Giroinfoto magazine 40

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N. 40 - 2019 | FEBBRAIO, Gienneci Studios Editoriale. www.gienneci.it

N.40 -

www.giroinfoto.com

2019 Febbraio

IL RICETTO DI CANDELO BAND OF GIROINFOTO

TAOS PUEBLO NEW MEXICO Di Giancarlo Nitti

ORTA SAN GIULIO LAGO D’AUTORE Band of Giroinfoto

L’ULTIMO HUTONG PECHINO Di Iuri Camilloni Photo cover by Giancarlo Nitti


WEL COME

40 www.giroinfoto.com FEBBRAIO 2019


la redazione | Giroinfoto Magazine

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ANNO V n. 40

giroinfoto magazine

20 Febbraio 2019 DIRETTORE RESPONSABILE HEAD PROJECT MANAGER Giancarlo Nitti CAPO REDAZIONE Paolo Buccheri SEGRETERIA DI REDAZIONE E RELAZIONI Margherita Sciolti CAPI SERVIZIO Giancarlo Nitti

Lorena Cannizzaro Nadia Laboroi Floriana Speranza Giancarlo Nitti Annamaria faccini Margherita Sciolti Maddalena Bitelli Mariangela Boni Chiara Borio

REDATTORI E FOTOGRAFI Giancarlo Nitti Redazione Iuri Camilloni Reporter Sergio Agrò Reporter Monica Gotta Reporter Paolo Buccheri Reporter

LAYOUT E GRAFICHE Gienneci Studios

Band Of Giroinfoto - Torino Adriana Oberto Barbara Lamboley Barbara Tonin Manuel Monaco Fabrizio Rizzo Fabrizio Rossi Luca Agostino

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Questa pubblicazione è ideata e realizzata da Gienneci Studios Editoriale.

Tutte le fotografie, informazioni, concetti, testi e le grafiche sono di proprietà intellettuale della Gienneci Studios © o di chi ne è fornitore diretto(info su www.gienneci.it) e sono tutelati dalla legge in tema di copyright. Di tutti i contenuti è fatto divieto riprodurli o modificarli anche solo in parte se non da espressa e comprovata autorizzazione del titolare dei diritti. MEDIA PARTNER Instagram @Ig_piemonte @ Ig_valledaosta @Ig_lombardia_ @ Ig_veneto @ Ig_liguria @ Ig_emiliaromagna @cookin_italia @cookin_piemonte


INSIDE

Giroinfoto Magazine

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104 Indice 10

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TAOS PUEBLO New Mexico

A cura di Giancarlo Nitti

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LAGO DI ANNONE Tramonti invernali A cura di Sergio Agrò

36

PHNOM PENH Cambogia A cura di Monica Gotta

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CANDELO Il Ricetto Band Of Giroinfoto

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ORTA Lago d’autore Band of Giroinfoto

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L’ULTIMO HUTONG Pechino A cura di Iuri Camilloni

90 104

DONNAFUGATA Sicilia A cura di Paolo Buccheri


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Articoli pubblicati dagli utenti

Nuovi Reporters

Foto singole pubblicate

Copertura degli articoli sui continenti

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A cura di Giancarlo Nitti

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Taos Pueblo è l’unica comunità nativa americana vivente, resa patrimonio mondiale dall’UNESCO. Si trova a nord dello stato del New Mexico, a tre miglia da Taos Plaza. Le costruzioni “adobe”, sono state continuamente abitate per oltre 1.000 anni dagli indiani Taos , che vivevano in questa valle molto prima che Colombo scoprisse l’America e centinaia di anni prima che l’Europa emergesse dal Medioevo.

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PUEBLO E ADOBE I Pueblo sono una tipologia di villaggi realizzati storicamente dai popoli nativi americani nelle aree del Nuovo Messico e Arizona. La parola deriva dalla lingua spagnola e può significare indistintamente sia popolo che villaggio. Il Pueblo è costituito interamente di abitazioni adobe, cioè di strutture in mattoni realizzati con terra mescolata con acqua e paglia, essiccati al sole. Le loro pareti sono molto spesse, a volte anche diversi metri, mentre i tetti sono sostenuti da “vigas”, grandi travi in legno provenienti dalle foreste delle zone di montagna adiacenti. Le superfici esterne vengono continuamente mantenute stuccando con sottili strati di fango, mentre quelle interne sono accuratamente rivestite con sottili lavaggi di terra bianca per mantenerle pulite e luminose. Originariamente gli adobe non avevano porte e ingressi laterali, perchè era usanza accedervi dal tetto attraverso una scala. Ecco perchè nel caso di costruzioni a più piani, gli edifici assumevano un aspetto digradante. Un’altra caratteristica interessante di queste abitazioni sono i forni alveari in terracotta che funzionavano come cucina dall’esterno della casa.

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La storia del Pueblo di Taos è estremamente antica e complicata. Secondo gli stessi nativi Pueblo, che parlavano la lingua Tiwa, tramandata di generazione in generazione, il villaggio ebbe origine tra il 1000 ed il 1450, ma essendo un popolo molto introverso, non se ne ha la certezza storica. In lingua Tiwa, il nome Taos diventa “Tua-tah”, che significa “il nostro villaggio”. Ma l’intera comunità, si sviluppò nei secoli, solo dopo l’organizzazione della Rivolta dei Pueblo del 1680 e successivamente con l’assedio dell’esercito statunitense del 1847 e la restituzione agli indiani di ben 194 km² di montagne da parte del presidente Richard Nixon nel 1970. Quelle terre erano state confiscate dagli Stati Uniti durante la presidenza di Theodore Roosevelt e nei primi anni del ventesimo secolo, vennero trasformate in un

parco nazionale denominato “Carson National Forest”. La restituzione delle terre ingiustamente confiscate alla tribù comprendeva anche il mitico “Blu lake”, che gli antichi Pueblo consideravano religiosamente sacro. I pueblo, considerano ancora tutt’oggi, la restituzione del lago sacro tra gli eventi più importanti della loro storia a causa delle convinzioni religiose secondo le quali i Taos sarebbero nati dal lago stesso. La maggior parte degli archeologi, ritengono che gli indiani Taos, si stabilirono lungo il Rio Grande, provenendo dalla regione dei Four Corners. Le abitazioni di quella regione erano degli Anasazi e si pensa che una lunga siccità della fine del XIII secolo, possa aver causato il loro trasferimento nella zona del Rio Grande, dove l’approvvigionamento idrico era più generoso.

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La più interessante costruzione del Pueblo di Taos è un complesso residenziale di case costruito e diviso in due dal fiume Rio Pueblo. Gli edifici della parte settentrionale sono tra i più colorati e fotografati dell’emisfero occidentale ed è la più grande struttura Pueblo ancora in piedi e tuttora abitata, anche se in modo singolare rispetto ai tempi di oggi, infatti, all’interno delle abitazioni sono vietate la corrente elettrica e le tubature e come mobilio sono permessi unicamente sedie e tavoli. Il fiume scorre attraverso il Pueblo fornendo anche una fonte per bere e cucinare. Oggi, all’interno della comunità si praticano tre religioni:

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Il cristianesimo, la religione originaria degli indigeni e la Native American Church. Buona parte degli indiani sono cattolici e San Geronimo, o Saint Jerome è il patrono comunale. L’intero anglomerato abitativo gode del programma di conservazione del pueblo di Taos, ricevendo dei fondi dal dipartimento per lo sviluppo urbano degli Stati Uniti. Detti fondi, hanno lo scopo di assumere lavoratori formati nelle tecniche di costruzione tradizionali per i lavori di conservazione e restauro, occupandosi anche di finanziare le attività di controllo del patrimonio culturale, che ha rischiato di estinguersi nella prima metà del ‘900.


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Può capitare che durante l’anno si verifichino chiusure dell’intero villaggio a causa di funzioni religiose, soprattutto per i funerali, nei quali l’intera comunità si aggrega per diversi giorni isolandosi dal mondo esterno. Il consiglio, quindi è di monitorare il sito istituzionale www.taospueblo.com, prima di procedere con la visita in loco. Durante le visite, all’interno del Pueblo, vi sono regole ferree da rispettare, imposte dalla comunità per tutelare la loro privacy e cultura religiosa. Si può circolare liberamente attraverso il villaggio, ma alcune zone sono segnalate con cartelli “Restricted Area”perchè sono designate per proteggere la privacy dei residenti e dei siti di pratiche religiose native. Ovviamente è vietatissimo entrare in case che non sono chiaramente contrassegnate come attività commerciali da un cartello o un’insegna.

Non è permesso inoltre fotografare membri tribali senza permesso ed è vietato riprendere la cappella di San Geronimo. All’interno del Pueblo vi è anche un cimitero a cielo aperto, protetto da un muro di cinta. Esso contiene le rovine dell’antica chiesa ed è per la comunità un luogo sacro dove non sarà possibile l’ingresso. Il fiume è accessibile ma non è consentito bagnarsi o entrarvi perchè per il villaggio è l’unica fonte di acqua potabile. La visita è a pagamento (circa 16 dollari) La fotografia è consentita con una tassa accessoria variabile a seconda delle dichiarazioni dell’operatore, ( se turista o professionista), per ogni fotocamera o cinepresa.

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A cura di sergio Agrò “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...â€? Eh no, non siamo proprio sullo stesso lago del Manzoni, ma in uno dei suoi laghi che formano la base del triangolo Lariano.

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Tra il ramo di Lecco e quello di Como ci sono cinque piccoli laghi di origine glaciale: il lago di Annone, il lago di Pusiano, il lago del Segrino, il lago di Alserio e quello di Montorfano. Siamo in Lombardia, nell’alta Brianza e voglio raccontare la mia esperienza fotografica sul lago di Annone. Per chi come me è sempre vissuto in Brianza, conosce questo lago come il “lago di Oggiono”, credo di non averlo mai chiamato “il lago di Annone”, ma queste sono solo piccole abitudini dei locali e per assurdo ci saranno persone che conosco il lago di Oggiono ma non quello di Annone. Con lo sviluppo industriale degli anni settanta e la poca coscienza ambientale, il lago di Oggiono era un lago molto inquinato, ricordo che da piccolo la maestra ci raccontava che il lago di Oggiono era uno

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dei peggiori d’Italia: puzzava e le acque erano sporche e senza pesci. Questo non ha aiutato di certo la sua crescita a livello turistico. Il lago era quindi abbandonato e intorno a lui solo le cime delle prealpi lecchesi. Oggi il lago di Annone non è più quel lago di Oggiono che ricordavo da piccolo. Il rispetto per l’ambiente, l’inquinamento volontario dell’uomo drasticamente diminuito, hanno permesso una rinascita del lago. Oggi il lago è un esempio di come la natura col tempo vince e se oggi il lago è diventato una meta turistica allora vuol dire che è stata una vittoria magica, e la magia, a mio parere, la dobbiamo ammirare durante i tramonti invernali.


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E’ giunto quindi il momento di parlare di fotografia e come poter trovare quei punti di ripresa per uno scatto d’impatto. Il mio primo consiglio è quello di andare ad ammirare il lago dall’alto, sono numerosi i punti dove poterlo fare ma il più comodo e secondo me il migliore, resta quello di salire sul Monte Barro; seguendo le indicazioni di Sala al Barro si arriva al monumento degli Alpini, qui siamo su una delle terrazze più panoramiche della Lombardia. Durante i tramonti invernali il sole riflette e brilla sui nuovi grattacieli dello sky line di Milano, mentre sotto di noi possiamo ammirare in sequenza i laghi briantei, partendo dal nostro lago di Annone, per poi vedere bene il lago di Pusiano e se siano fortunati riusciamo ad intravedere anche il lago di Alserio e Montorfano. Questa terrazza è davvero perfetta per chi vuole scattare una foto panoramica durante il tramonto ed è anche molto comoda per poter piazzare il treppiede se si vuole fare una lunga esposizione durante la “blue hour”, in questo caso le scie delle auto lungo le strade statali intorno ai laghi completeranno la magia della vostra fotografia.

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Una volta visto il panorama dalla cima del Monte Barro è facile intuire come i tramonti invernali siano perfetti per questo lago, solo in questo periodo il sole cala all’orizzonte, nel periodo estivo invece calando dietro le montagne l’effetto è minore. Ecco perché è difficile allontanarsi davanti ai tramonti invernali: si rimane senza parole davanti ai laghi tra i colori caldi del tramonto. Tanto il lago è bello visto dall’alto, quanto lo è vicino alla sua riva. Dalla mia esperienza posso dire che quasi tutto il lago è perfetto per essere fotografato e in qualsiasi stagione.

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Facilmente si possono trovare questi punti di ripresa grazie alla “circumcamminata” del lago: un percorso naturalistico intorno alle rive del lago, adatto a tutte le età e dove si possono fare incontri con specie di uccelli difficilmente visibili in città ma soprattutto si possono vedere esseri viventi con delle macchine fotografiche che riprendono gli angoli più nascosti del lago. A parte gli scherzi si resta davvero incantati durante un volo di un airone o mentre una folaga atterra sulle acque, ogni tanto può capitare di vedere dei cerchi che si formano sulla superficie dopo il salto di un pesce.


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In ogni caso il mio consiglio per riprendere un tramonto speciale è quello di posizionarsi in zona Civate o Sala al Barro. In questi punti al tramonto arriva la magia: il vento non soffia più e le acque calmandosi sono uno specchio naturale che riflettono tutto il paesaggio intorno a noi. E’ l’ora del tramonto, l’ora in cui il cielo prende fuoco e i colori caldi si riflettono sulle acque, inizia così lo spettacolo di madre natura. Quindi cavalletto, diaframmi chiusi, tempi adeguati e se serve qualche filtro, siamo così pronti a rilassarci davanti al nostro tramonto invernale. Per un lungo periodo il lago è restato solo e non ha potuto condividere con nessuno questo spettacolo, ma oggi ha ripreso la scena e nel suo palcoscenico ogni sera regala a tutti noi uno spettacolo unico, che non ci stancheremo mai di ammirare.

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CAMBOGIA

A Cura di Monica Gotta

Phnom Penh

e il Tuol Sleng Genocide Museum

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Negli ultimi anni il popolo cambogiano ha intrapreso un percorso di crescita economica e soprattutto di apertura con il turismo internazionale. Questo impegno li ha portati a mostrare con orgoglio i suoi preziosi tesori che per lungo tempo erano stati quasi dimenticati. Phnom Penh, la capitale della Cambogia, si può raggiungere con diversi voli aerei oppure giungendo da Siem Reap dopo aver visitato le attrazioni della zona, anche con i mezzi pubblici. E’ la capitale politica ed economica della Cambogia e capoluogo del municipio di Phnom Penh. Importante porto fluviale la città è adagiata sulle sponde del fiume Mekong, nel sito dove vi confluisce il Tonlé Sap e dove si dirama il fiume Tonlé Bassac. Con i suoi due milioni di abitanti Phnom Penh è inoltre la città più vasta e popolosa del Paese e maggiore centro commerciale e culturale. Offre diversi spunti a chi la visita, dal patrimonio storico ai luoghi di divertimento e una buona selezione di piatti tipici da assaggiare assolutamente in un folto panorama di ristoranti.

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Attorno al 1440, quando Angkor venne abbandonata, Phnom Penh diventò la nuova capitale poiché era in posizione più difendibile dalle incursioni del regno siamese e facilitata nei commerci per la vicinanza del fiume Mekong. Nel 1772 venne rasa al suolo dai thailandesi e nel 1863 venne conquistata dai francesi. Nel 1975 i khmer rossi, con a capo Pol Pot, attuarono una politica di “socialismo agrario”, evacuando tutti i cittadini dalle città alle campagne in fattorie comuni e sterminando senza pietà ogni oppositore del regime. Phnom Penh venne trasformata in una città fantasma.

Nel Natale del 1978 duecentomila vietnamiti invasero la Cambogia, conquistarono Phnom Penh e cacciarono Pol Pot con i suoi fedelissimi nelle foreste al confine con la Thailandia. Solo negli anni ’90 Phnom Penh ha iniziato a riprendersi ed ora si presenta come una splendida città dalle pagode dorate adagiata sulle sponde del Mekong, quasi a voler rivendicare il vecchio appellativo di “Perla dell’Asia”. La città è oggi una meta turistica di discreta importanza ed è rinomata per la sua architettura, che risente sia dello stile tradizionale khmer sia di quello ereditato durante la dominazione coloniale francese.

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Le maggiori attrazioni turistiche di Phnom Penh sono il Palazzo Reale, la Pagoda d’Argento, il museo del genocidio Tuol Sleng, il Wat Phnom, il Monumento dell’Indipendenza, il Monumento dell’amicizia fra Cambogia e Vietnam e il Museo Nazionale. Quest’ultimo, costruito nel 1917 in stile tradizionale di Khmer, disegnato da George Groslier e Ecole Des Arts Cambodgiens, venne inaugurato nel 1920 dal Re Sisowath. Il museo espone gli artefatti archeologici e religiosi, gli antichi capolavori artistici del popolo di Khmer dal IV secolo al XIII secolo. Con più di 5.000 artefatti, il museo contiene la ricchezza della cultura del paese. Fuori dalla città c’è il Centro del Genocidio Choeung Ek, il luogo dove i Khmer Rossi hanno ucciso milioni cambogiani negli anni ‘70 del XX secolo. Qui si trovano una chiesa, le fosse comuni e una torre che mostra centinaia di ossa e teschi delle vittime.

Davide Tagliarino Photography

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Il Palazzo Reale è stato costruito dopo aver spostato la capitale da Oudong a Phnom Penh nel XIX secolo sotto il regno di re Norodom. Viene utilizzato al fine di servire la vita dei Re e della famiglia imperiale nonché per accogliere visitatori stranieri; è il luogo dove si svolge il galateo diplomatico e le cerimonie reali. Vicino al palazzo vedrete la Pagoda D’Argento dove è ospitata la grande statua di Buddha di smeraldo fatto di cristallo di Baccarat, un Buddha d’oro intarsiato di diamanti e altre rappresentazione di Buddha. Il nome della Pagoda D’Argento deriva dalle 5000 piastrelle d’argento che pesano quasi 1 kg l’una. Caratterizzato dai classici tetti khmer e da ricche decorazioni dorate, il Palazzo Reale domina il panorama di Phnom Penh. E’ una struttura imponente situata vicino al lungofiume e, osservandolo con attenzione, si può notare una somiglianza con quello di Bangkok. Essendo la residenza del Re Sihamoni alcune parti del palazzo sono chiuse ai visitatori che possono ammirarne solamente la sala del trono e un gruppo di palazzi vicini.

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Arrivando in vista di Wat Phnom, ci si imbatte nei giardini finemente adornati di fiori e dal grande orologio dorato adagiato sul prato. Di grande effetto è l’enorme “naga” (serpente) costruito con fibre vegetali intrecciate. Dietro di esso si scorge il grande stupa bianco e l’ingresso principale è accessibile tramite la grandiosa scalinata esterna protetta da balaustre decorate con leoni e naga. La pagoda di Wat Phnom è una delle più importanti a Phnom Penh. È stata costruita nel 1373 su ordine di una vedova ricca su una collina artificiale. Si dice che la nascita di Wat Phnom sia legata all’origine della città di Phnom Penh. Il santuario è stato ricostruito diverse volte durante i secoli. Visitare questa pagoda ed ascoltare la sua leggenda aiuta a capire meglio la religione di questo paese. E’ uso comune entrare per pregare e per chiedere alle divinità un pò di fortuna nella vita. Se il desiderio viene esaudito, le persone tornano con le offerte promesse al tempo, come ghirlande di fiori.

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La visita più sentita del tour cittadino è quella al Tuol Sleng Genocide Museum . E’ il luogo dove i Khmer Rossi hanno imprigionato e hanno ucciso tanti cambogiani innocenti. Vedrete le celle, gli strumenti di tortura, scheletri e testimonianze fotografiche che mostrano la crudeltà del regime di Pol Pot. L’idea era quella di rendere la Cambogia una nazione agricola autarchica, priva di un’economia basata sul denaro e del tutto estranea alle influenze occidentali. Un noto giornalista e scrittore, Tiziano Terzani, visitò più volte il Paese tra il 1972 e il 1994. Ha lasciato diversi articoli riguardanti la Cambogia. Per intraprendere questo viaggio e “l’incontro con la storia” di questo paese è utile leggere qualcosa per comprendere ciò che poi vedrete con i vostri occhi e vivrete di persona. Conoscerete una parte buia e turbolente nella storia di Cambogia ed un giusto background culturale che renderà la vostra visita più consapevole. Un tempo il Tuol Sleng Genocide Museum era l’edificio sede di una Scuola Superiore ribattezzata Ufficio di Sicurezza 21 (S-21) dal regime comunista dei Khmer Rossi dalla loro ascesa al potere nel 1975 alla loro caduta nel 1979. “Tuol Sleng” in lingua khmer significa “collina degli alberi velenosi”; nella sigla “S-21”, S sta per Sala e 21 è il codice del Santébal, la Polizia di sicurezza.

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La costruzione fu mutata in prigione dall’interno: gli edifici furono racchiusi all’interno di un recinto di filo spinato elettrificato, le classi trasformate in minuscole celle e camere della tortura e tutte le finestre furono sbarrate con assi di ferro e filo spinato. Altre stanze contengono solo brande arrugginite, con una fotografia in bianco e nero che mostra la stanza come è stata trovata dal vietnamiti. Dal 1976 al 1979 a Tuol Sleng furono imprigionate circa 17.000 persone, si dice anche 20.000. Nel 1979 la prigione fu scoperta durante l’invasione dall’esercito vietnamita. Nel 1980 la prigione venne convertita in un museo perché testimoniasse le azioni del regime dei Khmer Rossi. Il museo è aperto al pubblico, e riceve una media di 500 visitatori al giorno. Alcune stanze del museo sono oggi tappezzate, dal pavimento al soffitto, con le foto in bianco e nero di alcuni dei circa 20.000 internati che hanno popolato la prigione. Di tutti i prigionieri incarcerati, solo sette sopravvissero, in quanto ritenuti utili alla causa del Partito. Nel 2009 l’UNESCO ha inserito il museo nell’Elenco delle Memorie del mondo.

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Questa foto riporta il regolamento del carcere: 1. Devi rispondere attenendoti alla mia domanda. Non tergiversare. 2. Non cercare di occultare i fatti adducendo pretesti vari, ti è severamente vietato contestarmi. 3. Non fare il finto tonto, perchĂŠ sei un controrivoluzionario. 4. Devi rispondere immediatamente alle mie domande senza sprecare tempo a riflettere. 5. Non parlarmi delle tue piccole azioni immorali o dell’essenza della rivoluzione. 6. Non devi assolutamente piangere mentre ricevi l’elettroshock o le frustate. 7. Non fare nulla, siediti e attendi i miei ordini. Se non ci sono ordini, rimani in silenzio. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi eseguire immediatamente senza protestare. 8. Non inventare scuse sulla Kampuchea Krom per nascondere i tuoi segreti da traditore. 9. Se non segui tutte le regole succitate, riceverai moltissime frustate con il cavo elettrico. 10. Se disubbidirai ad una sola delle mie regole riceverai dieci frustate o cinque scosse elettriche.

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Concludo con una nota insolita per tornare ad uno stato d’animo gioioso e chiudere questo tour da turisti curiosi. Si narra una leggenda di come nacque Phnom Penh. Un giorno, tanto tempo fa, un’anziana signora camminando lungo le rive del Mekong vide qualcosa che galleggiava sulle acque limacciose. Era un tronco d’albero che, portato dalla corrente, si avvicinava alla sponda. Non appena il legno toccò terra, la donna trovò al suo interno quattro statue di Buddha. Allora, per metterle al riparo, costruì una collina di pietre e vi sistemò il suo tesoro. La signora si chiamava Penh. Fu lei a creare, o forse più semplicemente a scegliere come nascondiglio per le statue, la collina che in Khmer si dice Phnom. Nacque così, secondo la leggenda, la capitale della Cambogia: Phnom Penh. Buona visita e buon viaggio!

Monica Gotta

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FotograďŹ e a cura di Adriana Oberto Annamaria Faccini Barbara Lamboley Barbara Tonin Chiara Borio

Fabrizio Rizzo Fabrizio Rossi Floriana Speranza Giancarlo Nitti Luca Agostino

Manuel Monaco Maddalena Bitelli Mariangela Boni Nadia Laboroi

IL RICETTO DI CANDELO Testi di Lorena Cannizzaro Giroinfoto Magazine nr. 40


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In collaborazione con

Comune di Candelo

LA COSIDDETTA POMPEI MEDIEVALE DEL BIELLESE “Quale mastice tiene insieme queste pietre? Ancora oggi, dopo mille anni, lo sento nelle mie ossa fatte di ciottoli e mattoni, tra le rue e le chintane, e qua e là tra i merli ormai sbrecciati delle torri... Sento questa forza che mi pervade... e d’un tratto li rivedo: donne, uomini, chini sul greto del torrente Cervo... raccolgono ciottoli e con fatica mi costruiscono... ognuno di questi sassi sarà presto parte di me. È una malta invisibile quella che mi àncora a questa Terra... eppure è potente: è fatta di sogni, di lavoro, di fierezza contadina.” Tratto da: Il Ricetto di Candelo Terra e Paese (DVD su Candelo: regia di Manuele Cecconello)

Fabrizio Rizzo Photography

Tra i borghi più belli del Piemonte e d’Italia bisogna sicuramente menzionare quello di Candelo, comune di poco più di 7 mila abitanti situato nella provincia di Biella. Il piccolo borgo piemontese è conosciuto soprattutto per il suo Ricetto bassomedievale, una particolare struttura fortificata tipica di tale periodo storico. In un’epoca di saccheggi, pericoli e incertezze, alcuni borghi (attestati in particolare nella zona del Piemonte e dell’Europa Centrale) si dotarono di un sito fortificato, chiamato appunto “ricetto”, in grado di assicurare la protezione di beni e viveri come formaggi, vini, farina e cereali appartenenti al signore locale e alla stessa popolazione del luogo. In determinate occasioni, quando si presentava il pericolo di un attacco esterno, il ricetto fungeva anche da rifugio per la stessa popolazione. Il Piemonte ha la fortuna di ospitare uno dei ricetti medievali meglio conservati d’Italia e d’Europa. Il Ricetto di Candelo è una struttura fortificata sorta a cavallo tra XIII e XIV secolo per iniziativa e volontà della popolazione candelese allo scopo di conservare e difendere i beni più preziosi della comunità, i tesori della terra, soprattutto vino e granaglie. Oggi questo sito ospita per tutto l’anno iniziative turistico-culturali, a partire da mostre temporanee, esposizioni e conferenze, mercatini di prodotti enogastronomici ed eventi di grande richiamo regionale e nazionale. Il borgo medievale del Ricetto si può definire pertanto come un luogo di eccellenza culturale e turistica, da cui si dipanano diversi percorsi e progetti museali utili per riscoprire il Medioevo del Piemonte orientale, secondo il suo aspetto più realistico ed emozionante. Giroinfoto Magazine nr. 40


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Annamaria Faccini Photography

Sporadici ritrovamenti di epoca romana nell’area dell’attuale via Isangarda permettono di stabilire che l’area dove oggi sorge il ricetto di Candelo ebbe una frequentazione già nel I sec. d. C. Il toponimo Canderium, invece, pare comparire per la prima volta in un documento del 988 con cui l’imperatore Ottone III confermava la concessione dei beni ottenuti dal conte Aimone da parte di Ottone I nel 963, a favore del figlio di questi Manfredo. Successivamente Candelo, a partire dal diploma di Ottone III del 7 maggio 999, figura in numerose occasioni tra i beni confermati dai sovrani alla Chiesa vercellese. I documenti permettono di cogliere nel XII secolo la presenza, come proprietari o affittuari di beni e terreni in Candelo, di diverse importanti famiglie signorili o enti religiosi. Tra questi spicca la famiglia Vialardi, che dal 4 dicembre 1147 risulta in possesso di beni ed appezzamenti nel territorio, e che vedrà crescere proprietà, interessi ed influenza nei secoli seguenti, anche grazie alle loro aderenze e parentele (ad esempio il monastero di S. Pietro di Lenta, il capitolo di S. Eusebio di Vercelli e l’ospedale di S. Andrea di Vercelli). L’area in questione pare inoltre marginale rispetto agli interessi del comune di Vercelli che, proprio in quegli anni, stava potenziando la propria politica nel contado. In queste prime menzioni tuttavia non risulta attestata alcuna fortificazione e per il territorio si può probabilmente delineare una situazione frammentata, con l’assenza di un potere forte. Giroinfoto Magazine nr. 40

LA STORIA L’ampliamento delle basi patrimoniali dei Vialardi in Candelo durante il XIII secolo pare un tentativo di acquisire l’egemonia sul territorio per giungere forse alla costruzione di una signoria in quest’area del Biellese. Parallelamente venne però strutturandosi anche l’istituzione comunale: nel 1285, per la prima volta, i consoli, credendari e vicini elessero due procuratori che li rappresentassero in eventuali cause o controversie. Queste due spinte contrapposte portarono presto a tensioni. Già nel 1295, infatti, i due rappresentanti ebbero l’incarico di difendere in tribunale un imprecisato numero di candelesi che erano stati accusati da alcuni membri della famiglia Vialardi. Nel 1340, una più ampia lite oppose trentuno uomini di Candelo, tenementarii di terre e beni del capitolo di Sant’Eusebio di Vercelli, a Francesco Vialardi, proprio relativamente a queste proprietà che quest’ultimo


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Chiara Borio Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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IL

RICETTO

DI CANDELO

Adriana Oberto Photography

riteneva di sua spettanza “ex iustis titulis et decanis” e per i quali chiedeva fosse fatto un consegnamento.

tra il 15 aprile 1342 e il 4 marzo 1343 nel castello di Ysengarda, di proprietà dei Vialardi, posto a poca distanza da Candelo.

Gli arbitri nominati per l’occasione si espressero in totale favore del Vialardi, riconoscendo i suoi diritti sulle pertinenze riservate alla chiesa vercellese nel villaggio di Candelo e stabilendo i termini precisi e l’affitto che annualmente dovevano annualmente pagare i candelesi. Nell’arbitrato veniva inoltre disposto che i candelesi non potevano costruire “aliquam novam fortaliciam sive novum castrum” sulle terre della chiesa senza il consenso di Francesco Vialardi.

Nel testo si hanno le prime due menzioni note del Ricetto: «[...] iusta ecclesiam sancte marie coheret ab una parte fossatum receti» e «[...] in fossato receti». Questi dati confermano la datazione archeologica del fossato del Ricetto, basata sul rinvenimento nel cavo di fondazione dello stesso, di una moneta di Luchino Visconti, signore di Milano (1339-1349). È possibile che la cessione dei terreni alla comunità da parte dei Vialardi che, secondo la tradizione, fu alla base della costruzione del Ricetto, sia avvenuta addirittura verso il 1335. Nei contrasti tra i feudatari e la comunità, proseguiti negli anni seguenti, si nota un graduale prevalere di quest’ultima, specie dopo la sottomissione ai Savoia, avvenuta tra il 1373 e il 1374.

Alcuni ritengono che l’aggettivo novum presupponga l’esistenza di una fortificazione precedente, identificata con lo stesso Ricetto23, che gli uomini di Candelo avevano probabilmente costruito (o almeno un primo nucleo degli edifici) senza il permesso dei Vialardi. Il consegnamento previsto dall’arbitrato avvenne Giroinfoto Magazine nr. 40


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Nadia Laboroi Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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IL RICETTO

CARATTERISTICHE E LOCALIZZAZIONE

Manuel Monaco Photography

Il Ricetto di Candelo è un nucleo fortificato di forma pseudo-pentagonale (118 x 130 m circa, superfice 13.000 mq circa) con vertice a sud. Situato al limitare di un terrazzamento naturale, il suo lato settentrionale è naturalmente difeso da pendii che scendono verso il vicino torrente Cervo. Il nucleo risulta completamente circondato da un muro di cinta, realizzato soprattutto in ciottoli disposti a spina di pesce, al quale si può accede esclusivamente tramite una torre a pianta quadrata, posta isolata sul fianco sud-occidentale verso l’abitato, la quale si caratterizza per la presenza di massi squadrati nella parte inferiore e mattoni nella sua parte superiore e per le due aperture, una più grande per i carri e una più piccola per i pedoni, chiuse da altrettanti ponti levatoi. L’impianto presenta anche quattro torri angolari circolari e, a metà del lato orientale, a protezione

di uno scarico, un’ulteriore torre a pianta quadrata, chiamata “Torre di cortina”. Nell’angolo nord-occidentale del Ricetto, inglobato negli edifici più recenti, trova invece posto la cosiddetta “Torre della gogna”, probabile residuato di una cinta muraria più antica che doveva proteggere una superficie inferiore. All’interno dell’area fortificata si trovano circa duecento piccole cellule edilizie a due piani, denominate “cantine”, “cellule” o “celle”, accorpate senza soluzione di continuità in nove isolati a doppia manica, divisi per lungo da stretti vicoli chiamati “riane” o “quintane” aventi funzioni di scolo delle acque piovane e rifiutaia. Le cinque vie interne del Ricetto, orientate est-ovest e disposte parallelamente fra loro, sono, invece, denominate “rue”.

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IL

RICETTO

DI CANDELO Tra la cinta muraria e le cantine, originariamente, si trovava uno spazio vuoto denominato via di lizza, oggi questo è visibile solo nel settore orientale. Le cellule edilizie, generalmente a due piani fuori terra, sono composte da due vani unici sovrapposti, non comunicanti fra loro. Il piano inferiore (“caneva”), più umido, al quale si accedeva tramite un portale, veniva utilizzato come cantina per le derrate alimentari ed il vino, la parte superiore (“solarium”), meno umida, alla quale si accedeva invece grazie ad una porticina, veniva impiegata come deposito delle granaglie o alloggio temporaneo per la popolazione in caso di guerra. In mancanza di scale interne il collegamento tra i due vani doveva avvenire con scale a pioli in legno appoggiate all’esterno, operazione facilitata, in alcuni casi, dalla presenza di balconi lignei, chiamati “lobbie”.

Le cellule risultano prevalentemente realizzate con una muratura in ciottoli fluviali disposti ordinatamente a spina di pesce e legati da malta, con spigoli realizzati con blocchi squadrati di diorite ricavati dal taglio di massi più grandi della stessa provenienza. Elementi dello stesso genere ma di dimensione maggiore sono in alcuni casi visibili come basamento delle strutture, altrimenti prive di fondamenta. Alcune parti specifiche delle murature, come ad esempio le aperture, e le porzioni più recenti delle strutture sono, invece, realizzate in laterizi, dei quali sono visibili all’interno del Ricetto una vasta tipologia. I portali di accesso alle cellule sono, in alcuni casi, interamente realizzati in pietra, con tre conci lavorati a formare l’arco e blocchi rettangolari

Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Maddalena Bitelli Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Barbara LamboleyPhotography

come stipiti, con l’interposizione di un elemento litico posto di piatto. Quando, invece l’incorniciatura dei portali è in laterizio, l’arco è costituito da una doppia ghiera, quella più interna di fascia e, l’altra, di punta. L’unico elemento fuori scala dell’intero tessuto edilizio, che raggiunge anche i quattro piani, è la cosiddetta “Casa o Palazzo del Principe”, che si incontra sulla desta, appena superata la torreporta. Considerato come il “Ricetto per antonomasia”, come viene sovente definito, è stato al centro di numerosi contributi ed indagini scientifiche sin dal XIX secolo. Inoltre, nel corso degli anni, sono state realizzate su questo specifico sito numerose tesi di laurea in discipline diverse, non solo di ambito archeologico. Il sito offre pertanto una buona quantità di spunti differenti e dati su cui poter ragionare.

Luca Agostino Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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IL RICETTO

OGGI

Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


63 Attualmente il Ricetto di Candelo è una meta turistica dall’atmosfera particolarmente affascinante che richiama non solo gli appassionati di una delle epoche più affascinanti della storia antica come il Medioevo, ma anche semplicemente curiosi che approfittano del week end per visitare le terre del biellese. La Pro Loco offre, su prenotazione, visite guidate e laboratori didattici per gruppi e scolaresche in modo da poter scoprire anche gli aspetti meno noti dell’antico borgo, per informarsi basta collegarsi sul sito ufficiale del Ricetto: www.prolococandelo.it Dal ricetto è raggiungibile, lungo il prato che costeggia la torre di sud-ovest, la chiesa di Santa Maria Maggiore. La chiesa costituisce il nucleo religioso più antico di Candelo. Di fondazione antecedente al X secolo e nominata in un documento del 1182, si trova oggi in una posizione marginale rispetto all’abitato di Candelo, posizione venutasi a creare già attorno al 1300, quando Santa Maria Maggiore perse lo status di parrocchia a favore della vicina chiesa di San Pietro. L’edificio, la cui facciata fu restaurata nel 1932, presenta dal punto di vista costruttivo un’ampia stratigrafia di interventi che si sono susseguiti nel corso dei secoli, ben riscontrabili nella complessa ed asimmetrica pianta della chiesa: originariamente organizzata ad aula unica, fu in seguito ricostruita, tra il XIV e il XV secolo, a tre navate scandite da colonnine in granito con capitelli gotici; in seguito, durante il 1700, lungo la navata destra fu aggiunta l’ampia cappella-oratorio della confraternita di Santa Marta. All’interno di Santa Maria Maggiore sono conservate opere artistiche di grande pregio, nella seconda navata una piccola cappella dedicata a San Giovanni Battista, presenta una pala di autore ignoto raffigurante la Sacra Famiglia con Santa Elisabetta e San Giovanni fanciullo (inizi sec. XVII), opera tra le più pregevoli del patrimonio artistico di Candelo, il pulpito del 1620, finemente intagliato e attribuito

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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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a Nicolao Serpentiere e una serie di affreschi risalenti al 1400 (purtroppo parzialmente rovinati da un restauro), posti nella navata laterale destra, raffiguranti quattro dottori della chiesa: San Ambrogio, San Gerolamo, Sant’Agostino e San Gregorio, attribuiti a Gaspare de Fornerio da Ponderano (secoli XV - XVI). L’opera più rilevante, recentemente sottoposta a restauro, è la tavola, commissionata dalla Confraternita di Santa Marta nel 1572 al pittore vercellese Boniforte Oldoni, dal soggetto non comune: rappresenta infatti Cristo in croce con Maria, Santa Marta, alcune donne e con un gruppo di confratelli di Santa Marta in divisa di tela bianca ai piedi della croce. Un piccolo viottolo costeggia inoltre la roggia Marchesa, un canale che dal 1561 fornisce acqua alle campagne del biellese, fino alle risaie della provincia di Vercelli. Dal Ricetto è anche visitabile la Baraggia, che rappresenta l’ultimo lembo di territorio incolto rimasto tra la pianura e i primi contrafforti pedemontani. Questa fa parte della Riserva Naturale Orientata delle Baragge nata proprio per tutelare il paesaggio dalle caratteristiche uniche, tanto da essere conosciuto anche come la “Savana del Biellese”. Passeggiate e itinerari naturalistici portano alla conoscenza di questo territorio, che offre anche un panorama tra i più suggestivi su tutto l’arco alpino occidentale.

Floriana Speranza Photography

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Mariangela Boni Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Il calendario degli eventi varia ogni mese e comprende degustazioni di vini, concerti e mercati di prodotti tipici, e nel mese di dicembre, il Ricetto si trasforma nel borgo di Babbo Natale con un suggestivo presepio vivente. Inoltre le cellule, non essendo adibite ad abitazione, vengono utilizzate dai proprietari come ritrovo per il fine settimana o per attività enogastronomiche e laboratori creativi di artigianato. Infatti, oltre a varie botteghe d’arte, ospita: Il Centro documentazione dei Ricetti in Europa; Il Piccolo Museo delle cose di Cucina e Pasticceria, che raccoglie al suo interno una raccolta di centinaia di oggetti, macchinari ed attrezzature di uso popolare o professionale nell’ambito della cucina e pasticceria. Il Museo è anche uno dei più importanti centro studi sulla cultura gastronomica locale e piemontese con una importante biblioteca ed emeroteca tematica a disposizione di studiosi od appassionati che la possono visitare su appuntamento. Il Museo del paesaggio naturale e storico della vitivinicoltura. Come già detto il Ricetto di Candelo è sede di manifestazioni culturali e di spettacolo che si dipanano nel corso dell’anno. Fra queste, Candelo in fiore, che si alterna con cadenza biennale alla rassegna Sapor di Medioevo, e il concorso musicale internazionale Ricetto in musica, nato nel 2003 ed intitolato al maestro Ernesto Falla. Fra le altre manifestazioni si segnalano: • in gennaio la Festa di Sant’Antonio, con sfilata di cavalli e carrettieri; • a febbraio-marzo il Carnevale storico, che presenta una rievocazione della controversia fra i candelesi e il signore del luogo, Sebastiano Ferrero; • il Maggio musicale, con concerti di musica classica tra le rue; • a settembre, Settembre al ricetto, con esposizioni dei pittori del borgo, allestimento di mostre e spettacoli di teatro; • nel primo fine settimana di ottobre, Vinincontro, degustazione di specialità locali accompagnate dall’ascolto di musica popolare.

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IL RICETTO

LE CURIOSITÀ

Il ricetto di Candelo è stato set per le riprese dello sceneggiato televisivo Rai del 1968, La freccia nera, diretto dal regista Anton Giulio Majano e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson, interpretato da Arnoldo Foà e da una esordiente Loretta Goggi. La medesima location fu scelta per il suo remake del 2006, con il medesimo titolo de La freccia nera, ad opera di Mediaset, diretto da Fabrizio Costa, e avente come protagonisti Riccardo Scamarcio e Martina Stella. Nel borgo sono state girate anche le sequenze di un altro sceneggiato televisivo: la parodia de I promessi sposi ad opera del trio Massimo Lopez, Anna Marchesini e Tullio Solenghi. Inoltre le rue del borgo medievale sono servite anche da sfondo, nel 2004, per le riprese di un’altra fiction di Rai1 riguardante la figura della Monaca di Monza, Virginia, la monaca di Monza. Giroinfoto Magazine nr. 40


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RINGRAZIAMENTI Ringraziamo in particolare la disponibilità di: Il Sindaco

Mariella Biollino

L’ufficio Cultura Comune di Candelo Lo staff della

Pro Loco di Candelo

Adriana Oberto Photography

Nel 2011 il Ricetto è stato anche il set per il film Dracula 3D diretto da Dario Argento. Vaga trasposizione cinematografica del celebre romanzo di Bram Stoker, è il primo film in 3D diretto dal regista italiano e più in generale è uno dei primi film horror italiani in 3D. Il film interamente girato con la tecnica stereoscopica 3D di ultima generazione tra Budapest, Torino, nel Ricetto di Candelo e nel castello di Montalto Dora. La produzione ha avuto a disposizione un budget di 7 milioni di euro, di cui 300.000 € pubblici, stanziati dalla Regione Lazio e dalla Regione Piemonte, le quali hanno quindi patrocinato il progetto. Il film è stato per altro riconosciuto di interesse culturale nazionale dalla Direzione Generale per il Cinema del Ministero per i beni e le attività culturali. Giroinfoto Magazine nr. 40


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IL

RICETTO

DI CANDELO

Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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WORKING GROUP 2019

BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project

ITALIA

ORINO ALL AMERICAN

REPORT

Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 40

STORIES

GIROINFOTO MAGAZINE


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COME FUNZIONA Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.

Impara Condividi Divertiti Pubblica

CHI PUÒ PARTECIPARE

Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Invia a events@giroinfoto.com una mail con una fototessera, i dati anagrafici, il numero di telefono mobile e il grado di preparazione in fotografia. L’organizzazione sarà felice di accoglierti.

PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Watsapp, Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tecniche di ripresa. tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubbliGli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze cati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremolegati al brand Giroinfoto magazine. le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.

SEDE OPERATIVA La sede delle attività dei working group di Band of Giroinfoto, si trova a Torino. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi.

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Barbara Tonin Fabrizio Rossi Margherita Sciolti Giancarlo Nitti

Orta

L AGO D’AUTORE Testi di Barbara Tonin

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Margherita Sciolti Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


76 Fabrizio Rossi Photography

Orta

SAN GIULIO

Orta San Giulio è un piccolo borgo di origini medioevali, sorto sulla riva orientale dell’omonimo lago. La piazza principale di Orta, piazza Motta è un’ampia terrazza che si affaccia sul lago e sulla piccola e rocciosa Isola di Orta San Giulio.

Dal Broletto è poi possibile risalire il lieve pendio, lungo “la Motta”, fino alla Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta. Di origini tardo-romaniche, fu edificata nel 1485 e ricostruita tra il XVII° e il XVIII° secolo.

L’edificio più importante della piazza è il Broletto o Palazzo della Comunità della Riviera di San Giulio. Edificato nel 1582, era la sede del Consiglio Generale, composto dai deputati del feudo vescovile e vi si esercitava il potere legislativo ed esecutivo.

Al suo interno, nella cappella Gemelli è possibile ammirare una tra le più significative opere lombarde del Seicento: la tela raffigurante San Carlo durante la processione della peste di Milano.

Ora sotto il porticato troviamo il mercato, mentre il piano superiore è adibito a sala riunioni. Le facciate colorate sono decorate con dipinti di stemmi, meridiane e una “Donna raffigurante la Giustizia”, con ai lati due angeli recanti la spada e la bilancia.

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Uscendo dalla Chiesa, poi, possiamo godere dell’incantevole vista sul borgo e sul lago.


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IL BROLETTO Barbara Lamboley Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Barbara Tonin photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Orta

SAN GIULIO

Lungo la via, scendendo nuovamente verso il lago, sulla sinistra incontriamo il Palazzo Gemelli del XVI° secolo. Una costruzione tardorinascimentale che conserva, sul cornicione curvo della facciata, decorazioni a fresco (probabilmente dei Fiamminghi) ispirate alla mitologia. Continuando la discesa, troviamo ora il palazzo più antico di Orta, la cui costruzione sembra risalga alla fine del XIV° secolo.

È Casa Marangoni (ora Capuani) detta Casa dei Nani, per via delle piccole finestre poste al piano superiore. Da notare le colonnette del portico e i tre affreschi sulla facciata, raffiguranti l’Annunciazione, l’Ascensione e la Madonna col Bambino. Arrivati al fondo e proseguendo a destra lungo la via principale, che corre parallela alla via del lago, possiamo accedere al cortile di Villa Bossi (XVII° sec.), ora sede del Municipio, la cui facciata guarda verso il lago. Il cortile, inoltre, offre una suggestiva vista sull’isola e sulle colorate case di Pella e Ronco e sul Santuario della Madonna del Sasso, posti sulla riva opposta. Subito dopo Villa Bossi, la viuzza si apre su una piccola piazzetta in cui troviamo l’Oratorio di San Rocco, del quale possiamo vedere un affresco sulla facciata. Questa chiesa fu edificata nel 1631 per voto degli ortesi liberati dalla peste.

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SANTA MARIA ASSUNTA Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Allontanandosi nuovamente dalla riva e percorrendo le strette viuzze in salita, raggiungiamo il Sacro Monte di Orta, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, assieme ad altri otto Sacri Monti dell’Italia Settentrionale (Belmonte, Crea, Domodossola, Ghiffa, Oropa, Varallo, Ossuccio e Varese). Si tratta di gruppi di cappelle e altri manufatti architettonici eretti tra il XVI° e il XVII° secolo, dedicati a differenti aspetti della fede cristiana e che contengono numerosi reperti artistici, quali statue ed affreschi, di valore universale. Posto a 400 metri di altitudine, in una magnifica posizione panoramica prospiciente il lago e il borgo, il Sacro Monte è suddiviso in due zone distinte. La prima, le pendici della collina, in cui prevalgono i boschi di latifoglie e la seconda, quella monumentale ma immersa in un curatissimo giardino, in cui si sviluppa il percorso tra le venti cappelle, in perfetto equilibrio e integrazione con i faggi, i pini silvestri, i tassi e il mirtillo nero. Il Sacro Monte fu realizzato alla fine del Cinquecento per iniziativa dell’abate novarese Amico Canobio e fu terminato dopo più di un secolo, trasformando il cammino a spirale tra le cappelle

in un’occasione di lettura di stili architettonici diversi, dal tardo Rinascimento al Barocco, per finire nel Rococò. Le decorazioni interne, ricche di statue e affreschi, sono dedicate a San Francesco d’Assisi e raccontano diversi episodi della vita del Santo. Il percorso termina con la Chiesa di San Nicolao, un edificio proto-romanico completamente rimodellato nel Seicento ad imitazione della Basilica Inferiore di Assisi. Oltre alle cappelle e alla Chiesa di San Nicolao, possiamo ammirare l’arco con la statua del Santo che accoglie i visitatori con l’iscrizione “Qui in ordinate cappelle si vede la vita di Francesco, se desideri saperlo l’autore è l’amore”, per poi condurci verso il Pilone di San Francesco, l’antico pozzo, la Cappella Nuova, il Convento e l’orto botanico, in cui sono coltivate numerose erbe medicinali e officinali tipiche della tradizione erbaria di San Francesco. Dalla terrazza di fronte la Chiesa di San Nicolao, infine, la vista si apre verso le colline della riva occidentale, per poi posare lo sguardo sulla piccola isola.

Fabrizio Rossi Photography

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La leggenda tramandata nei secoli narra che inizialmente l‘isola fosse un covo di grossi serpenti e di un drago malvagio. Nella seconda metà del IV secolo, però, giunse ad Orta un santo guerriero cristiano, Giulio, che volendo costruire la sua centesima chiesa proprio sull’isola, chiese di esservi traghettato. I pescatori però impauriti dagli esseri demoniaci, si rifiutarono di accompagnarlo. San Giulio allora pose il suo mantello sull’acqua e lo usò come zattera. Con l’aiuto del suo bastone si traghettò fin sull’isola e con solo l’uso della parola, scacciò le creature malvagie e le confino in un luogo inaccessibile del Monte Camosino.

Una vertebra del drago è tuttora conservata nella Sacrestia della Basilica. In realtà San Giulio non era un guerriero, ma un prete esorcista. Siamo nel periodo storico dell’eterna contesa tra il potere temporale e il potere spirituale, ai tempi dell’imperatore Teodosio e alle campagne per la conversione dei popoli pagani. Con patenti imperiali che consentivano di edificare chiese in onore del vero Dio, due preti, i fratelli Giulio e Giuliano, a partire da Roma fino ad arrivare al nord, riuscirono a costruire 100 chiese. La novantanovesima chiesa (ora Oratorio di San Lorenzo) fu costruita a Gozzano da Giuliano, mentre Giulio decise di costruire la centesima sull’isola e di farne la sua tomba (le sue spoglie sono tuttora conservate nella Basilica). Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Margherita Sciolti Photography

Orta

MADONNA DEL SASSO

Sulla riva opposta a Orta San Giulio, a più di 600 metri di altezza, si erge il Santuario della madonna del Sasso, che dal vasto piazzale antistante, si gode uno spettacolo di rara bellezza sul Lago d’Orta. La chiesa poggia sulle pareti scoscese di roccia granitica, dove, nei secoli scorsi, gli scalpellini della zona hanno esercitato il loro durissimo e pericoloso lavoro nelle cave che furono chiuse definitivamente nel 1978. In questo luogo, esisteva in precedenza una piccola chiesa di probabile origine romanica, della quale oggi non esistono più tracce materiali perchè cancellate dalla presente costruzione settecentesca. L’attuale complesso, composto dalla chiesa, dalla torre campanaria e dalla casa eremitale, venne edificato tra il

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1730 e il 1748 e completato negli anni a seguire. La realizzazione va riferito al benefattore Pietro Paolo Minola, un boletese arricchitosi a Milano con un laboratorio per la fabbricazione di calzature. La chiesa è in stile barocco, a croce greca, con un’unica grande navata e tre altari. Il complesso è stato restaurato nel 1998. Anche questo luogo di culto, le leggende che si tramandano sono davvero tante. Il piazzale, ad esempio, nel lontano XVI secolo era chiamato “il prato della tela” poiché le donne del paese, nelle giornate più calde, si recavano lì per candeggiare le loro tele fatte in casa.


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In seguito ad un tragico avvenimento, sulla roccia venne eretta la Cappella dedicata a Maria Addolorata nello stesso suolo dove oggi sorge il Santuario. Un’altra leggenda, infatti, racconta della morte di una donna di Pella, un paesino poco distante da Boleto, dopo un litigio con il marito. Il consorte, furioso per un presunto tradimento della donna, la spinse giù dal dirupo, ma, per miracolo, la donna riuscì ad aggrapparsi ad uno sperone di roccia. Pentitosi del gesto, poi, il marito decise di tornare indietro

per aiutare la moglie che però, spaventata, si lasciò cadere nel vuoto. Il Santuario oggi non è solo meta di pellegrinaggio, ma anche un luogo perfetto per coloro che vogliono godere di un panorama unico su tutte le vallate limitrofe, tanto che il piazzale del Santuario è conosciuto ai turisti anche con il nome di “balcone del Cusio”, da dove si possono effettuare scatti dell’isola di San Giulio e Orta San Giulio da una prospettiva diversa dal solito.

Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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ISOLA SAN GIULIO

L’isola di San GIulio, famosa per il suo Monastero si trova al largo della località di Orta San Giulio e si raggiunge in traghetto. Scavi archeologici sull’isola hanno dimostrato che l’isola fu abitata dal neolitico fino a tutta l’età del ferro e da popolazioni celtiche prima dell’età romana. È probabile quindi che San Giulio avesse scelto quel luogo, un’isola con un bosco, tipico santuario dei Celti, proprio per debellare le divinità pagane e convertire la popolazione della riviera. Da questo, il rifiuto dei pescatori celti di accompagnarlo fino all’isola, timorosi di compiere un sacrilegio. Il drago in realtà viene raffigurato nei diversi affreschi all’interno della Basilica come un serpente e rappresenta il “Diavolo” ovvero il Paganesimo. La vertebra invece è probabilmente appartenuta ad una balena, portata ad Orta per avvalorare la leggenda e fortificare la fede dei fedeli cristiani.

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Dopo San Giulio l’isola e la riviera furono teatro di svariati assedi. Sull’isola fu costruito un castello, sulle cui rovine dell’antico torrione fu poi edificato nel 1844 un seminario. Dietro alla torre, su una spianata tagliata nella roccia venivano eseguite le sentenze capitali. Il “muro della regina” recingeva lo scoglio racchiudendo il castello. Il palazzo dei vescovi è situato vicino alla Basilica; la tradizione vuole sia sorto sulle rovine del palazzo abitato dai duchi longobardi. Il seminario nel 1973 è stato convertito in un monastero di suore benedettine di clausura (Monastero “Mater Ecclesiae”), che si dedicano a “lavori manuali ed all’ospitalità spirituale”. Da qui il nome “L’Isola del Silenzio”.


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BOUCHONS ISOLA SAN GIULIO Barbara Lamboley photography Barbara Tonin Photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Giancarlo Nitti photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Un antico detto cinese dice:

Se non entri in un hutong, non conosci Pechino

A cura di Iuri Camilloni

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Per fare un salto indietro nel tempo, nella Cina delle tradizioni e dei costumi di un tempo, precedenti al boom economico che ha trasformato la capitale cinese, il mio obbiettivo era trovare gli hutong, gli stretti vicoli della cittĂ imperiale che si intrecciano formando un labirinto di Siheyuang, le storiche abitazioni a un solo piano, affacciate su un piccolo cortile interno.

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Non sono facili da scovare e io ho seguito l’istinto e la fortuna e voilà…ad una distanza di non più di qulache chilometro dal mio albergo, nascosto da un paio di edifici alti e moderni, mi ritrovai come per magia nel bel mezzo di un hutong . Un’atmosfera d’altri tempi, dove la vita segue ritmi lenti, contrapposti a quelli frenetici e veloci della moderna metropoli. Dove la povertà è evidente, così come è evidente la voglia delle persone di compiere piccoli riti sociali, di coltivare rapporti umani. Benvenuti nell’ Dongchang hutong, in un mondo che non c’e’ più... Visitare una metropoli come Pechino significa anche lasciarsi catturare dai ritmi frenetici che la contraddistinguono, come uno tsunami ti travolgono. I colori, le luci, i rumori, gli odori, lo sfavillio, il moto perpetuo. Eppure, anche una città di questa portata – che corre verso il futuro – non sfugge alla potente e inesorabile ombra, alla presenza del suo stesso passato, che si cela negli angoli più autentici degli hutong!!Ma cosa sono gli hutong?!

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Iuri Camilloni photography Giroinfoto Magazine nr. 40


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Gli hutong sono il labirinto di vicoli e viuzze nel centro di Pechino, sui quali timidi si affacciano complessi residenziali di case, concepite intorno ad un cortile, nei quali vivevano gli antichi abitanti della cittĂ , una sorta di centro storico, che ancora oggi resiste e testimonia la tradizione e la storia piĂš genuina della cittĂ . Se sei in cerca di idee, perchĂŠ sei in viaggio o stai pensando a Pechino e alla Cina come meta per il tuo prossimo viaggio, prendi nota di questi spunti per meglio orientare i tuoi passi in giro per la capitale cinese! Distraendosi un attimo, svoltando in un angolo a caso, avventurandosi lungo quello che potrebbe sembrare, a prima vista, un vicolo cieco, si scoprono degli angoli immacolati di una Pechino, che forse sta scomparendo. Gli hutong si presentano simili ai vicoli dei nostri centri storici. Dedali di stradine strette strette, serpenti che, come in un videogioco, si snodano ad angoli retti, intersecandosi, allargandosi in angoli piene di negozietti e bancarelle, e restringendosi improvvisamente a imbuto, per poi magari sorprenderti sbucando in un trafficato viale a sei corsie, o terminando addosso ad un muro di cemento.

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Iuri Camilloni photography

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Passeggiare dimenticando la mappa a casa è un’esperienza da fare. Un vero e proprio tuffo nel passato. Negli hutong i pechinesi ancora vivono alla vecchia maniera, seguono dei ritmi che nella metropoli non trovano più ragione d’essere. Angoli a misura d’uomo, in cui anziani stanno seduti da soli o in compagnia a fumare, leggere, mangiare rumorosamente un piatto di spaghettini, o a chiacchierare e bambini che scorrazzano liberi e giocano ancora ai tradizionali giochi di un tempo (biglie, elastici, etc.). Questo labirinto è oggi anche l’ultimo tempio per chi utilizza quello che è il mezzo preferito dai cinesi: la bicicletta. La crescita vertiginosa dell’economia cinese, la necessità di infrastrutture efficienti e moderne stanno facendo la guerra a questi quartieri del centro ormai da anni. Le case basse e i cortili vengono impietosamente abbattuti e sostituiti da complessi residenziali privi di ogni fascino e storia. I piani di sviluppo e la politica cinese “chaiqian” (letteralmente, demolisci e passa oltre) è una realtà poco conosciuta ai più e, per ragioni politiche, ignorata dalla comunità internazionale. Certamente, questo smantellamento non è una novità.

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E’ però una grande contraddizione di un paese che è figlio di una grande civiltà, di una cultura millenaria profonda, molto più antica della stessa vecchia Europa, che guarda al futuro scaricando il suo passato. Per sbirciare dentro la tradizione e la cultura cinese, che a fatica resistono, il consiglio è “trattieni il respiro” e ritaglia una passeggiata all’aria aperta nel cuore pulsante, ma idealmente lontano dagli ampi spazi e dal caos, di Pechino.

Iuri Camilloni

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A CURA DI PAOLO BUCCHERI

A circa quindici chilometri dal nuovo aeroporto civile di Comiso, sulla strada per Santa Croce Camerina, sorgere il Castello di Donnafugata, una realtà architettonica di indubbio valore storico ed architettonico. Lo stesso maniero nobiliare, costruito per volontà del nobile barone Corrado Arezzo, all’oggi si caratterizza come una testimonianza storica di una ben precisa epoca di un nostro recentissimo passato. Il castello è stato acquistato dall’Amministrazione Comunale di Ragusa nel 1982, ed è stato restaurato, tante che all’oggi è visitabile solamente in alcune aree dell’imponente realtà storio artistica. Le varie architetture che costituiscono l’impianto storico architettonico nel suo complesso, lasciano immaginare il fervore della vita sociale che si viveva tra i contadini che popolavano e lavoravano nell’antica residenza nobiliare.

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Il viale d’accesso, dove si affacciano i corpi bassi che in origine costituivano gli alloggi per i contadini, costituisce una sorta di visione prospettica verso il massiccio blocco del castello. Questo, formalmente e costruttivamente è alleggerito, sul prospetto principale, da un’elegante loggia neogotica che è stata realizzata agli inizi del 900. La costruzione si sviluppa su tre piani serviti da un’elegante scalinata che conserva all’oggi tutte quelle caratteristiche costruttive dell’epoca di realizzazione. Particolarmente interessante è la ricca sequenza degli ambienti del piano nobile, che conservano buona parte dell’arredamento originario e costituiscono un raffinato esempio di dimora signrile dell’epoca. Di particolare pregio sono: il salone dove sono riportati tutti gli stemmi nobiliari dei feudatari di Sicilia; che riportati a tutt’altezza sulle pareti dell’ambiente, finiscono per diventare un elegante basamento al fregio sommitale che delimita esso stesso un ornato soffitto a botte, decorato a due colori, col sistema del bassorilievo.

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La pinacoteca, arredata con eleganti poltrone d’epoca, conserva dei quadri di autori locali che, nel loro insieme conferiscono una dignità ed un’eleganza all’ambiente nel suo complesso. Altro ambiente da menzionare è il salone degli specchi dove in un ambiente di chiara matrice barocca, sono collocati arredi civili e musicali che lasciano intravedere la socialità che si viveva in questi luoghi. La stanza del biliardo, con le pareti riccamente decorate con scene di architetture “lontane” , conferisce al tutto un vago sapore di estranietà, e di internalizzazione. Tutti gli altri ambienti come il salottino della foresteria, o il salottino del barone o lo stesso giardino d’inverno finiscono per essere ambienti nobiliari di un’architettura che nella sua stessa matrice architettonica denuncia una vita fatta di signorilità e nobiltà che si contrapponeva, oggettivamente e formalmente, alla vita della classe contadina che viveva ai margini della stessa.

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Intorno al castello si estende un vasto parco di circa 8 ettari che contiene, nascosti tra la lussureggiante vegetazione, numerosi elementi decorativi ed architettonici come un intrigato labirinto che ricorda momenti di gioia e spensieratezza della vita nobiliare che in questi luoghi si viveva. A fine visita eravamo felici io e Patrizia che, accompagnandomi in questo tour, aveva vissuto con me momenti che richiamavano istanti storici di una vita non molto lontana (temporalmente) da quella vissuta, con tutte le contraddizioni del caso, nelle nostre aree geografiche, oggi.

Paolo Buccheri

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ARRIVEDERCI AL PROSSIMO NUMERO in uscita il 20 Marzo 2019

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