Giroinfoto magazine 43

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N. 43- 2019 | MAGGIO, Gienneci Studios Editoriale. www.gienneci.it

N.43 - 2019 Maggio

www.giroinfoto.com

FORTE DI FENESTRELLE

LA GRANDE MURAGLIA PIEMONTESE

NAMIB DESERT NAMIBIA Di Sergio Agrò

FORTE DI FENESTRELLE LA GRANDE MURAGLIA PIEMONTESE Band of Giroinfoto

GRAND MOSQUE ABU DABI Di Monica Gotta Photo cover by Sergio Agrò


WEL COME

43 www.giroinfoto.com MAGGIO 2019


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la redazione | Giroinfoto Magazine

Benvenuti nel mondo di

Giroinfoto magazine

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Novembre 2015,

da un lungo e vasto background professionale del fondatore, nasce l’idea di un progetto editoriale aggregativo, dove chiunque appassionato di fotografia e viaggi può esprimersi, condividendo le proprie esperienze con un pubblico interessato all’out-door, alla cultura e alle curiosità che svelano le infinite locations del nostro pianeta. È così, che Giroinfoto magazine©, diventa una finestra sul mondo da un punto di vista privilegiato, quello fotografico, con cui ammirare e lasciarsi coinvolgere dalle belelzze del mondo e dalle esperienze offerte dai nostri Reporters professionisti e amatori del photo-reportage. Una lettura attuale ed innovativa, che svela i luoghi più interessanti e curiosi, gli itinerari più originali, le recensioni più vere e i viaggi più autentici, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per la promozione della cultura fotografica in viaggio e la valorizzazione del territorio. Uno strumento per diffondere e divulgare linguaggi, contrasti e visioni in chiave professionale o amatoriale, in una rassegna che guarda il mondo con occhi artistici e creativi, attraversando una varietà di soggetti, luoghi e situazioni, andando oltre a quella “fotografia” a cui ormai tutti ci siamo fossilizzati. Uno largo spazio di sfogo, per chi ama fotografare e viaggiare, dove è possibile pubblicare le proprie esperienze di viaggio raccontate da fotografie e informazioni utili. Una raccolta di molteplici idee, uscite fotografiche e progetti di viaggio a cui partecipare con il puro spirito di aggregazione e condivisione, alimentando ancora quella che è oggi la più grande community di fotonauti. Director of Giroinfoto.com Giancarlo Nitti

Giroinfoto Magazine nr. 43



LA RIVISTA DEI FOTONAUTI Progetto editoriale indipendente

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ANNO V n. 43

giroinfoto magazine

20 Maggio 2019 DIRETTORE RESPONSABILE ART DIRECTOR Giancarlo Nitti CAPO REDAZIONE Paolo Buccheri SEGRETERIA DI REDAZIONE E RELAZIONI Margherita Sciolti CAPI SERVIZIO Giancarlo Nitti REDATTORI E FOTOGRAFI Giancarlo Nitti Redazione Monica Gotta Reporter Sergio Agrò Reporter Band Of Giroinfoto - Torino Annamaria Faccini Barbara Lamboley Barbara Tonin Cinzia Carchedi Daniele Colangelo Fabrizio Rossi Gianluca Colangelo Lorena Cannizzaro Floriana Speranza Giancarlo Nitti Maddalena Bitelli

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comprovata autorizzazione del titolare dei diritti.

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INSIDE

Giroinfoto Magazine

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Indice 10

NAMIB

Namibia

A cura di Sergio Agrò

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SOLFERINO Food Tour Band Of Giroinfoto

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URBEX Chiesa Blu A cura di Urbex Team Old Italy

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SHEIKH ZAYED GRAND MOSQUE Abu Dabi A cura di Monica Gotta

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LA GRANDE MURAGLIA PIEMONTESE Il Forte di Fenestrelle Band Of Giroinfoto

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IL CENACOLO Maurizio Galimberti Skira Editore

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FOTO EMOZIONI Questo mese con: Valentina Cipolla Kristina Szajkoova Ciro Schiavone Davide Gambino Alessandro Braconi Daniele Passaro

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Articoli totali sul magazine

Articoli pubblicati dagli utenti

Nuovi Reporters

Foto singole pubblicate

Copertura degli articoli sui continenti

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A cura di Sergio Agrò

CONTRASTO DI COLORI ED EMOZIONI

NAMIB DESERT

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Sergio Agrò Photography

Ricordo ancora bene il momento in cui mi sono ritrovato a bocca aperta mentre guardavo la televisione: era una serie televisiva sulla fotografia ed in quel momento parlavano della Namibia ed in particolare della Dead Vlei. Ho sempre pensato che fossero delle elaborazioni al computer, tutte quello foto minimali con gli alberi secchi e il contrasto dei colori: bianco, arancio e blu. Invece mi sbagliavo, quel luogo esiste veramente ed era giunto il momento di andare a realizzare il mio sogno fotografico. Giroinfoto Magazine nr. 43


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NAMIB DESERT

Come tutti i miei viaggi fotografici ho organizzato in solitaria anche questo: volo, noleggio fuoristrada 4x4, sistemazione in campsite e bed & breakfast. Oggi è davvero molto semplice organizzare un viaggio che, fino a qualche anno fa era impensabile, sia per la difficoltà di raggiungere la meta sia per i costi. Il viaggio in Namibia è stato davvero un viaggio dalle emozioni uniche, oggi voglio raccontare la mia esperienza fotografica nel cuore della Namibia, nel suo deserto: il Namib. Lo stato africano sud-occidentale prende il nome proprio dal suo deserto. Il Namib è il deserto più antico del mondo e oltre 80 milioni di anni fa iniziò il suo processo di desertificazione. Il deserto del Namib oltre ad essere molto vasto, da nord a sud la sua estensione è di circa 1300 chilometri (quasi come il nostro Paese), regala diversi paesaggi, passando da zone aride, alle montagne rocciose fino ad arrivare alle famose dune sabbiose con il loro tesori fotografici nascosti. Dalle emozioni che regala non è difficile intuire perché il Namib è un bene protetto dall'UNESCO.

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Il mio viaggio in Namibia inizia dalla capitale e la prima destinazione ovviamente è la Dead Vlei. Prima di arrivarci si passa per un luogo dove è d'obbligo fermarsi. Solitaire ha una storia abbastanza recente e molto poetica. A metà del secolo scorso un olandese acquistò questi terreni nel mezzo del deserto del Namib, per farci un allevamento e con il tempo, fermarsi a Solitaire è diventata un'abitudine e una tappa per i viaggiatori: un rifornimento, una sistemazione per una notte ed una riparazione alle proprie auto. Oggi di quel Solitaire sono rimaste qualche auto d'epoca ancora incastrate nella sabbia, una specie di museo a cielo aperto, e la famosa torta di mele fatta ancora con l'antica ricetta olandese; ma soprattutto di Solitaire resterà proprio il suo nome, dato dalla moglie dell'olandese, proprio ad indicare un mix tra il "solitaire" inteso come diamante e come la solitudine del posto, come luogo di silenzio e riflessione. Non faccio in tempo a lasciare Solitaire che subito l'adrenalina di arrivare a Sossusvlei e quindi alla Dead Vlei prende il sopravvento. Lascio quindi la parte arida e rocciosa del deserto del Namib e mi dirigo verso quella sabbiosa. Durante il viaggio fantasticavo su come si potesse presentare agli occhi la Dead Vlei, pensavo fosse il classico posto dove si arriva, parcheggi l'auto e davanti a te c'è lo spettacolo, ma un tesoro così prezioso non si può concedere così facilmente agli occhi di tutti e quindi sapevo che avrei avuto qualche difficoltà.

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Giungo così a Sesriem, ed entro nel "Namib-Naukluft National Park", da qui si comprendono bene le distanze in Namibia, per arrivare alla Dead Vlei bisogna percorrere ancora 70 km, ma prima bisogna fermarsi più o meno al km 45, senza troppa fantasia ecco spiegato il nome della famosa Duna 45. Questa duna è incantevole da fotografare sia alle prime ore del giorno che verso il tramonto quando il lato in ombra e quella in luce vanno in contrasto tra di loro, non per niente è considerata la duna più fotografata al mondo. Non mi soffermo più di tanto e arrivo al km 65.

Qui finisce la strada asfaltata ed inizia quella più emozionante, la strada non esiste più e per 5 km davanti avrò solo la sabbia finissima del deserto del Namib, quindi innesto il 4x4, regolo la pressione delle gomme e con marcia costante percorro gli ultimi 5 km, vietato sbagliare. Questi ultimi km non sono indicati da cartelli, come non è segnato dove fermarsi per raggiungere la famosa Dead Vlei, ma io lo so, parcheggio la macchina sulla sabbia e percorro l'ultimo km a piedi in direzione della Dead Vlei.

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Non basta un articolo per descrivere l'emozione di essere a pochi metri dalla Dead Vlei, ricordo il caldo torrido, 38-39 gradi, il sole che scottava e la sabbia rovente ai miei piedi, in questo scenario correvo verso la Dead Vlei. Non lo so, ma era come se qualcuno mi guidasse verso la mia meta. Quando supero l'ultima duna ecco davanti a me la Dead Vlei. Il silenzio di una bellezza unica al mondo. Mi dirigo verso il centro della Dead Vlei, mi fermo e mi ritrovo circondato a queste "ballerine", è proprio questo che si pensa quando si è circondato dagli alberi di acacia che sembrano danzare, movimenti curvi in contrasto con le linee dell'orizzonte, il contrasto si avverte anche nel colore nero degli alberi con i colori azzurro, arancio e bianco dello sfondo. Non voglio annoiare nessuno con la storia della formazione della valle ma voglio solo condividere l'emozione di essere, in quell'istante, l'unica persona nella Dead Vlei, ed è stato questo a rendere ancora più magico il momento in cui ho realizzato il mio sogno fotografico.

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Il deserto del Namib offre nei suoi paesaggi, molti altri tesori; se il caldo non è troppo eccessivo e il fisico lo permette si possono scalare le dune più altre del mondo: Big Daddy e Big Mama (oltre 300 metri di altezza) e una volta arrivati in cima dopo aver camminato sulla finissima sabbia rossa del Namib il paesaggio regala emozioni uniche. In questa zona sabbiosa del deserto non si deve pensare che sia privo di vita, tutt'altro! Non è difficile vedere delle antilopi come lo Springbok ed Oryx (quest'ultimo simbolo della Namibia e presente nella Bandiera Nazionale) all'ombra di alberi e gli stessi alberi crescere in mezzo alla sabbia del deserto, questo rende ancora più magico questa zona del Namib.

Tanto bello di giorno il deserto quanto bello di notte, io non consiglio a nessuno di essere in mezzo alle dune di notte, ma se ci si allontana di pochi metri dal campsite o dai lodge si può osservare ad occhio nudo un cielo pieno di stelle che difficilmente si dimentica. La via lattea è davvero impressionante sia per la quantità di luce che di stelle che si possono vedere.

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Riprendo così il mio viaggio nel deserto del Namib dirigendomi a nord, cercando due preziosi gioielli della natura e in questo caso della storia. Il primo obiettivo sono le "Petrified forest". Si tratta di alberi e nello specifico di sequoie, che avevano un'età di circa 300 anni ed alte anche 45 metri. Circa 280 milioni di anni fa, per via dei movimenti della crosta terrestre e dei vulcani, queste sequoie si sono fossilizzate arrivando successivamente in superficie e rotolando dalla montagna; è davvero impressionante vedere come quello che si osserva in realtà non sia legno ma bensì pietra, appunto dei fossili. Resto molto meravigliato da questo spettacolo della natura ma molto di più e non solo per il nome, dal sito chiamato Twyfelfontein. In questo luogo protetto dall'UNESCO troviamo oltre 2000 incisioni e disegni rupestri risalenti dall'età della pietra, all'incirca 8000-5000 a.c. la famosa Dead Vlei, ma io lo so, parcheggio la macchina sulla sabbia e percorro l'ultimo km a piedi in direzione della Dead Vlei. Sulle pietre di arenaria gli abitanti di allora dipinsero scene di caccia e di vita quotidiana, è interessante vedere come si notano tutti gli animali anche quelli non terrestri. L'incisione che mi ha più colpito è stata quella denominata "blackboard" che in italiano si traduce come lavagna; ed è proprio la lavagna di una scuola, dove il "maestro" attraverso i disegni delle impronte degli animali insegnava agli studenti come distinguere gli animali pericolosi dai non. Era impressionante vedere come tra queste impronte ci fosse disegnato anche l'impronta di un piede umano, di sicuro un umano moderno. Il deserto del Namib è davvero emozionante, fatto d'immensi spazi vuoti e anche da piccoli preziosi tesori che bisogna cercare tra le rocce e le sabbie che lo caratterizzano.

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Mi dirigo verso nord e dopo aver attraversato il Tropico del Capricorno (dove è d'obbligo uno scatto) continuo il mio viaggio in Namibia, ed incontro un gruppo di Himba. Gli Himba sono un popolo di pastori nomadi che vivono a stretto contatto con la natura e le donne sono caratterizzate da una capigliatura molto originale fatta polverizzando una pietra rossa. Mi fermo e chiedo loro il permesso di poter scattare delle fotografie, una madre giovane ed il suo piccolo bambino si prestano ai miei scatti fotografici. I loro sguardi mi avevano letteralmente ipnotizzato. Oggi sono certo di una cosa: non so se e quando finirà , ma so esattamente quando è iniziato il famoso mal d'Africa. In quel momento! nell'esatto istante in cui ho fatto click ed i loro sguardi sono restati per sempre impressi nella mia fotografia, ma soprattutto nella mia anima. Ancora ad oggi guardo le loro espressioni ed ogni volta mi trasmettono delle emozioni, le stesse emozioni che ho vissuto lungo il mio viaggio nel deserto del Namib. Giroinfoto Magazine nr. 43


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Sergio Agrò Photography Sergio Agrò Photography Giroinfoto Magazine nr. 43

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SOLFERINO HISTORY AND FOOD TOUR

Solferino History and Food Tour

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A CURA DI BAND OF GIROINFOTO

In collaborazione con il Comune e la Proloco di Solferino, Cookin Italia, IG Mantova, Carpediem B&B, il 27 e 28 Aprile si è svolto l'evento annuale di promozione del territorio e dei prodotti gastronomici locali "Solferino Food Tour".

Un percorso di storia e tradizioni locali che caratterizzano le terre mantovane protese verso il lago di Garda che furono teatro di battaglia nella seconda guerra d'indipendenza del 24 giugno 1859.

ITALIA

Norcineria La Torretta da Valentina Garda Slow & More Giroinfoto Magazine nr. 43

GIANCARLO NITTI ADRIANA OBERTO E LORENA CANNIZZARO

Solferino è una cittadina in provincia di Mantova arroccata sulle pendici moreniche del Lago di Garda, al confine con la provincia di Brescia e a breve distanza da Verona. Il suo nome è legato nella nostra memoria collettiva alla celebre e decisiva battaglia di Solferino e San Martino, che tanti morti lasciò sul campo e dalle cui conseguenze nacque l’idea della croce rossa. Le sue origini però sono più antiche: il luogo era abitato già nel III millenio a.C. In periodi più recenti vi si insediarono gli Etruschi, poi i Celti ed in seguito i Romani. La città divenne famosa sotto i Gonzaga, che ne fecero signoria e vi costruirono il proprio castello. È così che Solferino diventa un luogo colmo di storia, cultura e tradizioni, dove le visite diventano davvero moltissime, a partire dalla Piazza Castello, alla Rocca ai diversi musei, architetture e luoghi di interesse. Proprio per questo, la Pro Loco territoriale, ha predisposto un percorso che li riunisce tutte, chiamandolo QUATTRO PASSI NELLA STORIA Un itinerario su sentieri e colline di Solferino segnalato da 7 bacheche poste in punti strategici dell’abitato e dei dintorni. E’ l’occasione per camminare sull’altopiano morenico di questa zona, passeggiare attraverso i vigneti e godere del panorama che si apre verso il lago di Garda e la pianure di San Martino, altro luogo di battaglia.


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SOLFERINO HISTORY AND FOOD TOUR

Adriana Oberto Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 43

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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 43


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Piazza Castello La piazza dove sorgeva l'antico castello eretto nel secolo XI, poi modificato dal principe Orazio Gonzaga che lo trasformò nella propria residenza, è una vasta terrazza da cui si può ammirare il dolce paesaggio delle colline. Si accede alla piazza passando sotto un arco, un tempo sormontato da una torre con ponte levatoio, di forma rettangolare, cinta ancora in parte da mura merlate; la piazza è chiusa a destra da una cortina di case, mentre a sinistra una bassa muraglia permette di godere dell’ampio panorama che arriva sin oltre il lago di Garda.

Del vecchio castello sono rimaste, sopravvissute al tempo, ma soprattutto alle battaglie del 1796 e 1859, la Torre di Guardia, chiamata anche torre civica, con la caratteristica cupola ogivale di gusto orientaleggiante, sede di numerose esposizioni durante il periodo estivo, e la Chiesa di San Nicola, al centro, che ha subito negli anni radicali trasformazioni.

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La Rocca

La Rocca di Solferino, conosciuta anche come Spia d'Italia è un edificio storico di Solferino, situato in posizione sopraelevata rispetto alla piazza del castello e all’abitato originario. È stata eretta nel 1022 sulla sommità del colle (206 m s.l.m.). Questa altura rappresenta il punto più elevato della provincia di Mantova. Nel 1315 la Rocca venne acquistata da Rinaldo Bonacolsi, detto "Passerino", signore di Mantova. Cristierno Gonzaga, marchese di Solferino, la restaurò nel 1611. Acquisì nel tempo valenza strategica per la sua posizione geografica che le valse nel Risorgimento l'appellativo di "Spia d'Italia": fino al 1866 il confine di stato tra Regno d'Italia e Impero austriaco passava infatti poco lontano da questa fortezza. Nel 1866, in seguito alla terza guerra d'indipendenza, perse questa funzione per l'annessione del Veneto all'Italia. Fu teatro della sanguinosa battaglia di Solferino del 24 giugno 1859, scontro armato della seconda guerra d'indipendenza, durante la quale si affrontarono gli eserciti franco-piemontese ed austriaco, che si contesero il controllo della Rocca. La Rocca, dopo un periodo di abbandono, subì importanti restauri nel 1870, quando diventò un museo. Venne restaurata nuovamente nel 2011 in occasione del 150° Anniversario dell'Unità d'Italia.

Al piano terra della torre, approntato a museo, sono collocati cimeli, quadri ed armi della seconda guerra d'indipendenza, in particolar modo quelli relativi alla battaglia di Solferino. Tra i cimeli relativi a questo scontro è esposto il busto del generale francese Charles Auger, morto per le ferite riportate in questa battaglia. Una rampa in legno conduce alla sommità dove è possibile ammirare la vicina torre monumentale di San Martino della Battaglia e il panorama delle campagne circostanti e del lago di Garda; lungo il percorso che conduce alla terrazza superiore è collocata una raccolta documentale relativa alla storia dell'edificio e alla zecca di Solferino, che era attiva ai tempi dei Gonzaga. La sala che introduce alla terrazza panoramica è chiamata "Sala dei Sovrani" perché sulle sue pareti sono appesi due dipinti che raffigurano Vittorio Emanuele II e Napoleone III, ovvero i due monarchi che comandarono l'esercito franco-piemontese. Sulla sommità della Rocca sventola una bandiera italiana. La Rocca, che è alta 23 metri, è inserita in un grande parco pubblico.

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L' Ossario

I caduti della battaglia di Solferino rimasero a lungo sul campo di battaglia e vennero in seguito sepolti in fosse comuni. Le loro ossa vennero recuperate e riposano nell'ossario di Solferino, un ossario monumentale che si trova nei pressi del Museo del Risorgimento di Solferino e San Martino e non lontano dalla Rocca di Solferino, dal quale è facilmente visibile.

A sinistra dell'ossario è collocato un busto di bronzo che raffigura Napoleone III, mentre a destra è situato un piccolo monumento funebre che ricorda il generale francese Charles Auger, morto per le ferite riportate nella battaglia di Solferino.

È ospitato all'interno della chiesa di San Pietro in Vincoli, la più antica del comune, in seguito convertita in ossario. Raccoglie 1.413 teschi e le ossa di 7.000 caduti dei tre eserciti che il 24 giugno 1859 si affrontarono nella sanguinosa battaglia di Solferino.

All'ingresso dell'ossario sono posizionati i busti dei cinque generali francesi che perirono nella seconda guerra d'indipendenza.

L'ossario di Solferino si raggiunge percorrendo un viale fiancheggiato da cipressi.

La facciata dell'ossario è impreziosita da due mosaici che rappresentano San Pietro e il Cristo Redentore; sopra queste opere artistiche è collocata una statua della Madonna.

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La Battaglia

La battaglia di Solferino (24 giugno 1859) fu combattuta fra l'esercito austriaco e quello francese durante la seconda guerra di indipendenza nel contesto della battaglia di Solferino e San Martino, alla quale parteciparono anche i soldati dell'esercito piemontese. Dopo la sconfitta a Magenta, l'esercito austriaco si ritirava verso est, inseguito dall'esercito francopiemontese. Lo stesso Francesco Giuseppe venne personalmente in Italia per prendere il comando delle truppe, rimuovendo dall'incarico il generale Gyulai, considerato colpevole della sconfitta precedente. Il mattino del 23 giugno le armate austriache fecero dietro-front per contrattaccare lungo il fiume Chiese. Allo stesso tempo Napoleone III ordinò l'avanzata delle sue truppe e così gli eserciti avversari vennero a scontrarsi in luoghi del tutto imprevisti. Mentre a nord, sui colli di San Martino, le truppe piemontesi combattevano con l'ala destra dell'esercito austriaco, l'esercito francese si scontrò a sud, più precisamente a Solferino (a metà strada fra Mantova e Brescia), con il grosso delle truppe nemiche: entrambe le parti non si aspettavano assolutamente di trovarsi di fronte l'intero esercito nemico.

di Cavriana, ma non sui colli di San Martino, ove la battaglia cessò soltanto a sera. Lo scontro fu così feroce e cruento che l'esercito vincitore non ebbe la forza di inseguire quello sconfitto in fuga, il quale riparò oltre il Mincio. I morti totali nello scontro armato citato assommarono a ben 11.000 soldati, a cui si aggiunsero 29.000 feriti.

La battaglia si sviluppò caoticamente lungo un fronte di 15 km, finché, nel primo pomeriggio, le truppe francesi sfondarono il centro di quelle austriache. I combattimenti proseguirono ancora nel pomeriggio inoltrato attorno a Solferino, Cavriana e Guidizzolo, sino a quando un violento temporale interruppe la lotta (iniziata alle prime luci del giorno), nei pressi

100Ème de ligne "100ÈME de ligne" è nata nel 2009 in occasione del 150° anniversario della II guerra per l'indipendenza d'Italia. Ideata da un gruppo di appassionati con alle spalle molti anni di esperienza di rievocazione storica, la sede si trova a Castel Goffredo (MN) dove la mattina del 24 giugno 1859 vi furono le prime "scaramucce" della famosa battaglia di Solferino e San Martino. Il gruppo partecipa attivamente agli eventi in ambito nazionale relativamente al periodo risorgimentale (1854-1870).

La scelta di creare il n°100 come reggimento di fanteria di linea è dovuta a varie considerazioni: reperti originali del reggimento rinvenuti nel territorio tra Medole e Solferino, fonti originali come fotografie del 100° regimento di linea e documentazioni varie. Attualmente il gruppo è composto de circa 20 persone.

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Il Museo

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Il Museo del Risorgimento di Solferino e San Martino è uno spazio espositivo situato a Solferino, in provincia di Mantova, e dedicato al Risorgimento, con particolare attenzione ai reperti legati alla battaglia di Solferino e San Martino. Lo stesso museo, ha una sede distaccata nel vicino centro abitato di San Martino della Battaglia, frazione di Desenzano del Garda, in provincia di Brescia. È stato fondato nel 1931 a Solferino dalla "Società di Solferino e San Martino", organizzazione nata nel 1870 con l'obiettivo di ricordare i caduti nella celebre battaglia. Le premesse alla costituzione del museo si ebbero nel 1870, con la realizzazione dell'ossario di Solferino. I reperti conservati nella sede museale di Solferino coprono cronologicamente l'intero Risorgimento e sono databili dal 1796, anno della prima discesa di Napoleone Bonaparte in Italia, al 1870, anno della

presa di Roma. Il percorso espositivo è guidato da didascalie che spiegano gli eventi. Reperti della battaglia sono anche esposti nella Rocca di Solferino. Le esposizioni comprendono documenti originali dell'epoca, stampe e disegni, una vasta raccolta iconografica, divise militari, armi, cannoni e altri tipi di cimeli. La collezione è poi completata dai reperti legati alla battaglia, con particolare attenzione ai cimeli che si riferiscono alla fase dello scontro armato combattuta a Solferino.

Adriana Oberto Photography

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Henry Dunant Lo svizzero evangelico Henry Dunant giunto il giorno della battaglia, vista la terribile carneficina e l'impotenza di fronte alla disorganizzazione con cui furono portati i soccorsi, rimase fortemente impressionato. Agì quindi per organizzare un minimo di attività di assistenza, che venne data mediante il trasporto dei feriti presso il duomo di Castiglione delle Stiviere e lì, con l'aiuto della popolazione, specialmente femminile, vennero prestati soccorsi a tutti, senza riguardo alla divisa indossata, avendo come riferimento il motto "Tutti Fratelli".

Giancarlo Nitti Photography

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In seguito scrisse e pubblicò a sue spese il libro “Un souvenir de Solférino” e fondò la Croce Rossa Internazionale. Per la sua attività e le sue idee venne insignito del primo Premio Nobel per la Pace, nell'anno 1901. Il memoriale della Croce Rossa fu realizzato nel 1959 in occasione delle celebrazioni del centenario della battaglia.


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SOLFERINO HISTORY AND FOOD TOUR

A PROPOSITO DI

Elvezia e Sbrisolona

Durante il Solferino Food Tour, gli assaggi sono stati offerti dalla Pasticceria Arcobaleno, che ha voluto sfoggiare tre tipiche torte della tradizione locale.

01 ELVEZIA La Torta Helvetia (o Elvezia) è considerata uno dei più deliziosi dolci dell'area mantovana. Tra dischi di pasta sovrapposti di mandorle tritate, albumi montati a neve e zucchero, vi sono strati di creme di burro e zabaione. I mantovani rivendicano la paternità dello zabaione, in quanto la più antica ricetta conosciuta è quella del cuoco di corte dei Gonzaga. L’Helvetia è una torta di pasticceria, ideata dalla famiglia di pasticceri svizzeri dei Grigioni Putscher, che avevano aperto i loro negozi a Mantova alla fine del Settecento e avevano voluto dedicare questo dolce alla loro nazione.

02 SBRISOLONA Un vero e proprio simbolo della pasticceria mantovana, chiamata anche Sbrisolina o Sbrisulada, deve il nome proprio alla sua friabilità, alle “brise” o briciole grandi e piccole che si formano quando viene spezzata per fare le porzioni. La Sbrisolona, infatti, non si taglia, ma si spezza con le mani. Un dolce da forno che nella ricetta tradizionale prevede pari quantità di farina bianca, di farina gialla e di zucchero. Fra gli ingredienti vi sono inoltre mandorle, burro, uova, lievito e, a volte, marsala. La ricetta risale a prima del Seicento, quando arrivò alla corte dei Gonzaga. Nelle trattorie, solitamente, viene servita con un bicchierino di grappa, che per contrasto ne aumenta la dolcezza.

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SOLFERINO HISTORY AND FOOD TOUR

A PROPOSITO DI

Solferitivo

L'aperitivo autoctono ideato e servito dal Chiosco di Solferino, ormai famoso per la sua invenzione che vanta nel colore e negli ingredienti, tutta l'espressione del territorio. È una rivisitazione del conosciuto Spritz, ma con ingredienti tutti a km 0, uniti in un colore "Rosso Solferino" dal gusto esplosivo. LA BASE La base è il Lugana, il vino bianco locale delle zone Moreniche dal colore brillante e di grande freschezza, struttura e varietà di aromi. IL COLORE Per il suo gusto deciso, ma soprattutto per il suo colore, viene inserito il succo di mirtillo che viene diluito fino a raggiungere la giusta tonalità di rosso dall'Aperol. Si completa con molto ghiaccio e seltz incastrando una fettina di limone sul bicchiere.

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Segui l'hub cookin_italia su Instagram con i suoi canali regionali e tematici. L'espressione della cucina italiana in immagini piene di colori e idee per viaggiare con il gusto.

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B E D & B R E A K FA S T

Nel centro storico di Solferino, in una posizione tranquilla, nel mezzo dei principali paesi delle Colline Moreniche il Bed & Breakfast dispone di tre camere luminose e accoglienti, arredate con cura e dotate di bagno privato e di tutti i comfort. Vi accogliamo calorosamente offrendo ospitalità e cortesia in un ambiente familiare con una colazione a buffet con prodotti locali e genuini da gustare in terrazza godendoviu na magnifica vista. Amiamo il nostro territorio e vi accompagniamo alla scoperta della zona fornendo informazioni e consigli utili. Cogliete l’attimo e lasciativi sorprendere da un soggiorno indimenticabile. www.carpediemsolferino.it Giroinfoto Magazine nr. 43


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URBEX - LA CHIESA BLU

A C U R A D I U R B E X T E A M O L D I T A LY

Instagram urbexteam_olditaly

La Chiesa Blu, così chiamata per i favolosi giochi di luce dati dal riflesso delle vetrate di colore blu al suo interno, fa parte di un seminario gesuita completamente abbandonato. Una chiesa sperduta nel nulla, di cui gli esploratori urbex tengono segreto il luogo. Un’atmosfera da fiaba per uno dei segreti italiani.

LA CHIESA BLU Nel mezzo di un piccolo bosco, al termine di un piccolo vialetto costeggiato da grandi alberi un tempo rigogliosi, si trova una piccola chiesa, collegata ad un seminario, entrambi abbandonati. L’esterno è quello classico, che potrete riconoscere in molti edifici di epoche simili. Ciò che lascia senza fiato è l’interno che rivela un'atmosfera quasi magica ed incantata. Entrando nella piccola chiesetta infatti vi troverete catapultati in un atmosfera sinistra e del tutto inusuale per un luogo sacro. La luce che penetra dalle alte finestre crea “rimbalzando” sulle antiche mura dei riflessi bluastri.

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Percorrendo la navata centrale, l’unica appunto, si arriva sotto il grande crocefisso sospeso sull’altare. Nessuna statua particolare, nessun ornamento. Una chiesa semplice nel suo blu ultraterreno. Minimi i danni causati dal passare degli anni, quasi come se per questa bellissima e unica chiesetta il tempo si fosse fermato. Leggenda urbana, edifici abbandonati, lasciati a se stessi, le indagini sono condotte senza asportare, imbrattare, provocare danni.


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Nel 1496 la notizia dell'apparizione della Madonna ad una pastorella presso una quercia nei dintorni di Bettola determinò la nascita di un vastissimo e sentito culto popolare: sul colle della visione vennero fondati una chiesa ed un convento francescano. Soppressa l'istituzione religiosa in epoca napoleonica il santuario rovinò rapidamente assieme al convento, adibito per un breve periodo a carcere. Solo nel 1954 venne costruita una nuova cappella sul luogo dell'apparizione, vicino a quel che resta del convento. La quercia e la statua mariana oggetto di culto sono oggi conservate nel nuovo Santuario della Madonna della Quercia costruito nella piazza principale del paese. Attualmente la struttura è in vendita, ma visti gli ingenti danni è difficile venga mai acquistata perché i costi per la ristrutturazione sarebbero davvero molto alti. La struttura apparentemente solida presenta grosse crepe murarie. Il tempo e l’incuria riservano al complesso un destino di macerie a meno che non si decida di intervenire con un’opera di recupero. Sono stati formulati vari progetti, alcuni sostenuti da un

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comitato costituito da abitanti del luogo. Tra raccolte di firme e proposte di autofinanziamento si sono offerti di gestire la struttura, creando un centro di riposo per anziani. Tuttavia i costi gravosi, le problematiche legali e i problemi di accessibilità hanno reso inattuabile qualsiasi tentativo di recupero. A questo quadro desolante si accompagna il rammarico di tanti ex allievi del San Luigi, che periodicamente fanno sentire la loro voce ricordando l’impostazione didattica e il calore umano incontrato nell’istituto. Senza temere di essere smentiti possiamo affermare che la chiesa blu è il soggetto urbex di tutti i tempi. La sua notorietà ha fatto sì che molti di quelli che non l’hanno esplorata, siano convinti sia una struttura a sé e non un elemento secondario di una struttura scolastica. Fortunatamente nonostante il passare degli anni la chiesa blu è riuscita a mantenere un buon livello di conservazione, ci auguriamo rimanga tale in attesa di un intervento di recupero.

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La storia dell’Istituto San Luigi di Roncovero. Fondato, come si legge in una targa marmorea posta il 2 dicembre 1981 sulla facciata della chiesetta, da Antonio Ghirardelli, classe 1866, Cavalier della Corona d’Italia, dal 1914 al 1920 sindaco di Bettola.

Seminario Minore, poi fu affiancata dalla Scuola media paritaria con convitto che, sempre sotto l’egida dei Padri Gesuiti, accolse ragazzi da Selva, Centenaro, Mareto, Pradovera, da Pontedellolio e da altre frazioni Valnuresi.

Con il Cav. Luigi destinarono il loro patrimonio alla erezione del “Piccolo seminario” i fratelli Agostino e Caterina per un ammontare di 400.000 lire al quale si aggiunsero lasciti successivi.

Alle prese con la crisi delle vocazioni, nel 1984 i Gesuiti se ne andarono. La struttura passò alla Diocesi di Piacenza che nel 1986 per una decina di anni l’affittò alla scuola di Polizia di Stato.

I lavori per la costruzione iniziarono nei primi anni Trenta su progetto dell’architetto Pietro Berzolla che riuscì nell’impresa di edificare una struttura di notevoli dimensioni armonicamente inserita nel paesaggio naturale. La struttura funzionò per parecchi decenni come

Fu la prima scuola ad ospitare le donne che si arruolavano in polizia. All’epoca, Adamo Gulì - ex questore di Piacenza e, prima, per 15 anni direttore della scuola - convinse il vescovo Antonio Mazza a dargli il vecchio convento San Luigi a Roncovero di Bettola.

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In un mese e mezzo lo rimise a posto, pronto per ospitare il primo corso misto uomini-donne della storia della Polizia italiana. Era l'8 settembre del 1986 e anche le ragazze per la prima volta, poterono indossare la divisa blu della Polizia di Stato. Nel 1997 il complesso accolse circa ottanta profughi albanesi in fuga dal loro paese. Fu poi utilizzato come sede della comunità di recupero Ceis in attesa della disponibilità della struttura di Justiano (Vigolzone). Nel 2001 la diocesi alienò Il complesso immobiliare composto da fabbricato di tre piani fuori terra con

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seminterrato, chiesa dedicata a San Luigi Gonzaga e il circostante terreno di circa 24.570 mq, ad una ditta rappresentata da un armeno di nome DolbaKhian. Dopo aver chiesto e ottenuto dal Comune il cambio di destinazione d’uso presentando un progetto per una casa di cura, la ditta dichiarò fallimento. L’intera proprietà nel 2010 fu messa all’asta con base 512.000 euro. Non trovò però acquirenti e così fu per le successive tornate con il prezzo in considerevole calo. Nel frattempo il degrado del fu “Istituto San Luigi” è in

continua e costante crescita: quello che non hanno fatto gli agenti atmosferici lo hanno compiuto ignoti compiendo atti vandalici, soprattutto all'interno. Anche la piccola Chiesa presenta il logorio del tempo con la facciata che mostra vistose crepe. Nell’agosto dello scorso anno poi, veri o presunti satanisti hanno lasciato scritte e simboli esoterici all’interno della chiesa mai sconsacrata.

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L'URBAN EXPLORATION

Spesso abbreviata in URBEX o UE, tradotta letteralmente dall'inglese come "esplorazione urbana", consiste nell'esplorazione di strutture artificiali, spesso rovine abbandonate o componenti poco visibili dell'ambiente urbano. La fotografia e la documentazione storica sono ingredienti essenziali di questo hobby e anche se talvolta esso può condurre allo sconfinamento su proprietà private, non è questa la regola e comunque le intenzioni sono oneste. L'Urban Exploration è anche comunemente indicata come "infiltrazione"; tuttavia alcuni praticanti preferiscono limitare tale denominazione alla sola esplorazione di siti attivi o abitati. Talvolta viene anche chiamata "speleologia urbana" o "arrampicata urbana", a seconda dei luoghi visitati. Esempi di questa attività sono l'esplorazione di palazzi sia abbandonati che ancora abitati, di sistemi urbani di drenaggio delle acque, di tunnel di servizio, di passaggi sotterranei e simili. Per sua stessa natura l'urbex comporta diversi fattori di rischio, dai pericoli fisici veri e propri alla possibilità di infrangere la legge con relative sanzioni sia pecuniarie che penali. In diversi paesi, infatti, alcuni comportamenti connessi con l'esplorazione urbana possono violare leggi nazionali, regolamenti locali e interpretazioni più o meno libere delle normative contro il terrorismo, oppure possono essere anche considerati forme abusive di accesso o lesioni della privacy. L'urbex col passare degli anni ha avuto una forte influenza, sia sociale che politica. Questa disciplina mutandosi col tempo è divenuta un impegno per segnalare, salvaguardare e proteggere i luoghi urbani abbandonati sottraendoli al completo decadimento. Molti appassionati di questo tema cercano di valorizzare questi ambienti e proporli alle piattaforme mediatiche per far conoscere le meraviglie perdute dei propri paesi e portando avanti anche progetti di sensibilizzazione e raccolte fondi. Giroinfoto Magazine nr. 43


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ORIGINI E DIFFUSIONE

Anche se la storia dell'Urban Exploration è abbastanza recente (due secoli all'incirca), le sue origini vengono fatte risalire al 3 novembre 1793, quando un leggendario "esploratore" delle Catacombe di Parigi, Philibert Aspairt, divenne celebre per la sua morte prematura in quella vasta rete di gallerie sotterranee in cui si era smarrito. Anche se la sua esistenza non è del tutto provata, Aspairt (o colui il cui cadavere venne ritrovato undici anni dopo nel sottosuolo parigino) è sepolto nel Grand Réseau Sud, sotto la rue Henri Barbusse, presso il boulevard Saint-Michel. Da allora quel luogo e le Catacombe in generale, nonostante il divieto di accedervi senza autorizzazione, sono frequentate soprattutto dai cosiddetti cataphiles ("amanti delle Catacombe"), che ne hanno fatto un enorme spazio di incontri e socializzazione. La ben più recente popolarità dell'urbex fra il pubblico va indubbiamente attribuita all'attenzione per il fenomeno ottenuta sui media, per esempio con programmi molto seguiti come Urban Explorers su Discovery Channel, Cities of the Underworld su The History Channel o il reality MTV's Fear su MTV ambientato in tipici luoghi abbandonati, oppure con film come Urban Explorer, un horror-thriller che si svolge nei sotterranei di Berlino, o After..., un thriller paranormale con un gruppo di "esploratori urbani" nelle gallerie della metropolitana di Mosca, oltre naturalmente agli articoli e le interviste sui giornali. In Italia Carlo Infante ha sviluppato dal 2010 una progetto di esplorazione urbana supportata dall'interazione con diversi dispositivi di comunicazione, che trova eco in nella piattaforma Urban experience.

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È LEGALE L’URBEX? CHIARIAMOLO IN 10 PUNTI

Tratto da www.ascosilasciti.com

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Lo Stato in cui si trova l’immobile. Inteso come la nazione in cui si trova. Ognuna con le sue lingue, le sue culture e soprattutto… le sue regole! Esiste un’enorme differenza di conseguenze legali se la stessa azione viene svolta in Lituania o in Italia. Aldilà delle leggi che possono tutelare e condannare, ricordiamo bene che in alcuni Stati, prima di uscire vincitori da una causa legale e le pubbliche scuse dell’accusa, si rischia di passare da un bel “servizio educativo” della polizia locale. Non sempre negli Stati più monarchici avrete la detenzione assicurata e in quelli più democratici, la certezza di farla franca. Non avendo tempo nè risorse sufficienti per affrontare la questione di ogni singola Nazione, ci concentreremo a sviscerare il, già complesso, codice del nostro Bel Paese.

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Accessi aperti. Mancanza di recinzione, porte spalancate o inesistenti, grosse aperture nei muri perimetrali, insomma tutti i varchi aperti sono “amici dell’urbex”. Tutto cambia se per accedere a un luogo abbandonato, proverete ad aprire porte chiuse o scavalcare muri (la questione cambierebbe anche per ogni metro di altezza dei perimetri…), il che costituisce violazione di domicilio privato. Crearsi entrate con forza o manomettendo recinzioni, è sufficiente invece perchè l’accusa diventi una frizzantissima “effrazione con scasso”. Giroinfoto Magazine nr. 43

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Lo stato in cui versa l’immobile, ma questa volta intesa come condizione. Finestre rotte, muri crepati, tetti squarciati, muffa e vegetazione incontrollata, porte spalancate, sono tutti segni di chiaro abbandono che potrebbero tutelare l’esploratore. L’attenuante di “immobile in chiaro stato di abbandono” non è da sottovalutare, per quanto non vi sia nulla di codificato. In un’alta percentuale dei casi può però assolvere l’esploratore da accuse di violazione di domicilio.

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Cartelli e avvertimenti. Controllare l’eventuale presenza di cartelli di monito non sarebbe troppo sbagliato (proprietà privata o divieto di accesso). La loro assenza o illeggibilità (magari pioggia e vento hanno fatto arrugginire il ferro dell’affisso o marcire il legno del manifesto) potrebbero comportare buoni sgravi di responsabilità. Insomma, un’ulteriore attenuante, che male non fa’…


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Non toccare nulla. Per chi non lo conoscesse, il comandamento dell’Urbex “prendi solo foto, lascia solo impronte” è un promemoria anche di tutela legale. I souvenir, fosse anche un sasso del muro di un manicomio abbandonato, non sono contemplati come legali.

Strumenti che portate con voi. Conosciamo tutti, o almeno immaginiamo, il rischio di entrare in un edificio abbandonato, potenzialmente abitato da malviventi. Purtroppo no…non basta questo pretesto per portarsi un machete, nemmeno con l’altruistico fine di accettare l’incolto prato della magione. Ma attenzione, anche con un bastone da trekking, o altri strumenti apparentemente innocui, potrebbero scattare l’aggravante di “arma bianca”. Nessuna arma da difesa, all’infuori del cavalletto o di un ramo trovato sul posto, si può….accettare!

Avvisi e permessi. Torniamo al tema clou. Anche a costo di passare come noiosi genitori apprensivi, sconsigliamo sempre di esplorare questi posti. Se proprio doveste sentirne l’irrefrenabile impulso, avvisate le autorità competenti, nel caso di edifici comunali/statali, o i proprietari/ guardiani per ottenere il permesso ad entrare. Anche a costo di creare allarmismi. Oppure rivolgetevi ad alcune associazioni che operano tramite quest’ultimi. Diffidate dalle organizzazioni che si disinteressano della questione legale e vi fanno clandestinamente introdurre in pericolosi edifici abbandonati.

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Anzi, sarebbe meglio prendere solo foto (nel senso di scattarle, ovviamente, non di rubare gli album di famiglia sul comò impolverato) e non lasciare alcuna impronta. Come mai? Udite-udite, per creare il giusto setting alle proprie foto, basta solo spostare gli oggetti e gli arredi, ed essere colti sul fatto, per una bella “accusa di tentato furto”.

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Non scappare e collaborare sempre con le autorità. Se avete seguito i consigli sopra citati, potete sentirvi tranquilli. Motivo per cui, mostratevi per quello che siete e avete fatto. E’ sempre buona norma collaborare enunciando le proprie intenzioni. Così facendo sarete fuori dai guai nel 90% dei casi.

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Rispettare tutti gli 8 punti. La somma delle probabilità di non passare guai seri, che viene fuori rispettando gli 8 punti, vi assolve al 99,9%, parlando dal punto di vista penale. Più complessa diviene la questione civile, che dipende maggiormente dalla volontà del proprietario di volervi eventualmente punire, denunciandovi.

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Incertezza. L’incertezza, purtroppo, rimane l’unica certezza. Tranquilli al 100% non lo sarete mai. Unico modo per sentirvi realmente tutelati è di ascoltare il consiglio enunciato al punto 7. Odiate da molti, poiché danno in pasto alcuni luoghi abbandonati al grande pubblico, queste Associazioni (solo quelle che operano tramite mezzi legali) sono in realtà le uniche a tutelare i luoghi abbandonati in tre modi: si rivolgono ai proprietari ottenendo i permessi di visita; danno visibilità ad alcuni posti altrimenti destinati a marcire nell’indifferenza; scelgono come meta per i loro viaggi solitamente luoghi già devastati dal tempo e dai vandali, per non esporre al turismo di massa gli edifici ancora intatti, accelerandone il declino. Intanto, l’unica certezza è che, come scriveva il romantico François-René de Chateaubriand, tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine. Giroinfoto Magazine nr. 43

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ABU DHABI - SHEIKH ZAYED GRAND MOSQUE

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ABU DHABI

GRAND MOSQUE A cura di Monica Gotta

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ABU DHABI - SHEIKH ZAYED GRAND MOSQUE

UNA MIRIADE DI COLONNE BIANCHE Quale appassionato di fotografia e viaggi non ha mai visto un’immagine della Grande Moschea di Sheikh Zayed – la Grande Moschea Bianca?

mira a rappresentare l'estetica dell'architettura islamica che può essere percepita in ogni angolo di questo grande edificio.

Prima di partire ne ho viste moltissime e alcune molto belle, quasi da togliere il fiato. Vederla dal vivo è decisamente un’altra cosa. E’ diventato uno dei luoghi del culto islamico più fotografato e più famoso per la sua magnificenza e il suo splendore.

Questa competizione, che si chiuderà a Luglio 2019, sostiene l'attività culturale che arricchisce notevolmente gli Emirati Arabi Uniti in generale e Abu Dhabi in particolare. Viene considerata un'iniziativa distintiva nel campo della fotografia ed è uno dei più importanti concorsi di fotografia e arti visive del mondo, sia a livello locale che internazionale con premi in denaro e di altra natura. Sappiate che ci sono altri concorsi fotografici degni di interesse internazionale organizzati e patrocinati negli Emirati Arabi Uniti.

Chi, come me, ha visto fotografie di questo luogo meraviglioso e decisamente “fotogenico”, sarà un piacere scoprire che il Centro della Grande Moschea di Sheikh Zayed organizza ogni anno il Concorso di fotografia Spaces of Light – Photography Award, che

Quando ci si avvicina al sito della moschea si vedono i minareti e le cupole da una grande distanza. Durante il tragitto in taxi si è intensificato il desiderio di entrare in questo edificio.

La posizione geografica della moschea è strategica, un'espressione simbolica, perché il luogo di sepoltura di Sheikh Zayed bin Sultan Al Nahyan, primo Presidente degli Emirati Arabi Uniti, si trova accanto alla moschea.

Dal Abu Dhabi Mall alla Grand Mosque ci vogliono circa 25 minuti di taxi, tutto il tempo per portare a coscienza che è giunto il momento di vederla con i miei occhi!

Per capire cosa rappresenta la moschea bisogna comprendere chi è l’ideatore della moschea, Sheikh Zayed. Infatti nella moschea si riflette la sua idea di arte, cultura e religione.

Situata ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti e, a testimonianza della visione del suo fondatore, la Grande Moschea di Sheikh Zayed si trova maestosamente all'ingresso dell'isola di Abu Dhabi, distintamente visibile dai tre ponti principali che collegano l'isola alla terra, il Maqta, il Mussafah e lo Sheikh Zayed Bridge.

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ABU DHABI - SHEIKH ZAYED GRAND MOSQUE

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Lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan (1918-2004) ha lasciato svariate testimonianze di sé. Dopo aver fondato gli Emirati Arabi Uniti, Zayed è riuscito a modificare drasticamente la vita e il destino dei suoi cittadini a livello economico, intellettuale e sociale. Ha costruito un paese moderno e sofisticato preservando la particolare identità culturale della sua nazione. Per lui, la tolleranza è la prova della vitalità di una nazione e la prova della sua capacità di ottenere più progresso. Quindi per Sheikh Zayed, tutti i popoli, le razze, le tribù e le nazioni di tutto il mondo sono uniti insieme indipendentemente dalle differenze di colore e religione. Il suo concetto di diversità è espresso nella Grande Moschea di Sheikh Zayed. La moschea è il prodotto “finale” della visione moderna, futuristica e unica di Sheikh Zayed. Il padre degli Emirati Arabi Uniti ha creato un monumento islamico, un centro per le scienze islamiche e un emblema dei veri valori islamici.

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GRAND MOSQUE

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L’inizio del progetto della Grande Moschea nasce alla fine degli anni ’80 e la costruzione iniziò il 5 novembre 1996. La capacità massima è di circa 40.000-50.000 persone, di cui 7.000 nella sala di preghiera principale, oltre a 1.500 in ognuna delle due sale laterali, di cui una riservata alle donne. Le sale di preghiera interne sono state inizialmente aperte per l'adorazione di Eid Al Adha (Festa del sacrificio) nel 2007 e sono rimaste tali da allora. L’idea di Sheikh Zayed di “unire il mondo indipendentemente dalla cultura e dal colore della pelle” si riflette perfettamente nella progettazione e costruzione della moschea. Utilizzando più di 3.000 artigiani e materiali provenienti da molti paesi, tra cui Italia, Germania, Marocco, India, Turchia, Cina, Regno Unito, Nuova Zelanda, Grecia e, naturalmente, gli Emirati Arabi Uniti ha unito diverse culture per realizzare un monumento stupefacente. I materiali naturali sono stati scelti per gran parte del design e della costruzione grazie alle loro qualità durevoli e belle, tra cui marmo, pietra, oro, pietre semipreziose, cristalli e ceramica. Il marmo utilizzato per la costruzione è Italiano, è il marmo Altoatesino di Lasa, con cui sono sviluppate anche le scale interne. Il marmo con cui è rivestita esternamente e il rivestimento dei minareti è di marmo SIVEC della Macedonia. Il marmo di Makrana (India) è stato usato nelle pertinenze ed uffici. Altri marmi usati sono l'Acquabianca e il Bianco (dall'Italia) e il Bianco orientale e il Verde Ming (dalla Cina). Il colore bianco puro della moschea è diventato una delle sue caratteristiche più distintive, colore scelto da Zayed in quanto simbolo di purezza e pietà.

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Quando si arriva davanti alla moschea il taxi vi lascia davanti a una piccola cupola di vetro, l’ingresso per i visitatori. Entrando si scende al livello inferiore con una scala mobile e si inizia il processo di registrazione. La fila impegna poco tempo. Ci sono degli addetti disponibili ad aiutarvi nella fase di registrazione attraverso dei totem dove dovrete inserire i vostri dati. Terminato ciò avrete la stampa di QR-Code e un braccialetto da indossare. Per non trovarsi impreparati dovreste conoscere il codice di abbigliamento per entrare nella Grande Moschea di Sheikh Zayed. Chi ha già avuto modo di visitare altre moschee saprà a grandi linee cosa fare o non fare a livello di dress code. Non sono ammessi vestiti trasparenti o con trasparenze, shorts e gonne, camicie o magliette senza maniche, nessun vestito stretto, abbigliamento da spiaggia e abbigliamento con parole profane. Le donne devono coprirsi il capo con una sciarpa o foulard. Naturalmente, in caso non aveste quanto necessario nella vostra valigia, potrete affittare quanto serve direttamente alla moschea. Controllate gli orari della moschea. Si può visitare dal sabato al giovedì dalle 09.00 alle 22.00. Non dimenticate che la moschea è chiusa ai turisti e aperta per la preghiera i venerdì mattina e riapre ai visitatori dopo le 16.30. Durante il sacro mese del Ramadan gli orari di apertura si modificano e non apre ai turisti i venerdì. Simili gli orari del primo giorno del Eid Al-Fitr (Festa della colazione) e Eid Al-Adha (Festa del sacrificio). Passerete poi un controllo simile a quello degli aeroporti che conoscete bene. Ricordate anche di non portare con voi oggetti affilati, accendini e quant’altro possa essere utilizzato come arma o per creare fuoco e nessuna bottiglietta di acqua.

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Inizio la passeggiata nel tunnel sotterraneo che porta davanti alla moschea. Abbastanza lungo, illuminato da cupole di vetro che lasciano passare la luce del sole. Arrivata dall’altra parte ho il primo assaggio della maestosità di questo monumento. La sua architettura è ispirata allo stile persiano, moghul e moresco. Gli archi sono sostanzialmente moreschi, mentre i minareti sono in stile arabo classico. In particolare, la forma della cupola e la pianta della moschea ricalcano quelle della Moschea Imperiale di Lahore (Pakistan) e alla Moschea di Hassan II di Casablanca (Marocco). Perciò ho deciso di guardare fotografie di queste moschee per vederne le similitudini. La moschea di Lahore la richiama per la vista frontale che si ha non appena arrivati, benché sia molto più complessa di quella pakistana. La moschea di Casablanca condivide con la Grand Mosque i colori e l’utilizzo del marmo. Ci sono 82 cupole di varie dimensioni e la più grande si trova al centro della sala di preghiera principale. Ci sono anche quattordici cupole di vetro verde incorporate nel tetto delle strutture sotterranee per l'abluzione maschile e femminile. Sono visibili sopra il suolo e sono una caratteristica importante del design del giardino islamico della moschea. Ci sono 1.096 colonne nel porticato esterno, 96 colonne in gruppi di quattro contribuiscono al supporto strutturale delle tre cupole principali, 4 minareti alti circa 106 metri che sono una delle componenti più significative dell'architettura islamica attraverso i secoli. Chi ha già frequentato paesi di fede islamica conosce il canto del muezzin che riempie l’aria 5 volte al giorno dai minareti. La parola "minareto" deriva infatti dalla parola araba che significa faro. Non a caso, in questa moschea è stata inserita una fonte luminosa di conoscenza ed educazione, la biblioteca che purtroppo non era aperta al pubblico e non ho potuto vedere.

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Cupole e minareti sono le prime cose visibili che fanno da contorno al cortile, Sahan. È un'area aperta, utilizzata per preghiere e grandi raduni come il mese sacro del Ramadan. Il Sahan è costituito da molte migliaia di pezzi di marmo pregiato che danno vita a bellissimi elementi floreali e mosaici. E’ considerato uno dei più grandi mosaici del mondo, creato dall'artista britannico Kevin Dean. Gli elementi floreali che ne decorano i bordi sono diversi tipi di fiori che crescono in Medio Oriente come tulipani, gigli ed iris. Non appena entrati vediamo delle piccole nicchie adornate con fini mosaici di colore blu rappresentati simboli noti. Lo sguardo si apre sul Sahan e sui corridoi esterni formati dalle 1.096 colonne, corridoi aperti che circondano il cortile da entrambi i lati. Le colonne danno l’impressione di non avere fine. Sono costruite con arte minuziosa, fatte di pannelli di marmo bianco, intarsiato con pietre preziose e semipreziose come lapislazzuli, agata rossa, ametista, conchiglia abalone e madreperla. Ogni pezzo è stato scolpito a mano sul posto e intarsiato da artigiani usando una speciale tecnica di intarsio, di cui un raffinato esempio sono le colonne del Taj Mahal in India. Come per i fiori del Sahan, i capitelli dorati delle colonne sono ispirati ad un albero prezioso in tutta l'Arabia, la palma da dattero. Iniziando il cammino sotto il colonnato si vede il cortile da diverse prospettive, si possono gli innumerevoli archi sopra le colonne esterne che formano giochi visivi e di prospettiva molti particolari, dando un senso di infinito. A lato del colonnato, così come all’ingresso, ci sono le vasche riflettenti. Piscine rettangolari piastrellate in diverse tonalità di blu, che riflettono le magnifiche arcate e colonne della moschea e diventano ancora più spettacolari con l'illuminazione notturna. Non avendo potuto vedere dal vivo il gioco di luci ho seguito con interesse la descrizione di una guida del luogo. Durante la notte le colonne si colorano di luce grazie ad un sistema di illuminazione unico che è stato progettato dagli architetti Speirs e Major per evidenziare le fasi lunari. Giroinfoto Magazine nr. 43

Ventidue torri con proiettori di luce danno vita a questo effetto creativo fatto di nuvole color grigioblu proiettate anche sulle cupole e sulla facciata. Seguendo le fasi lunari l’effetto di luci cambia, le nuvole da scure diventano sempre più brillanti. Girando a destra si entra nelle prime sale visitabili. I muri ed i pavimenti sono adornati di mosaici floreali simili a quelli visibili sulle colonne esterne e nel cortile. In questa stanza si vede uno dei 7 lampadari creati appositamente per la moschea, a forma di fiore con petali azzurri del peso di circa 2 tonnellate . Le finestre allungate permettono alla luce naturale di entrare nelle sale di preghiera. Andando avanti, in mezzo a molti altri visitatori, si arriva nella sala principale della preghiera. Qui si resta senza fiato guardando ciò che è stato creato. In questa sala c’è il lampadario in cristallo più grande, realizzato Faustig (Monaco di Baviera, Germania). E’ considerato uno dei più grandi al mondo in una moschea e ha un peso di circa 12 tonnellate con 10 metri di diametro e un’altezza di 15 metri. Nella stessa sala ce ne sono 2 versioni più piccole realizzate con lo stesso disegno. Per realizzare questi lampadari è stato utilizzato oro a 24 carati e tutti i pannelli di vetro sono tempestati di cristalli Swarovski. Le 96 colonne interne della sala di preghiera principale si distinguono dalle colonne esterne per il disegno. Sono rivestite di marmo bianco puro intarsiato con viti di madreperla realizzato a mano a Dongguan - Cina. In questa sala si vedono il mihrāb – la nicchia – situata simmetricamente nel mezzo del muro della Qibla, la direzione della Mecca e il menbar – il pulpito. Il mihrāb, è un elemento architettonico essenziale di una moschea. Ispirato dal Corano che descrive fiumi abbondanti in cielo, la nicchia, un mosaico di vetro dorato sembra scorrere dall’alto al basso come se fosse un fiume di miele. La sua forma a semicerchio è studiata per proiettare la voce dell’Imam a tutti i fedeli in ascolto. Alla sua destra c’è il menbar. Il pulpito, realizzato in legno di cedro, è intarsiato in madreperla, mosaico di vetro e oro bianco.


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Monica Gotta Photography Giroinfoto Magazine nr. 43


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La Qibla riporta i 99 nomi di Dio nel Corano, stilati con la tradizionale calligrafia cufica. Per valorizzare le incisioni, la Qibla dispone anche di un'illuminazione a fibre ottiche sottili, integrata nella decorazione. Dopo aver rivolto lo sguardo in tutte le direzioni, non si può non notare che questa sala ospita il più grande tappeto annodato a mano del mondo ed è il più grande realizzato in Iran. Il tappeto prevalentemente in lana è stato lavorato a mano da circa 1.200 artigiani. La sua creazione è durata due anni, il progetto ha richiesto circa 8 mesi. Il tappeto finale monopezzo è di 5.700 metri quadrati con un peso complessivo di 35 tonnellate. Per il suo trasporto sono stati utilizzati 3 aerei. Tornata all’esterno della moschea mi lascio trasportare dai giardini e dai riflessi delle colonne nelle piscine. Scattare altre fotografie è inevitabile!

Monica Gotta

SHEIKH ZAYED

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WORKING GROUP 2019

BAND OF GIROINFOTO La community dei fotonauti Giroinfoto.com project

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ORINO ALL AMERICAN

REPORT

Progetto editoriale indipendente che si fonda sul concetto di aggregazione e di sviluppo dell’attività foto-giornalistica. Giroinfoto Magazine nr. 43

STORIES

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COME FUNZIONA Il magazine promuove l’identità territoriale delle locations trattate, attraverso un progetto finalizzato a coinvolgere chi è appassionato di fotografia con particolare attenzione all’aspetto caratteristico-territoriale, alla storia e al messaggio sociale. Da un’analisi delle aree geografiche, si individueranno i punti di forza e di unicità del patrimonio territoriale su cui si andranno a concentrare le numerose attività di location scouting, con riprese fotografiche in ogni stile e l’acquisizione delle informazioni necessarie per descrivere i luoghi. Ogni attività avrà infine uno sviluppo editoriale, con la raccolta del materiale acquisito editandolo in articoli per la successiva pubblicazione sulla rivista. Oltre alla valorizzazione del territorio e la conseguente promozione editoriale, il progetto “Band of giroinfoto” offre una funzione importantissima, cioè quella aggregante, costituendo gruppi uniti dalla passione fotografica e creando nuove conoscenze con le quali si potranno condividere esperienze professionali e sociali. Il progetto, inoltre, verrà gestito con un’ottica orientata al concetto di fotografia professionale come strumento utile a chi desidera imparare od evolversi nelle tecniche fotografiche, prevedendo la presenza di fotografi professionisti nel settore della scout location.

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CHI PUÒ PARTECIPARE

Davvero Tutti. Chiunque abbia la voglia di mettersi in gioco in un progetto di interesse culturale e condividere esperienze. I partecipanti non hanno età, può aderire anche chi non possiede attrezzatura professionale o semi-professionale. Partecipare è semplice: Invia a events@giroinfoto.com una mail con una fototessera, i dati anagrafici, il numero di telefono mobile e il grado di preparazione in fotografia. L’organizzazione sarà felice di accoglierti.

PIANIFICAZIONE DEGLI INCONTRI PUBBLICAZIONE ARTICOLI Con il tuo numero di telefono parteciperai ad uno dei gruppi Watsapp, Ad ogni incontro si affronterà una tematica diversa utilizzando diverse dove gli incontri verranno comunicati con minimo dieci giorni di anticipo, tecniche di ripresa. tranne ovviamente le spedizioni complesse in Italia e all’estero. Tutto il materiale acquisito dai partecipanti, comprese le informazioni sui Gli incontri ufficiali avranno cadenza di circa uno al mese. luoghi e i testi redatti, comporranno uno o più articoli che verranno pubbliGli appuntamenti potranno variare di tematica secondo le esigenze cati sulla rivista menzionando gli autori nel rispetto del copyright. editoriali aderendo alle linee guida dei diversi progetti in corso come per esempio Street and Food, dove si andranno ad affrontare le tradizioni La pubblicazione avverrà anche mediante i canali web e socialnetwork gastronomiche nei contesti territoriali o Torino Stories, dove racconteremolegati al brand Giroinfoto magazine. le location di torino e provincia sotto un’ottica fotografia e culturale.

SEDE OPERATIVA La sede delle attività dei working group di Band of Giroinfoto, si trova a Torino. Per questo motivo la stragrande maggioranza degli incontri avranno origine nella città e nel circondario. Fatta eccezione delle spedizioni all’estero e altre attività su tutto il territorio italiano, ove sarà possibile organizzare e coordinare le partecipazioni da ogni posizione geografica, sarà preferibile accettare nei gruppi, persone che risiedono in provincia di Torino. Nel gruppo sono già presenti membri che appartengono ad altre regioni e che partecipano regolarmente alle attività di gruppo, per questo non negheremo la possibilità a coloro che sono fermamente interessati al progetto di partecipare, alla condizione di avere almeno una presenza ogni 6 mesi.

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LA GRANDE MURAGLIA PIEMONTESE - IL FORTE DI FENESTRELLE

Annamaria Faccini Barbara Lamboley Barbara Tonin Cinzia Carchedi Daniele Colangelo Floriana Speranza

Testi di Barbara Tonin Giroinfoto Magazine nr. 43

Fabrizio Rossi Gianluca Colangelo Giancarlo Nitti Maddalena Bitelli Manuel Monaco Mariangela Boni


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Giancarlo Nitti Photography Giroinfoto Magazine nr. 43

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Band di GiroInFoto, questa volta alle prese con la seconda fortezza più grande ed imponente dell'Europa. IL FORTE DI FENESTRELLE In un maggio dalle temperature gelide, la giornata si prospettava grigia o addirittura piovosa. I più audaci se ne sono infischiati, i meno audaci sono partiti con riluttanza. E chi invece era già solleticato dalla dolce brezza primaverile e dall’ammaliante canto del tepore estivo, ha abbandonato con mestizia. Ma come diceva il mio primo maestro di fotografia, “Non importa che tempo c’è, tu parti”. E dopo un’oretta, eccolo! Il sole! Forse è vero che la fortuna aiuta gli audaci…

Il Forte si presenta imponente e maestoso e con il ponte levatoio spiegato come un lungo tappeto di benvenuto, ci accoglie pronto e fiero per raccontarci con orgoglio e vanto della sua storia e dei personaggi che l’hanno vissuta. Questo, orientato verso il “versante francese”, originariamente era solo uno dei due ingressi al forte. Costituito da una parte fissa e da una parte levatoia mossa da un sistema di contrappesi (tecnica del bilanciere), superava il largo fossato e, attraverso un breve “tunnel” difensivo di muratura, portava alla porta principale del forte, la Porta del Soccorso. L’altro ingresso, rivolto invece sul versante piemontese, era la Porta Reale, un elegante edificio di tre piani, il cui accesso era riservato agli esponenti di corte, gli Ambasciatori e agli alti ufficiali. Successivamente venne utilizzato come caserma, ospedale e palazzo del genio. Sbrigata la burocrazia, facciamo la conoscenza

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di un simpatico signore, Mario Reviglio, che è la nostra guida e che si scoprirà, a fine giornata, essere un importante studioso e scrittore di saggi storici, docente di Storia all’Università, Presidente dell’Associazione “Progetto San Carlo – Forte di Fenestrelle” e per tre anni anche dell’Associazione “Amici del Museo Pietro Micca”. Insomma… non un semplice appassionato.


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Barbara Photography ManuelLamboley Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 43

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Barbara Tonin Photography

Prima di visitare i vari edifici, ci presenta una panoramica del forte e ci tiene a precisare che, a differenza di altri, Fenestrelle è un complesso fortificato, non un semplice forte. È infatti un aggregato che comprende ben quattro agglomerati fortificati: il Forte Carlo Alberto, il Forte San Carlo, il Forte Tre Denti e il Forte delle Valli. Il forte in cui siamo è il S. Carlo, il più importante e più grande (occupa circa un terzo di tutto il complesso), mentre quello più a valle è il Forte Carlo Alberto, incontrato poco prima lungo la strada, prima di arrivare. Il Forte Carlo Alberto tuttavia al momento non è visitabile, in quanto i lavori di restauro non sono ancora terminati. Costruito a partire dal 1836 su progetto dell’ingegner Francesco Olivero, sostituiva un precedente forte in rovina (Mutin), che fu costruito dai Francesi a protezione del confine, quando ancora Val Chisone era territorio del regno di Francia. Il forte Carlo Alberto era composto da due edifici a forma di parallelepipedo che sbarravano la strada regia. Una faccia era rivolta in direzione dell’attacco nemico

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(fortificazione perpendicolare) e la muratura era di notevole spessore. Ogni faccia inoltre disponeva di 11 bocche da fuoco. Il transito nella valle era quindi efficacemente controllato, grazie anche al ponte levatoio e ad una saracinesca in ferro che bloccavano la via da entrambi i lati. Il forte Carlo Alberto era collegato al forte S. Carlo tramite un vallo delimitato da mura alte e spesse (tagliata) ed a un castello (Chateau Arnaud o Castel Renaud) tramite una muraglia munita di feritoie. Chateau Arnaud, di costruzione tardo-medioevale, fu utilizzato come “colombaia” per l’allevamento dei piccioni viaggiatori e in alcune occasioni anche come polveriera; era collegato alla Porta Reale del Forte S. Carlo tramite una galleria scavata nella roccia, detta Roca Forà. Originariamente era un castello in cui veniva amministrata la giustizia nella Valle del Pragelato e successivamente, fu utilizzato dai Francesi come ridotta armata a protezione del Forte Mutin.


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Annamaria Faccini Photography Giroinfoto Magazine nr. 43

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Barbara Lamboley Photography

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Ma torniamo al prof. Reviglio che, col fervore della passione per la Storia, tiene in pugno la nostra attenzione, come un prestigiatore col suo pubblico.

da parte dei Savoia di riprendersi le proprie terre, conclusosi sia con sconfitte che con vittorie da entrambe le parti.

Lunga e incassata, attraverso i colli del Monginevro e del Sestriere, la Val Chisone collega la Pianura Padana ai territori d'oltralpe. E proprio per questa posizione strategica fu presa come zona di confine, nelle varie contese tra Imperatori, Re e Signori già dal periodo romano.

Probabilmente, però, neanche il re di Francia si sentiva tranquillo, tanto che nel 1694 iniziarono i lavori per la costruzione di una fortezza a difesa dei confini: il Forte Mutin, che abbiamo citato qualche riga più su.

"Finis Terre", o come la chiamiamo ora, Fenestrelle. Luogo di ultima frontiera sull'itinerario che probabilmente era la via imperiale di avvicinamento alla Gallia. La Val Chisone dunque vide l’avvicendarsi di varie amministrazioni: i Signori di Susa e gli Abati pinerolesi a valle, i conti d’Albon e successivamente la corona di Francia nell’alta valle. Nel 1349 infatti, Filippo II di Valois rilevò il territorio e venne stabilito il confine a Bec Dauphin. I Duca di Savoia, tuttavia, non si sentivano molto tranquilli ad avere i Francesi così vicini alla capitale. Oltretutto stavano occupando un loro territorio. Nei secoli successivi ci furono diversi tentativi da parte dei Francesi di estendere i propri confini e

Gli assedi in Piemonte continuarono anche negli anni successivi e ricordiamo quello più importante in cui Francia e Spagna attaccarono Torino, ma furono sconfitte nel 1706 dall’armata sabauda, grazie anche al sacrificio di Pietro Micca. Forti della vittoria a Torino e stanchi dei continui assalti dei Francesi, due anni più tardi nel 1708, fu intrapresa la Campagna delle Alpi. Il Forte di Exilles e il Forte Mutin vennero espugnati. L’alta Valle di Susa e l’alta Valle di Chisone erano conquistate. Dopo seicento anni di separazione, finalmente tutto il territorio della Val Chisone tornava al Piemonte.

Cinzia Carchedi Photography

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Vittorio Amedeo ordinò che le postazioni dei cannoni dei forti di Exilles e del Mutin fossero poste in modo da avere il fronte difensivo sul versante contrapposto alla Francia e che venissero eseguiti dei lavori di riadattamento. Il progetto fu affidato all’ing. Antonio Bertola che però constatò la necessità di fortificare ulteriormente i due forti. Purtroppo non fu possibile per mancanza di fondi. L’opera di fortificazione fu ripresa da Vittorio Amedeo II dieci anni dopo. Ordinò una nuova perizia sulla capacità difensiva dei due forti e ne risultò che Exilles era sufficientemente protetta, mentre il Forte Mutin era troppo vulnerabile. Il progetto dell’ing. Bertola fu rielaborato e ampliato dal figlio adottivo, l’ing. Ignazio Bertola. Propose un’opera stupefacente e imponente, composta da diversi forti, collegati tra loro da una lunga e alta muraglia armata, che avrebbero difeso tutto il versante sinistro della valle. La difesa dell’altro lato invece rimaneva al Mutin. Nel marzo del 1728 iniziarono i lavori. Si cominciò a costruire dall’alto nella zona di Praticatinat e via via verso il basso, in modo da

Gianluca Colangelo Photography

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difendere i cantieri sottostanti da eventuali incursioni francesi e rafforzare le difese esistenti. Dopo vent’anni, la fortezza non era ancora completa. Doveva essere terminata la struttura muraria principale, ma alcune postazioni erano già munite di cannoni ed avrebbero assicurato una valida difesa in caso di avanzata del nemico. Il forte infatti dava già l’impressione di essere inespugnabile e così fu nella Battaglia dell’Assietta. Era il 1747 e i Francesi decisero di tentare nuovamente la conquista di Torino. I forti di Exilles, di Susa e di Fenestrelle però avrebbero sbarrato l’avanzata. L’armata francese allora pensò di passare attraverso lo spartiacque tra le valli di Susa e Chisone. I Piemontesi tuttavia intuirono le loro intenzioni e crearono, nella zona montagnosa dell’Assietta, un muraglione lungo due chilometri, spesso un metro e alto un metro e mezzo, dove si sarebbero trincerati 5000 uomini. I Francesi però avrebbero attaccato in 20.000. Il numero esiguo di uomini e l’assenza di artiglieria faceva presagire alla disfatta dell’armata piemontese, ma avevano dalla loro una posizione strategica.


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Floriana Speranza Photography Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 43

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Fabrizio Rossi Photography Giroinfoto Magazine nr. 43


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L’esercito francese si dispose in tre colonne: la prima avrebbe attaccato frontalmente sull’Assietta, la seconda sul fianco sinistro nella zona del Rio Bacon e la terza sul fianco destro nella zona del Gran Serin, dove si trovava il comando piemontese. La seconda colonna si ritrovò a combattere su un pendio troppo scosceso e non riuscì ad avanzare. Perse moltissimi soldati e si ritirò in breve tempo. La prima si lanciò ai piedi dei trinceramenti, forti della superiorità numerica e dell’assenza di artiglieria nell’armata piemontese. Quest’ultimi però lottarono strenuamente con tutto ciò che avevano a disposizione, addirittura anche con le pietre che componevano il muro, ed ebbero la meglio. Nel frattempo anche la terza colonna venne respinta con gravissime perdite. L’armata piemontese aveva vinto. Tra morti e feriti la Francia perse 5.300 uomini, mentre i Piemontesi “soltanto“ 185. Indirettamente, il Forte

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di Fenestrelle con la sua presenza aveva contribuito alla vittoria dell’armata piemontese e alla difesa della Capitale. I lavori al Forte ripresero subito dopo e continuarono fino all’avvento dell’epoca napoleonica. I numeri della fortezza erano strabilianti. Oltre 3 chilometri di estensione lungo il crinale della montagna, 600 metri di dislivello, 1.350.000 metri quadrati di superficie di pertinenza del forte, di cui 480.000 mq di superficie coperta e una scala coperta di 3996 gradini. La più grande fortezza italiana e la seconda in Europa per dimensione. Il complesso era talmente imponente che nessuno mai negli anni osò tentare di espugnarlo. Napoleone stesso, che ordinò di far demolire i Forti di Bard, Exilles e le altre fortezze sabaude, si convinse a risparmiare Fenestrelle proprio per la sua unicità. La Grande Muraglia Piemotese era salva.

Giancarlo Nitti Photography

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Dopo aver condiviso avversità e onori con l’antica Armata Sabauda, il nostro Professore ci riporta d’incanto ai giorni nostri e ci conduce nell’edificio più importante del Forte S. Carlo: il Palazzo del Governatore, ovvero la sede del comando. L’edificio sviluppato su quattro piani, di cui uno interrato, è formato sia all’interno che all’esterno da magnifici muri in pietra spessi ben 2-3 metri. Praticamente era quasi invulnerabile. Le stanze hanno soffitti alti e la luce che penetra dalle finestre è molto flebile, nonostante il sole sia alto. La vita del comandante e dei suoi sottoposti era al buio. Dal salone d’ingresso, una scala volutamente stretta porta ai piani superiori. Usciti dal palazzo, veniamo condotti attraverso la Piazza d’Armi (o Piazza del Governo) all’edificio di fronte, il Palazzo degli Ufficiali. Dotato di ben 44 stanze intonacate, con caminetto e soffitti più bassi rispetto al precedente, era adibito all’alloggio degli ufficiali. Sotto il dominio napoleonico, però, fu meglio conosciuto per la funzione di Prigione di Stato. Ospitò personaggi illustri, quali il Cardinale Bartolomeo Pacca (Segretario di Stato di Papa Pio VII), il Conte Cassini (Diplomatico piemontese presso la Corte russa), il Marchese Giovanni Patrizi e la Marchesa Polissena Turinetti di Priero. La cosa bizzarra è che le spese di “soggiorno” erano a carico dei detenuti e questi avevano la facoltà di portarsi servitori o parenti. Le stanze erano ampie e ben illuminate dalle finestre,

ma quest’ultime erano prive dei vetri. I prigionieri pertanto, per difendersi dal freddo e dal gelido vento, dovevano vivere con le ante di legno chiuse, al lume di candela o del caminetto. I più furbi invece inchiodavano le lenzuola bianche ricoperte di cera alle cornici delle finestre. Scendiamo di due piani e troviamo delle stanze, poco illuminate, con forni e grossi pentoloni. Il pasto dei soldati era misero nei primi decenni del forte: solo una pagnotta di pane da sette etti (la munizione) e due mestoli di “brodo” di rape e fave. La carne era prevista solo nei giorni festivi. Mangiavano dove capitava, in quanto non c’era un refettorio. Di sera però le truppe avevano libera uscita e potevano andare a consumare un pasto decente nelle numerose taverne del paese. Solo dopo il 1790 si capì che i soldati avevano bisogno di un pasto più abbondante e completo. La collocazione delle cucine nei piani interrati garantiva una sicura protezione e assicurava il rancio anche in caso di battaglia. Per lo stesso motivo, la cisterna per il rifornimento idrico fu collocata al terzo piano sotterraneo: difficilmente le truppe nemiche sarebbero riuscite ad avvelenare l’acqua o a sabotarne l’impianto. L’acqua arrivava al pozzo attraverso un acquedotto realizzato con tubi in laterizio ed era alimentato da una sorgente posta a 1400 metri di quota. La capacità della cisterna raggiungeva ben 100.000 litri ed era mantenuta costante grazie ad un foro di “troppo pieno”.

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Lasciamo i sotterranei fiocamente illuminati e risaliamo in superficie. Il prof. Reviglio ci conduce verso la chiesa. Perfettamente restaurata all’esterno, all’interno appare pesantemente danneggiata. La struttura ad arcate, tuttavia, la rende molto affascinante. È di dimensioni molto ampie rispetto alle chiese degli altri forti e non utilizzata come luogo di culto solo per un breve periodo. Poco più tardi, infatti, fu sconsacrata e adibita a deposito di munizioni. Tra la Chiesa e il Palazzo del Governatore si trovano i quartieri militari e l’ospedale, quest’ultimo destinato anche ad altri utilizzi. Formati da quattro edifici, sono disposti “a gradoni” lungo il ripido pendio. Le caserme successivamente furono usate anche come prigione per i delinquenti comuni. Superiamo allora i quartieri e continuiamo la salita verso la polveriera di Sant’Ignazio. Per salvaguardare dall’umidità le polveri contenute nella camera centrale, era interamente rivestita di

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legno. Gli stessi soldati dovevano utilizzare delle calzature con suola in legno, per evitare eventuali scintille causate dagli scarponi chiodati. Due corridoi paralleli invece fungevano da intercapedine. Una sovra-copertura in terra ed erba dello spessore di due metri la proteggeva da eventuali bombardamenti. Esternamente, accanto alla polveriera, vediamo una strana costruzione a tronco di cono: era il basamento per sorreggere l’asta parafulmini. Successivamente però il parafulmini venne tolto e la polveriera venne avvolta da una serie di barre in metallo disposte a griglia, che fungevano da Gabbia di Faraday. Internamente l’illuminazione era assicurata da torce o lumi a petrolio, che venivano posti in nicchie ogivali interne al muro, chiuse da finestrelle sigillate all’interno della camera e da uno sportello metallico all’esterno dell’edificio. Questo metodo garantiva che le 60 tonnellate di polvere non venissero accidentalmente a contatto con la fiamma.

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Percorriamo ora un breve tratto del tunnel coperto, la gradinata che, con i suoi 3996 scalini e rampe (la più lunga d’Europa), porta al Forte delle Valli, la fortificazione più elevata. La scala è larga 2,10 metri e alta 2,35 m con muri e volta ad arco spessi 2 m. La poca illuminazione è data da strette feritoie, che garantiscono anche il ricambio d’aria. Collega le varie parti della fortezza per mezzo di una dozzina di accessi ed è frammentata da ponti levatoi, al fine di compartimentare il complesso fortificato. Al termine della galleria percorriamo un altro breve tratto all’esterno. Dal sentiero possiamo ammirare da vicino i risalti, forse la parte più particolare della fortezza. Sono i 28 “gradoni” che più colpiscono lo sguardo quando si osserva il forte da lontano. Si tratta di postazioni per l’artiglieria, cortili a cielo

aperto delimitati da alti muri, dotati di feritoie per i fucili e un foro per i cannoni. I risalti sono collocati a partire dalla parte iniziale del Forte S. Carlo, la Tenaglia di Sant’Ignazio (elemento bastionato sovrastato in sequenza da altri due muri, tutti a forma di V rovesciata, che creavano una “tenaglia di fuoco” per il nemico), fino al Forte Tre Denti. Solo gli otto risalti più in basso furono dotati di copertura a prova di bomba, per ospitare cannoni speciali più potenti. Il Forte Tre Denti è una piccola fortificazione che inizialmente fungeva da protezione del Mutin e consentiva di controllare una vasta porzione del territorio a fondo valle. Era dotata di una polveriera, di un magazzino e di una cisterna capiente ed era sovrastata da una piccola ridotta, la Garitta del Diavolo, sempre presidiata da una sentinella.

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Manuel Monaco Photography Giroinfoto Magazine nr. 43


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Proseguendo oltre il Forte Tre Denti, i risalti lasciano il posto ad una lunga muratura di oltre sei metri di spessore. È la Scala Coperta che porta all’ultimo dei forti. Di fianco la segue la Scala Reale, scoperta, composta da più di 2000 gradini. Da qui l’appellativo di “Grande Muraglia” che per la sua morfologia ricorda quella cinese. Lungo il percorso delle Scale si incontrano, nell’ordine, la Stazione ottica (per l’invio e la ricezione di messaggi sotto forma di segnali luminosi) e la Batteria dello Scoglio dotata di cannoni, la Ridotta Santa Barbara, la Ridotta delle Porte e infine la Batteria dell’Ospedale, a difesa del vicino ospedale e della Strada dei Cannoni (la via utilizzata per portare l’artiglieria ai “forti alti”). La Ridotta Santa Barbara e la Ridotta delle Porte, invece, servivano da protezione delle Scale ed erano fornite di cannoni, munizioni, magazzini, viveri, del pozzo dell’acqua, del refettorio e delle camerate. Erano quindi completamente autonome.

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LA GRANDE MURAGLIA PIEMONTESE - IL FORTE DI FENESTRELLE

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L’ultima tappa è il Forte delle Valli. È composto da ben tre forti separati: la Ridotta Belvedere, la Ridotta Sant’Antonio e la Ridotta dell’Elmo, divise tra loro da profondi fossati e collegate tra loro da gallerie e da ponti detti “a caponiera” (ponti coperti dotati di feritoie per i fucili). Al forte si accede tramite la Scala Savoiarda (una scala a cielo aperto sezionata da altissimi muri a traversa) e tramite la Scala Reale. Da quest’ultima si prosegue attraversando un ponte appoggiato su ardite colonne battiponte e attraversando un edificio di due piani, la cui porta d’ingresso assomiglia alla facciata di un tempietto. L’interno ospitava il corpo di guardia. La Ridotta Belvedere è quella più grande ed era l’unica autonoma, in grado di assicurare il sostentamento delle truppe e un adeguato sistema difensivo.

Daniele Colangelo Photography

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La Ridotta Sant’Antonio, invece, è la più piccola delle tre ed era armata con due mortai. I mortai, grazie al tiro parabolico, erano necessari per colpire gli obiettivi non raggiungibili dai tiri tesi dei cannoni. Alla Ridotta dell’Elmo si accedeva solo tramite la Sant’Antonio. La sua funzione era esclusivamente bellica, finalizzata sia alla difesa che ad azioni offensive. Era sormontata da sei casematte orientate verso la strada del colle delle Finestre e una verso il pianoro di Pra Catinat. Altri dieci cannoni a cielo aperto erano invece rivolti verso Pra Catinat e la bassa Val Chisone. La Ridotta era dotata anche di una Stazione ottica e di diverse polveriere collocate in punti strategici. Le tre ridotte furono costruite vicine, in modo da realizzare un sistema di reciproca difesa e soccorso, in caso di attacco ad una di esse. La presa da parte del nemico, ad esempio della

Ridotta dell’Elmo, avrebbe comportato un grosso danno per tutto il complesso di Fenestrelle, dato che i suoi cannoni potevano raggiungere i forti sottostanti. Il Forte di Fenestrelle termina con una doppia Tenaglia a ridosso della Ridotta dell’Elmo ed è collegato all'esterno tramite il Ponte Rosso, costruito sopra un profondo fossato. Purtroppo la nostra visita è terminata alla Garitta del Diavolo e, stavolta, non abbiamo avuto la possibilità di visitare il resto della fortezza. Lontano dai tempi delle contese, delle battaglie e delle ingiuste prigionie, sperando che la nostra guida ci perdoni, ci lasciamo rapire dalla bellezza della Natura e dal fascino unico del Forte di Fenestrelle, e lentamente ridiscendiamo il pendio, portando con noi un pezzettino di Storia del “più straordinario edifizio che un pittore di paesaggi fantastici potesse immaginare”. (cit. Edmondo De Amicis, Alle Porte d’Italia, Ed. Treves,1884).

Ringraziamo il Professor Mario Reviglio autore, tra i vari libri, della guida “Forte di Fenestrelle – La Grande Muraglia Piemontese”.

Mariangela Boni Photography

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Giancarlo Nitti Photography Barbara Lamboley Photography Giroinfoto Magazine nr. 43


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IL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI - MAURIZIO GALIMBERTI


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IL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI - MAURIZIO GALIMBERTI

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Maurizio Galimberti

IL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI

Un originale tributo del fotografo italiano al capolavoro di Leonardo da Vinci Maurizio Galimberti si è affermato nel panorama artistico italiano e internazionale grazie alle composizioni a mosaico, opere nelle quali il soggetto (sia esso una persona o una porzione di città) viene scomposto in numerosi scatti, spesso corrispondenti a diverse prospettive, e ricomposto in un’immagine sfaccettata, matematica nel suo rigore e musicale nell’armonia d’insieme. Dopo i noti ritratti alle celebrities internazionali e gli scatti alla Grande Mela, il fotografo si cimenta, immagine dopo immagine, in un incontro/confronto solenne con il sommo capolavoro di Leonardo. Maurizio Galimberti ha agito con il suo originalissimo stile sul Cenacolo, decostruendolo e ricostruendolo, rivisitandone la grandezza, sottolineandone lo splendore e ricomponendo in un mosaico moderno lo splendore del capolavoro leonardesco. Nato a Como nel 1956, Maurizio Galimberti è internazionalmente riconosciuto come “instant artist”, fotografo e creatore del Movimento Dada Polaroid: la sua fotografia è stata sviluppata attraverso il tempo in una dimensione di ricerca e di scoperta del ritmo e del movimento. Il suo ritratto di Johnny Depp, realizzato durante l’edizione del Festival del Cinema di Venezia del 2003, viene scelto come immagine per la copertina del mese di settembre del prestigioso Times Magazine.

2018, edizione bilingue (italiano-inglese) 30 x 38 cm, 76 pagine 56 colori, cartonato ISBN 978-88-572-4023-7 Disponibile in libreria dal GENNAIO 2019

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IL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI - MAURIZIO GALIMBERTI


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Maurizio Galimberti

IL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI

L'autorevole fotografo Maurizio Galimberti agisce alla propria maniera sul Cenacolo, rivisitandone la grandezza e sottolineandone lo splendore. La pubblicazione di questa avvincente monografia consente una garanzia perpetua che conserva tutta l'originalità dell'opera di Leonardo racchiusa in un'mpaginazione di pregio che percorre le fasi del lavoro del fotografo.

La fotografia di maurizio Galimberti è "arte nel momento", e nella misura in cui invita in un mondo incantato e illusorio, seppure corporeo, nel quale le incombenze dell'esistenza non hanno alcun diritto di ospitalità. Immagine dopo immagine, in un incontro/confronto solenne con Leonardo Da Vinci, ognuno di noi è convocato in uno spazio-tempo estraneo al quotidiano, ma concentrato nel proprio individuale rapporto e confronto con la vita, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Nell'accostarci all'arte di Maurizio Galimberti, scandita sul significato della fotografia pronta in una manciata di secondi e in copia unica e assoluta, siamo tutti sollecitati a osservare, pittosto che giudicare, a pensare, invece di credere.

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Fly Memory

Autore: Valentina Cipolla Luogo: CittĂ del Messico

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La solitudine

Autore: Kristina Szajkoova Luogo: Norimberga (Germania) metropolitana stazione "Lorenzkirche"

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Il rito dei Serpari

Autore: Ciro schiavone Luogo: Cocullo (AQ) 1° Maggio 2019

La festa si svolge in onore di san Domenico abate ma ha origini antiche che sarebbero riconducibili al rito pagano di venerazione della dea Angizia. Giroinfoto Magazine nr. 43


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U purpu

Autore: Davide Gambino Luogo: Porticciolo d’ Isola delle Femmine (Pa) Giroinfoto Magazine nr. 43


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Strade di Edimburgo Autore: Alessandro Braconi Luogo: Edimburgo - High street Giroinfoto Magazine nr. 43


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Il cratere di Vulcano Autore: Daniele Passaro Luogo: Isole Eolie Giroinfoto Magazine nr. 43


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ARRIVEDERCI AL PROSSIMO NUMERO in uscita il 20 Giugno 2019

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