#AImagazine | Fall2016

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THE ART REVIEW - Fall 2016 -

Canton Ticino Chf 6,00

interviews Franco Summa Walter Guadagnini Daniela Comani portfolio Ugo La Pietra Occhiomagico The Cool Couple Giulio ArchinĂ reportage art WopArt 2016

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© BAG Gallery / Giovanni Marinelli

le BOIS DU CAZIER - MARCINELLE (BE) Du mardi au vendredi : de 9h00 à 17h00. Samedi et dimanche : de 10h00 à 18h00 | +32 71 88 08 56

patronage et collaborations:

Ministère des Biens et des Activités Culturels et du Tourisme Ambasciata d’Italia Bruxelles

Provincia di Pesaro e Urbino

#AImagazine The Art Review

projet en partnerariat: LE BOIS DU CAZIER avec BAG GALLERY informations: BDG press | +39 366.1977633 relationship.bdg@bildung-inc.com


MARCINELLE: 1956 - 2016 L’exposition. PHOTOS de Giovanni Marinelli

inauguration: vendredi 7 octobre 2016 - 18h30 le bois du cazier Rue du Cazier 80 - marcinelle exposition: 8 octobre - 4 décembre 2016


Table of contents Fall 2016

#AImagazine THE ART REVIEW

_9 L’EDITORIALE se l’ARTE è comunicazione.

_38 La jetée MOVIMENTO

_10 thE portfolio interview OCCHIOMAGICO

_43 the interview novità editoriali

_18 thE portfolio interview THE COOL COUPLE

_46 about kirkeby a mendrisio

_23 dietro l’obiettivo Immaginario fotografico

_50 reportage art stili e carta,a lugano

_26 thE portfolio interview SUMMAARS

_54 the interview SCRITTURe

di Andrea Tinterri, Christina Magnanelli Weitensfelder di Andrea Tinterri

di Andrea Tinterri di Cristina Casero di Nicola Pinazzi

di Jennifer Malvezzi di Domenico Russo di Stefania Dottori di Gaia Conti

di Christina Magnanelli Weitensfelder

Artwork: Andrea Granchi mentre allestisce Mare con Ombra, dicembre 1970 (part.)

“La fotografia è una cosa semplice.A condizione di avere qualcosa da dire.” (M. Giacomelli)



Table of contents Fall 2016

#AImagazine THE ART REVIEW

_57 portfolio la lirica e l’istinto

_81 the interview le eco del passato

_69 thE interview in principio era il numero

_86 diritto e fotografia LIBERTà di panorama

_72 about MERCATO FOTOGRAFICO

_89 about indagini sul contemporaneo2

_76 about VANITAS

_99 portfolio UGO LA PIETRA

di Cristina Casero

di Domenico Russo

di Nicoletta Crippa

di Christina Magnanelli Weitensfelder

di Gaia Conti

di Avv. Cristina Manasse di Fabio Pradarelli di Nicola Pinazzi

_78 reportage art ART BASEL

Artwork: Giulio Archinà, Porto di Gioia Tauro, 14 agosto 2007, ore 12,54, 430 m slm, latitudune: 38° 45’ 78.68”N - longitudine: 15° 89’ 20.46”E (part.)

di Michael Sägerbrecht

“Forse il desiderio più profondo di ogni artista è quello di confondere o di fondere tutte le arti, così come le cose si fondono nella vista reale.” (M. Ray)




se l’ARTE è comunicazione.

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di Andrea Tinterri e Christina Magnanelli Weitensfelder

“La stampa è la tecnologia dell’individualismo.” (M. McLuhan)

Partiamo dalla copertina, il primo luogo in cui sostare e iniziare un ragionamento. Abbiamo voluto dare spazio ad un autore fuori dai classici schemi merceologici capaci di sedimentare nella memoria collettiva alcuni volti riconoscibili. Franco Summa e la sua scrittura del colore, un alfabeto spesso applicato allo spazio pubblico in grado di ricodificare la quotidianità dell’abitare. Una voce importante, che oggi crediamo abbia bisogno d’essere storicizzata, compresa e inserita in una storia dell’immagine che ultimamente sembra di scarsa memoria. Sulla scia di questa scelta abbiamo insistito sul rapporto tra spazio e uomo interpellando Ugo La Pietra, amico e compagno di viaggi di Summa e di 108, uno degli street artist più interessanti della scena contemporanea internazionale. Due modi diversi di pensare l’arte pubblica, di riflettere sulla fruizione, su come l’osservatore, consapevole o inconsapevole, possa relazionarsi con l’opera, con un segno stratificato nel tessuto urbano. E poi ancora paesaggio e territorio con le riprese di Giulio Archinà, fotografie scattate dal deltaplano, la restituzione di una terra difficile come quella calabra. La lunga progettualità del duo milanese The Cool Couple, una fotografia ormai ibrida dove lo scatto è parte di un sistema linguisticamente più complesso, una delle tante forme che la fotografia oggi sta, inevitabilmente, assumendo. Come nel caso, anche se con modalità diverse, di Giancarlo Maiocchi in arte Occhiomagico, che dal 1971 pensa alla comunicazione come un percorso caleidoscopico: fotografia, disegno, video, performance, etc. Miscellanea sintattica evidente, anche, nel felice rapporto tra Elisa Montessori e Raffaella Benetti. Il linguaggio della fotografia e quello della pittura, due personalità che, nell’autonomia del proprio lavoro, hanno trovato nell’antico tòpos della vanitas un luogo comune di confronto.

Ripensare la video arte con Andrea Granchi e il suo lavoro sul filo degli anni Settanta. Una ricerca, che anche in questo caso, fa spesso appello al pubblico, all’osservatore partecipante, attivo, creatore. In ultimo vorrei ricordare l’intervista a Daniela Comani, e il suo costante dialogo con la Storia, i media e le nostre identità culturali. Un’artista attenta ai cambiamenti geopolitici e alle loro declinazioni sociali. Perché in un momento come questo, in cui ad ogni passo ci sembra di camminare su una polveriera, in un momento come questo in cui tirarsi fuori dai giochi è forse troppo tardi, è ancora più urgente fare attenzione al meccanismo della scrittura, a quello che si pubblica, a come costruire un lavoro redazionale, a come raccontare qualcosa. Non siamo una rivista di cronaca, non siamo una rivista che guarda alla politica in maniera diretta, non ci possiamo occupare del tentativo di golpe in Turchia o della situazione terroristica internazionale. Non lo possiamo fare, non lo vogliamo fare. Ma, con estrema lucidità, sappiamo di essere parte della Storia, di avere il ruolo di testimoni di una cultura, di una narrazione che si fa immagine per poi ritornare ad essere la parola. Per questa ragione la nostra responsabilità in questo momento è massima, urgente, indispensabile. Non è un caso che in questo numero abbiamo interpellato alcuni autori per i quali la partecipazione esterna è parte integrante dell’opera. La pratica della costruzione, o della ricostruzione, è uno dei temi su cui abbiamo voluto porre l’accento. Perché il nostro non è un ritiro sull’Aventino, ma è una forma di resistenza fatta con i mezzi che sappiamo usare e con le idee che sappiamo raccogliere. Probabilmente non abbiamo le capacità di cambiare la storia, ma ne facciamo parte, e questa è la nostra lotta: restandoci dentro, raccontandola con i pensieri e le immagini delle ‘Anime Belle’.

“Sappiamo di essere parte della Storia, di avere il ruolo di testimoni di una cultura... ”

L’editoriale

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OCCHIOMAGICO di Andrea Tinterri > Artworks: Occhiomagico

Giancarlo Maiocchi, in arte Occhiomagico. Un’esperienza espressiva che vede la comunicazione come una sovrapposizione linguistica: fotografia, disegno, video, performance. Un’intervista per ricostruire una storia che affonda le proprie radici nella cultura caleidoscopica degli anni Settanta. A.T. La necessità di raccontare la magnifica illusione del sogno e mescolarla con il reale. È questo il punto di partenza dello studio Occhiomagico fondato da Giancarlo Maiocchi nel 1971 a Milano. Illusione che va declinata in immagini, in video, in suono. Nella consapevolezza che un solo linguaggio non basta e che l’alchimia del sogno è di per se anarchica. O. «Lo studio conteneva una sala di registrazione musicale, una sala di montaggio cinema, uno spazio per dei grafici gestito da Alessandro Guerriero, che in seguito darà vita al progetto Alchimia e, naturalmente, c’era una sala di posa e una camera oscura. Quello che adesso si chiamerebbe multimedialità. Occhiomagico è stato scelto come cappello per un gruppo di persone che lavoravano a un progetto unico, anche se ognuno aveva la propria autonomia.»

Percorsi di ricerca che, però, si confrontavano spesso con la committenza commerciale. «Avevamo una persona che faceva da account che lavorava in ambito musicale, io invece avevo dei rapporti più stretti con il mondo dell’editoria. Prima avevo lavorato come assistente e quindi avevo conosciuto redattrici e art director. In realtà lo spazio era nato come studio d’arte, ma avevamo bisogno di entrate economiche per sostenere i nostri progetti. Quindi abbiamo dato tempo e spazio all’impegno commerciale, ma contemporaneamente ci dedicavamo ad allestire mostre, ed il tutto era firmato Occhiomagico. » Un percorso linguistico eterogeneo in cui si mette in discussione l’atteggiamento documentaristico della fotografia. «Erano gli anni della psichedelia, il nostro punto di riferimento era Hipgnosis, gli ideatori delle copertine dei Pink Floyd. Leggevamo Kerouac, Bob Dylan, Ferlinghetti.Avevo fatto un corso di fotografia e mi ero accorto che non riuscivo a andare in giro e fotografare quello che avevo intorno. Era come se non vedessi le cose che mi circondavano. In più io suonavo e scrivevo i testi delle mie canzoni, erano testi che raccontavano di visioni, di sogni. E queste visioni cercavo

“Il nostro punto di riferimento era Hipgnosis, gli ideatori delle copertine dei Pink Floyd...”

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the portfolio interview

> Domus Le Grandi Labbra, 1981

“And if the dam breaks open many years too soon...And if there is no room upon the hill... And if your head explodes with dark forebodings too... I’ll see you on the dark side of the moon” (Pink Floyd, Brain Damage, 1973)



> Mobile, 1980 Pagina accanto: > Domus Ettore Sottsass Jr., 1982 1983

di illustrarle basandomi sull’esperienza dei surrealisti, delle avanguardie storiche. Mutuando Dalì, Magritte e Man Ray che per me è stato un faro. Nella fotografia volevo che non ci fosse solo l’immagine fisica, chimica e ottica. Pensavo che dovesse essere invasa anche da altre arti per renderla parlante. Io facevo il regista, combinando l’immagine con musica e video, in maniera tale che il racconto fosse completo. Ma la cosa che mi interessava era dimostrare che qualsiasi cosa io avessi ideato, immaginato o sognato, proprio per il fatto che partisse da una fotografia, era qualcosa di realmente esistito. Era possibile fotografare i sogni. Una magnifica illusione e solo la fotografia poteva certificare questo passaggio. Il mio punto di riferimento era un’opera di Man Ray, L’Enigme d’Isidore Ducasse, un oggetto impacchettato e coperto da un telo. Lo spettatore provoca l’opera d’arte, immagina cosa venga celato sotto il telo...» Riferimenti che trovano conferma anche in alcuni titoli di mostre come Paesaggi di finzione (1981), L’immagine truccata (1982), Archeologia del futuro (1983).Tutto questo si inseriva in un dibattito, quello degli anni

Ottanta in Italia, piuttosto attivo. «Io avevo seguito l’evoluzione dello studio Alchimia di Guerriero. Partecipavo alle riunioni in cui c’erano Sottsass, Mendini, De Lucchi, Branzi. Quello che mi interessava di più era Sottsass perché, nonostante la differenza d’età, proveniva da un humus culturale simile al mio. Era stato in India, si interessava di filosofia orientale, aveva conosciuto Bob Dylan. Quindi una fusione tra antiche dottrine orientali, cultura americana di protesta e la nostra italicità fatta di cultura araba, latina e greca. Questa fusione mi interessava molto. Era un flusso che arrivava dagli anni Sessanta che chiedeva di negare e cambiare. Questo era il nostro statuto e la provocazione era all’ordine del giorno, dovevamo provocare delle reazioni e non avevamo nulla da perdere.» Alcune delle persone citate sono state suoi compagni di viaggio soprattutto tra il 1982 e il 1983, quando Occhiomagico ha firmato ventiquattro copertine di Domus. Immagini che fanno riferimento ad un mondo postatomico, forse postmoderno. «Sono sempre stato un appassionato di fantascienza, sia letteratura che cinema.Avevo letto un articolo,

“Era possibile fotografare i sogni. Una magnifica illusione e solo la fotografia poteva certificare questo passaggio...”

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the portfolio interview



> Covers, 1996-1999

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the portfolio interview


> Falso Movimento, 1989-1990

ma non mi ricordo chi lo scrisse e dov’era pubblicato, sull’archeologia del futuro. Mi affascinava l’idea che fra mille anni qualche archeologo potesse scoprire reperti della nostra civiltà, video ancora funzionanti: macerie che trasmettono ancora qualcosa. E l’aspetto che mi incuriosiva di più dell’archeologia è che la datazione è spesso approssimativa, la forbice può essere addirittura di duecento anni. Ecco che in una delle copertine di Domus tra i reperti del presente avevamo inserito anche un Mantegna. Perché probabilmente tra tremila anni il nostro passato verrà schiacciato, tutto si avvicinerà. Quindi paradossalmente noi siamo dei contemporanei del Mantegna. Questo è sicuramente una pratica postmoderna, i segni che sono arrivati a noi, li prendiamo e li ristrutturiamo. Riconsideriamo parti del passato e le sovrapponiamo al presente.» Arrivano gli anni Novanta e la digitalizzazione del lavoro. Molti dei protagonisti di quell’esperienza prendono strade diverse o comunque autonome e lo studio si riduce alla sua sola progettualità.

«Nel frattempo Guerriero aveva fondato Alchimia, Marco Poma, che si occupava di video, aveva aperto Metamorfosi, io avevo smesso di suonare, perché ad un certo punto ho dovuto scegliere. Ognuno all’interno del gruppo ha seguito la propria strada. Poi quando ho iniziato a lavorare con il computer ho coinvolto dei ragazzi che, a loro volta, si firmavano Occhiomagico, quindi l’esperienza è continuata in una forma diversa. Si può dire che è terminata realmente solo adesso. Da pochi anni sono solo io, non ho più collaboratori, faccio unicamente ricerca, ho abbandonato il commerciale e mi sono dedicato soprattutto all’insegnamento. In questo momento il mio compito è instillare coraggio in ragazzi di ventiquattro, venticinque anni che vogliono intraprendere un’espressività anche fotografica. Spingo i miei studenti verso il 3D, verso la rete, verso il video. Gli dico di non scattare, ma girare e poi, casomai, prelevare alcune immagini fisse. Li spingo a sfruttare la cultura della loro generazione, ad esempio i cartoon, i manga. Li spingo a farli propri, perché è qualcosa che ha sedimentato dentro di loro e che gli appartiene.»

“Sono sempre stato un appassionato di fantascienza, sia letteratura che cinema. ..”

Pagina seguente: > Le 2 verità, 1974 the portfolio interview

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The cool couple di Andrea Tinterri > Artworks: The Cool Couple

“Una volta c’era Internet e ci chiedevamo se e quanto ampia fosse la dicotomia che creava con il mondo fisico.. Oggi la Rete è penetrata ovunque, negli oggetti, negli ambienti, nelle forme di vita, e queste stesse distinzioni non sono più così chiare.” (The Cool Couple)

The Cool Couple, una delle esperienze di ricerca più interessanti su scala nazionale, ma non solo. Una progettualità fatta di tempi lunghi, per restituire un’opera ibrida, capace di interpretare una comunicazione frantumata, dove l’immagine bidimensionale non basta. A.T. I vostri lavori presuppongono una lunga fase di studio propedeutica al progetto stesso. Analisi dei dati, ricerca sul campo, costruzione di una tesi. Come si svolge e come viene organizzato questo momento apparentemente invisibile, ma necessario al risultato finale? T.C.C. «La ricerca è lo step più cospicuo in termini di tempi ed energie, ma, a seconda del progetto, può durare pochi giorni o anni, come nel caso di Approximation to the West. A volte è necessario un lungo lavoro di approfondimento per costruire una rete di concetti, in altri casi tutto ruota attorno a un tema circoscritto, che già in prima battuta crea un immediato sistema di riferimenti (stiamo pensando a Cool People Love Poodles). Gli strumenti e le risorse coinvolti nella ricerca sono molto diversi, ma il fine è

sempre lo stesso: testare l’intuizione iniziale creando un ambiente di lavoro in cui l’idea mette letteralmente radici attraverso diverse discipline in un confronto costante con la storia dell’arte e delle immagini. In altre parole, cerchiamo di capire quali sono le questioni ancora aperte, quali i filoni di ricerca che si sono esauriti e via dicendo, per definire il terreno su cui operare.» È corretto sostenere che la complessità linguistica del vostro lavoro (video, fotografia, installazioni, editoria, ecc.) sia funzionale alla restituzione di una fase di studio pluridirezionale, in cui i dati provengono da diverse fonti e da diverse espressioni? «Sì, la formalizzazione del lavoro è sempre una conseguenza della ricerca. Nonostante la nostra formazione fotografica, la traduzione del nucleo teorico di un progetto implica sempre la scelta del dispositivo più efficace e coerente. Il linguaggio va poi di pari passo con l’installazione, il rapporto con lo spazio in cui si gioca l’interazione con il pubblico. La formalizzazione non è un processo che semplicemente concretizza un progetto, ma un meccanismo retorico che può amplia-

“Testare l’intuizione iniziale creando un ambiente di lavoro in cui l’idea mette letteralmente radici...”

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the portfolio interview


>Approximation to the West, Cossack boots,Arta Terme #001, 2013, inkjet print su carta fine art, cornice in legno, plexiglass, 110x130 cm, courtesy METRONOM

“Potremmo dire, con parole nostre, che non è più possibile osservare. Eppure, sembra che in qualche momento della storia recente la nostra società si sia ristrutturata attorno alla visione, contraddicendo apparentemente molto di quanto detto finora.” (The Cool Couple) the portfolio interview

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>Approximation to the West, Untitled, Prato Carnico #001, 2013, stampa inkjet fine art, cornice in legno, plexiglass, 110x55 cm, courtesy METRONOM

re lo spettro di riferimenti della ricerca, introducendo problematiche linguistiche o collegando altri concetti al nucleo di un lavoro.» Qual è il vostro rapporto con il fotografico? «Nonostante la fotografia sia riconosciuta come forma d’arte, sembra che permanga la tendenza a conferirle uno statuto particolare. Crediamo che la necessità di sottolineare le peculiarità di questa forma di espressione sia sintomatica di una frattura: spesso, infatti, i riferimenti teorici e le problematiche concettuali che nascono e crescono nel fotografico sono completamente diverse da quelle del sistema dell’arte. Personalmente, abbiamo sempre cercato di superare questa frattura. Ci siamo sempre occupati dell’interazione quotidiana tra persone e immagini. Ci interessa studiare il comportamento della fotografia, nella sua iperattività e ininterrotta interazione con altri linguaggi. In questo senso, è una sorta di atto istintivo che forse presto verrà completa-

mente riassorbita nell’ambito dei fenomeni “naturali” e accadrà indipendentemente da noi grazie a tecnologie come chip retinali, hard disk sottocutanei e a quell’universo di immagini prodotte dalle macchine per le macchine (le Operational images di Trevor Paglen). Sembra fantascienza, ma ormai è realtà, e tutto questo ci incuriosisce: come penseremo le immagini? Come ci esprimeremo? Bisognerà aggiornare i nostri strumenti cognitivi, ma prima di tutto il dizionario con cui ci riferiamo alla fotografia. Detto questo, liberi tutti. Siamo i primi a convivere con forme molto diverse di fotografico, dall’analogico ai social network.» Alcuni dei vostri progetti, mi viene in mente ad esempio Cool People Love Poodles, The Third Chimpanzee, The Fuffy Wipe Case, hanno una forte valenza politica. Credete sia ancora attuale l’idea di intellettuale organico? «Forse non siamo le figure più adatte con cui parlarne :) È vero che alcuni dei nostri progetti sono dichiaratamente legati a una tematica politica, ed è

“Il comportamento della fotografia, nella sua iperattività e ininterrotta interazione con altri linguaggi...”

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the portfolio interview


> Prophet #1, 2015, 3D milling, polystyrene, 90x90x170 cm

una costante che attraversa tutta la nostra ricerca. Tuttavia, ci preme rimanere ambigui o, nel caso in cui prendiamo posizione, lasciare aperti degli spiragli per insinuarvi il dubbio. Di politico, se così possiamo chiamarlo, c’è il bisogno di suscitare domande, di porre un problema riguardo a una realtà apparentemente senza soluzioni di continuità, smagliature o fessure. Per essere completamente sinceri aggiungiamo che non ci occupiamo di politica classicamente intesa. Da un altro punto di vista, però, la nostra vita quotidiana è strettamente legata a problemi di geopolitica: ad esempio, chiedersi da dove arriva uno smartphone significa sollevare un bel po’ di problemi. Non siamo molto propensi a sostenere la figura dell’intellettuale perché ci ricorda quella del maestro, contro cui si sono schierati Jacques Ranciére e Alain Badiou, seppure in modi diversi. Certo, la cultura non fa male, ma il problema risiede nelle modalità di trasmissione e di coinvolgimento.

Probabilmente non serve un intellettuale, ma una comunità virtuosa.» Questo macro tema comporta anche un’altra riflessione, ossia il rapporto tra arte e pubblico, tra espressione e fruizione. Che rapporto avete con i‘consumatori’finali, con chi approccia e sperimenta la vostra opera? «Ne abbiamo parlato anche in occasione del nostro intervento con Alessandro Sambini al ciclo di incontri Camera con Vista, promosso dalla Gamec e organizzato da Luca Andreoni. L’interazione e la possibilità di accesso all’opera sono un bel problema. Cerchiamo di fare il possibile per strutturare i progetti a livelli, in modo che l’interazione sia diversificata e in linea di massima sempre garantita. Sappiamo che ogni opera che esce dallo studio deve camminare con le sue gambe: nel momento in cui entra in contatto con il pubblico accadono tutta una serie di cose che sfuggono al nostro controllo e alla nostra capacità di previsione. E questo, in fondo, è il bello dell’arte.»

“Di politico, se così possiamo chiamarlo, c’è il bisogno di suscitare domande, di porre un problema...”

the portfolio interview

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>Approximation to the West, Untitled, Paluzza #001, 2015, inkjet print su carta fine art, cornice in legno, plexiglass, 50x60 cm, courtesy METRONOM

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> Man Ray, Natura morta del suo dipinto ‘Dancer/Danger’, con banjo, 1920, stampa alla gelatina-sale d’argento

IMMAGINARIO FOTOGRAFICO di Cristina Casero

“Quando leggete questa pagina, o guardate una fotografia, o qualsiasi altra cosa, quella che vedete è un’immagine mentale.” (S. Shore) Dietro L’obiettivo

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Viviamo in un mondo di immagini. Questa affermazione certamente è ormai un luogo comune, ma il fatto resta pur sempre una verità ineludibile, che possiamo personalmente sperimentare nella nostra quotidianità.A fronte di un massiccio e indiscriminato impiego delle immagini nei più vari ambiti della nostra vita, il quale si rispecchia pure in una cospicua produzione di fotografie grazie ad una tecnologia sempre più a disposizione di tutti, si è ormai fatta largo la convinzione che sia sempre più importante conoscere le immagini, saperle leggere, capire ed anche usare. La comunicazione visiva si è rivelata un ottimo strumento ma carico di tutte le sue ambiguità e la necessità di dotarsi di anticorpi, di saper reagire alla passività pericolosa con cui ormai guardiamo spesso a questo universo di immagini si è fatta sempre più urgente. È indubitabile che, soprattutto nei tempi più recenti, la riflessione teorica intorno alla natura, allo statuto e alle caratteristiche della fotografia abbia in questo senso avuto un ruolo fondamentale, ma mi pare importante anche il fatto che in ambito artistico si sia sempre più spesso fatto ricorso all’immagine o alla pratica fotografica, poiché credo che questa prassi abbia contribuito ad accompagnare il nostro sguardo all’interno di un percorso critico e consapevole, anche quando l’obiettivo dell’artista non è stato espressamente puntato intorno a queste problematiche, come per altro in molti casi invece è esplicitamente avvenuto, con esiti decisamente interessanti e convincenti. Che gli artisti realizzino l’immagine fotografica oppure la assumano semplicemente, prelevandola dall’universo visivo già esistente, che la considerino un prelievo di realtà o una sua interpretazione, che sfruttino il potenziale della pratica fotografica o si concentrino sul suo prodotto, in ogni caso, sin dagli anni sessanta del Novecento, la fotografia si è trovata sempre più spesso ad essere uno strumento privilegiato, carico di potenzialità espressive e linguisticamente innovative, capace di rispondere con efficacia alle esigenze delle più innovative ricerche artistiche, come oggi è particolarmente evidente. D’altro canto, il rapporto tra arte e fotografia si è sempre connotato nei termini di una relazione stretta seppur non priva di tensione e affonda le sue radici lontano nel tempo, sin dalle origini. L’immagine che si forma spontaneamente per azione della luce, già ai tempi del dagherrotipo o del calotipo, immediatamente si pone in competizione rispetto a quella realizzata dall’artista, innescando così una dialettica a tratti molto vivace, che sicuramente ha istillato linfa vitale nella tradizione artistica. In quel primo momento, i caratteri di questa immagine, che viene percepita come fedele e accurata trascrizione della realtà, ben si coniugano con l’esigenza realista così viva nella

cultura visiva europea nella metà dell’Ottocento: molti sono gli artisti che ne fanno uso, se non altro come comodo modello cui fare riferimento, alternativo alla flagrante realtà, e ciò ha consentito all’immagine fotografica di entrare anche per via indiretta nell’immaginario artistico, determinando una attitudine visiva nuova. Seppur sottotraccia, si impone un nuovo modo di guardare, che leggermente si distanzia dal tradizionale impianto compositivo e che, man a mano, dà i suoi frutti nel far emergere un inedito sguardo sul reale. Ma ciò che forse può sorprendere è come la fotografia abbia continuato a suscitare vivo interesse, ponendosi come fondamentale elemento di riferimento anche per artisti le cui poetiche si allontanavano ampiamente da qualsivoglia positivistico interesse per il reale, inteso nella sua veste fenomenica. Ben presto, infatti, l’immagine fotografica è riuscita a mostrare tutto il suo potenziale di elemento disvelatore, capace di proporre una lettura della realtà diversa, che si pone oltre le convenzioni cui l’occhio umano è asservito e non soltanto di darsi semplicemente come una sua mera e corretta traduzione bidimensionale. Nei primi decenni del Novecento, quando non solo i linguaggi ma persino lo statuto dell’arte sono stati oggetto di un rivoluzionario ripensamento ad opera dei protagonisti delle cosiddette avanguardie, tale caratteristica viene esplicitamente portata dalla potenza all’atto e la fotografia, con tutte le ambiguità e i fertili interrogativi che solleva nel suo rapportarsi al referente, anzi proprio in virtù di questa dote, si offre a molti dei protagonisti di quel fondamentale momento come medium privilegiato. Essa funziona sia sul piano espressivo sia su quello di efficace strumento per una nuova e approfondita analisi della visione, andando così a soddisfare quella componente metalinguistica e autoreferenziale che, già molto presente nelle ricerche d’inizio Novecento, costituirà ancora negli anni Settanta un ambito privilegiato di impiego del mezzo fotografico, accanto agli sviluppi offerti dalla possibilità di sfruttare il suo diretto e ineludibile rapporto con la realtà che, attraverso il procedimento fotografico, viene messa direttamente in gioco all’interno dell’esperienza artistica. Se con l’esplodere del pop, nel confronto serrato che l’arte ingaggia con la cultura di massa, l’immagine fotografica si pone nuovamente come elemento di grande interesse ed oggetto di riflessione in relazione alle sue capacità in termini comunicativi, è a partire dalla fine del Novecento che sulla base di questa viva stratificazione di rapporti e relazioni la fotografia si dà come mezzo espressivo diffuso e, nel caso di molti artisti, decisamente privilegiato, innescando una nuova vitalità e una serie di inedite possibilità di sviluppo che sarà interessante seguire con grande attenzione.

“La comunicazione visiva si è rivelata un ottimo strumento ma carico di tutte le sue ambiguità ...”

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Dietro L’obiettivo


Dietro L’obiettivo

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> Christian Schad, Schadografia, 1918,fotogramma su carta aristotipo


> Sentirsi un arcobaleno addosso, 1975

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SUMMaARS di Nicola Pinazzi > Artworks: Franco Summa

“Summa ha fatto oggetto di uno studio speciale, e metodologicamente bene orientato, un problema di psicologia e sociologia urbana: come disintossicare I’ambiente visivo della città moderna.” (G. C.Argan, 1971)

Franco Summa una ricerca per capire il rapporto tra uomo e ambiente. Il colore come strumento per studiare e modificare lo spazio urbano. Codici cromatici per provare a cambiare il mondo. Caratterizza il suo impegno artistico soprattutto l’attenzione per l’ambiente inteso nella totalità dei suoi significati. Come e quando è giunto a fare questa scelta? «Già Luogo di Relazioni, un’opera ‘abitabile’ del 1965, contiene in nuce i principi del mio fare arte ambientale urbana in cui sono presenti aspetti essenziali: la partecipazione, la presa di coscienza ambientale, la ricerca della bellezza, la possibilità di intervenire con scelte urbane responsabili.» Pierre Restany lo definisce Il Cittadino dell’Arcobaleno. In effetti nelle sue opere è ricorrente l’uso del colore. Quali le ragioni di questa scelta? «Le mie opere hanno sempre una dimensione di pensiero, talora di complessa concettualità con riferimenti alla filosofia, alla letteratura, ai miti classici. L’uso del colore, con le sue possibilità psicosensoriali, favorisce un primo essenziale contatto con l’opera. Intorno ai primi anni settanta avevo messo a punto un ‘arcobaleno’ in cui non utilizzavo i canonici sette colori dell’iride, bensì dodici colori composti in doppia serie secondo una composizione visivamente e sim-

bolicamente significativa; non un arcobaleno ‘naturale’, quindi, bensì ‘culturale’. Inserito nel 1975 sui ventiquattro gradini della ex chiesa di Sant’Agostino a Città Sant’Angelo, trasfigurava con il suo ‘segno’ la dimensione ambientale dell’intero paese.» Sempre nel 1975 lei avvia il progetto Sentirsi un Arcobaleno Addosso coinvolgendo molti protagonisti della scena soprattutto milanese, ma anche romana dell’arte, della critica, del design. In cosa consisteva e come si attuava questa operazione? «È un’opera in cui il tema centrale è il rapporto di sé con l’altro da sé. Ho tessuto ventiquattro magliette con la stessa composizione cromatica della scalinata e le ho donate a ventiquattro personaggi, affinché indossandole colorassero nei loro percorsi urbani gli ambienti della vita. Lei è stato invitato alle Biennale di Venezia nel 1976, nel 1978, nel 2011 come si sono configurate queste presenze? «Quella del ‘76 curata da Enrico Crispolti presentava una rassegna di artisti e gruppi di artisti che operavano nel sociale urbano dal titolo Ambiente come Sociale; vi ero presente con immagini e reperti documentativi dei miei interventi artistici ambientali. Ero anche presente nello spazio delle performances dove ho realizzato Silenzio Rosa, un’opera in cui la riflessione sul ‘silenzio’ duchampiano avviato da

“La partecipazione, la presa di coscienza ambientale, la ricerca della bellezza...”

the portfolio interview

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> Restany Summa Crispolti, 1976 Pagina a fianco: > Un arcobaleno in fondo alla via, 1975

Michelangelo Pistoletto e Vettor Pisani veniva rielaborato, con il mio contributo, assumendo la pittura come linguaggio. Nella Biennale del ‘78 ho realizzato tre opere: Catarsi, Metempsicosi e Nesso, la prima all’esterno sul viale dei Giardini, le altre due all’interno del padiglione centrale dove avevo una mia ‘stanza’ personale; ciascuna faceva riferimento ad aspetti del mito, alla filosofia. L’opera Catarsi, collocata sul viale dei Giardini, costituiva un portale di accesso alla mostra nel padiglione centrale. Otto lettere, in metallo scatolare, componevano la scritta SUMMA ARS, che indicava un passaggio significativo alla ‘Grande Arte’. Nella Biennale del 2011 ho presentato Magnus ab Integro Saeclorum Nascitur Ordo accostando nell’opera due lingue universali: la latina della antichità, la inglese della contemporaneità.» Più che artista nell’accezione comune, lei mi sembra un artista dell’architettura, ossia un tecnico delle emozioni per gli spazi abitati, uno studioso di quell’aspetto antropologico che dal secondo dopoguerra è venuto a mancare nella costruzione delle nostre città. La sua ricerca operativa tende ancora in questa direzione? «Carattere fondamentale dell’uomo è quello di dare forma e senso ai luoghi in cui vive, trasformarli in ambienti, oltre che funzionali, accoglienti, significativi, belli; ambienti che rivelano una filosofia, una concezione e un progetto di vita. Sin dalla più lontana preistoria, nelle grotte in cui si ricoverava, l’uomo ha lasciato segni d’arte. Opere che trasfiguravano spazi

naturali in abitazioni. La città ‘storica’ è il risultato di una costante volontà di definire artisticamente i luoghi della vita. La città moderna se ne è allontanata. L’arte si è chiusa nei luoghi deputati. Le etichette ‘public art’,‘specific site’,‘street art’ sembrerebbero proporre, oggi, una svolta opportuna. Ma già la lingua in cui sono formulate rivelano qualcos’altro. In Italia l’arte è stata sempre pubblica, le sue realizzazioni sempre pensate per specifiche destinazioni ambientali. Le città storiche italiane non hanno bisogno di alcuna arte di strada, perchè le strade e le piazze sono definite scenograficamente da architetture che, opere d’arte in sé, nell’insieme contribuiscono a configurare la città come opera d’arte. Il grande favore che, attualmente, sta ottenendo la street art è preoccupante in quanto forma d’arte sostanzialmente indifferente alle valenze significative del contesto ambientale. Così come lo era ed è il graffitismo da cui discende. Il graffitismo copre tutto, è la negazione dell’architettura e della città. È invece opportuno l’arte riassuma un suo positivo, fondamentale ruolo nella costruzione e ridefinizione della città con forme, simboli, segni, percorsi, prospettive inseriti armonicamente nel contesto ambientale, sociale, culturale, memoriale, storico, artistico. Un impegno di progetto cui è chiamato a concorrere ogni forma d’arte. Ridefinire qualitativamente la città è compito, infatti, non dell’Architettura bensì dell’Artitettura che è, appunto, la disciplina che ho praticato e continuo a praticare.»

“La città ‘storica’ è il risultato di una costante volontà di definire artisticamente i luoghi della vita ...”

Pagine seguenti: pag. 30 > La porta del mare, 1993 pag. 31 > Una stanza per tutti, 1976

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the portfolio interview





“Convinto che la causa principale del degrado urbano contemporaneo consista nella incapacità di pensare alla città come alla costruzione di un’opera d’arte,e che tale incapacità derivi dal rifiuto,meramente ideologico, di continuare, con logica coerenza, lo sviluppo della sua esperienza storica, Summa ne ripropone l’attualità ambientando i suoi monumenti nelle città storiche.” (A. Riga, 1989)

> De Pictura, Filo di Arianna, 2011 > Catarsi, Biennale di Venezia, 1978

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the portfolio interview


Pagine seguenti: > Pastor oro, 2008 > Urban Rainbow, 2016 the portfolio interview

Dall’alto: > Color Mundi, 2015 > Una stanza per tutti, prefazione, 1976

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> Totale cromatico, 1979

Pagina accanto: > Farsi un quadro delle cittĂ , 1971

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the portfolio interview



MOVIMENTO di Jennifer Malvezzi Artworks: Andrea Granchi

> La Struttura Dell’Immaginazione, tela emulsionata dal ciclo Teoria dell’Incertezza, 1977

Andrea Granchi è un’artista con due anime. Da una parte il Maestro, l’accademico intento a studiare e ad appropriarsi della tecnica del disegno degli antichi e dall’altra il neoavanguardista, filmmaker sperimentale e un po’ dissacrante intento a tagliuzzare negativi e pellicole. Due anime che sembrano opposte, inconciliabili, ma che invece riescono a fondersi con intelligenza e ironia in un’unica straordinaria personalità. Forse perché Andrea è figlio di Vittorio Granchi, noto pittore e restauratore fiorentino e fin da piccolo ha vissuto in un ambiente in cui l’arte del Novecento conviveva, senza conflitti, con la presenza e la conservazione dell’antico. O forse perché, dopo essersi diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1969 con una tesi sulla Pop Art in Italia, ha svolto una lunga attività come docente da Accademico Ordinario e contemporaneamente è stato uno dei protagonisti più attivi, anche come teorico, della stagione più fertile del cinema d’artista italiano, quella degli anni Settanta. Il ruolo del disegno, rimane però sempre

determinante per Granchi in particolare in quello che egli chiama il disegno del movimento, ovvero ‘l’immagine che da fissa ambisce a muoversi, a variarsi secondo sistemi ripetitivi o motivi ricorrenti’. Espressione di un istinto atavico dell’uomo, questa ripetizione modulare che è alla base della concezione stessa del filmico, ha origini antichissime. In base a ricerche e ipotesi da lui approfondite negli anni, esempi di disegno del movimento si ritrovano nelle decorazioni dei vasi attici dagli andamenti geometrici a ‘moto perpetuo’, come nelle sequenze dei movimenti animali, una vera e propria ossessione di dinamismo figurato che dalle antiche tombe del 3000 a. C. ci porta fino agli esperimenti scientifici pre-cinematografici di Marey. In quest’ottica, non sorprende che per Granchi il passaggio dal disegno alla sequenza fotografica e al film sia stato vissuto in modo totalmente naturale. Già nel 1969, poco più che ventenne, lavora sulla movimentazione dell’immagine con Disegno Tridimensionale, un’opera nella quale la

“Il ruolo del disegno, rimane però sempre determinante per Granchi...”

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“L’idea di creare tramite immagini fisse una forma di movimento (amplificazione – deformazione – moto), nasce nella notte dei tempi, forse addirittura nella mente dell’uomo preistorico, spaventato (affascinato) dalla luce del fuoco e dalle ombre riflesse sulle pareti del suo rifugio” (A. Granchi, 1979)

> Andrea Granchi mentre allestisce Mare con Ombra, dicembre 1970

ripetizione negativo-positivo del S.Sebastiano trafitto da una freccia del Sodoma crea una sorta di architettura scalare. La sequenza viene esposta per la prima volta nel 1969 a “Arte Party”, una collettiva di giovani artisti destinati nei decenni successivi a una brillante carriera internazionale. Granchi ritorna su questo concetto anche l’anno successivo con l’installazione Mare con Ombra per approdare nel 1971 al suo primo film Cosa succede in periferia, una breve pellicola d’animazione realizzata con la tecnica del single frame. In quello stretto giro d’anni inizia a utilizzare anche la sequenza fotografica, sovrapponendovi scritture di varia natura, alcune applicate, altre graffiate e incise direttamente sopra il supporto come una sorta di voce off. “La simulazione di un‘crescendo’ o‘diminuendo’ d’intensità era legata alla tipologia delle parole o del loro disegno, ora minuto ora espanso fino a diventare una sorta di flusso‘parlato’di varia intonazione, vagamente ricordante le parolibere futuriste o, come era sembrato ad alcuni, un riferimento, seppur

vago, alla Poesia Visiva. Per me invece si trattava di arrivare attraverso questo disegno a doppio binario, immagine-scrittura, alla simulazione di un film con il sonoro. Come se, in un certo senso, al film muto simulato dalle immagini in successione, si fosse riusciti a mettere, attraverso il disegno della scrittura e le sue molteplici variazioni, un commento sonoro in‘sincrono’ con le figure o le scene”. In questo senso sono indicative anche le numerose sequenze fotografiche e le opere su tela emulsionata che Granchi produce tra il 1970 e il 1975 e in particolare, proprio per il loro rapporto con la sequenza filmica, le rielaborazioni delle immagini preparatorie per i film È romantico esplorare. Il Settecento ritrovato (1969-70) e Discorso teorico sulla pittura (1974-1975). Successivamente, tra il 1974 e 1979, il discorso sul disegno del movimento approda ai suoi esiti più maturi attraverso l’uso della camera oscura dove l’artista realizza disegni fotografici basandosi su un unico negativo tenuto fisso e muovendo in modo controlla-

“Inizia a utilizzare anche la sequenza fotografica, sovrapponendovi scritture...”

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> Discorso teorico Della Pittura, 1975

to la carta o, viceversa, tenendo fermo il supporto e impressionandovi sopra decine di negativi. Il risultato è una sorta di cronofotografia potenzialmente infinita a cui l’artista darà il nome di protocinematografo. Un esempio di questi lavori è Svolazzo (1978), un ciclo di sette tele emulsionate variamente componibili con un disegno fotografico che non è altro che la traccia del trascinamento di un unico negativo raffigurante un angelo di Carlo Dolci ottenuto direttamente in camera oscura muovendo intenzionalmente la carta sensibile sotto l’ingranditore. Il culmine di questa ricerca è il ciclo intitolato Teoria dell’incertezza che comprende sequenze fotografiche ritoccate, ingrandimenti su tela emulsionata e film in 16mm e Super8. Con queste opere Granchi testa la possibilità di creare il movimento di oggetti immobili attraverso la manipolazione di diverse fonti di luce. Per quanto riguarda i lavori fotografici l’artista lavora sulla sedimentazione e la sovrapposizione di più negativi di una stessa scena, avvenimento o azione, puntando ad una con-

centrazione della sequenza su sé stessa creando così una sorta di memoria totale. “Tale procedimento intende creare una sorta di‘compressione’del tempo e dei molteplici gesti di un’azione in un unico‘fotogramma’in grado di evocare, nella creazione di una nuova immagine, una sorta di impronta ‘assoluta’capace di contenere tutte le altre. Una sorta di parafrasi del processo del pensiero in cui la mente accumula immagini che, nella ripetizione quotidiana e lo svilupparsi dell’esistenza e quindi dell’esperienza, tendono a sovrapporsi e contaminarsi”. Culmine del ciclo il film omonimo del 1978, un lavoro realizzato totalmente in macchina senza alcun montaggio, né taglio né sovrimpressione, ma solo con l’uso dinamico della luce e l’interposizione, tra scena e obbiettivo, di vetri e materiali in grado di deformare l’immagine senza muovere realmente alcunché. Il tema della sequenza è presente anche nei lavori più recenti dell’autore assieme al tema del rapporto tra luce e ombra che riemerge negli anni 2000 con il ciclo intermediale dei Disegni di luce.

“Testa la possibilità di creare il movimento di oggetti immobili attraverso la manipolazione...”

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novità editoriali di Domenico Russo

> Sono stata io. Diario 1900–1999

Artworks: Daniela Comani

I temi con cui Daniela Comani (1965, Bologna) dialoga maggiormente sono Storia, media, identità. Nuclei di un ragionamento articolato sui sistemi di trasferimento delle informazioni dai quali genera ulteriori considerazioni sugli stereotipi in atto nelle nostre vite. Non si limita quindi a una presa di coscienza, ma agisce indebolendo la base su cui poggiano convinzioni e pregiudizi. È un atto sovversivo ponderato, una sfida alla memoria collettiva che rivela le discordanze di pensiero. Tutta la sua ricerca è sorretta e sviluppata con metodo quasi scientifico grazie all’uso di linguaggi diversi quali la fotografia, l’estrapolare immagini da altri contesti, il disegno e l’installazione.

lino Ovest era come un’isola, racchiusa da un muro in mezzo alla DDR, cioè la zona est controllata dalle truppe sovietiche. La parte ovest invece era amministrata dalle truppe delle forze alleate che controllavano la città in 3 zone: americana, inglese e francese. Con il crollo del muro, il 9 novembre 1989, non è cambiato tutto da un giorno all’altro, la riunificazione delle due Germanie è avvenuta un anno dopo: il 3 ottobre 1990. Le truppe alleate si sono ritirate solo nel 1994. La Berlino di allora non era un centro d’arte internazionale come è oggi.Ad es. la prima fiera d’arte – Art Forum Berlin – si tenne nell’autunno 1996. Sicuramente questa presenza così insistente dei conflitti socio-politici della guerra fredda e poi della riunificazione è stata decisiva anche per i lavori che ho realizzato in seguito come Sono stata io. Diario 1900-1999.»

“Una sfida alla memoria collettiva che rivela le discordanze di pensiero...”

D. R. Berlino è la città dove lei ha scelto di vivere prima che diventasse una delle capitali mondiali del contemporaneo. Cosa voleva dire trasferirsi lì in quel momento? E come l’ha vista cambiare in questi anni? D. C. «Andai a Berlino per un semestre di studi nel settembre 1989 quando era ancora una città divisa. Ber-

THe INTERVIEW

I giornali, la TV, la pubblicità, il cinema, le immagini che ci circondano possono confluire nei suoi lavori, deco-

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“Il pensiero uccide l’ispirazione,lo stile vincola il pensiero, la scrittura ripaga lo stile.” (W. Benjamin)

> Un matrimonio felice

struite poi ricomposte danno vita a un diverso desiderio. Gioca anche tu! era appunto un gioco con cui lo spettatore poteva comporre la sua opera. Cosa suscita il suo interesse e in che modo lo sottopone al processo creativo che genera la nuova narrazione? «In Gioca anche tu! il soggetto del lavoro non è il puzzle stesso, bensì l’azione del comporlo, quindi il ruolo dello spettatore diventa fondamentale; l’intento era quello di coinvolgerlo, di farlo interagire con l‘opera facendogli costruire l‘immagine. La sorpresa nasce dal rapporto tra lui e quello che lui stesso compone. I motivi sono tratti da giornali quotidiani. La lentezza che occorre per comporre un puzzle interrompe/contrasta la voracità quotidiana del consumo quotidiano di immagini dei mass media.»

foto e articoli che ho raccolto nel corso del tempo. Da questo materiale cominciai nel 1999 a pensare di realizzare Sono stata io. Diario 1900-1999. Ho realizzato Archive in progress per poterlo presentare come evento al MAMbo in occasione del Giorno della Memoria 2015 (27 Gennaio – liberazione di Auschwitz), esposto in parallelo a Sono stata io che fa parte della collezione permanente. Ora sto lavorando ad una raccolta di immagini urbane del XXI secolo, una sorta di diario di viaggio fittivo che prevede sia un’installazione a parete che un libro.»

“Sto lavorando ad una raccolta di immagini urbane del XXI secolo, linguaggi e dei messaggi una sorta di diario Dei della nostra società ne modifica di viaggio fittivo...” gli assetti,invertendo la posizione

Cos’è l’Archive in Progress? E a cosa sta lavorando ora? «Archive in progress è un loop, una sequenza di immagini selezionate dal mio archivio di ritagli di giornali:

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interpretativa con un movimento impercettibile a prima vista fa si che, alcune grigie sfaccettature vengano rivelate per essere debitamente analizzate. Così penso a Daniela Comani’s 100 films, a Coverversionen o a Un matrimonio felice, al modo in cui la normalità oscilla quando i pregiudizi sono gli agganci conoscitivi principali a cui

THE INTERVIEW


> Daniela Comani’s 100 films > Daniela Comani’s 100 films

inconsapevolmente ci aggrappiamo. È corretto ritenere l’essere occidentali il presupposto della possibilità d’essere liberi, è realmente così? «Il nostro essere occidentali si configura anche attraverso un percorso di lotte per conquistare diritti umani e civili: diritti dei lavoratori, degli studenti, delle donne, diritti LGBT, etc... In questo senso, sì, libertà conquistate nel corso del tempo, passo dopo passo, pensiamo ad una delle tappe più recenti in Italia: l’unione civile tra persone dello stesso sesso. Nella serie di lavori da te sopra accennati cerco di capovolgere il nostro punto di vista sfidando la nostra memoria a favore di una reinterpretazione dei soggetti stessi, penso ad un Un matrimonio felice, work in progress iniziato nel 2003, una serie fotografica di scene di vita quotidiana di una coppia, dove io interpreto sia la moglie che il marito. Il livello performativo in questo lavoro è molto forte: è una messa in scena minimale, dove giocano un ruolo

decisivo gli stereotipi sociali. Oppure come nella serie Daniela Comani’s Top 100 Films e Novità editoriali fotografie di poster e di libri dove cambio leggermente i titoli dei film e dei romanzi, facendo uno scambio di genere: i protagonisti maschili diventano femminili, e quelli femminili diventano maschili, ad. esempio tra i film: Il gabinetto della dottoressa Caligari, Rocco e le sue sorelle, Pretty Man, e tra i libri: Le sorelle Karamazov, Monsieur Bovary, La vecchia e il mare, La piccola principessa, etc… I generi maschile e femminile degli eroi o delle eroine si scambiano l’uno nell’altro generando l’inversione dei loro ruoli. Il rimpiazzo è talmente accentuato da mutare le storie e anche il nostro atteggiamento in rapporto ai relativi film e romanzi. Il gioco di quell’inversione invita gli osservatori a interrogarsi sulle rappresentazioni di quei film, o di quei libri, non più blindati da una memoria storica ma fruibili perché rinnovati da un nuovo sguardo che trasforma ciò che tradizionalmente era dato per scontato.»

“Il gioco di quell’inversione invita gli osservatori a interrogarsi sulle rappresentazioni di quei film...”

THE INTERVIEW

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Kirkeby a Mendrisio di Stefania Dottori Il 2 ottobre verrà inaugurata al Museo d’arte di Mendrisio la personale dell’artista scandinavo Per Kirkeby. Un importante gruppo di opere degli ultimi trent’anni per ricostruire il lavoro di un grande artigiano del Novecento. Ne abbiamo parlato con Simone Soldini direttore del museo e curatore della mostra. Personalità complessa, geologo, scrittore, regista, artista. Si laurea in geologia artica per poi interfacciarsi all’arte, come fosse un modo diverso di elaborare dati, studiare rocce, fare ricerca tra i ghiacci. Scrive d’arte alternando poesia, continua la sua attività scientifica anche quando lavora sulla tela o con il bronzo. ‘Per Kirkeby è homo faber, un grande artigiano, oltre che un grande intellettuale; artista che negli ultimi trent’anni si è dedicato alla pittura con importanti incursioni nella scultura. Una produzione bronzea che dialoga con l’indefinito, riflette sul contorno – non contorno. Abbandona completamente, alla fine degli anni Settanta, una poetica eclettica, oscillante tra la ricerca di Beuys e la Pop Art, Fluxus e la pittura informale, per concentrarsi sulla natura, sull’osservazione della luce del Nord; fino a poco tempo fa era sua abitudine fare lunghi viaggi nell’Antartico, esperienze divise tra geologia e pittura.’ Come sottolinea Simone Soldini, direttore del Museo e curatore della mostra, Per Kirkeby è un uomo del fare, probabilmente anche per l’attitudine al viaggio, alla ricerca intesa come compenetrazione nel paesaggio e nella natura. La sua pittura sembra tradurre un processo di appropriazione della materia, un sentimento tattile. ‘Gli studi in geologia hanno influenzato molto la sua pittura gestuale che si traduce in motivi frastagliati a terrazza, i suoi quadri sono rocciosi, sono faglie che si aprono. La sua è una ricerca che ha bisogno di un tempo di contemplazione per essere apprezzata.’ Quello di Per Kirkeby non è un ambiente mediterraneo, non è arioso, ma è qualcosa che proviene dal Nord, dal sole freddo che illumina le rocce, i ghiacciai. Difficilmente si intravvede un orizzonte, più spesso lo spazio della tela è una parete in cui poter intuire stratificazioni geologiche, di millenni che si accavallano a comporre una cronologia terrestre. I suoi punti di riferimento si

possono individuare in area romantica, da Turner a Friedrich, ma riformulati dall’esperienza delle avanguardie del Novecento, dalla cultura concettuale tra gli anni Sessanta e Settanta, un importante passaggio della sua formazione è quando, nel 1962, si iscrive alla Scuola d’arte sperimentale di Copenaghen. Ma la produzione degli ultimi trent’anni sembra ritornare ad un alfabeto che vede la natura come qualcosa di caotico, forse difficilmente assoggettabile. Se la geologia è studio della terra, Kirkeby vede in essa un possibile contatto diretto, un corpo a corpo, dove il viaggio reale si trasforma in viaggio nella materia. È una cultura che risente della latitudine in cui nasce, che non nasconde il rapporto spesso difficile con la natura. Un rapporto di rispetto ribadito dalla necessità di analizzare i dati del tempo, le stratificazioni, le faglie della terra: dati per conoscere quello che ci circonda, minaccia o grazia che sia. ‘Le opere scelte sono comprese tra il 1983 e il 2012, un gruppo di tele di grandi dimensioni, trenta opere su carta e alcune sculture di cui una collocata nel chiostro del Museo. Questo anche per evidenziare una continuità tra la scultura e la pittura, per rimarcare quel tratto nervoso, dove i contorni si mescolano e appaiono indefiniti.’ Kirkeby è un autore ancora oggi poco frequentato dai curatori e dai musei italiani. Ricordiamo invece, tra le esposizioni più significative, anche due mostre presso la Tate Gallery di Londra, la prima nel 1998 e la seconda nel 2009, la personale alla Kunstsammlung Nordrhein – Westfalen di Düsseldorf, la mostre al Musée des Beaux Arts di Bruxelles, all’Arts Club di Chicago, alla Lenbach Haus di Monaco, allo Zendai Museum di Shangaiall Phillips Collection di Washington e le due grandi retrospettive al Louisiana Museum vicino alla sua Copenhagen. Quella al Museo d’arte di Mendrisio è la prima importante retrospettiva in area italiana dell’artista scandinavo, un modo di colmare una lacuna durata forse troppo tempo.

“La sua è una ricerca che ha bisogno di un tempo di contemplazione per essere apprezzata...”

Pagina a fianco: > Simone Soldini direttore del Museo d’Arte Mendrisio

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BAG GALLERY - Parma e Pesaro | www.bag-gallery.com aperture: giovedì, venerdì, sabato, domenica: dalle ore 16.00 alle 20.30 +39 338 14 04 626 | +39 366 19 77 633

GRAND TOUR

© BARTOLI CORNICI / Giuliano Ferrari

Giuliano Ferrari

inaugurazione: venerdì 14 ottobre 2016 - ore 18.00 BAG Gallery | Borgo Ronchini, 3 esposizione: 15 ottobre - 13 novembre 2016


PER KIRKEBY I luoghi dell’anima del grande maestro scandinavo 2 ottobre 2016 - 29 gennaio 2017 Museo d’Arte Mendrisio Piazzetta dei Serviti 1 CH - 6850 Mendrisio www1.mendrisio.ch/museo/

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stili e carta, a lugano di Gaia Conti Pagina accanto: > Luigi Belluzzi, ideatore di WopArt,Work on paper Fair, Lugano

Il 2 settembre è stata inaugurata a Lugano la prima edizione di WopArt, la fiera d’arte dedicata all’opera su carta. Dall’incisione alla fotografia, dal disegno al libro d’artista. Ne parliamo con Luigi Belluzzi, uno degli ideatori dell’iniziativa. G. C. A differenza di molte fiere di settore che seguono un approccio cronologico all’arte, voi avete scelto di considerare la materia, il supporto. Perché opere su carta? L.B. «La carta è il supporto per antonomasia. Scrittori, poeti, artisti vi hanno sempre appuntato idee e progetti. La carta ha sempre ospitato l’olio, il carboncino, la grafite, sulla carta si sono confrontati gli amanti della bella scrittura, gli incisori, e ogni grande artista è passato da questo tipo di supporto, da Tiepolo a Picasso, da Dürer a Christo, tutti si sono appropriati di questa forma di linguaggio, chi per preparare e chi per realizzare grandi opere d’arte. La carta interessa un collezionista colto, di nicchia, ma anche uno che si vuol avvicinare ai capolavori dei grandi maestri senza che i metri del commercio gli impediscono l’ingresso. Ma come in tutte le cose, alla base c’è una passione personale di chi ha intrapreso questo cammino che vede in questo settore un’affascinante mondo tutto da scoprire.» La carta offre una proposta ampia: disegno, incisione, fotografia. È anche un modo di approcciare ad un collezionismo duttile sempre meno fossilizzato su un unico tipo di linguaggio? «Wopart vuole esplorare e mettere in luce una serie di comparti da sempre giudicati minori rispetto a opere su tela, tavola, marmo o bronzo; un cammino che parte dall’arte antica per passare attraverso l’arte moderna fino al contemporaneo per sfociare in nuove forme di linguaggio, tra cui la fotografia. Gallerie

diverse tra loro, sia per tipo di collezionismo che di clienti, si ritrovano a condividere un supporto che le accomuna: la carta. Molti sono stati anche gli scambi commerciali tra le gallerie, alcune realtà collaboreranno su progetti comuni nei prossimi anni. Oggi lo scambio di informazioni ed il controllo mediatico di un sistema dell’arte, che si muove velocemente, è importante quanto conoscere nuovi collezionisti o vendere le proprie opere. Questi sono obiettivi che una fiera d’arte deve mettere tra i suoi fondamentali, in parallelo, come in questo caso, all’apertura di un nuovo mercato, un nuovo filone d’arte.» La scelta di una città come Lugano da cos’è stata dettata? Perché la Svizzera? «L’Hevetica è un carattere tipografico creato nel 1957 da Hoffman in Svizzera e nel 1989 diventa il carattere tipografico ufficiale per l’intera segnaletica di New York, dalla metropolitana ai treni, dai cartelli stradali alle mappe della città. Lugano con i suoi 70.000 abitanti, ospita oggi circa 80 gallerie d’arte. Questo è un dato importante, . che fa capire l’attenzione che la Svizzera dedica al mercato dell’arte grafica.Art Basel, la più importante fiera d’arte al mondo, è in Svizzera, migliaia sono i grandi collezionisti che vivono qui e che fermentano il mercato. La grande attenzione per il mondo della grafica, del disegno e della fotografia, fanno della Svizzera un polo di attenzione centrale per Europa. Oggi sono molti gli istituti bancari che appoggiano iniziative legate all’arte, che investono nel settore. La nascita del LAC, come polo catalizzatore dell’arte non solo in Ticino ma foriero di grandi mostre che possono coinvolgere tutta la Svizzera interna ed i paesi limitrofi, fanno diventare questo territorio la culla per ospitare un segmento fresco come quello delle opere su carta.»

“La carta è il supporto per antonomasia. Scrittori, poeti, artisti vi hanno sempre appuntato idee e progetti ...”

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reportage art



> Katsushika Hokusai, Hawk on a ceremonial stand, ca.1760 - 1849

Le giornate della fiera sono state accompagnate da alcuni talk in cui spesso si rifletteva sul collezionismo e, quindi, anche sul mercato dell’arte. Oggi siamo di fronte a collezionisti sempre più attenti, che conoscono valutazioni, andamenti d’asta e, soprattutto, l’oggetto del loro interesse. Come si deve muovere una fiera e quali strumenti ulteriori può fornire per incontrare questo nuovo tipo di pubblico? «WopArt è e vuole diventare nel tempo un punto di riferimento nel mercato delle opere su carta, momento di incontro per artisti consolidati, per gli emergenti, per gallerie, curatori e critici, per collezionisti e media in generale. I talk, le interviste, i dibattiti non sono altro che momenti di crescita e sviluppo di un mercato che segna il passo coi tempi, ma vivo e sempre attento a chi propone e si propone in prima persona. Conoscere artisti, capirne il percorso, valutarne le effettive prospettive aiuta i collezionisti a crescere, e il processo è direttamente proporzionale al consolidamento del mercato. Quindi il ruolo della fiera è quello di sviluppare un percorso culturale, essere fonte di conoscenza, pungolo alla curiosità, momento di incontri e di sviluppi

commerciali fuori dall’orto di casa. La conoscenza di nuovi collezionisti è e deve diventare il vero patrimonio che ogni galleria acquisisce in momenti importanti come questi.» Una serie di mostre collaterali hanno accompagnato il percorso delle diverse gallerie. Aurelio Amendola, i volti dell’arte; Omaggio a Roberto Ciccio: oltre l’immagine, solo per citarne due. Come sono state scelte e, soprattutto, per la prossima edizione sarà prevista anche qualche iniziativa esterna al polo fieristico? «Abbiamo stretto rapporti di partnership con la Biennale del Disegno, la Fondazione Maimeri, Amendola, la fam Ciaccio etc, il nostro comitato scientifico è già al lavoro per portare, anche nella prossima edizione, esperienze didattico-formative di primaria importanza. On o Off cambia poco, oggi il fuori salone è ancora un progetto prematuro, il passo importante è portare la fiera dal n° 0 di quest’anno al N°1 del prossimo anno. Per chi abbia voglia di avanzare idee e proporre progetti, il nostro comitato scientifico sarà ben lieto di analizzarli, valutarne la fattibilità per farli rientrare, eventualmente, nel programma di iniziative collaterali.»

“WopArt è e vuole diventare nel tempo un punto di riferimento nel mercato delle opere su carta...”

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BAG GALLERY - Parma e Pesaro | www.bag-gallery.com aperture: giovedì, venerdì, sabato, domenica: dalle ore 16.00 alle 20.30 +39 338 14 04 626 | +39 366 19 77 633

al di là dell’acqua

© BAG Gallery / Massimiliano Camellini

Massimiliano Camellini

inaugurazione: venerdì 23 dicembre 2016 - ore 18.00 BAG Gallery | Borgo Ronchini, 3 esposizione: 24 dicembre 2016 - 30 gennaio 2017


scritture di Christina Magnanelli Weitensfelder Una chiacchierata con il curatore e critico d’arte Walter Guadagnini, attualmente anche parte del comitato scientifico di WopArt 2016. Una riflessione sulla fotografia e il suo rapporto con altri tipi di scrittura. C.M.W. Lei proviene da studi storico artisti ed è stato a lungo titolare di una cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Quanto è importante conoscere la storia dell’immagine per riflettere e parlare di fotografia? W. G. «C’è stato un grande artista che quasi un secolo fa ha detto che l’analfabeta del futuro sarà colui che non sa leggere una fotografia, quindi la domanda si potrebbe anche invertire: quanto è importante conoscere le fotografie per parlare della storia dell’immagine...? Man Ray alla domanda se la fotografia fosse arte rispondeva che l’arte non era la fotografia.» In realtà, credo dipenda molto dall’approccio che si ha nei confronti di questo linguaggio, se si è interessati alla fotografia come evoluzione tecnologica della pittura, allora conoscere la storia dell’arte è fondamentale, ma è vero che questa è solo una delle tante possibili nature della fotografia. Ed è vero che la storia dell’arte non è la storia dell’immagine, è una parte della storia delle immagini. In realtà la fotografia possiede diverse sfaccettature. Fotografia sono i ricordi delle vacanze, fotografia sono i selfie che occupano le pagine dei social, fotografia è giornalismo, fotografia è divulgazione scientifica, fotografia può essere arte. Lei ha scritto Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo, come si è rapportato con l’eterogeneità del mezzo? «Ho cercato di evidenziare proprio questa varietà, pur rimanendo sempre all’interno di una storia autoriale, che io intendo come la storia di una fotografia che nasce per diventare pubblica, e proprio per questo è storicizzabile secondo criteri che appartengono alla tradizione. Anche della tradizione della storiografia artistica, oggi molto in disgrazia tra i teorici della fotografia. Ma è chiaro che non può esistere una sola storia della fotografia, esistono le storie delle fotografie, e ognuno di noi cerca di raccontarne dei pezzi. Questo però non mi fa cambiare idea sul fatto che le fotografie di famiglia o il selfie in quanto tali non siano una forma d’arte e non abbiano alcun interesse al di fuori della cerchia privata, fino al momento in cui non finiscono nelle mani di qualcuno che sappia attivarli, come è successo e succede con Sultan e Mandel, o con Lorna Simpson, Erik Kessels, Peter Piller... Oggi spesso la fotografia diventa un linguaggio ibrido, si vedano ad esempio le esperienze di alcuni giovani foto-

grafi italiani come Lorenzo Vitturi o The Cool Couple (di cui proponiamo un intervista su questo stesso numero). Qual è, secondo lei, la necessità di sporcare lo scatto? «Proprio per quel che dicevo prima, credo la fotografia sia sempre stato un linguaggio ibrido, è un linguaggio che si è sempre contaminato con mille altri. La fotografia ‘pura’ , che ha tenuto il campo fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del XX secolo, è solo una parte di questa storia, che per un certo periodo si è considerata l’unica onesta e degna di attenzione, demonizzando tutte le forme fotografiche ibride fuorché il collage, protetto dalla sua origine d’avanguardia. Dopodiché, è chiaro che oggi la contaminazione dei linguaggi è divenuta una prassi talmente diffusa in ambito artistico che sarebbe strano che non avesse toccato anche chi si esprime prevalentemente con il mezzo fotografico. Il tema credo oggi sia in effetti che cosa si intende per fotografia, mi pare che la domanda sottesa a questa nostra conversazione sia un po’ quella.» Lei ha anche curato un’antologia di racconti dedicati al fotografico. Che rapporto intercorre tra fotografia e letteratura o, più genericamente, narrazione? «Tra fotografia e letteratura intercorrono rapporti strettissimi sin dalla nascita del dagherrotipo, e sono stati fatti di recente molti studi sul trasferimento dei principi della visione fotografica all’interno della forma letteraria già nell’Ottocento, indipendentemente dalla presenza o meno di un soggetto o di un personaggio specificamente fotografico. D’altra parte, molti sono gli scrittori che hanno riflettuto sulla fotografia, come è noto, da Poe e Baudelaire in avanti. Le modalità di questo rapporto sono, peraltro, pressoché infinite, basta pensare a quanti scrittori hanno accompagnato con Ioro testi alcuni dei volumi cardine della storia della fotografia (Doblin e Sander, Kerouac e Frank, per dire), ma anche ai tentativi di costruire volumi in cui l’incontro tra parola e immagine desse vita a una nuova forma di narrazione (Breton con Nadja, o Agee e Evans, per rimanere agli esempi da manuale). Poi bisognerebbe citare I casi di scrittori che utilizzano la fotografia come contrappunto visivo, come Lalla Romano o W.G. Sebald; e qui siamo solo nel campo di un rapporto fisico tra pagina e immagine, dove la fotografia è visibile all’interno del libro e la parola si riferisce direttamente ad essa. Ci sono poi tutti i casi in cui la fotografia è il soggetto del libro, e sono ad esempio I racconti di Calvino, Cortazar presenti nell’antologia che ho curato, e che aprono altre prospettive ancora. Insomma, è un campo davvero sterminato, ma quando si parla di fotografia finisce sempre così...»

“Man Ray alla domanda se la fotografia fosse arte rispondeva che l’arte non era la fotografia...”

Pagina a fianco: > Walter Guadagnini

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la lirica e l’istinto di Cristina Casero > Artworks: Giulio Archinà La sensazione che proviamo di fronte alle immagini di Giulio Archinà è identificabile, in primo luogo, con un intenso stupore. Lo stupore che ci comporta la consapevolezza del fatto che il fotografo riesce a prendere queste immagini, indubbiamente affascinanti, volando su un deltaplano, con tutte le difficoltà, anche tecniche, che questo comporta. E stupore pure per la bellezza, l’intensità e la forza che la natura, in una terra per molti aspetti aspra e difficile come la Calabria, riesce a restituirci ancor più quando la ammiriamo da prospettive inedite, normalmente impraticabili, che ci consentono visioni originali. Non credo però che nel ragionare di queste immagini sia sufficiente fermarsi alla meraviglia che suscitano: la chiave di lettura adeguata per interpretare le fotografie di Archinà non è da ricercare in una dimensione puramente emotiva, sentimentale o tanto meno formale. L’operazione del fotografo è molto più complessa, profonda e di spessore. È un’operazione culturale. Infatti, per quanto queste fotografie siano ineccepibili dal punto di vista compositivo, visivamente limpide e cromaticamente vivaci, esse nascono da un desiderio di conoscenza approfondita, dalla voglia di stabilire un contatto diretto e non mediato con quella terra, di abbracciarla tutta con uno sguardo capace di accoglierla nella sua interezza e quindi hanno alla loro base una intenzionalità che potremmo definire di natura documentaria, certo nel senso più alto e completo del termine, senza che questo comporti

necessariamente la negazione di una dimensione estetica, anzi.Archinà ha, da tempo, imboccato la sua strada, definendo con precisione quelli che sono i suoi interessi, di natura quasi antropologica, e rispetto a quelli l’utilizzo della pratica della fotografia viene, potremmo dire, come logica conseguenza. Egli infatti non ha guardato alla natura, al paesaggio dall’esterno, per eleggerlo a tema prediletto, ma ha invece inteso l’uso del mezzo fotografico come ottimo strumento per comprendere compiutamente la sua terra.Archinà è calabrese e, vivendo da sempre in quella regione, ha maturato negli anni un interesse sempre più profondo nei confronti di quel territorio, con il quale ha deciso di confrontarsi, di misurarsi in un faticoso corpo a corpo. La fotografia aerea, realizzata con il deltaplano, non comporta affatto, come potrebbe sembrare, una presa di distanza; sul deltaplano, dietro a chi lo guida, in preda al freddo e agli agenti atmosferici, il fotografo è immerso nel paesaggio, entra quasi a farne parte: ogni fenomeno relativo a quel preciso luogo in cui si trova lo riguarda e lo coinvolge. In questa particolare condizione Archinà deve agire istintivamente, velocemente deve scegliere l’immagine che lo stimola, inquadrare e scattare, perché in un attimo tutto cambia; inoltre, la strumentazione è, per ovvi motivi, ridotta all’essenziale e in quella situazione è difficile poter cambiare l’obiettivo e altrettanto complicato regolarne

“L’uso del mezzo fotografico come ottimo strumento per comprendere compiutamente la sua terra...”

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Pagina accanto: > Rivoli di Mèlito, 14 dicembre 2014, ore 10.07, 792 m slm, latitudine: 37° 57’ 5.55”N longitudine: 15° 48’ 11.382”E Sopra: > Calanchi, 14 dicembre 2014, ore 9.59, 788 m slm, latitudine: 37° 57’ 27.558”N longitudine: 15° 55’ 4.098”E Pagine seguenti: > Confluenza, 26 aprile 2015, ore 8.38, 2836 m slm, latitudine: 38° 4’ 25.446”N longitudine: 15° 54’ 57.426”E > Riaffioramenti, 18 marzo 2012, ore 9.55, 837 m slm, latitudune:38° 18’ 18.9”N longitudine: 16° 16’ 25.524”E > Sbarco ad Africo, 2, 20 marzo 2010, ore 17.58, 276 m slm, latitudine: 38° 2’ 48.936”N longitudine: 16° 8’ 38.46”E > Anelli di mare, 15 agosto 2008, ore 10.31, 837 m slm, latitudune: 38° 74’ 15.66”N longitudine: 16° 15’ 45.55”E

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i parametri. In tali condizioni si annulla totalmente qualsiasi forma di distanza oggettivante e attraverso le fotografie che realizza l’autore ci restituisce, con immediatezza, la natura del suo personale rapporto con l’ambiente, la sua lettura dei luoghi, fondata su scelte che nella loro istantaneità trovano immediata e spontanea corrispondenza nella sua concezione del paesaggio, nella sua conoscenza dei luoghi a lungo frequentati. Ogni fotografia nasce da un sedimentarsi di saperi e sensazioni e si offre come un tassello di una più articolata narrazione. Nel solco della migliore tradizione del paesaggismo fotografico contemporaneo, che non si ferma mai alla mera trascrizione oggettivante del dato naturale, nutrendosi invece di spunti ben più profondi,Archinà ha raccolto molto materiale che si è tradotto in un compiuto racconto per immagini che rispecchia la ‘sua’ Calabria e che è stato realizzato nel corso dei decenni attraverso migliaia e migliaia di scatti. E oggi egli può accompagnare anche noi in un viaggio virtuale in quella regione, un viaggio inteso nel senso più pieno di questo termine, ossia come immersione nella natura, ma anche nella cultura, negli usi e nelle abitudini delle persone, un percorso che attinge alla dimensione sociale e antropologica, grazie a tutte le informazioni che si possono leggere nel territorio, sul quale l’uomo ha lasciato i suoi evidenti segni. Sebbene quasi tutta la produzione dell’autore sia riferibile al paesaggio, sarebbe dunque non solo limitativo ma anche fuorviante pensare a queste immagini nei termini di un paesaggismo tradizionale o, quanto meno, è necessario sgombrare il campo da aspettative oleografiche e toni da cartolina. Indubbiamente, gli scorci che le fotografie di Archinà ci regalano si presentano spesso come arabeschi di forme pure, come eleganti composizioni di segni, come espressive tensioni di luci ed ombre, ma nel suo lavoro l’immagine non si astrae mai dalla realtà, che non viene sublimata in qualche cosa che sia altro da sé. Le forme non hanno valore autonomo o metaforico, ma sono l’esito di un rapporto franco e diretto con il paesaggio, sono il lessico che dà vita ad un narrare certamente carico di intonazioni liriche e poetiche, ma mai astratto, invece attento a restituire il senso profondo del paesaggio, che è legato alla vita e allo spirito del luogo.

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> Ritratto a Venezia in Calle della morte, 2015

“Il quadrato non è una forma del subconscio. è la creazione di ragione intuitiva. Il volto della nuova arte. Il quadrato è un neonato vivo e reale. è il primo passo di creazione pura nell’arte.” (K. Malevich)

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> Pittura murale alla Xhouse di Seoul, per EXR

in principio era il numero di Domenico Russo > Artworks: 108 Mi piacerebbe mescolarmi all’enorme agglomerato scuro che si espande nei lavori di 108, al secolo Guido Bisagni (Alessandria, 1978). Forse sarebbe un rischio, ma vorrei immergere la mia mano oltre lo zero, per sentire al tatto il vuoto o il magma che si muove dentro.Triangoli mistici, cerchi perfetti, simboli talvolta alterati da una dominata invasione di forme colorate, spirituali quanto misteriose, queste opere sono figlie dell’arte intesa quale manifestazione del sacro. Ripudiare la figura, elemento cardine di qualunque street artist, è stata la decisione immediata e fondamentale di 108 a favore della pittura astratta, più adatta alla ricerca di una forma lontana da spazio e tempo. D. R.108 lei vive la strada e lavora per le gallerie. I murales e le tele l’avvicinano quindi a un pubblico variegato, palesando una nuova commistione di street art e pittura astratta. L’inizio di ogni storia contiene sempre un nucleo di verità pronta a prendere forma o a esaurirsi su se stessa, a volte invece è un peccato originario a segnare indelebilmente un cammino.Vorrei che mi parlasse del principio, chi era 108 all’inizio? 108:«Sono nato ad Alessandria nel 1978. Ho sempre disegnato ma in una piccola città industriale l’interesse per le arti visuali era visto come un problema e incontrare i graffiti è stato un modo per fuggire. Nel

THE INTERVIEW

‘97 mi sono trasferito a Milano per studiare design al politecnico, ho conosciuto le avanguardie, i testi di Malevich e di Kandisky,Arp e ho scoperto la mia passione per la forma pura. Ho eliminato lettere e figurazione e ho trasformato me stesso in una cifra impersonale. Non avevo mai visto nessuno farlo.» La pittura può essere utilizzata come forma di resistenza più efficace del writing o altri linguaggi che, negli ultmi 30 anni, si sono imposti come innovativi diciamo anche contemporanei? La street art stessa è in una fase storica nuova, depauperata dello spirito oltranzista che l’ha vista nascere. Che ruolo pensa abbia ora nella nostra società? «I graffiti , sono stati importanti per uscire da quel luogo e da quel periodo, ma ho sempre amato sperimentare. Il writing ha le sue leggi, è un mondo separato, se non si è iniziati è impossibile capire. Negli anni si è chiuso in se stesso e per certe cose più particolari è nata la parola:‘street art’.Adesivi, poster, stencil, ecc... oggi si è commercializzato tutto e si è trasformata in muralismo low cost.» Nei suoi lavori il nero è un varco denso, insondabile voragine di magma primordiale, un elegante strato di confluenza da cui si sprigionano contenute geometrie di colore. Sovrano di spazio e strato, il nero, quali simbologie nasconde?

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> Little circus, La cittĂ onirica, 2015,100x120 cm,Antonio Colombo Arte Milano


> Pittura murale, caserma abbandonata, Roma, 2015

«Le mie forme si sono sviluppate in luoghi abbandonati: mi serviva la semplicità, l’impatto. In oltre usare colori accesi in luoghi che per me avevano un fascino e una bellezza intrinseca enorme, era una mancanza di rispetto. Dipingere forme astratte e nere in quel periodo era il mio manifesto. Ho eretto un muro tra me e gli altri: io sono 108 e non sono un decoratore. Ho sempre trovato l’idea che fare arte volesse dire riqualificare deprimente. Il nero poi contiene tutti i colori, preziosissimi.» L’‘oscuro’, concetto astratto in grado di definire uno stato d’animo, un pensiero, un ambiente, una persona, ha a che vedere col suo lavoro? «Non sono una persona troppo solare diciamo e sono affascinato dal concetto di ‘parte oscura’ di Jung. Mi piace cercare di esplorare le zone nascoste, nel mondo, nel tempo o nella nostra mente. Però l’oscurità, non è un simbolo negativo per me: è un simbolo di introspezione e di distinzione, contro la superficialità.» I suoi lavori sembrano spesso luoghi, varchi spaziali, simili a zone parallele alla nostra realtà dove non si sa se è bene o meno entrarci. Delle volte appaiono, invece, come macchie residuali delle nostre coscienze contemporanee. Che rapporto ha con la città e che tipo d’interazione cerca con i cittadini? «Questa descrizione è perfetta.Amo osservare cose a cui nessuno fa caso.Vagando per anni in luoghi dimenticati si impara a conoscere la città in un modo più profondo. Lavoro per me stesso ma mi interessa l’interazione con i cittadini: ad esempio quando cercano di rendere il mio lavoro più comprensibile ai loro occhi, magari

aggiungendo delle facce alle forme. è li che penso di avere raggiunto il loro inconscio.» Quali sono le sue influenze, la musica che ascolta e il cinema che preferisce? «Ascolto di tutto: sono cresciuto con il punk-hardcore per poi andare verso le cose più strane. I miei ascolti vanno dal post-punk a Kalus Schulze a Bach Ho una passione per il rumore: industrial, noise, come lo vogliamo chiamare: Russolo,Throbbing Gristle, Maurizio Bianchi, roba giapponese. Il film Decoder è stato una grande influenza per me, anche per l’idea di fare arte (visuale, sonora...) in pubblico. Il cinema è forse la forma d’arte più completa: il Casanova di Fellini, Stalker di Tarkovsky, il Pasto nudo di Cronenberg e centinaia di altri. Mentre lavoro guardo/ sento molti documentari.» Ultimamente è stato all’estero, in che luoghi ha lavorato e che realtà ha incontrato? «Sono affezionato a tutti i luoghi in cui sono stato, alle persone che ho conosciuto, ma mi sento profondamente Europeo anche in questo periodo di decadenza . Mi piace trovare luoghi in cui ancora sopravvive il suo spirito, penso all’Europa centrale e orientale. Per lo stesso motivo forse amo anche l’Asia, in effetti si tratta dello stesso continente.» 108, cosa rappresenta questo numero? «108 è un numero sacro. Magico. Quando decisi di utilizzare un numero al posto di un nome stavo leggendo libri della cultura indù e avevo (ho) sempre con me un mala composto da 108 palline. è un numero importante per induisti e buddisti, ma lo era anche nella Grecia antica. Per me simboleggia un po’ il ruolo spirituale dell’arte ed è per quello che non l’ho ancora cambiato.»

“Dipingere forme astratte e nere in quel periodo era il mio manifesto. Ho eretto un muro tra me e gli altri...”

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MERCATO fotografico di Nicoletta Crippa Come ogni anno ad aprile riprendono i grandi appuntamenti con la fotografia con le aste indette da Christie’s, Sotheby’s e Phillips. C’era grande aspettativa da parte degli esperti, per questa prima sessione di mercato, dopo che le analisi del 2015 hanno rilevato una flessione.ArtTatic che da sempre conduce questo tipo di indagini, ha analizzato i risultati delle tre principali piazze New York, Parigi e Londra rilevando che il 2015 si attesti come il peggiore anno dal 2012. Rispetto al 2014 si è registrata una discesa clamorosa del 46%. In attesa delle valutazione del caso, che si potranno fare solo dopo la sessione invernale, analizziamo i top lot di questa stagione PrimaveraEstate 2016. Aprile 2016. Con i suoi 151 lotti Sotheby’s è stata la prima a mettersi in gioco raggiungendo un fatturato

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di $3.323,000. Sulle 112 opere vendute ( pari al 74%) 4 hanno superato i cento mila euro.Top lot sia della tornata di aste di aprile che di maggio, la monumentale fotografia di Helmut Newton Sie Kommen (Dressed) and Sie Kommen (Naked) aggiudicata ben oltre la sua stima iniziale, per 670,000 mila dollari. Newton era presente con 10 pezzi che nel complesso hanno totalizzato 891.250 mila dollari. Man Ray con Rayograph è stato battuto per $ 250,000; si tratta di una fotografia rara: un unico fotogramma che risale al 1924. Con 9 pezzi in asta e un fatturato di $ 341,875 Ansel Adams si dimostra ancora una volta fidelizzato al grande pubblico del collezionismo e con Yosemite Valley from inspiration point è riuscito a raggiungere 118,750 mila dollari.A conclusione troviamo un autore moderno come Philip-Lorca diCorcia che ha visto battere la sua W, March 2000, #12 per 106,250

ABout


Pagina accanto: > Thomas Struth, Kunsthistorisches Museum Wien, 1989, Chromogenic Print, 108x156,2 cm, firmata sul retro, stimata $100,000-150,000, venduta per $125,000 Image: courtesy of Phillips / Phillips.Com (Photographs New York Auction 6 Aprile 2016) Sopra: > Richard Mosse, Endless Plain of Fortune, 2011, Chromogenic print, 101,7x127 cm, firmata, stimata £8,000-12,000, venduta per £13,750 Image: courtesy of Phillips / Phillips.com (Photographs London Auction 19 Maggio 2016)

mila dollari. Phillips per la prima sessione fotografica del 2016 si è presentata con 264 lotti in parte provenienti da due collezioni private tra cui quella di Rita Krauss. Interessante la selezione del gruppo fotografico proveniente dalla Scuola di Düsseldorf; gli alunni dei Becher hanno complessivamente totalizzato $ 898,500.Top lot della sessione, Athens ($401,000) di Gursky: un’opera che rispecchia al meglio il concetto caro all’artista del micro dettaglio all’interno di una macro struttura.Aggiudicata per 125 mila dollari e $ 106,250 rispettivamente le opere Kunsthistorisches Museum Wien II di Struth e Jpeg NY06 di Ruff. Autore estraneo a questa scuola è Richard Prince; la sua Untitled (Cowboy) del 1993 è stata acquistata per 233,000 mila dollari. Interessare notare come in questa asta siano stati miscelati sapientemente artisti che hanno fatto la storia della fotografia a fianco a dei contemporary masters come Andres Serrano (Piss Christ venduta per 125,000 mila dollari). Christie’s pur con una percentuale del 65,5% di venduto si attesta però come la migliore in termini di resa del fatturato. Paul Strand e la sua The family

About

ha fatto lievitare i guadagni ottenendo 461,000 mila dollari. Grande attesa per Diane Arbus che nello scorso anno aveva visto perdere terreno nel rancking dei fotografi più quotati dal mercato: la sua rara stampa Boy with a straw hat waiting to march in a pro-war parade del 1967, stimata tra i 200 e 300 mila dollari, è stata battuta per $ 245,000. Hiroshi Sugimoto è stato uno dei grandi protagonisti del mese di aprile: presenza consistente anche da Phillips il 6 aprile per Christie’s sono state battute ben 13 opere che hanno totalizzato $ 656,750 con un picco di 233,000 mila dollari per Church of the light. Maggio 2016. Le aste londinesi del mese di maggio si sono tenute durante il Photo London. Risultati non esaltanti per le tre Major, soprattutto tenendo conto dell’alto numero di invenduti. Su un totale complessivo di 388 lotti battuti, la percentuale di unsold corrisponde a circa il 35%. Phillips è quella che ha ottenuto la miglior percentuale di vendita. Una selezione di 13 artisti, per celebrare i 100 anni di Vogue in Inghilterra, tra cui Nick Khight, Mario Testino, Peter Lindbergh, Sølve Sundsbø che rappresentano

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> Richard Prince, Untitled (Cowboy), 1993, Ektacolor Print, 40,6x60,6 cm, firmata sul retro, stimata $200,000-300,000, venduta per $233,000 Image: courtesy of Phillips / Phillips.Com (Photographs New York Auction 6 Aprile 2016)

quattro decadi della fashion photography. Black Pearl di Knight, battuta per 93,750 mila sterline è un pezzo unico in questo formato. Le cinque modelle Naomi Campbell, Linda Evangelista,Tatjana Patitz, Christy Turlington and Cindy Crawford protagoniste dell’opera di Lindbergh sono state aggiudicate per £ 68,750. Opera iconica quella di Masahisa Fukase, Raven: questa immagine fortemente evocativa, può essere letta come un autoritratto; fu stampato sulla copertina del suo Ravens Photobook del 1986. Unico autore però a superare le cento mila sterline è stato Peter Beard con Maureen and a late-night feeder, 2.00 am (£ 149,000).Ancora Peter Beard protagonista dell’asta a King Street di Christie’s.Top lot di maggio Heart Attack City è stato battuto per 434,500 mila sterline. Baltic Sea di Sugimoto, uno dei pezzo di punta, è stato acquistato per 266,500 mila sterline. Se si escludono questi due outsider, per via delle cifre stratosferiche raggiunte, l’asta non è stata in alcun modo ricca di colpi di scena. Solo Irving Penn e Robert Mapplethorpe sono riusciti a superare cifre degne di nota. Con una forte enfasi per il fashion e il glamour anche Sotheby’s.Al primo posto del podio Irving Penn con la sua Mouth (For L’oreal)

aggiudicata per 221,000 mila sterline. Sempre modelle e sempre Peter Lindbergh per Vogue Us al secondo posto con £81,250.Tra le tre Major, Sotheby’s è quella che ha visto il maggior numero di lotti invenduti: ben 53 su 134; un risultato abbastanza deludente se si considera i nomi dei fotografi rimasti per così dire a bocca asciutta:Vik Muniz,Thomas Ruff, William Eggleston, Cindy Sherman. Una sessione quella di maggio che più che regalare grandi emozioni, ha portato parecchie delusioni. Distici.

“Su un totale complessivo di 388 lotti battuti, la percentuale di unsold corrisponde a circa il 35%...”

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•The British Journal of Photography ha selezionato Ravens di Fukase come il miglior libro fotografico pubblicato tra il 1986 e il 2009.

Da citare la presenza di un italiano in un’asta internazionale: Massimo Vitali e il suo Negresco mare #2268 è stato aggiudicato da Phillips a NY, ad aprile, per $37,500. Keith Haring protagonista dell’immagine di Annie Liebovitz è stato battuto da Sotheby’s per la cifra di $ 93,750; il giorno successivo in un formato più piccolo Phillips ha venduto la stessa immagine per 22,500 mila dollari.

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Fotografia d’autore vendita on-line, Cornici per la fotografia d’autore, Passepartout museali e conservativi con taglio su misura a 45° Vetri invisibili con protezione ai raggi UV tagliati su misura, Noleggio cornici per mostre Consulenza per l’arredamento d’interni e sopralluoghi a domicilio Allestimento mostre, Stampa Fine Art, Laboratorio certificato Digigraphie Montaggi su Dibond, Stampa Fine Art accoppiata su Dibond + Plexiglass 42030 Vezzano sul Crostolo (REGGIO EMILIA ) T. +39 0522.605360 corniciefotodautore.com | info@corniciefotodautore.com facebook Bartoli Cornici


Sopra da sinistra: > Elisa Montessori, Sipario, 2012, acquarello su carta, 42x62 cm > Elisa Montessori,Vanitas, 2012, acquarello su carta, 42x62 cm

VANITAS di Christina Magnanelli Weitensfelder

Quella di Elisa Montessori e Raffaella Benetti è la storia di un incontro intellettuale, di ricerche simili che si studiano a distanze ravvicinate. Elisa Montessori ha alle spalle un percorso storicizzato che insiste su alcuni temi ricorrenti, declinati in diversi linguaggi e supporti. La carta e l’acquerello, la tela e il colore, rotoli trasparenti di veline delicate, libri che subiscono trasformazioni di stato, pagine bianche che diventano utili supporti per collage. Raffaella Benetti, più giovane anagraficamente, inizia la sua attività riflettendo sulla scultura, sull’istallazione, per poi dirottare il suo interesse sul linguaggio fotografico. Ed è proprio in quel momento che si stabilisce quella forza d’attrazione tra i progetti di Benetti e Montessori. Un’attrattiva da cui scaturisce una collaborazione, che vede la propria sintesi in un tòpos della storia dell’immagine: la vanitas. Progetti che si influenzano vicendevolmente, ma che mantengono la propria autonomia soprattutto nella diversità della materia esposta. Del tema della vanitas, degli emblemi che caratterizzano il genere, mantengono il fiore reciso: un corpo che ancora conserva i tratti della vita, in un momento ad di là della

sopravvivenza. Entrambe raccontano la storia di una trasformazione, di una decomposizione che, in alcuni passaggi, conserva ancora eleganza, compostezza, quell’equilibrio necessario alla bellezza. Montessori interviene su carte porose con l’uso di acquerelli: un colore liquido che intercetta quel momento di passaggio dall’essere al non essere. O ancora con colori ad olio su tele strappate, come fossero residui di un racconto più ampio. Benetti invece simula un’emersione da un monocromo nero, da una profondità di cui non ci è consentito di sapere nulla. L’oggetto emerge come se avesse ancora capacità vitali pur essendo reciso, pur essendosi allontanato, apparentemente, dalla vita. Due percorsi che guardano direttamente alla storia dell’immagine, ma non solo. Il punto di partenza è la vanitas seicentesca, la vanitas barocca, ricca di elementi che alludono alla caducità della vita. Quasi un ammonimento alla transitorietà dei piaceri terreni. Un tòpos, che nel corso del XVII secolo ha cambiato forma, rimodulando la propria fisionomia in relazione ai diversi committenti e alle diverse tradizioni geografiche. L’immancabile teschio che in alcuni episodi

“Una collaborazione, che vede la propria sintesi in un tòpos della storia dell’immagine: la vanitas...”

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tardi, si veda ad esempio Lo scrigno di Georg Heinz, si trasforma in oggetto decorativo, uno delle tante curiosità rare ad arricchire una già ampia collezione. Un tema, quello della vanitas, che nella prospettiva contemporanea di Benetti, subisce una sintesi radicale. Degli oggetti che caratterizzano le tele barocche viene salvato solo il fiore: un gambo spezzato, testimone di un tempo breve. La complessità di una storia sintetizzato nella decadenza fisica di un bulbo, di un petalo. Nella bellezza che ancora conserva. Nella drammaticità di un prossimo disfacimento. Montessori, invece, pur insistendo anch’essa sul tema floreale, mantiene aperta una connessione più duttile con la Storia, soprattutto nei lavori ad acquerello su carta. Ritroviamo il teschio, un sipario, un volto enigmatico di una scimmia. Però, anche in questi casi, gli oggetti che compaio sulla scena non sono mai più di due: è rispettata quella sobrietà e leggerezza che rifiuta l’accumulo forzato. Ma le sovrapposizioni culturali non si riducono alla storia dell’immagine, si allargano alla letteratura, alla musica. Da Stéphane Mallarmé con il poema Pomeriggio di un Fauno, alle sollecitazioni mozartiane, che in alcuni casi offrono il titolo ad alcune opere. Una cultura ampia, una variazione di un tema, di un tòpos. Un labor limae che non vuole ridurre la complessità di un’esperienza, ma proporne tracce necessarie, ripulite da inutili orpelli. La sintesi diventa funzionale al contenuto stesso. È come se l’accumulo barocco avesse oggi bisogno di una nuova forma ermetica, dove la declinazione di un solo elemento sostiene l’intero racconto. Spesso il fiore racchiude altri oggetti tipici della tradizione seicentesca. La filigrana trasparente di una foglia ormai scheletrica, o la liquidità di petali che ne rivelano la mortale trasparenza, possono alludere direttamente al teschio seicentesco, all’ammonimento per eccellenza. Ma di quella tradizione si abbandona la sottomissione dogmatica, il ricatto religioso. La vanitas per Montessori e Benetti non è più emblema religioso, si affranca da tale tradizione. Diventa una riflessione universale, con cui è inevitabile misurarsi: un passaggio, una trasformazione, il cambiamento del corpo, del nostro corpo. Ma in tutto questo rimane lo spazio per l’ironia, per una leggerezza che nella fotografia di Benetti si risolve in una danza, quasi una danza macabra, di fantasmi seducenti. Montessori, invece, propone accostamenti inaspettati, il viso di un giovane fanciullo e un rapanello rosso. Una combinazione ambigua, dove si evidenzia un mutamento di materia, una continuità quasi grottesca. Pur nell’eliminazione di alcuni oggetti della tradizione barocca, la presenza di un solo elemento sottende una tradizione complessa e multiforme. Due percorsi, come abbiamo chiarito, autonomi nella loro corrispondenza. Ma l’autonomia non è un valore assoluto, perché in arte è qualcosa di ibrido, che vuole e deve essere contaminata. È lo stretto legame con la Storia a sostenere il lavoro di Montessori e Benetti, la conoscenza delle immagini che le hanno precedute, di un percorso che non è evolutivo, ma che si muove a scatti, si guarda alle spalle, per proporre nuove sollecitazioni. Perché il tema della vanitas corrisponde alla storia dell’uomo, alle domande a cui, prima o poi, cerchiamo di dare una, seppur debole, risposta.

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> Raffaella Benetti, Calla, 2015, stampa fine art giclée a pigmenti di colore su carta Hahnemühle photorag 308gsm, 70,74x50 cm

“Fiori e frutti appaiono e si alternano sul fondo della notte, mescolando i bianchi petali che ondeggiano lievi e sfumano nel buio per poi disperdersi o accartocciarsi come inquiete e misteriose farfalle, e foglie ridotte all’essenzialità.” (S. Garbato)

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> Edwynn Houk Gallery, Art Basel in Basel 2016 © Art Basel

Art basel di Michael Sägerbrecht

Sono passati quarantasette anni dalla prima edizione di Art Basel, la fiera d’arte contemporanea che ancora oggi detta legge.Art Basel, a differenza di altre manifestazioni di questo tipo, non rivela il volume delle vendite, ma voci di corridoio sembrerebbero premiare un’ascesa incoraggiante.Alla fine è uno di quegli appuntamenti che stabilisce record, tendenze, bocciature, riscoperte. È lo spazio in cui le gallerie più importanti del mondo cercano di ristabilire o consolidare il proprio ruolo nei confronti di un mercato sempre più attento e invaghito dalle case d’aste internazionali. Anche l’Italia cerca il suo spazio con proposte, nella maggior parte dei casi, altamente competitive.Tra le gallerie italiane erano presenti Galleria Continua con lavori di Ai Weiwei, Michelangelo Pistoletto, Hans Op de Beeck, Daniel Buren, Loris Cecchini,Tornabuoni Arte con una monografica dedicata a Salvatore Scarpitta nella sezione Feature e un’istallazione di ventidue metri dell’opera Enciclopedia Britannica del 1969, nella sezione Art Unlimited. Sempre nella stessa sezione Galleria Lia Rumma propone un’istallazione di Gilberto Zorio e per la sezione Feature un attento

sguardo sulla progettualità di Ettore Spalletti. E poi ancora la storica galleria Massimo Minini di Brescia, la galleria romana Magazzino,A Arte Invernizzi di Milano, l’immancabile Galleria Massimo De Carlo, Galleria dello Scudo di Verona, Galleria Giò Marconi, Galleria Tega, Kaufmann Repetto. Da evidenziare la galleria di Londra Luxembourg Dayan con l’installazione di Jannis Kounellis Da inventare sul posto del 1972: una grande tela rosa davanti alla quale una ballerina si esibisce sulle note di un violinista che accompagna la danza. Un’operazione che sembra quasi andare al di là delle leggi di mercato, oltrepassare la soglia del vendibile, per riacquistare quello spazio di libertà che, anche una galleria, qualche volta sembra esigere. Art Basel sicuramente si conferma l’osservatorio più significativo d’Europa, ma non solo. Un luogo dove il mercato si confronta con una proposta, spesso, museale. E per chi avesse voglia di esplorare il territorio, e allontanarsi dal polo fieristico, una tappa obbligatoria rimane la Fondazione Beyler, alla fine un rimando quasi obbligatorio alla crescita di un’esperienza espositiva e collezionistica come quella svizzera.

“Art Basel si conferma l’osservatorio più significativo d’Europa, ma non solo...”

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reportage art


Sopra dall’alto: > ShanghART Gallery, Birdhead, Art Basel in Basel 2016 © Art Basel > Lisson Gallery, Tony Oursler, Art Basel in Basel 2016 © Art Basel

reportage art

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BAG GALLERY - Parma e Pesaro | www.bag-gallery.com aperture: giovedì, venerdì, sabato, domenica: dalle ore 16.00 alle 20.30 +39 338 14 04 626 | +39 366 19 77 633

VANITAS

© BAG Gallery / Elisa Montessori, Raffaella Benetti

Elisa Montessori, Raffaella Benetti

inaugurazione: venerdì 18 novembre 2016 - ore 18.00 BAG Gallery | Borgo Ronchini, 3 esposizione: 19 novembre - 19 dicembre 2016


Pagina seguente: > Offset, #59, 2014

> Offset, #42, 2014

le eco del passato di Gaia Conti > Artworks: Gáspár Riskó Un fotografo attento alle problematiche sociali e politiche del suo Paese, l’Ungheria, Gáspár Riskó avvia la sua carriera come fotogiornalista, ruolo per cui ottiene importanti riconoscimenti. Sotto la sua lente d’ingrandimento ci sono le radicali trasformazioni avvenute con il passaggio dal comunismo al capitalismo. Dopo una decina d’anni di ricerche decide di indirizzarsi verso la fotografia artistica mettendo in gioco una prospettiva più intima e personale che accosta

THE INTERVIEW

alla sua capacità di cogliere e astrarre i dettagli di tutto ciò che lo circonda. Inizia dunque a impegnarsi su progetti articolati ed eterogenei che mettono in relazione non solo i comportamenti dell’uomo allo sfruttamento dell’ambiente naturale, ma anche uno stile di pensiero indipendente ad uno usurato dal bombardamento mediatico. Il suo lavoro è presente in alcune collezioni pubbliche ungheresi ed è stato esposto in Austria, Svizzera,Turchia, Ungheria e Italia.

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Pagina accanto: > Impasse, Closed ironworks factory, Miskolc, Hungary, 2013 > Insight, #127, 2016

G.C.Ci può fare un qualche accenno su di lei e il suo percorso? G.R. «Sono cresciuto in un piccolo paese vicino a Budapest.All’età di 21 anni ho deciso di intraprendere la strada della fotografia e mi son trasferito a Sydney per frequentare la School of Visual Arts, influenzato anche dalla passione per le pellicole di autori stranieri tra cui: Francis Ford Coppola, Federico Fellini, JeanLuc Godard, Roman Polański,Andrej Tarkovskij, Béla Tarr e Lars von Trier. Una volta laureato son rientrato a Budapest ed ho cominciato a lavorare nel campo del fotogiornalismo e per una decina d’anni ho collaborato con il 168 Hours, settimanale ad indirizzo politico che ha uno dei migliori dipartimenti di fotografia della città. Nel 2011 un nuovo progetto mi porta a viaggiare attraverso l’Ungheria per esplorare zone a bassa densità abitativa o addirittura abbandonate. Ero particolarmente interessato alle trasformazioni sociali, geografiche ed economiche dovute al passaggio dal comunismo al capitalismo. Facendo un salto in avanti nel tempo di qualche anno, questa primavera ho avuto l’occasione di presentare per la prima volta il mio lavoro in Italia con una personale al MIA a Milano grazie alla TOBE Gallery di Budapest.» È un attento osservatore e riesce a conferire alle cose un significato nuovo alterando la percezione dello spazio. Cos’è che vuole raccontare con le sue immagini e come riesce a farle agire a quel modo? Si potrebbe quasi definire una via alternativa di espressione del sé. «Tecnicamente parlando l’utilizzo della fotocamera analogica con il cavalletto mi costringe a dilatare i tempi di esposizione dell’immagine.A questo si aggiunge che sono sempre stato un attento osservatore anche dei più piccoli dettagli. Mi emoziona convertire le sensazioni emotive in fotografia. Inoltre credo profondamente nel ‘triangolo magico’ che s’instaura tra lo spettatore, l’opera e il fotografo e cerco sempre di soddisfare questa condizione creando qualcosa che possa appartenere a tutti. Al giorno d’oggi siamo tartassati da un flusso incessante di immagini veicolate dai media, per cui sono maggiormente stimolato a catturare situazioni inusuali che portino la mente a rallentare.» La fotografia ha una storia ricca e affascinante. Quali sono stati i suoi punti di riferimento in fotografia e

come hanno influenzato il suo modo di pensare fotografico e il suo percorso? «Fortunatamente la fotografia ha una lunga tradizione anche qui in Ungheria. Negli anni mi ha colpito particolarmente il lavoro di Angelo Funk Pál, Brassaï, André Kertész e Gábor Kerekes.Vorrei menzionare anche alcuni fotografi stranieri che hanno giocato per me un ruolo centrale come Mario Giacomelli,Alexander Gronsky,Thomas Ruff, Lieko Shiga e Hiroshi Sugimoto.Probabilmente siamo tutti alla ricerca di risposte simili riguardo alle questioni della vita. Esteticamente direi che propendo per un approccio minimalista, penso che sia rintracciabile nel mio percorso interiore e per questo ritengo fondamentale avere una visione chiara di ciò che si vuol comunicare. Il mondo contemporaneo corre alla velocità della luce per cui è essenziale eliminare tutto ciò che è superfluo e ci distrae dai nostri obiettivi.» La sua fotografia ha spesso una missione politica. Parla della desertificazione del paesaggio dopo essere stato sfruttato dall’industria pesante. Dell’atmosfera surreale e di solitudine che si respira. Cosa ha portato la sua narrazione fotografica a prendere questa piega? «Dopo quarant’anni di comunismo, l’Ungheria si è trovata a dover scegliere il suo regime politico. Il capitalismo ha portato cambiamenti radicali negli standard di vita e nelle libertà individuali, ma nonostante ciò sono ancora frequenti i casi di corruzione che rendono ostica e non scontata la scelta del partito politico. Rispetto al periodo della cortina di ferro i problemi sono diversi, ma vanno affrontati altrettanto tenacemente. La sensazione di vuoto prodotta dai valori effimeri dell’epoca contemporanea è un aspetto che monitoro costantemente. Col tempo ho imparato a coltivare una maggior consapevolezza per non rimanere vittima di stimoli automatizzanti che annebbiano il senso vero della realtà. Di fatto è la paura a guidare la nostra società, per questo è necessario crearsi una visione il più indipendente possibile.» Sta lavorando ad un nuovo progetto? «In precedenza ho osservato e documentato le forme, le possibilità e le atmosfere esterne che rispecchiavano maggiormente il mio io. Di recente invece ho iniziato a creare degli spazi immaginari che accosto alla realtà e alterno ad autoritratti.»

“Credo profondamente nel triangolo magico che s’instaura tra lo spettatore, l’opera e il fotografo...”

THE INTERVIEW

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> commons.wikimedia.org/Alvesgaspar.Zscout370;CC.BY-SA 3.0

LIBERTà di panorama di Avv. Cristina Manasse è possibile pubblicare sui social media immagini di edifici e di opere d’arte situati in luoghi pubblici? E condividere immagini dei nostri viaggi all’estero con opere d’arte sullo sfondo? Nel numero autunnale del 2015 avevo accennato al dibattito in corso in Europa sulla libertà di ‘panorama’, ovvero quella eccezione alla tutela garantita dal diritto d’autore che permette di utilizzare immagini di edifici, sculture e monumenti situati in modo permanente in luoghi pubblici. Il Parlamento europeo aveva rigettato le proposte di riforma che avrebbero limitato tale diritto subordinando l’uso della immagine da parte di terzi all’autorizzazione dei titolari dei diritti. Contemporaneamente la commissione giuridica auspicava riforme del diritto d’autore europeo in grado di garantire un giusto equilibrio tra i diritti dei soggetti coinvolti, ossia i titolari dei diritti (es. l’architetto, chi ha in gestione il bene) e gli utenti/ fruitori. In tale contesto dunque, le leggi vigenti negli Stati membri non hanno subito modifiche. Di conseguenza gli stati europei possono decidere se adottare o meno il principio ‘libertà di panorama’ che permette l’uso gratuito di immagini. In molti stati tale principio era già adottato, ma non in Francia, Belgio ed Italia. Ricorderete che in Francia era sorto il tema dell’utilizzo delle riprese notturne delle Torre Eiffel, vincolate

dalle norme del diritto d’autore. Un problema simile si pone in Belgio: il famoso simbolo di Bruxelles, l’Atomio, situato al parco Heysel, è coperto da copyright sino al 2076, quando scadranno i 70 anni dalla morte di Andrè Waterkeyn. Di conseguenza, in assenza della eccezione libertà di panorama, l’uso di immagini dell’Atomio deve essere autorizzato preventivamente dalla società che lo gestisce. Il prezzo per l’uso delle immagini dipende dalla finalità dell’utilizzo (educativo, culturale, commerciale). I gestori hanno comunque previsto una eccezione: infatti, l’uso delle immagini è permesso qualora si tratti di fotografie scattate da privati e condivise su website e social media per scopi non commerciali. Novità a livello europeo? Si, lo scorso marzo la Commissione Europea ha aperto una consultazione al fine di raccogliere dati e informazioni sulla libertà di panorama e commenti sul possibile impatto di una eventuale ‘eccezione di panorama’ che permetta un uso commerciale o meno. La Commissione ha invitato tutti gli interessati al settore dell’economia digitale a prendere parte alla consultazione in modo da aiutarla a valutare la necessità di ammodernare le norme europee sul diritto d’autore, nel quadro della strategia per il mercato unico digitale. La consultazione rientra nello sforzo di considerare nuove forme distributive, che permettano di fare

“Gli stati europei possono decidere se adottare o meno il principio libertà di panorama.”

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DIRITTO E FOTOGRAFIA


riprese e condividerle. Sarà interessante conoscere il risultato della consultazione e capirne eventuali conseguenze sul piano legislativo europeo. Un’armonizzazione della normativa a livello europeo potrebbe avere un impatto rilevante sugli artisti, sui titolari di diritti d’autore ed utilizzatori di opere tutelate da copyright, in particolare per coloro che al momento operano in paesi che non ammettono alcuna utilizzazione commerciale e non commerciale di immagini di edifici e opere d’arte in luoghi pubblici. Potrebbe anche comportare una diminuzione delle royalties derivanti dalle riprese e scatti fotografici delle opere in questione. Nel frattempo, anche in Francia si è mosso qualche passo: lo scorso aprile il Senato ha votato a favore di una modifica per l’introduzione della eccezione di «libertà di panorama» nel sistema giuridico. L’eccezione permette alle persone fisiche di realizzare riproduzioni e rappresentazioni di opere dell’architettura e della scultura, situate in maniera permanente in strade pubbliche, escluso però qualsiasi tipo di utilizzazione di natura commerciale, anche indiretto. Numerose associazioni del settore hanno accolto favorevolmente questa presa di posizione del Senato, considerata come la miglior soluzione per garantire, con un approccio equilibrato, la certezza del diritto ed al contempo offrire agli autori di beneficiare del proprio lavoro. Per altri invece, la eccezione non sarebbe applicabile alle immagini condivise sulle piattaforme che prevedono il riutilizzo – anche di natura commerciale – delle immagini postate. In altre parole, una volta caricata l’immagine di un edificio sul social media, l’uso dell’immagine sfugge al controllo e la fotografia potrebbe essere riutilizzata anche per fini commerciali, a seconda di quanto previsto dai termini di utilizzo del sito, spesso accettati dall’utente dei social senza nemmeno essere letti. Il dibattito europeo è quindi ancora aperto ed in fermento. E voi, alla consultazione europea per il mercato unico digitale, avreste espresso parere favorevole alla libertà di panorama o al suo divieto? © Avv. Cristina Manasse, 2016. Questo articolo è per scopi informativi e non costituisce un parere legale.

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> Fabio Pradarelli, La città che va, 2015

indagini sul contemporaneo2 di Fabio Pradarelli

Colloquio con Mauro Galantino Mauro Galantino, nato a Bari nel 1953, si laurea a Firenze in composizione nel 1979. Si trasferisce poi a Parigi dal 1981 al 1983 entrando in contatto con gli studi di Piano, ChemetovDevillers per poi tornare a Milano e collaborare con Vittorio Gregotti dal 1983 al 1987. Inizia in quegli anni la sua attività professionale e didattica, insegnando prima a Ginevra, poi a Girona, Strasburgo, al Politecnico di Losanna, attual-

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mente è professore associato allo IUAV di Venezia. Ha inoltre pubblicato saggi critici su Ciriani, Gregotti, Michelucci, Braillard e un saggio sullo sviluppo urbano di Bath nel XVIII secolo, oltre a una monografia dedicata al museo di Struthof di P.L. Faloci. Una monografia sull’opera di Mauro Galantino, curata da Silvia Milesi, e stata pubblicata per i tipi Electa, Documenti di architettura nel 2010.

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> Mauro Galantino, Comune di Montebelluna, Liceo scientifico, 2013-2015, scala principale



> Mauro Galantino, ampliamento degli uffici Costacurta, esterni, 2003-2011

“Penso che noi dovremo fare non tanto l’architettura della città quanto la città dell’architettura, invertire i termini con la responsabilità di riprodurre uno spazio urbano.” (M. Galantino)

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F.P. Ho letto alcuni brani di una bella e nuova Edizione su Luigi Snozzi architetto; la sua figura e il suo lavoro sono presenti alla Biennale di Architettura attualmente in corso a Venezia; rispetto al tema di quest’anno (Reporting from the front) la presenza dell’opera di Snozzi, che si configura come un purista nel suo lavoro compositivo, mi ha fatto nascere inizialmente qualche perplessità; tuttavia analizzando meglio la sua esperienza e leggendo l’introduzione che ne fa Vittorio Gregotti: ‘è una testimonianza della mia lunga e solidale amicizia con Snozzi, della stima e della stabilità della sua architettura e del suo grande coraggio di fronte allo stato di crisi e di disorientamento dell’architettura dei nostri anni...’, tutto si chiarisce. A questo punto io ti chiedo... e mi chiedo… cosa vuol dire oggi fare architettura? M.G.«La prima questione sarebbe quella di riflettere sulla parola, perché ormai l’architettura è sempre abbinata ad un’altra parola… architettura del paesaggio, architettura della costruzione, architettura della città, architettura del patrimonio culturale... Parlando per esempio delle situazioni specialistiche della Facoltà di Venezia, grazie anche al preside della Facoltà Magnani, almeno la parola, nel suo significato più completo si è salvata. Questo è un tentativo per tenere in vita una parola che nessuno sa più, una parola che è formata da due componenti abbastanza semplici nella concezione (arché e tekné); da un lato c’è ciò che costruisce le cose che stanno insieme, dall’altra ciò che per sua natura è legato a ciò che si può immaginare e che viene plasmata dalla prima, con un evidente rapporto di pesi. In buona sostanza se non esiste la dimensione dell’arché non esiste di conseguenza nemmeno la seconda. La nostra preoccupazione oggi è di chiederci che spazio abbia nella cultura che noi viviamo, fatta di tante cose… non abbiamo più una cultura unitaria perché non abbiamo più di fatto una cultura che rappresenti una classe sociale dominante, essa esiste ma non si definisce più in quanto tale, esistono tutte le classi subalterne seppur senza una propria consapevolezza. Il nostro problema è quello che tutti oggi dissimulano qualche cosa per evitare di porsi delle domande profonde sulla dimensione culturale del proprio essere sociale a cui corrisponde una possibile risposta. Credo che, non abbiamo più a livello italiano ed europeo una chiarezza sulla nozione di ‘cultura condivisa’, che è ciò che ci spiega chi siamo e come possiamo essere migliori. Questa dimensione della cultura contiene e conteneva nel passato il posto dell’architettura come dimensione specifica dell’arte del costruire. Questo significava non il concetto dell’applicazione dell’arte nel costruire, ma del costruire con arte, costruire cioè con la consapevolezza di ciò che si fa, quindi nella consapevolezza di realizzare qualche cosa in cui si poteva abitare meglio. Come diceva Gregotti nel lontano 1966, noi a differenza di tutti gli altri operatori che possono essere assimilati agli architetti, costruiamo spazi per abitare,

come dato inconfutabile. Se noi oggi andiamo a Milano, che ritengo sia attualmente la città all’apice della situazione architettonica italiana e chiediamo di indicarci alcuni esempi di architettura, probabilmente non arriviamo al 1700… Un dato da non sottovalutare culturalmente… «Già nell’800 si è rotta quella dimensione univoca del riconoscimento del valore simbolico che si era costruito negli anni precedenti, quindi oggi noi stiamo inseguendo questa perdita di valore che nell’800 si è trasformata, rendendo difficile la condivisione collettiva del valore dell’architettura, per cui oggi alcune schegge dominanti pensano che l’architettura sia lo specchio di se stessi e della propria classe, ammesso che un concetto di architettura ce l’abbiano.» Vorrei tuttavia porre anche un altro problema, tu hai detto una cosa molto interessante riguardo al concetto di ‘costruire’; mi chiedo se questo concetto che tu hai un po’portato verso una globalizzazione a livello europeo non ci porti da un lato a dimenticare quelli che sono i linguaggi specifici e quindi gli elementi emergenti all’interno delle nostre città, che è poi la nostra tradizione del costruito. In sostanza quello che noi percepiamo dai media, da internet e dalla cultura generalizzata non ci porta poi fuori da una identità culturale e architettonica specifica? «… credo che quando si parla di identità si debba partire da una serie di elementi condivisi che individuano una cultura, che per quanto mi riguarda è una cultura europea, sulla base di trasformazioni e cambiamenti, entrambi nel bene e nel male. Libertà di movimento, di iniziativa e libertà di acquisire diritti, sono in sostanza il substrato… sempre in disequilibrio… dell’Europa stessa. Ma dove possiamo individuare un’architettura che parta da questi due grandi principi se non da quella del paesaggio e dalla qualità dell’abitare, una casa, una scuola…,per poter dire che stiamo costruendo una paesaggio abitato migliore di quello precedente?… e non è così scontato e facile come possa sembrare. Quindi identità come capacità di realizzare servizi che sono fondamentali per la socialità, dal tempo libero alla sanità, alle scuole all’abitare…è la ricerca della identità non tanto nel linguaggio ma nell’esperienza che ha cambiato la nostra vita. Il vero dramma di oggi sono emergenze autoreferenziali, come se architettura sia oggi solo quella cosa eccezionale che si fa con mezzi eccezionali e con budget eccezionali, mentre tutto il resto non si sa bene che cosa sia; ma tutto il resto è proprio tutto quello che il movimento moderno aveva teorizzato e che sta alla base di una architettura di una nuova società. O meglio quello che una società ritiene possibile migliorare...» ...Ti stai portando esattamente dove mi interessava arrivare… le situazioni non sono mai così‘casuali’, nel senso che proprio il tema della Biennale 2016 e specificatamente il Padiglione Francese, affrontano gli ambiti del costruire proprio nei termini che stai affrontando tu, ribadito nella presentazione del loro lavoro:‘… l’architet-

“Costruire con arte, costruire cioè con la consapevolezza di ciò che si fa...”

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> Mauro Galantino, Modena, Centro civico e religioso GesĂš Redentore, 2001-2008, interno

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tura apporta delle risposte semplici, adatte al contesto, condivise ed efficaci…’ «... devo comunque precisare che l’impostazione data dai media sulla Biennale 2016 e che non era certamente l’intenzione del curatore Aravena, era quella del dire occupiamoci di nuovo delle cose ‘modeste’, ma nel momento in cui queste sono le cose che si trovano di fronte il 99% delle persone, non sono più cose modeste, ma diventano un tema fondamentale…» … assolutamente... «... e diventa anche un tema estremamente ambizioso. Non quello delle emergenze che si alimentano solo di tecnologia e grandi budget, ma di recuperare quel mandato dell’architettura moderna che era il patto della trasformazione sociale per abitare quelle forme evolute storicamente. Chi voleva cambiare il mondo aveva bisogno di strumenti nuovi per poter costruire e abitare diversamente. Un buon esempio viene dall’esperienza dell’unitè d’abitation di Le Corbusier a Marsiglia, che nasce come operazione del governo per case in affitto e che torna oggi ad essere una comunità, in quanto è stato data la possibilità della proprietà esclusiva e che attraverso di essa (e quindi all’‘I care’) torna a rivivere. Questo ci insegna che attraverso la proprietà e il riconoscimento di un linguaggio architettonico di qualità, l’esperienza abitativa non è più temporanea ma destinata a durare nel tempo...» ... questa impostazione mi fa venire in mente il concetto di ‘megastruttura’o meglio struttura complessa, una esperienza che rivedo nei nostri anni di studio (mi riferisco agli anni settanta e primi anni ottanta)… «... infatti io ho ripreso questa ricerca…» ... appunto, l’ho ritrovata proprio adesso nel Padiglione Americano alla Biennale, che al di là della bellezza grafica delle rappresentazioni, presentava tre megastrutture in aree dismesse di Detroit, in cui‘l’edificio’comprendeva un blocco composto di numerosissime funzioni differenziate. «Sono cose che ho scritto molti anni fa, contrariamente al concetto di ‘città diffusa’ di Stefano Boeri e la tendenza sostenuta da Koohlas in cui tutto ciò che c’è va ben, gli americani di qualche anno prima seppur partendo dallo stesso principio, che poi si è rivelato una prospettiva troppo dispendiosa, hanno poi puntato su questo concetto della concentrazione. Lo vediamo negli anni della divisione dai CIAM del Team Ten, che ha cominciato a proporre strutture complesse, tema ripreso in seguito dalle esperienze radicali seppur in modo diverso. O disegniamo tutto un pezzo di città per ‘fare città’, o all’interno delle possibilità del progetto tu incominci a pensare una forma aggregante diversa dalla città pensata nel medio evo, come quando Wood fa Bath. La differenza è quella fra il mondo in un edificio e lo spazio urbano in un’architettura, il che significa far entrare lo spazio urbano nell’architettura.» … questo significa che l’insegnamento di Aldo Rossi è ancora attuale... «… se lo si legge attraverso gli elementi storici e emer-

genti, la ricetta funziona e gli elementi formano quello che lui chiama ‘l’architettura della città’... anche se penso che noi dovremo fare non tanto l’architettura della città quanto la città dell’architettura, invertire i termini con la responsabilità di riprodurre uno spazio urbano. Un insegnamento che uso alla rovescia, ma senza quell’insegnamento non ci sarebbe questa esperienza.» Ma fare una città con delle architetture che cosa vuol dire…ti riporto a Luigi Snozzi che diceva che tutte le volte che prendeva un incarico gli tremavano i polsi in quanto non sapeva se sarebbe stato in grado di farlo… vuol dire forse avere chiarezza compositiva? «... perchè un progetto sia vissuto positivamente… in modo consapevole…» ... noi facciamo cose che devono essere vissute... «... presuppone il fatto che questa capacità di riprodurre uno spazio pubblico sia al tempo stesso in rapporto con ciò che eredita, e soprattutto con ciò che gli sta accanto. » Parlando di spazio urbano nel senso più ampio del termine, ricordo l’esperienza di Olivetti a Ivrea, che attraverso la creazione di‘architetture’ha poi realizzato un ambiente‘confortevole’da vivere e da lavorare.. «… certo ma Olivetti aveva chiesto anche di mettere tasselli in una città che un po’ aveva e un po’ stava sviluppando… nella logica di quella modernità come nella città per 2 milioni di abitanti, dove uno disegna i tracciati urbani per poter fare delle belle architetture… noi stiamo parlando di un passaggio successivo...» ... per esempio? «Il microcosmo è La Tourrette più che l’unitè d’abitation di Marsiglia che è pensato come un pezzo tra tanti, mentre nella Tourrette tu hai un microcosmo che è esattamente come sono stati per secoli i monasteri, al tempo stesso autonomo e dipendente dal paesaggio... un fatto periurbano intorno a cui la città si sviluppa, proprio come un moltiplicatore di fatti.» ... mi pongo ora una domanda che coinvolge più direttamente il nostro lavoro oggi e soprattutto qui, in Italia; siamo noi in linea con quello che succede all’estero e in altre realtà internazionali? «... ma esiste anche una linea negli altri paesi?» ... appunto. «... esistono tante linee e purtroppo tra le grandi mancanze dell’Europa vi è proprio quella di non aver capito che l’Europa delle città è l’Europa del paesaggio; questo vuol dire investire ovviamente, per far convergere le risorse che si occupano della trasformazione del territorio e riconsiderare l’architettura come guida, come elemento organizzatore della trasformazione sia edilizia che territoriale, penso all’ospedale di Le Corbusier a Venezia… alla fine la soluzione la dà inevitabilmente l’architettura, non sulla base di criteri estetici regressivi ma di sistemi estetici ‘ospitali’, una accoglienza delle tecniche che rimane un tema centrale del movimento moderno.» Un tuo concetto di‘bellezza’direi... «... un concetto che avevano Loos, Gropius, Le Cor-

“Credo che quando si parla di identità si debba partire da una serie di elementi condivisi che individuano una cultura...”

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ATELIER 54

vineria stuzzicheria | fano, via cavour 54


busier… Nell’antichità non c’erano gli impianti che in qualche modo ti condizionano, quindi fare il ‘bello’ era molto più semplice…oggi non è più così, quindi la nostra capacità è proprio questa: non arroganza formale ma intelligenza oggettiva.» ... torniamo all’Italia... «… da noi quelli che lavorano così sono veramente in pochi… uno di questi è Renzo Piano, che è bravo nel fare quello di cui abbiamo parlato, pur non avendo nessuna visione paesaggistica o urbana o territoriale che intendo io, è bravissimo a fare manufatti che funzionano, in quanto la sua preoccupazione nasce da altre considerazioni… o altri come Francesco Venezia, anche se non più tanto giovane.» … architettura e paesaggio mi rimanda a Gregotti nel progetto dell’università di Firenze, anche se stiamo parlando di progetti di quasi quarant’anni fa, ma che non hanno alterato la loro contemporaneità… forse i problemi sono sempre gli stessi…

«... forse oggi gran parte degli architetti pensa agli edifici come dei ‘guantoni’ per percuotere l’attenzione scacciando a volte la forma dalla sua funzione e magari sognano una città fatta come l’Expo, dove tutto è eccezione con l’idea che questa eccezione produca qualità… in realtà questo produce solo una grande noia...» Un ultima cosa, mi riporto al discorso sulla bellezza che facevi tu prima… Branzi, personaggio interessante della cultura italiana, fa un discorso molto chiaro in merito, e oltre a teorizzare il concetto della liquidità del tessuto urbano...cosa per altro attualissima... ‘ciò che è brutto oggettivamente funziona male, anche negli oggetti primari...’ come a dire che un bello che funziona è quasi una sintesi assoluta delle cose... e questo vale soprattutto nell’architettura... «... sono d’accordo con te su questo, il problema della sintesi è come il prendere coraggio malgrado i cattivi esempi, cioè essere consapevole di ciò che si sta facendo.»

“Riconsiderare l’architettura come guida, come elemento organizzatore della trasformazione...”

> Mauro Galantino, Comune di Montebelluna, Liceo scientifico, 2013-2015, esterno

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PORTFOLIO


UGO la pietra di Nicola Pinazzi

Pagina accanto, dall’alto: >Abitare è essere ovunque a casa propria, Riconversione progettuale, 1979, attrezzature urbane per collettività , Triennale di Milano > Il sistema Disequilibrante, Immersioni 1968, uomosfera

> Artworks: Ugo La Pietra

“... il processo di riappropriazione... delle strutture urbane collettive che esprimono solo separatezza ed emarginazione.” (U. La Pietra)

Dalle avanguardie di primo Novecento all’Internazionale Situazionista, dall’arte concettuale all’artigianato locale, dall’Architettura Radicale a Umberto Eco: lenti culturali con cui studiare il percorso dell’architetto Ugo La Pietra. Una piccola utopia come vedere una poltrona di Gio Ponti, un tavolino di Achille Castiglioni fuori dal solito bar è forse l’ultimo sogno che ha fatto questa notte l’architetto La Pietra; oggetti la cui destinazione d’uso è legata alla sosta, al dialogo con un altro individuo in uno spazio per definizione domestico. In qualsiasi città contemporanea una coppia di poltrone con un tavolino non possono arredare uno spazio pubblico: è logico, nella larghezza media di un marciapiede, ne impediscono completamente il passaggio. Ugo La Pietra affianca così il concetto di costruzione della città a quello di costruzione di una società, operazioni affini di cui ne denuncia l’incomunicabilità contemporanea. Fin dagli anni Sessanta riflette sulla rappresentazione planimetrica della città, il corrispettivo tra un disegno, un segno, e la sua concretizzazione in Architettura: trova rigida e determinata l’impostazione della scena urbana e trova standardizzato e sintetico il comportamento delle persone che la abitano.Alterna quindi un procedimento artistico ad una progettazione urbanistica su lar-

ga scala: si domanda se comprendere il territorio e una socialità dall’alto di un aereo o pensarla in scala umana nel rapporto tra opera d’arte ed osservatore. Un’impostazione che La Pietra comprende e acquisisce, forse, in quei due bicchieri di vino al bar Giamaica in zona Brera, o forse nelle riflessioni con Fontana, Manzoni, Sordini, Castellani, Dadamaino sul valore di un segno su un pezzo di carta, il suo significato intrinseco e la sua comunicazione. Tuttavia è una contrapposizione in sintonia con il ventennio postbellico 50’-60’ in cui il rapporto autore-operaambiente è oggetto di riflessione e critica per il mondo dell’arte: una contestazione artistica e politica dei decenni precedenti.Vengono rifiutate le tecniche e gli stilemi tradizionali: Fontana negava i limiti della tela, La Pietra criticava i limiti dello spazio pubblico, l’architettura del paesaggio urbano. Trasforma quindi la linea in una somma di punti, e lo spazio un’infinità di punti che per sottrazione, interpolazione e slittamento dei segni danno forma ad infinite texture; a variazioni randomiche, come le definì Gillo Dorfles, che cercano di scardinare quel modello a griglia urbana alla ricerca di quei gradi di libertà ancora possibili per la ‘Vita nella città’. Ugo La Pietra distingue con ordine la forma della città dal suo contenuto, le persone.

“Ugo La Pietra distingue con ordine la forma della città dal suo contenuto, le persone...”

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Pagina precedente: > Abitare è essere ovunque a casa propria, interno/esterno, 1970-1990, La casa aperta

“...rottura del rapporto interno-esterno, per indicare che la qualità della vita deve passare dall’abitare privato all’abitare nello spazio pubblico.” (U. La Pietra)

Così, tramite la plasticità della scultura, studia il reale rapporto tra uomo e ambiente indagando l’origine della relazione formale: l’architettura. Crea oggetti, microambienti e cala l’uomo all’interno di questi spazi: performance che sviluppano il rapporto tra la forma e la percezione di questa attraverso l’utilizzo del suono, la luce, il colore, l’odore e il tempo. Per dare forma a queste ambientazioni sceglie il materiale acrilico trasparente in modo che in ogni modificazione della superficie risulti evidente il rapporto tra le parti e il tutto, tra il contenuto e la sua scatola. Una relazione di cui ne studia i diversi aspetti come la costruzione prospettica di uno spazio pubblico – Coni di proiezione, 1967 – le azioni individuali in una struttura collettiva – Caschi sonori, 1968 – l’utilizzo di nuove tecnologie per spazi pubblici – Emergenze urbane, 1970 – le politiche sociali con futuristici oggetti per la creazione di processi partecipativi – Casa telematica: cellula abitativa, 1972, Il videocomunicatore. Costruisce uno strano oggetto: Il commutatore. Un elemento performativo che La Pietra offre ‘all’uomo della strada come all’architetto, al sociologo come all’urbanista’ per analizzare la struttura urbana. Uno strumento che si basa sulla ‘riflessione dell’osservato e sulla formalizzazione di queste riflessioni’ per distogliere l’attenzione dai nostri percorsi quotidiani scanditi da segnali a cui uniformiamo automaticamente i nostri comportamenti: la segnaletica stradale, la fermata del bus, le recinzioni delle case, il cordolo del marciapiede. Si assume quindi responsabilità politiche criticando il sistema di potere che ha governato e allattato le nostre periferie: crede che l’industria, e i suoi progettisti, deb-

bano avere il medesimo rispetto per l’ambito pubblico che riservano alla commercializzazione del benessere, alla qualità della casa, alla sua ergonomia e alla sua semantica. Ovviamente a questa critica l’architetto La Pietra risponde trasformando i paletti di delimitazione stradale in oggetto di design, da strutture di servizio della città a strutture di servizio per lo spazio domestico. Delimita quindi l’area del suo letto con paletti catarifrangenti e svolge una pratica sociale di massima privacy ambientale, il sesso, libero e senza fronzoli. è con la retorica dell’arte che porta una pratica sociale e un design, destinato all’abitazione privata, in un contesto pubblico creando una semantica da incrocio stradale. Lo urla e ne fa un film, Abitare è essere ovunque a casa propria! Vuole superare, rompere la barriera tra spazio privato e spazio pubblico con la serie casa aperta1970-1990 in cui ‘allude alla rottura del rapporto interno-esterno, per indicare che la qualità della vita deve passare dall’abitare privato all’abitare nello spazio pubblico’: le facciate delle case sono allestite con luci, decorazioni, oggetti quotidiani in cui ci riconosciamo. Ugo La Pietra ci dimostra che le persone e la relazione con l’habitat sono i parametri di giudizio delle nostre città e della pianificazione passata e attuale. La cultura dell’abitare è un aspetto ancora contemporaneo e lo sguardo di Ugo La Pietra su tale argomento, più che eclettico, può essere definito olistico. Ripensa l’architettura della sua città in termini di sostenibilità sociale e ambientale in una economia basata su emozioni quotidiane.

“Le persone e la relazione con l’habitat sono i parametri di giudizio delle nostre città...”

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> Abitare è essere ovunque a casa propria, scatole in ceramica, interno/esterno, 1977-1999, scatole in ceramica

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> Abitare è essere ovunque a casa propria, scatole in ceramica, interno/esterno, 1977-1999, scatole in ceramica

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“Uno strumento di conoscenza...realizzato in un momento in cui il cosiddetto ‘design radicale’realizzava oggetto evaasivi utopici.” (U. La Pietra)

> Il sistema disequilibrante, Il commutatore 1970




Pagina seguente: > Ritratto, Il sistema disequilibrante, Immersioni 1968, Caschi Sonori

> Il sistema disequilibrante, La casa telematica: la cellula abitativa, 1972,Il videocomunicatore, Informazione audiovisiva dalla casa alla cittĂ e viceversa




“È significativo che, ad un dato momento ‘storico’ il cammino delle ricerche scientifiche (psicologiche, biologiche, fisiche) si incontri con quello dell’arte (che è poi in definitiva un’esperienza creativa basata sopra fattori percettivi, sia pure sotto un’angolatura più irrazionale ed emozionale di quella della schiena).” (G. Dorfles,‘Ugo La Pietra: Le strutturazioni tissurali, 1964’)

> Strutturazioni tissurali, opere, multipli, modelli ambientati, 1967




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#AImagazine - The Art Review. no.74 Fall 2016. Fondato nel 2006 In vendita in edicola a eu 5,00 (IT) e su abbonamento. Direttore responsabile Alberto Bevilacqua Direzione artistica Andrea Tinterri e Nicola Pinazzi Contributors: Cristina Casero, Gaia Conti, Nicoletta Crippa, Jennifer Malvezzi, Cristina Manasse, Fabio Pradarelli, Domenico Russo, Michael Sägerbrecht Contatti #AImagazine Editorial | relations.aimag@gmail.com Abbonamenti | subscribe.aimag@gmail.com Advertising | c.weitensfelder.aimag@gmail.com Web & Social web site – www.aimagazine.com facebook – AI magazine twitter – AImagazine pinterest – #AImagazine Copia digitale – issue.com/gretaedizioni Redazione Greta Edizioni Via Passeri 97 – 61122 Pesaro Stefania Dottori T (+39) 0721.403988 Public Relations BDG Press pr.bdgpress@gmail.com Questa è una pubblicazione eco-friendly, stampata su carte prive di acidi, utilizziamo solo inchiostri con pigmenti ad acqua. La carta è certificata per l’antideforestazione. Stampatore Graffietti Stampati snc Distribuzione Italia: Messinter Spa Via Campania 12 – 20098 Milano Distribuzione Svizzera – Canton Ticino: A.I.E. Agenzia Italiana di Esportazione Via A. Manzoni 12 – 20089 Rozzano (MI) Proprietario ed editore BILDUNG inc. Presidente e amministratore delegato Christina Magnanelli Weitensfelder Crediti fotografici Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Per le immagini senza crediti, l’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza riuscire a reperirli, è ovviamente a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti. Immagine di copertina Franco Summa, Pastor Angelicus, 2008 (part.)


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