#AImagazine | Summer2016

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THE ART REVIEW - Summer 2016 -

interviews Alessandro Mendini Marco Delogu Fabio Castelli Lorenza Bravetta Giovanni Bonelli portfolio Francesco Diotallevi Paolo Simonazzi Alessia Leporati Alessandro Sambini

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“...si può quindi affermare che l’insieme delle nostre storie è continua presa di possesso, invenzione di figura e modificazione della natura così da trasformarla in paesaggio riconoscibile...” Vittorio Gregotti ‘Il sublime al tempo del contemporaneo’ Einaudi, 2013


fabio pradarelli

l’illusione del paesaggio OPENING venerdì 14 OTTOBRE 2016 - ore 18.00 BAG GALLERY, Borgo Ronchini 3, PARMA



#AImagazine

Table of contents Summer 2016

THE ART REVIEW

_9 L’EDITORIALE Iniziamo da capo

_41 about oscillazioni di mercato

_10 thE portfolio interview pop di sintesi

_44 portfolio hong kong express

_20 the interview la realtà segreta

_56 the interview segni fotografici

_29 dietro l’obiettivo INDizi di progetto

_60 La jetée L’OSSESSIONE del ricordo

_32 thE portfolio interview Dopo le mutazioni

_63 the interview made in italy culturale

di Andrea Tinterri, Christina Magnanelli Weitensfelder di Christina Magnanelli Weitensfelder di Domenico Russo di Cristina Casero

di Andrea Tinterri

di Federica Pasqualetti di Domenico Russo

di Sergio Signorini

di Jennifer Malvezzi di Andrea Tinterri

Artwork: Silvia Argiolas

“Photography is a reality so subtle that it becomes more real than reality.” Alfred Stieglitz “A photograph is a secret about a secret.The more it tells you, the less you know.” Diane Arbus



#AImagazine

Table of contents Summer 2016

THE ART REVIEW

_67 the interview ELEGANZA DA COLLEZIONE

_82 portfolio disegnare utopie

_71 the interview OBIETTIVI MOBILI

_96 about indagini sul contemporaneo

_74 about GESTUALITà, materia

_99 about serialità aumentata

_76 about ABU Dhabi art fair

_103 sulla fotografia e il diritto 2013. New York

_78 about VIAGGIO IN ITALIA

_104 thE portfolio interview “BAR DEL OLVIDO”

di Stefania Dottori

di Christina Magnanelli Weitensfelder di Gaia Conti

di Giacomo Belloni

di Christina Magnanelli Weitensfelder

di Nicola Pinazzi

di Fabio Pradarelli di Benedetta Alessi

di Cristina Manasse di Andrea Tinterri

Artwork: Alessia Leporati

“Life is not about significant details, illuminated a flash, fixed forever. Photographs are.” Susan Sontag “A great photograph is a full expression of what one feels about what is being photographed in the deepest sense and is thereby a true expression of what one feels about life in its entirety.” Ansel Adams



INIZIAMO DA CAPO di Andrea Tinterri e Christina Magnanelli Weitensfelder

#AImagazine esce trimestralmente in edicola, anche su abbonamento, abbinato al look book AIM. In questo numero, tra le altre, hanno contribuito firme del giornalismo d’arte come Domenico Russo, Cristina Casero, Jennifer Malvezzi, Cristina Manasse, e Roberta Valtorta, Carlo Arturo Quintavalle, Paolo Barbaro, Giovanna Calvenzi per AIM. Una nuova forma, contenuti dilatati con rubriche dedicate alla fotografia, video arte, design, architettura, una rinnovata distribuzione sempre più capillare. È una sorta di debutto per questa uscita di #AImagazine, nonostante sia edito dalla fine del 2006.Viene in mente il noto primo ballo viennese, quasi come una bella diciottenne, direzioni e idee chiare, che afferma la propria presenza in società. #AImagazine è pensato e progettato da uno staff di artisti, curatori e professionisti dell’estetica legata alla fruizione dei contenuti: anticipa e sottolinea la contemporaneità del modello mitteleuropeo come chiave di lettura del mondo delle arti visive. Non è un caso che la copertina sia dedicata ad Alessandro Sambini, uno degli artisti che consideriamo più interessanti sulla scena nazionale, ma non solo, degli ultimi anni. Un artista che lavora sul contemporaneo, inteso come necessità critica di restituire e riflettere quello che ci circonda quotidianamente, che influenza la nostra vita sociale, politica, geografica. Proseguiremo la nostra ricerca garantendo particolare attenzione al linguaggio fotografico (rubrica, interviste, porfolio), com’è sempre stato nelle nostre intenzioni, ma consapevoli dell’impossibilità di escludere il Mondo che determina tali dinamiche. Per questa ragione riserveremo un importante spazio d’approfondimento all’architettura e al design, ospitando su questo numero un intervento su Alessandro Mendini. Una rubrica dedicata al cinema e alla video arte, il

cui titolo, come vedrete, prende forma dal capolavoro del 1962 di Chris Marker, La Jetée: una piattaforma di lancio dalla quale gettare parole, gesti, intenzioni. Una serie di interviste ad addetti ai lavori: curatori, direttori di musei o fondazioni, galleristi.Vorrei ricordare l’intervista a Lorenza Bravetta, direttrice di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia. Un nuovo luogo dedicato al fotografico dove, tra le altre numerose iniziative, approfondire e studiare archivi d’immagini, anche anonime, che altrimenti andrebbero perse o relegate alle memorie private. Alla fine, pensandoci con un minimo di razionalità, è quello che facciamo noi, quello che fa chiunque abbia ancora voglia di fare e stampare una rivista che si occupi di cultura dell’immagine. Credo che il dibattito (finalmente si è scatenato un dibattito pubblico) sulla street art o public art che si è acceso negli scorsi mesi, soprattutto a seguito della presa di posizione di Blu, sia anche stato rivolto al concetto stesso di memoria, alla conservazione o al diritto alla conservazione. Non voglio entrare nei dettagli della polemica, lo spazio non sarebbe sufficiente, ma voglio sottolineare l’interesse, anche grazie a tale dibattito, che si è mosso sul tema dell’archivio del segno, di un’idea trasformata in materia, colore, o anche solo pixel. Quali sono i limiti di tale operazione? Come, quando e perché conservare immagini? Quello che sto scrivendo, quello che leggerete all’interno della rivista, le immagini che guarderete e anche le pagine che, per sbaglio, non sfoglierete nemmeno, tutto questo ci sopravviverà, avrà una vita più lunga della nostra, diventando archivio o parte di un archivio più ampio. Una sorta di conservazione del contemporaneo, che lentamente accumulerà tempo e forse un poco di polvere, trasformandosi in materia su cui ricostruire e riscrivere nuovamente.

“...nuova forma, contenuti dilatati con rubriche dedicate alla fotografia, video arte, design, architettura... ”

L’editoriale

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POP di sintesi di Christina Magnanelli Weitensfelder Artworks: Francesco Diotallevi

Una cultura pop, sintetica, al limite del cinismo. Francesco Diotallevi è uno di quegli artisti che, consapevolmente, ritorna a scrivere su tela, ritornando a raccontare storie attraverso segno e colore. Un atto di resistenza, tenacemente agrappato alla storia. «Immagina di prendere un libro e strappare una pagina.» Si d’accordo e poi con questa pagina cosa faccio? E da quale libro proviene questo pezzo di carta? «Nella maggior parte dei casi sono delle narrazioni, estrapolate da uno storyboard: mi immagino realmente la storia, sono pezzi di un racconto più ampio. L’uccellino che si è schiantato sul parabrezza della macchina è una storia vera, direttamente o indirettamente viene tutto fuori dalla vita quotidiana. È la vita quotidiana che ti offre la possibilità di essere ironico. Anche se devo ammettere che spesso attingo dalle fiabe, creando uno squilibrio tra bene e male, ribaltando i ruoli. In qualche caso mi sento il giullare che deride il re.»

Francesco Diotallevi. Probabilmente pop, non tanto nell’intreccio narrativo, ma nelle dinamiche compositive. La sua produzione vede la tela come sfondo preferenziale, ma è un segno facilmente esportabile su un muro, su un adesivo da attaccare alla macchina o al frigorifero; il tempo della percezione è ridotto al minimo. La grammatica usata rende immediato il contatto con la materia, con il succo del racconto. «Ci sono molti modi di dire fuori piove, io voglio usare il modo più rapido e più immediato possibile. Il mio è linguaggio sintetico. Ho bisogno di essere veloce da un punto di vista comunicativo.Tinte piatte, chiare e segno marcato. Non c’è prospettiva perché implicherebbe un grado di attenzione maggiore. È un linguaggio segnaletico.»

“L’ironia è necessaria perché scardina un insieme di sovrastrutture, io sono un guastafeste...”

L’ironia come filo rosso. Come traduzione di qualcosa che è successo, anche qualcosa di banale, come prendere il pane dal fornaio o accarezzare il proprio cane. Sta tutto nel rimescolamento narrativo. «L’ironia è necessaria perché scardina un insieme di sovrastrutture, io sono un guastafeste, ma che vuole dare una chiave di interpretazione. La mia ironia sfocia in qualcosa al limite del cinismo, in un messaggio caustico.Anche se l’accusa di sadismo mi è stata rivolta spesso.»

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Scrittura che oltre alla tradizione pop o fumettistica, si avvicina a quell’universo social che vede la sostituzione di una parola, un aggettivo o, addirittura, un’intera frase, con un’immagine. Gli emoticons nella comunicazione quotidiana visualizzano un nostro stato d’animo, senza passare per la parola scritta, omettendo verbi, aggettivi, pronomi. È una forma di sottrazione, non credo si possa parlare di semplificazione.Anzi il racconto diventa più complesso, si arricchisce di una forma comunicativa che oltrepassa la parola scritta, che la sostituisce, creando una sintassi meticcia, sporca, frastagliata. In qualche modo Diotallevi si inserisce in questa rivoluzione della scrittura, ma, come spesso succede nella sua opera, ribaltandone il significato o la percezione. «I personaggi sono necessariamente graziosi, devono avere un impatto empatico e diretto. Dietro l’acco-

the portfolio interview


> Selfie col mio amico invisibile

“Il mondo si divide in buoni e cattivi. I buoni dormono meglio ma i cattivi, da svegli, si divertono molto di più. ” W. Allen

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glienza dell’immagine c’è la mia risata sarcastica. Un confettino dolce che ti farà stare male.» Ecco lo scarto. L’uso che, nella maggior parte dei casi, si fa degli emoticons è finalizzato all’enfatizzazione del messaggio e all’immediatezza necessaria in una comunicazione via sms o chat varie. Diotallevi utilizza gli strumenti messi a disposizione dalla scrittura social, ma in realtà dilatandone i tempi. Il confettino viene messo in bocca al fruitore come fosse qualcosa di innocuo, con una velocità di somministrazione che svia qualunque riflessione aggiuntiva sulla sostanza ingoiata. Ed è il tempo, in questo caso d’osservazione o di metabolizzazione del segno, che innesca il meccanismo d’accessione della pillola. La comunicazione è immediata e veloce, ma è un inganno accuratamente meditato per evitare un iniziale rifiuto, una contrapposizione che eviterebbe l’assimilazione del racconto o di quello che rimane. Di quella pagina strappata, di quel residuo di favola rovesciata che non permette al lettore di avere il controllo sull’intreccio della storia, perché si tratta di un solo frammento, di un pezzo di percorso, diligentemente ritagliato. Un brandello di racconto che crea una devianza, una possibile fuga dai dettami prestabiliti dal narratore stesso.

«Per cercare strade diverse è necessario avere un atteggiamento mentale divergente, divergente da quel qualcosa che possiamo chiamare struttura, norma. Forse si potrebbe parlare di anarchia intellettuale; non so se è il caso di usare questo termine, sono dubbioso. » Credo il termine anarchia non sia del tutto inesatto, considerando l’etimologia della parola stessa: assenza di un leader. Se l’opera di Diotallevi è veramente una pagina strappata, questa si sottrae alla dittatura della struttura complessa del romanzo, per acquistare vita propria, in balia degli accadimenti che gli gravitano intorno. Una pagina orfana, ma che in se racchiude una memoria famigliare: «credo che l’evoluzione della specie non passi per il gruppo, ma da chi perde l’orientamento, in natura non è il muoverci in branco che ci salva. La salvezza è perdersi e secondo me la solitudine aiuta.»

“...credo che l’evoluzione della specie non passi per il gruppo, ma da chi perde l’orientamento...”

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Una solitudine che stimola controdifese, le stesse di cui si arma l’opera di Francesco Diotallevi: una divaricazione temporale, l’immediatezza della comprensione contrapposta alla lenta diluzione del confetto. Forse una metafora dell’evoluzione stessa, o più semplicemente di quel briciolo di cinismo che ci permette di sopravvivere e qualche volta ridere.

the portfolio interview


Pagina accanto, da sinistra: > Bad story 2 > Bad story 5 Sopra dall’alto: > Le dejeneur sur l’erbe > Con gli occhi di merdina Pagine seguenti: > Autoritratto con grattuggia > Il giradito > La triste storia del giorno dell’acquasanta > Pistola rosa a tre colpi > Il demonio > Cattivi pensieri 1 the portfolio interview

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la realtà segreta di Domenico Russo Artworks: Silvia Argiolas

Nata a Cagliari nel 1977, vive e lavora a Milano. Silvia Argiolas è una delle pittrici più importanti del panorama italiano attuale. La sua pittura è un luogo di catarsi e rigenerazione, dove il tentativo di comprensione sarebbe vago se non si fosse consapevoli dell’entità da maga che la pervade. L’urgenza comunicativa svincola da bozze preparatorie e scatena onde introspettive che si riversano sulla tela con interferenze esistenziali e grottesche configurazioni d’ideali umani. Rivoltando il tutto nella loro sacra e a volte squallida ambiguità,Argiolas apre le porte di un mondo onirico, specchio d’una realtà storta dove la bellezza, nella sua accenzione più commune, è talvolta contaminata chimicamente da emulsioni organiche. Un posto abitato quasi sempre da fanciulle diaboliche, animali minacciosi, lupi sacri, prostitute regine, personaggi fantastici e reali in equilibrio grazie al codice sentimentale e visionario oramai caratteristica consolidata dell’artista sarda.Avere l’opportunità di parlarci consente lo spostamento, seppur parziale, di alcuni dei veli alchemici che la circondano come un’elegante sposa nera.

a mostrarmi per quello che ero, ma logicamente tutto ha un prezzo da pagare. Molte persone sono sparite in questo percorso, ma queste perdite sono state utili per guardare dentro di me e capire dove sbagliavo. Continuo a lavorare su me stessa cercando di fare meno danni possibili.» Le sue figure mi catturano e con malizia m’invitano a rimanere, a non andare via per attendere l’inizio di qualcosa o per raccontarmi ciò che poco prima è accaduto.Allora ho pensato al rapporto che ognuno di noi ha con il passato, al tempo trascorso come un luogo da cui ci si allontana difficilmente e altre volte in cui ci si rifugia per piacere. Il passato c’entra, contano le sue origini? Penso che le radici spesso non siano solamente luogo di ritorno ma strascichi da cui non ci si libera. «Esordisco dicendo che odio il passato e amo il presente, ma soprattutto il futuro. Irrimediabilmente tutto torna, delle volte nei sogni altre nelle tele. Non amo chi parla sempre con piacere di ciò che è stato, odio le persone che ti cercano dopo anni di silenzio convinti di trovare la stessa persona e rivivere il passato. Generalmente mentre le osservo penso ‘non è possibile che io frequentavo persone simili’. In quel momento capisco che io ero altro. Quando sono andata via dalla mia terra ero molto felice perché pensavo che mi sarei allontanata da una situazione familiare che mi assorbiva mille energie. Il passato ci segna e non ci risparmia.»

“...odio il passato e amo il presente, ma soprattutto il futuro. Irrimediabilmente tutto torna...”

Buonasera Silvia, prima d’addentrarci nel suo lavoro vorrei chiederle com’è iniziato il viaggio verso ciò che ora è e fa. «É difficile descrivere l’inizio del mio viaggio verso quello che sono oggi. C’ è stato un fatto molto personale che mi ha fatto cambiare la percezione del mondo e mi ha reso più vulnerabile. Mi ha fatto comprendere come tutto non può essere sempre stabile, di come siamo impotenti davanti alla natura. Ho iniziato a mettermi a nudo di fronte al prossimo,

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Quando vidi per la prima volta una sua tela fui subito colpito dai colori e dall’ambiguità di alcuni soggetti. E ogni volta mi coglie un certo smarrimento con

THE INTERVIEW


> Stanza 2, 2016, tecnica mista su tavola, collezione privata > Stanza 1, 2016, tecnica mista su tavola, collezione privata THE INTERVIEW

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> La tigre triste, 2016, grafite su carta cotone, 30 x40 cm Pagina accanto, dall’alto: > Thema omaggio a Joice, 2016, tecnica mista su tela, 50x70 cm > Pussicat, 2015, tecnica mista su tela, 110x150 cm, collezione privata

“Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta.” (T. S. Eliot) un’immediata fascinazione. Dopo questa prima fase mi pongo delle domande alle quali rispondo con difficoltà e non sempre lo faccio. Ho capito che un certo rispetto per ciò che guardavo m’impediva di andare a fondo facilmente. È la sensazione d’addentrarmi in un territorio psichico sconosciuto nel quale potrei trovare qualcosa di mio, un limite che ogni volta devo superare per stringermi ai suoi personaggi. Perché succede ciò? È stata un’esperienza personale o, che lei sappia, l’ho condivisa con altri? Credo poi d’aver capito che avevo a che fare con qualcosa di personale e allo stesso tempo qualcosa che riguarda tutti. «Si hai letto bene, nelle mie opere mischio il personale con dei fatti realmente accaduti. Mi piace ascoltare le debolezze altrui per comprendere le mie. Amo i difetti fisici. Non amo le persone che sorridono sempre né il sole perché mi ricorda il passato, non amando il passato odio il sole. Amo il cinema perché mi fa da terapeuta ad un prezzo più basso. Mi piace l’idea di non definire i rapporti umani, gli amori. Mi piace parlare chiaramente anche se poi nel mio lavoro l’ambiguità regna. I miei personaggi perdono sempre qualcosa dal seno e dalla bocca, forse persone, il passato, spero mai l’umanità.»

L’umanità non la perdono. Penso sia proprio l’eccesso d’umanità la loro condanna e una sovrabbondanza di sensibilità che dilata la pelle fino a sgretolarne la superficie. Fuoriesce tutto sotto la pressione di un mondo che per alcune persone è più vivo e in quanto tale, più duro. Penso che ogni goccia d’umore corporeo dispersa sia una reazione ad un’emozione precisa. Lei lavora come se intingesse il pennello direttamente dentro lacrime, latte, saliva, sangue, sperma, urina ma al contatto con la superficie i pigmenti assumono il colore che realmente corrisponde all’emozione che le ha generate. Ne consegue una tavolozza variopinta che mi pare non abbia limiti. Nella sequenza di opere ci sono degli avvallamenti dove si schiarisce tutto e rimangono il bianco, il nero, forse usa anche la matita in questi casi o un po’ di spray. Cosa succede quando vuole il colore o quando dirotta lo spazio e la figura verso una certa amenità? «Quando dipingo sto bene sono serena, proprio perché mi allontano da una società che non riesco a capire, però logicamente devo fare i conti con l’inconscio che solitamente va per la sua strada. Non prevedo cosa capiterà, l’unica previsione sicura è la morte.»

“Mi piace parlare chiaramente anche se poi nel mio lavoro l’ambiguità regna. I miei personaggi perdono sempre qualcosa...”

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THR INTERVIEW




> Quattro, 2016, tecnica mista su carta cotone,



> Tre, 2016, tecnica mista su carta, 20x30 cm



> William Henry Fox Talbot, La porta aperta, 1843, stampa su cartta imbevuta di soluzione salita da un negativo calotipipico

indizi di progetto di Cristina Casero Una nuova rivista, cioè un nuovo spazio dedicato alle immagini fotografiche e, anche, alla riflessione sul mezzo e sulle sue caratteristiche, non soltanto è sempre interessante e pienamente attuale, ma addirittura molto utile perché è più che mai opportuno essere abituati ad osservare con attenzione la fotografia, imparare a leggere davvero le immagini, che ormai sono parte integrante delle nostre vite, delle nostre esperienze più comuni. E le sollecitazioni in questo senso, quindi, difficilmente possono essere troppe.Anzi, non bastano mai. Anche restando in un ambito più ristretto, quello della fotografia come espressione estetica, nelle molteplici accezioni che tale definizione può assumere, la grande diffusione di opere fotografiche – e per conseguenza di mostre, rassegne, festival e pubblicazioni di vario genere ad esse dedicati – da un lato, e la contemporanea vivacità della riflessione teorica dall’altro, sono elementi che inducono a pensare che valga la pena di partecipare, con un contributo anche piccolo, al dibattito in corso,

che mette in evidenza tutta la ricchezza linguistica ed espressiva della fotografia.Tale articolata complessità, che definisce l’immagine fotografica dandole un grande spessore di senso, è risultata particolarmente evidente negli ultimi decenni, quando il medium fotografico, sempre più frequentemente declinato secondo istanze estetiche, è stato molto utilizzato dagli artisti per e nelle loro opere, proprio grazie alle sue specifiche caratteristiche. Infatti, il rapporto tra fotografia e arti visive è stato nel corso del Novecento vieppiù fertile e significativo, non soltanto caratterizzato da reciproche influenze, ma tanto radicalmente e sostanzialmente profondo da portare la fotografia ad avere un ruolo di primo piano nel panorama artistico internazionale e a svolgere pure un compito essenziale per l’evoluzione del linguaggio artistico. In virtù di questa relazione, tesa e dialettica, e certamente biunivoca, la fotografia è stata oggetto di studi molto approfonditi, che ne hanno messo in luce la

“...il rapporto tra fotografia e arti visive è stato nel corso del Novecento vieppiù fertile e significativo...”

Dietro L’obiettivo

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> Walter Benjamin (18921940), filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco

> Nicephore Niepce, Veduta dalla finestra a“Le Gras”, c. 1827, Eliografia

particolare natura. D’altro canto – è un fatto oggettivo – essa ha dei caratteri tanto originali quanto affascinanti, che ne fanno qualcosa di ambiguo e misterioso. In primo luogo, la fotografia presenta una significativa specificità: se da un lato essa non può essere considerata, esclusivamente, una immagine con insita una esplicita valenza estetica, poiché così si trascurerebbero gli infiniti usi meramente pratici che la vedono protagonista nella vita quotidiana di tutti noi, dall’altro essa è, indubitabilmente, una immagine ricca di connotazioni, che vanno ben al di là delle pure indicazioni denotative che essa ci offre. Appare chiaro che quella fotografica sia un’immagine estremamente complessa, che si presta a molteplici e differenti possibilità d’utilizzo ed è sempre capace di offrire vari livelli di lettura e di decodifica, i quali difficilmente possono restare nascosti dietro quell’illusione di pura analogia verso la realtà cui ormai nessuno può più credere. Se è quindi evidente a tutti, ormai, come non sia più assolutamente possibile concepire la fotografia nei termini riduttivi e mendaci di una mera trascrizione del reale, è pur vero che la visione fotografica, in qualche misura certamente automatica e meccanica, ha un appeal del tutto particolare e si ritaglia uno spazio specifico nell’immaginario collettivo poiché, come già scriveva nel 1931 Walter Benjamin, tra i primi pensatori a riflettere su questo medium, «la natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno

spazio elaborato inconsciamente. […] Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo.». Dunque la fotografia non soltanto non aderisce piattamente alla realtà che l’ha generata, ma può essere considerata un mezzo opportuno per ricavarne una inedita interpretazione, per osservarla alla luce di uno sguardo originale, seppur certamente non meno vero. Possiamo dire che, in qualche modo, la fotografia a ogni scatto crea nuovamente la realtà, offrendoci una diversa possibilità di lettura, una visione alternativa e antagonista rispetto alla consuetudine passiva con cui ci rivolgiamo spesso al mondo che ci circonda, la quale può persino sfuggire al rigido controllo del suo autore. Dato questo carattere, che si offre a numerose considerazioni, soprattutto nel corso degli ultimi trenta anni, gli studi sulla comunicazione visiva, di cui la fotografia è certamente protagonista, sono stati caratterizzati da una serie di interventi volti a evidenziare come, a partire dal secondo dopoguerra, siano mutate le intenzionalità e le dinamiche sottese alla rappresentazione visiva e, di conseguenza, anche i caratteri e la natura stessa dell’immagine fotografica, il cui ‘statuto ontologico’ è ancora oggi oggetto di interessanti osservazioni. Una ricchezza, dunque, inesauribile.Attraverso questa nuova esperienza editoriale, vogliamo regalare ai lettori la possibilità di ammirare delle belle immagini, certamente, ma anche di misurarsi e mettersi in gioco in un rapporto culturalmente significativo con un mezzo espressivo tanto diffuso quanto ancora misterioso e sempre capace di stupirci.

“...la fotografia a ogni scatto crea nuovamente la realtà, offrendoci una diversa possibilità di lettura...”

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Dietro L’obiettivo


> Louis-Jacques-Mandé Daguerre,Veduta del Boulevard du Temple a Parigi, c. 1838, Dagherrotipo

“Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l’astuccio a tracolla. E si fotografano.Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, passano i giorni aspettando con dolce ansia di vedere le foto sviluppate (ansia a cui alcuni aggiungono il sottile piacere delle manipolazioni alchimistiche nella stanza oscura, vietata alle intrusioni dei familiari e acre d’acidi all’olfatto)...” (I. Calvino, L’avventura di un fotografo)

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dopo le mutazioni di Andrea Tinterri Artworks: Alessandro Sambini

“La guerra moderna alle paure umane, sia essa rivolta contro i disastri di origine naturale o artificiale, sembra avere come esito la redistribuzione sociale delle paure, anziché la loro riduzione quantitativa.” (Z. Bauman, Paura liquida) La prima volta che abbiamo parlato la fotografia era ancora lo strumento predominante, quello che scandiva le tappe della sua ricerca. Questa fermezza è andata progressivamente a rompersi e credo sia stata la sua fortuna. Oggi utilizza performance, video, foto, scrittura, ecc. spesso creando un prodotto ibrido, difficilmente contenibile. Che cos’è successo? «Mi sono progressivamente reso conto dell’impossibilità di tradurre la complessità che mi circondava attraverso una singola immagine o una serie. Mi sono ritrovato più volte a costruire apparati teorici importanti e a tentare di distillarli in una o più fotografie, non riuscendoci. Mi sono scontrato con la mia ingenuità, o spontaneità, che attribuiva alla fotografia una capacità di astrazione e trasmutazione di ciò che guardiamo che ultimamente ritengo appartenga di più, per esempio, alla pittura. Per esempio, nel 2007 ho realizzato l’immagine di un venditore di anfore davanti a un centro commerciale, che per me riassumeva quanto sostenuto da Zygmunt Bauman sulla contemporaneità liquida.Traduceva visivamente il concetto di ‘accerchiamento’: al centro la società capitalista occidentale rappresentata dal centro commerciale, all’esterno un venditore di vasi straniero che sfidava la fortezza e ne minava la solidità, proponen-

do merci di minor valore. Ero convinto che l’apparato visivo che avevo costruito incollando cinque lastre 10x12 e panoramicando a ogni scatto da una piattaforma alta quindici metri fosse autosufficiente, poiché credevo che contasse di più il processo che sottendeva l’immagine, le premesse teoriche, rispetto al risultato estetico.Tentavo di far coesistere il tutto in un lavoro che avesse una formalità definita. Di fatto, però, quest’immagine non era autosufficiente: la gente vedeva un edificio, una strada, un venditore di vasi, un cavalcavia e io dicevo:“ma come, non noti la pressione che arriva dai paesi emergenti nei confronti della società consumistica?”. Pensavo anche che un’immagine potesse cambiare il mondo: rappresentare visivamente un tema poteva spostare opinioni? Col tempo ho imparato che questo è possibile ed è una pratica abbondantemente sfruttata per scopi politici, ma non sarà mai solo l’immagine di per sé a cambiare le cose, bensì il contesto e il veicolo che la accompagna. Fotografare era diventata una responsabilità. Per questo motivo ho deciso di smettere e ho iniziato a concentrarmi sul veicolo più che sull’immagine finale. Era appena nato Flickr e trovavo che tutte le fotografie necessarie fossero già state scattate o che il processo che avrebbe portato all’esaurimento delle fo-

“...non sarà mai solo l’immagine di per sé a cambiare le cose, bensì il contesto e il veicolo che la accompagna.”

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the portfolio interview


> Jean Cloude Was Hit By A Train, 2016, 60x120 cm, lambda print > Ghè Pronto! - Ceto, 2007, 100x130 cm, lambda print,

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tografie da scattare fosse già iniziato. Questo è stato il momento chiave della mia ricerca: sono passato dalla produzione di immagini al loro riutilizzo; il fatto che questo processo sia accompagnato da performance o da video è del tutto casuale e contingente (per esempio nella prossima mostra sto pensando di utilizzare la pittura). La fotografia è solo uno dei tanti linguaggi da prendere in prestito al bisogno.» I suoi progetti hanno spesso un doppio accesso, penso ad esempio a A Bombed Tower Grasps Our Gaze Again, a Replay! o al recente I will build a stronghold. La riflessione si sdoppia in ricerca sulla criticità e sull’uso della rete che viene affiancata alla stretta contingenza geopolitica contemporanea. «Le immagini hanno un ruolo fondamentale nella conformazione ideologica delle persone: viviamo in tempi di ideologia visuale più che politica.Ad un tassista romano dopo la strage di Parigi chiedevo perché fosse successo e lui mi rispose inconsapevolmente citando, come fossero parole sue, ciò che veniva ripetuto dai media:“siccome la Francia attacca i loro bambini allora l’ISIS risponde attaccando la Francia dov’è più debole”.Traspariva una dinamica semantica evidentemente importata in quanto molto rigida e che non permetteva fughe. Se gli avessi chiesto “disegnami l’ISIS”cosa avrebbe disegnato? Mi domando se la nostra società sia pronta ad affrontare la massa informe di informazioni visive veicolate quotidianamente. Non

c’è tempo di guardare un’immagine, valutarla, escluderla o tenerla in considerazione per eventualmente decidere di passare a un altra o di spegnere il computer, il cellulare. Non resta che chiudere gli occhi e lentamente scacciare tutti i fantasmi che a mano a mano si sono sedimentati nella nostra immaginazione.» A tale proposito il suo ultimo lavoro prende forma da un fatto di cronaca, anzi potremmo dire una vicenda politica. Qualcosa che probabilmente ha modificato il rapporto dell’occidente con l’idea di vacanza balneare. «I will build a stronghold è un progetto che si inserisce nella cornice di Stories from the Edge, un progetto itinerante ideato dalle artiste Nayari Castillo e Kate Howlett-Jones in collaborazione con la curatrice Francesca Lazzarini, volto a esplorare il rapporto tra turismo e territorio lungo le coste di Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Istria croata in periodo di bassa stagione. Ritengo che, dopo la strage di Sousse, il 26 giugno 2015 in Tunisia, sia difficile parlare ancora di alta e bassa stagione e non riconsiderare l’idea di turismo in generale. Sousse ha contribuito a modificare l’immaginario vacanziero. Cerco di spiegarmi. Negli ultimi anni molti scenari noti, da cartolina sono stati ‘sporcati’ da esplosioni, ‘rovinando’ l’idillio visivo che accompagnava certe esperienze. Un’esplosione crea un trauma fisico, un’esplosione ripresa da una telecamera crea un trauma visuale in quanto sconvolge le aspettative

“Le immagini hanno un ruolo fondamentale nella conformazione ideologica delle persone...”

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Pagina accanto: > TGS - video still, 2014 Sopra, dall’alto: > What I wanted to see/varva, DV-PAL, 8 minuti, 2014 > Dov’è il Polesine,“trota”, 2005, lambda print, 100x50 cm

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anche di chi non c’è, di chi considera la vacanza come “[…] un sollievo dopo mesi di fatica una manna dopo quest’ultimo periodo che non ce la facevo più dodici ore alla scrivania poi l’ultimo mese ho avuto delle consegne che mi hanno impedito di vedere mia moglie che poi quella adesso è comunque incazzata perché quest’anno non riusciamo ad andare al mare prima di luglio […]”(Sceneggiatura della Contemporaneità, Sambini, 2016). Pensare che lo scooter d’acqua che si sta avvicinando sia cavalcato da un assassino (come è successo a Sousse) e che l’ombrello parasole che tiene sotto braccio possa nascondere un fucile automatico rende ansiogena anche l’idea di spiaggia. Un po’ come quando si vede Lo Squalo di Steven Spielberg la prima volta: quando poi si va al mare, ci si immerge con più cautela. Lo scopo del mio progetto non è tanto quello di suggerire che ogni barcone che arriva all’orizzonte sia foriero di pericoli, né che ogni persona che guida uno scooter d’acqua con un ombrello sia un terrorista o che le spiagge siano un territorio minato. Cerco di mostrare come tutto ciò che diamo per scontato e assodato non lo sia.I will build a stronghold è una gara di castelli di sabbia rivolta a cinque scultori. Lo scopo è quello di rinnovare la forma dei castelli di sabbia aggiornandoli alle attuali fortificazioni militari. I castelli di sabbia che i nostri figli costruiscono sono copie di fortificazioni apparse in Europa

a cavallo del undicesimo e dodicesimo secolo che hanno cessato di funzionare in quanto incapaci di resistere ai colpi dell’artiglieria nemica.Trovavo che nel 2016 fosse desueto accontentarsi di una struttura medioevale:esistono così tante aziende militari che attualmente producono torri per le zone di conflitto che non ha senso essere appagati da merli e bastioni.» Crede in un ruolo dell’arte, soprattutto in relazione all’attualità politica e sociale? «All’inizio del mio percorso pensavo che un’immagine potesse cambiare il mondo. Rappresentare visivamente un tema poteva spostare opinioni? Nel tempo ho imparato che questo è possibile ed è una pratica abbondantemente sfruttata per scopi politici, ma non sarà mai solo un’immagine di per sé a cambiare le cose, bensì il contesto e il veicolo. Sono convinto che l’arte sia responsabilità, anche solo nel suggerire l’esistenza di un’alternativa o la possibilità di un cambiamento.»

“All’inizio del mio percorso pensavo che un’immagine potesse cambiare il mondo...”

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Ci sono autori, non necessariamente nell’ambito dell’arte, con cui si confronta e che la aiutano nella definizione della sua progettualità? «Sì, vengo influenzato quotidianamente dalle professionalità e fonti più diverse. Il mio interlocutore privilegiato, per esempio, per il progetto I will build a stronghold è Igor Barbini, muratore-carpentiere trecentese.»

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Pagina accanto: Mompracem - Roma, 2007, lambda print, 60x37 cm Sopra, dall’alto: >Dov’è il Polesine, panchina, 2005, lambda print, 100x50 cm > Carbonato, 2009, lambda print, 80x40 cm

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> Parabrezza, 2009, lambda print, 80x63 cm



> Robert Pan, Mahdi, dicembre 2015 febbraio 2016, immagini dell’allestimento della mostra, Galleria Giovanni Bonelli, Milano

oscillazioni di mercato di Federica Pasqualetti Giovanni Bonelli è un noto e stimato gallerista italiano, fra i più importanti nell’ambito dell’arte contemporanea: ha fondato la sua prima galleria nel 2002 nel cuore del centro storico di Mantova e nel 2006 ha inaugurato a Canneto sull’Oglio (MN) Bonelli LAB, uno spazio di oltre 2000mq di esposizione nato dal recupero di una ex fabbrica di bambole, sede ideale per ambiziosi progetti curatoriali ed eventi espositivi unici.Alcuni anni fa apre una nuova galleria a Milano: circa 350mq di spazio espositivo, ricavato da un fabbricato anni Cinquanta nel quartiere Isola della città, dedicato all’arte contemporanea italiana e internazionale oltre che un luogo creativo e progettuale di divulgazione culturale e artistica. Giovanni Bonelli si contraddistingue per la sua vulcanica attività: eventi, mostre, collettive e tantissimi artisti, nazionali e internazionali, ospitati fra i quali ricordiamo Agostino Arrivabene,Aldo Mondino, Davide Nido, Fulvio di Piazza, Gianni Pettena, Giuseppe Gonella,

Marco Mazzoni, Maurizio Mochetti, Michelangelo Galliani, Nicola Verlato, Robert Pan. Giovanni Bonelli: una galleria storica di Canneto sull’Oglio, una a Pietrasanta in Versilia e, da quasi quattro anni, una sede anche a Milano dedicata all’arte contemporanea italiana e internazionale, alla progettazione e allo sviluppo della cultura. Ci racconti la sua esperienza e come è approdato, e cresciuto, nel mondo dell’arte. «Sono figlio di un gallerista della provincia di Mantova. Sono nato e cresciuto in galleria, questo è stato il mio ambiente da sempre. Sono legato alla tradizione figurativa italiana ma aperto a tutti i nuovi linguaggi.»

“Sono legato alla tradizione figurativa italiana ma aperto a tutti i nuovi linguaggi...”

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Citando il titolo e il sottotitolo di una pagina di Plus24 – Il Sole 24 Ore (sez.ArtEconomy24) “Gallerie in calo e case d’asta in espansione. Le prime fatturano oltre la metà degli scambi, ma i ricavi medi sono un

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Abbonarsi. Due riviste, un’offerta unica. Abbonamento 1 anno: 4 numeri di #AImagazine + 2 numeri art-book AIM al prezzo esclusivo di € 27,90 + 3,90 (spese di spedizione) per un totale di € 31,80 invece di € 46,90. FaceBook AImagazine / www.gretaedizioni.com


> Bruno Munari, Ritratto di una collezione, 2015, immagini della mostra, Galleria Giovanni Bonelli, Milano

“L’arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di esperienze nuove, nelle forma, nel contenuto, nella materia, nella tecnica, nei mezzi.” (B. Munari)

quinto di quelli incassati dalle seconde”; data la sua decennale esperienza, qual è il suo pensiero in merito a questa tendenza? «È un dato di fatto, non possiamo negarlo. Con l’avvento del web è cambiato anche il nostro mestiere e le case d’asta godono di trattamenti anche economici non paragonabili a quelli di una galleria. Inutile essere nostalgici, dobbiamo dimostrare che il mestiere del gallerista, se svolto con serietà e impegno, è diverso e porta i suoi ‘frutti’ ai clienti. Il fattore umano e la competenza possono fare la differenza. Inoltre una galleria ha possibilità di fare ricerca, sperimentare, aiutare giovani emergenti.Tutti elementi estranei alla logica del compra&vendi della casa d’asta. Come operatori del settore dobbiamo tener presente le quotazioni d’asta ma non possiamo piegarci alla loro logica dove non sempre alla qualità intrinseca dell’autore corrisponde un adeguato riconoscimento economico. Un esempio per tutti: Bruno Munari.»

secondo lei, in Italia questo principio non funziona? Cosa dovrebbe cambiare per farlo funzionare? «Non è un segreto che l’Italia abbia delle défaillances strutturali riguardo la valorizzazione del proprio potenziale artistico. L’arte contemporanea non fa eccezione, anzi, se possibile viene ancora più penalizzata dalla quasi-totale assenza di strutture. Il problema per i nostri giovani artisti è che si trovano a competere con coetanei che provengono da paesi dove l’arte è supportata da un ‘sistema’ che funziona e aiuta i giovani a crescere anche dal punto di vista qualitativo. Qui invece tutto dipende quasi esclusivamente dalla buona volontà del privato che ci mette tempo e risorse. Inoltre il nostro mercato dell’arte è stritolato da burocrazia e tasse e noi come Associazione Nazionale dei Galleristi (ANGAMC) ci stiamo battendo in tal senso da anni per cercare di snellire procedure e vecchie imposizioni fiscali oggi incompatibili con i cambiamenti occorsi nel mercato globale.»

Il mercato dell’arte in Italia ha perso alla fine del 2015 il 21,4% delle gallerie e attività. Qual è la sua opinione rispetto questi dati negativi? «Non si tratta soltanto di un problema italiano ma più generalizzato. è il mercato globale che ha subito cambiamenti in negativo e che, ad oggi, non sta riprendendo con la forza e il vigore auspicati. Le realtà che fanno maggior fatica sono quelle di vera ricerca, sperimentazione perché, tranne in rarissimi casi, per definizione la ricerca è più difficile e ha dei tempi lunghissimi di ‘gestazione’ da parte del cliente. Questo implica che la fonte di sostentamento della galleria debba essere ricercata altrove (maestri affermati ad esempio) ed è per questo che molti colleghi purtroppo hanno dovuto chiudere.»

Chi sono, ad oggi, i ‘clienti’ di una galleria d’arte? «Liberi professionisti, appassionati, titolari d’azienda, imprenditori dei settori più disparati che hanno visto nell’arte un benerifugio (come sempre è stata) ma anche una passione, una scoperta alla quale dedicare il proprio tempo libero scoprendo e affinando il proprio gusto personale. L’arte, se studiata e seguita, può essere una grande rivelazione anche sul proprio ego, sulle proprie passioni profonde ed è per questo che, una volta iniziato a collezionare, difficilmente si abbandona.»

“...dobbiamo tener presente le quotazioni d’asta ma non possiamo piegarci alla loro logica ...”

L’arte è una risorsa culturale ed economica e ad essa è associata un ampio indotto che potrebbe avere un ruolo importante nell’economia italiana: perché,

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Se dovesse dare un consiglio alle nuove gallerie che stanno aprendo o apriranno in Italia nel prossimo futuro, quale sarebbe? «Direi loro di stare attenti a far quadrare i conti dei bilanci come farebbe una qualsiasi azienda. Di valutare le collaborazioni e cercate di essere più preparati possibile, puntando alla qualità.»

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HONG KONG EXPRESS di Domenico Russo Artworks: Alessia Leporati dal progetto Hong Kong Express, 2013-2015

“Hong Kong è simile alla Hong Kong notturna. Più misteriosa forse sotto quel sole che esalta le réclames multicolori, il bronzo roseo rosso nel quale è scolpito il popolo e la cornice dei quadri nei quali vive.” (J. Cocteau) L’ex colonia britannica, dal 1997 è sottoposta a un processo di continentalizzazione che stringe una morsa grigia intorno alle abitudini libertarie di cui godeva gran parte della popolazione. Hong Kong è la città che Alessia Leporati (Parma, 1981) ha fotografato di più finora, adattando tecniche differenti ai cambiamenti repentini che si sono susseguiti inesorabili di anno in anno. «Ogni volta mi è sembrata diversa e ho cercato di fotografarla anche in modo diverso, digitale e poi solo pellicola, solo ritratti e poi solo luoghi o dettagli e situazioni», puntualizza. Usa solitamente la macchina fotografica per stabilire un’interazione personale col mondo che la circonda, così che ogni strato, famiglia, amici, società e natura, diviene luogo d’indagine e talvolta di dialogo. Grazie, però, soprattutto alla sua capacità analitica che, dalle veloci e profonde incursioni in Asia, nasce questa serie fotografica. In Hong Kong Express (2013/2015) il mondo politico/ economico, apparentemente assente, aleggia nello spazio insinuandosi tra le strade e sui volti stanchi a

volte addormentati dei soggetti. E tutto, dai prodotti dei negozietti disposti in sequenza per poi passare attraverso le pubblicità o le scritte e le insegne o il paesaggio stesso, rimanda a questa presenza. Profonde increspature identitarie si sono venute a creare e tra di esse Alessia Leporati s’è mossa con sicurezza tracciando schemi diversificati di una società in fase di cambiamento. Scatto e sguardo sono i parametri cognitivi con cui principia il percorso. Tecnico l’uno e sensibile l’altro, li fa coincidere tra di loro per inquadrare uniformemente le peculiarità di una condizione esistenziale sigillata nell’asettica solitudine moderna. Hong Kong Express è un’analisi del processo di perdita dell’identità, il quadro conciso di un ingranaggio su cui la fotografa scivola cogliendo la marginalità di un vivere. La luce, principio attivo di ogni lavoro, calda tanto quanto sarebbe quella di un sole che finge misericordia, illumina un gelataio che pare pensi a strani segreti mentre consegna il cono alla crema come fosse la staffetta per il fallimento, in altri scatti si riversa

“Ogni volta mi è sembrata diversa e ho cercato di fotografarla anche in modo diverso...”

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sui turisti che voltano le spalle alle divinità in cerca di una foto di gruppo o sui negozianti remissivi che vendono frutta che pare finta. Mentre è il cellofan, sulle voliere vuote in un negozio d’animali, a brillare in sua vece come un cristallo da bancarella, circondando il proprietario la cui personalità è scomparsa dietro il pappagallo sulla sua spalla. Sono le icone di una condizione esistenziale, fotografie che dietro i colori celano una notturnicità suadente che convoglia a sé l’attenzione, attirandola verso gli ultimi bagliori di un’energia che la Leporati vorrebbe difendere a ogni costo.Assistiamo così allo sgocciolare denso della dimensione individuale di una società che vede comunque tra le sue fila ragazzi capaci di far sentire la loro voce o giovani laureate, subito selfate, pronte allo scatto in superficie per portare a galla nuove speranze ma con l’ambiguità di una tarda innocenza ancora del tutto in bilico. In questo modo rende protagonista la città stessa, non come un semplice apparato di corpi e architetture ma quale sistema di memorie e speranze cui

aderisce stabilendo un patto d’amicizia col soggetto. Un’unione necessaria affinché ogni foto custodisca la natura più profonda dell’uomo ed esprima con concisione le tare di una società in dissoluzione. L’incertezza svanisce a tratti, quando dai volti pacati di una coppia di anziani trapela una speranza sincera, lì alla fine di una via mentre guardano alla successiva senza voltarsi in dietro. In Hong Konk Express, diversamente da altri lavori,Alessia Leporati non si limita a mostrare l’individuo alle prese con la sua personalità né si preoccupa di cercare un canale per sfoghi autobiografici bensì tenta liberamente di comprendere come le strutture umane mutano quando è a repentaglio l’integrità della propria individualità. Con un linguaggio bruciante di comunicatività, raffinato nel dettaglio e poetico nella costruzione, queste immagini acquistano anche valenza di manifesti per via degli interrogativi da cui derivano e per quella forza che ci tira direttamente dentro, chiedendo conto a tutti della portata dell’evento.

“...rende protagonista la città stessa, non come un semplice apparato di corpi e architetture...”

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segni fotografici di Sergio Signorini Artworks: Lino Budano

“Spesso la composizione è davvero il mezzo migliore che un fotografo ha a disposizione per mostrare la complessità della vita; la struttura di un’ immagine può suggerire la forma che diviene bellezza.” (R.Adams) Le fotoGRAFIE di Lino Budano: opere coinvolgenti e stratificate, nelle quali la fotografia è solo una delle espressioni che compongono il quadro finale. Artista complesso e molteplice, labirintico, non si limita a scattare fotografie, ma crea, dipinge, graffia, tormenta, lacera, deforma, contamina, riscrive le immagini che definisce fotoGRAFIE. Come procede? «Scatto una fotografia, poi la guardo e attendo che mi comunichi se e come inserirvi altri tratti caratteristici del mio lavoro artistico: sculture, frames di video, immagini diverse e/o carpite da internet. La contamino insomma, anche mediante lavoro manuale: graffio un cartoncino, lo dipingo, lo lacero, lo ricucio e lo sovrappongo a quella che diviene fotoGRAFIA, proprio per l’integrazione di disegni manuali. Da un punto di vista progettuale integro digitale e analogico/ manuale, dalla cui sovra/contra/ pposizione tento di far scaturire un nuovo linguaggio. All’inizio intitolavo i video codici – genetico e digitale – e perseguivo una nuova forma di natura umana; o disumana, forse. L’origine è sempre la stessa: ciò che nell’immediato sembra foto tout court è in realtà fotoGRAFIA, o fotoSGRAFIA, o scratched photo, e scaturisce dalla fusione delle due anime: digitale/tecnologica/virtuale e manuale/corporea/reale.»

Il linguaggio, mix di fotografico e fantasioso, esprime la straziata sonorità del parto di un senso per l’esistenza, affrontato con angoscia e intriso di eros/ thanatos. «Uno degli elementi tipici del mio lavoro è l’osservazione/rappresentazione del decadimento e disfacimento della natura e dell’uomo: mi attrae soprattutto thanatos, fa parte del mio essere e non posso tradirmi. Cerco però di esorcizzare questa attrazione in modo fantasioso, onirico, pur senza traviare quello che sento vero per me. Nella ricerca in corso sono spinto a straziare sempre più le foto di partenza: arrivo a ricucirne le lacerazioni con filo di cotone – non più fotografato, come prima – vero, reale, un po’ sfilacciato. Provo a esprimere una diversa forma di fotografia, smitizzando la perfezione rappresentativa, rendendola umana nella sua natura fisica, dunque vulnerabile e soggetta agli eventi traumatici dell’esistenza. Di più, mentre prima utilizzavo carta Hahnemühle, costosa, ultimamente stampo su carta per fotocopie: umanizzo, rendo fragile e caduca l’immagine, come la vita umana.»

“Provo a esprimere una diversa forma di fotografia, smitizzando la perfezione rappresentativa...”

I suoi paesaggi interiori simbolizzano oggetti, forme, eventi esterni tramati in neo-significati interni.

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Mostra una forte predilezione per immagini in bianco/nero. Nel processo alchemico è il passaggio dall’opera al nero all’albedo, alla luce, alla trasformazione in sé. Come, le sue fotoGRAFIE riflettono la spinta interiore all’emergere dall’inconscio? «Dopo trent’anni di attività artistica non necessito di

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> Cantiere navale, carta Hahnemühle fineart giclée print su alluminio, 100x130 cm > Cavallo all’ospedale militare, carta Hahnemühle fineart giclée print su alluminio, 100x130 cm

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“Dopo trent’anni di attività artistica non necessito di un progetto: ancorché inconsce, le immagini affiorano quasi spontaneamente. Altrettanto spontaneo è comprendere dove ti porta l’opera...”

> Isola Chiesa, (Chiesa di S. Massimiliano Kolbe,Varese), carta Hahnemühle fineart giclée print su alluminio, 100x165 cm

un progetto: ancorché inconsce, le immagini affiorano quasi spontaneamente.Altrettanto spontaneo è comprendere dove ti porta l’opera, come ti indirizza l’inconscio: mentre lavori, cogli da un errore che è proprio lì che devi andare.» Anche laddove compare, come nei cicli Periferie e Sicilia, il colore resta pallido e annebbiato, mentre un insanabile tormento sembra aleggiare ovunque in foggia di sintomi profetici: forme inusitate, fagocitanti mezzi alieni e/o tumori espansi dalla stessa natura in procinto di perire. Dove, la speranza nelle sue fotoGRAFIE? «Non so se ci sia speranza. Sa quanto sono pessimista. Vedo che sta guardando una foto a colori: osservi! Per quanto riccamente colorato sia il prezioso tappeto che lo ricopre, il molo sta sprofondando nel mare. Il bianco/nero, ancor più, drammatizza, enfatizza, mi si confà. Sì, nel ciclo Sicilia tutte le immagini trasuderebbero colori vivi, ma talmente risonanti che ho dovuto attenuarli, trasformarli, facendo perdere

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loro un po’ di carica. Ho scattato in una giornata di temporale, con un cielo per me del tutto inusuale in Sicilia: nuvole possenti, i cui grigi contrastavano prepotentemente con l’eccezionale vivezza dei colori. Troppo! Ho dovuto annebbiarli, impallidirli, pur senza poterli eliminare, per non tradire la vera natura a colori della Sicilia.» L’acqua è presente ovunque: cosa rappresenta? Liquido amniotico/paradiso simbiotico perduto con la madre? Fluire dell’anima ormai esplicitata? Rischio di scioglimento dei ghiacciai e inondazione? «L’acqua è un elemento che comprende vita e morte, dunque tutto: simbolo per eccellenza nelle mie opere, le quali – appunto – contengono tutto e sono tessuto connettivo di fotografia, scultura, video, pittura, disegno ecc. Non appena percepisco l’acqua, in tutte le sue forme, l’artista in me si ravviva: arrivo a inserirla in video e fotoGRAFIE anche laddove non esiste realmente! Ne

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ho invasa persino una chiesa, come – separatamente, ma con comune sentire – il grande regista polacco Lech Majewski. La mia è S. Pietro: l’ho allagata, con corvi che volteggiano fra le sue colonne, e intrisa di morte.»

bambino, già presente, il futuro uomo carico di sofferenza: il bambino ne porta in anticipo i segni.Trovo ipocrita ritrarre i bambini belli, felici e sorridenti, ma forse i miei lavori sono un po’ malati, un po’ guastati dalla malinconia.»

Quale significato attribuisce alla presenza di cavallo o balena in luoghi dei quali sono solitari abitatori? «Il cavallo e la balena sono animali esteticamente seduttivi e misteriosi, vere opere d’arte della natura: mi affascinano irresistibilmente. Il loro mondo, rispetto al nostro, è tutto da decifrare.»

Non è che ritrae semplicemente l’imperfetto? «Forse, o solo l’umano. Non pretendo di fornire risposte: mi limito a suscitare domande.»

I Ritrattati sono soprattutto familiari esplorati in continue parvenze: cosa indaga nei loro variabilissimi sguardi? «Il progetto che mi sta più a cuore riguarda Jacopo, mio nipote, ritratto – o ritrattato – lungo la sua crescita. Ferisco il suo volto, lo graffio, lo abbruttisco, dicono, e spesso mi si rimprovera per questo.Vedo nel

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Un’ultima domanda suggerita dalla comune esperienza con Annalisa Ballarini (musicista, poetessa, scrittrice): come definirebbe il rapporto artistico con la verità? «Amo traviare la verità, perché non esiste in assoluto: ognuno possiede la propria. Esprimere la mia – non perché la ritenga giusta – attraverso il rappresentarmi, mi consente di far vacillare la verità degli altri: contraddirli mi fa sentire di esistere con loro, pur nella mia solitudine fondamentale.»

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l’ossessione del ricordo di Jennifer Malvezzi

“La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito blabla: tecnica, realtà, reportage, arte, ecc.: non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.” (R. Barthes)

Mentre cercavo le parole per rispondere all’invito del nuovo #AImagazine a tenere una rubrica sul rapporto tra le immagini in movimento e la fotografia mi continuava a ronzare in testa una frase di Gisèle Freund, letta chissà quando e chissà dove, che avevo appuntato senza una particolare ragione: «É sempre l’immagine ferma e non quella in movimento a incidersi nella nostra mente, diventando poi parte della nostra memoria». La memoria. L’ossessione del ricordo. Chiudo gli occhi, cerco di pensare a una sequenza di un film, ma mi vengono in mente solo fotogrammi. Il bambino di spalle, in controluce, che tocca la gigantografia del volto di Liv Ulmmann nella prima sequenza di Persona. Gli occhiali rotti sul volto insanguinato dell’anziana ne La corazzata Potëmkin. Monica Vitti col suo cappotto verde, sullo sfondo di un’area industriale nel finale di Deserto Rosso. La Giovanna D’arco di Dreyer, un primo piano leggermente spostato a destra, il volto solcato dalle lacrime, la freccia, la corona. Le bambine di Shining, mano nella mano in fondo al corridoio. Fotogrammi, sempre e solo fotogrammi. Mi chiedo se mi stia lasciando condizionare dall’adagio della Freund: il mosaico frammentario dei fotogrammi rievocati è forse il frutto di una suggestione che non permetterà di riordinarne le tessere? Improvvisamente, come un colpo di scena tanto necessario quanto inevitabile, affiora il ricordo dello straordinario capolavoro di Chris Marker La Jetée (1962). L’ho visto decine di volte e ogni volta sono rimasta ferita dalla potenza dei singoli quadri, dei singoli scatti che

compongono questo eccezionale photo-roman. Bellour giustamente definì La Jetée «un’attrazione travolgente per l’immagine unica» non solo perché la parabola del protagonista si dispiega in absentia di movimento filmico, scandita da una serie di fotografie, ma anche perché il suo viaggio è guidato dall’ossessione per un’immagine, un ricordo d’infanzia. L’immagine della morte di uno sconosciuto, che altro non è che l’immagine della sua stessa morte. La prima immagine del film è anche l’ultima, in mezzo il viaggio nel tempo di un uomo che cerca di rallentare, di fermare, di isolare e rivedere (e quindi rivivere) quell’immagine per capirne finalmente il senso. Rosalind Krauss, invece, sosteneva che ne La Jetée l’uso dell’immagine ‘ferma’ fosse usata per orchestrare quel momento di incorniciatura di ogni film in cui la parola ‘fine’ sta sospesa come un grande segno di punteggiatura, fermo sullo schermo oscurato’. L’immagine della propria morte, un finale perfetto. Questo mi porta naturalmente a pensare al discorso di Bazin sul cinema come momie du changement, il suo rendersi simulacro della vita attraverso il movimento e, di riflesso, a Barthes che argomenta come la fotografia assuma la funzione antropologica di mort plate... In modo ormai del tutto consequenziale, ho deciso che il titolo di questo piccolo spazio su #AImagazine non poteva che essere La Jetée, una parola che nel film indica il molo, la rampa di lancio dalla quale il protagonista osserva l’immagine della sua morte, ma che assume anche il significato dello stesso viaggio nel tempo che l’uomo compie attraverso l’immagine.

“É sempre l’immagine ferma e non quella in movimento a incidersi nella nostra mente...”

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LA JEtée


> Frame dal film La corazzata Potëmkin, 1925, regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Vorrei insomma che questa rubrica fosse come un molo attraverso cui compiere un percorso nel tempo attraverso le immagini e la memoria. Un molo, un affaccio, per parlare di come l’immagine in movimento si sia interrogata e s’interroghi oggi sulla sua natura fotografica, attraverso i racconti dei ‘fautori’ di queste immagini, appunto, i filmmaker. Per rimanere in tema di tempo e del suo scorrere non vorrei che questo spazio si limitasse alla stretta contemporaneità, ma mi piacerebbe ospitare qui operazioni videografiche, filmiche, parafilmiche che attraversino la storia dell’immagine, in special modo quella italiana, troppo spesso considerata marginale. Trovo che per una rivista come #AImagazine, che non solo parla di fotografia, ma che lega il suo percorso a quello di una galleria, sia necessario interrogarsi su

tutte quelle operazioni di rilocazione ed espansione del filmico fuori dalla sala di proiezione, negli spazi pubblici e privati normalmente deputati all’oggetto artistico, nonché sul rallentamento dello scorrimento temporale dell’immagine in movimento fino alla riduzione della percezione retinica al singolo fotogramma. Nulla di nuovo, si dirà, ma se è vero che da sempre per analizzare un’immagine in movimento è necessario fermarla, molto spesso non si riflette a sufficienza sulla natura di questo gesto. Il fotogramma resta l’immagine unica, l’atto di volontà di congelare il tempo, di condensare la memoria, di sconfiggere l’inesorabile andamento verso la fine (e verso la morte) del movimento, dell’immagine, della vita umana. Il fotogramma come atto finale di resistenza.

“Il fotogramma resta l’immagine unica, l’atto di volontà di congelare il tempo, di condensare la memoria...”

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MIA FAIR 2016 28 aprile > 2 maggio 2016 > Milano

Alberto Andreis Raffaella Benetti Massimiliano Camellini Daniele Cametti Aspri Diego Chiarlo Maria Cristina Coppa Giovanni Marinelli Gianni Pezzani Fabio Pradarelli Alessandro Risuleo Valentina Scaletti Paolo Simonazzi Filippo Maria Zonta

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made in italy culturale di Andrea Tinterri

“La cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande.” (H. G. Gadamer)

Dal 2015 Marco Delogu è il nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Il primo fotografo ad occupare questo ruolo dal momento in cui è entrata in vigore la legge sulla ‘chiara fama’. Segnale che evidenzia il ruolo e il compito, sempre crescente, dedicato al linguaggio fotografico e ai suoi protagonisti: fotografi, curatori, critici. L’esperienza curatoriale e di direzione artistica di Delogu, in realtà, è consolidata da parecchi anni. Basterebbe ricordare l’ideazione (2002) e la relativa direzione di FOTOGRAFIA – festival internazionale di Roma, uno degli appuntamenti più significativi nel panorama italiano. In questa breve intervista abbiamo voluto capire il ruolo che oggi occupa, sulla scena culturale internazionale, l’Istituto londinese e quale sia la direzione che Marco Delogu ha intrapreso per valorizzare l’arte, la letteratura e il teatro contemporaneo.

nel 2016, l’anniversario della nascita della scrittrice Natalia Ginzburg, è stato invitato Nanni Moretti a leggere le pagine di Caro Michele, un romanzo epistolare che racconta la storia di un ragazzo romano che scappa dall’Italia rifugiandosi in Inghilterra. Questo anche perché il pubblico che intercettiamo non è solo quello italiano: l’attenzione è ampia, spesso giovane, e piuttosto variegata. Inoltre un’altro dei compito che assolve l’Istituto è quello della promozione della lingua e del turismo.» Quali sono gli scambi con musei, fondazioni, gallerie? L’istituto possiede dei propri spazi in cui allestire percorsi espositivi? «Noi abbiamo nostri spazi espositivi, anche se non molto grandi. Li abbiamo rinnovati da poco e in questi luoghi cerchiamo di dare voce a giovani artisti. Ma soprattutto interagiamo con istituzioni e musei del territorio inglese. Il 5 marzo di quest’anno ha inaugurato la mostra Botticelli Reimagined al Victoria and Albert Museum di Londra, invece una retrospettiva su Giorgione sarà presentata a La Royal Accademy of Arts, sempre a Londra. Ma interagire con le istituzioni culturali del territorio significa anche costruire percorsi da alcune sollecitazioni esterne. Quando nel 2015 la Tate Modern ha presentato la mostra The World Goes Pop, una riflessione sull’arte pop in cui erano presenti anche opere di Sergio Lombardo e Mario Schifano, noi abbiamo risposto con Pre-Pop

“Il primo fotografo ad occupare questo ruolo dal momento in cui è entrata in vigore la legge sulla ‘chiara fama’...”

Di che cosa si occupa l’Istituto Italiano di Cultura di Londra? «Il compito è quello di promuovere la cultura italiana. Noi ci occupiamo principalmente di aggiornare la tradizione della cultura italiana, cercando interazioni con la ricerca contemporanea. Questo instaurando dei legami forti con il territorio inglese e con la sua storia. Per esempio quando, nel 2015, abbiamo celebrato i 750 anni dalla nascita di Dante, abbiamo creato un percorso parallelo tra Dante e Samuel Beckett sul tema dell’accidia. Oppure quando abbiamo ricordato,

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> Istituto Italiano di Cultura di Londra Pagina accanto: > Marco Delogu, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra

and Pop: the 50s and 60s in Italy. La stessa operazione la faremo in occasione dell’appuntamento di Photo London, in cui proponiamo una collettiva fotografica, diversi sguardi sulla città di Roma.» Quali sono, invece, i rapporti con l’Università italiana? «I rapporti con l’Università sono aperti, stiamo proponendo una ricerca su Giorgio Bassani e ci siamo rivolti a Giulio Ferroni, come una delle voci più autorevoli che potesse confrontarsi con la materia. Ma, spesso, preferisco avere un contatto diretto con i protagonisti. Trovare persone, nel mondo della cultura, capaci di interpretare e raccontare autori, come nel caso dell’anniversario della morte di Pasolini. In quel caso abbiamo invitato Fabrizio Gifuni e Emanuele Trevi, per lo spettacolo L’uomo che non dormiva. Mi sembrava una maniera inedita e non troppo istituzionale per rendere omaggio ad un intellettuale del Novecento.»

«Credo che quello che spesso viene spacciato come sistema in Inghilterra o negli Stati Uniti, sistema non lo sia.Anche qua ci sono evidenti difficoltà. In Italia è difficile fare sistema, ma non credo che all’estero la situazione sia migliore. Probabilmente, è da ammettere, in Inghilterra la fotografia fa meno fatica ad essere esposta e paragonata all’arte in genere, come pittura o scultura. Poco tempo fa alla Tate Modern c’era una mostra di Calder e a fianco un’esposizione fotografica. Questo sì, probabilmente i linguaggi sono più parificati. Ma in Italia soffriamo spesso di una certa esterofilia. Una delle soluzioni possibili, per restituire maggiore dignità al fotografico, sarebbe costituire un dipartimento di fotografia all’interno dei più importanti musei di arte contemporanea, questo farebbe la differenza.»

“...il pubblico che intercettiamo non è solo quello italiano: l’attenzione è ampia, spesso giovane, e piuttosto variegata...”

Lei è, innanzitutto, un fotografo. Che differenza intercorre tra istituzioni italiane e istituzione inglesi sulla ricezione e promozione del linguaggio fotografico?

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Per chi volesse seguire la programmazione degli eventi dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra può consultare il sito www.icilondon.esteri.it Il percorso di ricerca fotografica di Marco Delogu è visionabile al sito www.marcodelogu.com

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Paolo Woods, Les Cayes, Haiti. 2013

Paolo Woods

STATE > opening

13|05|2016-18.00 > BAG GALLERY PARMA, Borgo Ronchini 3 bag-gallery.com


eleganza da collezione di Stefania Dottori

“Il fascino d’una collezione sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde della spinta segreta che ha portato a crearla.” (I. Calvino)

Fondatore nel 2012 di MIA Photo Fair e attento collezionista. Un’intervista che comprende i due importanti ruoli che assume oggi Fabio Castelli all’interno del panorama fotografico contemporaneo. Direttore dell’unica fiera di settore italiana arrivata quest’anno alla sua quinta edizione e collezionista con alle spalle una lunga esperienza, formatasi in anni non sospetti, quando ancora in Italia l’immagine fotografica non godeva dell’interesse e dell’approfondimento di cui sembra beneficiare ultimamente.

significative presenze estere.Tra i principali meriti che mi sento di attribuire a MIA Photo Fair mi viene da sottolineare il contributo alla sprovincializzazione della fotografia italiana, alla conseguente possibilità di far conoscere meglio i fotografi italiani all’estero, alla capacità di coniugare mercato e cultura: perché una delle caratteristiche che più mi stanno a cuore di questo appuntamento annuale è appunto la grande mole di iniziative culturali che si avvicendano nei giorni di MIA Photo Fair.»

Nel 2011 nasce MIA Photo Fair; la fiera italiana dedicata alla fotografia e al video.Alla sua sesta edizione qual è il resoconto di questa importante esperienza? «La prima risposta che mi viene spontanea è che stiamo parlando di una scommessa vinta: contro i pregiudizi e i timori che un’importante fiera esclusivamente dedicata alla fotografia e che coniugasse mercato e cultura potesse attecchire in Italia. Dall’esordio a oggi la manifestazione, già nata con successo, ha visto consolidare il suo status di appuntamento imprescindibile per fotografi, gallerie, critici, curatori e operatori vari, non solo italiani ma con

La fiera apre le proprie porte non solo a gallerie, ma anche a singoli fotografi che vogliono relazionarsi al pubblico. Quali sono i criteri di selezione? «Il primo criterio è la qualità: alcuni noti critici e curatori si occupano di selezionare le proposte, vagliano il percorso e il progetto dell’autore, verificano la qualità delle opere che andranno in mostra e che, oltre che essere significative dal punto di vista artistico, devono rispondere a precisi requisiti rispondenti alle regole del mercato dell’arte, quindi estrema attenzione anche agli aspetti legati alla produzione: qualità delle stampe ed eventuale tiratura.»

“...la manifestazione, già nata con successo, ha visto consolidare il suo status di appuntamento imprescindibile...”

THE INTERVIEW

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> MIA Photo Fair 2014, Ph. Michele Tarantini Pagina accanto: > Fabio Castelli, Ph. Giovanni Gastel

Che ruolo hanno oggi le gallerie considerando l’importanza di mercato che stanno assumendo, sempre più spesso, le case d’asta? «Le gallerie d’arte continuano a mantenere il ruolo che si è determinato storicamente e che sarà difficile mettere in discussione: quello di selezione e garanzia degli artisti e delle opere sul mercato. Il fatto che il volume di affari delle case d’asta sia stabilizzato su valori positivi e di crescita non è in contraddizione con il ruolo delle gallerie, anzi io credo che sia la testimonianza di quanto le gallerie siano importanti nel mercato dell’arte per il lancio e il consolidamento degli artisti e per la garanzia sulla qualità delle loro opere.»

All’interno del MIA Photo Fair una sezione è riservata all’editoria. Che ruolo ha oggi il libro come testimone di un percorso fotografico che è scrittura e quindi racconto? «È noto che l’editoria fotografica, partita praticamente da zero negli anni settanta, abbia conosciuto un exploit inimmaginabile nei decenni più recenti, aiutata dall’interesse delle case editrici tradizionali, dalla nascita di numerose nuove case editrici specializzate, dall’interesse di enti pubblici e privati che hanno prodotto direttamente o attraverso case editrici d’arte migliaia di volumi monografici e cataloghi di mostre fotografiche. Questa ricca produzione dimostra come il ruolo del libro fotografico sia fondamentale non solo come custode cartaceo di percorsi e progetti fotografici ma anche come momento di riflessione sulla fotografia in senso lato, da quella di documentazione a quella definita di ricerca artistica, uno strumento, in definitiva, che serve all’autore-fotografo, al curatore, al critico e al lettore di studiare e trovare nuovi percorsi di indagine sul linguaggio. L’immagine fotografica, e le eventuali riflessioni teoriche che possono accompagnarla, si dispiega quindi nei libri di fotografia in forma di scrittura, di racconto, nel senso più complesso che, certo, la fotografia è documento, testimonianza, ma può essere anche invenzione e ricerca al pari di altre forme di espressione non necessariamente visive.»

“...il collezionismo fotografico segue, da un punto di vista del linguaggio, le stesse ‘regole’ delle altre forme di espressione visiva...”

Lei è anche un importante collezionista. Crede che il collezionismo oggi abbia iniziato, anche in Italia, ad avere attenzione al linguaggio fotografico? «Se così non fosse probabilmente non sarebbe neanche nata MIA Photo Fair: il collezionismo fotografico segue, da un punto di vista del linguaggio, le stesse ‘regole’ delle altre forme di espressione visiva per cui il collezionista è portato ad acquisire un’opera fotografica per gli stessi motivi per cui comprerebbe un disegno o un dipinto o un’installazione: senso dell’opera, comprensione di quanto, e come, essa esprime e relativo piacere personale. Questo ragionamento presuppone che il collezionista di fotografia d’arte abbia certamente acquisito una sintonia con lo specifico linguaggio fotografico.»

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THE INTERVIEW



Raffaella Benetti, Thanatos, 2015 Elisa Montessori, Vanitas 1/7, 2012

Raffaella Benetti Elisa Montessori

VANITAS > opening

18|11|2016-18.00 > BAG GALLERY PARMA, Borgo Ronchini 3 bag-gallery.com


obiettivi mobili di Christina Magnanelli Weitensfelder

“Il mondo ora contiene più fotografie che mattoni e sono, sorprendentemente, tutte diverse.” (J. Szarkowski)

Il primo ottobre del 2015 a Torino ha inaugurato CAMERA – Centro italiano per la fotografia. Una location dedicata al linguaggio fotografico, le cui attività non si limitano alla semplice esposizione, ma comprendono una complessa struttura di ricerca. Intervistiamo Lorenza Bravetta, direttrice del centro, che porta con se l’esperienza di un altro importante punto di riferimento per la fotografia internazionale. Prima di approdare a Torino ha diretto Magnum Photos per l’Europa Continentale, un retroterra d’impegno intellettuale che, con il supporto di altri protagonisti come il Presidente di CAMERA Emanuele Chieli e il curatore Francesco Zanot, ha consentito la nascita di uno spazio eterogeneo, in cui la fotografia è letta e studiata nell’accezione più ampia del termine.

CAMERA verrà inaugurata la prima retrospettiva di Francesco Jodice, a cui seguirà una mostra dedicata a Stephen Shore e tra novembre e febbraio un percorso sul lavoro fotografico di Ai Weiwei. Personalità importanti della fotografia, ma non solo, italiana e internazionale. Con quale scopo è nata CAMERA? Quale vuole essere il rapporto tra autori ormai storicizzati e proposte autoriali ancora in fase di sviluppo? «CAMERA è nata con l’intento di esplorare la fotografia come forma di linguaggio, di documentazione e di espressione artistica, in tutte le sue possibili declinazioni. Con Boris Mikhailov – Ukraine, esposizione inaugurale, è stato avviato un ciclo di mostre che alternerà grandi nomi della fotografia a giovani talenti a progetti collettivi di ricerca o contaminazione del mezzo fotografico con altre forme di espressione. Dando spazio, naturalmente, agli autori italiani, storici e contemporanei.»

“CAMERA è nata con l’intento di esplorare la fotografia come forma di linguaggio, di documentazione e di espressione...”

In seguito alla mostra Sulla Scena del Crimine, visitabile sino al 1° maggio 2016, fra pochi giorni presso

THE INTERVIEW

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> CAMERA Centro Italiano per la Fotografia – Torino Pagina accanto: Lorenza Bravetta, ph.Andrea Guermani

Il vostro lavoro si concentra anche sul recupero e sul censimento di archivi fotografici, progettualità che in Italia, ad eccezion fatta per il CSAC dell’Università di Parma, non ha mai trovato un riscontro importante. Perché questa scelta? «Perché pensiamo che il recupero e la conservazione della memoria siano il primo tassello fondamentale nella costruzione di un’identità, individuale e di gruppo. L’Italia non può vantare oggi un Fondo Nazionale della fotografia da cui storici, studiosi e ricercatori possano attingere. Solo mettendo in rete in modo organico e ragionato il patrimonio fotografico italiano potremo renderlo fruibile a tutti, valorizzandolo e affermando cosi l’identità del nostro Paese anche in questo settore.»

che si tratti di un soggetto che gli autori, siano essi professionisti o amatori, non abbandoneranno mai, dedicandovisi con qualsiasi tecnica e tecnologia saranno messe loro a disposizione e condividendola con un pubblico sempre più vasto. Detto ciò, in questo primo triennio non abbiamo in programma mostre dedicate al tema.» La fotografia sempre più spesso esce dai propri confini, restituendo un prodotto ibrido e sicuramente più complesso. Basterebbe, ad esempio, analizzare il percorso di Francesco Jodice a cui sarò dedicata la prossima esposizione presso CAMERA. Come vi rapportate a queste sollecitazioni esterne che arricchiscono l’idea classica e un po’ stantia del fare fotografia? «è esattamente la direzione che ci interessa investigare attraverso le nostre attività, proponendola al nostro pubblico. La fotografia sempre più si contamina con altri linguaggi e altri media. La parola d’ordine della ricerca contemporanea è crossdisciplinarietà e non possiamo non tenerne conto. I lavori degli artisti sono sempre più complessi da questo punto di vista. D’altra parte, anche nel quotidiano, la fotografia si offre al nostro sguardo insieme a una molteplicità di altri stimoli, ed è inevitabile considerarla all’interno di un sistema aperto, liquido, magmatico.»

“...mettendo in rete in modo organico e ragionato il patrimonio fotografico italiano potremo renderlo fruibile a tutti...”

Un altro aspetto correlato è la vostra volontà di approfondire il dibattito sulla fotografia anonima e famigliare. In che modo? «Famiglia e fotografia sono argomenti intimamente legati fin dall’invenzione di quest’ultima. Le fotografie realizzate da professionsti e appassionati tra le mura domestiche – e, all’interno di queste, custodite e osservate – si affermano fin da subito come strumento per eccellenza per la costruzione e la preservazione della memoria familiare. La famiglia rimane oggi il soggetto privilegiato di chiunque produca fotografia ed è naturale pensare

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THE INTERVIEW



“Niente di grande è stato fatto al mondo senza il contributo della passione. ” (W. F. Hegel)

> Gino Baffo, Senza titolo, 2014,Tecnica mista,acrilico e tela su libro antico, 35x40cm

Gestualità, materia di Gaia Conti Gino Baffo crea. Crea con tutto se stesso, riversa sulle tele quello che gli occhi dell’anima catturano di una delle città più belle del mondo, Venezia, città natale e città di tutte le sue giornate. Il suo rapporto con la pittura è totalizzante e viscerale. Lavora da vent’anni su astrazioni che si son fatte via via più materiche: sacchi di iuta, pallet di legno, cavi di acciaio arrugginiti – povere nei mezzi, ma ricche nei contenuti. Gino Baffo è le sue opere, e le sue opere sono Venezia, Gino Baffo è Venezia con tutte le sue sfumature e le sue emozioni.

di necessità, una dedizione del cuore per questa città dalle mille sfaccettature.» La creatività è insita in ciascuno di noi, ma ognuno la esterna in maniera differente, a seconda della sua personalità e del suo modo di comunicare. Che cosa di un suo lavoro mette meglio a fuoco la sua personalità artistica? Quali gli elementi della sua creatività? «Il mio modo di fare arte ruota intorno a tre cardini: l’improvvisazione, la gestualità e la materia. Ciò che produco, ciò che cerco nella pittura, riflette il modo in cui ho sempre vissuto, ossia attraverso l’estemporaneità del quotidiano, la capacità di affrontare ogni cosa senza porre barriere e pregiudizi e con la costante incognita del giorno successivo. Il lavorare, fin da quando ero ragazzo, ha sempre comportato un atto fisico, faticoso, uno sforzo per raggiungere l’obiettivo ed arrivare in fondo alla giornata. La mia è una vita in continuo movimento e credo molto nella sostanza delle cose, e per questo la materia, soprattutto quella grezza, spoglia, usurata, ha una rilevanza centrale.Ad esempio, il sacco di iuta e il pallet, soggetto e oggetto della mia produzione degli ultimi anni, sono materiali poveri, trasversali in tutto il mondo. L’intensità del mio lavoro si realizza attraverso la semplicità delle sue componenti. La nascita di un quadro è un processo lungo e laborioso, comincia a terra, ci ritorno spes-

“Vivo la città intensamente ogni giorno e non la voglio lasciare andare, devo necessariamente descriverla...”

Secondo il pensiero del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel «[...] arte non è semplicemente un gioco piacevole e utile, ma il dispiegamento della verità [...]». Da che cosa nasce la sua necessità espressiva? «Sono a Venezia da sessant’anni, nato e vissuto in questa splendida terra lagunare. Da venticinque ho intrapreso un percorso artistico che mi ha condotto nell’esternare sulla tela i ricordi che mi porto appresso. Esprimermi attraverso la pittura è un’azione necessaria e non riesco a trovare altro modo per stare bene fisicamente, per liberare le mie emozioni, per liberare la storia che ho nelle vene.Vivo la città intensamente ogni giorno e non la voglio lasciare andare, devo necessariamente descriverla, verace, complicata, misteriosa. Ciò che guida il mio pennello è uno stato

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> Ritratto con vista dell’atelier, ph.Andres Liuzza 2015 so, a volte lo distruggo e ricompongo fino a che tutto sia bilanciato, fino a sentirmi finalmente appagato. »

avanguardie americane, Willem De Kooning e Mark Rothko sugli altri.»

Il suo rapporto con il colore sembra essere quasi fisico, è stratificato, intenso e molto materico.. «Il colore è vita.Al mattino quando si aprono gli occhi la prima cosa che si vede è il colore, o almeno è quello che percepisco io.Vedo l’alba, il sole, la nebbia, la laguna, il tramonto e la notte. Colore. Sfumature. Ecco, per me tutte queste sfumature sono indefinite, non hanno nome specifico, hanno luce e corposità, cerco instancabilmente le emozioni che si sprigionano. Ogniqualvolta mi ritrovo a mescolare le tinte lo faccio sul momento, senza tenere conto di regole, è tutto frutto dell’alchimia che si crea in quell’istante, un gesto improvviso. Sulla tela si poggiano i colori che ho dentro, un modo diretto di interpretare il sentimento. Nei miei azzurri vedo la barena, nei gialli tenui vedo le albe o il sole di ottobre quando va a scomparire, il viola è quello dei tramonti, le definirei delle sfumature interiori e le stratifico di getto. In questo senso sono molto legato ad artisti che hanno fatto la storia dell’arte, tra cui William Turner con la sua capacità di inondare di luce le tele, il lirismo, il continuo giocare con i toni, e Jackson Pollock di cui ammiro il caos controllato e il dominare la materia attraverso il gesto; per sensibilità generale mi sento vicino alle

Cosa significa lavorare in una chiesa sconsacrata in una piccola isola nel mezzo della laguna veneziana? «Mi ha condizionato in modo viscerale. Per decenni ho lavorato in situazioni appartate, nascoste, fuori mano, ma mi sentivo costantemente alla ricerca di qualcos’altro. Questa piccola chiesa con le alte volte e le pareti affrescate è un posto magico, che trasmette una sensazione di immensità, qui mi sono sentito immediatamente e completamente me stesso, come mai prima d’allora. Dipingo in questo spazio che si può raggiungere solo con un’imbarcazione, ci si arriva appositamente, come un tempo facevano i fedeli per assistere alla messa. Come loro anch’io ci sono dovuto giungere, e ‘lei’, la piccola chiesa che uso come atelier, mi ha raccolto e da allora mi protegge dall’effimero dell’ambiente circostante. All’interno di questa meraviglia riesco a lavorare senza alcuna influenza esterna, mi spoglio dei rumori della città, dei pensieri, tanto che spesso mi spoglio anche degli abiti e lavoro nudo, solo io, il colore e le tele, senza filtri, senza niente e nessuno: riesco finalmente a sentirmi assoluto. Qui ho prodotto moltissimo, in questo silenzio profondo. Probabilmente senza di ‘lei’ i miei quadri, così come sono adesso, non sarebbero mai esistiti.»

“Vedo l’alba, il sole, la nebbia, la laguna, il tramonto e la notte. Colore. Sfumature...”

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Abu Dhabi art fair di Giacomo Belloni

“Il lusso non è un piacere, ma il piacere è un lusso.” (F. Picabia)

Notizie dal mondo direttamente dalla nostra redazione nel Middle East.Anche nel 2015, dal 18 al 21 novembre, si è svolta negli Emirati Arabi Uniti la settima edizione della prestigiosa Abu Dhabi Art Fair. Come di consueto l’evento è stato ospitato a Manarat Al Saadiyat, nei padiglioni prontamente adibiti ad accogliere le gallerie e i numerosi eventi collaterali che hanno accompagnato la manifestazione.Anche quest’anno #AImagazine era presente per raccontarvi gli accadimenti. Gli spazi dedicati alla fiera erano ampi e numerosi. Oltre ai locali riservati agli espositori molte le sezioni che hanno ospitato le iniziative a cornice: Exhibition con tutte le novità sull’arte degli Emirati, l’Auditorium per le conferenze e gli Abu Dhabi Art Talk. E ancora: la sezione Saadiyat Experience dedicata al Cultural District e al suo progetto il quale, una volta che saranno completati i lavori, vedrà l’isola di Saadiyat essere un polo per l’arte e la cultura tra i più importanti al mondo, caratterizzato da numerosi musei e università. L’adesione è stata straordinaria, sia degli addetti ai lavori che di tanti curiosi accorsi in

massa per l’occasione, favoriti dalle gradevoli temperature autunnali e da un tiepido sole che ha illuminato una location decisamente suggestiva, caratterizzata dai colori tenui del deserto e dal caldo turchese di un mare sempre quieto. Quest’anno, ancor più del solito,Abu Dhabi Art ha offerto ai suoi visitatori un coinvolgimento a trecentosessanta gradi, chiamando tutti a una partecipazione attiva e presente. È riuscita infatti a fondere insieme le caratteristiche della tradizionale fiera dell’arte con tutta una serie di situazioni a margine, tra le quali conferenze, dibattiti ed eventi a tema concepiti ad hoc per l’occasione. Le gallerie espositrici erano 40, provenienti da tutto il mondo: dal Giappone agli Stati Uniti, dalla Cina alla Korea; una buona rappresentanza dell’Europa, senza dimenticare l’Arabia Saudita, il Libano e le gallerie degli Emirati. Insomma, anche in questa edizione l’offerta era ampia e con diverse possibilità d’approfondimento. Il programma di quest’anno, ancor di più del solito, ha voluto rappresentare al suo pubblico la dinamicità

“L’adesione è stata straordinaria, sia degli addetti ai lavori che di tanti curiosi accorsi in massa per l’occasione...”

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> Galeri Zilberman,Abu Dhabi Art Fair 2014 > Galerie Thaddaeus Ropac,Abu Dhabi Art Fair 2014

e la multiculturalità caratteristica di questo angolo di mondo. Si sono intervallati, senza sosta, incontri con autorevoli rappresentanti del sistema dell’arte: da Richard Armstrong, direttore della Solomon R. Guggenheim Museum and Foundation, a Neil MacGregor, direttore del British Museum; quindi Jean-Luc Martinez, direttore e presidente del Louvre di Parigi. Credo che già questo, anche a chi non è propriamente addetto ai lavori, sia sufficiente per dare l’idea della caratura della manifestazione. Con il filosofo Peter Sloterdijk è stata analizzata la situazione artistico culturale di una nazione in rapida evoluzione e lo stato dell’arte delle varie collezioni locali. Quindi l’architetto Jean Nivel, vincitore del prestigioso premio Pritzker, ha presentato il suo progetto del Louvre di Abu Dhabi, oramai completato. Ha parlato nel dettaglio dell’ambiziosa cupola – divenuta oramai parte dello skyline della città nonché suo monumento rappresentativo – che con la sua forma avvolge l’omonimo museo (per intenderci, la cupola fa da sfondo a Nicole Kidman nella pubblicità della compagnia aerea degli Emirati

trasmessa in questo inverno in televisione anche nel nostro paese). Chiunque abbia avuto la possibilità di partecipare ai dibattiti in programma; è bastato aderire tramite mail per ricevere in poco tempo l’invito personale relativo all’evento desiderato. Sotto la tutela di Fabrice Bousteau si sono inoltre svolte una serie di performance dal titolo Bliss; è stato proiettato il film Les Bosquets, curato dagli artisti Pharrel Williams, Hans Zimmer e Lil Buck. La fiera Abu Dhabi Art è oramai divenuta una tappa fissa e imperdibile nel nutrito programma di avvenimenti culturali del Middle East. L’evento ha, come pochi altri, la capacità di riflettere il fervore e la dinamicità del luogo. Probabilmente è per questo che riesce è a richiamare da tutto il mondo le gallerie più prestigiose, molti curiosi ma soprattutto gli addetti ai lavori. Erano in molti, anche quest’anno, i professionisti dell’arte desiderosi di comprendere come potersi orientare da queste parti, consapevoli che qui c’è ampio spazio per chi vuole investire nel settore e contribuire alla crescita culturale di questo interessante paese.

“L’evento ha, come pochi altri, la capacità di riflettere il fervore e la dinamicità del luogo...”

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“Il bel paese ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe.” (F. Petrarca)

viaggio in italia di Christina Magnanelli Weitensfelder Artworks: Alberto Andreis, dal progetto Signs, 2015-2016

Dittici fotografici dove antiche ville, palazzi storici, cappelle di culti privati, giardini all’italiana con statue settecentesche, diventano il teatro per brevi pièce, il palcoscenico per opere che forse prenderanno forma. Alberto Andreis nell’ultimo lavoro Signs (2015-2016) attinge dalla sua professione di scenografo, dalla sua capacità di dare forma ad un testo, ad un racconto. In

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ogni dittico appare una figura umana (statue, sculture lignee, affreschi), nella maggior parte dei casi una presenza femminile che viene affiancata ad uno spazio di nobile decadenza. Luoghi che ricordano, direttamente o indirettamente, il teatro in modo da rendere palese la messa in scena, la spettacolarizzazione di un momento. Il ruolo delle figure femminili è volutamente ambiguo. Non è chiaro se siano loro le attrice

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che calcheranno il palco e daranno vita al racconto, o siano semplici spettatrici in attesa di qualcosa. In due opere, addirittura, viene riportato un affresco di una donna dietro ad una grata, retaggio di un ruolo marginale, di devota umiliazione. In quel caso sembra evidente il sentimento dell’attesa, qualcosa di eterno, che svanirà con il deteriorasi del muro e quindi della Storia. Ma in altri casi la presenza è statuaria, energica, voluttuosa. È la donna che domina il palcoscenico, che mostra le sue doti d’interprete dello spazio. È questa ambigua mescolanza a caratterizzare l’andamento ritmico del percorso fotografico. Ma se riflettiamo meglio i luoghi protagonisti del progetto ripercorrono buona parte dell’Italia, prendono in considerazione antiche dimore, spesso nobiliari. Una storia geografica e temporale lunga ed estesa. Andreis evoca quello che in quei luoghi è stato, il suo

compito è di mettere in scena i segni di un passaggio, di una nobiltà che spesso ha ceduto il passo, di cui rimangono segni, presenze sparse, trasparenti. È per tale ragione che l’uomo è attore o spettatore, è protagonista o gregario, chi attende e chi agisce. Andreis mette in campo quei reperti che non sono ancora stati trafugati, i racconti di storie minime, di suore curiose di spiare un teatro, di donne che il palco lo fanno proprio, stringendolo tra le mani. Non è un caso che in un’immagine compaia un affresco di una bandiera con la scritta: ricorda che tutto finisce presto. Per Andreis non è un monito e nemmeno una minaccia, ma l’occasione per ribadire il proprio ruolo. Quello di raccogliere ciò che rimane dopo la fine, dopo un’apparente conclusione e metterlo in scena, in una sorta di archivio della memoria, utile per un nuovo spettacolo, per una nuova rinnovata pièce.

“...una sorta di archivio della memoria, utile per un nuovo spettacolo

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#AImagazine THE ART REVIEW

#AImagazine - The Art Review. no.73 Summer 2016. Fondato nel 2006 In vendita in edicola a eu 5,00 e per abbonamento. Pubblicazione eco-friendly: stampato su carte prive di acido, con utilizzo di inchiostro con pigmenti ad acqua. Direttore responsabile Alberto Bevilacqua Direzione artistica Andrea Tinterri e Nicola Pinazzi Contributors: Benedetta Alessi, Giacomo Belloni, Cristina Casero, Gaia Conti, Jennifer Malvezzi, Cristina Manasse, Federica Pasqualetti, Fabio Pradarelli, Domenico Russo, Sergio Signorini Greta Edizioni Segreteria di redazione Stefania Dottori T (+39) 0721.403988 s.dottori.ge@gmail.com Proprietario ed editore BILDUNG inc. SRL Presidente e amministratore delegato Christina Magnanelli Weitensfelder Pubblicità BILDUNG inc. Relationship Direzione e amministrazione Via Passeri 97 - 61122 Pesaro relationship.bdg@bildung-inc.com Copia digitale issue.com/gretaedizioni Contatti web www.aimagazine.com facebook AI magazine twitter AImagazine pinterest #AImagazine Stampatore Graffietti Stampati snc Distribuzione Italia Messinter Spa Via Campania 12 - 20098 Milano Crediti fotografici Per le immagini senza crediti, l’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza riuscire a reperirli, è ovviamente a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti. Immagine di copertina Alessandro Sambini, Jean Cloude Was Hit By A Train, 2016 (part.)


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1|06|2016-18.30 > BAG GALLERY PESARO, Via Passeri, 95 bag-gallery.com 81


“...rapporto fra corpo e ambiente...corpo o vincoli del corpo... si studia una stanza, entra una persona vestita...e ti sconvolge tutta l’estetica... nel teatro non avviene... assorbimento del mobilio all’interno del corpo umano...” (A.Mendini)

> Alchimia,Arredo Vestitivo, Performance, 1982, commitntente Fiorucci

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DISEGNARE UTOPIE di Nicola Pinazzi Artworks: Alessandro Mendini

“è chiaro che l’oggetto industriale diventa gelido, è una specie di cadavere rispetto a quello che può essere un oggetto d’artigianato…L’oggetto industriale spesso ha una freddezza che è significativa: è progettato per essere nuovo e non sa diventare vecchio. Invece l’oggetto d’artigianato invecchia, e invecchiando migliora, come lo champagne…” (A. Mendini) Con la premessa del nome siamo sicuri che in questo spazio non parleremo di funzionalismo, realismo, white cube o innovazioni tecnologiche; ma piuttosto di kitsch, romanticismo, puntinismo, storia del design o storia del progetto. E’ proprio la storia dietro l’oggetto che Alessandro Mendini riesce a scrivere e dare forma. Potremmo osservare il suo manifesto, la Poltrona Proust, e tentare di sottolinearne il processo mentale che lo porta alla composizione; una metodologia progettuale che andrà a caratterizzare la sua lunga professione. Forse un buco all’ultimo minuto o forse per sua piena volontà, scrisse un articolo, tra il 1968 e il 1969, dal titolo Metaprogetto si e no. Erano i tempi della ricostruzione post-bellica, l’operazione di infrastrutturazione del suolo più importante dell’ultimo secolo. Parlando di ‘prefabbricati concettuali’ Mendini chiedeva di non considerare gli spazi in cui viviamo e le città che costruiamo come dei modelli da reiterare, deterministici nella forma e nella funzione; precisando che qualsiasi fenomeno di design deve portare alla realizzazione di oggetti significanti, e anche «le forme architettoniche per essere valide devono essere strettamente coerenti (rapporto di azione e reazione) a determinati significati socio-politico-filosofici, e senza tale collegamento si riducono ad essere vuoti giochi formalistici (corri-

spondenza tra segni e significati).». Aveva compreso che era già troppo tardi ed era necessario un’inversione di marcia nelle arti applicate, non un ritorno al passato, ma alle radici dell’espressione umana, all’anima delle cose. Sentiva la necessità di nuove utopie visive intuendo il fallimento del design di stampo funzionalista, convinto che le città o gli spazi perfettamente razionali sono anche perfettamente incomprensibili ed invivibili. Ricerca quindi una nuova visione e la realizza con un’attenta ed equilibrata rielaborazione intellettuale, letteraria in quanto narrativa, quando, a lavorare come capo-redazione nello sviluppo della rivista specializzata di architettura Casabella, si ritrova a dimostrare la corrispondenza tra glie eventi e la parola, tra l’arte e la scrittura, tra una cultura e la sua linguistica. Questo ampio sguardo sulle diverse manifestazioni culturaliartistiche-filosofiche che Mendini dimostra di voler mettere in atto proviene dalla umile necessità di ascoltare ogni espressione artistica che potesse aiutarlo a comprendere ed essere testimone-scrittore della sua contemporaneità, nonché espressione artistica del suo tempo. Unisce design, arte e letteratura. Sul piano dell’immaginazione realizza contraddizioni concettuali affiancando espressioni linguistiche differenti che derivano

“...convinto che le città o gli spazi perfettamente razionali sono anche perfettamente incomprensibili ed invivibili.”

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>Anna G, cavatappi, committente Alessi, 1994 Pagina accanto: > Poltrona di Proust, 1978

da realtà critiche diverse.Vuole restituire all’individuo la stessa atmosfera in cui lui stesso è immerso: la sua attenzione è incentrata sulla semantica dell’oggetto e dello spazio, non sulla sua funzione. Pensa come un artista in quanto libero da schemi prestabiliti ma schiavo delle emozioni; ricerca una comunicazione personale creando alfabeti visivi basici, primordiali; sogna, ricerca, crea quella relazionedistanza tra l’opera e chi la guarda; quella tensione, quella risposta emotiva dell’osservatore al suo primo incontro con l’oggetto. Riprende nell’arte l’aspetto emotivo-antropologico di amore, morte, gioia con cui intende rivolgersi all’uomo contemporaneo. Dai materiali artificiali ai naturali, dai colori primari ai sintetici A.M. non ha preferenze, non gli interessa assegnare valenza filologica agli elementi costitutivi del progetto, solo associarli ad una sensazione e quindi al loro rapporto con l’ambiente. Una sensazione che proviene dalla letteratura, e grazie ad un gesto artistico, nel rispetto di un tempo zero del progetto, vede incontrarsi e dialogare amichevolmente Proust nel suo salotto parigino con Signac, in una giornata di pioggia, parlando dello stato dell’arte delle cose, sperando in tempi migliori. Riprende il puntinismo a cui attribuisce una immaterialità, una tecnica espressiva aperta, non finalizzata ad un unico messaggio di un preciso momento. La frammentazione, la riprogrammazione della struttura della tela dipinta sono per lui uno strumento di comunicazione che gli consente di viaggiare nel tempo e navigare fino ai tempi di Proust, sedere con lui nel suo salotto, raccoglierne i profumi e i colori dipinti su una tela da chi quella stanza avrebbe potuto vederla. Nei segni di Paul Signac, nel carattere del frammento di una immagine globale, trova uno strumento di comunicazione che sopravvive nel tempo. La vicinanza di Germano Celant,Archizoom, Superstudio, negl’anni di editoria, è stata fruttuosa per la crescita personale di Mendini. Le riflessioni, le discus-

sioni e i chiarimenti dello storico dell’arte e le nuove proposte dai gruppi dell’Architettura Radicale hanno portato ad una maggiore consapevolezza del valore di un oggetto fino al suo definirsi opera d’arte. Ed è in questo ambito che troviamo la chiave di lettura che sottende il progetto della Poltronoa Proust. Grazie a Marcel Duchamp «ogni limite è divenuto inammissibile.Agire, pensare, comunicare sono diventati fatti estetici ed artistici. Duchamp ha fatto esplodere l’apparenza dell’arte e vi ha sostituito l’idea.». Questa riflessione spiega la scelta del Ready-made, il gesto con il quale stacca l’oggetto dal suo valore autentico di prodotto artigianale per assegnargli un carattere sintetico, slegato dal concetto di riconoscibilità, privato del suo tempo e del suo luogo, avvicinandolo ad una funzione immaginifica: una nuova utopia visiva. Una finta poltrona settecentesca, un Ready-made trovato al mercatino, era il paradosso della materia che giustificava la sua operazione estetica-concettuale. La semplice operazione di scrematura degli oggetti o degli stili sono comunque operazioni di estroflessione della propria anima con cui il progettista esprime se stesso e filtra il suo messaggio tramite la sua opera. Un oggetto che appartenesse stilisticamente ad un periodo storico, quello Barocco che vedeva il fondersi delle arti nell’architettura della città; unione di struttura e decoro, statica e indeterminatezza delle forme nelle quali si specchiano i lineamenti del romantico Mendini. Andando a scorrere la sua produzione è chiaro il carattere open-source. è nel tempo che la sua piccola campitura di colore cambia carattere, si estrude in un tassello di ceramica e ricodifica interi volumi, si nebulizza in un pixel e riprogramma la nostra contemporaneità. Mendini non vuole intervenire a livello strutturale sull’oggetto, ma sulla sua comunicazione, o estetica per semplificare. I suoi strumenti di lavoro sono la narrazione, le forme semplici, il contrasto, l’utopia, insomma una colta ironia chiamata kitsch.

“...la sua attenzione è incentrata sulla semantica dell’oggetto e dello spazio, non sulla sua funzione.”

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“...Osaka...con Sinya Okayama... gli ho mandato un disegno... lui ha disegnato l’altra metà... io ho disegnato quella parte rigida, lui quella tonda...concetto surrealista del cadavere squisito, un po’ il concetto del mobile infinito...” (A. Mendini, sul mobiletto portagioie)

> Casabella, Gorilla del Beringei, copertina, fotomontaggio (aggiunta di aureola), 1973 Pagina accanto: > Surface, Interni Legacy, Statale di Milano (part.), 2012, ph. Saverio Lombardi Vallauri Pagine seguenti: > Sei mobiletti,portagioie, 1986, committente Daichi & Co. > Alchimia, modulando, mobile contenitore, 1980 > Kandissi divano, 1978

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indagini sul contemporaneo di Fabio Pradarelli

“Ogni grande architetto è – necessariamente – un grande poeta. Deve essere l’interprete originale del suo tempo, della sua epoca, del suo istante.” (F. L.Wright)

Disegno e progetto sono attività complementari all’interno del pensiero architettonico, ponendosi il primo come momento teorico e creativo, il secondo come prassi operativa; questa metodologia ci porta a riflettere sul reale significato del fare architettura. Credo di non sbagliare affermando che queste domande venivano poste sin dai tempi eroici del movimento moderno, fino al variegato e multimediale orizzonte odierno, che ci trova spesso impreparati ad affrontare situazioni a volte culturalmente imbarazzanti. Troppo complesso analizzare in questa breve nota i tanti aspetti che andrebbero scandagliati, ma se mi è concesso, vorrei dare un piccolo contributo.Vorrei articolare i futuri interventi, affrontando alcuni temi spesso dimenticati, ma che inevitabilmente riemergono nel momento in cui il bisogno di fare chiarezza nel rapporto con la storia, si fa urgenza e necessità di identificazione del progetto. Che ne è stato dei tanti

sforzi delle passate generazioni nel far progredire un pensiero ‘moderno’? Lo abbiamo davvero superato dopo la grande parentesi ideologica degli anni settanta e ottanta? E quanto di genuino e di ‘puro’ in rapporto al nostro passato possiamo ora rilevare nel ‘landscape’ architettonico generale? E anche, in tutta franchezza, che cosa stiamo facendo in Italia per stare al passo della contemporaneità senza rimanere cronicamente ad inseguire gli altri? Stiamo cercando una nostra identità progettuale rivolta al futuro? E questa identità ci legherà storicamente al panorama in cui operiamo? Domande che penso richiedano una riflessione non così superficiale e sbrigativa, in quanto le ramificazioni dell’architettura sono molteplici, e le evidenze di ‘astoricità’ e di discontinuità progettuale nelle nostre città sono così frequenti. Non voglio certo soffermarmi nelle sabbie mobili del fattore tecnologico che è parte integrante della struttura che compone

“...il bisogno di fare chiarezza nel rapporto con la storia, si fa urgenza e necessità di identificazione del progetto.”

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> Fabio Pradarelli, Book, 2015

l’edificio, in quanto risultato di una composizione e di un disegno piegato alla forma del progetto. Ma quale significato vogliamo dare al nostro progetto? Vi è oggi una ‘presenza’ o ‘assenza’ di continuità del pensiero che ci lega alle generazioni passate? Che nesso troviamo tra gli eleganti ‘oggetti’ di Chistian Kerez, la ‘monumentale’ presenza del pensiero mitteleuropeo che va da Dudok fino a Hans Kollhoff e Max Dudler, fino alla ‘futuribile’ realtà che si materializza attraverso la composizione parametrica di Patrik Schumacher? Forse bisognerebbe chiederlo ai soggetti interessati, visto che linee così diverse e spesso contrapposte convivono nelle città di tutta Europa, e in parte anche da noi. Dobbiamo forse chiederci se abbiamo ‘alleggerito’ il nostro pensiero di identità che ci porta inevitabilmente a caratterizzare edifici al di là del momento e del luogo in cui sono edificati. Se è vero che esiste un passato in ogni luogo, trovo ‘culturalmente’ ingom-

brante l’intrusione autoreferenziale dell’architettura; essa dovrebbe porsi sempre come momento di dialogo, elemento ‘sociale’ per dirla alla Pagano, col luogo e con la storia del sito.Alla fine è un problema di linguaggio. Parlare lingue diverse aumenta la confusione. Cercherò per quanto possibile di fare un percorso multidisciplinare (anche semplicistico) su queste tematiche, coinvolgendo protagonisti del panorama contemporaneo italiano e straniero, più o meno noti, e non solo architetti. L’architettura non è fatta solo da primedonne internazionali, ma dall’impegno giornaliero di tanti professionisti che non appaiono sulle riviste alla moda, ma che con il loro lavoro creano un linguaggio poi universalmente riconosciuto. Cercherò anche di scavare nel passato per indagare sulla nostra identità presente, sulla ‘purezza’ di alcune idee ricche di speranze e spesso dimenticate o fraintese da preconcetti ideologici che oggi non hanno più senso.

“...L’architettura non è fatta solo da primedonne internazionali, ma dall’impegno giornaliero di tanti professionisti...”

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> Immagini di ScAle Architects

serialità aumentata di Benedetta Alessi Se la modularità viene naturalmente associata all’architettura e il ritmo è la riconosciuta ossatura poetica della disciplina, l’intensità, la selezione e la scala della ripetizione ne diventa un manifesto e ne decreta l’impatto. La riproposizione ossessiva di un costrutto minuto lo fa arretrare, rendendolo – al di là della funzione reale – un background decorativo: che siano gli elementi strutturanti delle cupole geodetiche di Fuller o l’opulenta costanza delle ricche stalattiti degli edifici sacri induisti o arabi, ad esempio. La ripetizione identica o frattale degli elementi prescelti, apparentemente infinita e automatica, si traduce nell’assenza di gerarchie e riflette la propria indifferenza alla complessità dello spazio anche sull’osservatore: un proliferare autonomo di colonie indipendenti. La perseveranza intransigente di moduli a scala maggiore – talvolta finestrature, talvolta interi moduli abitativi o costruttivi – determina una simile distanza per fattori diversi: oltre all’automatismo quasi inumano entra in gioco la dimensione monumentale con la relativa soggezione che induce. Tralasciando gli esempi antichi, l’architettura bru-

talista, spesso caratterizzata da serrate ripetizioni geometriche sotto forma di cemento esposto, ha basato la propria attrattiva e giustificazione sulla rigida ripetitività di tamponamenti e strutture, a garanzia evidente della forza e della coerenza della democrazia occidentale degli anni cinquanta. Similmente però, un paio di decenni prima, all’imperialistica ossessione per il ritmo erano stati attribuiti ben altri significati. Indubbio rimane il potere del ripetersi nel convincere e nel creare l’impressione di stabilità, grazie proprio al puro ribadirsi numerico. Ripetizione minuta come dispersione dell’informazione racchiusa in sé dunque, o ritmo pedante come strumento di presa su ere volatili, la serialità è pure capace di rispondere alle attribuzioni di significato assegnatele nei diversi periodi. Imprimere la memoria dello spazio reiterandone il modulo e ribadire la presenza costante di una sovrastruttura concettuale – qualunque sia la matrice – giustificano, al di là degli esiti stilistici e dei materiali assegnati, la ragione progettuale della ripetizione compulsiva. In epoca contemporanea si è stabilita una tendenza a mitigare l’imponenza seriale grazie a giochi di

“Indubbio rimane il potere del ripetersi nel convincere e nel creare l’impressione di stabilità, grazie proprio al puro ribadirsi numerico.”

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“Architettore chiamerò io colui che saprà con certa e maravigliosa ragione, e regola, sì con la mente, e con lo animo divisare.” (L. B.Alberti)

asimmetria – soprattutto nei ritmi di pieno e vuoto in facciata – che destabilizzano l’unione di insieme e ammiccano ad una certa personalizzazione e umanizzazione dell’impatto. D’altro canto si assiste anche al ben noto proliferare di modelli suburbani basati sulla monotona riproposizione del modello tipologico di abitazione unifamiliare, importati dall’ambiente statunitense e dilagati in ambito europeo. In questi ambiti l’insistenza della ripetizione si associa alla banalità dello spazio, non determina ritmo ma si concretizza -+ in fessure tra giardinetti privati in un contesto che diventa urbanizzazione debole e non città. La ripetizione non diviene ritmo ma pause, la reiterazione non crea compagine o senso di unità, la moltiplicazione ossessiva non determina nessun arricchimento di informazione: più che ribadire un concetto – già di per sé poco interessante – nega la complessità dell’aggregazione e si esime da creare interrelazioni tra le parti. Più che persuadere o convincere in nome della stessa quantità numerica proposta, la ripetizione indebolisce il modulo stesso e la composizione generale. Probabilmente è dovuto all’uso di una scala compromessa, ibrida, alla mancanza di una visone fisica di insieme impossibile anche percorrendo le stra-

de stesse delle lottizzazioni. L’utilizzo di un modulo ‘grande’ – la casa – associato però ad un intercalare di vuoti poco convincenti ma troppo numerosi – e nella stragrande maggioranza privati – paradossalmente relega questi interventi pseudo-urbani alla dimensione di decorazioni. La serialità in questi contesti sinonimo di troppo comune e ricorrente, di poco interessante e standardizzato nel senso più economico del termine. La composizione diventa monumentale, addirittura trionfale dalle viste aeree che impressionano per la tenacia distributiva e le enormi estensioni. La potenza della standardizzazione che in passato poteva inorgoglire come soluzione numerica e qualitativa alla domanda di alloggi operai o post-bellici ha perso oggi il suo valore perché non si associa alla più complessa vita che uno scenario urbano contemporaneo implica.Tradotta in questi stilemi, alla ricorrenza tipologica si assimila una rinuncia alla ricerca, un’impostazione culturale a buon mercato a cui non si riesce ad attribuire, nonostante le cadenze importanti, nessun significato di appartenenza. Una realtà periferica aumentata in numeri e carente di profondità.

“In epoca contemporanea si è stabilita una tendenza a mitigare l’imponenza seriale grazie a giochi di asimmetria...”

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> © J. Rosenthal,A.P. > © T. Franklin, North Jersey Media Group.

“Nessun giorno vi cancellerà dalla memoria del tempo.”(Virgilio)

2013.new york di Cristina Manasse Due colossi dei media americani vanno in tribunale per una causa relativa ai diritti sulla famosa immagine degli eroi dell’11 settembre. Poche ore prima dell’udienza, si accordano. Un’occasione perduta per chiarire il tema dell’uso non autorizzato di immagini tratte dal web. Ricordate la fotografia dei tre pompieri che innalzano la bandiera Americana sulle macerie del World Trade Center dopo l’attentato dell’11 settembre 2001? Quella immagine, dal titolo Raising the Flag at Ground Zero è stata al centro di una causa iniziata nel 2013 a New York. La fotografia, opera di Thomas Franklin, è stata utilizzata nel programma Justice with Judge Jeanine, condotto da Jeanine Pirro, sul canale Fox News Network (Fox), unita con l’immagine dei soldati americani a Iwo Jima scattata da Joe Rosenthal durante la seconda guerra mondiale. Un assistente di produzione della Fox dopo aver trovato l’immagine ‘combinata’ su internet l’ha poi caricata sulla pagina Facebook del programma con l’hashtag ‘mai dimenticare’. La società North Jersey Media Group (NJMG), rivendicando la titolarità della immagine di Ground Zero, ha citato in giudizio la conduttrice e la Fox per uso non autorizzato. La Fox ha sostenuto che l’uso non autorizzato era giustificato dal concetto di fair use perché l’immagine era inserita in una pubblica discussione su Ground Zero e sugli eventi dell’11 settembre. Inoltre, l’uso sarebbe stato ‘trasformativo’ dell’immagine e di conseguenza non lesivo della fotografia originaria. Se tale tesi fosse fondata, la Fox avrebbe potuto utilizzare l’immagine senza approvazione di NJMG. Il giudice

distrettuale, in disaccordo con la teoria difensiva della Fox, ha spiegato che le modifiche apportate sono del tutto impercettibili e che l’opera originaria non è stata trasformata a sufficienza. L’opera combinata fa affidamento sull’opera originaria e sul suo significato storico. Il giudice ha dato rilevanza alla valutazione del mercato dell’immagine, in particolare per capire se il suo utilizzo avrebbe potuto usurpare il mercato di quella originaria, considerato che NJMG ha guadagnato più di un milione di dollari in licenze per quella fotografia. Secondo il giudice l’uso della foto combinata rappresenta un pericolo per il mercato dell’opera originaria, perché i media potrebbero evitare di pagarne i diritti, usando quella combinata disponibile gratuitamente sui social. Ma quella non doveva essere l’ultima parola; Fox e NJMG avrebbero dovuto ritornare in Tribunale per un processo con giuria al fine di stabilire se la tesi difensiva del fair use era ammissibile. Ma, colpo di scena: le parti, dopo aver depositato altri atti e ricorsi, si sono accordate poche ore prima dell’inizio del processo con giuria, fissato per il 16 febbraio u.s., firmando un accordo transattivo confidenziale. Forse è una occasione mancata per ragionare ancora sulla protezione del copyright in un mondo digitale dove le immagini sono facilmente reperibili online e vengono successivamente usate senza autorizzazione, spesso invocando il diritto di ‘cronaca, commento e critica’ previsto dal fair use. Nel frattempo, NJMG, proprietaria della famosa immagine, può continuare a guadagnare milioni di dollari in royalties.

“...l’uso sarebbe stato ‘trasformativo’ dell’immagine e di conseguenza non lesivo della fotografia originaria.”

sulla fotografia e il diritto

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“bar del olvido” di Andrea Tinterri In senso orario: Davide Barilli e Enrique Pertierra Artworks: Paolo Simonazzi, dal progetto Mantua, Cuba, 2015

“L’azzurro è tra i colori del lato del meno, dispone a uno stato di inquietudine, di tenerezza e nostalgia. è il colore più luminoso che però porta con sé qualcosa di scuro…”(W. Goethe) Mantua, Cuba. L’ultimo progetto di Paolo Simonazzi. Una ricerca nella provincia cubana: uno sguardo nella storia di un piccolo paese, un microcosmo che protegge la propria leggenda. «Mantua è per me un ricordo da non dimenticare, è la memoria di un amico impegnato in progetti di cooperazione internazionale. Mi aveva parlato di questo posto all’estrema periferia di Cuba che visitò nel 1999, per una missione umanitaria, in collaborazione con la regione Emilia Romagna e con il comune di Reggio Emilia.Al suo ritorno a casa mi disse che avrei dovuto essere lì con lui per scattare qualche fotografia. Il racconto del viaggio mi aveva incuriosito a tal punto che mi strappò la promessa di un ritorno insieme, in quel posto, per riportare in superficie qualche immagine. Era estate, eravamo ad una serata della festa dell’Unità, quando ancora si chiamava così. Il tredici novembre dello stesso anno Velmore partì per una nuova missione in Kosovo; l’aereo su cui si trovava precipitò, senza lasciare superstiti. Da allora ho sentito il desiderio di andare in quel luogo della periferia cubana, di cui, in realtà, avevo solo il ricordo di un racconto di viaggio.»

Questa è la premessa del progetto su Mantua, un prologo affettivo, ma indispensabile. Un prologo di cui, nello scorrere delle fotografie, non si sente l’eco diretto. C’è solo un’immagine di una targa a ricordo della missione del ’99, un piccolo rettangolo con sfondo bianco appeso nell’ospedale locale. Ma è la sedimentazione del ricordo a creare una base programmatica su cui lavorare, a costruire quei presupposti per iniziare il progetto e ritrovare in un luogo, intimamente mitico, un sentimento che tutto riavvolge, chiarendo la direzione del racconto.

“Qui la polvere del tempo è un sole sghembro che comincia molto lontano...”¹

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«Il progetto ha stanziato nella mia mente per anni, fino a quando, nel 2012, ho conosciuto lo scrittore Davide Barilli che ha avuto un ruolo fondamentale nella genesi di questo lavoro. Davide ha un rapporto confidenziale con Cuba, frequenta spesso l’isola mantenendo un ruolo attivo di narratore e al contempo di ‘agente culturale’. Gli ho confidato il mio desiderio di un progetto fotografico su Mantua e, dopo un tempo piuttosto lungo e grazie ad alcune coincidenze fortunate, sono riuscito a convincerlo a collaborare nella costruzione del percorso. Grazie a Davide ci siamo messi in contatto con Enrique Pertierra; un personaggio straordinario

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Il libro Mantua, Cuba, Fotografie di Paolo Simonazzi con un racconto di Davide Barilli, curato da Andrea Tinterri per Greta Edizioni, sarà presentato sabato 10 settembre 2016 alle ore 19.00 a Mantova presso la libreria Di Pellegrini come evento collaterale nell’ambito di Festival Letteratura Mantova 2016.

che sembra uscito da un libro di Marquez. È lui che ci ha ospitati nella sua casa durante le riprese del progetto.» Ma il filo rosso che avrebbe dovuto tenere insieme i diversi fotogrammi non aveva coordinate predefinite. Da una parte c’era la necessità emotiva di vedere e fotografare uno spazio, dall’altra l’approfondimento storico/leggendario che nel tempo Paolo e Davide erano andati studiando, aveva riportato alla luce un interessante legame tra Mantua e l’Italia. Un rapporto presunto, ma supportato da alcuni dati e sollecitazioni che potevano bastare per dare adito a teorie più o meno scientifiche o fantasiose.

altro aspetto piuttosto curioso è che a Mantua, unica cittadina di tutta Cuba, viene praticato il culto della Madonna della Neve, altro dato che avvicina il territorio ad un’antica tradizione italiana.» A questo punto mancava il nesso, il rapporto che potesse coniugare due situazioni, due prospettive, piuttosto diverse. Mancava l’unità narrativa. «Vicino a dove eravamo alloggiati abbiamo trovato un edificio in abbandono, quasi completamente diroccato, su cui compariva una scritta: Bar dell’Olvido. Davide mi guarda e mi chiede:‘ma tu sai che cos’è l’olvido? È il sentimento della dimenticanza’. È stato a quel punto che ho capito come avrei impostato il lavoro. Da quel momento ho iniziato a ragionare su questo tipo di sentimento, sulla dimenticanza, su quello che poteva significare in quello spazio. Una progettualità che mi consentiva di restituire il ricordo dell’amico Velmore, che credo si possa considerare un eroe dimenticato e, contemporaneamente, di lavorare sulla storia e sulla leggenda di un luogo ai confini del mondo.»

“Onde che sballano una rotta, facendone una peripezia geografica che unisce due città...”¹

«La leggenda vuole che Mantua sia stata fondata da cittadini italiani. Una delle prove è la testimonianza di cognomi italiani, per lo più genovesi come Pittaluga, fra gli abitanti del paese. La versione più verosimile vorrebbe che Mantua fosse il nome di un brigantino affondato nelle acque caribiche nel Seicento. Alcuni dei sopravvissuti potrebbero essersi insediati nell’attuale cittadina e fondato una comunità. Un

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Next exhibits: Paolo Simonazzi

Paolo Simonazzi

So near, so far

Mantua, Cuba

8 maggio – 31 luglio 2016 Collezione Maramotti Reggio Emilia www.collezionemaramotti.org

9 settembre – 10 ottobre 2016 BAG GALLERY Parma www.bag-gallery.com

E il racconto prende forma.Anzi, forse, conoscendo la produzione precedente di Paolo Simonazzi (Bell’Italia, Cose ritrovate, Tra la via Emilia e il West, Mondo Piccolo) possiamo dire che la narrazione semplicemente prosegue spostandosi un po’ a Sud, ma rimanendo fedele alla ricerca di microcosmi, piccoli paesi che la leggenda conserva nella loro integrità e onestà intellettuale.

I simulacri della rivoluzione cubana non hanno la stessa forza di quelli che si possono trovare a La Habana, dove appaiono più incisive le testimonianze dirette della propaganda.A Mantua sembra tutto filtrato dalla distanza temporale e geografica. È un luogo ancora protetto e lontano dall’apertura cubana all’occidente. Non credo sia un caso che il colore che più caratterizza questo progetto sia l’azzurro. Goethe scriveva:‘L’azzurro è tra i colori del lato del meno, dispone ad uno stato di inquietudine, di tenerezza e nostalgia. è il colore più luminoso che porta con sé qualcosa di scuro.’»

“...è una storia sghembra che arriva dal mare, via Po, questa. Fatta di coincidenze più che di verità... ”¹

«Questo progetto continua il mio lavoro sui piccoli mondi, sulla provincia come condizione dello spirito. Leonard Cohen sostiene che quando un autore compone una canzone, compone sempre quella canzone. In effetti anche a Mantua ho ritrovato atteggiamenti simili a luoghi distanti nello spazio, che avevo precedentemente fotografato. Ho scoperto i simboli che hanno caratterizzato la cultura e l’educazione di quel paese.

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¹ Davide Barilli, Incipit de racconto, Il bar della dimenticanza

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“...Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita; e quella non rispuose al suo dimando, ma di nostro paese e de la vita ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava «Mantüa . . . », e l’ombra, tutta in sé romita, surse ver’ lui del loco ove pria stava, dicendo: «O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello” Dante,“Purgatorio, Canto VI” (datato 1316-1318)


PAOLO SIMONAZZI MANTUA, CUBA

OPENING venerdì 9 SETTEMBRE 2016 - ore 18.00 BAG GALLERY, Borgo Ronchini 3, PARMA



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