IT € 12,00 - AUt € 15,50 - BE € 15,50 - lux € 15,00 - pte cont. € 13,50 - uk £ 17,00 - e € 13,50 - CH Chf 18 - CaD $cad 22,00 - D € 13,50 - Nl € 16,00 - usa $ 21.00 ( south korea - greece - taiwan - hungary )
- l’aperitivo illustrato - art, photo & more No.64 - winter 2014 - Italian / English
L’APERITIVO ILLVSTRATO
-
the
unconventional
magazine
-
> Silvia Camporesi, Bianca, 2010, C-print, 70x50 cm
No. 64
L’Aperitivo
Turquoise Blue,_The Inspiration
Illustrato
Infinita ispirazione about
|
by
Christina
Magnanelli
weitensfelder
- Infinite inspiration -
I
l termine “ispirazione” può facilmente far pensare ad un artista. Egli, colto da “ispirazione”, si mette al lavoro per tirar fuori la sua visione dalla pietra, per imprimerla su tela, per codificarla in musica, tradurla in parole o in qualsiasi altra maniera gli sia possibile. Però, a pensarci bene, ognuno di noi lo fa quotidianamente, anche se in forma più limitata. L’ispirazione è in fondo la nascita di un’idea nella nostra mente, un qualcosa di inconsueto a cui sentiamo di dover dare attenzione. L’artista, costantemente concentrato sulle proprie idee e pulsioni, è allenato e pronto. La sua mente è un’antenna più potente di quella della persone comuni, per cui ha visioni più chiare, alle quali poi applica la propria arte, anch’essa addestrata e vigorosa. C’è chi pensa che l’artista riesca, a differenza delle altre persone, a varcare i limiti del proprio corpo e della propria mente per attingere a qualcosa di superiore (qualcuno direbbe divino), qualcosa che esiste già ma che normalmente non percepiamo. Oppure si può pensare che l’ispirazione sia un processo del tutto personale e interno al proprio “io”, un viaggio nell’intimità della propria psiche. Tanto più è nascosto il luogo che si va a visitare, tanto più sarà evocativa l’opera risultante. In effetti potrebbero essere vere anche entrambe le ipotesi. Di sicuro le esperienze personali, tutte, nessuna esclusa, ci formano e ci rendono ciò che siamo, nel bene e nel male. Ma sono anche convinta che una parte della nostra personalità, del nostro “essere”, provenga da qualche altra direzione. La genetica ha di sicuro la sua importanza, ma bisogna andare un po’ più in là, spingersi un po’ più oltre. Il nostro corpo è solo un veicolo, uno strumento terreno, vincolato al nostro spaziotempo. La mente, invece, può andare ben oltre, varcare i confini fisici che limitano il suo involucro. La fisica quantistica è arrivata a comprendere che tutto lo spazio esiste nello stesso punto, e che tutto il tempo esiste nello stesso istante. Di fatto, entrambi, non esistono. Ma allo stesso tempo tutto esiste simultaneamente. Infiniti universi, infinite dimensioni. L’emisfero sinistro del nostro cervello “vede” il tempo, quello destro lo “spazio”. Insieme formano uno strumento percettivo ben superiore a qualsiasi aggeggio tecnologico. Di solito non lo sappiamo usare, ma ne siamo provvisti. È possibile che qualcuno, inconsciamente, lo utilizzi un po’ meglio degli altri, e che per questo sia in grado di fare “arte”? È possibile che ciò che noi definiamo “arte” sia un ponte tra l’adesso ed un altro istante, tra il qui e l’altrove?
~ The term “inspiration” probably makes you think of an artist. Seized by “inspiration”, the artist starts working to extract his/her vision from stone, to impress it on canvas, to codify it in music, to translate it into words or any other way they can. But thinking about it, each one of us does this daily, even if in a more limited way. Inspiration is basically the birth of an idea in our minds, something unusual we feel we have to take notice of. Artists, who are constantly concentrated on their ideas and impulses, are well-trained and ready. Their minds are a more powerful antenna than those of common people, so they have clearer visions, to which they then apply their art, which is also well-exercised and vigorous. Some people think that artists, unlike other people, are able to move out of of their bodies and minds to reach something superior (some would say divine), something which already exists but we do not normally perceive. Or we might think that inspiration is a wholly personal process within the “ego”, a journey into the intimacy of the individual psyche; the more hidden the destination of the journey , the more evocative the resulting work. Actually both hypotheses could be true. One thing is sure: all personal experiences, excepting none, shape us and make us what we are, for better or for worse. But I am also convinced that part of our personalities, of our “being”, comes from somewhere else. Genetics certainly has its importance, but we have to go beyond that, to push ourselves further. Our body is only a vehicle, an earthly instrument, bound to our specific space/ time. The mind on the other hand can go way beyond this, can cross the physical confines which enclose its shell. Quantum physics has achieved the understanding that the whole of space exists at the same point, and that the whole of time exists at the same instant. Neither of them actually exist. But at the same time everything exists simultaneously. Infinite universes, infinite dimensions. The left hemisphere of our brain “sees” time, the right side “sees” space. Together they form a tool of perception far superior to any technological device. Usually we do not know how to use it, but we do possess it. Is it possible that some people unconsciously use it a bit better than others, and for this reason are able to make “art”? Is it possible that what we define as “art” is a bridge between the now and another instant, between the here and the elsewhere?
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Turquoise Blue,_The Inspiration
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Illustrato
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Turquoise Blue,_The Inspiration
Illustrato
contents ART
«E
+
PHOTO
d’un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione». (alex
-
Malcolm
McDowell,
Arancia
meccanica)
- «But suddenly I viddied that thinking was for the gloopy ones and that the oomny ones use, like, inspiration». (Alex - Malcolm McDowell, Clockwork Orange) -
10 Photography IS A PHOENIX about photo | by Pio Tarantini
21 Abstract anthologies: Wassily Kandinskij exibit | by Laura Migliano
12 Yes, Art Knows... interview | by Christina Magnanelli Weitensfelder
22 The mathematical artist interview | by Ivan Burroni
13 Show don’t tell about photo | by Stefano Riba
23 Tilson and the eternal dream of art exibit | by Michele De Luca
16 Works of art: their use and appropriation. about photography and law | by Cristina Manasse
25 At the origins of the earth exibit | by Luca Magnanelli
17 The dissolved object exibit | by Giacomo Croci
25 Graceful insipirations profile | by Giacomo Belloni
19 The rise of photography on the contemporary market about photo | by Alessia Zorloni
26 Diabolic eroticism think | by Salvatore Mortilla
20 Death and rebirth think | by Gian Ruggero Manzoni
29 In the world of Sirio exibit | by Maria Stefania Gelsomini
21 Beyond physics there’s us about photo | by Luca Magnanelli
30 Portfolio Silvia Camporesi
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Masha Ru, Evening in a Missionary School, 2011, photography, mixed media, 100x75 cm
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Illustrato
contents lifestyle
&
more
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Silvia Camporesi, Journey to Armenia, 2012, 38x52, fineart, Courtesy Photographica fine art Gallery, Lugano (Switzerland)
46 Allow me to introduce the Castiglioni family interview | by Roberto Palumbo
56 The changeable brain exibit | by Laura Migliano
50 Detailed inspiration think | text and images by Benedetta Alessi
57 Baselworld 2014 and the show begins exibit | by Roberto Palumbo
51 A sculpture by Frank Owen Gehry profile | by Brian Midnight
58 “It’s a strange world” profile | by Roberto Palumbo
52 Rationalist architecture exibit | by Marianna Accerboni
62 Dead Can Dance - Spiritchaser profile | by Brian Midnight
54 Luxury British sports car: CC100 Aston Martin profile | by Michael Sägerbrecht
63 The AGENDA must-see art shows exibit | by Adele Rossi
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Bill Viola,The Raft, 2004, video sound installation
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L’Aperitivo
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Illustrato
La fotografia è un’araba fenice about
photo
|
by
PIO
TARANTINI
- Photography is a phoenix -
N
Elliott Erwitt, Managua, Nicaragua, 1957, Gelatin silver print, printed 1974, 34.2×23.2 cm (13 1/2 × 9 1/8 in)
1 Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Torino 1979, ristampa 1994.
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ei giorni in cui scriviamo queste note, ai primi di novembre del 2013, il famoso fotografo Steve McCurry, dopo un’apparizione televisiva in una tra le più ambite trasmissioni di intrattenimento culturale della televisione italiana, si è presentato a Milano per una conferenza in una sede istituzionale scatenando una ressa incontenibile e un tifo da stadio: viene da pensare che qualcosa di importante è successo negli ultimi anni nel mondo della fotografia, non soltanto italiana. Il famoso fotografo idolatrato come una Rock Star è un segnale sociologico di tutto rispetto: indica non solo che la fotografia è trattata alla pari di altre, più consolidate, forme d’espressione, ma che ha raggiunto un pubblico molto vasto, debordando dai ghetti specialistici che l’hanno contraddistinta. Un altro segnale importante viene dall’imprevisto successo avuto fin dall’esordio, nel 2011, di MIA Fair, la Fiera internazionale di fotografia d’arte, successo poi consolidato negli anni successivi, tanto da spingere Fabio Castelli, suo ideatore e realizzatore, a esportare la manifestazione all’estero con la futura edizione di Singapore, nell’autunno del 2014. Sono dati in evidente contraddizione con quanti da tempo discettano sulla fine della fotografia, soprattutto alla luce della grande trasformazione tecnologica in corso, con l’abbandono della sua essenza originaria fisicochimica, soppiantata dal procedimento digitale. Questioni spesso affrontate nei luoghi deputati a diversi livelli − da quello pratico-tecnologico a quello concettuale − e che riportano al quesito principale: il ruolo della fotografia nel campo della documentazione e della ricerca artistica.
riflessione sulla fotografia il concetto di inconscio tecnologico1, la proprietà cioè della fotografia di insinuarsi per mezzo del suo procedimento meccanico nell’operazione artistica a prescindere dalle immagini finali, una sorta di partenogenesi artistica che arriva a mettere in discussione l’autorialità. Senza complicare a tal punto un discorso che merita una riflessione precipua, torniamo all’argomento di queste note, il ruolo della fotografia nella società contemporanea: possiamo provare a ricordare alcuni orientamenti principali scaturiti dagli studi sulla fotografia degli ultimi decenni. A partire dagli anni ottanta del Novecento, infatti, la riflessione teorica e la conseguente bibliografia internazionale sulla fotografia hanno conosciuto un intenso sviluppo che si è articolato ben al di là dei più consueti tagli storici. La mera esigenza ordinatrice, che storicizzasse quanto avvenuto, si dimostrava insufficiente, se pur necessaria; occorreva riflettere più profondamente sui diversi aspetti che la fotografia ha assunto nella società: dai suoi molteplici ruoli sociali a quello nel sistema dell’informazione e della documentazione, e in quello dell’arte, dall’analisi del suo status filosofico e concettuale a quella sulla complessità del suo linguaggio.
“that property which photography has of insinuating itself into the artistic operation”
Documentazione e ricerca artistica Sebbene la divisione della fotografia tra documentazione e ricerca artistica costituisca un falso problema, è stata, e per certi aspetti resta, al centro di un dibattito polveroso: i due ambiti infatti non sono così facilmente separabili, poiché la fotografia di informazione e documentazione è già di per sé una forma di espressione artistica senza bisogno di ulteriori conferme. La fotografia di documentazione rientra nell’ambito della fotografia come traccia, come specchio del mondo, realizzato attraverso un procedimento meccanico, fisico-chimico o digitale, governato dall’occhio, dall’intelletto e dalle passioni dell’uomo, per usare una formula datata ma per certi aspetti sempre interessante come quella bressoniana. A questo punto, è naturale l’innesco di una successiva considerazione, relativa alla brillante e fortunata intuizione di Franco Vaccari che introduce nella
La fruizione della fotografia, oggi Tutto ciò ha portato ad una modifica sostanziale nella fruizione della fotografia, che non può più essere soltanto quella dell’informazione giornalistica – declinata in forme diverse, da quelle più immediate e popolari a quelle più raffinate – o quella esclusiva dei circoli, appannaggio degli amatori e degli addetti ai lavori. La fotografia, uscita dal ghetto, occupa non solo i soliti luoghi deputati ma si espande nelle gallerie private, nelle istituzioni pubbliche, nell’editoria, con una pubblicistica specifica molto ricca e variegata, nelle manifestazioni pubbliche, da quelle a carattere cittadino a quelle internazionali, nelle fiere d’arte, sia quelle generali che quelle specifiche. Contrariamente quindi a un’abitudine, spesso diffusa, tendente alla lamentela per il presunto ruolo secondario svolto dalla fatale invenzione, oggi possiamo forse dire che la fotografia, pur in presenza della televisione, della telematica e del web, vive un periodo di affermazione come forse soltanto nella sua ottocentesca età d’oro. Si tratta sicuramente della consacrazione della forma di espressione che ha caratterizzato il Novecento, e come tutte le consacrazioni comporta il rischio di guardare al passato, di essere cioè il riconoscimento di qualcosa che è stato: questa impressione può essere rafforzata da una delle caratteristiche proprie dell’essenza della foto-
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L’Aperitivo
Turquoise Blue,_The Inspiration
Illustrato
MIA Fair 2012, Steve McCurry, Boy in mid flight, 2007, cibachrome, 50x60cm, ed. of 90, courtesy: www.sudest57.com
Leonora Hamill, Painting I Saint Petersburg, from the series “Art in Progress” Analog C-Print 77.5x98 cm on alluminium, ed- of 5 + 2 ap 98, courtesy: Fabio Castelli Collection
grafia, essere appunto la traccia, la testimonianza di qualcosa che “è stato”, irrimediabilmente passato, così come molti studiosi hanno descritto. Un atteggiamento che trova proseliti tra chi discetta di fine della fotografia: torna così in campo un refrain che spesso si è ascoltato a proposito di altre forme di espressione. L’esperienza, e un po’ di prudenza rispetto ad affermazioni apodittiche, suggeriscono che gli avvenimenti sono sempre più complicati e che i mutamenti del linguaggio e le innovazioni tecnologiche ad essi strettamente correlati incidono sì pesantemente sulla creazione, diffusione e fruizione di una forma d’espressione, ma non ne decretano automaticamente la fine. Il dato di fatto è che la fotografia resta una rappresentazione bidimensionale, realistica o meno, del mondo: e l’ambito del suo linguaggio si inscrive in buona parte nei parametri di analisi e giudizio accettati per le forme tradizionali delle corrispondenti forme d’arte. In questa ottica, ormai consolidata e condivisibile, la fotografia non solo vede consacrato il suo status ma, indipendentemente dai modi praticati e dalle finalità perseguite, si presenta, all’alba del ventunesimo secolo, come un linguaggio visivo attuale e incubatoregeneratore di nuove modalità di espressione.
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Last November, after a TV appearance on one of the most Italian popular cultural programmes, the famous photographer Steve McCurry showed up in Milan for a conference in an institutional setting and was greeted with cheering worthy of a football stadium. Let’s face it, a photographer who becomes a rock star is an interesting sociological signal; it indicates not only that photography is treated on a par with other more consolidated forms of expression, but that it has reached a vast public outside the ghettoes of specialisation where it has so far been “segregated”. Another important signal is the unexpected success which MIA Fair, the international of art photography fair, has enjoyed since its opening in 2011. This success has been confirmed in subsequent years, prompting Fabio Castelli, the creator and organiser of the fair, to export it to Singapore for Autumn 2014. These facts contradict the people who have for some time been announcing the death of photography as an art
form, above all in the light of technological transformation, which has substituted the original physical/chemical essence with the digital procedure. These issues can all be approached at various levels, from the practical/ technological to the conceptual, but they all lead to the burning question: where does photography stand today in the field of documentation and artistic research? A long-standing debate The division of photography into the two fields of documentation and artistic research is actually a false problem, but this dilemma remains at the centre of a longstanding debate. The two areas are in fact not so easily separated, because the photography of information and documentation is already in itself a form of artistic ex-
“photography remains a realistic or non-realistic two-dimensional representation of the world” pression, without needing any further proofs. In other words, the photography of documentation is part of photography in its function as a trace, a mirror of the world, created through a mechanical, physical/chemical or digital procedure and governed by Man’s eye, intellect and passions, in the words of the ever-acute Bresson. A further consideration has crept into debates on photography, regarding the lucky intuition of Franco Vaccai, i.e. «that property which photography has of insinuating itself into the artistic operation by means of its mechanical procedure, regardless of the final images: a sort of artistic parthenogenesis which poses the question of authorship». But without venturing too far in this direction, which deserves a whole chapter to itself, let’s go back to the to the role of photography in contemporary society, reminding ourselves of some developments which have emerged from the most recent studies. Starting from the 1980s in fact, there has been an intense development of theoretical reflection and of the consequent international bibliography. The wish to give events an
historiographical order is seen to be inadequate on its own, though necessary. It is important to reflect deeply on the different aspects of photography in society, from its multi-faceted social role to its role in the systems of information, documentation and art, from conceptual analysis to the complexity of its language. The use of photography today All this has led to a revolution in the use of photography, which can no longer be merely news reporting in its various forms ( from the more immediate, popular ones to the more refined ones – or the exclusive forms of the clubs, the prerogative of amateur and professional photographers). Having come out of the ghetto, photography not only occupies its usual official places but is expanding into private galleries, institutions, and publishing (with rich, varied specific publications); into national or international events and art fairs. So, while we tend to continue to complain about the presumed secondary role of this form of art and creativity, we can say that despite the presence of TV, telematics and the web, photography is now going through an extremely popular period such as it only ever experienced in its golden age, the 19th century. We are witnessing the consecration of the form of expression which left its mark on the 20th century and, like all consecrations, it risks being too closely dependent on the past, the acknowledgment of something which has already been. And this impression is reinforced by a feature of photography which is actually its purest essence: its faculty of becoming the trace, the proof of something which has been, and which is irremediably lost. What do we glean from these considerations? That’s simple: experience and prudence in the face of apodictic claims suggest that historical events are more and more complicated and that the changes in the language and the technological innovations connected with them certainly do influence the creation, spread and use of a form of art, but do not automatically determine its end. And the scope of its language fits into the parameters of analysis which are commonly accepted for the traditional forms of art. To conclude, at the dawn of the 21st century photography has not only had its status consecrated but, leaving aside its methods and aims, has become an extremely modern visual language which incubates and generates new forms of expression.
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L’Aperitivo
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Illustrato
Sì, l’Arte LO SA... interview
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by
CHRISTINA
MAGNANELLI
WEITENSFELDER
- Yes, Art Knows... -
Getulio Alviani, Rilievo speculare a elementi curvi, 1967, acciaio, 70x70x8 cm, Courtesy: Galleria Tonelli, Milano Alberto Biasi, Variable round image, 1962, relief in PVC on wooden panel, d 153 cm, Courtesy: Galleria Allegra Ravizza, Lugano (CH)
Fondata nel 1974, Arte Fiera di Bologna è la più antica kermesse dell’arte che si svolga in Europa, primato condiviso con le fiere di Colonia e Basilea. Da subito genera dibattito, scalpore, sorpresa, ma con il principio del nuovo: nel 1977 è la prima fiera al mondo ad organizzare un evento culturale collaterale: “La Performance oggi”, a cura di Renato Barilli. Quarantanove performance, e tra i tanti artisti che vipresero parte, Vincenzo Agnetti (giovanissimo), Vito Acconci, Fabio Mauri, Marina Abramovič, Ulay, Hermann Nitsch, Fabrizio Plessi, Luigi Ontani e tanti altri. Sono i favolosi anni settanta. Arte Fiera 2014. La Special Focus Section, sezione curata da Marco Scotini e dedicata ai paesi dell’Oriente e dell’Est Europa diventati protagonisti nel mercato dell’arte, farà da palcoscenico al tema della carta e dell’inchiostro nell’arte contemporanea cinese. Grande rilievo sarà dato al lavoro d’avanguardia degli ultimi decenni. Novità assolute, la sezione di gallerie dedicate all’immagine d’arte il cui linguaggio è rappresentato dalla fotografia, in collaborazione con MIA- Milan Image Art Fair diretta da Fabio Castelli, e la rilettura dell’arte della seconda metà dell’Ottocento con un ottica modernista, voluta dai direttori artistici Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti.
G
iorgio Verzotti è curatore e critico di mostre e musei, scrive una cospicua mole di pubblicazioni e il suo nome compare all’interno di importanti riviste d’arte contemporanea internazionali. Il 2014 lo vede come condirettore artistico di Arte Fiera di Bologna, assieme a Claudio Spadoni. Appassionato di aperitivi, come lui stesso ci racconta, non poteva mancare su L’Aperitivo Illustrato di gennaio, numero dedicato all’ispirazione. È più concettuale la parola che descrive l’arte, o l’arte che genera pensiero concettuale? «Non v’è differenza, la critica d’arte, soprattutto quella che agisce sul piano dell’elaborazione teorica, e l’Arte Concettuale si interrogano ambedue sulla natura dell’arte». Se l’arte si manifesta attraverso il gesto (quindi un meccanicismo) si può affermare che la concretezza del gesto è ciò che trasmette all’osservatore l’inconscio dell’artista? «Sì, quando l’arte si manifesta attraverso il gesto che vuole far emergere il moto inconscio, no quando si esprime attraverso il pensiero razionale. Inoltre, va ricordato che il critico d’arte non è uno psicanalista».
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Poiché il risultato è casuale, il gesto è testimone di “quell’attimo”. Questo dimostrerebbe che l’importanza dell’arte è dovuta alla sua stessa casualità. Quindi, quando si afferma che l’arte è testimone del suo tempo, si può affermare che questo è dovuto al percorso casuale dell’inconscio collettivo? «Assolutamente no, a meno di essere junghiani. Ad essere invece freudiani potremmo dire che il risultato non è mai casuale». Citando una frase di Pollock, si può dire che “l’Arte sia un punto focale dello sviluppo culturale” di un paese come l’Italia? Oppure semplicemente uno sviluppo parallelo della cultura? «L’arte italiana è a fondamento della nostra identità storica, come la cultura in generale ma rivestendo un
“Italian art is at the basis of our historical identity, as is culture in general ” ruolo prioritario, allora come oggi». Un aneddoto che le è capitato nel corso della sua carriera di critico, un episodio curioso. «Come si farà ad ottenere che un proiettore acceso di giorno diffonda meno luce invece che più luce? Me lo ha chiesto Eva Marisaldi nel 1994 e non ho ancora trovato la risposta».
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Founded in 1974, Arte Fiera of Bologna, with those of Cologne and Basle, is the oldest art fair to be held in Europe. Right from the start it generated discussion, scandal, surprise, but with the principle of novelty; in 1977 it was the first fair in the world to organise a fringe event, “Performance today”, curated by Renato Barilli. Forty-nine performances, by Vincenzo Agnetti (extremely young), Vito Acconci, Fabio Mauri, Marina Abramovič, Ulay, Hermann Nitsch, Fabrizio Plessi, Luigi Ontani and many others. It was the fabulous ‘seventies. Arte Fiera 2014. The Special Focus section, curated by Marco Scotini and dedicated to oriental and East European countries which have become protagonists on the art market, will stage the theme of paper and ink in contemporary Chinese art. Great emphasis will be given to the avantgarde works of the last few decades. An absolute novelty
is the section of galleries dedicated to the photographic art image, in collaboration with MIA-Milan Image Art Fair directed by Fabio Castelli, as well as the reinterpretation of the art of the second half of the 19th century from a modernist point of view, promoted by the art directors Caludio Spandoni and Giorgio Verzotti. Giorgio Verzotti is a curator and critic of exhibitions and museums. He writes a considerable amount of publications and his name appears in important international contemporary art magazines. In 2014 he is the co-art director of Arte Fiera of Bologna with Claudio Spadoni. Since he tells us he is very partial to aperitifs, we just had to have him in the January issue of L’Aperitivo Illustrato dedicated to inspiration. Which is more conceptual: the word which describes art or the art which generates the conceptual idea? “There’s no difference. Art criticism, above all the kind which acts on the level of theoretical development, and Conceptual Art both investigate the nature of art”. If art is manifested through the gesture (hence a mechanism) can we say that the concreteness of the gesture is what transmits the artist’s unconscious to the viewer? “Yes, when art is manifested through a gesture which is generated by an unconscious impulse, and no when it is expressed through rational thought. Moreover, we should remember that the art critic is not a psychoanalyst”. Since the result is random, the gesture is a testimony of “that specific instant”. This would demonstrate that the importance of art is due to its very randomness. So when it is claimed that art is the testimony of its time, can we say this is due to the random course of the collective unconscious? “Absolutely not, unless one is Junghian. Freudians on the other hand might say that the result is never random”. To quote a sentence of Pollock’s, could we say that “Art is a focal point in (the) cultural development” of a country like Italy? Or simply a parallel development of culture? “Italian art is at the basis of our historical identity, as is culture in general, but art plays a priority role today as in the past”. Can you give us an anecdote about something which has happened to you during your career as a critic, some curious episode? ‘How can we make a projector running in the daytime diffuse less instead of more light?’. Eva Marisaldi asked me this in 1994, and I still haven’t found the answer“.
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L’Aperitivo
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Illustrato
show don’t tell about
«Vittorio è un paparazzo. I paparazzi non conoscono le pose e la censura e così nemmeno lui. In proposito c’è una frase di Rino Barillari, ‘Er King’ dei paparazzi, che dice: “Per me privacy vuol dire provaci”. In questo contesto vuol dire: provaci a raccontare qualcosa senza abbellire la realtà o rappresentarla come ti piacerebbe, prova a mostrarla nuda e cruda, prova a raccontare una storia intima senza essere o volgare e inopportuno o troppo sdolcinato. Se ci riesci vuol dire che sei bravo. Questo è il motivo della prima personale di Vittorio in Italia». Stefano Riba (dal catalogo della mostra)
photo
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by
stefano
riba
«Vittorio, looks like a paparazzo. Paparazzi do not know poses nor censorship, and so he does. In relation to this, there is a quote by Rino Barillari, ‘the King’ of paparazzi, which says: “To me privacy means try it”. In this very context it means: try to tell something without beautifying reality or showing how you would like it to be, try to show it bare and rough as it is, try to tell an intimate story without being vulgar, inappropriate or too sweet. If you can do it, it means you are a good photographer. This is the other reason why of this first italian xhibition». Stefano Riba (from the exhibition catalog)
THE FIRST DAY OF GOOD WEATHER* «La mattina del 6 agosto 1945 l’ufficiale Claude Eatherly con un’ora di anticipo su Enola Gay, l’aereo che trasportava la bomba atomica, volò su Hiroshima con il compito di riferire delle condizioni del cielo. In altre città, migliaia di persone si salvarono perché quel giorno pioveva. Nella notte tra l’8 e il 9 luglio 1999 mio padre e mio fratello sono morti in un incidente d’auto. L’ 11 marzo 2011 le prefetture di Miyagi e Iwate in Giappone furono colpite da un terribile terremoto e dal seguente tsunami che causò la morte di circa 25.000 persone e la distruzione di 475.000 abitazioni. Il punto di partenza di questo progetto è un pacco di lettere che ho ritrovato lo scorso inverno. Queste lettere, datate 1999, sono la corrispondenza adolescienziale di mio fratello e della sua fidanzata giapponese. Kaori, questo è il suo nome, scrisse e inviò foto e cartoline per mesi dopo l’incidente. La ricerca di Kaori è il pretesto per attraversare il Giappone e incontrare altre storie di perdita e ricostruzione». Vittorio Mortarotti, aprile 2013
THE FIRST DAY OF GOOD WEATHER* «In the morning of the 6th of August 1945, one hour before the Enola Gay – the airplane which carried the atomic bomb – the officer Claude Eatherly flew over Hiroshima, because he had to check the weather conditions. In other cities, thousands of people got saved because it was raining that day. The night between the 8th and 9th of July 1999 my father and my brother died in a car accident. On the 11th of March 2011 a terrible earthquake and a consequent tsunami shook the districts of Miyagi and Iwate, in Japan, and caused the death of nearly 25.000 people and the destruction of 475.000 houses. The starting point of this project is a pack of letters that I found last winter. These letters, which date 1999, are the correspondence between my teen-aged brother and his Japanese girlfriend. Kaori, this is her name, kept on writing and sending photos and postcards for months after the accident. The search for Kaori has worked as pretext to look for stories of loss and reconstruction across Japan». Vittorio Mortarotti, April 2013
*Il primo giorno di bel tempo era l’ordine del Presidente degli Stati Uniti Truman per il lancio della bomba atomica sul Giappone.
*The first day of good weather was the order issued by the President of the United States Truman to drop the bomb on Japan.
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This and next page: Vittorio Mortarotti, The First Day of Good Weather, ink jet su Hahnemühle fine art pearl, variable dimensions, ed. 10. Courtesy Van Der, Torino (IT)
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L’Aperitivo
No. 64
Illustrato
Opere d’arte tra uso e appropriazione oltre il confine dell’ispirazione about
photography
and
law
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by
Cristina
Manasse
- Works of art: their use and appropriation. Beyond the confines of inspiration -
S Richard Prince, Charlie Company, via Court document
Patrick Cariou, Yes Rasta, via Court document
ono particolarmente felice di iniziare questa collaborazione su un argomento come l’ispirazione, che dà vita a importanti dibattiti nel mondo del diritto dell’arte e dei media, in particolare in relazione alla cosiddetta pratica “appropriazionista”. Ispirazione, appropriazionismo, plagio: il cd. appropriazionismo si riferisce all’ispirazione ricavata da altre opere attraverso l’uso o l’appropriazione di opere altrui. La domanda è: modifiche e ornamenti apportati sull’opera originaria rendono davvero la nuova opera d’arte così diversa da non rappresentare una violazione dell’opera precedente? Un caso molto dibattuto negli Stati Uniti, Cariou vs. Prince, ha considerato tale questione. Nel 2000 il fotografo francese Patrick Cariou pubblicava il libro Yes, Rasta. Successivamente, Richard Prince, esponente della appropriation art, usava 35 fotografie di Yes, Rasta per creare il collage Canal Zone, e in seguito realizzava altre opere, la maggior parte contenenti immagini riprese dal libro di Cariou. Nel 2008 la Gagosian Gallery di New York esponeva tali opere e pubblicava il catalogo. Nel dicembre 2008 Cariou citava, per violazione di copyright, Prince, la galleria e il signor Gagosian, i quali, nelle proprie difese, sostenevano che l’uso delle fotografie da parte di Prince era consentito in quanto “trasformativo”, e rappresentava un’eccezione alla violazione del copyright ammessa dal principio del Fair Use. La Corte Distrettuale ammetteva il ricorso di Cariou sostenendo che l’uso delle immagini di Cariou da parte di Prince costituiva violazione del copyright. La Corte d’Appello del Secondo Circuito, a sua volta, capovolgeva una parte sostanziale della decisione della corte distrettuale, stabilendo che l’uso delle 25 opere da parte di Prince era sufficientemente “trasformativo” da rientrare nel concetto di Fair Use, poiché le nuove opere «hanno un carattere diverso, conferiscono alle fotografie di Cariou una nuova espressione e usano una nuova estetica». Occorre ricordare qui che la Corte ha enfatizzato quanto appare dell’opera “all’osservatore ragionevole”, più che l’intenzione dell’artista. Il caso veniva rinviato alla Corte Distrettuale per l’esame delle 5 rimanenti opere, per le quali la Corte d’Appello non era stata in grado di stabilire se l’uso di Prince fosse stato “trasformativo”. Nell’agosto 2013 Cariou ha presentato ricorso alla Corte Suprema, sostenendo che la decisione della Corte d’Appello è basata meramente sulla sensibilità estetica dei giudici e che l’approccio “Lo so quando lo vedo” non offre “né prevedibilità né linee guida ai titolari di
copyright” in merito a ciò che effettivamente rientra nel Fair Use. Il 12 novembre 2013 la Corte Suprema ha rigettato il ricorso di Cariou contro la decisione d’appello favorevole a Prince. L’avvocato di Prince, Josh Schiller, ha commentato che «La decisione Prince è importante in quanto conferma e tutela la libertà espressiva di tutti gli artisti. E quando creano opere trasformative in parte basate su appropriazionismo di opere altrui, non devono difendersi con lunghe deposizioni nelle quali trovare parole magiche quali satira o parodia al fine di giustificare il loro Fair Use dell’opera altrui. Il caso Prince pone fine a tutto ciò». L’enfasi della Corte sull’osservatore ragionevole è altresì importante, secondo Schiller, il quale ha evidenziato come «Nell’analizzare un’ opera, le corti americane dovranno esaminare se un osservatore ragionevole possa percepire nell’opera nuove espressioni, significati o messaggi, in breve, il Fair Use. I curatori di musei e i critici d’arte svolgono tali verifiche regolarmente». L’avvocato di Prince ha inoltre commentato che «La decisione riconosce inoltre che le gallerie, i musei e i collezionisti sono gli osservatori ragionevoli per eccellenza, i quali, nel caso delle opere di Prince, sono molto diversi dal pubblico di Cariou. Quando decidono se acquistare e/o esporre opere di appropriation art applicano quella “ragionevolezza”». La decisione della Corte d’Appello è quindi confermata, nel senso che in quell’ambito distrettuale (New York, Connecticut e Vermont) tale uso non viola il copyright preesistente. Questa decisione diventa uno dei precedenti più rilevanti e influenti sull’uso trasformativo ammesso quale difesa ai sensi del Fair Use. Come tale, l’appropriation art è un tipo di uso trasformativo che può rientrare nel Fair Use.
“Have a different character, confer a new expression on Cariou’s photographs and employ new aesthetics”
Richard Prince, Graduation, via Court document
Patrick Cariou, Yes Rasta, via Court document
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© Avv. Cristina Manasse 2013. La presente rubrica ha scopi unicamente informativi e non costituisce parere legale.
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I am particularly happy to begin this collaboration on the topic of inspiration, which gives rise to important debates in the legal world of art and media, particularly in relation to the so-called practice of appropriation art. Inspiration, appropriation, plagiarism: appropriation art refers to inspiration taken from other works by using or appropriating the original work. The question is this: do alterations and
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embellishments to the original work really make the new artwork so different that it does not infringe on the original copyright? A controversial case in the United States, Cariou vs. Prince, raised this very point. In 2000, the French photographer Patrick Cariou published the book Yes Rasta. Subsequently Richard Prince, the appropriation artist, used 35 photos from Yes Rasta to create the collage Canal Zone and later made other works, most of which contained images taken from Cariou’s book. In 2008, the Gagosian Gallery of New York exhibited these works and published the catalogue. On December 2008 Cariou sued Prince, the gallery and Mr. Gagosian for copyright infringement. In their defence they claimed that the use of the photos by Prince was permissible in that it was “transformative”, which used to be a small exception to copyright infringement, permitted under the principle of Fair Use. The District Court accepted Cariou’s complaint, finding that the use of Cariou’s images by Prince constituted copyright infringement. In its turn, the Court of Appeals for the Second Circuit overturned a substantial part of the District Court’s decision, finding that the use of 25 Cariou’s photos by Prince was sufficiently “transformative” to comply with the concept of Fair Use, because the new works “have a different character, confer a new expression on Cariou’s photographs and employ new aesthetics”. It should be remembered here that the court put emphasis on how the work appeared to “the reasonable observer” rather than on the artist’s intention. The case was remanded to the District court to conduct an analysis of the remaining five photos because the Court of Appeals could not determine whether Prince’s use of them had been “transformative”. In August 2013, Cariou appealed to the Supreme Court, claiming that the decision of the Court of Appeals was merely based on the judges’ aesthetic sensitivity and that the “I know when I see it” approach offers neither “predictability nor guidelines to copyright holders” about what actually constitutes Fair Use. On 12 November 2013, the Supreme Court declined Cariou’s petition for appeal against the decision in Prince’s favour. Prince’s lawyer, Josh Schiller, commented: «The importance of the Prince decision is that it upholds and protects the right of free expression for all artists. And where they create transformative work based in part on appropriation of the work of other artists they need not defend themselves through lengthy depositions where they search for magic words like satire or parody to justify their fair use of the appropriated work. The Prince case puts an end to that». The emphasis of the Court on the reasonable observer is also important in Schiller’s view who noted that «When examining an artwork, the courts in the United States will examine whether a reasonable observer may perceive in an artwork new expression, meaning or message, in short, fair use. Museum curators and art historians render such observations regularly». Prince’s lawyer also commented: «The decision also recognizes that galleries, museums and collectors are the quintessential reasonable observers who, in the circumstances of Richard Prince’s work, are very different from Cariou’s audience. They apply such reasonableness when deciding to purchase and/or exhibit works involving appropriation». The decision of the Court of Appeal is thus confirmed, in the sense that in that circuit (New York, Connecticut and Vermont) such use does not infringe on the pre-existing copyright. This decision now stands as one of the leading and most influential precedents on transformative use as a Fair Use defence. As such, appropriation art is a type of transformative use that can be Fair Use. © avv. Cristina Manasse 2013 This article is for informative purposes and does not represent a legal opinion.
L’Aperitivo
Turquoise Blue,_The Inspiration
Illustrato
L’oggetto dissolto. exibit
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by
GIACOMO
CROCI
- The dissolved object -
Axel Kasseböhmer, Walchensee Nr. 45, oil on canvas, 33x50 cm © Axel Kasseböhmer Courtesy Sprüth Magers Berlin London
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ispetto a qualsiasi prospettiva sull’ispirazione, appare implicato un margine di esteriorità: si tratti dell’impatto percettivo o della parola divina, qualcosa di essenziale alla formazione dell’opera si colloca eccentricamente in relazione al suo autore. Un esterno che ridiviene, realizzandosi, nuovamente esterno.
L’esposizione 100 X WALCHENSEE, presso la galleria Sprüth Magers a Berlino, raccoglie cento vedute, prodotte fra il 2010 e il 2012 da Axel Kasseböhmer, orbitanti intorno allo specchio d’acqua Walchensee, in Baviera, memori dell’opera del pittore Lovis Corinth. La decisione di ripetere elementi significativi della storia dell’arte non è nuova a Kasseböhmer, cimentatosi già con riproduzioni pittoriche di particolari estratti da altrettante e celebri opere di pittura. I cento paesaggi non si installano in una esclusiva citazione dell’atto artistico, che istituisce lo specchio d’acqua come oggetto ispirante, ma rifrangono ripetutamente questo singolare elemento in ogni veduta, ciascuna con uno stile differente. Anche il visitatore meno avveduto riconosce gli ultimi due secoli di storia della pittura, riassunti da un’azione dinnanzi alla quale l’oggetto, inizialmente irrinunciabile, diviene materia in via di dissoluzione e secondaria. Se il vettore dell’ispirazione è dotato di direzione e verso, per Kasseböhmer non si tratta più di permettere all’oggetto-lago di proiettarsi sull’artista, che restituisce all’oggetto la sua consistenza trasfigurata. Si osserva al contrario un’inversione: la storia, in questo caso dell’arte, procede attraverso il suo intermediario, l’autore, verso l’oggetto, e lo scompone in elementi che non sono minimi, ma risuonano dell’esterno ispiratore, non più un presente posto innanzi, ma un insieme definito di un passato che si riattiva nell’insieme dell’opera.
Axel Kasseböhmer, Walchensee Nr. 92, oil on canvas, 33x50 cm © Axel Kasseböhmer Courtesy Sprüth Magers Berlin London
~ A margin of exteriority seems inevitably to be involved in any view of inspiration; whether we are talking about the perceptive impact or the word of God, something essential to the formation of the work exists in an eccentric relationship to the author. An exterior which regains its exteriority as it materialises. The exhibition 100 X WALCHENSEE at the Sprüth Magers Gallery in Berlin shows 100 views of Lake Walchensee in Bavaria, produced between 2010 and 2012 by Axel Kasseböhmer and inspired by the work of the painter Lovis Corinth. The decision to repeat significant elements from the history of art is not new to Kasseböhmer, who had already painted reproductions of details from famous paintings. The 100 landscapes do not constitute a single exclusive quotation of the artistic act which establishes the lake as the object of inspiration; they repeatedly break up this singular element in each view, each with a different style. Even the least knowledgeable visitor can recognise the last two centuries of art history, summed up in an action where the initially fundamental object becomes dissolving, secondary matter. While the vector of inspiration takes a certain direction, for Kasseböhmer it is no longer a question of letting the object/lake project itself onto the artist who then reproduces it in transfigured versions. We see instead an inversion: history, in this case art history, proceeds towards the object through its intermediary, the artist, and decomposes it into elements which are not minimal but resound with the inspirational exterior, no longer a present standing in front of us, but a well-defined entity of a past which is re-activated with the work.
“While the vector of inspiration takes a certain direction, for Kasseböhmer it is no longer a question of letting the object/ lake project itself onto the artist”
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L’Aperitivo
Turquoise Blue,_The Inspiration
Illustrato
L’ascesa della fotografia nel mercato dell’arte contemporanea about
photo
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by
ALESSIA
ZORLONI
- The rise of photography on the contemporary market -
Left: Richard Prince, Untitled (Cowboy), 1989 Chromogenic print; 50 x 70 in. (127 x 177.8 cm) Purchase, The Horace W. Goldsmith Foundation Gift through Joyce and Robert Menschel and Jennifer and Joseph Duke Gift, 2000 (2000.272) © Richard Prince Right: Richard Prince, Untitled (cowboy), 1987, Ektacolor photograph, Ed. 2/2, 20 x 24 in. (50.8 x 61 cm), Rubell Family Collection and Contemporary Arts Foundation
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radizionalmente, le opere che si vendono meglio sono i quadri, le sculture e i disegni, poiché il peso della loro storia e della loro tangibilità è rassicurante per i collezionisti. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, si è assistito a un cambiamento: l’apprezzamento della fotografia, forma d’arte multipla per natura, è sempre più forte. Prima degli anni novanta questa espressione artistica era considerata in un certo modo inferiore. Nel 1995 il mercato delle aste nel campo delle foto contemporanee era limitato a 350 pezzi, per un totale di 1,4 milioni di euro. L’aumento dei prezzi è diventato una costante nel 2005, con la prima asta milionaria mai battuta per una stampa contemporanea. Il record riguardava un Cow Boy di Richard Prince, largo 1,7 metri. L’opera, venduta per 1,1 milioni di dollari l’8 novembre 2005 da Christie’s a New York, ha reso per breve tempo Richard Prince l’autore di fotografia contemporanea più costoso del mercato. Da allora i prezzi in questo segmento si sono quadruplicati e ogni anno vengono vendute tra le 3.000 e le 6.000 foto contemporanee. Ma come si arriva a raggiungere queste cifre? Quali sono i fattori da considerare nella valutazione di una fotografia? Non esistono regole consolidate alla base della valutazione delle opere d’arte. Le fluttuazioni nei prezzi sono continue e imprevedibili, poiché condizionate da una serie di variabili che contraddicono tutti i possibili scenari prospettati. Tuttavia i criteri che presiedono alla determinazione del valore possono riguardare l’autore e l’opera. Con riferimento al primo criterio, un elemento importante è costituito dalla reputazione dell’artista, che riguarda la sua persona, il movimento di cui è espressione e la nazione a cui si ricollega. La reputazione è costruita dalle informazioni che i critici, i curatori e i galleristi forniscono, e la cristallizzazione di questa contribuisce alla creazione del brand dell’artista. Con riferimento all’opera del fotografo bisogna considerare la tiratura, la data di esecuzione, il contenuto, e le dimensioni. Quando si tratta di opere fotografiche, sia il mercato della fotografia che quello dell’arte contemporanea rispondono alle leggi del numero chiuso, più comunemente detto “edizione”. Oggi l’edizione limitata e numerata è un passaggio obbligatorio per un fotografo interessato a lavorare nel mercato dell’arte. Un altro fattore determinante ai fini delle quotazioni di un’opera d’arte è la data di esecuzione. Sono molto più ricercati, e dunque più quotati, i lavori della fase più creativa di un artista, sia rispetto al suo percorso
individuale, che in rapporto alla nascita di tendenze significative. Esiste sempre, infatti, un momento nella vita dell’artista, in cui la sua ricerca giunge a risultati di particolare pregio creativo. Individuare l’opera giusta è basilare, anche perché uno stesso artista può avere un ventaglio pressoché illimitato di prezzi. è necessario, inoltre, privilegiare opere adatte agli spazi domestici, lasciando da parte le opere troppo grandi, assai più difficili da rivendere, a causa di una domanda limitata. Infatti, superata una certa soglia, le dimensioni incidono negativamente sul prezzo. Accanto alle dimensioni, un altro elemento di cui bisogna tenere conto è il soggetto. In questo caso conviene orientarsi verso opere facilmente riconoscibili, emblematiche della produzione di un artista e preferibilmente che siano state pubblicate. Saranno, infatti, considerate di maggior pregio quelle esposte in mo-
“And nowadays the limited and numbered edition is compulsory for any photographer” stre di rilevo, che hanno suscitato l’interesse della critica, che sono apparse su monografie o su riviste importanti o che hanno fatto parte di collezioni private prestigiose o sono state esposte in musei.
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By tradition the works which sell best are pictures, sculptures, drawings. The reason is simple: the import of their history and their tangibility are reassuring for collectors. In the last few years however we have seen an increasing appreciation of photography, an art form which is by nature multiple. Before the 1990s, this expression of creativity was considered in a certain sense inferior. In 1995, the market of auctions in the contemporary photo field was limited to 350 “shots”, for a total of 1.4 million euros. The increase in prices became constant in 2005, with the first auction ever to reach a million-dollar hammer price for a contemporary print. The record was set by Cow Boy by Richard Prince, 1.7 metres wide. The work, sold for 1.1 million dollars on 8th November 2005 by Christie’s, New York, for a short time made Richard Prince the au-
thor of the most expensive photo ever to have appeared on the market. Since then prices in the sector have increased fourfold and each year 3.000 to 6.000 contemporary photos are sold. But how are such prices arrived at? What are the factors to be considered in valuing a photo? There are no established rules for valuing a work of art. Fluctuations in prices are continuous and unpredictable, conditioned by a set of variables which contradict all possible scenarios. And the criteria which determine market value concern both the author and the work. Regarding the former criterion, an important element is the artist’s reputation, their person, the movement and the nation they belong to. Reputation is built up through information which critics, curators and gallery-owners make available, and its crystallisation, i.e. its consolidation over time, contributes to creating an artist’s ‘brand’. Regarding the photographer’s work, on the other hand, we need to consider the number of prints, the date of execution, the content, the size. When dealing with photographic works, both the photography and the contemporary art markets are subject to the laws of the limited number, more commonly known as “edition”. And nowadays the limited and numbered edition is compulsory for any photographer interested in working on the art market. Another decisive factor for quotations is the date of execution. The works from an artist’s most creative period (which depends both on their individual development and on their relationship with new trends) are the most sought-after, hence the most highly quoted. There is always a peak moment when an artist’s research achieves particularly important results, creatively speaking. Identifying the right work is fundamental, also because the same artist may have an almost unlimited price range. It is also necessary to favour works which are suited to domestic spaces, rejecting those which are too large, hence difficult to sell because of a limited demand; beyond a certain threshold, size can have a negative influence. Apart from size, another element to be considered is the subject. In this case it is advisable to choose easily recognisable works which are emblematic of an artist’s production, preferably already published. Works exhibited in important shows which have aroused the interest of the critics, or which have appeared in monographs or prestigious magazines, or which are displayed in museums or important private collections, will in fact be estimated as the most valuable.
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L’Aperitivo
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Morte e rinascita think
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by
gian
ruggero
manzoni
- Death and rebirth -
Pablo Picasso, Celestina, 1904, oil on canvas, 81x60 cm, Musée National Picasso, Paris
L
a Celestina turchese di Picasso. La grande metafora, la grande allegoria di un ceto che custodiva in sé quei conformismi e tradizionalismi borghesi, molto spagnoli e clericali, non certo amati da Picasso. Il come giungere a segno “fallando” un occhio, accecandolo col bianco, quando il gesto di accusa si racchiude in un particolare e non in una dichiarazione più elaborata, più rappresentata, più complessa. Una sintesi magistrale di ciò che pensava e dipingeva anche Goya. Ovvio che il rimando è alla morte, a colei che l’annuncia (si veda la lettura critica ufficiale del quadro). Ma qual era, ai tempi di Picasso, la morte di un processo progressista, sia in arte che nel sociale, e chi, in parte, lo è ancora? Naturalmente il Potere e chi lo dettava, lo cibava, lo impersonificava, o ne diveniva “servo” fedele. Ecco Celestina... la mezzana, la protettrice. Celestina... la vecchia ruffiana di un lupanare aggirarsi col suo cappuccio per le strade deserte della città. Questa è Celestina, per la cronaca Carlotta Valdivia, procacciatrice di giovanissime fanciulle da immolarsi nelle alcove della Spagna di inizio Novecento… di quella Spagna ancora feudale, ricca, viziosa, bigotta e chiusa in sé. Picasso, ancora superbamente figurativo, nel 1904 usa il turchese per immortalare su tela la dispensatrice degli oscuri e licenziosi piaceri barcellonesi. Morte come mezzana, morte di una speranza nell’ipocrita realtà di un agglomerato urbano fintamente rivolto al secolo entrante seppure di già pervaso da moti socialisti e anarchici; poi il rifugiarsi del pittore a Parigi, lontano da quella fine, da quella impossibilità di dirsi, da quella censura, da quell’annunciazione di sangue e sconfitta che troveranno l’apice nella Guerra Civile scatenata nel 1936 dal generale Franco, il Caudillo. Oggi l’opera è custodita nel Musée National Picasso della capitale francese. L’artista la portò con sé oltre i Pirenei. Tale soggetto tornerà anche in altri quadri di Picasso, fino alle rielaborazioni del 1967, che vedranno Celestina nelle vesti di strega o imbellettatrice. Il turchese (turquoise), conosciuto anche col nome di “acquamarina”, risulta dall’unione del blu col verde. Ne esistono diverse tonalità, che vanno dal chiaro al cupo, dando vita a una gamma di gradazioni del ciano oltremodo variegata. Il nome deriva dal colore dell’omonima gemma, che a sua volta deriva dalla parola francese
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per indicare la Turchia. Esprime sensazioni di tranquillità, di calma, di sollievo, è consigliabile per placare lo stress mentale, la stanchezza, ma, soprattutto, risulta panacea in periodi nei quali si avverte un forte bisogno di riscattarsi. È un colore che incoraggia il cambiamento, l’inizio di un nuovo periodo e la generazione di idee nuove. Il turchese rappresenta la bontà e in momenti di solitudine ci aiuta a essere più comunicativi, sensibili e creativi. Spesso viene associato al Segno astrologico dell’Acquario e le sue parole chiave sono: conoscenza, integrità, serietà, generosità, salute, cura, refrigerio, pulizia, libertà, immensità, nostalgia nei confronti di un “paradiso perduto”, quindi distacco dai mali del mondo. Anche Picasso gli attribuiva questi significati e così ne parlò quando gli domandarono a riguardo del suo famoso “periodo blu”. Per l’alchimia è tinta calmante, sollecita l’interesse, scioglie la tensione, rende tolleranti, generosi e più giovani. Infatti “l’individuo turchese” è sicuro, comunicativo, equilibrato, consapevole, ottimista, abile, ma con una tendenza all’infantilismo, tutte caratteristiche che il grande pittore spagnolo si riconosceva, sebbene la sua indole oltremodo complessa e propensa al distruttivo nei confronti dei rapporti umani, soprattutto in quelli col femminile. E “turchesi” sono considerati, esotericamente parlando, i leader, i trascinatori, gli energici, coloro atti a rinnovarsi di continuo. Kurt Goldstein, famoso ricercatore americano, ha dimostrato che gli oggetti sembrano più grandi e pesanti sotto una luce rossa, mentre più piccoli e leggeri con una luce turchese e mai, come altro colore, il turchese riesce a trasformare in positivo le percezioni umane, a coadiuvare la guarigione dei malati, aumentando la consapevolezza di sé e l’espressione completa del proprio Io. Quindi opera avente più piani di lettura, la “Celestina” di Picasso, simbolica e altamente introspettiva, nonché contenente varie promesse che si fece l’artista
“for alchemy it is a calming hue; it stimulates interest, dissolves tension and makes people tolerant, generous and younger” stesso, come poi venne considerata anche da un gigante della nostra storia dell’arte, Francesco Arcangeli, e come la definì uno dei miei maestri, Maurizio Calvesi: «La maggiore dichiarazione di visione angosciante e inquieta, ma, al contempo, di rinascita ideale, che il pittore spagnolo potesse rappresentare usando una tavolozza oltremodo ristretta».
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Picasso’s turquoise Celestina. The great metaphor, the great allegory of a class, the expression of those very Spanish and clerical middle-class conformisms and traditionalisms which Picasso certainly did not love. How to make your point by “messing up” an eye, blinding it with white, conveying the gesture of accusation through a detail and not through a more elaborate, theatrical, complex declaration. A masterful synthesis of what Goya too thought and painted. It is obvious that the reference is to death, to the one who
announces it (see the official critical reading of the picture). But what was, at the time of Picasso, the death of a progressive process, both in art and in society, and who, in part, it still is? Naturally, power and those who dictated it, fed it, personified it, or became its faithful “servant”. And here is Celestina…the procuress, the woman pimp. Celestina…the old madam of a brothel wandering around the deserted streets of the town in her hood. This is Celestina, real name Carlotta Valdivia, procuress of young girls to be sacrificed in the alcoves of early 20th-century Spain..that still feudal, rich, vice-ridden, bigoted and repressed Spain. Picasso, still superbly figurative, in 1904 used turquoise to fix on canvas the dispenser of the obscure, licentious pleasures of Barcelona. Death as a madam, the death of a hope in the hypocritical reality of a town pretending to usher in the new century while already pervaded with socialist and anarchic insurrections. Then the painter’s escape to Paris, far away from that ending, that impossibility of declaring oneself, that censorship, that announcement of blood and defeat which was to come to a head in the Civil War unleashed in 1936 by General Francisco Franco, the Caudillo. Today the work is in the Musée National Picasso in the French capital. The artist took it with him over the Pyrenees. The subject was to return in other paintings by Picasso, up to the 1967 versions with Celestina in the guise of witch or face-dauber. Turquoise, also known as “aquamarine”, is the result of mixing blue with green. It has various shades, from pale to dark, creating a hugely varied range of gradations of cyan blue. The name derives from the colour of the gem of the same name, which in turn derives from the French word for Turkey. It expresses sensations of tranquillity, calm, relief, it is recommended for placating mental stress, tiredness ,but above all it is a panacea in periods when a redemptive change is sought. It is a colour which encourages change, the beginning of a new period and the generation of new ideas. Turquoise represents goodness, and in moments of solitude it helps us to be more communicative, sensitive and creative. It is often associated with the astrological sign of Aquarius, and its keywords are: knowledge, integrity, seriousness, generosity, health, care, coolness, cleanliness, freedom, immensity, nostalgia for a “paradise lost”, hence detachment from the evils of the world. Picasso too attributed these meanings to it, and spoke about it in these terms when asked about his famous “blue period”. For alchemy it is a calming hue; it stimulates interest, dissolves tension and makes people tolerant, generous and younger. In fact the “turquoise individual” is self-confident, skilful, but tending towards childishness, all features which the Spanish painter recognised in himself, despite his extremely complex nature which tended to the destruction of human relationships, above all with women. And esoterically speaking, leaders, crowd-pleasers, energetic doers and continuous innovators are also all considered “turquoise”. Kurt Goldstein, a famous American researcher, has demonstrated that objects seem bigger and heavier under a red light, and smaller and lighter under a turquoise one, and that turquoise like no other colour is able to transform human perceptions in a positive way, to heal the sick, to enhance self-awareness and self-expression. Thus Picasso’s symbolic and highly introspective work Celestina can be read on several levels, and contains various promises which the artist made to himself. A giant of Italian art history, Francesco Arcangeli, considered the work in this way, likewise one of my teachers Maurizio Calvesi, who defined it thus: “The greatest declaration of anguishing, unquiet vision but at the same time of ideal rebirth that the Spanish painter was able to make using an extremely limited colour scheme”.
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L’Aperitivo
Oltre la fisica ci siamo noi about
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by
LUCA
Turquoise Blue,_The Inspiration
Illustrato
MAGNANELLI
- Beyond physics there’s us -
Antologie astratte: Wassily kandinskij exibit
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by
Laura
migliano
- Abstract anthologies: Wassily Kandinskij -
Alberto Andreis, Frammento n° 5, 2012, acrylic on hardboard, 50x80 cm
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lberto Andreis è considerato colui al quale spetta il compito di rinnovare la metafisica, di rinnovare la sensibilità verso di essa. Ebbene, visto che la metafisica indaga sulla profondità dell’essere, sulla verità non esplorabile con i cinque sensi umani, è di pura fantasia che stiamo parlando. In effetti, osservando le opere di Andreis, non posso fare a meno di provare un senso di familiarità, anomala, a tratti inquietante. Ho già visto quei luoghi, li ho già visitati. Ma dove? E quando? Domande la cui risposta può essere solo una: in sogno, fuori dal tempo e dallo spazio. In qualche modo l’artista riesce ad andare là dove solo il nostro “io” più profondo può avventurarsi, in luoghi di cui non abbiamo memoria cosciente. La nostra anima può varcare le porte della nostra percezione, e quando torna nei nostri corpi ci regala pensieri, ispirazioni, visioni. Ci illudiamo che la nostra scienza abbia una natura creatrice, ma non è così. Essa vive di negazioni. Solo la nostra mente è capace di creare, inventare, immaginare. Potremmo definirla coscienza. Albert Einstein ha capito l’universo nella sua mente, nel regno dell’intangibile. Non fu un esperimento a guidarlo, ma l’ispirazione. Così, similmente, cosa guida la mano di Andreis mentre, tratto dopo tratto, materializza un luogo che non appartiene alla nostra realtà? Da dove arrivano le sue visioni? Osservare le sue realizzazioni potrebbe farci intraprendere un viaggio verso Dio, quello celato nella profondità del nostro essere. Innamorato di New York, alla quale sono dedicati molti cicli di opere, Andreis illustra e coglie il sapore metafisico di strutture e ponti, città quasi lunari, praticamente prive di vita umana. Da due anni esiste anche una produzione fotografica dell’artista, a mio parere altrettanto visionaria, altrettanto metafisica.
Alberto Andreis, New York tales, Frammento n° 7, 2012, print on photo paper, 50x70 cm
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Alberto Andreis is considered to be the artist whose task it is to renew metaphysics and renew sensitivity towards it. Well, seeing that metaphysics investigates the depths of being, truth which cannot be explored with the five human senses, we’re talking about pure fantasy. In fact, observing Andreis’ works, I can’t help feeling an anomalous, sometimes disquieting, sense of familiarity. I’ve already seen those places, I’ve already visited them. But where? And when? There is only one answer to these questions: in your dreams, outside time and space. Somehow, the artist manages to penetrate where only our deepest selves can venture, places of which we have no conscious memory. Our souls can cross the gates of our perception and when they return to our bodies they present us with thoughts, inspirations, visions. We delude ourselves that our science has a creative nature, but it is not so. It lives on negations. Only our mind is able to create, invent, imagine. We might define it as conscience. Albert Einstein understood the universe in his mind, in the realm of the intangible. It was not an experiment which guided him, but inspiration. Likwise, what guides Andreis’ hand while, line by line, he builds up a place which does not belong to our reality? Where do his visions arrive from? Observation of his creations might set us on a journey towards God, that potential journey hidden in the depths of our being. Andreis is in love with New York, to which he dedicates many cycles of works . He illustrates and captures the metaphysical atmosphere of structures and bridges, almost lunar towns, practically bare of human life. He has also been producing photographs for two years, which in my opinion are equally visionary, equally metaphysical.
“we delude ourselves that our science has a creative nature, but it is not so”
Wassily Kandinskij, Yellow, red and blue, 1925, oil on canvas, 127x200 cm
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ino al 27 aprile al Palazzo Reale di Milano sarà presente un’imponente selezione di dipinti del pittore russo Vasilij Vasil’evič Kandinskij, la maggior parte dei quali in esilio momentaneo dal Centre Pompidou parigino. La mostra esplora l’universo creativo dell’artista, con una monografica composta da oltre 100 opere di tracotante ispirazione e vivacità. Padre dell’arte astratta, Wassily Kandinskij si pone quale fautore di una spettacolare frattura rivelatasi in tutta la sua radicalità all’inizio degli anni dieci, percepita a ragione come una nodale rivoluzione culturale. A partire dal suo Primo acquerello astratto (1910), è evidente l’abbandono progressivo ma perentorio della rappresentazione, dell’oggetto, definito nocivo dallo stesso Kandinskij e indiscutibile fino ad allora. Le sue opere, vicinissime alla musica nella loro evidenza vibrante e allusiva, mutuavano dalla seconda arte anche i titoli: così le impressioni, ispirate alla natura, le improvvisazioni, autonome e quasi del tutto avulse da riferimenti, le composizioni, opere mature in cui ogni allusione allo spettacolo del mondo è divelto. Un’esposizione articolata e suadente di uno dei padri indiscussi di quella prospera decantazione che ha portato l’arte tutta a svincolarsi dalla mimesis.
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An important selection of paintings by the Russian painter Vasilij Vasil’evič Kandinskij will be presented at Palazzo Reale in Milan until 27th April. Most of these are in momentary exile from the Centre Pompidou of Paris. The exhibition explores the artist’s creative universe with a monographic exhibition consisting of over 100 works of awesome inspiration and creative force. Vassily Kandinskij was the father of abstract art, the promoter of a spectacular, extremely radical break with tradition which started around 1910 and is rightly perceived as a crucial cultural revolution. Starting from his First abstract watercolour (1910), we see the progressive but peremptory detachment from representation and the object, which Kandinskij defined as harmful but which had remained unchallenged up to then. His works, which resembled music in their vibrancy and allusiveness, also took their titles from the second art. So: the impressions, inspired by nature; the improvisations, autonomous and almost completely free of any references; the compositions, late works from which any allusion to the spectacle of the world has been extirpated. An exhaustive, compelling exhibition by one of the undisputed fathers of that fortunate depuration which led the whole of art to move away from mimesis.
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Turquoise Blue,_The Inspiration
L’Aperitivo
No. 64
Illustrato
The mathematical artist interview
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by
IVAN
BURRONI
Left: Masha Ru, Evening in a Missionary School, 2011, photography, mixed media, 100x75 cm Right: Masha Ru, Recycled time, 2011, photography, 40x30 cm
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on la matematica un fiore si può rappresentare con un’equazione, un organismo umano tramite un algoritmo, un’interazione sociale per mezzo di una funzione. Tutto questo ha connotazioni magiche che possono attrarre alcuni uomini e spaventarne altri. Padroneggiare la matematica dà illusione di potenza per la sua capacità di ridurre la complessità del reale attraverso teoremi. Ma questa potenza mette paura, allontana l’uomo dal suo mondo, si fa medium tra l’immediatezza delle percezioni e l’infinito nel quale è immerso. L’arte di Masha Ru, nata a Mosca e residente ad Amsterdam, mette in comunione ciò che l’immaginario collettivo tende a considerare antitetico: il rigore della scienza e la potenza espressiva dell’arte. Fin da giovane Masha frequenta corsi scientifici e segue con passione teatro, letteratura e fotografia. Nel 2011 consegue il dottorato di ricerca in matematica applicata e contemporaneamente porta a termine il percorso formativo alla Photoacademy di Amsterdam, città nella quale tuttora vive e lavora.
Dov’è il punto d’incontro tra arte e matematica per Masha Ru? «Uso la matematica come strumento per creare l’arte: formule per ideare nuove prospettive grafiche, equazioni per raccontare emozioni. Con essa posso descrivere la bellezza e allo stesso tempo crearla». Matematica come strumento ma anche come linguaggio? «Arte e matematica sono due diversi modi per rappresentare la realtà, due linee parallele che non s’intersecano mai ma parlano della stessa cosa. Arte e matematica nell’immaginario comune vengono considerati come mondi opposti. Molta gente, anche quando non comprende le formule, ama l’effetto grafico che queste contribuiscono a creare. Ma la maggior parte delle persone è spaventata dalla capacità sintetica del numero. Pensa immediatamente che si debba essere dei geni per capirne il significato. Chi ama l’arte spesso si aspetta che una buona opera sia immediatamente comprensibile. La matematica applicata all’arte rende quest’ultima, per certi versi,
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meno penetrabile. Eppure la comprensione dell’arte può essere complessa tanto quanto quella della matematica. E io non rinuncio né all’una né all’altra, perché esse non sono opposte, sono complementari». Parliamo dei tuoi lavori. In che modo Masha Ru, praticamente, usa la matematica per raccontare le sue emozioni e per creare le sue opere d’arte? «Mi considero un’artista visiva. Posso parlarti del mio nuovo lavoro: Life is a function. L’idea la concepii quando ero ancora molto giovane. Uscivo da una breve storia d’amore. Il dolore della perdita fece scattare dentro di me qualcosa. Disegnai un piano cartesiano dove l’asse del tempo copriva la mia intera vita e,
“I consider myself a visual artist. I can tell you about my new work: Life is a function.” all’interno di esso, evidenziai la durata della mia storia d’amore. La rappresentazione grafica mi aiutò a vedere quel che non ero riuscita a vedere coi miei soli occhi: quei tre mesi non erano che un’infinitesima parte della mia vita, non erano nulla. Quell’esperimento mi servì per concepire la vita in maniera differente, con maggiore distanza». In quel momento cercavi un modo per prendere le distanze da qualcosa che ti faceva soffrire. Così per imbrogliare la vita la imbrigliasti in una funzione. «La mia ispirazione fu il dolore e la mia creatività fu un atto di sopravvivenza. Da lì nacque il progetto, che è tuttora in evoluzione e che si fonda sull’idea che la vita umana possa essere descritta da una funzione matematica. Uso un modello dove tempo e karma possono essere valutati su un sistema di assi cartesiani. La fotografia è lo strumento per cristallizzare i momenti di vita che inserisco nella funzione. Ho iniziato ad indagare la periodicità con la quale la qualità del karma sembra ripetersi nel tempo, con oscillazioni periodi-
che che possono essere indagate, comprese e previste. In questo senso il lavoro si fonda su una collaborazione imprescindibile tra matematica e fotografia. Da questo progetto poi nasce l’interesse per il Calendario Maya». Di cosa si tratta? «Parlo del calendario Maya divinatorio, quello di 260 giorni per anno. Si tratta, oltre che di un sistema per la misurazione del tempo, di un sofisticato sistema di ripetizioni che rende possibile una serie di previsioni basate sulla ciclicità degli eventi. Anche in questo caso uso la fotografia. Molte delle foto che utilizzo sono foto semplici, di vita quotidiana vissuta, che inserisco all’interno del calendario. Esso mi permette di dominare la complessità, di trovare similarità e addirittura di prevedere avvenimenti». Che cos’è per te l’ispirazione? «L’ispirazione per me è molte cose. La bellezza della complessità, la matematica come strumento per dirimere la nebbia del reale». «Tuttavia, se dovessi dirti quale sia per me la più grande fonte d’ispirazione, ti risponderei senza esitare: le persone, le loro storie, la loro quotidianità. Life is a function è giusto un modo per raccontare la vita di ogni giorno con la matematica».
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Using mathematics, a flower can be represented with an equation, a human organism with an algorithm, a social interaction with a function. All this has magical connotations which can attract some people and frighten others. Mastering maths gives the illusion of power for its ability to reduce the complexity of reality through theorems. But this power provokes fear, distances man from his world, acts as a medium between the immediacy of perceptions and the infinity in which it is immersed. The art of Masha Ru, who was born in Moscow and lives in Amsterdam, unites what the collective imagination tends to consider as antithetical: the rigour of science and the expressive power of art. Since her childhood Masha has attended science courses and taken a passionate interest in theatre, literature and photography. In 2011 she gained a PhD in Applied Maths and at the
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same time finished her studies at the Photoacademy of Amsterdam, the town where she still lives and works. Where do art and maths meet for Masha Ru? «I use maths as a tool for creating art: formulas for inventing new graphic perspectives, equations for recounting emotions. With it I can describe beauty and at the same time create it». Maths as a tool but also as a language? «Art and maths are two different ways of representing reality, two parallel lines which never intersect but express the same thing. In the common view, art and maths are considered as opposite worlds. Many people, even when they don’t understand formulas, love the graphic effect that these contribute to creating. But most people are frightened by the synthetic capacity of numbers. They immediately think they have to be geniuses to understand their meaning. Art-lovers often expect a good work to be immediately understandable. Maths applied to art makes art in some senses less penetrable. But the understanding of art can be as complex as that of maths. And I refuse to give up either of them, because they are not opposite but complementary». Let’s talk about your works. How does Marsha Ru use maths in practical terms to recount her emotions and create her works of art? «I consider myself a visual artist. I can tell you about my new work: Life is a function. I had the idea for it when I was very young. I was coming out of a brief love affair». «The pain of the loss set something off inside me. I drew a Cartesian plane where the axis of time covered my whole life, and inside it I highlighted the duration of my love affair. The graphic representation helped me to see what I hadn’t been able to grasp with my eyes alone: those three months were just an infinitesimal part of my life, they were nothing. That experiment helped me to conceive life in a different way, with greater distancing». At that moment you were looking for a way of distancing yourself from something which made you suffer. So to tame life you constrained it into a function. «My inspiration was pain and my creativity was an act of survival. The project was generated from this, and is still evolving. It is founded on the idea that human life can be described with a mathematical function. I use a model where time and karma can be assessed on a system of Cartesian axes. Photography is the tool for crystallising the moments of life which I insert into the function». «I’ve begun investigating the periodicity with which the quality of the karma seems to repeat itself over time, with periodical swings which can be investigated, understood and predicted. In this sense the work is based on an inseparable blend of maths and photography. My interest in the Maya Calendar developed out of this project». What’s that about? «I’m talking about the Mayan astrological calendar, the one with 260 days per year. Besides being a system for measuring time, it’s a sophisticated system of repetitions which allows us to make a series of predictions based on the cyclic nature of events. In this case too I use photography. Many of the photos I use are simple photos of everyday life which I insert into the calendar. This allows me to dominate complexity, to find similarities and even to predict events». What’s your idea of inspiration? «Inspiration for me is a lot of things. The beauty of complexity, maths as a tool for settling the mists of reality. However if I had to tell you what the greatest source of inspiration is for me, I would unhesitatingly answer: people, their stories, their everyday lives. Life is a function is in fact a way of recounting everyday life through maths».
L’Aperitivo
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Tilson e l’eterno sogno dell’arte exibit
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by
michele
de
luca
- Tilson and the eternal dream of art -
Tilson, Stone of Venice Uva Fragola, 2007, aquatint, 100x130 cm
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oe Tilson nasce a Londra nel 1928; si forma al Royal College of Art di Londra con Kitaj, Peter Blake, Allen Jones e David Hockney e, nel 1955, dopo aver vinto il Premio Roma, lavora e vive nella capitale italiana, dove conosce la futura moglie Joslyn Morton che studia con Marino Marini all’Accademia di Brera a Milano; si trasferiscono in Sicilia e poi a Venezia. Tilson utilizza segni strutturali e modulari: lettere dell’alfabeto, giorni della settimana, riferimenti alchemici ai quattro elementi base (terra, acqua, aria, fuoco), o alle quattro stagioni o ai punti cardinali. Per oltre quarant’anni il suo lavoro si è svolto attraverso dipinti e sculture, grafiche e multipli: opere tutte di grande impatto, evocative e simboliche, contrassegnate da una splendida fattura “artigianale”. Nell’ambito del movimento Pop, la personalità di Tilson si impone tra le più forti e incisive: la sua ricerca imbocca una strada densa di implicazioni e sviluppi strutturali, linguistici, antropologici, poetici; egli recupera, fin dagli esordi, non solo il valore delle immagini moderne, ma anche il senso di quelle della tradizione visiva, del nostro inconscio collettivo, rivitalizzandole attraverso un linguaggio contemporaneo carico di sollecitazioni per la mente dell’uomo di oggi. L’opera di Tilson è esposta nella mostra Joe Tilson. Ritorno ad Aosta al Centro Saint-Bénin di Aosta; curata da Daria Jorioz ed Enzo Di Martino (catalogo Papiro Art), documenta i molti aspetti della sua ricerca, attraverso un’ampia selezione di sculture in terracotta, legno e vetro, dipinti su carta, grafiche, alle quali non attribuisce alcuna gerarchia di valori, considerando ogni tecnica ugualmente efficace per rappresentare il suo complesso mondo immaginativo. La sua arte si alimenta continuamente di fonti storiche e contemporanee, classiche e popolari, ponendo in gioco, accanto agli eventi sociali, la mitologia, la natura e le culture orientali.
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Joe Tilson was born in London in 1928. He studied at the Royal College of Art in London with Kitaj, Peter Blake, Allen Jones and David Hockney. In 1955, after winning the Premio Roma (Rome Award), he lived and worked in the Italian capital, where he met his future wife Joslyn Morton, who studied with Marino Marini at the Brera Academy in Milan. They moved first to Sicily then to Venice. Tilson uses structural and modular signs: letters of the alphabet, days of the week, alchemical references to the four basic elements (earth, water, air, fire), or the four seasons, or the points of the compass. For over 40 years he has worked with paintings and sculptures, graphics and multiples; all works of great impact, evocative and symbolic, characterised by splendid “artisanal” craftsmanship. Tilson’s personality is one of the strongest and most influential in the Pop Art movement; his art is dense in implications and structural, linguistic, anthropological and poetic developments. Right from the start he recuperated not only the value of modern images but also the sense of the images of our visual tradition, of our collective unconscious, regenerating them by means of a contemporary language which is loaded with stimuli for the mind of modern man. Tilson’s work now on show in the exhibition Joe Tilson. Return to Aosta at the Saint-Bénin Centre in Aosta, curated by Daria Jorioz and Enzo di Martino (catalogue Papiro Art), documents the many aspects of his research through a wide selection of terracotta, wooden and glass sculptures, paintings on paper, graphics. He does not attribute any hierarchy of values to these different techniques, considering each one equally effective for representing his complex imaginative world. His art draws continually on historical, contemporary, classical and popular sources, with allusions to mythology and oriental cultures as well as to social events.
“his art draws continually on historical, contemporary, classical and popular sources”
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giovannimarinelli www.giovannimarinelli.net
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L’Aperitivo
Alle origini della terra exibit
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by
Luca
Magnanelli
Leggiadre ispirazioni profile
- At the origins of the earth -
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Paolo Gotti has visited many villages, so it is perhaps simpler to list those he has not yet seen. After graduating in architecture and qualifying as a photographer in 1971, he gathered up his rolls of film and left for Africa. It was 1974, and when he returned home five months later he brought with him a new vision of our planet. He worked as an architect, graphic artist and photographer and dabbled in advertising and still lifes. But photo journalism was his true passion. Thus he began his journey around the world with his Nikon always “loaded”. Showing that his love of “shooting” is more alive than ever, Gotti has prepared two new projects which are on show until 28th February in the Column Room of Emil Banca Bank in Bologna (Italy). The photographic series At the origins of the earth shows us a world without human beings, almost as if Gotti had sent us a series of postcards of an unspoilt universe from a far-off past. Thirteen images which show vulcanoes, deserts, forests and water, sometimes placid, sometimes tumultuous. There are no human beings there, but the scenarios speak to us of a world which is more alive than ever and magnificently beautiful. Crossing over. Through the image is the second series of again thirteen photos, which seems to be an answer to the first series. Man appears as a spectator, fixed by Gotti’s lens as he crosses the field of vision of his camera. And thus we find ourselves unwitting actors, oblivious extras in a show in which the world is the stage. As we have said, Paolo Gotti has travelled a lot, and with his works he allows us to accompany him on part of his journey to discover unrepeatable, marvellous moments. His images are snaps of moments which no longer exist but which we can admire an infinite number of times.
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by
GIACOMO
BELLONI
- Graceful insipirations -
Stefano Calisti, Paese mio questa è la verità, 2011, mixed media on canvas, 50x100 cm
Paolo Gotti, Crossing over, Brasile, 2006
aolo Gotti di paesi ne ha visitati molti, tanto che forse è più semplice elencare quelli che non ha ancora visto. Dopo essersi laureato in architettura, e aver conseguito, nel 1971, un attestato di idoneità alla professione di fotografo, prende i suoi rullini e parte per l’Africa. È il 1974, e quando torna a casa, cinque mesi dopo, porta con se una nuova visione del nostro pianeta. Lavora come architetto, grafico e fotografo, e si cimenta nella pubblicità e nello still life. Ma è il reportage la sua vera passione. Inizia così il suo viaggio intorno al mondo, con la sua Nikon sempre “carica”. A dimostrazione che la sua voglia di “scattare” è più viva che mai, Gotti ha preparato due nuovi progetti, in mostra fino al 28 febbraio nella Sala delle Colonne di Emil Banca, a Bologna. La serie fotografica Alle origini della terra ci mostra un mondo dove l’uomo non c’è, quasi come se Gotti ci avesse inviato una serie di cartoline di un creato incontaminato, da un passato lontano. Tredici immagini che ci raccontano di vulcani, di deserti, di foreste e di acque, a volte placide, a volte tumultuose. L’uomo non c’è, ma gli scenari ci parlano di un mondo più vivo che mai, bellissimo. Crossing over. Attraverso l’immagine è la seconda serie di scatti, sempre tredici, che sembra rispondere alla prima. L’uomo compare come spettatore, immortalato dall’obbiettivo di Gotti mentre attraversa il campo visivo della sua macchina fotografica. Ecco così che ci si ritrova ad osservare degli ignari attori, inconsapevoli comparse di uno spettacolo il cui palcoscenico è il mondo. Paolo Gotti, l’abbiamo detto, ha viaggiato molto, e con le sue opere ci permette di fare una parte del tragitto insieme a lui, alla scoperta di momenti irripetibili e meravigliosi. Le sue immagini sono istantanee di attimi che non esistono più, ma che noi possiamo ammirare infinite volte.
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Illustrato
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e opere di Stefano Calisti sono lavori delicati e gentili, quasi impalpabili, velati da una leggera cipria di dolcezza. I suoi paesaggi ci accolgono con ospitalità, divenendo un sicuro rifugio ove entrare senza paura di essere raggiunti, con la certezza di poterci rimanere fintanto che non sarà passato il pericolo. Etereo e indefinibile, ciò che raffigura ci trasporta in un mondo incantato e pieno di poesia. Egli ha la rara capacità della sintesi, per questo riesce sempre a mettere d’accordo tutti. La volontà di esternare il proprio mondo interiore ben si adatta alla necessità di quiete dell’osservatore, espressa attraverso una sintassi leggiadra, quasi elementare. Quello che propone coi suoi dipinti è il proprio mondo interiore, così com’è, senza mistificazioni: le colline marchigiane, i cieli tersi, una vegetazione fatta di querce che dominano forti la terra madre, florida e feconda. Il tutto raffigurato con colori incantati: firmamenti scarlatti, campi arancio, querce cobalto; usa l’ocra per le case, il rame e il giallo brillante per i campi di grano, le chiome sono vestite di rosso veneziano. Il colore è il suo segno distintivo, la sua firma inconfondibile. È stato definito il prestigiatore dei colori per quella sua sapienza nello scegliere, mescolare e dosare le tonalità della sua tavolozza. Per mezzo del colore Calisti appiattisce le campiture, elimina le pesantezze, evita le sfumature non necessarie rendendo i dipinti sempre immediati e digeribili, con tinte mai invadenti o faticose da leggere. I suoi lavori sono poesie aggraziate, tenui, emblemi di un modo di essere uomo, ancor prima che artista. Prendere tutto molto meno seriamente è il risultato di scelte precise e consapevoli, maturate dopo profonde riflessioni, perché oltre la coltre scura ed opprimente dell’apparenza c’è un mondo incantato dal quale è ancora possibile farsi corrompere. Quello dei suoi dipinti.
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The works of Stefano Calisti are delicate, gentle, almost impalpable works with a light sprinkling of sweetness. His landscapes are hospitable, offering a sure refuge where we can enter without fear of being caught up with, certain that we can stay there until the danger passes. Creating an ethereal, atmosphere, he transports us into an enchanted, poetry-filled world. He has the rare capacity for synthesis and for this reason manages to satisfy everyone. The externalisation of his inner world answers the viewer’s need for quietness, which is expressed through graceful, almost elementary, synthesis. What he proposes with his paintings is his own inner world, just as it is, without any falsifications: the Marche hills, the clear skies, vegetation with oaks which strongly dominate his florid, fecund native territory. Everything is shown in magical colours: scarlet firmaments, orange fields, cobalt oaks. He uses ochre for the houses, copper and bright yellow for the corn fields; the foliage wears Venetian red. Colour is his distinctive sign, his unmistakable signature. Calisti has been called “the colour magician” because of his skill in choosing, mixing and dosing the tones of his palette. He uses flat fields of colour, eliminates any heaviness, avoids unnecessary nuances, always making the paintings immediate and digestible, with hues which are never aggressive or hard to read. His works are graceful, soft poems, emblems of a man’s, rather than an artist’s, way of being. Taking everything less seriously is the result of precise, conscious choices which have grown out of deep reflection, because beyond the dark, oppressive cloak of appearance lies an enchanted world which can still seduce us. The world of his paintings.
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L’Aperitivo
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Illustrato
L’erotismo demoniaco think
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by
Salvatore
mortilla
- Diabolic eroticism Left: Eugène Delacroix, La liberté guidant le peuple , 1830, oil on canvas, 260x325 cm Right: Franz Von Stuck, Sensuality Eve and the Snake, 1891 Next page: Félicien Rops, L’initiation sentimentale, 1887, pencil and watercolour on paper, 29,2x 18,2 cm, Musée d’Orsay, Paris
L’Ottocento è il secolo in cui deflagrano gli effetti della Rivoluzione Francese: se sul piano politico l’ondata rivoluzionaria sembra infeudarsi nelle prospettive reazionarie della Restaurazione, dal punto di vista sociologico l’ascesa inarrestabile della nuova classe borghese segna il passo dei tempi e immortala quel cambiamento irreversibile che sta alla base del mondo contemporaneo. Il XIX secolo fotografa il collasso dell’Ancien Régime e l’inizio dell’epopea borghese, come dimostrano le principali linee estetiche del periodo. Il romanzo, il verso libero, le varie declinazioni della pittura realista prima, e di quella simbolista poi, sono altrettante espressioni di un cambiamento epocale del gusto che scardina il sistema tradizionale dell’arte. Cade l’opposizione netta tra bello e brutto e il ventaglio del rappresentabile si apre ad una varianza potenzialmente infinita di soggetti, dal momento che appare sempre più offuscato il discrimine tra lecito e illecito. La medesima ondata di rinnovamento, unita all’ambiguità che da esso trae origine, investe anche una delle topiche più rappresentative della cultura occidentale: la rappresentazione della figura femminile. La donna, smessi i panni rassicuranti dell’angelo del focolare, assume connotati sempre più conturbanti; superati i tradizionali canoni estetici, anche la definizione del bello muliebre viene messa in crisi e, per la prima volta nella storia occidentale, la bruttezza femminile entra nell’alveo della cultura alta, finendo, talvolta, per costituire di per se stessa l’oggetto del desiderio maschile. Gli esempi sono molteplici, soprattutto in ambito letterario: basti pensare alle donne demoniache che affollano le pagine di Les fleurs du mal di Charles Baudelaire, una delle opere più importanti del XIX secolo, senza dubbio la principale raccolta poetica. La donna del secondo Ottocento è una creatura in fin dei conti mostruosa, capace di attrarre irrimediabilmente l’uomo e di decretarne la rovina. La carica erotica di cui è depositaria è il mezzo attraverso il quale irretisce il maschio; il contatto privilegiato che la femminilità vanta con la dimensione del sensuale, dell’irrazionale e dell’oscuro è ciò che porta l’uomo alla perdizione. La donna, ne sono certi gli intellettuali della Belle Epoque, è strega e maga, in forza di quel particolare legame che intercorre tra il suo sesso e il mondo dell’irrazionale e del magico. Non si tratta di una scoperta ottocentesca: anche se da sempre la femminilità è connessa al piano del dionisiaco e il maschile è invece assimilato all’apollineo, è agli albori della modernità che la cultura occidentale radicalizza questo topos. Sarà peraltro Freud, proprio in questo torno di anni, a dare coerenza scientifica ad una tradizione prima solamente letteraria, attraverso i suoi studi sull’isteria e la clamorosa scoperta dell’inconscio. La donna attrae l’uomo e, in fin dei conti, lo attrae pro-
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prio perché lo distrugge; e questo maschio, compiaciutamente impotente perché vagamente masochista, si abbandona nelle grinfie della femmina e si lascia morire di piacere tra le sue braccia. Lo spavento si mescola all’eccitazione e la donna campeggia signora e sovrana. È questo il senso dell’esperienza d’amore secondo Félicien Rops. In un suo famoso acquerello del 1887 intitolato L’initiation sentimentale, l’artista rappresenta una creatura mostruosa di sesso femminile, metà donna e metà scheletro, che tiene in mano la testa mozzata di un uomo. Un cavaliere sembrerebbe lui, per l’iconografia che lo caratterizza (copricapo, capelli, barba) e una strana incarnazione di Cupido lei, per via delle ali e dell’arco in pugno. Secondo la mitologia, il figlio di Venere scocca le sue frecce e chi ne è fatalmente colpito si innamora. Ma la tradizione prevedeva che Cupido fosse un bellissimo fanciullino, non un mostro e per giunta di sesso femminile. Una creatura che incute
“The allusive reference to male sexuality is implied in the reptile and the coils of its body caressing the model’s nude body only serve to underline the erotic charge of the touch, the embrace” terrore, ma non priva di una forte carica erotica: Rops mette bene in evidenza le terga tornite della donna e provvede a sottolinearne le forme sensuali, grazie ad un corpetto molto stretto, su cui poggiano seni prosperosi. Il mostro è eccitante - questo vuole dire l’artista: le frecce scoccate dal suo arco vanno tutte a segno, senza tema di fallire. Lo dimostra il trofeo della donna: un uomo, anzi, solo la sua testa mozzata. Un’iscrizione a fondo dell’acquerello permette di comprendere a pieno il senso dell’immagine: Diabolis virtus in lumbis, la virtù del Demonio risiede nei lombi. Che è come dire: la grandezza del Diavolo è nelle terga. L’allusione oscena istituisce un parallelo tra la donna e il principe del Male appunto in nome dei lumbis; al capo opposto del significato, l’uomo, con tanto di berretto e barba cavallereschi, incarna per antonomasia il nemico del Demonio, Gesù. Fin dal Medioevo, infatti, il cavaliere è immagine terrena di Cristo, suo specchio. Ma nell’acquerello di Rops, l’uomo è sconfitto, e con lui, ça va sans dire, Cristo. La donna-demonio si erge vincitrice. Una visione analoga dell’universo maschile accomuna
l’opera di Rops e quella di Gustav Klimt, come parrebbe dimostrare il famosissimo dipinto Giuditta I: ancora una volta erotismo e morte vanno in scena, sullo sfondo di un nuovo riferimento irridente della cultura cristiano-cattolica. Il quadro riprende il famoso episodio biblico dell’uccisione di Oloferne per mano di Giuditta. La vicenda, assai nota e spesso fonte di ispirazione per molteplici opere d’arte, viene riletta in una prospettiva innovativa. Giuditta non è la sovrana saggia e penitente del libro del Vecchio Testamento, sì invece una donna avvenente ed eccitante, abbigliata di veli trasparenti e ricamati d’oro, con sguardo ambiguo e un’espressione da molti critici interpretata come di piacere (erotico?). La Giuditta di Klimt non è, in accordo con la tradizione iconografica, rappresentata nel momento dell’atto eroico dell’uccisione del nemico Oloferne. Al pittore viennese poco importa la lettura patriottica del mito ciò che invece è tradizionalmente privilegiato. Ad essere messo in scena è piuttosto il momento esattamente successivo alla decapitazione: Giuditta è vittoriosa e stringe tra le dita la testa mozzata del generale assiro, al quale è riservato l’angolo in basso a destra della tela. Oloferne, l’uomo, è relegato in una posizione assolutamente secondaria; la mano di lei stringe, verrebbe anzi da dire artiglia, la testa di lui. Tra le due teste viene a istituirsi così un curioso rapporto di contiguità: entrambe sono staccate dal corpo. Oloferne è stato decapitato, Giuditta no, è vero, ma il collare dorato che copre completamente la pelle del suo collo, stacca testa e torace. Giuditta è una donna e come tale è creatura irrazionale, notturna, dionisiaca: è l’esatto opposto dell’apollineo e razionale maschile. Per questo motivo la sua testa è staccata dal corpo: perché le donne non ragionano con la testa, ma con il corpo, anzi, non ragionano e basta. La loro vittoria sull’universo maschile risiede proprio in questa loro mancanza - che è in realtà forza, dal momento che assicura loro il contatto esclusivo e privilegiato con il mondo del mistero, laddove gli uomini non hanno alcun potere. La tirrania della donna ottocentesca risiede nel negare all’uomo la sua carica razionale, nel recidergli la testa, sorta di evirazione della ragione, negazione stessa del maschile. Così nell’olio di Klimt e allo stesso modo nel quadro di Rops. Le due figure maschili sono peraltro accomunate da un ulteriore significativo elemento: in entrambi i casi è sottesa una caratterizzazione cristologica del personaggio. In Rops per via della tradizionale interpretazione della figura del cavaliere come miles Christi, in Klimt per le fattezze stesse di Oloferne - capelli e barba lunghi, il viso emaciato: attributi tipici dell’iconografia cristologica. L’uomo dell’Ottocento è come Cristo, vittima delle angherie del Demonio. Ma Cristo, figlio di Dio, ha potuto sconfiggere il male; l’uomo, in un mondo dove Dio è morto, è vittima designata di Satana, a cui non
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potrà non cedere. Specie se le sue lusinghe sono adombrate nelle carni sensuali e desiderabili di una femme fatale. In un ipotetico trittico di opere rappresentative dell’erotismo demoniaco del XIX secolo non può essere tralasciato Sensualità di Franz Von Stuck: ancora una donna, ma questa volta l’uomo non c’è più. La vittima è assente e a comparire è un suo sostituto: il serpente. Il riferimento allusivo alla sessualità maschile è insito nel rettile e le spire del suo corpo, accarezzando il corpo nudo della modella, non fanno che sottolineare la carica erotica del tocco, dello stretta. La bianchezza dell’incarnato della donna suggerisce peraltro un desiderio di possesso che il serpente soddisfa compiaciuto. Eppure il serpente non è signore della donna, egli la possiede ma non perché ella sia sua schiava. Il volto della modella e il muso del rettile sono significativamente allineati, come due alleati; di più, entrambi condividono il medesimo sguardo rivolto fuori dal quadro, verso l’osservatore. Il serpente è come la donna: il serpente è la donna. Non a caso i loro due corpi sono fusi assieme in un unico volume plastico, fatto di curve sinuose e lussuriose. La fatale alleanza delle due creature è fondata sul sesso. La carica di eros è il collante tra la donna e il serpente che la stringe nelle sue spire. Come dire che, nel rapporto difficile e controverso tra uomo e donna, l’alleanza è possibile solo ad una condizione: l’uomo deve rinunciare alla sua testa (quella che non a caso compare mozzata in Rops e in Klimt) e dare voce solo alla sua sessualità (adombrata nell’immagine del serpente nel quadro di Von Stuck). La donna-vampiro dell’Ottocento può accettare solo il sesso di un uomo - per il resto troppo apollineo, troppo razionale, troppo solare. Anche in Sensualità di Von Stuck è peraltro presente un riferimento alla cultura cattolica: dopo le immagini cristologiche, compare l’alter ego di Dio e del Bene, cioè Satana, il principe del Male. Il serpente, appunto, l’amante perfetto della donna perversa del XIX secolo.
als were convinced that woman is a witch and an enchantress, because of that particular link between her sex and the world of the irrational and the magic. This was not a 19th-century discovery; although femininity has always been connected with dionysian instincts, and masculinity with apollonian ones, it was only with the dawn of modernity that western culture radicalised this convention. It was precisely in this period that Freud gave scientific coherence to a tradition which was formerly only literary, through his studies on hysteria and the clamorous discovery of the unconscious. Woman attracts man and, at the end of the day, she attracts him just because she destroys him. And this male, complacently impotent because he is vaguely masochistic, abandons himself to the clutches of the female and lets himself die of pleasure in her arms. Fear mingles with excitement and woman reigns supreme. This is the sense of the love experience according to Félicien Rops. In a famous 1887 watercolour entitled Sentimental initiation, the artist shows a monstrous female creature, half woman and half skeleton, who holds the severed head of a man in her hand. From the iconography characterising him (cap, hair, beard) he would seem to be a knight, and
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The 19th century is the century which experienced the aftereffects of the explosion of the French Revolution. While politically the wave of revolution seemed to be tamed by the reactionary climate of the Restoration, sociologically the irrepressible rise of the new middle class left its mark on that period and sealed the irreversible change on which the contemporary world is based. The 19th century photographs the collapse of the Ancien Régime and the beginning of the middle-class adventure, as demonstrated by the main aesthetic trends of the period. The novel, free verse, the various types of realist, then symbolist, painting, are all expressions of a momentous change in taste which sweeps away the traditional system of art. The opposition between beautiful and ugly is abolished, and the range of representable themes is extended to a potentially infinite variety of subjects, as the difference between “acceptable” and “unacceptable” becomes more and more blurred. The same wave of renewal and the ambiguity deriving from it also sweeps over one of the most represented and representative subjects in western culture: the female figure. Having shed the role of perfect housewife, women behave in an increasingly perturbing way. Traditional aesthetic canons having become obsolete, even the definition of female beauty is questioned and, for the first time in western history, female ugliness penetrates the recesses of high culture and becomes in itself the object of male desire. There are many examples, above all in literature; we need only think of the diabolic figures crowding the pages of Les fleurs du mal by Charles Baudelaire, one of the most important 19th century works and undoubtedly the main poetry collection. All things considered, late 19th-century woman is a monstrous creature, able to attract man irremediably and bring about his ruin. The erotic charge she possesses is the means through which to trap the male. The special contact which femininity boasts with sensuality, irrationality and obscurity is what leads men to perdition. Belle Époque intellectu-
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she would seem to be a strange incarnation of Cupid, because of the wings and the bow she is holding. According to mythology, the son of Venus shoots his arrows, and whoever is struck by them falls in love. But tradition saw Cupid as a lovely little boy, not a monster, and certainly not female. Not a creature who instils fear and possesses a certain strong erotic charge. Rops highlights the woman’s rounded buttocks and underlines her sensual forms with a very tight bodice on which plump breasts are resting. The monster is exciting, this is what the artist is telling us; the arrows shot from its bow all hit the target with no fear of missing it. The woman’s trophy demonstrates this: a man, indeed just his severed head. An inscription at the bottom of the watercolour reveals the full meaning of the image: Diabolis virtus in lumbis, “the virtue of the Devil resides in the loins”. In other words the greatness of the Devil is in the buttocks. The obscene allusion creates a parallel between the woman and the Prince of Evil in the very name of buttocks. Looking at the opposite side of the meaning, the man, with his knightly cap and beard, incarnates the Devil’s arch enemy, Jesus. Since the Middle Ages in fact the knight had been the earthly image of Christ, his mirror. But in Rops’ watercolour, the male is defeated and so consequently is Christ. The womandevil is victorious. Similar views of the male universe link Rops’ work with that of Gustav Klimt, as the latter’s famous painting Judith I would seem to demonstrate. Again eroticism and death come into play, against the background of a new derisory reference to Christian/Catholic culture. The
picture shows the famous biblical episode of Judith’s slaying of Holofernes. This episode, which was very well-known and the source of inspiration for many works of art, is here re-interpreted in an innovative way. Judith is not the wise, penitent sovereign of the Old Testament book, but rather an attractive, exciting woman dressed in transparent goldembroidered veils, with a lascivious look and an expression interpreted by many critics as one of (erotic?) pleasure. Klimt’s Judith is not, as in the traditional iconography, represented at the moment of the heroic act of killing her enemy Holofernes. The Viennese painter was uninterested in the patriotic interpretation of the myth, the aspect which was traditionally emphasised. He shows rather the moment just after the beheading: Judith is victorious and clutches in her fingers the severed head of the Assyrian general, who is squashed into the bottom right corner of the canvas. The man Holofernes is relegated to an absolutely secondary position. Her hand grips his head, we might almost say clasps it in her claws. Between the two heads a curious resemblance is created: both seem to be detached from the body. Holofernes has been beheaded; Judith has not, it is true, but the gilded neckband which completely covers the skin of her neck detaches her head from her body. Judith is a woman and as such she is an irrational, nocturnal, dionysian creature. She is the exact opposite of the apollonian, rational male. For this reason her head is detached from her body, because women do not reason with their heads but with their bodies; indeed they do not reason at all. Their victory over the male universe resides in this very lack, which is actually a strength, since it ensures their exclusive, privileged contact with the world of mystery where men have no power. The tyranny of the 19th-century woman lies in her denying man his rational force, in cutting off his head, a kind of castration of reason, the very negation of masculinity. Thus in Klimt’s oil painting as in Rops’ watercolour. The two male figures are also linked by a further significant element; in both cases there is an underlying christological characterisation of the figure, in Rops through the traditional interpretation of the figure of the knight as miles Christi, in Klimt for Holofernes’ physical features themselves ( long hair and beard, emaciated face, typical attributes of christological iconography). Nineteenth-century man is like Christ, the victim of the Devil’s harassments. But Christ, the son of God, defeated evil; men, in a world where god is dead, are the natural victims of Satan, to whom they are compelled to submit. Especially as his flattery is veiled in the sensual, desirable flesh of a femme fatale. Sensuality, by Franz Von Stuck, cannot be left out of a hypothetical triptych of works representative of 19th-century diabolical eroticism. Again a woman, but this time the man is no longer there. The victim is absent and a substitute for him appears, a snake. The allusive reference to male sexuality is implied in the reptile, and the coils of its body caressing the model’s nude body only serve to underline the erotic charge of the touch, the embrace. The whiteness of the woman’s flesh moreover suggests a desire for possession, which the snake complacently fulfils. The model’s face and the snake’s head are significantly aligned, like two allies. Moreover, both share the same expression of the eyes which are turned towards the viewer, outside the picture. The snake is like the woman; the snake is the woman. It is no coincidence that their two bodies are blended into a single plastic volume consisting of sinuous, lascivious curves. The fatal alliance of the two creatures is founded on sex. An erotic charge binds the woman to the snake, which squeezes her in its coils. As if to say that in the difficult, controversial relationship between man and woman, an alliance is possible on one condition only: the man must give up his head (which not coincidentally appears as cut off in Rops and Klimt) and only express his sexuality (hinted at in the image of the snake in Von Stuck’s picture). The 19th-century woman/vampire can only accept a man’s sex, which is however too apollonian, too rational, too sunny. In Von Stuck’s Sensuality too there is a reference to Catholic culture; after the christological images, the alter ego of God and Goodness appears, i.e. Satan, the Prince of Evil: the snake in fact , the perfect lover of perverse 19th-century woman.
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Nel mondo di SIRIO profile
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by
Maria
stefania
gelsomini
- In the world of Sirio -
Sirio Reali, Estate 10, 2002, charcoal and colored chalk on paper, 50x69,5 cm
Sirio Reali, Casa 27, 2013, oil on canvas, 70x50 cm
Sirio Reali, Inverno 1, 2003, colored chalk on paper, 70x100 cm
Sirio Reali, Casa 7, 2012, oil on board, 70x50 cm
N
on sempre un grande artista sa essere un bravo insegnante, ma magari Sirio Reali è stato anche quello. Bisognerebbe chiederlo ai suoi allievi dell’Istituto d’Arte di Macerata – dove lui stesso si è formato e dov’è tornato a insegnare fra il 1970 e il 1990 – consapevoli certo di aver avuto, comunque, una fortuna sfacciata. Il pittore maceratese, attivo sulla scena artistica da quasi mezzo secolo e oggi settantenne, ha anche frequentato l’Accademia di Belle Arti a Roma, sezione Scenografia. E non a caso, un’ispirazione scenografica le sue opere la evocano. Nell’imponenza dei grandi formati, che bloccano il passo e il respiro di chi li osserva. Nella scelta di macroscopici soggetti architettonici, pezzi unici isolati sulla tela che quasi non li contiene, o ripetuti in cadenza ossessiva e infinita, o tagliati per mostrarne un solo dettaglio. Sono le “sue” case, le “sue” finestre, i “suoi” balconi, ora raccolti dalla casa editrice Liberilibri nel catalogo Macchine, Finestre, Balconi, Case, che contiene una selezione di centotredici opere e uno scritto di Anna Li Vigni, tradotto anche in inglese. È l’affettuoso e doveroso omaggio a uno dei più interessanti pittori italiani contemporanei, inconfondibile come il suo realismo visionario, che inventa una poetica tutta personale del mondo, sottraendo funzionalità ai simboli per eccellenza del quotidiano metropolitano e caricandoli di un pesante fardello d’inquietudine. Sirio Reali rappresenta in un tragico isolamento, nel silenzio assordante e nell’immobilità senza scampo luoghi e oggetti solitamente in movimento e pulsanti di vita, ritrae chiuso ciò che è aperto, come auto senza sportelli private della corsa, case e labirinti senza uscita, porte senza sbocchi. E senza una traccia, mai, di figure, persone, esseri viventi. L’impatto cromatico (e spesso monocromatico) dei marroni e dei grigi accentua il vuoto e lo smarrimento provocato da architetture improbabili, a volte ravvivate da guizzi di turchese, di arancio, di verde smeraldo.
A great artist is not always a good teacher, but Sirio Reali was that too. We should ask his students at the Macerata Art Institute where he studied then returned to teach between 1970 and 1990; they will certainly be aware they have been blatantly lucky in this sense. The painter from Macerata, who has been active on the art scene for almost half a century and is now in his seventies, also studied Set Design at the Fine Arts Academy in Rome. And not coincidentally his works evoke the inspiration of set design: in the imposing large formats which stop the viewer’s steps and breath; in the choice of macroscopic architectural subjects, single pieces isolated on the canvas which almost does not manage to contain them, or repeated in an obsessive or infinite cadence, or chopped off to show a single detail. They are “his” houses, “his” windows, “his” balconies, now collected together by the publishers Liberilibri in the catalogue Cars, Windows, Balconies, Houses, which contains a selection of 113 works and a comment by Anna Li Vigni, also translated into English. It is an affectionate, rightful homage to one of the most interesting contemporary Italian painters who is as unmistakable as his visionary realism, which invents a wholly personal interpretation of the world. Removing the functional aspect of the main symbols of metropolitan daily life and loading them with a heavy burden of disquietude, Sirio Reali shows places and objects which usually move and throb with life in tragic isolation, roaring silence and ruthless immobility. He portrays open things as closed, doorless cars which cannot move, houses and mazes with no way out, doors opening onto nothing. And without any trace ever of figures, people, living beings. The chromatic (often monochromatic) impact of the browns and greys accentuates the vacuum and the puzzlement provoked by the improbable architectures which are sometimes enlivened with splashes of turquoise, orange, emerald green.
“Removing the functional aspect of the main symbols of metropolitan daily life and loading them with a heavy burden of disquietude”
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Courtesy: Margherita Reali and Massimo Zanconi
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PORTFOLIO
SILVIA
CAMPORESI
Nata a Forlì nel 1973, laureata in filosofia a Bologna, vive e lavora a Forlì. Attraverso i linguaggi della fotografia e del video costruisce racconti che traggono spunto dal mito, dalla letteratura, dalle religioni e dalla vita reale. Le sue immagini vertono sempre sulla ricerca del limite fra finzione e realtà. Al suo attivo numerose esposizioni sia in Italia che all’estero. Born in Forlì, Italy, in 1973. She has a University Degree in Philosophy at the University of Bologna and she is now living and working in Forlì. Trough the language of photography and video she “write” novels taken inspiration by miths, literature, religions and from the real life. Her images always revolve on finding the boundary between fiction and reality. She has had several exhibitions both in Italy and abroad.
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Ti presento i CASTIGLIONI interview
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by
Roberto
PALUMBO
- Allow me to introduce the Castiglioni family -
Achille, Pier Giacomo, Livio Castiglioni 1952, courtesy Walter Laeubli
Achille, Pier Giacomo Castiglioni, Lampada ARCO (per Flos) 1962
L
ivio, Pier Giacomo e Achille Castiglioni hanno dato vita ad interi universi costellati di quegli oggetti innovativi, a volte magici, che fuoriuscivano dalla loro geniale fantasia. Con tono ironico, a volte giocoso, hanno realizzato una grandissima serie di opere che spaziano tra Il design industriale, l’architettura, gli allestimenti ed il design d’interno superando i confini italiani fino ad essere rappresentati in una mostra permanente al Moma di New York. Abbiamo raggiunto Carlo e Giovanna Castiglioni, figli di Achille, per porre loro qualche domanda e farci raccontare la storia della loro famiglia.
Il primo studio Castiglioni nasce a Milano nel 1936, in Corso di Porta Nuova, da una parte dei locali che nonno Giannino lascia a Livio Castiglioni, il più anziano dei fratelli. Ci racconta chi era Giannino Castiglioni? «Giannino Castiglioni nacque a Milano il 4 maggio del 1884. Nei primi anni della sua infanzia abitò con la propria famiglia, composta dal padre, dalla madre e dal fratello Achille. Compì i suoi studi artistici presso l’Accademia di Brera e ne uscì nel 1906 presentando, lo stesso anno, la sua prima opera scultorea all’Esposizione Internazionale di Milano. Lavorava come “medaglista” presso la fonderia Johnson, che aveva la sua fabbrica in un edificio che si apriva in Piazza S. Maria degli Angeli, all’inizio di Corso di Porta Nuova.» «Ricordo questo fatto non per pignoleria o piacere del dettaglio, ma perché attraverso questo lavoro “fisso” gli fu permesso di sposare a Monza, nel 1907, Livia Bolla, figlia di un austero professore di lettere, preside del Liceo Zucchi di Monza, che aveva conosciuto durante alcuni periodi di villeggiatura sul lago di Como. Dopo il matrimonio Giannino Castiglioni andò ad abitare sempre in Corso di Porta Nuova,
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dove già risiedeva la sua famiglia, e qui, al numero civico 22, nacquero i figli: Piera (1910), Livio (1911), Pier Giacomo (1913) ed Achille (1918), nella stessa via dove aveva lo studio.» «Giannino Castiglioni ha seguito un percorso artistico lontano dalle avanguardie moderniste del tempo; è oggi poco conosciuto dai più, ma Milano è cosparsa di sue opere: la fontana di S.Francesco in piazza S. Maria degli Angeli, la porta del Duomo che rappresenta la storia di S. Ambrogio, il Cristo Re che sovrasta l’entrata dell’Università Cattolica, il monumento
“the first Castiglioni studio was set up in Milan in 1936 in Corso di Porta Nuova” ai caduti della Resistenza in Piazzale Loreto. Ai Milanesi Giannino Castiglioni è noto quindi per le molte fontane, per la serie di opere celebrative al Cimitero Monumentale, per il racconto della storia di Sant’Ambrogio che lo scultore trascrive su una delle porte del Duomo e per i quattro grandi medaglioni visibili nell’androne della Stazione Centrale che raffigurano il Lavoro, il Commercio, la Scienza e l’Agricoltura. Ma ci sono anche tantissime altre opere come le fontane La primavera per Rizzoli e Testa di Medusa, oggi posta nel cortile della biblioteca Ambrosiana. Forse, oggi, ci possono sembrare più interessanti le opere di architettura monumentale realizzate sui luoghi di teatro della Grande Guerra con l’architetto Greppi: ricordo solo i sacrari di Redipuglia e Monte Grappa, due opere che
sfidano l’oblio con un impianto scenografico che con queste caratteristiche ha trovato realizzazione solo in Italia. Nel 1936 la famiglia si trasferì in un nuovo appartamento in via Palestro, mentre lo studio rimase in Corso di Porta Nuova. In seguito, la distruzione della casa di via Palestro a causa dei bombardamenti alleati, costrinse il nonno Giannino a ritornare in un appartamento di Corso di Porta Nuova vicino allo studio. Fu in quegli anni che una parte dei locali furono ceduti ai figli per attivare il loro studio di architettura». Nel 1939 Achille non si era ancora laureato, e con Livio e Pier Giacomo progetta la prima radio in bachelite PHONOLA, che gli fa vincere la medaglia d’oro alla triennale. È l’unico lavoro firmato da tutti e tre i fratelli? «Per quegli eventi curiosi della vita che coinvolgono i rapporti fra gli individui, i lavori realizzati dai tre fratelli assieme sono pochissimi. Alcuni sono stati realizzati da Livio con Pier Giacomo, altri da Livio con Achille (dopo la morte di Pier Giacomo), mentre nel periodo prebellico e nell’immediato periodo successivo, troviamo i prototipi delle radio firmati da tutti e tre. In seguito troviamo non più specifici disegni di oggetti, ma collaborazioni particolari come per le mostre. Una su tutte quella delle Vie d’acqua da Milano al mare del 1963, nella quale la collaborazione con Livio era focalizzata sugli effetti sonori e visivi. Era una delle prime volte che si sfruttavano le immagini visive e soprattutto gli effetti sonori per coinvolgere il pubblico in modo da sottolineare i concetti espressi nelle varie parti delle mostra». La radio a quell’epoca aveva un ruolo fondamentale per la società. La musica, il suono e l’evoluzione tecnologica sono, tra le varie attività, una costante per la famiglia. Ma è vero che Livio aveva progettato artigianalmente una trasmittente in soffitta già nel 1928?
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Achille e Pier Giacomo Castiglioni , RR126. Radiofonografo stereofonico, 1965
RR126 in the Castiglioni studio
«Non ho informazioni di come sia stata progettata la radio che mio zio Livio aveva nella soffitta della casa di campagna a Lierna (LC). In quell’epoca (1928) non vi era una vera produzione di apparecchiature da radio-amatore, ovvero capaci di ricevere e inviare segnali audio. Gran parte di questo apparecchio è stato certamente assemblato direttamente da Livio con l’aiuto del cugino Tullio, che viveva con loro e che frequentava ingegneria al Politecnico di Milano». Achille parlava di Livio come del «più matto dei savi e il più savio dei matti». Ci racconta qualcosa di lui e della sua influenza su Achille e Pier Giacomo? «È difficile raccontare di Livio ed in particolare della sua influenza su Achille e Pier Giacomo. Certamente Achille aveva una grande stima di Livio, e con lui condivideva quel senso dell’ironia e del gioco che in vario modo troviamo anche nelle loro opere. Livio era più estroverso e coinvolgente verso le altre persone , mentre Achille era meno aperto verso gli altri e si limitava in un ambito più ristretto di persone conosciute. Tuttavia quando i fratelli si trovavano assieme gli eventi erano “esplosivi”, basta ricordare l’articolo pubblicato da un giornale svizzero nell’occasione del matrimonio del grafico Max Huber nel 1958 in cui una foto mostra i fratelli Castiglioni che con fumogeni e razzi interrompono la tranquilla vita di una piccola cittadina della Svizzera centrale». Nel 1952 Livio andrà a lavorare come consulente per la Phonola, ed in seguito per la Brionvega, mentre per Achille e per Pier Giacomo, Gli anni cinquanta e sessanta sono stati periodi intensi dal punto di vista lavorativo e sostanziali per quello progettuale, caratterizzati da due eventi cruciali: la mostra Colori e forme nella casa d’oggi a Como (1957) e la mostra La casa abitata a Firenze (1965). Come si evolve la progettualità dei Castiglioni e cosa succede in queste mostre?
«Il sodalizio culturale e lavorativo fra Achille e Pier Giacomo è certamente un modello unico. Le due mostre, Colori e forme nella casa d’oggi a Villa Olmo, Como, e La casa Abitata a Firenze sono fondamentali nel percorso creativo di Achille e Pier Giacomo, perché in queste mostre vengono presentati prototipi innovativi (alcuni saranno commercializzati anche decenni dopo), ed innovativo è anche il contesto nel quale questi vengono posti, scardinando la struttura consolidata dell’arredamento dell’epoca. Un’analisi attenta delle immagini di queste mostre è in grado di
“Giannino Castiglioni’s art went in a very different direction from the modernist avantgarde movements of the time” evidenziare questi aspetti». Nel 1965 Achille e Pier Giacomo realizzano il radiofonografo per la Brionvega, un modello bellissimo e tecnologicamente all’avanguardia. Ci racconta qualcosa su quel progetto? «L’RR126 di Brionvega è certamente un oggetto interessante, sia perché all’epoca l’azienda aveva anche una leadership tecnologica, ma anche perché per la prima volta si cercava di rispondere alle esigenze dei melomani che volevano poter disporre di un unico strumento per ascoltare la musica. Questo apparecchio poteva quindi essere utilizzato unito, con le casse acustiche separate per esaltare la stereofonia e poi essere spostato facilmente negli ambienti dello stesso
appartamento». Nel 1966 Achille e Pier Giacomo progettano il sedile Allunaggio con tre anni di anticipo rispetto allo sbarco sulla luna, mai poi resterà un prototipo fino al 1980. Come mai? «Per quanto riguarda Allunaggio, così come per molti altri oggetti disegnati dai Castiglioni, è rimasto a livello di prototipo per alcuni anni prima di diventare un vero prodotto inserito nella commercializzazione. Questo, in parte, è dovuto al fatto che alcuni oggetti sono stati realizzati come prototipi per mostre o altri eventi senza una vera committenza specifica, mentre altri, pur sviluppati attraverso una richiesta specifica, hanno poi avuto la necessità di periodi più o meno lunghi prima d’essere culturalmente acquisiti». Pier Giacomo e Livio scompariranno prematuramente nel 1968 e nel 1979. Cosa cambia per Achille? «La scomparsa di Pier Giacomo prima e Livio poi, segnarono psicologicamente Achille, che comunque continuò il proprio percorso creativo e culturale. Creativo anche grazie alla collaborazione di altri, che rende più articolata la sua produzione di oggetti, mentre dal punto di vista culturale l’insegnamento universitario gli permette di sviluppare la ricerca sugli oggetti “anonimi”, che caratterizzerà e influenzerà indirettamente la sua attività creativa». Achille Castiglioni vanta 290 progetti di produzione industriale, 480 allestimenti, 191 progetti di architettura, ben 9 compassi d’oro e diverse lauree honoris causa, eppure il suo orgoglio più grande resta un interruttore. Come si spiega? «L’interruttore Rompi-Tratta, per Achille è importante perché rappresenta l’essenza del disegno industriale, ovvero quel modo di progettare che, indipendentemente dalla persona che lo disegna e dalle mode, permette all’oggetto di vivere e di inserirsi nella vita di ciascuno di noi e in qualche modo di modificarla
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Giannino Castiglioni, Porta Duomo Milano, 1936
Achille Castiglioni, Sanluca, armchair for Gavina, 1960
Giannino Castiglioni, 1934, Cappella Bernocchi - Cimitero Monumentale Milano 1936
in meglio. L’interruttore prodotto in milioni di pezzi non è conosciuto perché disegnato da Castiglioni, ma milioni lo usano e ne traggono giovamento per il fatto stesso che continuano ad usarlo e trovarlo comodo per le loro esigenze». Nel gennaio 2006 gli eredi di Achille Castiglioni hanno firmato un accordo quinquennale con la Triennale di Milano affinché lo Studio Museo Achille Castiglioni fosse aperto al pubblico e continuasse il suo articolato lavoro di archivio. Nei cinque anni è stato visitato da circa 28.600 visitatori. Per questo motivo e per gli innumerevoli progetti in cui è coinvolto lo Studio Museo, il 14 dicembre 2011 è nata la Fondazione Achille Castiglioni che prosegue il lavoro di catalogazione e digitalizzazione di tutto il materiale presente nello studio che continua a poter essere visitato. Visionari, sognatori, con la loro creatività sono riusciti ad andare oltre il tempo, concretizzando l’obbiettivo di una vita: creare qualcosa che entrasse a far parte della vita di tutti. Oggi, domani, sempre: Castiglioni.
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Livio, Pier Giacomo and Achille Castiglioni have created whole universes scattered with those innovative, sometimes magic objects generated by their ingenious imagination. With a touch of irony and sometimes playfulness, they have created a large series of works ranging from industrial design, to architecture, exhibition set-ups and interior design, moving beyond the confines of Italy to the extent that they are now represented in a permanent exhibition in the Moma of New York. We met Carlo and Giovanna Castiglioni, Achille’s children, to ask them some questions and listen to the story of their family. The first Castiglioni studio was set up in Milan in 1936 in Corso di Porta Nuova, in part of the building which grandad Giannino left to Livio Castiglioni, his eldest child. Will you tell us something about Giannino Castiglioni? «Giannino Castiglioni was born in Milan on 4th May 1884. In the first years of his infancy he lived with his
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own family: father, mother and brother Achille. He studied art at the Brera Academy and completed his studies in 1906, presenting his first sculpture that same year at the Milan International Exhibition. He worked as a “medal-maker” at the Johnson foundry, which was located in a building opening onto Piazza Santa Maria degli Angeli, at the top of the street Corso di Porta Nuova.» «I mention this fact not because I’m over-meticulous or fixated on detail, but because this “fixed” job allowed him to marry Livia Bolla in Monza in 1907. She was the daughter of a strict Italian teacher, the head of the Zucchi Grammar School in Monza, whom he had met during various holidays on Lake Como. After the wedding, Giannino Castiglioni went to live again in Corso di Porta Nuova, where his family already resided, and here, at number 22, his children were born: Piera (1910), Livio
“Music, sound and technological evolution were constant areas of activity for the Castiglioni family.” (1911), Pier Giacomo (1913) and Achille (1918), in the same street where he had his studio.» «Giannino Castiglioni’s art went in a very different direction from the modernist avant-garde movements of the time. He is today little known to most people, but his works are spread all over Milan: the fountain of San Francesco in piazza Santa Maria degli Angeli; the door of the cathedral showing the story of St. Ambrose; the Christ the King over the entrance to the Cattolica University; the monument to the Resistance dead in Piazzale Loreto. Giannino Castiglioni is known to the Milanese for his many fountains, for the series of celebratory works at the Monumental Cemetery, for the story of St. Ambrose which the sculptor tells on one of the doors of the Cathedral, and for the four large roundels in the hall
of the Central Station, showing Work, Trade, Science and Agriculture. But there are also many other works like the fountains Spring ( for Rizzoli) and Medusa’s head (now in the courtyard of the Ambrosiana library). Perhaps today the works of monumental architecture erected in collaboration with the architect Greppi on the of the battle sites of the Great War may seem more interesting. For example the shrines of Redipuglia and Monte Grappa, two oblivion-defying works with a type of scenic composition which was created only in Italy. In 1936 the family moved to a new flat in via Palestro, while the studio remained in Corso di Porta Nuova. Later the house in via Palestro was destroyed by allied bombing and grandpa Giannino was forced to return to a flat in Corso di Porta Nuova near the studio. It was in those years that he handed part of the studio over to his sons for their architecture studio». In 1939 Achille had not yet graduated, and with Livio and Pier Giacomo he designed the first PHONOLA Bakelite radio , with which he won the gold medal at the Milan triennale exhibition. Is it the only work signed by all three brothers? «Because of those curious circumstances of life which determine relationships among people, the works created by the three brothers together are very few. Some were made by Livio with Piero Giacomo, others by Livio with Achille (after the death of Pier Giacomo), while in the pre-war and immediate post-war years we find the prototypes of the radios signed by all three. Later we no longer find specific designs for objects, but particular types of collaboration, as for the exhibitions. For example for the 1963 Waterways from Milan to the Sea, in which the collaboration with Livio was focused on the sound and visual effects. It was one of the first times that visual images and above all sound effects were used to involve the public and underline the concepts expressed in the various parts of the exhibition». At that time radio played a fundamental role in society. Music, sound and technological evolution were constant areas of activity for the Castiglioni family. But is it true that Livio had designed a handmade transmitter in the attic as early on as 1928? «I haven’t any information about how my uncle Livio
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Left and right: Achille Castiglioni whit Paolo Ferrari and Italo Lupi, “Le città del mondo e il futuro delle metropoli” 1988, project for the XVII Triennale, Palazzo dell’Arte, Milano
designed the radio he had in the attic of the country house in Lierna (Lecco). At that time (1928) there was no true production of amateur radio sets i.e. machines able to capture and send audio signals. Most of these sets were certainly directly assembled by Livio with the help of cousin Tullio, who lived with them and studied engineering at the Milan Polytechnic». Achille spoke of Livio as “the craziest of the wise and the wisest of the crazy”. Can you tell us something about him and his influence on Achille and Pier Giacomo? «It’s a bit hard to talk about Livio and particularly about his influence on Achille and Pier Giacomo. Certainly Achille had a high opinion of Livio and shared with him that sense of irony and playfulness which we also find in their works in various ways. Livio was more of an extravert and more sociable, while Achille was less open towards others and tended to stay within a more restricted circle of intimates. However when the brothers were together, events were ‘explosive’. We need only recall the article published by a Swiss newspaper on the occasion of the wedding of the graphic artist Max Huber in 1958, where a photo shows the Castiglioni brothers interrupting the tranquil life of a small central Swiss town with smoke bombs and rockets». In 1952 Livio went to work as a consultant for Phonola, then for Brionvega, while for Achille and Pier Giacomo the ‘fifties and ’sixties were intense periods workwise and substantial periods designwise. They were characterised by two crucial events: the exhibitions Colours and forms in today’s home in Como (1957) and The lived-in home in Florence (1965). How did the Castiglionis’ designing activity develop and what happened in these shows? «Achille and Pier Giacomo’s cultural and working partnership was certainly unique. The two exhibitions Colours and forms in today’s home in Como (1957) and The lived-in house in Florence (1965) were fundamental to Achille and Pier Giacomo’s creative development, because innovative prototypes were presented in these exhibitions (some were being sold even decades afterwards), and the context in which they were proposed was also innovative, the established structure of the interiors of that period being demolished. You can
see this if you look carefully at the images from these exhibitions». In 1965 Achille and Pier Giacomo made the radiogram for Brionvega: a beautiful, technologically-advanced model. Can you tell us something about that project? «The Brionvega RR126 is certainly an interesting object, both because at the time the company was the technological leader, but also because for the first time they tried to meet the needs of opera-lovers who wanted a single machine for listening to music. This set could thus be used as a unit, with separate speakers for enhancing stereophony, and it could be easily moved around the rooms of a flat». In 1966 Achille and Pier Giacomo designed the chair Allunaggio (Moon landing) three years before the actual landing on the moon, but then it remained a prototype until 1980. Why is that?
“Visionaries, dreamers, with their creativity they went beyond their time and achieved the aim of a lifetime” «Regarding the Allunaggio chair, like many objects designed by the Castiglioni brothers it stayed at the prototype stage for some years before becoming an actual product for sale. This is partly due to the fact that some objects were created as prototypes for exhibitions or other events without any specific commission, while others, although developed for a specific request, then needed varying amounts of time to be culturally accepted». Pier Giacomo and Livio died early in 1968 and 1979. What changed for Achille? «The death of Pier Giacomo and then Livio had a deep psychological effect on Achille, who however continued on his cultural and creative course. The creative course also depended on the collaboration of others, who made
his production of objects more organised, while from the cultural point of view his university teaching allowed him to develop his research on the ‘anonymous’ objects, which was to characterise and indirectly influence his creative activity». Achille Castiglioni completed 290 industrial production projects, 480 exhibition set-ups, 191 architecture projects, receiving as many as 9 gold compass awards and various honoris causa degrees, but his pride and joy was a switch. How can that be explained? «The Rompi-Tratta switch was important for Achille because it represents the essence of industrial design, i.e. a way of designing which, regardless of the person designing it and regardless of fashion, makes the object live and enter everyone’s lives, changing them in some way for the better. The switch produced in millions of pieces is well-known because it was designed by Castiglioni, but millions of people use it and benefit from it just because they continue to use it and find it convenient for their needs». In January 2006 Achille Castiglioni’s heirs signed a five year agreement with “La Triennale di Milano” with the objective of maintaining open to public the Studio Museum Achille Castiglioni and allowing a continuity in respect of its articulated work and intense archiving activities.Considering the successful attendance, beyond expectation (more than 28.600 people) during the last few years, the Castiglioni’s intend to continue to share with their guests the pleasure of discovering the atmosphere and the anecdotes that the place preserved. For these reasons and for the countless projects currently involved with, the Studio Museum Achille Castiglioni is now a foundation (Foundation Achille Castiglioni) that was born on December 14, 2011 which continues his work of cataloging and digitization of all the material in the study, that could still be visited. Visionaries, dreamers, with their creativity they went beyond their time and achieved the aim of a lifetime: to create something which would become part of everyone’s lives. Today, tomorrow, always: Castiglioni.
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L’Aperitivo
No. 64
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Ispirazione in dettaglio think
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text
and
images
by
benedetta
alessi
- Detailed inspiration -
“Facciamo riferimento al cinema, alla topografia e alla tradizione dell’architettura per ispirarci […] Viaggiamo con romanzi nelle nostre tasche […] Abbiamo imparato a trarre piacere nel processo stesso di cui il lavoro si compone […]”1. “[…] è solamente tra la realtà delle cose e l’immaginazione che il lavoro artistico si accende […]... sviluppando un’architettura che si origina e termina in cose reali. Immagini preconcette e idiomi formali, stilisticamente prefabbricati, hanno la sola qualità di impedire tale raggiungimento.[…] Non ci sono idee tranne che nelle cose” 2. “[…] Cose che nella loro realtà oggettiva rendono ciò che di esse si è immaginato qualcosa di secondario (Bouquet of Roses in Sunlight, Wallace Stevens)” 3. “[...] Leopardi richiede un’accuratissima e pedante attenzione nella composizione di ogni immagine, nella meticolosa definizione dei dettagli, nella scelta di oggetti, luci e atmosfere allo scopo di ottenere la vaghezza desiderata […] il poeta del vago può solo essere il poeta della precisione” 4. “Per me, gli edifici possono possedere un meraviglioso silenzio che associo a qualità come la compostezza, evidenza, durabilità, presenza e integrità […] un edificio che sia se stesso, sia un edificio, non rappresenti altro, sia soltanto. […] Ma come possiamo raggiungere questa completezza in architettura quando il divino, che un tempo dava senso alle cose, e la realtà stessa sembrano dissolversi in un flusso infinito di segni e immagini transitorie?” 5. Passando da un libro all’altro, guidati da citazioni citate, fino a spostare l’equilibrio dagli architetti ispirati alle architetture ispiranti. Il processo creativo individuale è stato ampiamente esplorato e ratificato come legittima attitudine dell’era contemporanea. Gli edifici pubblici – oltre alla reazione stupefatta a scala, trasparenza e accessibilità che suscitano – sono invece richiesti scevri da missioni emotive. Le funzioni morali in architettura sono probabilmente ancora troppo legate alle strumentalizzazioni storiche recenti e al misuso politico per essere, ai nostri giorni, intenzionalmente chiamati in gioco. I valori civici e l’incanto tipologico – quando non strepitano per una democrazia banale – sono tenuti severamente scissi dall’artefatto. Nello scenario dell’eclettismo storicista del XIX secolo, precise scelte stilistiche venivano invece considerate in base al loro presunto risultato emotivo; una sorta di corrispondenza tra funzione e stile veniva, almeno teoricamente, perseguita ed auspicata: neo-gotico per
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il misticismo, neo-egizio per l’austerità, neoclassico per il decoro urbano... Benché un tentativo semplicistico di categorizzare aspetti puramente formali, l’atteggiamento culturale che ne stava alla base è ancora affascinante per le sue implicazioni etiche. Nel chiassoso panorama di forzate invenzioni architettoniche, l’esigenza di un riconquistato rigore della disciplina si avverte anche ora, manifesto negli esempi consapevoli di architettura in cui, al gesto invadente del designer, si preferisce la sobrietà del linguaggio e della composizione quali artefici meno ovvi di sensazioni. Lontani dal volere eleggere uno stile univoco, vorremmo piuttosto riflettere sul rumore di molte gesta personali e sul recupero di quella qualità silenziosa.
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“We refer to cinema, topography and the tradition of
“The individual, creative process has been exhaustively explored and trusted as the contemporary era rightful attitude.” architecture for inspiration […] We travel with novels in our pockets.[…] We have learned to take pleasure in the process by which work is made. […]” 1 “[…]it is only between the reality of things and the imagination that the spark of the work of art is kindled. […] ...developing an architecture that sets out from and returns to real things. Preconceived images and stylistically pre-fabricated formal idioms are qualified only to block access to this goal.[…] There are no ideas except in things.” 2 “[…] things that in being real/make any imagining of them lesser things (Bouquet of Roses in Sunlight, Wallace Stevens) 3 “[...] Leopardi calls for highly accurate and pedantic attention in the composition of each picture, in the meticulous definition of details, in the choice of objects, lighting and atmosphere with the aim of attaining the desired vagueness. […] The poet of the vague can only be the poet of precision!” 4 “To me, buildings can have a beautiful silence that I associate with attributes such as composure, self-evidence,
durability, presence, and integrity […] a building that is being itself, being a building, not representing anything, just being. […]Yet how are we to achieve this wholeness in architecture at a time when the divine, which once gave things a meaning, and even reality itself seem to be dissolving in the endless flux of transitory signs and images?” 5 Drifting from a book to another, led by quoted quotes to shift the balance from the inspired architects to the inspiring architecture. The individual, creative process has been exhaustively explored and trusted as the contemporary era rightful attitude. Public buildings -other than the stupefied reaction to scale, transparency and accessibility they provoke- are instead demanded to be devoid of any emotional mission. Moral architectural attributes are still probably too closely linked to recent history exploitation or to political misuse to be, nowadays, intentionally entertained. Civic values and typologically inspired awe -when they do not yell for ready made democracy- are kept severely detached from the artefact. In the XIX century eclecticism scenario, precise stylistic choices were selected for their supposed emotional delivery, a kind of correspondence between function and style was theoretically pursuit and hoped for: neogothic for mysticism, neo-egyptian for austerity, neoclassical for urban dignity... Although a naïve attempt to categorize aesthetic aspects, the cultural effort still fascinates for its ethical implications. In the gaudy landscape of forced architectural inventions, the need of a retrieved severity of the discipline begins to be perceived again, revealed by some conscious examples where, to the designer interfering personality, sobriety of language and composition are preferred as less obvious creators of emotional values. Far from wishing to elect an univocal style, we rather would like to reflect on the noise of personal gestures and to recover that quality of silence which rests on inspired, murmuring buildings. 1 John Tuomey, “Architecture, Craft and Culture”, Gandon Editions, 2004. 2 Peter Zumthor, “The hard core of beauty” in Thinking architecture, Birkhauser. 3 Wallace Stevens, “Bouquet of Roses in Sunlight”. 4 Italo Calvino, “Lezioni americane”, Oscar Mondadori, 2000. 5 Peter Zumthor, “The hard core of beauty” in Thinking architecture, Birkhauser.
No. 64
L’Aperitivo
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Una scultura di Frank Owen Gehry profile
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by
brian
midnight
- A sculpture by Frank Owen Gehry -
The InterActiveCorp’s headquarters located at 550 West 18th Street on the northeast corner of Eleventh Avenue in the Chelsea neighborhood of Manhattan, New York City. A Frank Gehry-designed building that was completed in 2007
I
l quartier generale dello IAC (InterActiveCorp) di New York, progettato da Frank Owen Gehry, sembra molto meno radicale dei suoi lavori precedenti. Forse ricorda alcuni dei suoi primi progetti, il Ron Davis Studio in Malibu (1972) o il VITRA Design Museum di Weil am Rhein (D), vicino Basilea (1989). Fin dalla prima gettata di cemento armato in molti hanno dibattuto sull’argomento. Troppo audace per alcuni e troppo addomesticato per altri. In passato si è divertito a torcere i palazzi, a distruggere le facciate degli edifici, a decostruire i volumi dei suoi complessi. Le sue realizzazioni, spesso ammantate di metallici drappi, appartengono più al mondo naturale che non a quello umano. In questo edificio sembra invece essersi risparmiato. Ma forse non è così, anche se ha dovuto rinunciare a qualche idea iniziale. Come spesso accade con gli edifici di Gehry, ad ogni passo cambia la percezione che si ha delle sue forme e dei suoi volumi. Ora composizione di pesanti blocchi geometrici, ora vele spiegate al vento dell’oceano protese sul traffico delle automobili. No, questo edificio è tutt’altro che semplice, misurato. E poco è lasciato al caso. Il fatto che molti lo pensino dimostra che l’architetto, ancora una volta, ha fatto bene il suo lavoro. Il musicista più bravo non è quello che vi sommerge di scale musicali, seppur dimostra grande perizia. No. È colui che con poche note vi emoziona, senza neanche lasciarvi capire il perché. Osservando questo iceberg al centro di Manhattan, se ne avverte l’estraneità, ma allo stesso tempo lo si percepisce come familiare. Anche gli interni uniscono sensazioni di confortevole tranquillità alla sorpresa di avventurarsi in spazi non delineati da semplici linee dritte. Gli ambienti sembrano muoversi insieme a voi, ed ancora una volta, ad ogni passo potete godere di una visuale nuova e interessante. La luce naturale entra sinuosamente negli spazi interni, così come le luci artificiali, la sera, accarezzano le superfici.
Gehry è passato da Los Angeles con il Walt Disney Concert Hall, a Chicago con il Jay Pritzker Pavilion, a Bilbao con il Guggenheim Museum. Finito nel 2007, il primo edificio newyorchese dell’architetto canadese, e primo al mondo con una facciata continua con vetri curvati a freddo, abbina semplicità (apparente) architettonica ad una ingegneria notevole. Le sue vele di cristallo, che riflettono l’azzurro del
“The interiors too combine sensations of comfortable tranquillity with the surprise of venturing into spaces which are not defined with simple straight lines” cielo, continuano a gonfiarsi ai venti, mentre lo skyline della 11th Avenue prosegue nel suo rinnovamento.
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The IAC (InterActiveCorp) Headquarters in New York, designed by Frank Owen Gehry, seems much less radical than his previous works. In some ways it recalls some of his early projects, the Ron Davis Studio in Malibu (1972), or the VITRA Design Museum of Weil am Rhein (Germany) near Basle (1989). From the moment the first reinforced concrete was laid, it has been the subject of lively discussion. Too daring for some and too tame for others. In the past he amused himself twisting building blocks, destroying their facades, deconstructing the volumes of his complexes. His crea-
tions, often cloaked in metal blankets, belong more to the natural world than the human one. In this building on the other hand he seems to have spared himself. But perhaps this is not actually true, even if he had to give up some of his initial ideas. As often happens with Gehry’s buildings, the perception we have of its forms and volumes changes at every step we take. One moment it is a composition of heavy geometrical blocks, another moment its sails unfurled in the ocean wind stretch out towards the urban traffic. No, this building is far from simple and demure. Very little is left to chance , and the fact that many people think the opposite demonstrates that once again the architect has done his work well. The greatest musician is not the one who drowns you in musical scales, even if this shows great skill. No. He/she is the one who moves you with just a few notes, without even letting you understand why. Observing this iceberg in the centre of Manhattan, we sense its alien-ness, but at the same time we perceive it as familiar. The interiors too combine sensations of comfortable tranquillity with the surprise of venturing into spaces which are not defined with simple straight lines. The rooms seem to move with the observer, and once again at every step we get a new, interesting view. The natural light insinuates itself into the inner spaces, and the artificial light caresses the surfaces in the evening. Gehry left his mark in Los Angeles with the Walt Disney Concert Hall, in Chicago with the Jay Pritzker pavilion, in Bilbao with the Guggenheim Museum. The Canadian architect’s first New York building, finished in 2007, was the first in the world to have a continuous façade of cold-bent glass, and it combines (apparent) architectural simplicity with notable engineering. Its crystal glass sails, which reflect the blue of the sky, continue to unfurl in the winds, while the 11th Avenue skyline continues to renew itself.
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No. 64
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Architettura RAZIONALISTA exibit
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by
marianna
accerboni
- Rationalist architecture -
Paolo Caccia Dominioni, El Alamein
Paolo Caccia Dominioni, drawnings project, El Alamein (Lebanon)
U
no sguardo approfondito ed emblematico sull’arte, la cultura e la storia del secolo breve attraverso la creatività e il coraggio civile e militare di un personaggio d’eccezione: questo, in sintesi, è ciò che offre la mostra diffusa, dedicata a Gorizia e in Friuli Venezia Giulia a Paolo Caccia Dominioni, architetto, ingegnere, pittore, disegnatore, illustratore, scrittore di vaglia (Premio Bancarella) e grande condottiero. Personaggio di statura e dalle frequentazioni internazionali, ebbe uno studio al Cairo prima e dopo la seconda guerra mondiale, e da lì partirono progetti poliedrici e prestigiosi, come quello per l’Ambasciata italiana ad Ankara in Turchia (1938 - 1940), che non si limitò a un solo palazzo ma costituì il “Villaggio Italia” e nel contempo uno dei più interessanti esempi di architettura razionalista italiana. Dal Cairo e più tardi dal Goriziano, dove visse e operò negli ultimi 30 anni della sua vita, progettò centinaia di costruzioni monumentali, stradali, minerarie e residenziali in tutto il mondo. Lo testimonia in mostra il “Registro dei lavori, progetti ed elaborati tecnici”, raffinato e inedito volumetto confezionato e compilato a mano dallo stesso Dominioni, che riassume 614 opere dal 1924 al ‘71. Attraverso più di 600 pezzi tra disegni, dipinti, documenti, libri e testimonianze, tra cui molti inediti e rarità, la rassegna si svolge in 7 prestigiose sedi istituzionali, componendo anche un inedito itinerario storico-turistico: a Gorizia alla Galleria Dora Bassi, Prefettura, Musei Provinciali-Museo della Grande Guerra, Biblioteca Statale Isontina, Palazzo Lantieri, a Udine la Caserma Guastatori Berghinz e alla Stazione di Redipuglia. E per il suo carattere internazionale, a maggio si trasferirà a Trieste e nel 2014/ 2015 in sedi istituzionali a Bruxelles. Architetto dal tratto colto ed essenziale e dalla cifra sobriamente e squisitamente originale, pittore formidabile per la rapidità e l’eccezionalità del segno nonché scrittore efficace e coinvolgente nella sua essenzialità, Dominioni ci consegna in questa mostra la sua equilibrata ma appassionata visione della vita, affrontata
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con intensità, stile e distacco e interpretata attraverso migliaia e migliaia di disegni e scritti, molti dei quali realizzati da autentico cronista sul fronte del Carso durante la Grande Guerra, poi in Libia, in Etiopia e in Africa settentrionale nel 2° conflitto mondiale: rappresentano l’aspetto meno noto della sua creatività, che la rassegna intende riscoprire, insieme alla sua eccezionale personalità, anche attraverso inediti come
“Dominioni was a cultured architect with a sober, exquisitely original style, a formidable painter with a fluid, original technique and a skilful, seductively synthetic writer” i bellissimi disegni a tecnica mista del viaggio verso l’Australia e quelli rarissimi sulla guerra di Spagna. Alla Galleria Dora Bassi sono poi esposte, tra le testimonianze biografiche e autobiografiche, anche le magnifiche e inedite tavole genealogiche con le origini e gli intrecci della sua nobile famiglia con le più importanti casate italiane. Un’altra sezione racconta i restauri di prestigiose e storiche magioni (Castello e Golf Hotel a S. Floriano del Collio, Palazzo Lantieri a Gorizia ecc.) e le nuove architetture. Tra queste, il villaggio turistico a Riva dei Tessali (Taranto), inserito in un bosco senza abbattere alberi, ma adattando armonicamente e con eleganza le nuove edificazioni alla natura, nel più ecologico rispetto per l’ambiente: solo per ciò potrebbe essere considerato un grande mentore antesignano della modernità, come lo fu con la sua sobria scrittura e i disegni, armonici e razionali. La sintesi dei volumi e il concetto di forma-funzione sottolineano le sue architetture e l’essenzialità carat-
Paolo Caccia Dominioni, drawnings project for Gemona (Italy)
terizza le illustrazioni per i suoi libri e quelli altrui, le cartoline, augurali e non, gli ex libris e le etichette per i vini, esposti alla Biblioteca Isontina. Alla Stazione di Redipuglia ci sono i monumenti ai caduti, tra cui quello al Duca d’Aosta a Gorizia, il suo lunghissimo e inedito Stato di Servizio militare e i disegni navali, poco noti ed emozionanti, che realizzò con grande perizia fin dall’età di 14 anni. Altri disegni, reperti ancora intrisi di sabbia e testimonianze rievocano in Prefettura il periodo in Africa settentrionale durante e dopo il 2° conflitto mondiale. Qui, riesumate per più di 14 anni le salme di migliaia di soldati di tutte le nazionalità, progettò il celebre Sacrario Militare Italiano di El Alamein, esempio unico di architettura italiana monumentale nel deserto africano. Né va dimenticato che anche sul piano umano e sociale fu antesignano, intrattenendo rapporti paritari con tutti, compresi i suoi soldati e gli Ascari, che ebbe a fianco in Africa, anticipando così un moderno concetto di globalizzazione.
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A detailed, exhaustive exploration of the art, culture and history of the short century through the creativity and civic and military courage of an exceptional figure: this is in brief what the exhibition in Gorizia and Friuli Venezia Giulia (Italy), dedicated to Paolo Caccia Dominioni, offers us. This architect, engineer, painter, designer, illustrator, prestigious writer (Bancarella Award) and great military leader, a figure of great status and important international experience, had a studio in Cairo before and after the Second World War. The studio generated complex, prestigious projects such as the one for the Italian Embassy in Ankara in Turkey (1938-1940). This was not limited to a single building but constructed the “Italy village”, and it is at the same time one of the most interesting examples of Italian rationalist architecture. From Cairo and later from the Gorizia area where he lived and worked in the last
30 years of his life, Dominioni designed hundreds of monumental, road, mining and residential structures all over the world. This is documented in the exhibition in the “Register of the works, projects and technical reports”, a refined, hitherto unppublished small volume made and compiled by hand by Dominioni himself, which gives a summary of 614 works from 1924 to 1971. With six hundred drawings, paintings, documents, books and other items, many of them hitherto unseen and rare, the exhibition is spread over 7 prestigious institutional sites, creating an original historical/ touristic itinerary: in Gorizia at the Galleria Dora Bassi, the Prefecture, and the Provincial Museums (Great War Museum, Isontina State Library, Palazzo Lantieri); in Udine, at the Guastatori Berghinz Barracks and Redipuglia Station. And because of its international character, in May it will transfer to Trieste and in 2014/2015 to institutional locations in Brussels. Dominioni was a cultured architect with a sober, exquisitely original style, a formidable painter with a fluid, original technique and a skilful, seductively synthetic writer. In this exhibition we can perceive his balanced but passionate vision of a life led with intensity, style and detachment, interpreted through thousands and thousands of drawings and writings. Many of these are the work of a fully-fledged war correspondent on the Carso front during the Great War, then in Libya, Ethiopia and South Africa in the Second World War. These works are the least-known aspect of his creativity, and this exhibition aims at rediscovering them together with his exceptional personality, also through hitherto unknown documents such as the fine mixed-technique drawings of his journey to Australia and the rare drawings on the Spanish war. At the Galleria Dora Bassi, the magnificent, hitherto unseen family trees, with the origins of his noble family and its interconnections with the most important aristocratic Italian families are shown with other biographical and autobiographical documents. Another section recounts his restoration of prestigious, historic mansions (Castle and Gold Hotel at San Floriano del Collio, Palazzo Lantieri in Gorizia etc.) and his new architectures. The latter include the tourist village at Riva dei Tessali (Taranto), which was inserted into a wood without felling the trees, harmoniously and elegantly adapting the new building to nature in the greatest ecological respect for the environment. For this alone Dominioni could be considered a great mentor, a forerunner of modernity, as he was also with his sober writing and harmonious rational drawings. The synthetic volumes and the concept of form/function are at the basis of his architecture, and synthesis characterises the illustrations for his and other people’s books, the greetings and non-greetings cards, the ex libris and the wine labels on show at the Isontina Library. At Redipulgia Station there are the war memorials, including the one to the Duke of Aosta in Gorizia, as well as his long, so far unpublished Military Record and the little-known, impressive, skilful naval drawings which he did from the age of 14. Other drawings, still-sandy objects and various other items on show in the Prefecture re-evoke the period in South Africa during and after the Second World War. Here, having had the remains of thousands of soldiers of all nationalities exhumed for a period of over 14 years, Dominioni designed the famous Italian Military War memorial of El Alamein, the unique example of monumental Italian architecture in the African desert. Nor should we forget that he was a pioneer also on the human and social levels, relating to everyone as equals, including his soldiers and the Askaris who fought alongside him in Africa, thus anticipating a modern concept of globalisation.
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L’Aperitivo
No. 64
Illustrato
Luxury British sports car: CC100 Aston Martin profile
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by
michael
sÄgerbrecht
Left: The Aston Martin DBR1 was a sports racing car built by Aston Martin starting in 1956, intended for the World Sportscar Championship as well as non-championship sportscar races at the time Right: the concept created to celebrate Aston Martin’s 100 years of sports car the concept created to celebrate Aston Martin's 100 years of sports car
The Aston Martin CC100 - A Stunning Speedster Concept Celebrating 100 years of Aston Martin.
N
el 2013 Aston Martin, celebre casa automobilistica britannica, ha festeggiato il suo centenario. Risale infatti al 1913 il suo primo giro di pistoni, sotto forma di concessionaria d’auto. Già nel 1914, i due soci fondatori, Robert Bamford e Lionel Martin, costruirono un prototipo da gara, unendo un motore Coventry Simplex ad un telaio Isotta Fraschini. Dopo aver vinto la cronoscalata Londra-Aston Clinton, adottarono il monicker destinato alla fama. La prima guerra mondiale mise i bastoni tra le ruote (è il caso di dirlo!)ai due, e l’azienda vacillò. Grazie al finanziamento del pilota franco-polacco Louis Zborowski la chiusura venne rimandata al 1926, quando la fallimentare “Bamford & Martin” fu acquistata da Bill Renwick e Augusto Bertelli, che cercavano un marchio affermato per il proprio motore. Nacque la Aston Martin Limited. Bertelli, pilota e progettista con esperienze in FIAT e alla Ceirano, si occupò della direzione tecnica. Il quattro cilindri in linea da 1.500 cc diede molte soddisfazioni. Le vittorie assolute però non giungevano, con grande disappunto di Bertelli, che da buon italiano superstizioso decise che il problema risiedeva nella colorazione Old British Racing Green: nel 1934 le sue vetture si presentarono al via colorate
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di rosso, ed iniziarono a mietere vittorie! La seconda guerra mondiale, ancora una volta, rimescolò le carte in casa Aston Martin, che venne acquistata da David Brown, e fusa alla Lagonda, anch’essa casa inglese. Brown, dopo aver risanato l’azienda, la cedette
“the two founding partners, Robert Bamford and Lionel Martin, built a racing prototype as early as 1914, combining a Coventry Simplex engine with an Isotta Fraschini body. ” nel 1972, non senza vedere applicate le sue iniziali DB ai tanti modelli celebri di quegli anni. Dal 1986 al 2004 il marchio è stato in mano alla Ford, che ha notevolmente aumentato il numero di auto prodotte e vendute, avvantaggiandosi anche della pubblicità offerta dal Sig. Bond, James Bond! Nel 2007 la casa è passata ad una cordata di imprenditori di diverse
provenienze, ma la Ford ha mantenuto una percentuale di azioni sufficienti a garantire la continuità di fornitura dei suoi V8 e V12. Negli ultimi anni l’Aston Martin ha continuato a puntare sempre più in alto, e non sembra intenzionata a cambiare marcia. Un modello sicuramente importante nella storia di questa casa è la DBR1, scesa in pista nel 1956 e subito dimostratasi vincente. Proprio a questo modello, ma non solo, si ispira la CC100, concept car costruita in meno di sei mesi presso il quartier generale a Gaydon. Questo l’obiettivo della fuoriserie: celebrare i cento anni della Aston Martin con un qualcosa che ne portasse in se tutta la storia ed allo stesso tempo fosse in grado di mostrare il futuro della casa automobilistica. Il Dr. Ulrich Bez, CEO della Aston Martin che ha guidato la CC100 nel suo debutto alla 24 Ore Nürburgring ADAC di Zurigo, si è dichiarato estremamente soddisfatto del risultato ottenuto, un potente V12 aspirato a benzina domato da un cambio a sei marce, il tutto racchiuso in un leggerissimo scrigno in fibra di carbonio. Veloce, affidabile, tecnologica … naturalmente bellissima.
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In 2013 Aston Martin, the famous British car manufacturer, celebrated its centenary. In fact its first spin, as car dealers, goes back to 1913. The two founding partners, Robert Bamford and Lionel Martin, built a racing prototype as early as 1914, combining a Coventry Simplex engine with an Isotta Fraschini body. After winning the London-Aston Clinton hill climb, they adopted the famous monicker. The First World War put spokes in the two partners’ wheels (literally!) and the company faltered. Thanks to funding from the French/ Polish driver Louis Zborowski, closure was waived till 1926, when the failing “Bamford & Martin” was purchased by Bill Renwick and Augusto Bertelli, who were looking for an already- established brand for their engine. Thus Aston Marton Ltd. was born. Bertelli, a driver and designer with experience in FIAT and Ceirano, took charge of technical management. The four-cylinder 1500 cc inline gave great satisfaction. No absolute victories arrived however, to the great disappointment of Bertelli who, like the superstitious Italian he was, decided the problem lay in the Old British Racing Green colour. In 1934, his cars appeared on the starting line coloured red, and they began to notch up wins! The Second World War dealt the Aston Martin firm another blow; it was purchased by David Brown, and was merged with Lagonda, another English car firm. After getting the firm back on its feet, he sold it in 1972, but not until he had seen his initials DB applied to the famous models of those years. From 1986 to 2004 the brand was taken over by Ford, which notably increased the numbers of cars produced and sold, also taking advantage of the publicity offered by Mr. Bond, James Bond! In 2007 the company passed to a group of entrepreneurs of varying origins, but Ford kept a sufficient percentage of shares to guarantee continuity of the supply of its V8s and V12s. In the last few years Aston Martin has aimed ever higher, and does not seem to have any intention of changing tack. An undoubtedly important model in the history of this firm is the DBR1, which appeared on the tracks in 1956 and immediately proved itself a winner. It was this model, but not only this one, which inspired the CC100, a concept car built in less than 6 months at the Gaydon headquarters. The aim of this custom-built car is to celebrate the centenary of Aston Martin with something which sums up the whole of its history and at the same time nods at the future of the company. Dr. Ulrich Bez, the Aston Martin CEO who guided the CC100 in its début at the Nürburgring 24-hour Race in Zurich, declared himself extremely satisfied with the result: a powerful, naturally-aspirated V12 endowed with a sixspeed gearbox, enclosed in an ultra- light carbonfibre body. Fast, reliable, technological….. and naturally beautiful.
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L’Aperitivo
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Illustrato
Il cervello MUTEVOLE exibit
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by
laura
migliano
- The changeable brain -
The Exhibit will run until April 13, 2014 Museo Civico di Storia Naturale, Corso Venezia, 55, Milano
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a New York a Milano il salto è breve: una connessione fulminea, come una sinapsi; termine oltremodo inflazionato nel gergo onnivoro contemporaneo, che deve la sua felicità d’uso al progresso eccezionale intrapreso dalle neuroscienze negli ultimi cinquant’anni: dall’American Museum of Natural History al suo corrispettivo italiano, il Museo di Storia Naturale, teatro dell’unica tappa italiana di una mostra unica nel suo genere. Fino al 13 aprile 2014, la più grande esposizione interattiva a carattere internazionale dedicata all’organo umano più discusso e imperscrutabile: Brain. Il cervello, istruzioni per l’uso, è l’occasione più ghiotta per immergerci entro i nostri meccanismi più reconditi. Più che una mostra, la modalità di fruizione e l’oggetto dell’esposizione ne fanno un viaggio cyberspaziale in stile Peter Riviera, l’eccentrico illusionista nato dalla penna di Gibson, capace di generare incredibili visioni olografiche grazie a speciali impianti tecnologici. La vitalità dell’evento curato da Rob DeSalle, con l’adattamento italiano di Giorgio Racagni e Monica Di Luca, sta proprio nell’attrattiva creata dalle inedite modalità di fruizione supportate dalle nuove tecnologie, senza le quali non sarebbe stata che una lunga tediosa didascalia in perfetto stile didattico. Il risultato invece è un percorso a tappe che aiuta a palesare i dispositivi che moderano le percezioni, i ricordi, l’apprendimento e i sentimenti, attraverso un allestimento coinvolgente e immersivo anche per un pubblico non specializzato, con il supporto di giochi, filmati, installazioni, exhibit, il tutto a ricomporre le modalità in cui il cervello fa esperienza del mondo e costruisce la nostra identità. La mostra è divisa in sette sezioni: una parte introduttiva nella quale l’opera dell’artista Daniel Canogar ben rappresenta lo spostamento dei segnali elettrochimici lungo le reti neuronali; poi un teatro introduttivo che si comporta come una video-scultura in cui un cervello in resina chiara lascia intravedere le aree funzionali interessate quando si sostiene una prova; dopodiché si entra nel vivo dell’organo, cominciando dal cervello
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sensibile, al cervello emozionale, al cervello pensante, fino ad arrivare al cervello mutevole e in fine al cervello del futuro. Anzitutto però, prima dell’apprezzamento curatoriale o tecnico, la mostra ha valore in virtù delle questioni che pone. Così ad esempio, la vista di due modelli di cervello comparati, uno sano e l’altro affetto da Alzheimer, le cui differenze fisiche appaiono manifeste, allontana la concezione di casualità insita nella patologia e porta il tutto su un piano meccanico, quasi come il logorio di un motore: sarà mai possibile prevederne la mutazione attraverso le complesse tecnologie di imaging in grado di monitorare a oggi ciò
“all things considered, however, it is the section of the future brain which most stirs the molecules of curiosity ” che avviene in un cervello vivente? Quali orizzonti di mutazione attendono il cervello umano? Le ricerche del secolo scorso in materia di neuroscienze hanno permesso sviluppi straordinari in termini di possibilità di miglioramento delle facoltà umane, specie se si fa riferimento agli studi sui neuroni a specchio coordinati dal team di Giacomo Rizzolatti e alla scoperta del fattore della crescita delle cellule cerebrali di Rita Levi Montalcini. Scoperte che in termini sociali hanno portato alla chiusura dei manicomi, che trovavano la loro ragion d’essere nella teoria allora accreditata che le cellule del cervello non si rigenerassero e che quindi ogni lesione fosse irreparabile. In prospettiva tuttavia, è la sezione dedicata al cervello del futuro che agita di più le molecole della curiosità. I nuovi orizzonti applicativi delle neuroscienze riguarderanno sempre di più il nostro modo di vivere
ogni lembo della quotidianità. Così, le teorie cyborg ritenute fantascienza solo mezzo secolo fa vedono avverarsi le loro allucinate premonizioni di commistione reale-virtuale. È con le parole di Antonio Caronia, una delle menti più lucide del panorama contemporaneo, che meglio comprendiamo la portata di questi sviluppi: «La tecnica passa impercettibilmente dalla natura di protesi (di prolungamento ed estensione di organi e funzioni del corpo) a quella di creatrice e produttrice di mondi (di ambienti sempre più strutturati e sofisticati, sia sul piano dell’immaginario che su quello del funzionamento materiale). Cyborg mediatico, nuovo ibrido in cui la componente artificiale è appunto immateriale e mediatica, ma è capace di produrre effetti materiali di ogni tipo, in primo luogo sul corpo che fa l’esperienza di quel medium, sino a trasformarlo in “nuova carne”».
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New York is just seconds away from Milan: a lightning connection, like a synapsis. This latter term is rife in omnivorous contemporary jargon, and it owes its popularity to the exceptional progress made in the neurosciences over the last 50 years. A unique exhibition has now arrived from the American Museum of Natural History to be shown in the Natural History Museum, its Italian equivalent, the only Italian stopover point. Until 13th April 2014, the greatest international interactive exhibition dedicated to the most discussed and mysterious human organ, Brain, instructions for use, offers us an exciting opportunity to immerse ourselves in our innermost mechanisms. Thanks to its subject and the original way the visitor is invited to use it, rather than an exhibition it becomes a cyber-spatial journey in the style of Peter Riviera, the eccentric illusionist cartoon figure created by Gibson, who generates incredible holographic visions thanks to special technological systems. The vitality of the event curated by Rob DeSalle, with the Italian adaptation by Giorgio Racagni and Monica Di Luca, lies precisely in
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the attractiveness of the original exhibition experience supported by new technologies, without which it would have been just one long, tedious explanatory panel in perfect didactic style. Instead the result is an itinerary divided up into different stages; this helps to explain the mechanisms moderating our perceptions, memories, learning and feelings, using a presentation which appeals to and is able to involve even a non-specialised public. Games, film clips, installations and exhibits all reconstruct the ways in which the brain experiences the world and constructs our identities. The exhibition is divided into 7 sections: an introduction in which the work of the artist Daniel Canogar cleverly shows the movement of electrochemical signals along the neuronal networks; then an introductory theatre which behaves like a video-sculpture, in which a transparent resin brain reveals the functional areas involved when we make different types of effort; then we directly explore the actual physical makeup of the organ, beginning from the sensitive brain and proceeding to the emotional brain, the thinking brain, the changeable brain, and finally the future brain. Apart from the appreciation of the curatorial or technical aspects, however, the value of the exhibition lies mainly in the questions it poses. So for example, the comparative view of two models of the brain, one healthy and the other affected with Alzheimer’s, which clearly show the physical differences, belies the idea of chance often attributed to this illness and explains everything from a mechanical point of view, similar to the wearing-out process of an engine. Will it ever be possible to predict its mutation through the complex imaging technologies which are nowadays able to monitor what is happening in a living brain? What mutations await the human brain? Neuroscience research of the last century produced an extraordinary development in terms of the possibility of improving human faculties, especially with the mirror neuron studies coordinated by the team of Giacomo Rizzolatti and the discovery of the brain cell growth factor by Rita Levi Montalcini. These discoveries have led in social terms to the closure of mental hospitals, whose presence was justified by the still-accepted theory that brain cells do not regenerate and that every lesion is thus irreparable. All things considered, however, it is the section of the future brain which most stirs the molecules of curiosity. The new horizons of neuroscience application will increasingly affect the way we live each bit of our daily lives. Thus the cyborg theories which were considered to be science fiction just half a century ago, with their crazy premonitions of the blending of the real and the virtual, are seen instead to have come true. It is in the words of Antonio Caronia, one of the most lucid contemporary minds, that we can best understand the extent of these developments: «Technique passes imperceptibly from the nature of prosthesis (the prolungation and extension of body organs and functions) to that of creating and producing worlds ( more and more structured and sophisticated environments, both imaginary ones and materially-functioning ones). Media cyborg, a new hybrid in which the artificial component is immaterial and mediatic, but is capable of producing material effects of every type, above all on the body which experiences that medium, to the extent of transforming it into “new flesh”».
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Baselworld 2014 comincia lo show exibit
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by
Roberto
palumbo
- Baselworld 2014 and the show begins -
Exibition centre, courtesy Baselworld
P
renderà il via il 27 marzo quella che ormai è considerata la più importante manifestazione fieristica dedicata al mondo dell’orologeria e gioielleria d’alta gamma. L’edificio fieristico, completato nel 2013 e firmato dagli architetti Herzog & de Meuron, diventerà per otto giorni il luogo privilegiato in cui poter ammirare il meglio di questi settori. Ogni anno i sensazionali padiglioni custoditi dall’imponente struttura ospitano 1.400 operatori provenienti da tutto il mondo. Ma Baselworld non è solo il principale momento d’incontro per businessman internazionali legati a questi settori, ma una vera e propria kermesse dedicata al lusso ed al lifestyle. Le novità presentate a Baselworld diventano l’indicatore di tendenza per altri beni di lusso commercializzati a livello internazionale. L’uso di nuove forme e di nuovi materiali e la loro innovativa lavorazione scandiscono il ritmo globale dei prodotti del lusso di domani. Negli ultimi decenni, gli strumenti tecnicamente sofisticati per misurare il nostro tempo, hanno subito una vera e propria metamorfosi diventando un bene di consumo seducente, enormemente emozionale e artigianalmente innovativo ma che è anche un modo di essere. Per la manifattura orologiera, precisione e innovazione tecnologica continuano ad essere i requisiti principali, però la tendenza mostra chiaramente che orologi e gioielli stanno diventando sempre più uno degli indicatori più importanti dello stile di vita di un individuo. La varietà, la ricchezza d’idee e la passione con cui ogni anno il settore continua a presentare i suoi prodotti, raggiungono a Baselworld la loro massima espressione. Andate a dare un’ occhiata, ne vale la pena.
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On 27th March, what is now considered to be the most important fair dedicated to the world of high-quality watches and jewellery will open. The fair complex, completed in 2013 and signed by the architects Herzog & de Meuron, will for 8 days become the place for admiring the best of these sectors. Each year the sensational pavilions inside the imposing structure host 1.400 operators from all over the world. But Baselworld is not only the main networking occasion for international business men connected to these sector; it is also a true feast of luxury and lifestyle.
“the novelties presented at Baselworld become trendmarkers for other internationally-sold luxury goods ”
The novelties presented at Baselworld become trendmarkers for other internationally-sold luxury goods. The use of new shapes and materials and their innovative crafting anticipate the global rhythm of tomorrow’s luxury products. In the last few decades, the technically-sophisticated instruments for measuring our time have undergone a true metamorphosis, becoming seductive consumer items, hugely emotional and innovatively crafted, but also part of a way of being. For the watch-making industry, precision and technological innovation continue to be the main requirements, but trends clearly show that watches and jewels are increasingly becoming one of the most important individual lifestyle markers. The variety, the wealth of ideas and the passion with which the sector continues each year to present its products achieve their maximum expression at Baselworld. Go and have a look, it’s worth it!
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“È uno strano mondo” profile
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by
Roberto
palumbo
- “It’s a strange world” -
B
lue Velvet è disturbante, Blue Velvet è sconcertante. Blue Velvet è un capolavoro. È il 1984, la profezia di Orwell non sembra essersi avverata e David Lynch è un ragazzone americano che sembra uscito da un film anni cinquanta. Ha una formazione pittorica ed è anche scultore, fotografo, creatore di video installazioni e compositore: «Un James Stewart venuto da Marte» è la definizione che conia per lui quel genio di Mel Brooks, suo produttore in The Elephant Man, il film diretto nel 1983 preceduto dal suo primo film Eraserhead (La testa che cancella, 1977). Al momento è un po’ depresso a causa del temporaneo insuccesso (al botteghino) di Dune, il suo ultimo costosissimo film, ispirato al racconto di fantascienza di Herbert, che ha diretto per la DEG film di Dino de Laurentis. Fortunatamente, durante le riprese di Dune, Lynch firma un contratto per un ulteriore film con una particolare clausola: il final cut, l’ultima parola sulla stesura finale, spetta a lui. Allo stesso tempo De Laurentis è categorico: il film dovrà essere a basso costo e Lynch dovrà ridurre il suo ingaggio. Affare fatto, gireranno il film in North Carolina. Lynch avrà così la possibilità di sviluppare con totale libertà creativa il progetto che gli ronza in testa da qualche anno. All’inizio era solo un’idea fatta di tre concetti: la provincia americana con i suoi colori da cartolina e boschi in cui è cresciuto; l’immagine di una donna che da bambino aveva visto aggirarsi nuda e completamente stravolta, nel perfetto quartiere borghese in cui abitava, mentre con il fratello tornava da scuola; la canzone Blue Velvet di Bobby Vinton. Il casting è un carosello di celebri rifiuti e future consacrazioni: il personaggio principale di Jeffrey, il ragazzo perbene della provincia americana, viene proposto a Val Kilmer, che dopo aver letto la sceneggiatura, pur riconoscendo il grande coraggio della produzione, la bolla come “pornografia” e rifiuta. Sarà offerta anche a Chris Isaak (ndr sì, il cantante), che la rifiuterà a sua volta, prima di essere affidata a Kyle MacLachlan, già protagonista sconosciuto di Dune che da qui diventerà l’attore-feticcio di Lynch. Come pure l’allora diciannovenne Laura Dern, scelta per la
parte di Sandy, la ragazza della porta accanto che finirà per innamorarsi di Jeffrey. Per la parte di Frank Booth, il gangster disturbato, paranoico e tossicomane, viene chiamato Steven Berkoff (Arancia Meccanica, Barry Lyndon), che rifiuta asserendo l’eccessiva distruttività del personaggio. Lynch riceverà una chiamata da Mr. Dennis “Easy Rider” Hopper in persona che gli annuncia: «Devo assolutamente farlo, Frank sono io!». Un monumentale Hopper regalerà una delle migliori interpretazioni della sua carriera (che Dio ti abbia in gloria Dennis, ovunque tu sia!). Per il ruolo di Dorothy Vallens, nel film la cantante di night club, amante e succube di Frank che sedurrà il giovane Jeffrey, saranno chiamate Meryl Streep, che rifiuta perché il ruolo complicato non le piace, e Deborah Harry, cantante dei Blondie, che diniegherà, stanca di tutti i ruoli un
“Lynch received a call from Mr. Dennis “Easy Rider” Hopper in person, who announced: “I’ve got to play Frank, I am Frank!”” po’ folli che le vengono offerti da altrettanti registi squilibrati dopo quel Videodrome girato con Cronenberg. Si pensa quindi ad Hanna Schygulla ed Helen Mirren. Nel 1985 Lynch è infatti a New York, seduto a bere un caffè nel ristorante “Ola Ola” a pensare a come ingaggiare la Mirren. La leggenda vuole che in quel ristorante ci fosse anche Isabella Rossellini. Il ragazzone americano le si avvicina audace, riuscendo ad infilare una serie di gaffe geniali da: «Sai che assomigli un sacco a Ingrid Bergman? Potresti essere sua figlia» , fino a «Se conosci Helen Mirren, puoi dirle che la sto cercando per il mio prossimo film?». Era il primo incontro con quella che sarebbe diventata la sua musa, la sua amante, e la più grande Dorothy Valens che il film avesse mai potuto avere. Il giorno dopo
Lynch le manda il copione ed un biglietto «Ci ho ripensato, vorrei che lo facessi tu». Il resto è storia. Isabella Rossellini aggiunge del suo, improvvisa sul set, crea persino costumi e look. Bellissima ed eterea canterà una versione di Blue Velvet che il maestro Angelo Badalamenti (il pianista nella scena del club) riscrive apposta per lei. Immortalata nella fotografia del maestro Frederick Elmes “the blue lady” è pura poesia e pittura in movimento. Il film che ne uscirà è un quadro surreale che ha per tema la perdita dell’innocenza. Torbido, insolito e affascinante, Blue Velvet è una complicata e distorta esplorazione dei lati oscuri della quieta provincia americana, dietro la cui tranquilla e stereotipata normalità si nascondono inquietudini, perversioni, violenze e ambiguità. Allo stesso tempo Blue Velvet è un film che parla d’amore, un amore ossessivo, viscerale e contagioso. Lo stesso Lynch in un’intervista alla tv canadese dirà: «è un film che parla d’amore e di oscurità». Luce e ombra, bene e male, continuamente. Sullo schermo, Lumberton, la cittadina in cui è ambientato, appare come una cartolina dai colori smaglianti. Una cittadina accogliente e tranquilla quasi irreale. A poco a poco lo scenario cambia completamente, le tinte sgargianti lasciano il posto ai toni cupi delle ambientazioni notturne, i colori vengono avvolti dal blu dell’oscurità che accompagna questa lenta e graduale discesa all’interno del lato oscuro esasperata dalle note di Blue Velvet di Vinton, che riecheggerà per tutto il film amplificando l’effetto di sospensione temporale tra questi due mondi. Jeffrey, il protagonista innocente e investigatore improvvisato, li attraverserà continuamente, rimanendo, suo malgrado, sempre più intrappolato in quel lato oscuro, diventandone parte. L’appartamento di Dorothy in cui Jeffrey si introduce furtivamente, è lo spazio di confine di quella zona d’ombra tra reale e irreale, è il luogo in cui ogni sogno, anche il più proibito, può avverarsi. È uno strano mondo. Uno strano mondo. - Blue Velvet è disponibile in Blu-ray con contenuti speciali.
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Kyle MacLachlan and Laura Dern
Dennis Hopper and Isabella Rossellini
Blue Velvet is disturbing, Blue Velvet is disconcerting. Blue Velvet is a masterpiece. It is 1984, Orwell’s prophecy does not seem to have come true, and David Lynch is a big American guy who seems to have come out of a ‘fities film. He has trained as a painter, and is also a sculptor, photographer, creator of video installations and composer. “A James Stewart from Mars” is the definition coined for him by that genius Mel Brooks, who was his producer in The Elephant Man, the film he directed in 1983, preceded by his first film Eraserhead (1977). At the moment he is a bit depressed because of the temporary (box-office) failure of Dune, his latest very expensive film, inspired by Herbert’s sci-fi story, which he has directed for Dino de Laurentis’ DEG film. Luckily, during the shooting of Dune, Lynch signs a contract for a further film with a particular clause: the final cut, the last word on the final version, is to be his. At the same time, De Laurentis is categorical: the film must be low-cost and Lynch must reduce his fee. The deal is clinched and they will shoot the film in North Carolina. Lynch will thus have the chance to develop the project which has been buzzing around in his head for some years now in total creative freedom. At the beginning it was only an idea consisting of three concepts: first, middle America with its postcard colours and the woods in which he grew up; second, the image of a woman he had seen wandering around naked and completely freaked out, in the perfect middle-class district in which he lived, while he was coming back from school with his brother; and third, the song Blue Velvet by Bobby Vinton. The casting was a merry-go-round of famous rejections and future consecrations; the main character of Jeffrey, the respectable boy of the American provinces, was offered to Val Kilmer, who after having read the script branded it as “pornography” and rejected it, while acknowledging the producers’ great courage. It was also offered to Chris Isaak (editor’s note: yes, the singer), who also rejected it, before being given to Kyle MacLachlan, who had already been the unknown leading character in Dune and who from now on was to become Lynch’s fetish-actor. As was the then 19 year-old
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Laura Dern, chosen for the part of Sandy, the girl from next door who ends up falling in love with Jeffrey. For the part of Frank Booth, the disturbed, paranoid and drug-addicted gangster, Steven Berkoff (Clockwork Orange, Barry Lyndon) was approached; he refused the part because of the character’s excessive destructiveness . Lynch received a call from Mr. Dennis “Easy Rider” Hopper in person, who announced: “I’ve got to play Frank, I am Frank!”. A monumental Hopper gave us one of the best interpretations of his career (bless your soul, Dennis, wherever you are!). For the role of Dorothy Vallens, the night club singer in the film, Frank’s enslaved lover who seduces the young
“the colours are drowned in the blue of the darkness which accompanies this slow, gradual descent into the dark side” Jeffrey, Meryl Streep was approached; she refused it because she did not like the complicated role. Then Deborah Harry , the singer of Blondie, also refused it because she was tired of all the crazy roles offered her by equally crazy directors after that Videodrome which she had filmed with Cronenberg. So Hanna Schygulla and Helen Mirren were then considered. In 1985 Lynch was in fact in New York, sitting having a coffee in the restaurant “Ola Ola” and thinking about how to engage Mirren. Legend has it that Isabella Rossellini was also in that restaurant. The big American guy went boldly up to her and put his foot in it several times with quips like “Hey, you could be Ingrid Bergman’s daughter.” and “If you know Helen Mirren, could you tell her I’m looking for her for my next film?”. It was the first meeting with the woman who was to be his muse, his lover and the greatest Dorothy Vallens the film could have had.
The day afterwards Lynch sent her the script with a note: “I’ve thought about it, I’d like you to do it”. The rest is history. Isabella Rossellini added bits of her own, improvising on the set and even creating her own costumes and general look. Extremely beautiful and ethereal, she sings a version of Blue Velvet that the maestro Angelo Badalamenti (the pianist in the club scene) rewrote specially for her. She was immortalized in the photo of Frederick Elmes, The blue lady, and is pure poetry and painting in motion. The film which resulted is a surreal picture on the theme of loss of innocence. Murky, unusual and fascinating, Blue Velvet is a complicated, distorted exploration of the dark sides of quiet Middle America, behind whose tranquil, stereotyped normality lurk disquietude, perversion, violence and ambiguity. At the same time Blue Velvet is a film which speaks of love: obsessive, visceral, contagious love. In an interview on Canadian TV, Lynch himself said: “It’s a film which tells of love and obscurity”. Light and shadow, good and evil, continuously. On the screen Lumberton, the town in which it is set, looks like a brightly-coloured postcard. A cosy, quiet, almost unreal town. Little by little, the scenario changes completely, and the bright hues make way for the dark tones of the nocturnal settings. The colours are drowned in the blue of the darkness which accompanies this slow, gradual descent into the dark side. The atmosphere is emphasised by the notes of Vinton’s Blue Velvet, which echoes throughout the film, amplifying the effect of suspended time between these two worlds. Jeffrey, the innocent protagonist and improvised investigator, crosses over them continuously, getting more and more entangled despite himself in that dark side, until he becomes a part of it. Dorothy’s apartment, which Jeffrey breaks into furtively, is the borderline of that shadow zone between the real and unreal. It is the place in which every dream, even the most forbidden kind, can come true. It is a strange world. A strange world. - The movie Blue Velvet is available on Blu-ray disc with special contents.
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Dead Can Dance Spiritchaser profile
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brian
midnight
Dead Can Dance: Lisa Gerrard and Brendan Perry performing at the Beacon Theater on Wednesday night, on their first tour since 2005. The band played all eight songs from its album, Anastasis Lisa Gerrard and Brendan Perry
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ead Can Dance, non è solo un progetto musicale: è anzitutto un progetto culturale che fonda le sue radici nella riscoperta di tradizioni antiche, lontanissime nel tempo e nello spazio. Nato dal talento di Lisa Gerrard e del suo allora compagno Brendan Perry, Dead Can Dance è tra i più importanti e influenti progetti di quella corrente “gotica” e “atmosferica” nata come costola della darkwave dei primi anni ottanta. Nel tempo ha saputo conquistare riconoscimenti importanti di pubblico e critica, grazie anche a una tenace ricerca dei suoni e alla raffinatezza delle ambientazioni. L’album del 1996 fu l’ultimo prima che Lisa e Brendan prendessero strade diverse per dedicarsi alle proprie carriere soliste (fino al 2005, anno della reunion). Spiritchaser rappresenta il culmine di quel percorso che negli anni li ha portati a sperimentare mescolando al background celtico, medioevale ed arcaico influenze arabe, persiane, cinesi e aborigene. È un’opera di world music che amalgama e manipola suoni e stili indiani, latino-americani, africani, pellerossa e caraibici. Solo loro potevano riuscirci rimanendo fedeli a se stessi. Seppur accantonato quel loro suono tradizionale Medievale/Orientale, i due polistrumentisti australiani riescono a creare sonorità e atmosfere dense di suoni dal chiaro carattere etnico, supportate da percussioni e drum machine, dal suono dei sinth ed occasionalmente della chitarra elettrica. La capacità evocativa si fa quasi sciamanica in Song of the stars; Brendan sembra più che mai rendere omaggio a Jim Morrison: quando pensi di aver capito dove ti sta portando, ti stai già perdendo in un’altra sonorità. In Devorzhum Lisa non tradisce, e chiude l’album lasciandoti quasi sospeso nel tempo. Un tempo indefinito, forse è proprio questa la caratteristica principale dell’album: portare quelle atmosfere rarefatte, loro peculiarità assoluta, in una dimensione tecnologicamente avanzata eppure ancora dilatata e indefinita come solo i Dead Can Dance seppero e sanno ancora creare.
Dead Can Dance is not just a musical project; it is first and foremost a cultural project based on the rediscovery of far-off ancient musical traditions. Dead Can Dance, generated by the talent of Lisa Gerrard and her partner of that time, Brendan Perry, is one of the most important and influential projects of the “gothic”, current which was an offshoot of early ‘eighties darkwave. In time it has received much public and critical acclaim, also thanks to a constant innovation of sounds and to the refined settings. The 1966 album was the last one before Lisa and Brendan went their separate ways in their solo careers (until 2005, the year they made up). Spiritchaser was the high point of the experimentation which led them over the years to mix Arab, Persian, Chinese and Aborigine influences with the Celtic, mediaeval and archaic background. It is a work of world music which amalgamates and manipulates Indian, LatinAmerican, African, Red Indian and Caribbean sounds and styles. Only they could have managed it and still remained true to themselves. Although abandoning their traditional mediaeval/oriental sound, the two Australian poly-instrumentalists create clearly ethnic types of sound and atmosphere supported with percussions and drum machines, synth and occasionally electric guitar. The atmospheric capacity becomes almost shamanic in Song of the stars; more than ever Brendan seems to be paying homage to Jim Morrison. When you think you’ve understood where he’s taking you, you’re already losing yourself in another sound. In Devorzhum Lisa doesn’t disappoint, and closes the album leaving you almost suspended in time, indefinite time. Perhaps this is the main feature of the album: the transfer of those rarefied atmospheres, their absolute particularity, into a dimension which is technologically advanced but is nonetheless still dilated and indefinite, a dimension that only the Dead Can Dance were and are still able to create.
“Only they could have managed it and still remained true to themselves.”
Dead Can Dance, Spiritchaser, Cover, 1996
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The AGENDA must-see art shows by
FOTOGRAF(I)E GORGONZOLA (Italy) until 10th February 2014 M&D Arte via Monsignor Cazzaniga, 43 artemd@virgilio.it
ADELE
ROSSI
Yayoi Kusama A Dream I Dreamed until 30th March 2014 Shanghai (China) MOCA Museum of Contemporary Art Shanghai 231 Nanjing West Rd, Huangpu www.mocashanghai.org
“As every divided kingdom falls, so every mind divided between many studies confounds and saps itself.” Leonardo da Vinci
ART FAIR TOKIO 2014 7 > 9 March 2014 Tokyo International Forum, B2F Exhibition Hall TOKIO ( Japan) artfairtokyo.com
Agnes Prammer Human Atlas 29th Jenuary – 28th March 2014 MILANO (Italy) Harlem Room, c/o Galleria Montrasio Arte via di Porta Tenaglia 1 www.harlemroom.it
BILL VIOLA THE RAFT until 20th February 2014 MANTOVA (Italy) Palazzo TE Christinnenstrasse 18/19 www.palazzote.it
LONDON ART FAIR 2014 15 > 19 Jenuary 2014 BUSINESS DESIGN CENTRE 52 Upper Street London (United Kingdom) www.londonartfair.co.uk
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L’Aperitivo Illustrato the unconventional magazine
No. 64 WINTER 2014 This issue is dedicated to TURQUOISE BLUE color and to methaphorical meaning of The Inspiration / This Review is published quarterly a year and was founded in 2007 by Greta Edizioni and is a collaboration between Bildung Inc., BAG Photo Art Gallery and Zeitgeist Association. Italy Office: via degli Abeti 102-104, 61122 Pesaro, Italy | telephone: +39 (0) 721 403988 redazione@aperitivoillustrato.it pubhlisher: Greta Edizioni editor at large: ALBERTO BEVILACQUA creative director: Christina Magnanelli Weitensfelder mkt & editorial manager: roberto palumbo r.palumbo@aperitivoillustrato.it switzerland project management: elisabetta onofri elisabetta.onofri.ai@gmail.com translations: Susan Charlton subscription & distribution: Luca Magnanelli Weitensfelder abo@aperitivoillustrato.it distribution: for Italy: Joo distribuzione for other countries: JOHNSONS INTERNATIONAL printing: Graffietti, italy contributors in this issue: marianna accerboni , benedetta alessi, giacomo belloni, ivan burroni, giacomo croci, michele de luca, maria stefania gelsomini, ERIC Mc GRATH, cristina manasse, gian ruggero manzoni, BRIAN MIDNIGHT, laura migliano, salvatore mortilla, stefano riba, pio tarantini, alessia zorloni Cover: silvia camporesi website: www.aperitivoillustrato.it facebook: L’APERITIVO ILLUSTRATO MAGAZINE twitter: AI_magazine All rights reserved. No part of this publication may be reproduced in whole or part without written permission from the pubhlisher. The publisher declares its willingness to settle fees that may be owed for texts and images whose sources could not be traced or identified.
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