permanente da tramandare alle generazioni future.
Durante l’assemblea convocata dal Podestà di Torino per decidere che tipo di monumento erigere in onore della commemorazione, Luigi Bossi fece presente che in realtà vi era già un altorilievo dedicato ai bersaglieri del IV reggimento della caserma Monte Grappa, sede del reggimento omonimo. Il monumento era stato eretto nel 1923 grazie ad una sottoscrizione popolare ed era stato realizzato dallo scultore Giorgio Ceragioli. Nel 1936, però, con il passaggio del IV bersaglieri dalla regione Crocetta a via Asti, secondo il Presidente della sezione, l’opera per ragioni ideologiche e di prassi conservative non aveva più ragione di stare in strutture militari o affini. Il Podestà propose allora una nuova collocazione del monumento nel centro di Torino, in onore sia alla stessa città che, sotto Carlo Alberto, diede vita al corpo militare, sia alla commemorazione della nascita dell’Arma. Così su volontà del Capo del Governo e in base agli ordini del Ministro dell’Educazione Nazionale, la Città di Torino provvide alla rimozione del monumento dalla caserma e incaricò uno scultore sconosciuto di costruire, in tempi ridotti, il basamento lapideo sul quale, ancora oggi, si inserisce l’altorilievo.
CENTENARIO DEI BERSAGLIERI Lorena Cannizzaro photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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CENTENARIO DEI BERSAGLIERI Angelo Bianchi photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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CAVALIERE D’ITALIA Lorena Cannizzaro photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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MONUMENTO AL CAVALIERE D’ITALIA Il monumento equestre al Cavaliere d’Italia, posto in Piazza Castello sul lato destro di Palazzo Madama, rivolto verso via Lagrange, opera di Pietro Canonica (1869-1959) del 1923, fu fortemente voluto per ricordare tutti gli eroi dell’esercito di Cavalleria, il valoroso corpo militare utilizzato sia durante le Guerre di Indipendenza che nella Prima Guerra Mondiale.
Il monumento ritrae un soldato a cavallo su un basamento di granito con una serie di altorilievi con fregi militari, che poggia su una base a gradoni. Il cavaliere è rappresentato in una posa rilassata, mentre scruta l’orizzonte volgendo lo sguardo alla sua destra, con il fucile in spalla, tiene con una mano le redini e con l’altra uno stendardo. Con il termine «Cavalleria» si è soliti indicare le unità militari a cavallo. Essa ha origini molto antiche e venne da sempre impiegata per l’esplorazione dei territori, per azioni in battaglia in cui si richiedeva molta mobilità e velocità nell’attacco e che in diversi casi risultò strategicamente determinante durante alcune battaglie. Il declino delle unità militari a cavallo la si ebbe intono alla Prima Guerra Mondiale, a causa del perfezionamento delle
armi da fuoco e dell’avvento dei treni e degli autoveicoli. Riformata all’interno dell’Esercito Sardo dal 1850, la Cavalleria venne impiegata con l’esercito francese prima in Crimea ed in seguito contro gli Austriaci, ai confini della Lombardia all’inizio della II Guerra di Indipendenza. I Reggimenti combatterono, guadagnando numerose medaglie al Valor Militare, sia a Montebello che successivamente a Palestro e Borgo Vercelli. Dopo il 1861, il Regio Esercito Sardo divenne Esercito Italiano e negli anni seguenti, tutto l’esercito venne riformato e uniformato. Durante il primo conflitto mondiale la Cavalleria dovette abbandonare l’impiego del cavallo in modo da adeguarsi alla guerra di posizione, in trincea, dove reticolati e mitragliatrici rendevano impossibile l’uso dell’animale. Tuttavia verso la fine del conflitto, la Cavalleria venne nuovamente rimessa in sella: nel 1917 fu infatti impiegata a protezione delle forze che ripiegavano sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Verso la fine della Prima Guerra Mondiale, la II Brigata di Cavalleria coprì la ritirata della II e della III Armata, comandata dal generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed il 16 giugno 1918 fermò il nemico sul Piave.
CAVALIERE D’ITALIA Fabrizio Rossi photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Questa data fu così importante per gli esiti del conflitto mondiale, che ancora oggi viene celebrata come festa della Cavalleria. Si ricorda infine quella che viene ricordata come l’ultima carica di cavalleria condotta da unità del Regio Esercito italiano, si tratta della famosa carica di Isbuscenskij, un episodio bellico avvenuto durante la campagna italiana di Russia sul fronte orientale della Seconda Guerra Mondiale, verificatosi la mattina del 24 agosto 1942, che vide protagonista il reggimento italiano Savoia Cavalleria contro reparti di truppe regolari (sebbene in realtà l’ultima carica in assoluto compiuta da reparti di cavalleria italiani ebbe luogo la sera del 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, da parte del Reggimento “Cavalleggeri di Alessandria” contro un gruppo di partigiani iugoslavi). L’azione, coraggiosa quanto audace, contribuì all’allentamento della pressione dell’offensiva russa sul fronte del Don e consentì il riordino delle posizioni italiane. Per ricordare e onorare il valore dell’Arma durante la Prima Guerra Mondiale, nel 1922 a Roma si istituì il Comitato generale per le onoranze ai Cavalieri d’Italia con l’intento di elevare un monumento equestre. Pochi giorni dopo il Comitato, presieduto dal Re e dal Senatore Filippo Colonna, propose alla Città di Torino di collocare l’opera in piazza Castello, dove era già ricordato il soldato dell’Esercito Sardo; questa proposta venne accolta con orgoglio ed onore dalla Giunta e dal Consiglio Comunale.
CAVALIERE D’ITALIA Angelo Bianchi photography
La realizzazione del monumento venne quindi affidata a Pietro Canonica che si offrì di lavorare gratuitamente, mentre il bronzo (materiale utilizzato per la costruzione dell’opera) fu offerto dal Ministero della Guerra. Il monumento venne quindi inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con un carosello storico, parate di militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi. Nel 2008 il monumento ai Cavalieri d’Italia è stato restaurato ed il lavoro di pulitura del bronzo ha riportato finalmente alla luce l’originaria colorazione tendente al verde, una patina data come finitura dallo stesso scultore Canonica.
CAVALIERE D’ITALIA Barbara Tonin photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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CAVALIERE D’ITALIA Stefano Tarizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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DUCA D’AOSTA Lorena Cannizzaro photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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MONUMENTO AL DUCA D’AOSTA Il monumento all’Invitto Generale Duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta (1869-1931) è posto dietro a Palazzo Madama in direzione di Via Po.
Duca volge ad est dove sorge il sole e dove si trova la Chiesa della Gran Madre che celebra il ritorno a Torino di Vittorio Emanuele I.
Il Generale della Terza armata italiana, si distinse soprattutto per la vittoria riportata nel corso della Prima Guerra Mondiale contro gli austro-ungarici (1918), fu infatti colui che durante la Grande Guerra conquistò Gorizia e riscattò l’onta della sconfitta di Caporetto, per poi essere nominato Maresciallo d’Italia nel 1926. Alla sua morte, avvenuta a Torino nel 1931, Benito Mussolini volle consacrarne la figura con un monumento spettacolare.
In realtà il monumento nato in piena età fascista intendeva glorificare la figura dell’Invitto Condottiero Emanuele Filiberto, simpatizzante della politica contemporanea e proposto dallo stesso Mussolini a sostituire, se fosse stato necessario, un re poco gradito dal regime quale Vittorio Emanuele III.
Le richieste del committente erano chiare: lodare la figura del Duca Invitto e rievocare con chiarezza ed efficacia le caratteristiche della guerra del ’15-’18. Si fecero avanti un centinaio di artisti, sui quali si affermò lo «scultore soldato» Eugenio Baroni, il quale vinse la gara riuscendo ad accontentare le richieste del bando ma che, venuto a mancare, non vide mai il termine dei lavori che furono ultimati da Publio Morbiducci. In origine il monumento celebrativo doveva sorgere in piazza Vittorio Veneto ma all’ultimo si decise di situarlo sul lato ad est di Palazzo Madama senza cambiarne l’asse: lo sguardo del
L’opera si compone di un grande basamento rialzato, in pietra liscia, con al centro la bronzea statua di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, rappresentato stante e col classico elmetto e cappotto militare. Una curiosità che in pochi sanno è che questa statua venne realizzata fondendo il bronzo di ben quattro dei cannoni originali sottratti all’esercito nemico. Il Duca è affiancato su entrambi i lati da due gruppi di quattro statue raffiguranti i suoi commilitoni. Tali soldati che il Baroni riuscì ad evocare grazie alle vesti, agli atteggiamenti, alle armi e alla loro imponenza plastica, racchiudono un significato preciso, nascosto ed accessibile solo agli appassionati, ai più esperti o a chi vive di quelle curiosità che nasconde mettendole in mostra la città di Torino.
DUCA D’AOSTA Angelo Bianchi photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Scopriamole insieme. Disposte sul retro verso Palazzo Madama le statue raffigurano le sentinelle che compiono il proprio dovere immobili e impassibili. Queste due figure hanno il compito di guardare le spalle del Duca e della Patria, in modo da garantirne la protezione in ogni momento e ad ogni costo. Invece, le statue poste all’esterno del monumento rappresentate in posizione a riposo e armate di fucile, rappresentano i soldati sempre pronti a compiere il proprio dovere di difendere la Patria e il proprio condottiero. Le statue sul fronte sono riprodotte in attesa di svolgere il proprio dovere, guardano il duca in attesa degli ordini, riponendo il lui la massima fiducia e appaiono fiere del compito che verrà loro presto assegnato.
Infine i due soldati posti all’interno sono raffigurati nel momento subito dopo l’aver assolto il proprio dovere, ripongono le armi dopo il combattimento: un soldato ringuaina il pugnale, mentre l’altro si toglie la maschera a gas, oggetto che caratterizzò i cruenti e disumani conflitti della Grande Guerra. Se si osservano attentamente gli sguardi dei soldati si può percepire chiaramente, il rigore delle sentinelle, lo sguardo rilassato e coraggioso dei soldati nei momenti prima dello scontro, la sofferenza e il sollievo di chi ha combattuto e la dedizione fiera di chi aspetta gli ordini del Duca. Il Baroni senza ombra di dubbio è riuscito perfettamente a rappresentare la lealtà dei soldati nei confronti della Patria e del loro ‘invitto condottiero’.
DUCA D’AOSTA Barbara Tonin photography
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DUCA D’AOSTA Lorena Cannizzaro photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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MONUMENTO AL CARABINIERE REALE Agli inizi degli anni Venti, a Torino non vi era alcun monumento atto a commemorare la memoria dell’Arma dei Carabinieri, specialmente di quelli caduti nell’appena terminata Grande Guerra; così Maria Letizia Bonaparte, moglie del principe Amedeo I Duca d’Aosta, chiese alla Presidenza dell’Istituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati di rimediare.
La signora I. Occella, la Presidente dell’Istituto riporta le sue parole: «Belle lapidi andavano man mano ornando caserme e scuole: Bersaglieri, Cavalleggeri Artiglieri avevano già Comitati attivi, entusiasti dell’opera intrapresa, quando S.A.R. la Principessa Laetitia fece notare che nessuno aveva ancora pensato ai Carabinieri Reali […]». Occella a quel punto, con l’aiuto del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, lanciò una sottoscrizione pubblica per raccogliere i fondi occorrenti da destinare alla realizzazione del monumento. Questo fu in seguito progettato e realizzato nel periodo intercorrente tra il 1925 e il 1933, dallo scultore torinese
Edoardo Rubino (1871-1954). La scelta della città in cui far sorgere il monumento cadde sul capoluogo piemontese, in quanto a Torino re Vittorio Emanuele I con Regie Patenti del 13 luglio 1814 aveva istituito l’allora Corpo dei Carabinieri Reali. Per quanto riguarda il sito, invece, si optò sul giardino esistente nei pressi del Palazzo Reale di Torino, dove da poco si era aperto un passaggio per far comunicare Piazza Castello con i popolosi rioni di Porta Palazzo. Il monumento fu quindi inaugurato il 22 ottobre 1933, alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Nonostante la giornata piovosa, una grande moltitudine di persone affollava, sin dalle prime ore del mattino, il piazzale e i viali dei Giardini Reali. Attorno al palco erano presenti le rappresentanze dei 92 capoluoghi di provincia, quelle di tutte le Armi e delle Associazioni combattentistiche e migliaia di carabinieri in servizio ed in congedo, convenuti da ogni parte d’Italia per il raduno nazionale.
CARABINIERI Cinzia Carchedi photography
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CARABINIERI Cinzia Carchedi photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Presente, al posto d’onore, la lacera e gloriosa Bandiera dell’Arma, giunta appositamente da Roma, scortata dal comandante della Legione Allievi. Subito dopo l’arrivo del re Vittorio Emanuele III e dei principi del suo seguito, venne fatto cadere il grande drappo bianco ed apparve così agli occhi degli spettaori il grande monumento, fra gli applausi entusiastici della folla.
Gravemente danneggiato il 12 agosto del 1943 nel corso di un bombardamento aereo, il monumento venne restaurato sotto la direzione dello stesso Edoardo Rubino e restituito all’ammirazione degli italiani con una solenne cerimonia alla presenza del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi e di numerose autorità civili, militari e religiose il 15 settembre 1948.
Alla benedizione da parte del Cardinale Arcivescovo seguirono i discorsi dei generali ed infine prese la parola il conte Thaon di Revel, primo cittadino di Torino, il quale, nel ricevere in consegna il monumento, affermò che tutta la città, dove l’Arma era stata creata, era onorata nell’essere stata designata custode dell’opera, eretta per ricordare attraverso i tempi le glorie dei Carabinieri, «la cui storia più che secolare, scritta tutta di eroismi e di abnegazione in difesa della Patria, del Diritto e della Legge, è, in guerra come in pace, una ininterrotta elevazione, una costante fulgida affermazione di virtù militari e civili».
Sotto la statua del Carabiniere venne così inserita una lapide, ancora oggi visibile, recante un’epigrafe dettata da Paolo Boselli, Presidente del Consiglio. Durante la cerimonia a nome del governo prese infine la parola l’Onorevole Luigi Meda, affermando: «Se amore deve cementare la ricostruzione del nostro Paese è giusto che in questo edificio di fede e di speranze si inserisca la pietra di questo monumento, che rivede oggi il sole dopo l’umiliazione ed il dramma di una grave offesa di guerra.
Il Monumento si articola strutturalmente in tre parti: nella parte sottostante si ha un lungo podio orizzontale con altorilievi che rievocano le tappe della Storia dell’Arma sia in tempo di pace che di guerra (la carica, la trincea, il terremoto, l’inondazione, il brigantaggio e l’epidemia); in quella centrale si ha la semplice statua in bronzo del Carabiniere; infine nella parte superiore si erge un ulteriore gruppo scultoreo in bronzo che idealizza il Giuramento del Corpo.
Risorge, questo monumento, ancor più glorificato dal contributo di valore e di sangue offerto dai Carabinieri nella lotta partigiana, risorge nella consacrazione di un rito, al quale è spiritualmente presente tutto il popolo italiano, al quale sono presenti in spirito tutti i Carabinieri, i morti ed i vivi, tutti uniti in una benedizione ed in una promessa: la benedizione di coloro che più non sono, la promessa dei Carabinieri e dei cittadini di difendere in ogni momento, contro qualsiasi offesa, il diritto e la libertà riconquistata».
CARABINIERI Fabrizio Rossi photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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SACRARIO DEI CADUTI I° GUERRA MONDIALE La chiesa della Gran Madre, progettata dall’architetto Ferdinando Bonsignore (1760-1843) e realizzata tra il 1827 e il 1831, venne scelta durante il regime fascista come luogo in cui erigere un sacrario destinato ad accogliere i resti dei caduti della Grande Guerra.
Un progetto dell’architetto Giovanni Ricci modificò così il basamento della costruzione neoclassica e allestì una cripta in grado di custodire i resti di circa 4.000 militari torinesi caduti durante la guerra. I resti vennero traslati dal Cimitero Monumentale il 27 giugno 1932 e la processione si sviluppò lungo le vie del centro con un imponente corteo di 48 autocarri che trasportano le salme fasciate dal tricolore. Il 25 ottobre dello stesso anno il sacrario venne ufficialmente inaugurato da Benito Mussolini in persona, come ricorda la targa posta due anni più tardi: Il giorno 25 Ottobre MCMXXXII-V presente Benito
Mussolini fu inaugurato questo ossario che a glorificazione degli eroici figli di Torino caduti nella Grande Guerra del MCMXV – MCMXVIII accogliendo il voto dell’associazione delle famiglie dei caduti il municipio di Torino fece costruire monumento di gloria di pietà di riconoscenza ora e sempre L’Associazione Famiglie Caduti in guerra a ricordo pose 4 Novembre 1934 Il sacrario apre tutti gli anni per pochi giorni, come recita il cartello che si trova in via Villa della Regina: “Ultima settimana di ottobre, la prima settimana di novembre e il 25 aprile”. La struttura, interamente in marmo, appare agli occhi dei visitatori altamente suggestiva anche per il suo profondo
Fabrizio Rossi photography
significato. Sulle numerose colonne dell’ampio ingresso, ricco di statue di varia grandezza collocate al centro o in alcune nicchie, sono incisi in ordine alfabetico i nomi di tutte le vittime piemontesi del conflitto ’15-‘18. Inoltre sulla sinistra, si apre un corridoio che, dopo la discesa di una decina di gradini, conduce all’ossario vero e proprio: un paio di corridoi circolari le cui pareti risultano interamente ricoperte da quasi 4000 targhe singole che ricordano nome, cognome e grado dei caduti. Per gli ufficiali e i sottufficiali è riprodotta anche la relativa medaglia al valore. Ogni anno il 4 novembre, festa delle Forze Armate, si Giroinfoto Magazine nr. 38
tiene una messa solenne, che ha poi un’appendice nella cerimonia d’onore della deposizione delle corone di fiori sull’altare di marmo attorniato da una serie di aquile littorie, collocato proprio al centro del sacrario. L’ossario nasconderebbe tuttavia un segreto: dietro le piccole targhe non ci sarebbero le urne vere e proprie, custodite invece in una sconosciuta intercapedine perimetrale della chiesa di cui si è persa la memoria. Il motivo di questo è semplice: la cripta venne infatti ideata come spazio monumentale, e in quanto tale non fu dotata della luce e dei sistemi di areazione adatti a conservare a lungo quelli che comunque erano dei resti umani.
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ARCO MONUMENTALE ALL’ARMA DELL’ARTIGLIERIA Con il proposito di realizzare e donare alla città di Torino, un monumento celebrativo dell’Arma di Artiglieria, nasceva nel gennaio 1926, il “Comitato monumento all’Arma Artiglieria” sotto il patronato dei Duca e Duchessa d’Aosta.
La scelta della città non era casuale: in Piemonte era stata costituita e aveva conquistato le prime glorie l’Arma dell’Artiglieria e, in Piemonte, sorgevano importanti industrie metallurgiche che avevano apportato un notevole contributo alla produzione e allo sviluppo tecnologico della specialità militare. Celebrare degnamente i fasti della gloriosa Arma ed esaltare nel contempo la tenacia del lavoratore dell’industria pesante e l’eroicità delle genti d’arma, furono i principi e i valori ispiratori del nuovo monumento. Il Comitato nominò come progettista dell’opera: lo scultore Pietro Canonica (1869-1959), artista di fama internazionale, il quale aveva realizzato a Torino il monumento al Cavaliere d’Italia (1923).
La data presunta dell’inaugurazione del monumento originariamente era prevista per l’aprile 1928, in coincidenza con i festeggiamenti per il quarto centenario della nascita di Emanuele Filiberto e con il decennale della vittoria. Canonica e il Generale Goria, presidente del Comitato, individuarono come sito ideale per accogliere l’opera il piazzale Duca d’Aosta, nel quale convergevano i tre corsi Trieste, Trento e Duca d’Aosta, piazzale di grande effetto scenografico. Di diverso parere il principe di Piemonte, il quale attraverso il proprio aiutante, tenente Generale Ambrogio Clerici faceva pressioni affinché il monumento sorgesse in piazza Solferino, ritenendo forse troppo defilata la posizione indicata dal Comitato. In un secondo momento, la Commissione ritenne più idonea, sia per il migliore effetto prospettico, che per la mancanza di onerose opere preparatorie, l’area posta all’incrocio tra corso Cairoli e Vittorio Emanuele. Era questo un luogo che si inquadrava con particolare suggestione nel verde cupo delle vaste alberate del Parco del
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Nadia Laboroi Photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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SANTA BARBARA Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Valentino, in prossimità del ponte monumentale Re Umberto. La costruzione procedette tuttavia molto a rilento a causa della mancanza di fondi economici per la realizzazione e fu possibile arrivare al completamento grazie a ripetuti finanziamenti molto cospicui del Comune di Torino. L’inaugurazione del monumento con solenne cerimonia, alla presenza dei sovrani, slittò così al 15 giugno del 1930, la giornata che celebrava il dodicesimo anniversario dell’inizio della battaglia del Piave, alla cui benevole sorte, in modo decisivo e determinante aveva contribuito l’uso massiccio e devastante dell’artiglieria. Torino si arricchiva così del proprio arco votivo, il quale, seppur di modeste dimensioni, e di disordinato accostamento di stili e varietà di cimeli, ben si inseriva in quel suggestivo scorcio del Valentino. L’arco era stato da poco inaugurato, che già nell’aprile
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dell’anno seguente il Canonica, che non riteneva ancora conclusa la sua opera, premeva per la realizzazione di due fontane che avrebbero conferito al suo monumento: «vita e colore in quel meraviglioso angolo verde». Canonica eseguì così il disegno delle fontane e il bozzetto di gesso, esso raffigurava la prua di una nave romana da eseguire in porfido lucidato con decorazioni di meduse di bronzo a getto d’acqua. L’acqua che fuoriusciva veniva raccolta nelle sottostanti vasche di lucida sienite. Cavagnino in seguito eseguirà il modello al vero delle fontane sotto la direzione del Canonica, prima di realizzarle dal vero. Sarà questa infatti l’ultima modifica subita dal monumento. L’arco presenta al suo esterno quattro rilievi ispirati ad altri corpi militari, mentre al centro dell’opera è presente una statua dedicata a Santa Barbara, patrona degli artificieri.
ARCO DELL’ARTIGLIERIA Mariangela Boni photography
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ARCO DELL’ARTIGLIERIA Fabrizio Rizzo photography
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MONUMENTO AI CADUTI DEL MARE All’interno del Parco del Valentino, sulla riva del Po nei pressi di Ponte Isabella, si trova uno dei rari reperti storico-navali di importanti dimensioni rimasti ad oggi in Italia.
Si tratta nello specifico del sottomarino Andrea Provana, così chiamato in onore dell’Ammiraglio piemontese che partecipò alla battaglia di Lepanto nel lontano 1571. Più precisamente, si trovano esposti la sezione centrale del sommergibile, la falsa-torre ed i cannoni. Il sommergibile, progettato dal Maggiore del Genio navale Cesare Laurenti, fu costruito nel 1915 nei cantieri Fiat San Giorgio di La Spezia e varato ufficialmente dalla Regia Marina il 27 gennaio 1918. A settembre dello stesso anno, la settimana precedente alla fine della Prima Guerra Mondiale, il sommergibile entrò in servizio. Il destino del sommergibile Provana fu tuttavia pacifico, in quanto non partecipò mai attivamente ad azioni di guerra,
ma fu per lo più impiegato per l’addestramento degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno. Tuttavia, nel 1923, fu anche utilizzato durante la crisi di Corfù, insieme al gemello Barbarigo, come ulteriore protezione dagli eventuali attacchi della marina greca. Il sommergibile fu usato poi nuovamente per l’addestramento dei cadetti fino al marzo del 1927, quando il motore termico destro esplose. Fu portato allora fino a La Spezia, ma lì, dato che la sua tecnologia risultava ormai obsoleta, si decise che non sarebbe valsa la pena di ripararlo, fu posto in disarmo e quindi radiato il 21 gennaio dell’anno seguente. Si decise quindi di conservare la sua parte centrale e di portarla nel capoluogo piemontese per l’Esposizione Mondiale del 1928 nell’ambito della Mostra sulla Regia Marina. Cinque anni più tardi, i resti del sommergibile furono acquistati dall’Associazione Marinai, che li collocarono nel Parco del Valentino, nei pressi della propria sede, in viale Marinai d’Italia 1, dove si trova tuttora.
INTERNO DEL SOMMERGIBILE Fabrizio Rizzo photography
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CADUTI DEL MARE Nadia Laboroi photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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CADUTI DEL MARE Fabrizio Rizzo photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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REGGIMENTO ALPINI Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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MONUMENTO AL TERZO REGGIMENTO ALPINI Nel giardino roccioso del Parco del Valentino si può trovare la statua in bronzo di un alpino, elevata su un piedistallo, innalzata da un basamento composto da un imponente gradone e un massiccio blocco geometrico. Il soldato è rappresentato in tenuta invernale, vigile nella guardia mentre sorregge tra le braccia un fucile a baionetta, appoggiato al corpo. Il monumento venne inaugurato, con una cerimonia onorata dalle massime Autorità civili e militari, il 17 giugno 1962, in ricordo dell’anniversario di quel 16 giugno 1915 che vide il Terzo Reggimento, con il suo Battaglione Exilles protagonista e conquistatore del Monte Nero. L’opera è dello scultore alpino Emilio Musso, e venne donata dagli alpini della Sezione di Torino – già all’epoca denominata
“La Veja” per la sua primogenitura tra le Sezioni – alla città di Torino. L’anno precedente, nel 1961, si era festeggiato il centesimo anniversario dell’Unità d’Italia. A Torino si era svolta l’Adunata nazionale dell’ANA, e si era potuto constatare che la Città – da sempre culla e sede del Terzo Reggimento – aveva il desiderio di ricordarlo con un qualcosa che lo eternasse. Gli Alpini riuscirono in breve a raccogliere i fondi per la costruzione del monumento, e la città poté in questo modo accogliere l’opera a perenne ricordo del glorioso Terzo Reggimento Alpini che all’epoca era stato sciolto per poi essere ricostituito nella Brigata Taurinense.
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MONUMENTO ALL’AUTIERE D’ITALIA Proprio di fronte al Museo dell’Automobile, in corso Unità d’Italia, si trova il monumento all’Autiere d’Italia.
da vicino, con l’ausilio e l’integrazione delle sculture, sia da lontano che dall’alto.
L’opera realizzata nel 1965 dall’architetto Renato Costa e dallo scultore Goffredo Verginelli, con la collaborazione dell’ingegnere Renato Giannini, è posta in ricordo degli Autieri, nel linguaggio militare, i soldati la cui mansione è la guida degli autoveicoli per il trasporto di uomini e di materiali.
Gli ideatori pensarono di realizzare il primo concetto dandogli la forma di una ruota stilizzata che, ben facilmente, rimandava alla mente il mezzo meccanico alla base dell’attività del Corpo. Architettonicamente, la forma seppur semplice e le dimensioni adottate, consentivano una visione dettagliata ma anche dinamica, che permetteva una facile comprensione del monumento e del suo concetto anche da lontano, e questo sia per l’automobilista che transita dalla strada, sia per chi dalle finestre del Museo dell’Automobile o dalle terrazze “belvedere” della collina ne guardi l’insieme.
Gli Autieri, nell’Esercito Italiano, appartengono all’Arma dei Trasporti e Materiali (Tramat), il corpo militare che fino alla Seconda Guerra Mondiale era definito Corpo automobilistico, e che dal dopoguerra fino alla fine del XX secolo prese il nome di Servizio Automobilistico dell’Esercito. Per la sua ideazione si seguirono due criteri essenziali: uno simbolico, incentrato nel trovare una forma architettonica che esprimesse facilmente l’idea del monumento e che consentisse, allo stesso tempo, attraverso l’inserimento di motivi scultorei, la narrazione di episodi della vita del Corpo; e uno architettonico, che si poneva l’obiettivo di realizzare un motivo di facile visibilità e comprensione sia
ALL’AUTIERE D’ITALIA Floriana Speranza photography Giroinfoto Magazine nr. 38
Il monumento venne realizzato in cemento armato e presenta un basamento di granito di Baveno che sostiene una grande ruota di 16 metri di diametro, disposta orizzontalmente, con un cerchione in bronzo lavorato a bassorilievo, su cui sono rappresentate le gesta degli Autieri che durante la I e la II Guerra Mondiale contribuirono alla mobilitazione delle truppe sui vari fronti.
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MONUMENTO AL FANTE D’ITALIA «Il Soldato che, pur nella apparente semplicità della posizione e serenità dell’atteggiamento, esprime con potenza espressiva la consapevolezza della forza e centralità della Fanteria».
Ecco cosa si prometteva di rappresentare l’artista Angelo Balzardi (1892-1974) nella sua opera dedicata al Fante d’Italia. Il monumento fu fortemente voluto dall’Associazione Nazionale del Fante e come sede per la collocazione si scelse il piazzale Duca d’Aosta, area intitolata a colui che fu il Comandante della Terza Armata invitta, e dove un tempo si trovava l’antica piazza d’armi della città. L’opera venne inaugurata il 24 settembre 1961 in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, erano presenti all’inaugurazione il Presidente della Repubblica Gronchi, il
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Ministro della Difesa Andreotti, il Senatore Merzagora ed i Generali Aloia e Liuzzi. La statua ritrae un soldato di Fanteria della prima Guerra mondiale, che imbraccia un fucile a baionetta in maniera inusuale. L’artista disegnò e ideò il primo esemplare dell’opera nel 1934, per il 92° Reggimento Fanteria, allora di stanza nell’attuale caserma Monte Grappa, successivamente ad oggi esistono tre esemplari identici del Fante che sorgono a: Torino piazzale Duca d’Aosta, nella Scuola di Fanteria di Roma e uno a Gorizia nella terra dove riposano le spoglie del Duca d’Aosta. Altri due esemplari in scala ridotta si trovano ancora: uno nel cortile della Scuola d’Applicazione di Torino e l’altro il primo esemplare realizzato nel 1934 presso la Caserma Monte Grappa.
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PARCO DELLA RIMEMBRANZA Inaugurato con una solenne cerimonia il 20 settembre 1925 alla presenza del re Vittorio Emanuele III per celebrare la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale e i caduti torinesi, il parco della Rimembranza costituisce il nucleo più antico del parco della Maddalena, una delle più grandi aree verdi a Torino, con un’estensione di 892.000 metri quadrati. Il parco si sviluppa sulla punta più alta della collina torinese, il colle della Maddalena (715 m slm) e accoglie sui suoi 442.000 metri quadrati più di 400 specie botaniche organizzate in un arboretum, conservando la memoria dei soldati deceduti nella Grande Guerra, in quanto accanto a ogni albero è affissa una targa con il nome di un caduto. Nel Parco della Rimembranza si possono ancora trovare l’Ara Votiva dei caduti Torinesi e il monumento dedicato ai «Caduti della Divisione Alpina Taurinense e della Brigata Alpina Taurinense» della Prima Guerra Mondiale, oltre alla statua-faro della Vittoria Alata. L’Ara Votiva, realizzata in travertino scalpellinato e completata di trofeo di rami d’alloro e di quercia, daga e elmo in bronzo, identifica il valore simbolico del Parco della Rimembranza che lungo i suoi viali alberati raccoglie, nome per nome, la memoria dei soldati torinesi caduti in combattimento nella Prima Guerra Mondiale, di tutte le Armi e Specialità delle forze armate (2.583 fanti, 508 artiglieri, 356 alpini, 280 genieri, 277 bersaglieri, 211 mitraglieri, 135 aviatori, 22 dirigibilisti, 107 della milizia territoriale e compagnia presidiaria, 83 granatieri, 68 automobilisti, 67 della sanità, 57 dei reparti d’assalto, 50 cavalieri, 40 marinai, 31 di commissariato e sussistenza, 21 carabinieri, 5 finanzieri e 3 cappellani). Il Parco, che rappresenta anche un’originale collezione di specie arboree di particolare individualità scientifica, è suddiviso in 46 sezioni ciascuna dedicata a eventi e località della Grande Guerra in un ideale percorso di memoria che dall’Ara attraversa i Luoghi Sacri della Patria. I caduti della Brigata Taurinense sono ricordati vicino alle Medaglie d’Oro e agli ufficiali e ai caduti della Grande Guerra. Il monumento si trova vicino a viale Timavo, un luogo simbolico: qui infatti si trovano le targhe ricordo delle Medaglie d’Oro, attorno al Conte di Salemi e degli Ufficiali Superiori caduti nella Grande Guerra. Sulla parte anteriore del Basamento dell’Aquila è stata inserita una targa con gli stemmi della Divisione e della Brigata Alpina Taurinense con l’intitolazione ai Caduti. Infine sulla cima del colle svetta la statua-faro della Vittoria alata, opera in bronzo dello scultore torinese Edoardo Rubino (1871-1954), commissionata nel 1928 dal senatore
Giovanni Agnelli, che donò la statua alla città di Torino per commemorare il decimo anniversario della vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Con i suoi 18,50 metri d’altezza, che poggiano su altri 8 metri di basamento rivestito di pietra, era, al momento della sua costruzione, la più grande statua al mondo interamente in bronzo, per la cui fusione ne furono impiegate circa 25 tonnellate. Il trasporto ed il montaggio della statua in una posizione così impervia richiesero lo spianamento della punta del colle, l’allargamento per alcuni chilometri della strada d’accesso e la costruzione di un “castello” in legno per il sollevamento delle parti costitutive. L’epigrafe riportata ai piedi della statua fu scritta da un amico del senatore, il poeta Gabriele D’Annunzio, che annotò i versi a margine di un disegno della Vittoria alata del Rubino:
«ALLA PVRA MEMORIA ALL’ALTO ESEMPIO DEI MILLE E MILLE FRATELLI COMBATTENTI CHE LA VITA DONARONO PER ACCRESCERE LA LVCE DELLA PATRIA A PROPIZIAR COL SACRIFICIO L’AVVENIRE IL DVREVOLE BRONZO LA RINNOVANTE SELVA DEDICANO GLI OPERAI DI OGNI OPERA DAL LORO CAPO GIOVANNI AGNELLI ADVNATI SOTTO IL SEGNO DI QVELLA PAROLA BREVE CHE NELLA GENESI FECE LA LVCE FIAT LVX: ET FACTA EST LVX NOVA MAGGIO MCMXV - MAGGIO MCMXXVIII»
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RIMEMBRANZA Sergio Agrò photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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RIMEMBRANZA Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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LYON FASCINO STORICO E RELIGIOSO
Lione è una delle città più conosciute della Francia, la terza per numero di abitanti. Originariamente denominata “Lugdunum”; Secondo una leggenda druidica, il nome arriverebbe da Lougos e Dounon che significano rispettivamente corvo e collina. Capitale dell’antica Gallia romana, ha mantenuto intatto nel tempo il suo affascinante centro storico, tanto che l’UNESCO lo promuove come Patrimonio dell’Umanità. La sua geografia urbana si confonde facilmente nella fertile valle, bagnata dalla confluenza del fiume Rodano con il fiume Saona. Il centro storico, cuore vibrante dell’antico medioevo, rimane ancora oggi il fulcro culturale della città, eccellente nell’offrire momenti di svago culturale e servito da ottime infrastrutture.
A cura di Barbara Lamboley Giroinfoto Magazine nr. 38
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La storia di Lione ha origine con le popolazioni celtiche, già note ai romani per il fluido commercio. Divenendo capitale della Gallia romana, la città consacrò il proprio potere con una particolare posizione all’interno dell’impero romano. Lo splendore viene raggiunto nel medioevo, sviluppando quella che era comunque una città di grosse propensione commerciali. Di grande importanza le comunicazione intraprese con l’Italia e i commercianti fiorentini, così come il commercio della seta. Gli avvenimenti più bui della città verranno vissuti da lì a breve, nel sedicesimo secolo: le grandi guerre religiose francesi, tra cattolici e protestanti. Dal punto di vista turistico, Lione è una città che ha molto da offrire. Ricca di attrattive, il visitatore ha a disposizione luoghi di interesse storico-culturale, locali notturni, teatri e altro, per una vacanza di tutto rispetto.
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Le Vieux Lyon è il centro storico della città, situato ai piedi della collina, zona la Fourvière, un luogo dall’atmosfera particolare e di grande tendenza. Lo splendore rinascimentale ritorna qui in auge con i tre quartieri antichi, il St George, il St Jean e il St Paul, dove si ammirano splendidi palazzi d’epoca. Tra i profumi dei classici Bouchons (bistrot francesi specifici alla zona di Lione), troviamo i tipici ‘traboules’ di Lione, luoghi unici di tradizione cittadina. Sono passaggi pedonali che permettono di entrare da una strada e uscire in un’altra, non facendo il giro attraverso gli edifici, ma passandoci dentro. Nati con una funzione puramente pratica, nel corso dei secoli sono stati abbelliti e oggi, sebbene se ne trovino anche in centri come Villefranche sur Saone, Macon, o Saint Etienne, sono la vera caratteristica della città di Lione.
Il teatro romano, sede di importanti eventi della stagione teatrale lionese.
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BOUCHONS Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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TRABOULE Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Il nome “traboule” deriva dal latino, per la precisione dalla locuzione “trans ambulare”, ovvero “passare attraverso”. Ed in effetti è proprio questo che si fa camminando lungo un traboule. La loro origine risale al Medio Evo, ma alcuni sono stati realizzati durante il Rinascimento, quando le autorità di Lione permisero ai giovani architetti la possibilità di dimostrare il loro valore. Molti sono stati costruiti nel XIX secolo per permettere agli artigiani della seta, i Canuts, di portare i tessuti fuori dalle loro officine senza farli bagnare quando c’era cattivo tempo. Gli stessi traboules, poi, sono stati teatro della sollevazione dei tessitori della seta, che infiammò Lione nel 1831, ma anche della Resistenza francese: gli occupanti non li conoscevano, a differenza dei partigiani che li sfruttavano per nascondersi o preparare le imboscate.
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Esistono diversi tipi di traboules: ci sono quelli diretti, che collegano due strade parallele e di cui, dall’entrata, è visibile l’uscita, e quelli angolari, che permettono di attraversare due edifici che fanno angolo, risparmiando qualche metro di strada. I più complessi, invece, sono i traboules a raggio: il cortile è al centro e attorno, gli edifici hanno più accessi. In alcuni casi, poi, questi passaggi comprendono delle scale, nel caso connettano strade separate da un forte dislivello, e ancora ci sono quelli che mettono insieme la varie caratteristiche. In totale sono presenti 230 rues à traboule a Lione.
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Saint Jean Tra i monumenti storici di Lione, si citano in particolare la Cattedrale di St Jean, situata nell’omonimo quartiere del centro storico e originaria del XI secolo. Particolare la sua architettura, uno degli esempi più significativi del passaggio tra lo stile romanico a quello gotico. La Cattedrale di Saint-Jean è sede dell’arcidiocesi di Lione, ed è l’edificio di culto più importante della città francese. Situato nella Vieux Lyon (‘Vecchia Lione’, il centro storico della città), la meravigliosa cattedrale si trova ai piedi della collina di Fourvière, a pochi metri dalla Saona, il fiume che bagna la città insieme al Rodano. La chiesa vera è propria è intitolata a San Giovanni (SaintJean), mentre il suo battistero è dedicato a Santo Stefano, in francese Saint-Étienne. Oggi, la Cattedrale di Saint-Jean viene considerata uno dei monumenti-simbolo della città, grazie alla sua bellezza ma anche e soprattutto grazie al suo immenso valore storico-artistico. L’attuale struttura della Cattedrale, sorge su una chiesa romanica pre esistente e secondo la tradizione, venne fondata da San Pothinus e Sant’Ireneo, i due primi vescovi di Lione; la costruzione cominciò sul finire del XII secolo, per poi essere completata solo 3 secoli dopo. Già prima del suo completamento, la Cattedrale di SaintJean era stata teatro di importantissimi avvenimenti, come ad esempio la consacrazione dei papi Clemente V e Giovanni XXII. LA FACCIATA Le prime parti della Cattedrale che vennero costruite furono, sul finire appunto del XII secolo, le parti basse dell’abside (con le due cappelle laterali) e il transetto; furono poi completate le volte gotiche, le torri orientali e le prime quattro campate delle navate, qualche anno più tardi (primi decenni del XIII secolo), durante i quali vennero completate anche le vetrate del coro e i rosoni del transetto. Tra il XIII e il XIV secolo, vennero invece completate le ultime quattro campate delle navate e la parte inferiore della facciata. La stessa facciata, venne poi completata nel XV secolo, con la statua di Dio Padre che venne collocata sulla parte superiore nel 1481; venne quindi aggiunta quella che viene
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conosciuta come la Cappella dei Borboni. La Cattedrale di Saint-Jean subì gravi danni in diverse occasioni: fu danneggiata dalle truppe calviniste (1562), durante la Rivoluzione francese e durante la Seconda Guerra Mondiale. La parte più antica della Cattedrale di Saint-Jean è l’abside (1165-1180), in stile romanico-lombardo, sul fondo della quale troverete una splendida cattedra in marmo, databile alla metà del Duecento; da notare l’influenza dello stile gotico fiammeggiante nella facciata, i cui meravigliosi portali sono decorati con circa 300 formelle in pietra di forma quadrata; sulla sua estremità, potrete ammirare il sontuoso rosone centrale, sopra il quale svetta la cuspide, inserita tra due torri. Nella parte interna, troverete un ambiente suddiviso in tre navate; all’inizio di quella destra, troverete la già citata Cappella dei Borboni, il cui stile gotico fiammeggiante è in netto contrasto con lo stile del coro, edificato circa 2 secoli prima, e dall’aspetto più ‘solenne’. GLI INTERNI Ma la principale attrattiva turistica della Cattedrale di Saint-Jean è sicuramente l’orologio astronomico, posto tra la navata centrale e il transetto destro. Costruito nel XIV secolo, subì importanti modifiche negli anni a seguire, come l’aggiunta di un meccanismo a carillon che scatta al rintocco delle ore, con delle statuette che rappresentano le scene dell’Annunciazione, un po’ come i famosi Re Magi dell’Orologio di Piazza San Marco a Venezia. Oltre a questa particolarità, da notare la perfezione dell’ingegneria dell’orologio, che gli permetterà di segnare l’ora, la posizione del sole e quella della luna con eccezionale esattezza fino al 2019. Un’altra grande attrattiva della Cattedrale è il magnifico organo maggiore, posto nel transetto destro, prodotto nel 1841 dalla ditta Daublaine et Callinet: si tratta di uno dei migliori organi di tutta la Francia! Di recente, è stata invece aggiunto l’organo Ahrend, realizzato nel 1974 per la Chiesa della Riconciliazione a Taizé, e spostato qui a Lione nel 1996.
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BOUCHONS ST JEAN Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Notre-Dame de Fourvière La più recente basilica di Notre Dame del XIX secolo è un altro sito di sicuro interesse, nota per il voto dei lionesi alla Madonna (minacciati dall’esercito prussiano) e soprattutto per la sua posizione: la collina di Fourvière, dalla quale si ammira il più bel panorama della città. La Basilica di Notre-Dame de Fourvière, uno dei simboli di Lione e tra le chiese più belle dell’intera Francia, domina la città dalla collina di Fourvière, sul sito dove, in epoca romana, sorgeva l’antico Foro Traiano (Forum Vetus, da cui il nome ‘Fourvière’). Anche per la sua posizione ‘strategica’, quasi a vegliare sulla città, la Basilica di Notre-Dame de Fourvière è uno degli edifici a cui i lionesi sono più affezionati, oltre che meta turistica per circa 2 milioni di visitatori l’anno che si recano in vacanza nella capitale del Rhône-Alpes. La storia della Basilica inizia nel 1168, quando Olivier de Chavannes costruì una cappella a Fourvière, proprio sopra le rovine dell’antico sito romano; inizialmente, la cappella fu dedicata a San Tommaso e alla Vergine. Dopo aver conosciuto secoli di distruzioni e di ricostruzioni, nel 1853 il cardinale De Bonald crea la cosiddetta ‘Commission de Fourvière’, che ha lo scopo di raccogliere fondi per l’acquisto dei terreni necessari alla costruzione di
una nuova chiesa; grazie ai pellegrini sorti da diverse parti della Francia e d’Europa, il progetto prende finalmente forma. Tuttavia, in una fase iniziale il progetto era quello di ristrutturazione della vecchia chiesa; solo nel 1866 fu approvato il progetto della costruzione di un edificio exnovo. Nel 1870, però, vi fu lo scoppio della guerra tra Francia e Prussia: i lionesi, allora, implorano monsignor Ginoulhiac di esprimere un voto alla Madonna di Fourvière per far sì che la città non venisse distrutta. Quando tale desiderio venne esaudito, e la città si salvò, cominciarono i lavori effettivi di costruzione della chiesa, dedicata appunto alla Vergine Maria.I lavori, cominciati nel 1872, terminarono nel 1884; dopo la malattia dell’architetto Bossan, fu Sainte-Marie Perrin ad occuparsi della costruzione dell’edificio. Tuttavia, la Basilica di Notre-Dame de Fourvière può dirsi completata solo nel 1964, quando vengono inseriti i mosaici, le sculture e le vetrate. La Basilica di Notre-Dame, insignita del titolo di basilica minore nel 1897, è patrimonio mondiale dell’Umanità dal 1998.
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La prima pietra posta nel 1872 è conservata, decorata da gigli, in fondo alla scalinata della facciata principale. Da ammirare, all’esterno, sono soprattutto le meravigliose sculture di Giuseppe Belloni, come ad esempio la raffigurazione di Davide e Golia (sul portale d’ingresso) e il Giudizio di Salomone (sulla torre di giustizia). L’edificio, lungo 35 m e largo 86 metri, presenta inoltre quattro torri merlate dell’altezza di 48 metri, – che conferiscono alla Basilica il nomignolo di ‘Elefante rovesciato’ – che rappresentano le quattro virtù cardinali: Forza, Giustizia, Prudenza e Temperanza; in quest’ultima (dopo 287 gradini) si accede alla terrazza di Saint-Michel, dove potrete godere di una vista impareggiabile su Lione e sulle Alpi; da qui potrete anche ammirare la statua di San Michele che uccide il drago, scolpito da Millefaut, autore anche degli angeli cariatidi posti sopra gli archi. Sulla meravigliosa porta bronzea progettata da SaintMarie Perrin, invece, sono rappresentati l’Arca di Noè e l’Arca dell’Alleanza. Ma sono indubbiamente gli interni a lasciare di stucco il turista. Nella chiesa, colpisce la luminosità delle vetrate e la varietà delle decorazioni; sulle pareti, sono inoltre incisi i nomi di tutte le parrocchie che hanno contribuito alla realizzazione della Basilica di Notre-Dame di Fourvière. La Basilica è divisa, come detto, in tre navate, sormontate da tre cupole con tre gruppi di immagini che rappresentano il rapporto di Maria con la Trinità. Da notare il bellissimo tabernacolo, circondato da dieci angeli alati, con sopra una statua della Vergine Maria, scolpita da Millefaut in marmo di Carrara. Nelle otto cappelle, noterete inoltre le opere dello stesso Millefaut, di Larrivé, Castex, Puech, Dufraine ed altri ancora. Oltre ai magnifici mosaici parietali, da segnalare è anche il meraviglioso organo realizzato dalla ditta Michel Merklin di Lione. Se siete nella Basilica, sarà impossibile per voi non visitare la magnifica cripta, a cui si accede tramite la splendida scala in marmo rosso realizzata da SainteMarie Perrin. L’ambiente che troverete è meraviglioso, avvolto dalle tenebre che simboleggiano l’ignoranza dell’uomo prima della venuta di Cristo: siete nell’ampia cappella dedicata a Giuseppe; è da qui che nasce il contrasto con la luminosità della chiesa superiore. Noterete, inoltre, i medaglioni che rappresentano i peccati capitali, sul pavimento intorno all’altare; sopra, un enorme statua di Giuseppe con il Bambin Gesù, ad opera dello scultore Fabisch. Giroinfoto Magazine nr. 38
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La Lione ottocentesca è tutta nella parte centrale della città, la ‘penisola’ formatasi dalla confluenza dei due fiumi. Tra vie eleganti ed edifici in stile, troviamo le grandi piazze francesi e i maggiori musei di Lione: Museo des Beaux Arts, place des Terreaux, Museo delle Arti Applicate, il Museo dei tessuti (rue de la Charité, presso il seicentesco Hôtel de Villeroy), dove si ammira la grande storia della seta di Lione. Sempre nella parte più centrale della città, si trova la splendida Place des Terreaux. Iscritta nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, la piazza è il centro commerciale della città e sorge ai piedi della collina La Croix-Rousse, nel primo arrondissement di Lione. É proprio qui, nel cuore storico della ‘Città Vecchia’ e ai due passi dal Jardin du Palais St Pierre, che sorgono l’Hôtel de Ville (il Municipio), il Museo delle Belle Arti e la monumentale fontana Bartholdi. Ecco i tre elementi di maggior interesse che caratterizzano la splendida Places des Terreaux di Lione.
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L’Hôtel de Ville Costruito nel XVII secolo – più precisamente tra il 1645 e il 1651 – su progetto dell’architetto Simon Maupin, l’Hôtel de Ville di Lione (sede municipale della città francese) è sicuramente uno dei palazzi più imponenti dell’intera città. Il Municipio è stato proclamato Monumento storico nel 1886 e, nonostante non sia visitabile dall’interno – fatta eccezione per le Journée du patrimonie – colpisce comunque l’occhio di chiunque faccia una passeggiata sulla meravigliosa Place des Terreaux grazie soprattutto alle impeccabili decorazioni dorate che ne abbelliscono la facciata a due ordini di finestre. La struttura, di tipo classico, presenta inoltre un grande orologio che sovrasta la statua di Enrico IV a cavallo, costruita e posizionata nel luogo attuale nel 1800 per sostituire la statua equestre di Luigi XIV, distrutta durante la Rivoluzione francese.
L’HÔTEL DE VILLE Barbara Lamboley photography
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Museo delle belle arti Sulla destra dell’Hôtel de Ville il visitatore trova l’edificio del Musée des beaux-arts de Lyon – il Museo delle Belle Arti di Lione –, museo principale della città e meta di migliaia di turisti ogni anno. Il museo, aperto nel 1801 e ospitato in un palazzo del 1600, è diviso al suo interno in 70 sale e custodisce al suo interno collezioni di pittura, scultura, arte antica (egiziana, greca, romana, etrusca e orientale), oggetti d’arte del periodo compreso tra l’epoca bizantina e l’inizio del Novecento (epoca di diffusione dello stile liberty), medaglie, monete – all’interno del museo ve ne sono circa 50 mila – ed arte grafica (stampe e disegni). Ad occupare le sale del museo dedicate alla pittura sono soprattutto le opere di grandi pittori italiani come Tintoretto, Veronese e Guido Reni, ma non mancano anche lavori dei grandi maestri europei tra cui Rembrandt, Delacroix, Rubens, Manet, Matisse, Van Gogh, Gauguin e Cézanne.
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La Fontana Bartholdi Opera dello scultore francese Frédéric Auguste Bartholdi, dal quale prende il nome, la Fontana Bartholdi fu realizzata nel 1889 e eretta in Place des Terreaux nel 1892. La bella fontana era inizialmente destinata alla Place des Quinconces di Bordeaux: nel 1857 l’allora giovanissimo Bartholdi aveva vinto il concorso indetto dal Consiglio della città di Bordeaux aggiudicandosi la possibilità di progettare l’opera, ma lo stesso Consiglio aveva poi rifiutato il progetto. Dopo la realizzazione, da parte dell’architetto, della Statua della Libertà di New York nel 1886, tuttavia, Bordeaux aveva richiesto l’intervento di Bartholdi per la realizzazione della fontana; l’opera, però, risultava ormai troppo costosa per le tasche della città di Bordeaux, e fu così che venne venduta a Lione perchè andasse a decorare la splendida Place des Terreaux dove sorge ancora oggi. Classificata Monumento storico nel 1995, la Fontana Bartholdi raffigura una donna seduta su un carro attaccato a quattro cavalli selvaggi. Presentata all’Esposizione Universale del 1889, l’opera è ricca di significato simbolico: la donna, infatti, rappresenta la Francia, mentre i cavalli imbizzarriti simboleggiano i quattro grandi fiumi francesi che vengono controllati attraverso redini e briglie.
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Per finire, è indispensabile recarsi presso il parco di Lione, Parc de la Tête d’Or. Il parc de la Tête d’Or (letteralmente, parco della Testa d’Oro), situato nel sesto arrondissement municipale di Lione, è un grande parco urbano francese.
mostra invita a risalire nel tempo fino al Big Bang, lungo un percorso che propone due approcci alla comprensione del mondo: uno illustrato dalle collezioni delle scienze naturali, delle scienze e delle tecniche, l’altro illustrato dalle collezioni etnografiche e contemporanee.
Il parco ha un’estensione di 105 ettari, che lo rende il più grande parco urbano della Francia. Il nome deriva da una leggenda secondo la quale, in questo terreno, sarebbe sepolta una testa d’oro. Rappresenta una meta frequente per chi pratica attività sportive quali jogging e ciclismo: fra le sue attrezzature sportive vi sono un velodromo, un campo da bocce, un mini-golf. Inoltre è dotato di un grande lago su cui è possibile andare in barca e di uno zoo in cui vivono 800 animali. Tra questi vi sono 270 mammiferi, 80 rettili, 200 uccelli. In tale struttura vengono effettuati studi scientifici in ambito della conservazione.
LE SPECIE, IL TESSUTO DEL VIVENTE L’articolazione fra ciò che è stata chiamata “umanità” e l’animalità, è una preoccupazione universale. La mostra interroga il modo in cui gli esseri umani si rappresentano il mondo, e vi si integrano, contribuendo a modificarlo. Gli esseri viventi, umani e non, tessono nel mondo una rete di legami variati, un ordito in cui tutto è connesso e correlato. Il percorso si sviluppa in modo naturale attraverso questi legami, rappresentati da 27 km di corde. Questa scenografia, interamente metaforica, rende inoltre tangibili i legami asimmetrici che uniscono le diverse specie del mondo vivente.
Per gli amanti della Lione moderna, la direzione è verso il lungofiume del Rodano, tra grattacieli, fiere e centri congressi, il luogo più adatto per fare business e affari in Francia. Della Lione moderna fa anche parte il nuovissimo “Musée des Confluences”. Situato nella punta della penisola lionese, il musée des Confluences beneficia di un’architettura eccezionale. Come un segnale all’entrata sud della metropoli, questa struttura audace è stata concepita dall’agenzia Coop Himmelb(l)au. La Nuvola, il cuore del museo, accoglie i 5000 m2 delle mostre permanenti e temporanee. Dall’alto dei suoi 33 metri di vetro, il “Cristal” è la hall monumentale del museo. Invaso dalla luce, il suo Pozzo di Gravità è il punto di partenza della visita. I dintorni del museo sono allestiti allo scopo di favorire momenti di evasione e di relax. Attorno al laghetto, dei sentieri conducono fino al giardino di 24400 m2. Questo spazio verde, delimitato dai corsi d’acqua, il Rodano e la Saona, permette di accedere alla punta della confluenza. Sul tetto del museo, la terrazza offre una vista panoramica eccezionale su Lione e i dintorni, che culmina con la catena delle Alpi e il Monte Bianco. Il musée des Confluences è un luogo vivace e durante tutto il corso dell’anno propone attività per tutti, che si rifanno alle mostre permanenti e temporanee. Il percorso permanente racconta la storia dell’uomo e della vita. Inedito all’interno del panorama dei musei europei, esso permette un dialogo fra tutte le scienze allo scopo di comprendere meglio il mondo. Il percorso è suddiviso come segue:
ORIGINI, I RACCONTI DEL MONDO Noi tutti condividiamo, sull’intero pianeta, i medesimi interrogativi riguardo all’origine del mondo e al nostro ruolo in esso. Numerosi racconti, provenienti dalle società inuit, aborigena, cinese e dal mondo indianizzato forniscono interpretazioni degli inizi dell’Universo, della vita o dell’umanità. Allo stesso tempo la scienza non cessa di interessarvisi. La
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LA SOCIETÀ, IL TEATRO DEGLI UOMINI L’essere umano è un migrante che si assomiglia, si ferma in uno spazio temporale e forma società, culture e civiltà. La mostra esplora queste modalità di funzionamento, a partire da tre costanti: l’organizzazione, lo scambio e la creazione. La scenografia crea un paesaggio inedito che risveglia la curiosità attraverso l’accostamento e il dialogo fra oggetti provenienti da culture ed epoche lontane fra loro.
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MUSÉE DES CONFLUENCES BOUCHONS Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Fête des Lumières
Ormai è un’istituzione a Lione, la Festa delle Luci è l’occasione per riscoprire la città da un nuovo punto di vista, artistico e festaiolo.
e, spontaneamente, i lionesi, in segno della loro adorazione alla Vergine, illuminarono con lampioncini le facciate delle proprie case
Un assaggio della magia del Natale, a qualche giorno dal periodo di festività della fine dell’anno. Da oltre 30 anni, ogni anno all’inizio del mese di dicembre, la città di Lione si accende in un’esplosione di colori e luci. Le vie, le piazze e le facciate dei monumenti emblematici accolgono le installazioni artistiche realizzate da artisti, designer e video maker.
e scesero nelle strade, cantando cantici e gridando “Viva Maria” fino a tarda notte. Quell’evento è all’origine della Festa delle luci.
Questa tradizione ha origine nel 1643, quando i cittadini di Lione avevano fatto voto alla Vergine Maria affinché proteggesse la città dalla peste. Tanta gente morì, allora i consiglieri della città (échevin in francese) e i notabili fecero voto alla Vergine di salire ogni anno sulla collina di Fourvière per renderle omaggio se fosse cessata l’epidemia. Quell’anno l’epidemia si fermò a Lione e un solenne corteo municipale composto da consiglieri e notabili si recò dalla cattedrale di SaintJean alla collina di Fourvière fino ad una piccola cappella per offrire alla Vergine ceri e offerte per ringraziarla della sua protezione. La cappella fu costruita nel 1168 e fu chiamata Cappella SaintThomas di Cantorbery dopo la morte dell’arcivescovo. I pellegrinaggi si moltiplicarono e la cappella, pur essendo stata ampliata, diventò troppo piccola. I pellegrinaggi continuano ancora oggi, infatti, il sindaco e gli eletti vi si recano ogni anno per ripetere il voto dei consiglieri dell’epoca. Nel 1830 il campanile della piccola cappella, andando in rovina, fu demolito. Ne fu ricostruito uno sul quale fu sovrastata una statua dorata della Vergine realizzata dallo scultore Joseph-Hugues Fabisch che aveva vinto il concorso per la sua costruzione. L’8 settembre del 1852, giorno della festa della natività di Maria, doveva essere inaugurata la nuova statua. Ma un’alluvione della Saône impedì che la statua fosse pronta in tempo e la data dell’inaugurazione venne spostata all’8 dicembre, festa dell’Immacolata concezione. La statua fu finalmente eretta sul campanile. Per la cerimonia erano previsti fuochi d’artificio dall’alto della collina accompagnati dalle fanfare delle bande musicali nelle strade. Ma a causa di un violento temporale che si abbatté su Lione, si decise di annullare i festeggiamenti. Il tempo tuttavia migliorò nel pomeriggio
Nel 1870, durante la guerra franco-prussiana, i lionesi fanno il voto di ampliare il santuario se la città fosse risparmiata dagli eserciti prussiani. La loro preghiera fu esaudita e nel 1872 fu cominciata la costruzione dall’architetto Pierre Bossan della basilica di Notre-Dame de Fourvière alla gloria della Vergine. Pierre Bossan ha voluto costruire un monumento che esprimesse la grandezza della fede, in particolare la fede potente della Vergine Maria. Dal 1852, la festa fu tenuta in seguito ogni anno. Secondo la tradizione ogni famiglia conserva insieme alle decorazioni di Natale le candele da mettere alla finestra dentro vetri colorati per l’8 dicembre. Questi vetri colorati e illuminati dalle candele si chiamano “lumignons”. A partire dal mese di novembre si possono trovare nei negozi queste piccole candele scanalate come torte insieme a vetri colorati. La sera dell’8 dicembre le candele sono accese e messe nei vetri posati davanti alle finestre. A partire dal 1989 la festa popolare è accompagnata da installazioni luminose proposte dal comune e curate da professionisti dello spettacolo, che si prolungano per più giorni. Questo spettacolo di luci ha fatto sì che la festa divenisse anche un’attrazione turistica, che attira numerosi visitatori ogni anno, pur mantenendo il suo carattere spontaneo e popolare grazie all’illuminazione delle facciate dei lionesi. La festa ha assunto un carattere sempre più internazionale, con la partecipazione di nomi illustri dell’illuminazione artistica. La sua durata si è prolungata a quattro giorni e le scenografie e gli spettacoli di luce si sono diffusi in tutti i quartieri della città, in ambientazioni tradizionali o insolite. Il 29 marzo del 2007 la festa ha ottenuto il premio per il “migliore evento per il grande pubblico nel 2006” nella prima edizione del premio di Heavent Sud, la fiera dei professionisti degli eventi. Giroinfoto Magazine nr. 38
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FESTA DELLE LUCI Barbara Lamboley photography Giroinfoto Magazine nr. 38
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Palazzo Aldobrandeschi Autore: Giuliana Mastromanno Luogo: Grosseto
Palazzo Aldobrandeschi si affaccia su Piazza Dante, nel cuore di Grosseto, ed è attualmente la sede della Provincia.
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