AI | SPRING 2013 | 61th

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aesthetic synthesis of art, form and content.

L’APERITIVO ILLVSTRATO LA RIVISTA DI TENDENZA CULTURALE.

Fondato nel 2007/ ANNO V/ GRETA EDIZIONI.com

Poste Italiane Spa/ Spedizione in abbonamento postale-70% Commerciale business/Ancona n.63/2008

Una mostra di fotografia imperdibile: Eklèktikos, a Pesaro il 20 aprile_Intervista esclusiva a Gioia Sardagna Ferrari, direttore per l’Italia di Artcurial, la nota prima casa d’aste francese_Lusso pratico: guidare una autovettura d’altri tempi con il massimo del confort e della ricercatezza del dettaglio: la Bugatti L’Or Blanc_La Storia di Copertina: Nicoletta Ceccoli, illustratrice del mondo del sogno

ITALIAN / ENGLISH COLLECTOR’’'S EDITION ISSUE 61/ SPRING 2013 EURO 12,00 EURO 22,00 EURO 20,00 CHF 25 EURO 20,00 EURO 20,00 EURO 18,00 EURO 18,00 EURO 16,00 GBP 15 RUB 500 USD 25 BRL 35 HUF 3500

ITALIA DEUTSCHLAND AUSTRIA SWITZERLAND FRANCE PRINCIPATO DI M. PORTUGAL GREECE SLOVENIA UNITED KINGDOM RUSSLAND UNITED STATES BRASIL UNGHERIA





Eclecticism is a conceptual approach that does not hold rigidly to a single paradigm or set of assumptions, but instead draws upon multiple theories, styles, or ideas to gain complementary insights into a subject, or applies different theories in particular cases.

Fotografie di / Photos by Samuele Galeotti Giovanni Marinelli Andrea Morucchio Enrico Savi Video di / Video by Francesco Nonino A cura di / Curated by Christina Magnanelli Weitensfelder Alberto Zanchetta

ἐκλεκτικός. Inaugurazione / Opening Sabato 20 Aprile / Ore 18.00 Saturday 20th April / 6 pm Ingresso libero / Free entrance Orario / Opening 20 Aprile - 20 Giugno 2013 / 10.00 - 19.00 20 April - 20 Jun 2013 / 10am - 7pm Catalogo / Catalogue Greta Edizioni

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l'aperitivo illustrato quarterly


giovanni

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index

part 3

36 Lo sapevate che di Luca Magnanelli Weitensfelder 37 Pellicole di Marco Apolloni Viaggio in Italia testo raccolto da Chiara V. Nepita 38 Wr-ite di Luca Magnanelli Weitensfelder Globetrotter di Maria Stefania Gelsomini 39 Nice philosophy di Alessandro Di Caro 40 Face to face #01 di Nicola Bustreo 41 Face to face #02 di Nicola Bustreo 42 Archistar di Ilaria Sartori 43 Parola d'’architetto di Rachele Bifolchi Must have #01 di Marco Pane 44 Cultura del fare di Benedetta Alessi 45 Orizzonti architettonici di Alessandro Antonioni 46 Iperdesign di Luigi Farresin Jap Report di Isabella Dionisio 47 Motori Ruggenti di Mattia Paolasini 48 Luxury living di Gardenia Costantini 49 Must have #02 di Andrea Tessadori Bianco rosso verde di Monica Fior 50 Events #02 di Giorgio Rotta Conscious di Valerio Marconi 51 Buy the book

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aperitivoillustrato.it / part 1

10 L’'editoriale di Christian Leoni 11 Cover story di Adele Rossi 12 L'’intervista di Rachele Bifolchi 13 Il senso dell’'arte di Gian Ruggero Manzoni 14 Biennale #01 di Fernando Ricci Biennale #02 di Martina Cecchini 15 German Connection di Giacomo Croci Art Project #01 di Adele Rossi 16 Idetikit di Marilena Severini 17 Exhibition di Bianca Maria Zini Art Project #02 di Michele De Luca 18 Camera Oscura di Roberta Zanutto 19 Art Project #03 di Vincenzo Rizzo/ testo critico di Chiara Serri 20 Archivi Contemporanei di Giacomo Belloni 21 Incontri di Gaia Conti 22 Art story di Michele De Luca 23 Re-think di Giacomo Maria Prati Events #01 di Lucia Evangelisti 24 Obiettivi di Nicola Bustreo 25 Short story di Greta Marinetti 26 Incursioni di Valentina Majer 27 Put on the agenda a cura di Tina Caffe' 28 Portfolio dell’'arte a cura di Christina Magnanelli Weitensfelder/ testo critico di Alberto Zanchetta

part 2

part 1

53 English texts by Susan Charlton

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l'editoriale/ di Christian Leoni Giulio Paolini, Disegno Geometrico, 1960, tempera e inchiostro su tela, 40 x 60 cm. Courtesy of Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino

aperitivoillustrato.it / part 1

Joseph Kosuth, One and three chairs, 1965. Courtesy of the artist and Sean Kelly Gallery, New York. © 2013 Joseph Kosuth/ Artists Rights Society (ARS), New York

“É un mondo così alto rispetto a noi, che non ne avvertiamo il suono. Sentiamo solo un immenso silenzio che, tradotto in immagine fisica, ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile, infinito. Per questo il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto […]. É un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità”. Avrei potuto non scrivere niente e tutto sarebbe stato comunque chiaro, se non di più. Nulla è, infatti, più lampante del bianco e nulla salta all’iride più velocemente dello spazio vuoto sulla tela o di una pausa poetica. Come è anche vero che nulla cattura l’attenzione come il segno minuto sulla vastità vuota. Entrambe queste inclinazioni sono dettate dal mutismo che dal colore bianco proviene, e che, come dalle parole di Kandinskij, ci preclude l’accesso ad altri lidi, pur lasciandoceli presagire. Naturale curiosità quindi, che sposta l’attenzione del fruitore sulla non-opera, ovvero quell’immenso e insondabile universo sul quale il prodotto artistico giace e di cui esso stesso prova a riportare alla luce degli zampilli, al pari di una crivella su uno sterminato giacimento petrolifero. Il bianco è metafora perfetta dell’ineffabile e dell’insondabile, dal quale po-

Arte e oltre, guerra ”al color bianco“ Da Fontana a Duchamp, la sfida all’inesprimibilità.

Piero Manzoni, Achrome, 1957, gesso inciso e tele ricoperte di caolino, 71 x 90 cm

Sol LeWitt, Schematic representation of interior of Muybridge, 1964, legno dipinto con dieci scomparti, contenenti fotografie di Barbara Brown, 33 x 244 x 24 cm. Courtesy of LeWitt Collection

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ter estrarre ogni sfumatura, è, in altre parole, custode dell’El Dorado artistico. Ecco quindi che ogni pennellata, ogni sillaba d’inchiostro diviene una sfida a Bianco, nel fervore che ogni tonalità rubata dal suo cesto corrisponda a una scheggia d’oro del regno che egli custodisce. L’arte è sempre una guerra all’inesprimibilità. E come ogni conflitto, si è declinato secondo armistizi, spasmi accesissimi e corse al riarmo degli sconfitti; questi ultimi due in particolare sintomatizzano appieno la tensione artistica universale, convulsione perpetua tra ciò verso cui l’artista propende naturalmente nell’animo ma non nelle mani: le singole individualità o le correnti artistiche che hanno intrapreso un’opera di ripensamento dei fondamentali dell’arte hanno avvertito un senso di inefficacia del segno. Uno dei gridi al riarmo più fragorosi è stato quello di Disegno Geometrico di Giulio Paolini, opera che si è costituita portavoce del bisogno diffuso negli anni sessanta di rifondazione dell’alfabeto-arte. La tela, una semplice squadratura, richiama il bisogno di una nuova definizione dello spazio nell’espressione artistica e fa pendant con un altro “guerrafondaio” del tempo, Lucio Fontana. Nei fori e nei tagli è palese la sfida al bianco, apertissima più che mai e inasprita ulteriormente dall’alleanza che

Joseph Kosuth, One and three frames, 1965. Courtesy of MADRE, Collezione Ernesto Esposito, Napoli

le rappresentazioni di Fontana stipulano tra scultura e pittura; una messa in atto violenta di una tensione al culmine frustrata dall’inadeguatezza dell’espressione artistica. Il Disegno Geometrico e le tele di Fontana sono dunque due momenti complementari ai fini dell’indagine sull’indefinito, rispettivamente riarmo e spasmo nella sfida all’ineffabile. Un conflitto che annovera ovviamente altri condottieri, molti dei quali reclutati da quella temperie, nativa statunitense negli stessi sessanta, definita come arte concettuale da un suo stesso esponente, Joseph Kosuth, e refluita poi in larga parte nella nostra contemporaneità. Questa modalità artistica sottolinea come nuove frontiere dell’espressione vengano spesso indagate con un rifiuto dei paradigmi tradizionali della rappresentazione e della sua fruizione, come ci suggerisce Duchamp: “La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva [...] Per approccio retinico intendo il piacere estetico che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria. Gli ultimi cento anni sono stati retinici”. Le punte delle frecce vengono affilate con il diniego della convenzione, quindi, in un’ancestrale battaglia che vede nella sua matrice titanica l’essenza stessa dell’arte e la ragione della sopravvivenza di quest’ultima. Depredata El Dorado, l’arte non avrebbe più ragione di esistere.

Lucio Fontana, Concetto Spaziale. Attese, 1959, pittura a spruzzo su tela. Courtesy of Fondazione Lucio Fontana


COVER STORY/ di Adele Rossi

L’inquietudine del sogno

Che cosa è l’arte autentica? Ogni forma di espressione artistica che comporti una ricerca seria. Il percorso è importante per apprezzare il risultato. La storia dell'arte è fatta di corsi e ricorsi, momenti di rifiuto per la figurazione per concentrarsi su espressioni più concettuali, sperimentazione estrema e tradizione che si alternano, citano e rincorrono. M’interessa l’arte in cui posso riconoscere uno sguardo originale sulla realtà, in qualunque forma la faccia. Si impara dall’arte o dall’artista? Tutti gli artisti che amo mi insegnano anche senza averli mai incontrati. Mi emozionano, me li porto addosso come tutti gli incontri, i viaggi, le cose osservate e vissute. Chi crea è come un albero che trae il nutrimento della sua esperienza, dalle sue radici e le trasforma lentamente in nuove foglie. “[…] La perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista”. Lo scriveva W. Gropius, nel manifesto programmatico del

Bauhaus. Quanto è vero nel mondo della tecnologia? Quando uso il computer per creare, mi richiede altrettanta fatica, “mestiere” e cura dei pennelli e matite tradizionali. Il computer comporta le sue sfide, come le tecniche classiche, solo diverse. Una donna che disegna personaggi femminili, cosa pensa della donna nel mondo dell’arte? Amo molto alcune artiste surrealiste del Novecento come Rimedio Varo e Legno Fini. Purtroppo le donne in passato non hanno potuto fare sentire le loro voci, la Gentileschi, la Garzoni, la Carriera sono le poche che si ricordano. Il ruolo della donna nell’arte era solo di musa ispiratrice di pittori uomini. Oggi è diverso per fortuna. Quando disegno, penso alle mie bambine come creature volitive, forti e fragili nello stesso tempo. Che non hanno più bisogno di trovare la salvezza tra le braccia del principe azzurro. Anzi. Le mie giovani adolescenti non sono più bambine e non ancora donne. Me ne servo per descrivere una delicata nostalgia. Esprimono vanità, fragilità, crudeltà con grazia e bellezza allo stesso tempo. Le sento come dei miei alter ego, come loro, dentro di me io non mi sento ancora pronta a crescere. Le mie illustrazioni amano giocare con le contraddizioni. Sono eccentriche ma anche inquietanti, oniriche, fanno pensare. Come il lato oscuro di una filastrocca, un sogno di cose deliziose con una piccola zona d'ombra.

Ben presto però scopre una vera e propria passione per l’illustrazione alla quale si dedicata anima e corpo, pubblicando più di 20 opere, edite dalle più grandi case editrici italiane e molte straniere. Vincitrice nel 2001 del premio Andersen-Baia delle Favole quale migliore illustratore dell’anno e l’anno dopo del Award of Excellence di Communication Art (USA) per le illustrazioni del Pinocchio (Mondadori), Nicoletta Ceccoli si racconta e inizia definendo in maniera puntuale la sua filosofia artistica.

aperitivoillustrato.it / part 1

Occhi di bambina, volti celesti, carnagione di porcellana sono immersi in mondi surreali, onirici, da approdo lunare. L’innocenza dell’adolescenza si fonde con il sogno che da idilliaco diventa inquietante, perché richiama alla mente visioni di un inconscio sommerso. Così potremmo introdurre le opere di Nicoletta Ceccoli, illustratrice di libri d’infanzia, che con i suoi disegni ha affascinato l’Europa. Classe ‘73, Ceccoli si diploma presso l’Istituto Statale d’Arte di Urbino, nella sezione cinema d’animazione.

da sinistra, in senso orario: Nicoletta Ceccoli - Nascondino, 2007, acrilico su carta e photoshop - Dolceamara, 2011, acrilico su carta - Olympia, 2011, acrilico su carta - Biancaneve, 2007, acrilico su carta e photoshop

www.nicolettaceccoli.com

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l'intervista/ di Rachele Bifolchi

Artcurial in Italia… aggiudicato! Artcurial arriva a Milano. Nel novembre 2012 la famosa casa d’aste francese ha messo radici nel capoluogo lombardo insediandosi in uno degli edifici più prestigiosi della città, Palazzo Crespi. A pochi passi dal Duomo, la sede milanese è guidata dalla competenza di Gioia Sardagna Ferrari, italiana di origine, ma francese di formazione. Specialista d’arte moderna e contemporanea, la dottoressa Ferrari persegue un obiettivo ambizioso: promuovere la rinascita economica e culturale italiana attraverso l’arte.

aperitivoillustrato.it / part 1

Crisi economica e collezionismo. Queste due parole sembrano un ossimoro. Perché oggi si sceglie di investire, comprando opere d’arte? Non c’è una ragione logica: l’arte è passione. L’opera d’arte è la trasposizione reale di questa passione. Vive con noi, è lo specchio dei nostri desideri. Rappresenta la porta d’uscita dal reale che apre nel sogno. La descrizione che Lei ha appena dato dell’arte è piuttosto romantica. Sembra appartenere più al passato che all’oggi. Qual è il ruolo dell’artista nell’attuale compagine economica? Più che parlare di “artista” al singolare, parlerei di tipologie di artisti. La prima è quella dell’artista animato da una vera e propria vocazione. La sua passione è produrre, il processo creativo è il suo principale mezzo espressivo. A causa di questa sua natura “pura”, molte volte rimane chiuso nella sua realtà e non riesce a imporsi nel mercato. Dall’altro lato c’è l’artista businessman. È colui che, grazie al suo talento, riesce a diventare un fenomeno di moda. Un perfetto esempio è Jeff Koons che consegna il suo estro e la sua idea nelle mani di un atelier di bravissimi esecutori, che ne mettono a regime la produzione come in una sorta di fabbrica dell’arte. High Tech, digitale, computerizzato. Come si pone Artcurial di fronte all’innovazione tecnologica? In un rapporto simbiotico. Da due anni abbiamo lanciato Artcurial Live Bid, una piattaforma d’aste on-line che permette agli interessati di seguire l’asta e di fare offerte comodamente da casa. Il successo è stato strepitoso. Nel solo 2012 sono stati aggiudicati via Internet più di 3,5 milioni di euro, ottenendo un incremento del 54% rispetto al 2011. Il prossimo passo sarà la realizzazione di un’applicazione per smartphone. In occasione della nostra presenza a Baselworld (n.d.r. la rivista L'Aperitivo Illustrato quarterly è stata selezionata ufficialmente come media all'evento mondiale del lusso svizzero), vorremmo approfondire con Lei il mondo degli orologi e dei gioielli. Qual è il rapporto di Artcurial con questi importanti settori merceologici? Sono due settori fondamentali. Per il settore dell’orologio, predisponiamo quattro aste l’anno con cataloghi ricchissimi di

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pezzi di pregio. Per i gioielli tre vendite a Parigi e una di gran prestigio nel mese di luglio a Monte Carlo, presso l’Hotel Hermitage. Quest’evento rappresenta il momento clou della stagione, con venditori e compratori da tutto il mondo e con quasi 1.000 lotti in catalogo. Questo numero dell’Aperitivo Illustrato quarterly sarà incentrato sul colore bianco. Qual è l’opera bianca preferita da Gioia Sardagna Ferrari? Convex/Concave dell’artista svedese Mats Bergquist. In quest’opera a incausto su legno c’è tutto: l’uomo e la donna, il concavo e il convesso, il bianco che rappresenta la purezza-visione occidentale e il lutto-visione orientale. C’è l’universo. Amo molto anche un’opera di Umberto Mariani che sembra della panna leggerissima, in realtà è fatta di piombo. Come si colloca nell’universo Artcurial la nuova sede di Milano e che progetti avete per il 2013? Nel corso di quest’anno abbiamo in programma una preview delle aste parigine di aprile e, in esclusiva, un’esposizione aeronautica prima dell’estate. In maniera più cadenzata, vorremmo organizzare mostre e conferenze al fine di far divenire Artcurial Italia un polo d’attrazione culturale. Da ultimo, ma non per importanza, le giornate di expertise… Ne abbiamo in programma sei, ognuna riservata a una specialità. Sono giornate in cui esperti dei vari settori rimangono a disposizione di tutte quelle persone che vogliono informazioni o stime sulle opere d’arte che hanno in casa. Le consultazioni sono gratuite e del tutto confidenziali. Un servizio utile, credo unico in Italia. www.artcurial.com dall'alto, in senso orario: - Gioia Sardagna Ferrari, direttrice Artcurial per l'Italia. Photo credit: Stefano Massè - Modello di Jaeger-LeCoultre Reverso Platinum Number One Ref : 270.6.49 n°264/500 – 2001 circa, venduto a 47.300 € (commissioni incluse) in luglio 2012 a Monte-Carlo - Esposizione di design durante la serata di apertura della sede italiana della casa d'aste francese. Photo credit: Daniele Venturelli - Facciata della sede milanese, Palazzo Crespi. Photo credit: Cristian Parravicini


il senso dell'arte/ di Gian Ruggero Manzoni

IN PUNTA DI CHIODO

www.gianruggeromanzoni.com www.capesaro.visitmuve.it

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I due decani dell’ultima vera avanguardia che abbiamo avuto nel secolo scorso, hanno duettato in un’esposizione che ne ha sancito la grandezza, ma anche la profondità di ricerca. Se c’è un artista italiano a cui viene naturale cucire addosso il principio deleuziano della “ripetizione differente” quello è Enrico Castellani, ma se esiste un artista che è andato oltre l’allora lezione dell’Informale per giungere ad azzerare la visione al fine di portare a nudo lo scheletro degli oggetti e degli elementi, ritrovando un senso nell’armonia della matematica, nel prodigio della fisica, nel rigore del concetto, questi è Günther Uecker. Il primo, fondatore, assieme a Piero Manzoni, del Gruppo Azimuth, il secondo, sempre tra gli ultimi anni ’50 e i primi anni ’60 del XX secolo, del Gruppo ZERO, assieme a Heinz Mack e Otto Piene. Günther Uecker, artista, scenografo, costumista, regista, ha compiuto i suoi studi artistici all’Accademia di Berlin-Weissensse dal 1949 al 1953. In quegli anni risalgono i primi lavori a rilievo in cui fece uso dei chiodi, primo passo di una sperimentazione che lo porterà, in seguito, a porre sul piano del quadro altri oggetti, come, ad esempio, turaccioli o tubi di cartone. Lavorando prima su sequenza equazionali regolari di chiodi, a partire dal 1960, l’artista ha introdotto forme organiche e ha realizzato i suoi primi “moduli rotanti” a forma di disco e le sue prime scatole illuminate (light boxes). Condividendo alcune delle idee con personalità della scena artistica europea quali Fontana, Manzoni, Klein, ha concentrato la sua attenzione

- in maniera quasi ossessiva - sul “simulacro” chiodo, utilizzandolo, in prima istanza, quale “congegno nascosto”, di cui l’occhio coglieva il micro rilievo epidermico, per quindi lasciarlo in vista, riempiendone, con serie, sculture, mobili e installazioni oscillanti che sono divenuti i supporti delle sue “perforazioni formali” al fine di una ri-generazione semantica del quotidiano. L’opera di Günther Uecker si è fatta oggetto concreto sempre esposto al mutamento, il tutto affiancato al gesto pittorico che, in seguito, diviene esplosione di macchie bianche, poi nere, quali “trame summa” di un’immagine concreta pur sempre frutto di un pensiero radicale. Nato in una famiglia povera, nel 1945 la sua città natale fu invasa dalle truppe russe in avanzata. A Günther Uecker, e ad altri suoi giovanissimi coetanei, fu imposto di seppellire cataste di cadaveri putrescenti, di militari e civili caduti. Il vedere e il mettere mano in quella corruzione lo ha traumatizzato per decenni, al punto che è riuscito a parlarne solo avanti negli anni. Poi la fuga nella Germania Ovest e l’internamento, da parte degli anglo-americani, nell’ex campo di concentramento di Sandbostel dove per mesi fu sottoposto agli interrogatori dell’Intelligence americana che pensava fosse una spia comunista, avendo egli avuto una posizione privilegiata nella DDR a seguito del suo merito artistico, quale pregevole pittore anche di tele figurative inneggianti al realismo socialista (opere che eseguì su commissione). Finalmente la libertà, il recarsi a Dusseldorf, dove ancora risiede. Un verso di Majakovskij: “La poesia è fatta con un martello”, è stato, per Günther Uecker, il punto di partenza del suo percorso espressivo, infatti viene da anni definito “l’artista del chiodo”.

Notissime sono le sue “stampe in rilievo”. Con la semplice pressione di chiodi contro la Büttenpapier (una pesante e candida carta fatta a mano da lui stesso) ha dato forma a opere d’arte uniche. Quel procedere è stato, come egli dice, “l’immergersi nel vero realismo”. Quel suo inedito modo di esprimersi ha comunque sempre avuto un contatto diretto con la scienza e la tecnologia, rivelando agganci con il Dadaismo e il Futurismo. Günther Uecker è anche uno stupendo affabulatore. Ebbi modo di avvicinarlo, negli anni ’80, quando operavo spesso in Germania. Sapendomi cugino di Piero Manzoni e curioso del mio fare pittura e delle mie teorizzazioni, ci intrattenemmo assieme alcuni giorni. In uno di quegli incontri ebbe a dirmi: “Mio padre mi definiva un ribelle ed era convinto che non fossi del tutto normale. A casa nostra non abbiamo mai avuto dei libri. Le sole esperienze di apprendimento che come figli abbiamo avuto derivavano dal mondo rurale e artigiano che ci circondava. Ho sempre lavorato molto in vita mia, e ancora vivo il lavoro come una forma di disciplina, ma anche di riscatto. Amavo, da piccolo, disegnare. Quegli scarabocchi che tracciavo erano una continua fonte di mistero, di stupore. Infatti l’arte, per me, è ancora un’eterna porta aperta. E’ il mio costante amore segreto che sancisco e fermo ogni volta che pianto un chiodo su di una superficie bianca. Ma il disegno, ben presto, non mi bastò più, perciò decisi di alzare il pugno ed entrare nella superficie. Come piantai il mio primo chiodo, uno di quelli lunghi, d’acciaio, che usano i carpentieri, su di un foglio, capii che in quell’oggetto, in quello strumento, in quel colpo secco, in quella penetrazione, sarebbe dimorata la mia essenza creativa. Da allora sono sempre entrato nella materia, sia fisicamente, con potenza, sia concettualmente, sostenuto dalla poesia che tale penetrazione in sé contiene, cioè, per il maschile, l’immergersi nel femminile per dare vita. E quale altra sintesi può esserci dell’esistere?”

aperitivoillustrato.it / part 1

“Per Günther Uecker, classe 1930, nato in quella che poi divenne, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Germania Est, il piantare chiodi in una superficie bianca è divenuta la sintesi esplicativa e forte di ciò che è stata la sua vita. Ho visto, di recente, opere del grande maestro tedesco in una stupenda mostra tenuta assieme ad Enrico Castellani a Ca’ Pesaro di Venezia, a cura di Lóránd Hegyi e Davide Di Maggio”.

da sinistra, in senso orario: Günther Uecker - Archäologie des Reisens, 1997, 85 x 75 cm - Nagelstruktu, 1959, 140 x 140 cm - Organische struktur, 1960, 103 x 103 cm - Particolare della firma dell'artista


biennale #01/ di Ferdinando Ricci

biennale #02/ di Martina Cecchini

Evident in Advance In occasione della 55esima Biennale di Venezia, dal 1° giugno al 24 novembre, il padiglione Estonia ospiterà Evident in Advance, la mostra fotografica dell’artista Dénes Farkas, a cura di Adam Budak.

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in senso orario: Dénes Farkas - Evident in Advance #001, 2013, tecnica mista, misure varie. - Evident in Advance #008, 2013, tecnica mista, misure varie. - Evident in Advance #004, 2013, tecnica mista, misure varie. - Evident in Advance #007, 2013, tecnica mista, misure varie. Courtesy of Dénes Farkas

L’obiettivo della mostra è quello di raccontare l’inafferrabilità del linguaggio, l’impossibilità di esprimersi in maniera univoca, al di là di ogni possibile traduzione e reinterpretazione. ll concetto è ispirato da una storia fantastica dello scrittore americano, Bruce Duffy The World As I Found It (1987), che consiste in un miscuglio di finzione e realtà, verità e bugie, dove la storia, la biografia e la filosofia di tre filosofi, Ludwig Wittgenstein, Bertrand Russell, e G. E. Moore, si intrecciano una trama divertente. Utilizzando elementi minimal, mutuati dall’ingegneria e dell’architettura, l'artista costruisce spazi cinematografici di contemplazione, dove la trama attende il suo autore e i personaggi sono assenti. La mostra frammenta la trama narrativa in schegge di linguaggio, creando un gioco interpretativo intrigante, ma anche fortemente codificato. Il visitatore, inserito in una rete testuale, dovrebbe entrare a far parte di una storia unica. Ma vari frammenti del testo principale ed elementi di diverse forme, per lo più non immediatamente visibili a prima vista, contribuiscono a una nuova geometria, sia fisica che mentale. Sebbene la molteplicità dei punti di vista interpretativi possa aprire a spirargli relativisti, Evident in Advance respinge in toto l’iper-narrativo. Ben lungi dal sottolineare la perfezione della mente umana, al cntrario si concentra sugli errori logici e sui momenti di debolezza interpretativi. Fin dall’inizio, a causa della sua prevedibilità, la narrazione è condannata a fallire. Consapevole di tale destino, il progetto sottolinea l’inutilità della ripetizione e della serialità come atto rituale interpretativo. www.denesfarkas.com

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Front Door Out Back

Il paradosso dello spazio vitale La casa del paradosso. Questo potrebbe essere il titolo alternativo dell’installazione dell’artista di Bill Culbert, Front Door Out Back, presentata per la prima volta in Italia in occasione della 55esima edizione della Biennale di Venezia. L’opera, ospitata nel padiglione neozelandese, presso l’Istituto Santa Maria della Pietà, si dirama attraverso otto spazi, uno interconnesso all’altro, che fronteggiano la laguna. Oggetti domestici, familiari, casalinghi sono protagonisti assoluti di questi spazi, ammantati di una nuova autorità da tubi fluorescenti, luce naturale e riflesso argenteo dell’acqua della laguna. Come spiega l’artista stesso, gli armadi, i tavoli e le sedie sono “oggetti iconoclastici all’interno dall’atmosfera sacra e storica del luogo in cui sono ospitati”. “Attraverso la luce naturale e artificiale – continua Culbert– questi oggetti ordinari e quotidiani, acquistano un’energia tale da essere celebrati quasi come dei fenomeni sovrannaturali”. Come suggerisce il titolo Front Door Out Back, questa di Culbert è una riflessione sul concetto di rifugio e di spazio vitale. Una rivalutazione degli oggetti che generalmente associamo all’abitazione, alla casa, al focolare domestico incredibilmente si capovolgono, perdendo il loro significato originale: i tavoli e le sedie galleggiano sopra la testa dello spettatore, il pavimento è in alto, ricoperto da una moquette fluorescente. La casa, nella visione di Culbert, ha un nuovo arredo: il paradosso. www.nzatvenice.com in alto, da sinistra: - Bill Culbert, An Explanation of Light, 1984, tubi fluorescenti, porte smaltate e cavi elettrici, Serpentine Gallery, London - Bill Culbert e Ralph Hotere, Blackwater, 1999, ferro laccato, tubi fluorescenti e legno. Collezione Museum of New Zealand Te Papa Tongarewa, acquistata nel 1999


art project #01/ di Adele Rossi

german connection/ di Giacomo Croci

Nuria Fuster: il medio presupposto

realizzazione visionaria L'impossibile reso possibile: la visione di Chu Teppa.

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Hamish Morrison Galerie presenta i lavori dell’artista Nuria Fuster.

La scelta che dirige l’intero allestimento sembra legittimare la lettura del percorso dell’artista come emblematico per il tema di questo numero. Mentre alcune fotografie di opere relative a una prima fase della produzione testimoniano sculture in cui gli oggetti del mondo domestico si smontano e ricombinano - l’artista opera secondo un moto di decostruzione e ricostruzione -, questa esposizione presenta un passo ulteriore. Vi è certo una dimensione delle cose tale per cui esse vengono smembrate nelle loro componenti, le quali sono ricollocabili in costellazioni variabili, ma vale la domanda: cosa rende questo gesto possibile? L’aria è, nell'opera, la risposta concreta alla questione: c’è un medio supposto, ciò in cui le cose si analizzano e sintetizzano. Spazio e aria non sono per l’artista astrazioni: un materasso inchiodato al muro espone la percettibilità dell’elemento mediale e l’installazione di asciugacapelli allude alla possibilità della manipolazione dello stesso. Non si tratta dunque del suppositum o della sostanza astratta, ma della concretezza del presupposto logico del movimento di analisi e sintesi, in questo caso l’aria, il medio. Il titolo When someone melts a menhir si riferisce infine all’installazione di un panneggio di plastica, i cui orli sono sciolti da dispositivi termici. Si chiude così idealmente: l’artista integra nel lavoro un’immagine chiaramente proveniente dalla tradizione e si inserisce così nella continuità storica, arricchendola del proprio riconoscibile stigma. www.hamishmorrison.com

dall’alto: Nuria Fuster - allestimento dell’esposizione alla Hamish Morrison Galerie, Berlino - Presionador/ Pusher, 2013, plastica e ferro, 300 x 900 x 52 cm. Courtesy of Hamish Morrison Galerie dall’alto, in senso orario: Chu Teppa - Celestial Goddess, 2012, c-print, ed: 1/7, 102 x 102 cm - Hye (Goddess of Maternity, Kindness & Antics), 2012, c-print, ed: 3/7, 102 x 102 cm - Celestial Wishes, 2012, c-print, ed: 1/7, 102 x 102 cm

Però, però… negare la successione temporale, negare se stessi, negare l’universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Il nostro destino non ci spaventa in quanto irreale; ci spaventa in quanto irreversibile e ferreo. Il tempo è la sostanza della quale sono fatto. Il tempo è un fiume che mi travolge, ma sono io il fiume; è una tigre che mi distrugge, ma sono io la tigre; è un fuoco che mi consuma, ma sono io il fuoco: il mondo purtroppo è reale; io purtroppo sono Borges. Una citazione di Jorge Luis Borges, il tempo, il mito e il destino che descrive perfettamente il mio percorso. Chu è nata a Còrdoba, Argentina, e risiede negli Stati Uniti dal 2000. Prima di scoprire la sua passione per la mitologia per bambini, la sua formazione come designer industriale l’ha portata a fabbricare lampade e a creare una sua etichetta per abiti e costumi destinati al cinema e alla televisione. Siamo ciò che vogliamo essere o ciò che gli altri vogliono che diventiamo. Chu crede che possiamo diventare qualcos’altro: un’essenza di ciò che può sembrare impossibile agli occhi dell’osservatore, che forse non vuole vedere ciò che è veramente presente davanti a lui. Lei crea nella mitologia e nei sogni che riesce a plasmare a sua volontà. Chu concepisce le sue creazioni partendo da articoli vintage dimenticati, li trasferisce sul suo telaio potente e visionario, dal quale emergono creature kitsch, regali, che poi tornano sulla terra con anime riciclate. Con la ferma convinzione che tutto sarà possibile con questa seconda eventualità. Chu Teppa svela le radici del mito per rendere poi tutto realizzabile. www.chuteppa.com

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identikit/ di Marilena Severini

Sabatini Odoardi: il bianco come il ”nulla“ svelato

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Molle e solido. Caldo e freddo. In questi opposti, apparentemente inconciliabili, Gino Sabatini Odoardi, brillante artista pescarese, trova la sua poetica che giunge al culmine con il ciclo Termoformature. Attraverso un elaborato sistema di lavorazione della plastica, Odoardi scopre la possibilità di congelare l’oggetto attraverso il riscaldamento, sottraendolo dal normale ciclo vitale per attribuirgli un valore simbolico: l’eternità. In questo percorso creativo, la paletta dei colori si riduce all’essenziale, si sfalda, fino al raggiungimento dell’ultima meta. Il bianco.

dall’alto, in senso orario: Gino Sabatini Odoardi - Senza titolo con ciotola, 2007, legno, ciotola in alluminio, smalto, 95 x 105 x 100 cm - Senza titolo, 2010, termoformatura in polistirene, 210 x 70 x 10 cm - Ritratto dell’artista Gino Sabatini Odoardi - Senza titolo con cubo con rumore segreto, 2010, termoformatura in polistirene, mdf, smalto, oggetto segreto, 210 x 210 x 16 cm

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Perché il bianco? Perché è un punto di raggiungimento, un traguardo sudato. Non è sempre facile azzerarsi cromaticamente. Io l’ho fatto nel 2004 con tutte le implicazioni del caso. Ho sempre considerato questo seducente colore ateo come lo spazio vuoto del silenzio. Un “nulla” svelato. La comprensione dello zero (come - a ragione - avrebbe sostenuto Malevič). L’eloquente verità del “non-sapere”, una volta per tutte. Preferisce l’evoluzione del lavoro di una sua opera o il compimento della stessa? E quando l’opera viene ritenuta compiuta? Intanto preferisco sempre “l’evoluzione” al lavoro stesso. Mi piace quando l’opera ti prende per mano e ti accompagna nel deserto del senso. Il segno linguistico si rigenera continuamente, non si fa trovare se lo cerchi, altrimenti è sempre lì, non si è mai mosso. Il lavoro non si compie mai, anche quando ha smesso di riprodursi. É tutto questo è meravigliosamente illogico. La ricerca può diventare ossessione per l’artista? Forse. Io personalmente non ho punti fermi nel lavoro. Vivo in una costellazione di amnesie e di dubbi. La ricerca che conta davvero è quella che non puoi raccontare. Inoltre cosa dovrei cercare? Intanto parto dal presupposto che non “troverò” mai nulla. Naturalmente, con difficoltà riesco a sottrarmi al solletico d’una curiosità ossessiva, anche se da tempo ne ho annusato la rotta mancata. Da sempre la mia indagine preleva motivazioni dal disagio, dall’insofferenza, dal malumore di essere al mondo inconsapevolmente. Con gli anni la mia irrequietezza si è concentrata su tutto ciò che fosse magra consolazione di questo buio (dalle religioni - tutte - a qualsiasi dogma). Due sono le cose di cui non mi hanno insegnato nulla a scuola: la nascita e la morte. La morte è inaccettabile e gran parte del mio lavoro parte da lì, è come se la morte fosse un difetto fondamentale del mondo. Non te la puoi segnare sull’agenda.

La polvere deposita sempre la sua emorragia (morandiana), anche se non la giustifichiamo. Non è un’opinione, è silenzio allo stato puro. Tutto qui. Lavora a diverse opere in contemporanea? Può capitare. Ma non è la regola. Un pensiero sullo stato dell’arte nel Bel paese. É uno stato senza “Stato” quello dell’arte nel Bel paese. Ci aspetta un ventennio di mediocrità e di oscurantismo politico, economico e culturale. Le istituzioni non esistono. Non sostengono la cultura e soprattutto non la contrastano perché ne hanno timore, ma perché la ignorano incoscientemente. È quell’ignoranza indifferente che mi sconvolge. È un vuoto sconsiderato a dominare. L’innovazione tecnologica e la crisi economica stanno dando forma a una nuova geografia dell’arte contemporanea, a cui corrispondono altrettanti flussi economici. La Cina è in crescita continua anche in questo campo, ma anche l’India è molto attiva. La Corea del Sud ha scelto di puntare su due biennali prestigiose; anche gli Emirati Arabi e il Brasile dedicano attente politiche e investimenti in questo settore, senza dimenticare la Russia. Così, pur continuando a muovere numeri importanti, la posizione leader degli Stati Uniti e dell’Europa sta vacillando. In Europa, la Germania, con una tradizione storica e con risorse stabili, è il paese che regge meglio. In queste nuove traiettorie, il nostro paese è rimasto isolato, messo all’angolo come dimostrano anche le poche presenze di artisti italiani nelle mostre internazionali. E anche all’interno dei nostri confini, se si parla di contemporaneo per gran parte del pubblico l’orizzonte si ferma all’Arte Povera e alla Transavanguardia: movimenti che hanno ridisegnato la scena artistica, ma tra gli anni sessanta e la fine degli anni settanta. Viviamo una paralisi progressiva, confortati dall’assistenza di tanti bravi “curatori”. www.ginosabatiniodoardi.com


Più di 70 gallerie di tutto il mondo parteciperanno dal 26 al 28 aprile alla prima edizione di Paris Photo Los Angeles, versione statunitense della rinomata fiera di fotografia e video arte parigina, che avrà luogo nell’iconica quanto suggestiva cornice dei Paramount Pictures Studios. Anche Paris Photo, diretta da Julien Frydman, come è accaduto ad Art Basel e più recentemente a Frieze Art Fair, avrà la propria “sorella americana”. Il luogo selezionato, Los Angeles (California), sta divenendo sempre di più un importante centro di interscambio

artistico e culturale che la Reed Expositions, società che organizza e gestisce l’evento fieristico, ha saputo individuare, cogliere e sfruttare a proprio vantaggio. Annunciata nell’autunno del 2012, l’edizione californiana di Paris Photo era stata già considerata un successo. Non ci resta che prenotare il biglietto aereo e volare a Los Angeles per gustarci e assaporare questo imperdibile evento. www.parisphoto.com

Photo credit: Ed Ruscha. Courtesy of the Artist and Gagosian Gallery

I mille volti di Cindy Le prime “provocazioni” della Sherman in mostra a Merano.

Cindy Sherman è nata nel 1954 a Glen Ridge, nel New Jersey ed è una delle personalità dell’arte contemporanea più apprezzate a livello mondiale. Famosa per la regia e la cinematografia, quest’artista ha acquisito fama internazionale anche per la fotografia, nello specifico per i suoi “autoritratti concettuali”. Nell’interessante mostra curata da Gabriele Schor e dedicata a questo suo specifico uso della fotografia (That’s me – That’s not me, Galleria Merano Arte, catalogo Hatje Cantz Verlag), sono esposte cinquanta sue opere giovanili, realizzate tra il 1975 e il 1977. I lavori proposti appartengono al periodo di formazione della Sherman avvenuto alla State University of New York di Buffalo, dove produsse un ampio corpus di opere che sono le fondamenta su cui ha costruito il suo percorso creativo, cui è rimasta sempre fedele. Percorso che ha sempre seguito la strada

maestra della stretta e indissolubile connessione tra arte e vita, una linea che, come ha scritto Allan Kaprow “deve rimanere fluida e la più indistinta possibile”. In un gioco sottile (ironico e talvolta provocatorio), fatto di ambiguità, contiguità, anche difficilmente decifrabili, in cui la sua stessa identità fisica entra in gioco in modo prorompente, come affermazione costante della propria imprescindibile presenza. Una “presenza” che però l’artista mira a cancellare, ad annullare. In una lunga sequenza del 1975, Senza titolo, le foto ci fanno seguire un percorso che va dall’assoluta riconoscibilità del suo volto a una trasformazione dei propri connotati fino a proporsi come “altro da sé”. Un volersi negare, imprescindibile però dal punto di partenza, dalla vera origine. “Ho iniziato a lavorare con la fotografia – scriveva nel 1976 – quando ho deciso di usare la macchina fotografica per esplorare la

mia esperienza di donna”. Una, nessuna, centomila identità, tra reali e inventate, in cui si riflettono vita vissuta, sogni, voglia di giocare e di stupire (e di stupirsi), in un sempre affascinante dolce combattimento, tra percezione/ auto percezione (in uno sforzo imperterrito di autoanalisi), linguaggi diversi e tra loro anche remoti, sorbiti in tutto il mondo dell’immaginario, che va dall’arte (da Magritte a Warhol; ricordando anche le “fotografie del movimento” di Eadweard Muybridge) al cinema, dalla moda ai feticci (bambole ottocentesche, vecchi abiti, maschere), dal fotomontaggio al teatro. Creando, con un processo decisamente colto, un mondo di immagini che non lascia indifferenti, ma coinvolge e si sedimenta per sempre nella nostra cultura visiva. www.cindysherman.com

dall’alto, in senso orario: Cindy Sherman - Senza titolo (Lucy), 1975-2001, fotografia in bianco e nero, stampa alla gelatina d’argento. - Senza titolo, 1975, serie di 6 fotografie in bianco e nero, colorate a mano. - Senza titolo (doll Clothes), 1975, 11 fotografie in bianco e nero, ritagliate e montate su cartone. - Senza titolo (Bus Riders), 1976-2000, fotografia in bianco e nero, da una serie di 33. - Senza titolo (Bus Riders), 1976-2000, fotografia in bianco e nero, da una serie di 33. Courtesy of Collezione Verbund, Vienna

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Paris Photo Los Angeles

art project #02/ di Michele De Luca

exhibition/ di Bianca Maria Zini


camera oscura/ di Roberta Zanutto

L’assenza visibile del colore nella fotografia di Pierre Pellegrini È forse perché con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità disumane dell´universo e, in tal modo, ci colpisce alle spalle con il pensiero dell´annullamento, quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea? O è forse perché, nella sua essenza, il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori; è forse per questi motivi che c´è una così muta vacuità, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso - un incolore onnicolore d´ateismo dal quale rifuggiamo?

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Moby Dick, Herman Melville

Di fronte al bianco accecante spesso si può avvertire una forte sensazione di disagio. Il bianco tende a destare l’attenzione, a sollecitare i sensi; tutto il nostro sentire è all’erta, eccitato. A volte il bianco è considerato come un’assenza di colore, forse anche più di un nero puro. Ed è probabilmente l’assenza che crea il disagio perché pone ognuno di noi di fronte a ciò che è ignoto, a uno spazio da riempire. Si immagini allora quale potrebbe essere lo sgomento trovandosi in un paesaggio dove cielo e terra siano tinti di un bianco illimitato, dove non ci siano altre presenze, non una sagoma, seppur lontana, che possa essere recepita dalla nostra vista. Un po’, insomma, come trovarsi in una nebbia fittissima e poi piano piano la nebbia si dirada e comincia a emergere una forma. La forma è ciò che ci ancora a noi stessi, che ci restituisce la confortevole normalità del reale dopo il timore provato in quel lattescente vuoto. Se c’è forma, c’è qualcosa che siamo in grado di comprendere, qualcosa che i nostri sensi possono elaborare. La forma è un albero, come le sue radici lo innestano alla solidità del terreno, così la sua vista riporta noi con i piedi per terra. Pierre Pellegrini lo ha immortalato così, solitario e spogliato di tutto nel mezzo del bianco più immacolato, come un titano che affronta una spazialità per noi fin troppo destabilizzante e scivolosa, rappresentata dal terreno inclinato in cui le radici affondano, anche se l’angolazione di questo “protagonista” grida la necessità di una verticalità più pura e diretta. Questi alberi, che sopravvivono nelle eteree fotografie dell’autore, fanno pensare a esili scheletri, sottili e fragili nervature che la natura ci restituisce nella più disarmante essenzialità.

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I loro rami sembrano aprirsi nel vuoto, tesi ad afferrare niente più dell’aria, ma altre volte come in Three brothers, essi si coalizzano, si stringono vicini per darsi forza in un abbraccio nutrito dalla più primordiale solidarietà, quella che spinge a portare avanti la vita, a perpetrarla sempre e comunque. É un abbraccio commovente, disperato e coraggioso, perché di fronte al nulla a volte si riscopre il simile. In Life in the snow infatti, nonostante la diversità “formale”, uomini e alberi sono vestiti dello stesso grigio, ognuno specchio dell’altro. Si potrebbe perfino ipotizzare che il movimento non appartenga solo ed esclusivamente alla razza umana, così come la capacità di provare emozioni vista la forte “espressività” di questi corpi di corteccia. L’autore ci fa dono di una visione sostanziale e pura di una vita silenziosa, riflessiva e disarmane nella sua primitiva vitalità. www.web.ticino.com

Nato il 7 settembre 1968, a Sorengo, in Svizzera, Pierre Pellegrini, dopo aver studiato progettazione architettonica, ha realizzato il suo sogno di diventare un insegnante di educazione fisica. Durante la sua crescita professionale, si è applicato alla fotografia. Per lui quest'arte rappresenta un mezzo meraviglioso per comunicare e, al tempo stesso, per dare agli spettatori la possibilità di provare emozioni. Le sue opere saranno esposte per conto della Galleria Valeria Bella Stampe al MIA 2013. Per il supporto tecnico si avvale della PNY.

in senso orario: Pierre Pellegrini - Life in the snow, fotografia - Resistance, fotografia - Three brothers, fotografia - Winter park I, fotografia


art project #03/ di Vincenzo Rizzo/ testo critico di Chiara Serri

in senso orario: Ludmila Kazankina - Senza titolo, 2012, olio su tela, 118 x 108 cm - Senza titolo, 2012, olio su tela, 70 x 60 cm - Senza titolo, 2012, olio e smalto su tela, 110 x 140 cm - Senza titolo, 2012, olio su tela, 118 x 107 cm - Senza titolo, 2012, olio e smalto su tela, 149 x 133 cm

L’immenso oceano che ricopre il pianeta è, infatti, una massa liquida e pensante, in grado di “dare corpo” ai sogni e ai ricordi degli astronauti, che si trovano a vivere sulla stazione spaziale insieme ad alcuni “ospiti”, prodotti dell’inconscio. Come Tarkovskij dirige in maniera claustrofobica le scene d’interno, con un ritmo lento ma incessante, prediligendo i silenzi alle parole, così Ludmila Kazinkina, con poche linee e un grigio ottundente, costruisce uno spazio possibile e allo stesso tempo distorto, sottratto al normale fluire del tempo. Un angolo che si ripete di opera in opera, facendosi specchio della società contemporanea, alla quale l’artista guarda con grande interesse perché, come diceva Kandinsky, “ogni arte è figlia del proprio tempo, e spesso è madre della nostra sensibilità”. All’interno di queste stanze troviamo sempre figure femminili, diafane ed eleganti, che sembrano uscite dalla nostra mente per esorcizzare quel senso di inadeguatezza, di malinconia e di solitudine che spesso ci attanaglia. Un malessere che si riconosce negli arti svuotati e che pare provenire direttamente dall’interno di un corpo che cambia, esplicandosi in piccole anomalie, incongruenze e deformazioni, che danno forma più autentica ai contenuti angosciosi della coscienza. Dalla tela alla carta, fino al video realizzato in collaborazione con Marco Menozzi, si intuisce la continuità di una ricerca portata avanti da anni, ma anche il desiderio di semplificare gradualmente la composizione e alleggerire i colori, per comunicare con maggiore spontaneità e immediatezza. Una maturità artistica che si riconosce soprattutto nella predilezione per una pittura sussurrata e non gridata, che mantiene però intatta la propria forza e la propria urgenza. Ne sono un esempio i disegni realizzati nel corso del 2010, dove una figura femminile, imprigionata all’interno di una teca di cristallo, cerca di liberarsi, tornando inesorabilmente al punto di partenza. Un movimento circolare che, ancora una volta, richiama il film di Tarkovskij e in particolare il finale in cui il protagonista sembra fare ritorno a casa, prima che tutto naufraghi in un oceano indistinto di pensiero e memoria.

Se la letteratura sta al cinema, l’arte sta a...? Alla vita. Tutto quello che mi circonda, tutta la mia esperienza è filtrata attraverso me/artista, riproducendosi sulla tela e facendosi testimonianza muta del presente. Se un’opera potesse parlare, cosa direbbe? L’opera nel suo silenzio parla, sussurra, a volte grida, ma non tace mai. Nelle mie opere prediligo il grigio e il bianco: i colori del silenzio. Il bianco è il colore dell’appartenenza perché richiama la neve della mia Russia, assorbe e intensifica i sensi. Il grigio ricorda la pianura Padana: miliardi di piccoli frammenti di tutte le tonalità che insieme formano il colore del silenzio, della nebbia. Infine c’è la “donna - femmina”. Come sostiene l’autrice Clarissa Pinkola Estés : “Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno istruito in modo da vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ciononostante l’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che trotterella alle nostre spalle va indubbiamente a quattro zampe”. Che rapporto ha un artista con il mercato dell’arte? Per un artista è importantissimo trovare un gallerista/curatore onesto, con cui si crei un rapporto di complicità. Personalmente ho la fortuna di essere circondata da persone splendide come Sabiana Paoli titolare della “Sabiana Paoli Art Gallery” a Singapore e Chiara Serri di “CSArt - Comunicazione per l’Arte”. Esiste un’arte senza senso? L’arte necessariamente è portatrice di senso, se no che arte è? www.csart.it www.sabianapaoliartgallery.com

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Solaris è un romanzo di fantascienza di Stanisław Lem, ma anche uno dei capolavori cinematografici di Andrej Tarkovskij che, prendendo a pretesto l’elemento fantascientifico, propone un’interessante riflessione sulla condizione umana e su una società in cui ogni individuo si trova perennemente in conflitto con se stesso, con i propri desideri e il proprio vissuto.

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Solaris. La donna, il corpo e i silenzi


archivi contemporanei/ di Giacomo Belloni

Naturali contraddizioni

incontri/ di Gaia Conti

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Gli opposti nella poetica di Paolo Hermanin.

Nel 2007 Paolo Hermanin esponeva alla Casina delle Civette, nel Museo di Villa Torlonia a Roma, in una mostra dal titolo Niente cambia di forma come le rocce, se non le nuvole, due le riflessioni sul titolo. La prima riguarda il significato della frase: com’è possibile accomunare elementi tanto distanti tra loro come nuvole e rocce? Com’è possibile mettere a confronto la mutevolezza e l’irrequietezza delle nuvole con la staticità e l’immobilità delle rocce? La seconda riflessione è per chi conosce il percorso di Hermanin, fino ai suoi ultimi lavori - Le pietre che danzano - e l’attenzione che l’artista ha sempre riservato alla natura. La mostra del 2007 conteneva infatti in nuce i principi che avrebbero caratterizzato la sua ricerca a venire: meravigliose incisioni sugli specchi; suggestive visioni di architetture vorticanti, intrecci rapidi di rocce e nuvole impostati su un'estetica burkiana, dove il disorientamento reverenziale diviene l’occasione per esprimere un sentimento sublime. Opere capaci di combinare tra loro concetti apparentemente opposti, uniti in una danza ritmica e sinuosa. Giochi disinvolti che si risolvono nell’alternanza di una “materia snaturata” - rocce morbide, pietre leggere, invenzioni di gusto piranesiano - e una “natura smaterializzata”, evanescente e provvisoria, resa inesauribile e immortale da un’invisibile forza soprannaturale. Un percorso lineare quello di Hermanin, che nasce dalla voglia di sondare senza esclusioni il creato in tutti i suoi aspetti, in particolar modo quelli caratterizzati da naturali contraddizioni. La natura genera le sue forme per mezzo di processi laboriosi e con meccanismi difficili da comprendere. Hermanin lo sa, per questo ce la vuole rendere leggibile attraverso quel linguaggio che solo l’arte è in grado di elaborare attraverso un coinvolgimento multisensoriale. Le forme con cui la natura si esprime sono la risultante schematica delle sue complessità e dei percorsi con cui si materializza alla limitatezza dei nostri sensi. In natura ciò che appare è il risultato finale di costruzioni lente e pazienti, sviluppatesi con ritmi estranei alle nostre dinamiche. La natura è arte anche per quella sua capacità di azzerare tutto e creare nuove forme, proprio come fa con le nuvole: forme di rinascita, ma anche di rovina e devastazione quando divengono tempesta. Perché la natura può essere tutto, ma anche ciò che vi è opposto; vita e morte, crescita e distruzione. Le pietre che danzano di Hermanin vogliono esprimere questa prodigiosa capacità della natura di essere nello stesso istante ogni cosa e il suo esatto contrario, perché in Πόλεμος (guerra) si esprime l’armonia e, solo nella tensione tra contrari si realizza l’equilibrio. Un apparente paradosso che è tale solo nella nostra abitudine di

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voler ridurre in concetti semplici la perfezione dell'infinito, attraverso una sintesi che non ci consente di comprenderne appieno la pienezza. Litochoreia è il termine greco che indica la danza della pietra. Litochoreia identifica le sculture che danzano, opere che non sono immobili, intrappolate nel peso della materia. Sono lavori che, al contrario, rappresentano un’instabilità leggera, in movimento sintonico e continuo con il vento e il mare che le modellano, in contatto epidermico con il territorio di cui fanno parte. Sono materia fluida e plasmabile, pesante solo nella loro fisicità, mai nella forma. Sono il prodotto artistico necessario per far intendere che, ciò che appare, è solo il pretesto ottico per un approfondimento sensoriale e percettivo. L’artista riesce a farci comprendere che in natura nulla è limitato e che anche le pietre possono danzare. Perché nulla in natura è mai statico e le forme si plasmano senza sosta grazie anche alle capacità moltiplicatrici prodotte dalla continua tensione tra opposti. Perché la natura è madre di tutto e per esserlo non ha limiti né confini, e si esprime con il continuo rinnovamento, mai riducibile alla modestia delle nostre interpretazioni. www.paolohermanin.it sotto: Paolo Hermanin - Agina, 2007, specchio retroinciso, 70 x 70 cm - King Lear, 2012, terracotta, 15 x 30 cm

Esther Mathis, Falling rocks in weightless balance with me, 2012, rocce, metallo, nylon, legno, colore, 170 x 160 x 150 cm circa , particolare

Le sue opere sono conservate in collezioni pubbliche e private e il suo percorso di ricerca che abbraccia fotografia, video e installazione va ben oltre l'immagine oggettiva per addentrarsi fin nelle pieghe delle nostre menti. Possiede una spiccata sensibilità in grado di catturare l’essenza della materia che si traduce in delicati e intensi progetti artistici. I suoi lavori mi fanno tornare alla mente un componimento del poeta messicano Octavio Paz, letto molto tempo fa, che recita:

Più che aria più che acqua più che labbra leggera leggera il tuo corpo è l’orma del tuo corpo. Il leitmotiv nei suoi scatti è un senso di levità, di leggerezza, i corpi umani sono solo accennati, delle ombre per l'appunto; non usa punteggiatura e non scandisce il tempo. Come nasce questo suo approccio poco convenzionale alla fotografia? Qual è la chiave di lettura del suo lavoro fotografico? Io vedo nel mezzo fotografico il sistema più coerente di catturare il momento. Tenere fermo il tempo. Ciò che mi interessa sono gli attimi non visibili o alterati nella loro forma dalla percezione che la nostra mente ne ha. Cerco di rendere visibili le cose come esattamente non sono nella realtà, che è nitida e spigolosa, in maniera che tutto diventi più intimo, più mio. Oltre che di fotografia il suo percorso si compone di un corpus coerente che si dirama anche tra video e installazioni. Come riesce a coniugare in maniera armonica questi media? Si influenzano l'uno con l'altro o sono percorsi che considera distinti e autonomi? Non riesco a vedere i miei lavori come distinti o divisi; ognuno di loro è un’evoluzione e una diramazione del precedente. Solitamente tutto comincia con un progetto fotografico e negli ultimi due anni tutte le immagini si sono trasformate, in corso d'opera, in installazioni o video


Carpe Diem. Esther Mathis e l’arte di catturare il tempo

Ha partecipato per tre anni consecutivi a Cose cosmiche, una serie di incontri organizzati alla Galleria Artra di Milano per riflettere sui temi legati alle arti e alle scienze: spazio, tempo, energia e materia. Qual è il suo modo di percepire e “misurare” il mondo? La scienza è una parte fondamentale nella mia ricerca. Questa dottrina ha la capacità di spiegare tutte le cose che ci circondano in maniera tangibile, concreta. Per affrontare la mia ricerca artistica ho approfondito maggiormente due discipline scientifiche: la neurologia e la fisica. Insieme a un fisico sto portando avanti un lavoro di installazione video nel quale cerco di “archiviare” in modo tridimensionale dei fenomeni naturali come l'arcobaleno, la neve, la pioggia, etc. Ho anche collaborato con un neurologo che mi ha spiegato come il nostro cervello registra, ordina e archivia tutte le informazioni che penetrano attraverso i nostri sensi. Tutti questi meccanismi possono trovarsi in difficoltà in situazioni estreme come, ad esempio, un aumento improvviso di adrenalina oppure la mancanza di ossigeno. Ecco, ho indagato principalmente questo specifico campo, nel quale le regole biologiche non sono più valide.

dall’alto: Esther Mathis - Höhe über Meer, 2012, installazione - Wasser #5, 2010, pigmento d’inchiostro e stampa su carta hahnemühle, 80 x 109,5 cm - Wasser #1, 2010, pigmento d’inchiostro e stampa su carta hahnemühle, 80 x 63,5 cm

Nelle sue opere dimostra di avere una grande capacità di sintesi sia formale sia concettuale. Riesce a creare delle piccole poesie, una sorta di haiku fotografico, privando le immagini, che siano statiche o in movimento, del loro piano prospettico naturale creando una sorta di distorsione. Lei riesce a trasformare il reale materiale in sogno immateriale, in immagini galleggianti. Il suo intento è di portare il linguaggio di espressione alla sua essenza pura?

È come se in tutto quello che circonda il nostro campo visivo ci fossero mille dettagli. Alcuni distraggono, altri invece riempiono, ma togliendo il più possibile il “rumore visivo” riesco a scoprire dettagli minuscoli che avevano catturato la mia attenzione fin dall’inizio. In fin dei conti la fotografia per me è un modo per focalizzare l'attenzione su una porzione della vista. Si tratta di un processo più di esclusione che di dimostrazione. In alcune opere, come nella serie di fotografie Weiss e Moment, nel video Know you’ll never see me without a light with the lights o nell’installazione Höhe über Meer è frequente il ricorso a tonalità fredde, sono spesso presenti le montagne e la neve, tutti tratti tipici del suo paese natale, la Svizzera. Sembra quasi che il suo “fare arte” la riporti ciclicamente là dove sono le sue origini... Questa è una cosa divertente. Quasi tutte le persone che conoscono il mio lavoro pensano che io sia una scalatrice. In realtà non lo sono per niente. È l’acqua l'elemento che mi attrae maggiormente, sia inteso come sport sia come esperienza. Le montagne, però, mi affascinano per la loro vecchiaia. I loro lenti movimenti nel tempo. Nonostante io sia cresciuta in una città relativamente lontana dalle montagne, loro hanno avuto una decisa influenza sulla mia immagine di “casa” e “sicurezza” data la loro costante presenza in fondo al mio orizzonte. www.esthermathis.com

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per la semplice necessità di dare risalto al “tempo” o alla tridimensionalità all’interno del lavoro. Credo che qualsiasi metodo io usi, espliciti in qualche maniera una mia sensibilità nel mettere a confronto lo spettatore con la mia produzione.

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Artista di origini svizzere Esther Mathis ha esposto i suoi lavori in diverse capitali europee e in importanti musei come il Kunstmuseum di Winterthur e il Bündner Kunstmuseum di Chur.


art story/ di Michele De Luca

Savelli, più bianco di così non si può… Una mostra al MARCA di Catanzaro per ricordare l’artista calabrese , a cura di Alberto Fiz e Luigi Sansone.

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Angelo Savelli, il maestro del bianco. Mostra al MARCA di Catanzaro “Sul foglio bianco di Angelo Savelli, contenuto e forma, struttura e processo si identificano, si verificano, senza separazione alcuna, continuamente, con maieutica dialettica. Una geometria ridottissima gonfia il foglio con ritmi organizzati ma sempre autonomi nel processo generativo che non si pone il problema di rappresentare qualcosa e tende a un assoluto dove tutto quello che è stato e non esiste più”. Così annotava Giuseppe Appella, cogliendo in pieno il nucleo centrale del momento più significativo del suo percorso creativo, in un lontano volumetto delle Edizioni della Cometa (Angelo Savelli. L’opera grafica, 1981), stampato per la mostra allo Studio L’Arco di Roma, che vedeva come curatore insieme a lui Vanni Scheiwiller, in cui ricordava una frase estremamente significativa del maestro calabrese (Pizzo Calabro, 1911 – Castello di Boldeniga, Brescia, 1995) attinta da una sua lettera del 20 febbraio dello stesso anno: “Il bianco che mi avvolge agita la mia immaginazione in una misura che manca di tempo”. A focalizzare l’attenzione su uno dei più significativi protagonisti del dopoguerra, rimasto ingiustamente in ombra per troppo tempo pur avendo rivoluzionato radicalmente il modo di fare pittura con esiti che lo pongono in relazione con Lucio Fontana, Piero Manzoni, ma anche con gli americani Barnett Newman e Ad Reinhardt, provvede meritoriamente una bella mostra (Angelo Savelli, il maestro del bianco, catalogo Silvana Editoriale), allestita al MARCA di Catanzaro a cura di Alberto Fiz e Luigi Sansone. Si tratta della più esauriente retrospettiva dedicata all’artista, a due anni del centenario della sua nascita. Attraverso settanta opere tra dipinti, sculture e ceramiche, viene ripercorso il suo lungo e intenso impegno, che proprio nella sua regione ebbe i primi importanti riconoscimenti, partendo dalle prime esperienze figurative degli anni ’30, influenzate da Renato Guttuso, per giungere sino a Where Am I Going, una delle sue ultime testimonianze risalente al 1993 - 94. Non mancano riferimenti al periodo romano con opere come Au-

toritratto e Capriccio n. 2, entrambe del 1940, rispolverate nel 2006 al Museo Fazzini di Assisi nella mostra Angelo Savelli e Roma, curata dallo stesso Sansone con un intervento critico di Fabrizio D’Amico. Questo iter di oltre sessant’anni comprende alcune delle sue opere maggiormente emblematiche sia nell’ambito dell’espressionismo astratto, sia in relazione al lungo periodo del “bianco” iniziato nel 1957 con Fire Dance, in mostra insieme a una serie di lavori d’impatto monumentale come Grande orizzontale e Speranza, rispettivamente del 1960 e 1961. “La mostra - come ci dice Fiz - è destinata a rappresentare una svolta nell’indagine critica di Savelli, un artista che, nonostante abbia partecipato a cinque edizioni della Biennale di Venezia e sia stato apprezzato dai maestri dell’arte italiana e americana come Lucio Fontana, Piero Dorazio, Barnett Newman e Robert Motherwell, è ben lontano dai riconoscimenti che merita. Questo, probabilmente, è dovuto all’assoluta libertà della sua ricerca, alla sua indipendenza stilistica e al rifiuto di ogni legame di carattere commerciale”. Savelli, infatti, compie la propria rivoluzione trasformando il bianco in un’inesauribile fonte d’ispirazione dove, come scrisse Giulio Carlo Argan, il gesto pittorico ritrova una “prassi di contemplazione” attraverso una rinnovata concezione dello spazio. D’altra parte, è lo stesso Savelli che ci spiega la fatale attrazione verso colore acromatico: “Inizialmente il bianco era legato al soggetto trattato, complementare a questo. In seguito è diventato supporto a se stesso, senza essere legato a null’altro, se non alla propria energia”. Qui sta il significato profondo della sua ricerca che crea un dialogo particolarmente proficuo e stimolante con i Concetti spaziali di Fontana, con i dipinti astratti di Newman o con le tele bendate dell’italo-americano Salvatore Scarpitta.

Angelo Savelli, Grande orizzontale, 1960, olio e tecnica mista su tela, 155 x 130 cm. Collezione privata

Angelo Savelli, Shelter 12th Floor, 1961, tecnica mista su tela. Collezione Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma

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Angelo Savelli, Hiroshima, 1984, acrilico su tela applicata su velo di nylon, 88 x 78 cm. Collezione privata


events #01/ di Lucia Evangelisti

re-think/ di Giacomo Maria Prati

I Libri Bianchi alla scoperta dell’apocalisse Lorenzo Perrone racconta la sua visione del mondo attraverso il candore dell’oggetto.

dimensione semantica a quella simbolica, e questa riconfigurazione viene spesso affidata alla composizione tra il libro e oggetti apparentemente estranei. Per i miei pezzi uso libri veri, colla, gesso e vernice acrilica. Con essi cerco di plasmare il volume del libro, aperto e traslato verso un accentuato simbolismo in cui le suggestioni tattili e sensoriali si amplificano, come le associazioni tra segni e immaginari differenti. Così è stato per la mostra Apokalips che ha permesso ai miei Libri Bianchi di confrontarsi con il grande mistero dell'Apocalisse. Il “Bianco” nel suo processo creativo è un territorio di libertà in quanto “non colore”, oppure corrisponde ad altre istanze? Il “Bianco” è la somma di tutti i colori, di tante emozioni e la nostra percezione del colore è influenzata dal background culturale e dalla storia personale. Qui potrei fare una lista dei miei incontri col bianco, quelli più emozionanti e significativi della mia vita: il ricordo delle mani di mio padre pasticcere che lavorava con la farina, la prima tela bianca da dipingere alla Scuola del Castello, i lavori di Piero Manzoni e Castellani, i teschi di mucca di Giorgia O’Keefe, i lavori di George Segal e la Soft Machine di Oldenburg al MoMA, i Dervisci Rotanti... oppure sarà solo perché mi hanno sempre detto che quell’8 febbraio quando sono nato, a Milano nevicava forte.

Interessante mettere a confronto due artisti contemporanei, molto lontani nello spazio e nella scelta della figurazione, su ciò che ispira entrambi: l’ambiente che va deteriorandosi. L’uno, Andrea Marini, fiorentino, scultore, l'altro, Akiyoshi Ito, fotografo subaqueo. Paziente manipolatore di materiali semplici, quali plexiglas, alluminio, vetroresina, alla ricerca di luminescenze innaturali in bianco e grigio il primo, esecutore di ardite foto dai colori strabilianti il secondo. Ma quello che più separa le due ricerche è il messaggio. Per Andrea un monito ai limiti della minaccia (il titolo della mostra è Mimesi. Museo di storia innaturale) a fermare il degrado ambientale che può partorire una vita trasformata, per Ito uno struggente appello a riportare nei luoghi della nostra vita quotidiana la bellezza che si è rifugiata, per colpa dell'agire umano, nei recessi del mare.

Lorenzo Perrone è nato a Milano, dove frequenta la Scuola del Libro dell’Umanitaria e di pittura del Castello Sforzesco. Dopo varie esperienze creative a Milano, Parigi e Londra si trasferisce a New York, dove lavora per dieci anni. Quando torna in Italia, inizia a dipingere, progetta libri, scrive storie per il cinema, gira video, suona la fisarmonica. Dal 2000 lavora ai Libri Bianchi alla ricerca della “forma universale del libro”. Quello dei Libri Bianchi è uno dei suoi percorsi artistici e linguistici più suggestivi. Ci racconti come nasce questa idea e questa relazione fra l’archetipo del Libro e la dimensione del “bianco”. La mia formazione è stata quella della Scuola del Libro di Milano presso la Società Umanitaria, una delle più importanti istituzioni di Milano. Ente morale, assolutamente laico di matrice socialista, luogo prestigioso di tradizione e lavoro nel campo della grafica, dell’editoria e della tipografia, la cui eccellenza è frutto dell’insegnamento di artisti come Albe Steiner, Luigi Veronesi, Bruno Munari, Enzo Mari, e di critici storici come Mario De Micheli. É lì che si è consolidata la mia passione per i libri. Credo nel potere della parola scritta, che resta il modo migliore per stimolare l’immaginazione e la coscienza arrivando alla conoscenza, ma non sono uno scrittore. Sono solo un artista, le mie parole sono scritte col colore bianco, il bianco che costringe all’attenzione, alla riflessione, porta ai tempi lunghi, attutisce i rumori e i colori, lima le bave dei sensi. Le sue opere “bianche” spesso sembrano esprimere un gusto simbolico dello spazio e della geometria. Mi riferisco ad esempio alle opere che ha esposto in giugno alla mostra Apokalips al Palazzo Pirelli di Milano. Mi sembravano veramente “apocalittiche”, anche in senso plastico e numerologico... Istinto o anche regia e programmazione? Ai miei libri assegno ruoli sempre diversi che mettono in scena i miei pensieri e le mie emozioni del momento. Da questa relazione intima, sussurrata e misteriosa con loro, emerge la mia visione del mondo. Qualsiasi tema scelto o propostomi che attira il mio interesse, per me diventa uno spunto per un confronto con me stesso, per riflettere, per studiare e per metabolizzare dei pensieri; in me si opera uno spostamento della percezione dalla

Esposizione Mimesi. Museo di storia naturale di Andrea Marini presso la galleria DIE MAUER arte contemporanea, Firenze Ito realizza le sue foto, immergendosi a 8-10 metri, unicamente in luce solare, senza successivi interventi al computer. Lo scultore Marini è proteso, nel lavoro di anni, ad animare forme improbabili ma definite. Alcune rimangono crescite anomale, inquietanti, ma altre vivono, invece, di vita propria, come il mega millepiedi, in mostra, proiettato per dimensione e rigidezza a un livello animale che di artropode non ha più nulla. Un invito a visitare questa mostra perché, a ragione, l’artista sostiene che, a dar vita alle sue creature, sono le persone che le guardano.

www.libribianchi.info

www.andreamarini.it www.mnaf.it

dall’alto: Lorenzo Perrone - Come un funambolo, 2012, tecnica mista (libro vero, gres, vernice acrilica), 37 x 26 x 16 cm - Il vento è cambiato, 2012, tecnica mista (libro vero, gres, vernice acrilica), 54 x 28 x 30 cm

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Andrea Marini e AKIYOSHI ITO

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obiettivi/ di Nicola Bustreo

Who, What, When, Where, Why

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“Da sempre sono stato un osservatore. Ovunque. Dalla finestra di casa, dall’auto, dal treno. Ciò che vedevo l’ho sempre percepito come inquadrato e mutevole nelle forme, nelle luci e nei colori”. Così inizia a raccontarsi Cristiano Conte, fotografo bellunese, nato nel 1969, che ha fatto della sua passione una professione.

da sinistra: Cristiano Corte - Parigi, Collezione Personal - Architecture: Modern - Collezione Personal - Landscape & Skies - Auditorium Parco della Musica di Roma - Renzo Piano, Collezione Personal - Architecture: Modern - Collezione Personal - Architecture: Modern

L’incontro con la fotografia non è un incontro caratterizzato da una infatuazione romantica, ma spesso è il risultato di un mix tra diversi elementi. Per lei la fotografia può essere caratterizzata da un assembramento di competenze? Mi sono accorto della fotografia quando ormai era cosa manifesta in me. Ho iniziato a “occuparmi” di fotografia dopo trent’anni di relazione con le mie fedeli fotocamere, e per tutta l’adolescenza è stato un percorso assolutamente da autodidatta senza aver mai preso spunto da alcun fotografo. Piuttosto mi sono fatto influenzare da pittori moderni e contemporanei come Emilio Scanavino per la tipologia di costruzione dell’immagine, spesso coraggiosa nelle asimmetrie e nelle proporzioni vuoto/ pieno. E poi il Gruppo N dell’arte cinetica programmata padovana che mi ha influenzato in quegli scatti fotografici di estremo rigore geometrico, per finire poi alla realtà completamente sfocata che ciclicamente caratterizza i miei lavori sebbene per brevi periodi... Atmosfere pure generate comunque da qualcosa di realmente fotografato, ma non riconoscibile, impalpabile. Forse qui Rothko ha avuto la sua bella influenza su di me. Fotografare uno spazio. Che tipo di esperienza è? Amando la matematica, i numeri in generale, le armonie geometriche potrei dire che il mio ragionamento è assolutamente cartesiano. Nel fotografare gli spazi artificialmente costruiti dell’architettura e dei paesaggi urbani pongo l’attenzione prioritaria all’equilibrio degli elementi geometrici intesi come forme decontestualizzate dalla scena.

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Parto da un suo lavoro che una persona comune potrebbe definire “forte”. Mi riferisco a Cerebros. Costruire un concept e fotografare uno spazio di un edificio sono due modalità di pensare l’atto fotografico diametralmente opposto, oppure si possono trovare alcuni punti di contatto? Se si tratta di lavori commissionati, in effetti, gli approcci possono differire parecchio anche perché devo lavorare con degli “ingredienti” imposti dal cliente, che spesso sono assai diversi se si tratta di comunicazione concettuale piuttosto che di documentazione. Nei lavori di ricerca personale, invece, anche l’impostazione di un progetto fotografico architettonico viene pensato e costruito con le stesse modalità con cui realizzo i lavori astratti o concettuali. Nella libertà dei lavori di ricerca manifesto al massimo la mia maniacale ossessione per gli aspetti geometrici e formali dell’immagine. Cerco di ottenere pulizia e rigore assoluti, percependo anche l’eventuale presenza umana come un elemento anonimo, dotato solo di forma e di volume nello spazio. Oltre alla fotografia professionale c’è altro? Prima di tutto c’è la fotografia di ricerca, quella mia personale, che il più delle volte realizzo, osservo ed elimino io stesso senza sottoporla ad alcuno. E poi la fotografia è anche la materia che insegno e questo mi dà grandissime soddisfazioni. Inizialmente tenevo corsi privati per gruppi di giovani studenti che volevano approfondire per conto proprio, al di fuori degli studi accademici. Da qualche anno invece insegno fotografia nei corsi triennali di Interior e di Media Design presso l’Istituto Europeo di Design, nella sede di Venezia.

Come è approdato a questo tipo di realtà? Era una sua aspirazione o è accaduto un po’ per caso? Un po’ di fortuna ci vuole sempre, ma il carburante per muoverti e farti approdare a qualche realtà consona alle tue aspettative è assolutamente l’amore e l’incondizionato desiderio dentro di te verso qualcosa di ben preciso e definito. La vera passione deve essere così dentro la persona da esserne una ragione di vita. E se è vera passione, questa saprà guidare lungo la giusta direzione. Grazie all’insegnamento, oltre a dare, riceve anche lei qualcosa? Insegnare per me è un dare e ricevere piuttosto bilanciato. La valutazione dell’apprendimento e della capacità degli studenti è anche lo stimolo migliore per indurmi a osservare e valutare i miei lavori passati, anche recenti, spesso rimettendone in discussione la buona riuscita di cui ero convinto. Credo che rimettersi sempre in discussione e criticare fortemente i propri lavori, evidenziandone i punti deboli, sia il miglior modo per dimostrare a se stessi che si sta ancora imparando.

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short story/ di Greta Marinetti

Blake. L’artista, il poeta, il profeta L’artista che infrange le regole neoclassiche, il poeta liberatore dell’immaginazione, incompreso da Coleridge, ma apprezzato da Wordsworth, fu predecessore di un’intera generazione, quella guidata dal Re Lucertola negli anni ’60; diventando così profeta, che fu in grado di osservare e ispezionare l’oscura società.

Così Blake diviene predecessore di un’intera generazione. Una caratteristica fondamentale dei suoi lavori fu la combinazione dei testi poetici ed illustrazioni sulla medesima pagina, elaborò quindi un nuovo metodo di stampa, che egli stesso definì “illuminated printing” - stampa miniata, che rese possibile l’operazione. Il testo veniva inscritto su di una lastra di rame con pennini intinti in una vernice o bitume resistente all’acido nitrico. La vernice, nei tratti in cui il mordente faceva presa sulla lastra, scavava il solco che poi riceveva l’inchiostro per la tiratura. Inoltre si poteva ricoprire questo primo strato con altra vernice, lasciando a nudo solo i tratti che si intendevano approfondire, e si apportavano le modifiche volute. In questo modo venivano realizzate le illustrazioni vicine alle parole. Quindi la lastra veniva immersa

nell’acido per eliminare il rame in eccesso. Le pagine in questo modo stampate, venivano colorate a mano con acquarelli e unite a creare un unico volume. Egli utilizzò questa tecnica per la realizzazione di una delle sue opere più famose: “Songs of Innocence and Songs of Experience”. Una raccolta di canzoni, dedite alla giovinezza e all’immaginazione le prime, e all’età adulta e all’esperienza le seconde. Il poeta e illustratore consigliò però di leggere le due raccolte una dopo l’altra in modo che si commentassero a vicenda, riuscendo così anche ad ironizzare sulla sprezzata società del tempo.

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La sua esperienza come artigiano, il suo essere visionario e radicale contribuirono allo sviluppo della sua poesia pre-romantica. Blake rifiutò lo stile e i temi della letteratura e dell’arte neoclassica, invece sottolineò l’importanza dell’immaginazione sopra la ragione: credeva che le idee non provenissero dell’osservazione della natura, ma dall’interno di se stessi. L’immaginazione, la “Visione Divina”, secondo Blake è ingenita unicamente in Dio, nei bambini e nel poeta, che si eleva fino a diventare profeta, in grado di osservare e ispezionare la realtà. Egli ha sicuramente svolto un ruolo cruciale per lo sviluppo del moderno concetto di immaginazione nel mondo occidentale. Anche nella letteratura e nella musica del ventesimo secolo si sente l’influenza del poeta. Un esempio è la complessa figura di Jim Morrison, che scelse il nome del gruppo “The Doors” da una citazione di William Blake, riportata da Aldous Huxley ne Le porte della percezione (The Doors of Perception) del 1954: “If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it truly is, infinite.” “Se le porte della percezione fossero spalancate, ogni cosa apparirebbe all’uomo come realmente è, infinita.”

William Blake nacque a Londra nel 1757. Nacque povero e morì tale. Raramente lasciò la capitale britannica, ma questo non lo trattenne dal divenire un personaggio enigmatico e visionario. All’età di dieci anni, per volere del padre, frequentò una scuola di disegno, dove ebbe i primi approcci con l’arte, dove conobbe i lavori di Raffaello e Michelangelo. Da quest’ultimo si lasciò influenzare particolarmente, basti notare la muscolatura particolarmente accentuata nelle sue illustrazioni. Fu grazie alla pratica nello studio di James Basire, incisore, in cui Blake fu tirocinante, che le sue linee acquisirono fluidità e sinuosità. Immediatamente si notò che il pittore, era nettamente in contrasto con l’arte meccanica e materialistica del mondo classico, infatti, si identificò negli ideali di spirito e di arte “viva”. Finito il suo apprendistato, studiò alla Royal Accademy of Art, dove gli artisti erano soliti conformarsi allo standard della rappresentazione realistica, rispettando le prospettive e le proporzioni e producendo quindi lavori che ricadevano in categorie e generi. Blake ruppe queste convenzioni e creò una nuova arte enfatizzante il potere dell’immaginazione, intesa come un senso di percezione, come mezzo per comprendere profondamente il mondo.

dall’alto, in senso orario: William Blake - Infant Joy, Songs of Innocence, 1789 - The Lamb, Songs of Innocence, 1789 - The Tiger, Songs of Experience, 1794 - The Chimney Sweeper, Songs of Experience, 1794

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Incursioni/ di Valentina Majer

Sintesi della forma e del colore: Inventing Abstraction La radicale trasformazione dell’arte con la nascita dell’astrattismo nel primo Novecento.

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Vasily Kandinsky, Grosse Auferstehung (Grande Resurrezione) from Klänge (dai Suoni), 1912-1913, Incisione su legno da un libro illustrato con 56 xilografie, pagina: 28,1 x 27,7 cm Casa Editrice: R. Piper & Co., Monaco. Edizione: 300. Courtesy of The Museum of Modern Art. Collezione The Louis E. Stern Collection Inventing Abstraction fino al 15 aprile al MoMA, descrive la nascita del movimento astrattista ripercorrendo le novità espressive nelle opere di 400 artisti del primo ventennio del Novecento, periodo caratterizzato da numerose trasformazioni nella società, nell’industria, grazie anche allo sviluppo del cinema e della fotografia. Le sperimentazioni in ambito musicale, cinematografico e nelle arti visive ebbero come comune elemento la ricerca della “sintesi”, il tentativo cioè di trovare nelle cose l’essenza, abbandonando la loro apparente e menzognera descrizione visiva. Le avanguardie di inizio secolo, sfociate poi in Italia nel movimento futurista, misero in discussione l’obiettività del quadro, il suo non avere senso come mera riproduzione di qualcosa di reale. Uno degli artisti cardine del movimento astrattista, per la radicalità del suo pensiero, è il russo Kazimir Malevič (1878-1935) con un’opera simbolo della cancellazione di qualunque descrizione naturalistica nell’arte visiva: Quadrato nero del 1915, poi seguito da Quadrato bianco su fondo bianco. Esposto per la prima volta in un angolo della sala della mostra futurista alla “0,10” nella galleria privata Dobycina di San Pietroburgo, in alto, come un' icona, affinché irradiasse di luce teologica la stanza, il Quadrato nero su sfondo bianco fu un avvenimento creativo così importante per Malevič che per una settimana non riuscì a bere, a mangiare, dormire. Esso segnava l’inizio dell’arte come espressione pura, come dimensione spirituale, un processo di trasformazione interiore che fondava le sue basi sulle forme geometriche, il colore, la luce e il movimento. “L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene col Suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione” - sosteneva Kazimir Malevič. Malevič era alla ricerca di una nuova immagine del mondo e il Suprematismo diventava lo strumento più adatto per “il rinnovamento della vita”. Il suo interesse non si rivolgeva più esclusivamente alla pittura, ma anche verso l’architettura e le arti applicate, aspetto rilevante di tutto l’Astrattismo. Il risultato sono gli Achitekton, elementi modulari per una futura architettura dello spazio, “il Suprematismo architettonico”, e le tazze e teiere in porcellana bianca decorate con la geometria espressiva del Suprematismo. Le radicali trasformazioni che portarono l’Astrattismo nell’arte furono profondamente influenzate dalla rivoluzione industriale, dall’aumento della velocità, da una percezione, verso l’infinito, dello spazio. L’arte poi cominciò a diventare un mezzo per migliorare la società, la vita dell’uomo, come nel programma di arti applicate del Bauhaus voluto da Gropius. L’ungherese László Moholy-Nagy che vi fece parte, fu

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segnato nel suo paese dalle terribili esperienze della guerra e si avvicinò inizialmente al linguaggio di Malevič, diventando poi un precursore della cosiddetta “optical art”, degli anni cinquanta, per la sua predilezione per la luce e le sue sperimentazioni dedicate alle possibilità di moto dell’oggetto artistico. Interessante è la realizzazione delle sue opere dipinte su “lastrine di plastica trasparenti”: queste venivano successivamente montate, lasciando uno spazio di qualche centimetro su pannelli colorati di bianco. La visione di questi “modulatori luminosi”, proprio in funzione della particolare tecnica di montaggio, variava in relazione all’angolazione e alla forza della fonte luminosa di riferimento. Intorno alla rivista De Stijl fondata da Theo Van Doesburg nel 1917 collaborarono numerose personalità, tra cui Piet Mondrian e l’architetto e teorico olandese Georges Vantongerloo che formularono le teorie del Neoplasticismo, secondo cui l’aspetto estetico dell’arte è nell’atto stesso di costruire attraverso la combinazione di forme basilari o moduli, quali linee verticali e orizzontali oppure colori primari. Queste teorie estreme furono applicate in maniera rigorosa da Vantongerloo nella creazione di forme architettoniche basate sull’intersecarsi di piani bianchi ortogonalmente, senza linee curve, ma proponendo degli edifici per lo più costituiti da un insieme di rettangoli. www.moma.org

László Moholy-Nagy, Nickelplastik, 1921, saldatura di ferro e nichel, 35,9 x 17,5 x 23,8 cm circa, particolare

Georges Vantongerloo, Construction des rapports de volume émanant du carré inscrit et le carré circonscrit d’un cercle (Costruzione dirapporti volumetrici derivanti dal quadrato inscritto e la piazza delimitata da un cerchio), 1924, cemento e vernice, 30 x 25,5 x 25 cm circa , particolare

George Barford & Laszlo Moholy-Nagy, Senza titolo, 1939, fotogramma alla gelatina d`argento, 12,7 x 17,78 cm circa, particolare


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Milano Modigliani Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter. fino al 8 settembre 2013 Palazzo Reale piazza del Duomo, 12 T. +39 02.54918 info@arthemisia.it www.mostramodigliani.it

Chicago (U.S.A.) Amalia Pica dal 27 aprile all’ 11 agosto 2013 Museum of Contemporary Art Chicago 220 East Chicago Avenue T. +312 397.4034 steven.mercier@wolfgangpuck.com www.mcachicago.org

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Martigny (CH) SAM SZAFRAN 50 anni di pittura fino al 16 giugno 2013 Fondation Pierre Gianadda rue du Forum, 59 T. +41 027.7223978 info@gianadda.ch www.gianadda.ch

5 Paris (F) Laure Albin Guillot (1879-–1962) l’enjeu classique fino al 12 maggio 2013 Galleria Nazionale del Jeu de Paume 1 place de la Concorde T. +33 01.47031250 info@jeudepaume.org www.jeudepaume.org

Osimo (AN) Da Rubens a Maratta nell’ambito del progetto “Il Barocco nelle Marche. Osimo e la Marca di Ancona”. dal 29 giugno al 15 dicembre 2013 Palazzo Campana piazza Dante, 4 T. +39 071.714822 l.r.comunicazione@libero.it www.mostrabarocco.it

put on the agenda -events planner-

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Roma Louise Nevelson dal 16 aprile al 21 luglio 2013 Museo Fondazione Roma Palazzo Sciarra via Marco Minghetti, 22 T. + 39 06.697645599 info@fondazioneromamuseo.it www.fondazioneromamuseo.it

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Gorizia ReCLAME Manifesti e bozzetti del primo ‘'900 dal Fondo Passero Chiesa fino al 23 settembre 2013 Sala espositiva della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia via Giosue' Carducci, 2 T. +39 0481.537111 info@atemporarystudio.com www.fondazionecarigo.it

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Mamiano di Traversetolo (PR) Un enigma tra De Chirico, Magritte, Ernst, Man Ray fino al 30 giugno 2013 Fondazione Magnani Rocca via Fondazione Magnani Rocca, 4 T. +39 0521.848327 / 848148 info@magnanirocca.it www.magnanirocca.it

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Venezia Il palazzo Enciclopedico 55. Esposizione Internazionale d’'Arte dal 1 giugno al 24 novembre 2013 Giardini, Arsenale e sedi varie T. +39 041.5218711 info@labiennale.org www.labiennale.org


portfolio dell'arte/ a cura di Christina Magnanelli Weitensfelder/ testo critico di Alberto Zanchetta


ANDREA MORUCCHIO Andrea Morucchio predilige i formati orizzontali (tipici dello slargo paesaggistico) sottoposti ai giochi d’ombra che attraversano l’immagine in diagonale. Scorporando il campo visivo dal contesto, e dall’agglomerato urbano, l’artista sorvola sul degrado dei fabbricati per concentrarsi sull’esprit de géometrie, raggiungendo quel puro figurare – per estrazione e isolamento – che tende alla metodologia del particolare. Attraverso la sagacia del colpo d’occhio, l’artista pare disciplinare l’immagine fotomeccanica secondo una ri-progettazione e ri-significazione del territorio. Alla vocazione architettonica si affianca anche un’evocazione più naturalistica, in cui la plumbea consistenza del cemento si dissolve nei cerulei orizzonti dell’acqua o dell’aria. Quello di Morucchio è un minimalismo tutt’altro che algido, proprio perché intimo, ricettivo, sensibile, destinato a colloquiare in privato con lo spettatore. Le sue opere sono istantanee sospese nel tempo, fotografie che ci permettono di vedere il mondo con occhi nuovi, come fosse la prima volta: improvvisamente tutte le cose ritrovano la loro primigenia aurea di incanto, di stupore. www.morucchio.com








lo sapevate che/ di Luca Magnanelli Weitensfelder

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Bianco e nero: il gioco degli opposti La prima cosa che associo alla parola ”bianco“ è il gioco degli scacchi. Chissà perché. Non sono solito giocarvi, anzi. Poi, a seguire, mi vengono in mente tante altre cose caratterizzate da questo colore, dal foglio di carta alla neve, il latte, il vestito da sposa, l’uovo, le nuvole, un’automobile e così via. Per non parlare delle espressioni che usiamo di continuo: ”notte in bianco“ o ”sono andato in bianco“. Per non parlare del bianconiglio di Alice, Saruman il bianco, il teschio dei pirati, la colomba della pace. Una piccola nota scientifica: un oggetto ci appare bianco perché riflette tutte le frequenze delle radiazioni elettromagnetiche visibili dall’occhio umano. Il bianco, più che un colore, è dunque l’insieme di tutti gli altri. Quando vediamo in cielo

l’arcobaleno, stiamo, in effetti, vedendo la luce bianca del sole che, rifrangendosi a causa del vapore acqueo, si divide nelle diverse lunghezze d'onda visibili. Per lo stesso motivo, come ben sanno i sub, mano a mano che ci s’immerge in acqua e si scende di profondità, i colori spariscono uno a uno. Prima il rosso, quello con la frequenza più bassa e la lunghezza d’onda maggiore, poi l’arancione, il giallo, il verde, il blu e il viola. Se il bianco rappresenta la luce, l’insieme di tutti i colori, il nero è invece l’opposto. Un oggetto nero ci appare tale perché assorbe tutti i colori, cioè la luce. Ecco perché la-

sciare una macchina nera al sole in pieno agosto è assai spiacevole. Bianco e nero sono quindi all’opposto, e non sono semplicemente due colori. Rappresentano la luce e le tenebre, da sempre, fin da quando i primi uomini sono stati costretti a regolare la propria esistenza sull’alternarsi del giorno e della notte. Il fatto che mi venga in mente il gioco degli scacchi mi è sembrato buffo, curioso, ma mi sta venendo il dubbio di essere più intelligente di quello che penso (e penso di esserlo molto!). Scherzi a parte, il nobile gioco ha diverse chiavi di lettura. Intanto, il fatto che il re nero e quello bianco si diano eterna battaglia sulla scacchiera non può non far pensare alla dicotomia giorno-notte, luce-tenebra, bene-male, donna-uomo e così via. Ma è stato interessante, almeno per me, scoprire che il gioco degli scacchi ha origini molto antiche, probabilmente indiane, e forse è collegato ad antiche sapienze Veda. Anche nei luoghi di culto, non di rado, si ritrova l'alternanza tra bianco e nero nei pavimenti, sulle facciate o altri elementi architettonici. Ad ogni modo, il bianco, è per lo più associato a un’idea

di purezza, di verginità (non solo fisica), è associato all’inizio di un cammino. Bianca è la cintura del novizio di arti marziali o del grembiule dell’iniziato massonico. Bianco significa senza macchia, e questo non è uno spot occulto! Ecco perché in molte cerimoniali, soprattutto religiosi, si utilizzano guanti bianchi. Anche per gli antichi romani il bianco era il simbolo della purezza degli intenti, tanto che chi si voleva far eleggere indossava la toga bianca, candida, e si presentava agli altri come candidatus: curioso che oggi i nostri politici si vestano per lo più di scuro. Il bianco è anche il colore della pace, della resa in tempo di guerra, un simbolo internazionale di non belligeranza. In molte culture rappresenta anche la morte. Quando stiamo male il nostro viso mostra un intenso pallore. Bianche ci appaiono anche le ossa dei defunti. Bianco è il colore del giovane corpo femminile, ma anche del corpo morente. Non è una contraddizione, semplicemente si può associare al passaggio dalla vita alla morte e viceversa: Gesù riappare ai suoi discepoli, dopo la Resurrezione, avvolto da vesti bianche e da una intensa luce. In tutte le culture, da Est a Ovest, e da Nord a Sud,

da destra, in senso orario: - Anguisolla Sofonisba, Gioco degli scacchi, sec. XVI-XVII, olio su tela, 79,5 x 119,5 cm - Anonimo, Paris Bordon, I Giocatori di scacchi, fotografia, 18,3 x 23,9 cm, Berlino, Musei di Stato - Mosaico situato nella Basilica di San Savino, Piacenza

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e in tutti i tempi, il bianco ha dunque assunto un’importante valenza spirituale e simbolica, e quasi sempre insieme al suo alter ego, il nero. Chissà se la prossima volta che giocherete a scacchi, o a dama, sceglierete i pezzi bianchi o quelli neri. E perché?


pellicole/ di Marco Apolloni

viaggio in italia/ Testo raccolto da Chiara Vecchio Nepita

Shame (dramm., 2011, 7 e mezzo)

dall’alto: Scene tratte dal film Shame, 2011, diretto da Steve McQueen. Il film è stato presentato in concorso alla 68ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.

(Annalisa Vandelli) corpo è anche al centro della poetica visionaria del britannico McQueen, già regista di Hunger (2008), film che ha fatto molto discutere sull’attivista nord-irlandese Bobby Sands. Le tinte sono fosche, le atmosfere cupe e restituiscono bene l’impressione di una metropoli claustrofobica, teatro delle inquietudini dell’uomo moderno. Fassbender incarna l’icona del maschio di oggi, fragile, insicuro e bisognoso di calore umano. Nel vedere Shame rivengono in mente le parole del sociologo Bauman sui rapporti tra le persone che si sono liquefatti. Viviamo in una società che è ”alla frutta“ per quel che concerne i sentimenti. Tanto da far ritornare in voga l’espressione hegeliana secondo la quale cuore e sentimento sarebbero una brodaglia romantica che ammorba i normali rapporti umani. Peccato che la normalità di oggi sia diventata la pornografia, che ci fa finire tutti ”in bianco“ perché annichilisce il più potente organo sessuale: l’immaginazione. Quando tutto è già visto, niente può più eccitare. E allora non ci rimane che assistere ammutoliti alle solipsistiche scene di auto-erotismo di Shame, che sono l’inquietante cifra poetica dei nostri tempi... in fondo, siamo tutti un po’ dei Brandon incompresi...

Tratto da Magnitudo Emilia: lo sguardo sulle cose. Luigi Ottani, Annalisa Vandelli; prefazione di Francesco Genitoni. Modena, Artestampa, 2012. Parte del ricavato dalla vendita del volume sarà devoluto ai volontari della Protezione Civile che tuttora sono in aiuto alle popolazioni colpite dal sisma in Emilia. www.magnitudoemilia.it

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ASSENZA ovunque tu sia sei ovunque

Un film crudo, a tratti neo-realista. Il protagonista, Brandon, per tutta la durata della pellicola cercherà un contatto fisico con un’altra persona, donna o uomo per lui non fa molta differenza, finendo puntualmente ”in bianco“. Anche le poche volte che riesce a concludere l’atto, ma in una maniera talmente sofferta e rabbiosa che quasi si sta male per lui. Con le prostitute riesce a venire, ma è tutto così triste e squallido che lui per primo se ne rende conto. Il suo computer in ufficio è pieno zeppo di spazzatura pornografica, e questa non si sa se è la conseguenza o la causa della sua patologia. Un rapporto ambiguo con la sorella è il leitmotiv della storia, e non si toglie niente alla suspense nell’anticipare che alla fine nemmeno con lei riesce ad aprirsi. Lui è un sessuomane ossessivo - compulsivo, ha nel sesso la sua droga, che lo fa star male, ma di cui non può fare a meno. La sua dipendenza è viscerale, nel senso che coinvolge ogni singolo organo del suo corpo nudo e ombroso, che è il vero protagonista della vicenda. Il

a fianco dall’alto: Luigi Ottani - Finale Emilia, ex salumificio Bellentani, 2012, fotografia - Rovereto sulla Secchia, zona rossa, 2012, fotografia

www.shamemovie.com

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wr-ite/ di Luca Magnanelli Weitensfelder

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Post it/ Sten & Lex

Cosa possono fare un romano ed un tarantino classe ’82? Beh, per esempio prendere un po’ di vernice nera, colla e carta, e realizzare monumentali opere grafiche in tutto il mondo. Qualcuno lo chiama ”stencil“, loro hanno battezzato la loro arte ”Hole School“. Hanno iniziato, tra i primi in questo campo, nel 2000, e da allora hanno dato un volto, nel vero senso della parola, a molte facciate di edifici sparsi nel mondo. Chi avesse la fortuna o volesse andarle a vedere di persona, può trovarle nelle città di Londra, Parigi, Barcellona, New York, Roma e Palermo sono solo alcune. www.stenlex.net

dall’alto: Sten & Lex - Open Walls, 2012, Baltimora, U.S.A. - Nuart, 2010, Stavanger, Norvegia - Allestimento della mostra personale alla Magda Danysz Gallery, Parigi (Francia), 2012

globetrotter/ di Maria Stefania Gelsomini

Italia coast to coast 2013 year of Italian Culture in the USA: 180 eventi per celebrare l’Italia. In principio erano Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Giovanni da Verrazzano. Oggi sono Pierpaolo Pasolini, Sandro Chia, Riccardo Muti. In questa sintesi, lunga cinque secoli e più, la storia della presenza italiana in terra americana. Un rapporto ininterrotto di solida amicizia che quest’anno si rafforza con la proclamazione del 2013 Anno della Cultura Italiana negli USA. Il calendario degli eventi è ricchissimo, a testimonianza di un legame culturale, politico, economico e sociale che nasce, sì, dalle imprese dei navigatori del passato, ma che si intensifica con le frotte di immigranti sbarcati dall’Italia in cerca di fortuna a inizio Novecento, e si esalta con i modelli da esportazione del XXI secolo, i best of scelti per raccontare il nostro Paese oltreoceano. Intanto lo scorso dicembre a Washington, alla presenza dell’ambasciatore d’Italia Claudio Bisogniero e del Ministro degli Affari Esteri Giulio Terzi, ha avuto luogo l’inaugurazione ufficiale, con l’esposizione alla National Gallery del David-Apollo di Michelangelo. Questa preziosa occasione di propaganda del made in Italy però non sembra suscitare qui, in madrepatria, l’entusiasmo che ci si aspetterebbe. Non sarà forse che viene percepita come l’ennesima vetrina riassuntiva, un po’ pittoresca e stereotipata, anche un

po’ polverosa, del pluriosannato genius italicus? È innegabile che nell’ansia di esporre il Bel paese in bella mostra, nel capiente calderone ci siano finite le ”solite (seppur sacrosante) bandiere“: archeologia, arte, pittura, scultura, Rinascimento, letteratura, poesia, teatro, musica. Nessun mandolino grazie a Dio, ma ancora versi, note e tele, ancora Dante e Leopardi, Caravaggio, Rosso Fiorentino e Paolo Veronese, il Bruto Capitolino, l’Efebo di Mozia e Pompei, Piero Della Francesca, Bernini e Michelangelo. Un posto d’onore spetta a Verdi, stra-celebrato nel suo bicentenario con Messe da Requiem, Rigoletti, Trovatori, Aide, Otelli, ma risuoneranno anche le note di Puccini, Rossini, Cimarosa, Respighi, Scarlatti. E vi pare poco? Per evitare di cadere nel tranello dell’amarcord e nell’apoteosi trita e ritrita delle eccellenze d’un glorioso e a quanto pare inarrivabile passato, era indispensabile promuovere in America anche il nostro presente e il nostro futuro. Tant’è che il programma del 2013 Year of Italian Culture in the United States è suddiviso nelle tre macro aree: ricerca, scoperta e innovazione e in nove categorie: Scienza e tecnologia, Arte, Musica e teatro, Cinema e fotografia, Lingua e letteratura italiana, Brand e design italiani, Gusti e sapori d’Italia, Territori italiani, Prossima generazione. Se poi i contenuti e i suoi protagonisti siano capaci di rispecchiare l’essenza dell’Italia contemporanea e di esprimerne la sintesi ideale resta un gran bel tema di discussione. Oltre

dall’alto, in senso orario: - Il logo tricolore proiettato sulla facciata dell’Ambasciata d’Italia a Washington DC in occasione del lancio di ”2013 Anno della Cultura Italiana negli USA“ - National Gallery di Washington, 12 dicembre 2012: l’esposizione del DavidApollo di Michelangelo inaugura il ”2013 Year of Italian Culture in the United States“ Photo credit: Ambasciata d’Italia a Washington

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ai già citati Pasolini, Chia e Muti, spazio a Giorgio De Chirico, al Pinocchio teatrale di Massimiliano Finazzer Flory, a Eduardo De Filippo del Piccolo Teatro di Milano diretto da Tony Servillo, ai concerti di Maurizio Pollini, al jazz di Bollani Rava e Fresu, a Pino Daniele, a Mauro Pagani e l’Ensemble La notte della Taranta. Fioccano gli Italian Film Festival ad Atlanta, Cleveland, Cambridge e Miami, come pure i convegni sulla lingua, la poesia e la letteratura italiana, da Boccaccio a Machiavelli, da Italo Calvino a Primo Levi, e le mostre: quelle fotografiche su L’Aquila, su Hemingway in Veneto, sui siti patrimonio dell’Unesco, e quella su Luciano Pavarotti. Riflettori puntati infine sul design e su brand dal fascino intramontabile come Poltrona Frau (che festeggia il centenario), sulle creazioni di Gio Ponti, sulla cantieristica di lusso e sulla moda del Politecnico di Milano. Un anno, 180 eventi, 40 città dalle più grandi ai centri di provincia, 70 fra le più prestigiose istituzioni USA coinvolte. Questi i numeri dell’America che accoglie l’Italia nel 2013. www.italyinus2013.org


nice philosophy/ di Alessandro Di Caro

rappresentazione. Viceversa nell’uso linguistico, questo è proprio il punto che non è consentito trovare. Perché relativismo, interpretazione, prospettivismo dicono che appunto non c'è una prospettiva privilegiata e questo offre problemi alla comprensione. C'è una sintesi? Sembra proprio di no. Se la confrontiamo alla pittura, ci accorgiamo che, al massimo, le molte prospettive diventano assenza di prospettiva, come ad esempio nei quadri cubisti o in quelli volutamente a-prospettici di Mauris Cornelis Escher. Ma è proprio questo che dice l’uso linguistico? Se tutto è relativo e ogni interpretazione è valida, significa che non c’è alcuna interpretazione e alcuna conoscenza? Questa sarebbe la sintesi? Ne dubitiamo. Il relativista si presenta con i caratte-

Non voglio parlare della straordinaria invenzione pittorica di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, occorrerebbe una conoscenza scientifica e artistica che io non possiedo. Piuttosto invece dell’uso, che è stato fatto di questa pratica rappresentativa in senso linguistico e filosofico (termini simili sono interpretazione, relativismo, anche prospettivismo). La cosa che mi appare chiara è che la pratica architettonica e pittorica si oppone radicalmente, con il suo significato, all’uso linguistico. La prospettiva in un quadro ci dà esattamente le coordinate dello spettatore; al limite, con un semplice calcolo, sarebbe possibile ritrovare il punto esatto da cui lo spettatore ha potuto forgiare la sua

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Prospettiva interscambiabile.

ri dell’uomo tollerante rispetto al dogmatico, al fanatico, all’assolutista. Ci si è spinti persino a dire che la democrazia deve essere relativista per definizione. Nel senso che accetta o dovrebbe accettare ogni cultura. In che accezione, ci chiediamo? Il relativista deve accettare anche la cultura che sostiene la tesi opposta: esiste una sola verità, un solo dogma, una sola prospettiva culturale? Se rifiuta, questa ipotesi non è anch’essa - a suo modo – dogmatica? Di fronte all’intolleranza dobbiamo essere tolleranti o piuttosto intolleranti? La

dall’alto, in senso orario: - Escher, Incontro. Il pittore ha nella sua poetica l’intento di rappresentare per cosi dire il relativismo - Paolo Uccello, vaso in prospettiva disegnato - La prospettiva ci dà precise indicazioni dell'osservatore - Il disegno rappresenta una giovinetta ma, cambiando il punto di vista, potrebbe rappresentare anche una persona anziana - Il disegno rappresenta un’anatra ma anche una lepre, cambiando il punto di vista - Escher, Relatività. Le scale servono per salire ma, cambiando prospettiva, anche per scendere

difesa della democrazia è democratica o piuttosto non democratica? Contrariamente ai nostri buoni propositi dovremmo dunque sostenere che la nostra visione è migliore perché è più tollerante di altre anche se a un certo punto necessariamente dobbiamo far spuntare la pistola da sotto l'abito gentile del tollerante? Sembra che da questo dilemma non si possa uscire. Eppure la rappresentazione pittorica ci può insegnare qualcosa. Guardando al disegno rappresentante insieme la lepre o l’anatra (disegno assolutamente relativista), non possiamo mai avere una visione generale, una sintesi, anatra-lepre; essa appare concepita così: un disegno mal fatto. Ma se diamo ascolto all’interpretazione ”anatra“ vediamo chiaramente l’anatra e la lepre ”scompare“ dalla vista. E cosi la giovinetta elegante è bellissima; appena facciamo balenare l’interpretazione ”vecchia“ diventa un’orrida strega. Cioè a dire: non possiamo rifiutarci di assumere un punto di vista. Anche se questo punto di vista non è netto, ci sono particolari inutili o disturbanti che sono la spia che cambiando prospettiva troveremo un’altra rappresentazione. E questo valga anche per le culture: abbiamo un punto di vista ma, da certe avvisaglie, sappiamo che esso può cambiare, anche radicalmente. www.alessandrodicaro.it

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Face to face #01/ di Nicola Bustreo

Querini Stampalia e Botta: una storia lunga Botta: il progetto “noglobal” della Querini vent’anni Ultimo intervento dell’architetto ticinese nella fondazione veneziana

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Il punto di vista del direttore della Fondazione sull’intervento di riqualificazione dell'edificio.

Marigusta Lazzari, direttore dalla Fondazione Querini Stampalia Onlus di Venezia racconta la nascita e lo sviluppo del progetto di restauro che è stato affidato all’arch. Mario Botta, dal maggio del 1994. Quali sono stati i momenti di maggior difficoltà e allo stesso tempo di entusiasmo per un intervento così complesso e delicato? L’approccio dell’arch. Botta con la Fondazione Querini Stampalia e le sue nuove esigenze è sempre stato improntato a una grande lucidità e conoscenza. Il suo rapporto di affetto con la struttura risalente agli anni in cui studiò architettura a Venezia e conobbe e frequentò l’allora direttore Giuseppe Mazzariol gli ha permesso di guidare un intervento di riqualificazione durato due decenni senza avere un progetto generale di partenza. Moltissimi gli interventi su cui entusiasmo e difficoltà hanno contribuito a rendere ancora più stimolante la soluzione: la corte coperta, l’auditorium, la scala principale... l’omogeneità delle opere pur realizzate a distanza di tanto tempo e pur collocate in un edificio già così caratterizzato da interventi importanti. Il progetto architettonico splende di una sua particolarità intrinseca poiché a esso convergono varie tipologie di riflessioni prodotte sia dal contesto urbano, sia dalle modalità di confronto tra diverse culture architettoniche, sia da una variegata natura multifunzionale della Fondazione. Il cantiere di Mario Botta crea un nuovo ”ponte culturale/generazionale/sociologico“ con la città, intesa come comunità, di Venezia? Il lavoro di Mario Botta ha sicuramente permesso alla Fondazione di presentarsi alle nuove generazioni ma anche ai nuovi pubblici e alle diverse modalità di fruizione dei servizi

culturali in modo funzionale e innovativo, permettendoci di aggiornare anche il progetto di servizio in relazione alle nuove esigenze. Quale dei nuovi ambienti ha raccolto maggiormente il suo interesse estetico, filosofico e culturale di Botta? Il suo percorso progettuale è stato punteggiato da interruzioni e riprese, legato al reperimento delle risorse necessarie e alle esigenze della struttura che è rimasta sempre in funzione. La sua riflessione e le soluzioni proposte non hanno, però, mai avuto ripensamenti o dubbi. La qualità del suo intervento, oltre che dal punto di vista estetico e funzionale, penso debba essere misurata anche nella sua grande capacità di aver visto il progetto nella sua complessità quando ancora non c'era un insieme. www.querinistampalia.it

Un avamposto di cultura, contemporaneo, la Querini Stampalia di Venezia, dopo 50 anni di interventi, a partire da Scarpa, per arrivare al ticinese Botta, che ci racconta il progetto per la Fondazione. I dettami compositivi lasciati dall’architetto Carlo Scarpa, il suo predecessore nel progetto della Fondazione, hanno influenzato in qualche modo la sua idea progettuale per la sala espositiva sita al primo piano? Il confronto con Carlo Scarpa è un confronto impietoso per l’architetto contemporaneo. Carlo Scarpa, al di là della sua bravura, coinvolgeva e coinvolge ancora oggi un mondo artigianale che sta lentamente scomparendo. Da un lato c’è la straordinaria poetica dei suoi allestimenti e allo stesso tempo di un sapere artigiano che non è più del nostro tempo. Quindi da un lato abbiamo cercato di rispettare il lavoro di Carlo Scarpa stabilendo un accesso all’edificio nuovo per non sovraccaricare il ponte e l’ingresso di Scarpa e soprattutto per preservarne l’integrità.

in alto: - Marigusta Lazzari, direttore dalla Fondazione Querini Stampalia Onlus di Venezia. Photo credit: Nicola Bustreo da destra, in senso orario: - L’architetto Mario Botta. Photo credit: Beat Pfändle - Progetto di Mario Botta, scala. Photo credit: ORCH Chemollo - Progetto di Mario Botta, auditorium. Photo credit: ORCH Chemollo

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Face to face #02/ di Nicola Bustreo

notazioni e degli stimoli. Ritengo che sia un progetto che resiste alla globalizzazione e per questo lo definirei no-global, nel senso che ritrova nelle identità della propria storia le ragioni del vivere successivo. Nella società globalizzata come quella attuale la ricerca di un’identità non può che passare attraverso il senso di appartenenza al territorio e per Venezia. Che cosa ne pensa della concezione del restauro in Italia, alla luce proprio del suo intervento che si è confrontato con una struttura antica? Carlo Scarpa diceva: ”L’unico modo per rispettare il passato è quello di essere autenticamente moderni“. Io credo che nel restauro ci sono ancora molti equivoci, dovuti spesso alla cattiva coscienza della nostra società che ha perso molti valori. Ogni restauro porta con se un’idea di trasformazione, variando un modo di esistere del passato in una nuova attualità. Per questo motivo, io penso che sia legittimo che il restauro debba portare delle

Potrebbe spiegare la filosofia con cui ha affrontato la realizzazione del progetto di ristrutturazione della Fondazione Querini Stampalia? Il progetto di ristrutturazione, più che di restauro, della Fondazione Querini Stampalia mi ha fin dall’inizio interessato per il suo carattere alternativo rispetto a un progetto ex novo. Inoltre si è rivelato un modo che permettesse alla città stessa di ritornare a vivere attraverso la sua stessa storia e il suo stesso tessuto edilizio. Mi sembra che questo progetto trovi il suo senso come se l’architetto avesse accudito a un territorio che gli apparteneva e lo avesse curato nella sua quotidianità. Questo è un progetto che doveva cogliere le informazioni di Venezia, la sua stratificazione storica ma soprattutto la discontinuità dei momenti con cui di volta in volta la Querini acquistava prima un catastale e poi un appartamento. Quindi si è presentato come un progetto anomalo perché sin dall’inizio non se ne poteva avene una sintesi complessiva ma era il percorso stesso che dava delle con-

modifiche non solo dei significati funzionali. Per certi aspetti questa protezione tout court è paradossale: il modo di vivere del passato sfruttava lo spazio in maniera diversa, come diversi erano gli elementi che lo modificavano. Tuttavia capisco anche questo atteggiamento di difesa e paura dell’antico dall’”Attila“ del moderno che ha distrutto tantissimo. Un restauro critico, e quindi un restauro non solo conservativo, sia la via obbligata per un rispetto delle preesistenze. La scelta degli interni, ivi compresa la scelta di materiali apparentemente distanti dalla sua tradizione linguistica, come ha interagito con la sua dialettica compositiva? Il progetto della Querini Stampalia è un intervento di ristrutturazione realizzato con degli strumenti molto soft. L’occasione è di presentare in maniera pacata una lettura critica di uno spazio. Il progetto ha cercato di far rivivere gli elementi propri della

dall’alto, in - Progetto di Photo credit: - Progetto di Photo credit:

senso orario: Mario Botta, ingresso. ORCH Chemollo Mario Botta, corte coperta, particolare. ORCH Chemollo

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Allo stesso tempo nella parte nuova abbiamo cercato di dialogare in modo discreto e non competitivo. Questo è stato possibile abbassando i toni dell’intervento, che è quello che io, con Mario Gemin, abbiamo sempre cercato di fare. Ovvero assumere degli atteggiamenti, come i panelli staccati dai muri, già adottati da Carlo Scarpa, con un leitmotiv, ma dando un linguaggio più vicino alla nostra epoca e alla nostra sensibilità. In questo progetto hanno svolto un ruolo importante le maestranze veneziane. Infatti non è stata una progettazione disegnata, ma una ”progettazione di cantiere“, dove le indicazioni degli artigiani e dei costruttori si evidenziano anche nella composizione formale. Lo spazio di Scarpa, l’intervento di Pastor, l’ultimo dell’ingresso e il recupero del campiello, chiamato Corte Mazzariol, è diventato un interno, riproponendo un tessuto connettivo proprio alla città. Un tessuto che, riprendendo il labirinto esterno delle calli e dei campielli,assume un carattere domestico e più utilizzabile ma all’interno di questo insieme che chiamiamo Querini Stampalia.

città di Venezia. Il primo è l’acqua che è una costante non solo nel canale o nel piccolo rigagnolo che segna il giardino di Scarpa ma si trasforma in una costante indiretta. Nella Corte Mazzariol il concetto dell’acqua è stato portato verso il cielo grazie a una copertura con l’effetto di moirè donando allo spazio un andamento differente della luce e proprio della cultura dell’acqua dove il cielo si riflette. Accanto all’acqua c’è la luce come generatrice dello spazio e c’è anche la presenza della gravità. I panelli staccati dai muri per ragioni tecnico-sanitarie, ci dicono che queste mura vanno a finire nelle fondazioni della laguna stessa. La scelta è stata di un linguaggio molto sottile, indiretto, non esplicito che rifiuta una forza espressiva tettonica dell’elemento proprio, ma gli elementi dell’allestimento sono una scenografia architettonica che rimanda alla grande magia di Venezia. www.botta.ch

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archistar/ di Ilaria Sartori

Chissà quante idee per associazione mentale possono tempestare i nostri neuroni e sinapsi se solo ci concentrassimo per un momento su un’unica parola. Cina. Biciclette, parchi, draghi, caos, lanterne, involtini primavera, arti marziali, monaci Shaolin, dǒu lì (il tipico cappello di bambù), bacchette, panda, riso alla cantonese,la Grande Muraglia cinese, etc. Credo che la maggior parte di noi italiani pensi che mentre il tempo scivoli tra gli impegni nelle nostre agende, in Cina si sia fermato agli anni settanta. Ai luoghi comuni. E invece… Il Galaxy Soho è un complesso progettato da uno dei team leader

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Be(ij)ing Future

comprende 18 piani, 3 sotterranei con parcheggi, 5 dedicati a negozi e altri spazi commerciali, e 13 tra uffici, ristoranti e bar nella parte superiore, con vista panoramica della città. Uno dei concetti portati avanti dal team è rappresentato dalle tipiche corti interne cinesi e dalle vaste distese di campi di riso tra le montagne, reinterpretati dai diversi altopiani che collegano le quattro torri facilitando la comunicazione tra i vari uffici. Allo stesso tempo il design parametrico fa propendere tutta la struttura al futuro: le linee sono fluide, continue, sinuose, si integrano reciprocamente, creando un paesaggio urbanistico dinamico. Il complesso vuole essere di facile orientamento, studiati anche i giochi di luce, ombra interni ed esterni. Da non dimenticare che si tratta di architettura sostenibile in cer-

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nell’architettura e design: Zaha Hadid Architects. Questo gruppo conta l’elaborazione di 950 progetti in 44 paesi, con uno staff di 400 persone. Fondato dall’architetto e designer Zaha Hadid, irachena cittadina britannica, oggi è tra le cento donne più influenti al mondo, ha insegnato ad Harvard - occupando la stessa cattedra che fu di Kenzo Tange -, ed è la prima donna che ha ricevuto il Pritzker Prize nel 2004. Uno degli ultimi progetti è proprio la megastruttura Galaxy Soho nel cuore di Pechino. Il complesso è l’insieme di cinque volumi legati da altopiani esterni a vari livelli, si estende in un’area di 50.000 mq e si sviluppa su superficie lorda di 328.204 mq. Ogni torre, costruita in cemento, vetro, pietra e alluminio,

ca di certificazione LEED. A voi l’interesse di scoprire altro su un paese che sta realizzando il proprio futuro dall’alto: urbanistico. Zaha Hadid Architects, Galaxy Soho, 2012, Pechino, Cina. www.galaxysoho.sohochina.com Photo credit: Hufton + Crow


parola d'architetto/ di Rachele Bifolchi

must have #01/ di Marco Pane

dall’alto: - Richard Meier & Partners, W Kanai Retreat, Riviera Maya, Messico Photo credit: Vize.com - Richard Meier & Partners, illustrazione del High Museum of Art, Atlanta, U.S.A. Courtesy of Richard Meier & Partners - Richard Meier Photo credit: Richard Phibbs

- Architettura e Design, aperta al pubblico dal 18 maggio al 28 luglio 2013, presso la galleria della Fondazione Bisazza, a Montecchio (VI). Questa retrospettiva ha un obiettivo ambizioso: presentare in Italia la filosofia del design di Meier nella sua interezza. Attraverso progetti, bozzetti, immagini e fotografie lo spettatore può spaziare dall’ammirazione delle costruzioni di fama internazionale alla scoperta di pezzi minori, come le collezioni per la tavola. Tra i progetti più conosciuti presentati, si annotano la struttura razionalista della Smith House del Connecticut (1965 - 1967), i quattro padiglioni ”cardinali“ del Getty Center di Los Angeles (1984 - 1997), le geometrie neo-corbusiane della Neugebauer Residence in Florida (1995-1998) e le impressionanti tre vele di cemento a faccia –vista della chiesa del Giubileo di Roma (2003). A questa selezione si aggiungono altri progetti di famose realizzazioni quali le Perry Street Towers, l’High Museum of Art ad Atlanta e il Museo Ara Pacis di Roma. Questo primo percorso racconta l’artista attraverso il suo portfolio e ne delinea la storia: influenze, contaminazioni, evoluzione artistica. Il finito. Un’altra sezione della mostra preannuncia il futuro dell’artista attraverso una serie di progetti ideati per la realizzazione di monumentali opere pubbliche come il World Trade Center Memorial, il New York Avery Fisher Hall e la Bibliothèque Nationale in Francia. Opere ”in divenire“ che rendono lo spettatore consapevole e complice del processo creativo. Da ultimo, ma non per importanza, il pezzo clou della mostra: l’istallazione site–specific commissionata dalla Fondazione allo stesso Meier e destinata ad arricchire la già nutrita collezione della permanente. ”Richard Meier è una delle voci più importanti e autorevoli dell’architettura internazionali -dichiarano Piero e Rosella Bisazza, Presidente e Vicepresidente della Fondazione Bisazza. Considerata la vocazione della Fondazione ad inserirsi con contributi originali nel dibattito culturale dell’architettura contemporanea, siamo onorati di accogliere questa retrospettiva completamente inedita e di omaggiare un architetto come Meier“. www.richardmeier.com

Photo courtesy of Maison Martin Margiela

Creata nel 1999, lanciata sul mercato dieci anni più tardi e ampliata nell’estate del 2010, la Linea 13 di Maison Martin Margiela, casa di moda francese distribuita su licenza da Renzo Rosso, patron della Diesel, si conferma come una delle linee di arredamento più interessanti nel panorama dell’interior design internazionale. Un must da non farsi sfuggire per chi del bianco ne ha fatto uno stile di vita irrinunciabile, non solo nell’abbigliamento, ma anche nell’arredamento. Da orologi, a candelabri, e da calendari a matrioske. Venduta in alcune selezionate boutique della Maison, in Italia a Milano, in via della Spiga 46, può essere tranquillamente acquistata online senza doversi nemmeno muovere da casa. Un lusso decisamente accessibile che può rendere la propria abitazione un luogo esclusivo. Gli ”oggetti bianchi“ della Maison Martin Margiela hanno fatto parte anche dell’installazione Mat, Satiné, Brillant esposta in occasione della presentazione della linea, nel 2009, durante il Salone del Mobile di Milano. www.maisonmartinmargiela.com

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Richard Meier compie cinquant’anni. Cinquant’anni di studio, di innovazione, di attività artistica che lo hanno visto fautore di alcune delle opere più importanti dell’architettura contemporanea e che lo hanno incoronato padre del purismo formale moderno. La Fondazione Bisazza, organizzazione privata non profit, in collaborazione con lo studio Meier, ha deciso di festeggiare il grande architetto statunitense con una mostra a lui dedicata, intitolata Richard Meier

Linea 13: Andare in bianco

Alla scoperta di Richard Meier


cultura del fare/ di Benedetta Alessi

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Sotto lo stesso tetto. Il possibilismo dell’architettura contemporanea

La tendenza odierna della progettazione architettonica - urbanistica accentua il possibilismo di situazioni contemporanee, la coesistenza di layers, l’incoraggiamento dei collegamenti. La simultaneità di tempo e luogo pare non ammetta gerarchie di esclusioni. La fede nella permeabilità e trasparenza visiva o di transito fisico -, nella flessibilità delle funzioni multiple e nell'interscambio continuo dentro e fuori l'edificio - bandisce naturalmente il concetto di chiusura e di epilogo. Quasi a prendere le mosse dal processo di creazione dei desire paths - i percorsi determinati dall’uso spontaneo di un’area - l’atteggiamento della pianificazione si pronuncia a favore dell'assimilazione ad ampio raggio, basandosi su traiettorie individuate tramite presupposti statistici o ispirazioni sociali. Gli edifici si adeguano a ciò nella loro scala e nel loro linguaggio, in altre parole nel doppio tentativo di non fungere da cesura opaca in una intensa maglia di relazioni esterne e di inglobare questa filosofia del parallelismo al loro interno. Dai blocchi ottocenteschi compatti e inattraversabili al concetto di margini urbani spugnosi che si interfacciano generosamente con il passante. Dal punto di fuga monumentale di prospettive serrate all’hotspot in un hub all’aperto. La separazione ha acquistato nel contesto odierno un’accezione negativa, quella della barriera; l’esaltazione della convivenza pubblica ha invece determinato la sfiducia nelle recinzioni di significato: la partizione è sgradita. Il talento risiede nell’accompagnare altro, nell’ospitare svariati modi operandi senza restrizioni egoistiche di disciplina. Parallelamente alla comune denuncia di edifici-contenitore polifunzionali, le osservazioni riguardano anche la metodologia progettuale in sé, puntiforme: il paesaggio e gli interni si fondono necessariamente, gli atri diventano piazze urbane, pensiline e pavimentazioni si estendono a raccordo con il mondo esterno.

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Il valore dell’architettura a uso pubblico risiede nell'arrendevolezza alla facilità di arrivo e di partenza, nella predisposizione di spazi non intimidatori e non definitivi. Ciò che rimane ancora da esplorare è appunto la nuova ”nonforma“ che il ricettacolo ospite dovrà adottare per distinguersi dalle ramificazioni che ingloba. Come tradurre in luogo - statico e autonomo- la molteplicità delle direttive centrifughe che sono i collegamenti. Trascrivere in sintesi efficace i motivi stessi del disorientamento. La delimitazione delle competenze veniva generalmente affidata all’involucro che ora invece si assottiglia e si nega: l’interno non è recondito, gli spazi residuali tra i nuclei -ancora necessariamente chiusi- si popolano di destinazioni adattabili ed espansibili. Lo scenario rifugge lo specifico, è diventato onnicomprensivo. La generosità è possibilistica, ma non ancora convincente: tuttora il tetto solo - fisico o concettuale rinsalda le agglomerazioni di livelli e a volte si pone come sintesi dei contenuti, senza aver bisogno di approfondire la natura e la validità dei legami e dei rapporti sottostanti. Tolto valore alle delimitazioni, alle cesure volute, alla scansione opaca degli spazi, la coesione resta affidata al riparo di un elemento comune e prodigo, ma soprattutto neutrale. www.scalearchitects.eu dall’alto: Tropical Islands Dome, Brandenburg (Germania) a 60 km da Berlino. Courtesy of Benedetta Alessi


orizzonti architettonici/ di Alessandro Antonioni

maestro di valore mondiale, ha utilizzato i principi base di tutta l’architettura pur reinventandone il linguaggio. Rifacendosi alla lezione di Le Corbusier e Alvar Aalto determina la concezione spaziale attraverso l’invenzione di un’esile copertura realizzata con sofisticati sistemi di cavi in acciaio e cemento armato per uno sviluppo a forma di tenda concava che, come un foglio sottile, si sviluppa per 60 m di lunghezza, per 50 di larghezza andando così a determinare una piazza coperta con visuale sull’acqua. Il rapporto che Siza sviluppa con il paesaggio è soprattutto in termini di empatia del visitatore in rapporto alla lettura dell’edificio-piazza che appare da lontano come dall’alto: Alvaro Siza, esterno del Padiglione del Portogallo, Lisbona Expo '98. Photo credit: Alessandro Antonioni

ni ambientali e paesaggistiche e di arredo urbano che determinarono una nuova visione di Lisbona come città europea moderna, efficiente, esteticamente complessa e allo stesso tempo a misura d’uomo. Per evitare l’abbandono e il sottoutilizzo delle strutture dopo l’esposizione, a Lisbona si è operato con un attento studio di management urbano e commerciale al fine di cedere poi le strutture a fini commerciali, residenziali e di servizio. Il progetto a posteriori può dirsi perfettamente riuscito tanto che oggi la zona è frequentata sia da turisti attratti da uno dei maggiori oceanografici al mondo, sia da utenti che affollano le sedi di multinazionali dedite ai servizi e alla tecnologia che dai nuovi residenti (oltre 25.000). Un mix di funzioni che nelle grandi città ad alta densità funziona e determina vitalità ur-

bana. L’esposizione universale che dal maggio a settembre 1998 vide la presenza di circa 11 milioni di visitatori ebbe come tema portante l’anniversario di Vasco de Gama che nel 1498 riuscì a raggiungere l’India, determinando un affascinante tema storico unito alla contemporaneità delle tecnologie utilizzate all’interno dei vari padiglioni stranieri e che videro la partecipazione di ben 155 paesi stranieri. Posizionato all’ingresso dell’esposizione universale, il Padiglione portoghese di Alvaro Siza spicca per originalità estetica e concettuale nonché per l’uso estremo tecnologico dei materiali. L’edificio è costituito da due parallelepipedi contrapposti; l’uno un semplice portico, l’altro il padiglione vero e proprio, contenente al piano terra spazi espositivi e a quello superiore ampi ambienti polifunzionali ora adibiti a uffici. L’importanza di questo edificio sta nel fatto che Siza,

una struttura semplice ma che nei dettagli rivela la sua delicata ed energica essenza: la luce. Le masse dei volumi e la ”tenda“ sono evidenziate dalla potente luce del Portogallo che come in un quadro di De Chirico o in un film neorealista italiano sospende il tempo creando uno spazio da contemplare e vivere. Il bianco è il colore prescelto dal maestro portoghese utilizzato nella soletta in cemento armato, nel rivestimento lapideo dei volumi (lios –pietra di Lisbona) e nell’utilizzo dell’intonaco. Siza è come il prosecutore naturale dei maestri del Novecento, dove il bianco diviene simbolo di purezza, di astrazione della forma, di identificazione storica con il passato dove l’architetto è solo una parte del risultato finale che la luce, riflessa nel bianco, crea e determina il suo divenire senza tempo. www.alvarosizavieira.com

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L’esposizione mondiale di Lisbona del 1998 è stata l’ultima del Novecento ed è stata considerata una delle più riuscite in termini di riqualificazione e rigenerazione urbana. L’area della dimensione di oltre 50 ettari si trova nella zona nord-est confinante da un lato con l’estuario del fiume Tago che confluisce poi nell’oceano atlantico e a ovest con l’aeroporto della capitale portoghese. Una zona quindi ex industriale di notevole importanza sia commerciale sia di elevato valore ambientale. Per connettere l’area espositiva con il resto della città furono eseguite numerose infrastrutture quali una nuova linea di metropolitana (Gare de Oriente progettata da Santiago Calatrava), un ponte che unisce le due sponde della città lungo 12 km, all’epoca il più lungo d’Europa, oltre a sistemazio-

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The Portuguese National Pavilion 1998 Lisbon World Exposition.


iperdesign/ di Luigi Farresin

jap report/ di Isabella Dionisio

Lo scorso febbraio alla Stockholm Design Week, il progettista veneziano Luca Nichetto ha presentato la nuova collezione disegnata nel 2012 per Foscarini. Magic Windows è la riproduzione di attimi, spazi, modi di vivere rivelati dall’usanza tipicamente nordica di lasciar trasparire frammenti di luce attraverso finestre prive di tende. In questo modo il designer delinea diverse personalità e quotidianità che si riflettono nelle diverse lampade Foscarini.

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Luca Nichetto. Design made in Venice.

2012. Sempre di Foscarini, Stewie, l’originale lampada da terra disegnata sempre dal designer. Realizzata in polipropilene espanso termoformato, che consente massima libertà nel raggiungere l’ampia forma concava. Rivestita da un particolare tessuto prismatico utilizzato nel mondo sportivo e per gli accessori da viaggio, è disponibile nei colori rosso e avorio. Dalla spiccata ”personalità“. www.lucanicchetto.com

dall’alto: Luca Nichetto - Magic Windows, Intallazione per Foscarini, Stockholm Design Week 2013. - Lampada Stewie, 2012, Foscarini. Photo credit: Massimo Gardone

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Amor Vincit Omnia In un paese come il Giappone, dove leggere fumetti è un’azione naturale come quella di bere un caffé, continuare a indulgere in questo piacere anche da adulti è considerato perfettamente normale. Basta entrare in una qualsiasi libreria per imbattersi in fornitissime sezioni di manga, dove si possono trovare edizioni speciali, settimanali e mensili incentrate sui più disparati argomenti e rivolte a un pubblico di ogni età. Tra i vari prodotti di questo mastodontico e variegato mercato, che corrisponde circa al 38% di tutta la produzione di carta stampata giapponese, il filone dei cosiddetti Boys’ Love rappresenta un fenomeno dall’evoluzione particolare. Come è facile immaginare, questo tipo di fumetti tratta principalmente di relazioni tra protagonisti maschili, che spesso si evolvono in complicati e tormentati triangoli ma, contrariamente a quanto sembrerebbe, il pubblico a cui si rivolgono è prettamente femminile. Nella seconda metà degli anni ’90, ricerche di mercato relative a questo fenomeno hanno messo in evidenza l’esistenza di circa mezzo milione di fan. Nel 1998 si contavano 9 riviste letterarie a tema, 12 uscite di fumetti e 30 edizioni paperback al mese, per un totale di vendite di circa 1.275.000 unità, numeri che hanno visto una crescita esponenziale negli ultimi anni. L’aspetto più interessante del filone dei Boys’ Love sta nella sua spontaneità e nell’essere un prodotto creato dalle donne per le donne. Parallelo all’immenso impero editoriale gestito dalle grandi case editrici esiste, infatti, un mondo più o meno tollerato di artisti amatoriali e fan che utilizzano i loro personaggi preferiti per produrre e stampare riviste autogestite. I Boys’ Love ne sono un esempio. I protagonisti di questo filone raccontano le vicende di personaggi di manga diversi i cui destini si incrociano nelle situazioni più impensabili: passioni fortissime, ragazzini androgi-

immagini: Illustrazioni manga giapponesi, in alto ed in basso, Boys'Love ni e ambientazioni surreali il cui fil rouge rimane quello dell’evasione dalla realtà. Visto il successo di pubblico, le case editrici più lungimiranti hanno subito pensato di commercializzare queste opere, con un ritorno di profitto che continua ad aumentare con il passare degli anni. Il fatto che i contenuti narrati siano assolutamente disancorati dalla realtà ha portato alla disapprovazione da parte di molte associazioni gay sia in Giappone che all’estero, le quali hanno messo in evidenza come simili rappresentazioni possano essere foriere di pregiudizi e di cattiva informazione nei confronti della comunità omosessuale. Le artiste e le fan del genere rispondono che i Boys’ Love sono un prodotto creato per donne che vogliono divertirsi con storie di fantasia in cui l’amore faccia da padrone. Molte sono le opinioni contrastanti a riguardo di questo genere ma quel che è certo è che offre un’interessente rappresentazione di un approccio alla sessualità tipicamente giapponese. www.animeemanga.it


motori ruggenti/ di Mattia Paolasini

”Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo, un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia“ F. T. Marinetti

modelli, come un’icona tra le case automobilistiche a livello mondiale. Talmente unica e insuperabile da poter sfidare in velocità anche aeroplani Euro Fighter Typhoon, come hanno dimostrato i servizi dei colleghi di Top Gear, non arrivando a vincere ma riuscendo comunque a non sfigurare nemmeno contro un jet. La vettura è costruita interamente a mano nello stabilimento di Molsheim, in Francia, sede dell'azienda, e prende il nome dal pilota Pierre Veyron che vinse la 24 Ore di Le Mans nel 1939, gareggiando proprio con una Bugatti. Un progetto iniziato nel 1999,

Se Filippo Tommaso Marinetti si aggirasse ancora per le strade delle nostre città, lo farebbe guidando comodamente seduto all’interno di una Bugatti Veyron. Un tuono, dovuto al motore a 16 cilindri a W da 7.993 cc, si udirebbe da lontano mentre il fondatore del Futurismo sfreccerebbe, grazie a una spaventosa accelerazione, da 0-100 km/h in soli 2,5

secondi, lungo le strade del nostro Bel paese. Avvolto da una carrozzeria avanguardista costituita da speciali quanto leggere leghe metalliche, sofisticata tecnologia tedesca e lussuoso pellame di pregiata qualità, il nostro Marinetti sarebbe davvero orgoglioso ed eccitato di ”cavalcare“ un così formidabile stallone, costruito solamente in pochissimi pezzi per ogni serie prodotta. Una vera opera d’arte! Nata nel 1909, da Ettore Bugatti, la casa automobilistica francese, oramai di proprietà del Gruppo Volkswagen, ha festeggiato i suoi 104 anni vedendosi riconosciuta, per la qualità e autenticità dei suoi

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La rivincita della supercar

dall’alto, in senso orario: - Bozzetto della Bugatti Veyron Grand Sport. - Interni ed esterni della Bugatti Veyron Grand Sport. - Il vecchio ed il nuovo. Courtesy of Bugatti

ma che ha visto solamente nel 2005 l’inizio della produzione, anno nel quale iniziarono anche le prime consegne ai facoltosi clienti che seppero attendere. Un acquisto decisamente importante, un milione di euro in cambio di un’autovettura da sogno, con garanzia di due anni o 50.000 km. Rigorosamente due posti, dedicata a chi non ha paura della velocità e disposta a ” volare“ a 415 km/h. Tanti i modelli che si sono susseguiti negli ultimi anni, dai coupé alle roadster alle versioni speciali, come ad esempio la Bugatti Veyron Grand Sport L'Or Blanc, creata

in collaborazione con l’azienda tedesca Königliche Porzellan-Manufaktur, con decorazioni per l’interno e l’esterno con bianca porcellana. Una versione decisamente oltre ogni aspettativa, dal costo (quasi) proibitivo di 1 milione e 650 mila euro. Ma se state già pensando di mettere da parte i vostri risparmi per concedervi una follia, mettetevi l’anima in pace, e rimettete in tasca il portafoglio: la versione Oro Bianco è stata già venduta dopo poche ore dalla sua presentazione ufficiale avvenuta a Berlino. Quando si dice che ”il lusso non conosce crisi“. www.bugatti.com

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luxury living/ di Gardenia Costantini

L’anima dell’argento.

Al di là delle mode, i gioielli cristalli del tempo.

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”Tutti noi architetti, scultori e pittori dobbiamo rivolgerci al mestiere. L’arte non è una professione, non v’è differenza essenziale tra l’artista e l’artigiano. In rari momenti l’ispirazione e la grazia dal cielo che sfuggono al controllo della volontà possono far sì che il lavoro possa sbocciare nell’arte, ma la perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista. Essa è una fonte di immaginazione creativa“. Walter Gropius, manifesto programmatico del Bauhaus. Creatività, unicità, purezza dei materiali e cura del dettaglio. Sono questi gli ingredienti del successo di Athena, azienda di gioielli di Misano Adriatico, divenuta famosa a livello nazionale ed europeo per le sue collezioni in argento naturale 925 di stampo artigianale. L’azienda fondata da Silvio Muratori, opera sul mercato da quasi 30 anni con collezioni maschili, femminili e per bambini. Una vera e propria

ne “globalizzante” della moda si applica perfino all’argento. Faccio un esempio: un paio di anni fa la moda proclamava il ritorno del giallo-oro. Aziende produttrici nonché rivenditori richiedevano argento rivestito. Poi è stato l’anno dell’oro rosa (inesistente in natura). Anche l’argento ha vissuto il suo periodo ”al femminile“ per adattarsi ai trend del momento. Nonostante tutte queste ”ondate“ di gusto che ci hanno travolti, noi siamo sempre stati fedeli alla nostra filosofia produttiva: realizzare oggetti in metallo naturale, ossia argento bianco che si distinguessero per l’unicità e la ricercatezza dei dettagli, di là di ogni momentaneo stilema caldamente suggerito. Dal latino Argentum significa ”splendente“, ”candido“, ”bianco“. Ritrova queste accezioni nella sua produzione? Certamente. Le mie collezioni sono il risultato della ricerca dell’anima dell’argento, del suo tratto più puro. Perché solo nel naturale sta la bellezza. Se non galvaniche, cosa rende le sue collezioni uniche? Le diverse tecniche di lavorazione che mettiamo in campo.

passione quella di Muratori per la manualità che da perito meccanico lo ha trasformato in un artigiano ”ossessivamente“ attento ai dettagli perché, come sostiene ”la sfida è inventare e reinventarsi sempre. Osservo minuziosamente quello che fanno altri orafi e gioiellieri per evitare di cadere nel doppione o nel già visto. Il mio vero obiettivo è quello di capire l’anima del prodotto, sperimentando sempre qualcosa di nuovo“. Gusto, stile e moda. Molto spesso queste parole perdono i loro significati univoci per assumere definizioni labili, confuse. Cos’è per Lei lo stile? Un’emozione, un ricordo piacevole, il mezzo per cristallizzare la gioia di un attimo. Il gioiello di stile assurge al nobile compito di intrappolare un ricordo positivo in un oggetto che diviene non un orpello modaiolo da cambiare da stagione in stagione, ma un compagno di vita. Lo stile è l’antitesi della moda che impone dettami a tutti i livelli creativi: dal modello, alla composizione fino alla scelta dei materiali. Questa vocazio-

Come il contrasto lucido – opaco o il traforo a stampo realizzato attraverso una tecnica molto particolare: la combinazione della foratura a laser con la stampatura. Questo ci permette di legare l’innovazione del laser alla tradizione della stampatura artigianale per ottenere pezzi pregiati, unici, differenti l’un dall’altro. Pietre preziose e argento. Amore o odio? Lo definirei un ”matrimonio che non s’a da fare“. Infatti, abbiamo realizzato una linea, Bizzarre, in cui abbiamo legato l’argento a delle pietre preziose nella realizzazione di animali ad anello e ciondolo. Non è andata per due motivi. Il primo è legato al costo: l’inserimento di pietre preziose ha fatto lievitare il prezzo non più accessibile alla nostra clientela classica. Il secondo, ancor più importante, sta nel mancato rispetto della nostra filosofia produttiva: smalti e pietre preziose sono solo cornici alla purezza dell’argento che deve essere il protagonista assoluto dell’oggetto. I nostri clienti apprezzano e richiedono il candore del metallo prezioso, puro. Stefano Micelli, professore di Economia e Gestione del-

le imprese presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, parla dell’artigianato come nuova sistema per uscire dall’empasse economica. L’economia 3.0 passerebbe dal modello del Made in Italy. Cosa ne pensa? Concordo pienamente. Il vero Made in Italy è un fiore all’occhiello che deve essere promosso, rivalutato ed estraniato dalla delocalizzazione: il vero Made in Italy per essere tale deve essere prodotto e finalizzato interamente nel nostro Paese affinché si rispettino quegli standard qualitativi alti che ci distinguono dalla concorrenza a basso prezzo. Oggi stiamo giocando al ribasso facendo leva più sulla forma che sulla sostanza. Un esempio? Nelle gioiellerie troviamo prodotti in ottone, ammantati di fascino da studiate campagne di marketing o in bronzo semiprezioso, ossia una lega di rame e di ottone con una punta d’argento. Dove sta la qualità? Che cosa comprano i consumatori? Non c’è altra via: l’unica modo per uscire da questa crisi economica e culturale è ritrovare la genuinità ed estro, tutto italiano. www.athenagioielli.it

dall’alto: - Gioielli in argento realizzati da Athena Gioielli - Silvio Muratori, designer e titolare dell’azienda

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must have #02/ di Andrea Tessadori

bianco rosso verde/ di Monica Fior

Alte prestazioni e un sistema operativo Android per sfruttare le potenzialità della rete. ”Le fotocamere di oggi sono complicate come dei computer“. Questa è la sacrosanta affermazione di chi cerca di raccapezzarsi tra rotelline, pulsanti, menu e ripensa con nostalgia a quando doveva preoccuparsi solo di diaframmi, tempi e messa a fuoco. La verità è che ha perfettamente ragione: studiarsi tutto il manuale di utilizzo di una moderna digitale equivale a un esame universitario. Sul mercato, infatti, si stanno affacciando fotocamere dotate di un sistema operativo complesso, uguale a quello utilizzato per smart-

phone e tablet. Una delle prime macchine a usufruire di questa tipologia di software è la Nikon Coolpix S800c che stiamo provando da qualche giorno. Il primo impatto è buono: sembra proprio una fotocamera compatta… si vedono addirittura meno pulsanti che in modelli simili. Ma è solo un’impressione: appena si accende, sul display si visualizza una serie di domande che hanno poco a che fare con la fotografia. Per fortuna si può saltare questo passaggio, avendo a disposizione un ottimo touchscreen da 8,7 cm; ma così facendo si trascura proprio la ragione per cui è nata questa fotocamera: la connettività. Non per niente la Nikon S800c è pubblicizzata

come ”The Social Camera“. La prima cosa che la nostra fotocamera chiede è il possesso o meno di un account Google. La Nikon Coolpix S800c, infatti, è equipaggiata con il sistema operativo Android, prodotto da Google e presente in tanti smartphone e tablet (Samsung, LG, ASUS, HTC, ecc.) che dà accesso a tutta una serie di servizi forniti dal colosso di Montview. Se non si possiede un account, è possibile crearlo all’istante, avendo a disposizione una rete Wi-Fi per l’accesso a Internet. Una volta accertato l’account, è possibile inviare via email la foto appena scattata o pubblicarla su Picasa o, dopo averlo installato, elaborarla con Instagram. Proprio come un cellulare. Solo che in questo caso abbiamo sottomano una fotocamera da 16 Megapixel, con uno zoom ottico da 25 a 250 mm equivalenti. Una breve prova su strada circa i risultati che si possono ottenere con la S800c ci conferma che siamo all’interno degli standard Nikon. Avremmo gradito una mag-

dall’alto: Nikon COOLPIX S800c

giore qualità nelle foto con alti ISO ma la messa a fuoco è veloce, si riescono a scattare foto in rapida sequenza, i colori sono piacevoli e fedeli e tutto il resto di pregi cui Nikon ci ha abituato. Un difetto abbastanza preoccupante c’è ed è la durata della batteria: evidentemente l’uso di Android richiede più energia che in una fotocamera tradizionale e si rischia di restare presto a secco. L’utilizzo di Android su una fotocamera deve essere senz’altro preso come una scommessa: può portare a ottimi frutti o rivelarsi un vicolo cieco. Uno dei problemi che trovano gli utenti con una nuova digitale è che non esiste un’interfaccia standard: le stesse impostazioni cambiano non solo da marca a marca, ma anche tra modelli della stessa casa. Poter trovare su tutte le fotocamere una stessa organizzazione di menu e sottomenu sarebbe un concreto vantaggio per l’usabilità. In questo primo ”esperimento“ vediamo però che ancora il mondo della fotocamera è distinto da quello di Android, legato alle sue origini per smartphone, tanto è vero che in diversi casi i messaggi sul display fanno riferimento a un cellulare. Vedremo come si evolveranno le cose in questo mondo della fotografia digitale, sicuramente destinato a riservarci ancora molte sorprese.

Oggetto intramontabile, che cattura e plasma la luce con la sua forma semplice ed essenziale, che sintetizza il concetto del design nell’illuminazione, è il lampadario Blow, progettato negli anni ottanta dall’instancabile designer Elio Martinelli, scomparso nel 2004. Realizzata in metacrilato opal bianco, la lampada Blow colpisce per la delicatezza dei suoi contorni, per la sua raffinatezza e semplicità. È una lampada che sa restare contemporanea, ideale per qualsiasi tipologia di interni; può essere facilmente inseribile nelle case più classiche e in quelle più moderne. Ottantacinque cm di diametro, è ottima per illuminare tutte le stagioni, si inserisce e arreda gli spazi domestici e non, con estrema facilità. L’ispirazione di Elio Martinelli è sempre tratta dalla semplicità, dalla geometria e dalla natura vista nelle sue molteplici forme. Lo si percepisce, oltre che dalle figure, anche dai nomi attribuiti ai modelli (Blow ”soffio“, Foglia, Bolle, Cobra, Rondini e molti altri). Un crescendo di intuizioni, come l’uso di nuovi materiali tra cui il metacrilato, sperimentato in svariati modelli fin dall’inizio dell’attività progettuale e produttiva, persegue una ricerca di nuove idee, nuove tecnologie e sistemi produttivi che tengono conto anche della continua evoluzione delle sorgenti luminose. Alcuni modelli della collezione Martinelli Luce sono inseriti in importanti musei come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Museès des Art Decoratifs di Montreal e il Museum of Art di Philadelphia. www.martinelliluce.it

www.andreatessadori.it

sopra: Elio Martinelli, Blow, 1980, lampada a sospensione

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Nikon Coolpix S800: The Social Camera

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Blow, la luce nella sua essenza


events # 02/ di Giorgio Rotta

Conscious/ di Valerio Marconi

Ripartire dalla cultura, passando per l'Arte. Dove? A Senigallia(AN).

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Nella cittadina italiana della Rotonda sul mare, lo staff creativo di Confartigianato Senigallia, ha proposto in chiave sperimentale, per qualche giorno, un progetto di comunicazione della cultura del territorio, utilizzando l'unico canale possibile: l’Arte.

Si è concluso con grande successo e grande affluenza di pubblico lunedì 1 aprile 2013, il progetto sperimentale che ha coinvolto la città di Senigallia (AN). Ben 27 tra Associazioni e Circoli culturali del territorio hanno aderito all’iniziativa @ Rivestiti di Cultura promossa da Confartigianato Senigallia, a cura di Giacomo Cicconi Massi, Carmine Imparato e Christina Magnanelli Weitensfelder. L’idea è stata quella di realizzare una installazione artistica nell’Ex Pescheria del Foro Annonario, rivestendo e impacchettando pareti, colonne e tavoli di marmo, utilizzando la comunicazione degli operatori della cultura, del mondo dell’arte e del territorio. In omaggio al duo di artisti francesi noti a livello mondiale, Christò, e ad un esponente della pop art italiana, Mimmo Rotella, Confartigianato Senigallia ha voluto sottolineare l’importanza degli aspetti culturali ed artistici del territorio, poiché sono i motori della ricerca, dell’innovazione e di conseguenza dell'economia, e del fare impresa artigiano. Ospite dell’inaugurazione avvenuta sabato 30 marzo, Giancarlo Pucci, classe 1936, artista Fluxus della vicina città di Fano (PU), apprezzato dalla critica italiana e straniera che si è esibito in ben due performance per onorare l’iniziativa culturale senigalliese. L’evento è stato patrocinato dal Comune di Senigallia.

Teatralfilosofia

Un piccolo libro bianco sintetizza 30 anni di Minimo Teatro

dall’alto: - La preview dell'evento in piazza Roma a Senigallia (AN) - Particolari della Ex Pescheria ”impacchettata“ con i collages delle Associazioni e Circoli culturali, lo staff organizzativo Confartigianato

Giancarlo Pucci & Rossella, - Libro d’artista, 2013, performance Fluxus

È uscita per Mariano e Giovanni Prosperi Editori di Napoli la prima filosofia teatrale: Teatralfilosofia. Il libro, a differenza dei tradizionali trattati sul tema, indaga la filosofia immanente al teatro, insista in esso. Il Minimo Teatro è la scuola di Maurizio Boldrini, l’autore di questa darstellung (esposizione): un teatro essenziale che parte dal corpo della scrittura - il primo collaboratore dell’operatore teatrale è proprio il poeta - e lo traduce in gesti tanto del corpo quanto della voce, perché l’uomo non ha ma è un corpo. Tale traduzione corregge i difetti delle divisioni del pensiero, crea un metro di perfezione per il corpo della scrittura, un corpo da operare chirurgicamente, da prendere in cura. Limita il pensiero con l’immaginazione tutelando l’essere come esso appare immediato nella superficie dell’immagine. Leggendo di questo minimo sistema filosofico troviamo annotato ”chi scrive, ex sottoscritto, lo fa su invito e per deroga degli editori“: la teoria è già nel teatro (entrambi dal greco ὁράω guardare) ed è chiamata dall’editore a farsi scrittura, sintesi di una teoria pratica che dura da 30 anni. Una prova? ”L’assoluto è una parola, rimane in vigore perché le creature possano mangiare almeno un’ostia e bere un bicchiere di vino“. Maurizio Boldrini, Teatralfilosofia, Mariano e Giovanni Prosperi Editore, 2012, pagg. 66, euro 10,00. www.laboratoriominimoteatro.it

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Il ripristino e la destinazione museale della Galleria delle Statue di Modena, mentre restituisce alla città e al turista una straordinaria raccolta di calchi in gesso della più importante statuaria antica, rinascimentale e barocca, rappresenta anche un significativo esempio di moderna concezione di recupero e valorizzazione del bene culturale in cui si fondono il rispetto della storia, la documentazione attenta delle fasi evolutive, l’aggiornamento tecnico e tecnologico, l’obiettivo di trasformare uno spazio ritrovato in uno spazio collettivo e attivamente vissuto. C’è tutto questo dietro la facciata neocinquecentesca loggiata, progettata dall’architetto ducale Giuseppe Maria Soli nel 1785 per fondare, nelle antiche stanze degli inquisitori domenicani, la nuova Accademia Atestina di Belle Arti. Un luogo in cui l’arte si fa canone, modello, gusto. Un luogo in cui, un secolo più tardi, nei mutati scenari politici, l’arte si fa insegnamento, scuola, didattica. Ancora, uno spazio che assiste all’infrangersi dell’autorità accademica dietro le spinte di nuovi fermenti ideali. Infine, una nuova piattaforma di valori e patrimoni comuni, pazientemente ricostituiti a tutti i livelli della ”filiera“ culturale, dall’analisi storica, architettonica e artistica fino alle operazioni di restauro e riallestimento dei pezzi della collezione all’interno della Galleria. Un catalogo documenta e descrive la storia dei restauri e dei singoli pezzi che vanno a comporre questa Galleria di modelli che è, a sua volta, un modello di intervento e di recupero. A cura di Gabriella Morico, La Galleria delle Statue, Edizioni Artestampa, 2013, pagg. 96, euro 20,00, ISBN: 9788864621708. www.artestampaweb.it

Evacuazioni psichiche del contemporaneo di Margherita Bai Se anche Guccini lamentava ”nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento“, non è solo per via della sorniona irriverenza tipica del beat nostrano, ma perché sempre più frequentemente il ”cesso“ (etimologicamente da cedo, ”mi ritiro“) rappresenta l'unico superstite rifugio del nostro spazio privato, salvaguardato fino a prossima evoluzione della specie dalla democratica, trasversale, umanissima necessità di evacuare. Sandro Vesce, prete fino al 1976, operaio metalmeccanico fino alla fine degli anni ’70 e infine psicoterapeuta, ha deciso di rappresentare, graficamente e verbalmente - con composizioni che ammiccano con corrosiva autoironia alla poesia visiva delle avanguardie storiche - la consistenza e insieme l’evanescenza psichica del luogo più immanente e concreto che ci sia dato di frequentare. Questa, dice l’autore, è operazione ”rozza e banale“ - la banalità dell’"essere qui"? -, compiuta ”nel segno di WC Man“. WC Man che è nato sul cesso, ”completo come Atena da Zeus“; WC Man che indugia sulle componenti sistemiche del suo ”corpo“ (tazzatubo-cassetta), WC man che ci cade dentro (”ogni tanto regredisco“) per poi risalire attraverso una figurata scala di Giacobbe (”un mio antenato adottivo“) e fuggire, infine, su un water-torpedo blu. Sono scomposizioni e ricomposizioni, evacuazioni psichiche che si rincorrono, galleggiano oziose e programmaticamente prive di senso come ogni autentica e potente liberazione. La sintesi è nemica di WC Man, la sintesi è orrenda e spaventosa, è la lacerante merda sul giornale di Antoni Tàpies, una verità urlata con ferocia inclusiva e, in definitiva, con umiltà: non siamo, che questo. Sandro Vesce, WC Man a cavallo, Edizioni Artestampa, 2012, pagg. 80, euro 13,00, ISBN: 9788864621197. www.artestampaweb.it

Semplici pensieri di vita di Filippo Guerriero

Un taccuino quotidiano, questa opera di Luca B., scrittore emergente che si rivela con questa pubblicazione. Un taccuino da usare quotidianamente, a piccole dosi, per ricordarsi di non vivere solo in o nella fretta, nell'ipnosi televisiva, di non farsi soffocare da stress e da banalità. Un taccuino da scorrere anche senza una direzione di lettura, ad utilizzo esclusivo del nostro benessere. Utilizzo del taccuino: approfondire la conoscenza di se stessi. Nella difficoltà del vivere quotidiano, i suoni si indeboliscono, il ritmo rallenta, lasciando il tempo a profondi concetti dentro di sé. ”È subito chiara l’atmosfera dei pensieri poetici raccolti in questo moderno Zibaldone. Si tratta di un viaggio verso la consapevolezza di chi, guidato da un profondo amore per la vita e le sue piccole cose, esce dall’incessante e quotidiana complessità, interrogandosi senza sosta sulle regole di un vivere sereno. Un animo profondo si confronta con la concretezza e la viscosità del tempo che passa, senza mai perdere di vista la volontà di migliorarsi e costruirsi. Ne risultano riflessioni scritte nere su bianco, quasi a voler fissare un pensiero maturato a partire dal proprio vissuto. Il mare del turbamento prende la forma di un lago aperto al sentimento dell’amore. Quasi al termine di un percorso di crescita individuale, ora l’autore appare pronto ad aprirsi al mondo. Nella convinzione che già solo l’ascoltarsi rappresenti un grande traguardo, si approda alle ultime pagine, percependo una certa tensione alla libertà, finalmente più vicina e raggiungibile.“ (dalla prefazione di Giulia Iacchetti). Luca B., Semplici pensieri di vita, Greta Edizioni, Collana Gli inediti, 2012, pagg. 70, euro 8,00, ISBN: 9788890402395. www.gretaedizioni.com

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Recupero e valorizzazione del bene culturale ”dei gessi“ di Modena di Margherita Bai

WCMAN A CAVALLO

LA GALLERIA DELLE STATUE


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Architettura è/& arte urbana

I GIORNALI

di Marta Franchini

”Gli scritti di Adina Riga sono un’espressione matura di una linea di ricerca in architettura, un contributo significativo alle questioni poste dal territorio e dalle città d’Abruzzo e un esempio di impegno civile attento alla realtà e ai suoi destini. Emerge da essi una visione scientifico-realista, dove lo studio dei caratteri della tradizione, la considerazione attenta della costruzione delle forme tipiche nei rapporti consolidati nella storia tra natura e artificio, le relazioni con il quadro dei problemi, delle necessità e degli avanzamenti che la realtà propone, costituiscono la base dialettica di un fare architettura considerato secondo intenti volti alla costruzione di un ordine riconoscibile e alla crescita della conoscenza. Si tratta di un insieme di lavori variegato; la città su cui soprattutto si ragiona è Pescara, che si pone in questi scritti come campo privilegiato di studio e di applicazione, come luogo su cui misurare le istanze della trasformazione con gli strumenti della conoscenza e della ragione e come riferimento costante di un appassionato impegno intellettuale e civile nel campo dell’architettura e della città.“ (dalla postfazione di Adalberto Del Bo). Adina Riga, Architettura è/& arte urbana, Carsa Edizioni, 2013, pagg. 128, euro 20,00, ISBN: 9788850103058. www.carsaedizioni.it

Stampa e comunicazione di massa: la modernità di Henry James di Maria Stefania Gelsomini

Arte & veleni

Il mondo dell’arte, come tutti sanno o immaginano, è un mondo difficile. Contraddittorio e affascinante. di Ilaria Sartori C’è chi vi affoga e chi vi si vuole tuffare. Arte & veleni è un viaggio all’interno di questo ambiente traboccante di paradossi: un utile avvertimento per i nuovi artisti e una resa dei conti per i datati. Ugo Nespolo, presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino dal 2011 e cultore dell’arte, decifra ”i tanti e controversi messaggi che il sistema dell’arte […] invia a tutti quanti“, illustrandone le labili e ambigue regole. Uno dei tanti argomenti trattati sono le tappe che l’artista ha davanti alla propria realizzazione, dall’ardua scelta fra ”condurre i popoli o ubriacarsi in solitudine“, alle controversie che impone lo spirito creativo, o agli adempimenti fiscali, e alle tasse che lo Stato richiede alle attività. Argomentazioni come il crollo dei fondi museali e l’idea dell’arte del domani, pungono la società artistica, ma nelle quali Nespolo si destreggia impeccabilmente. L’ingegno dell’autore sta nella formulazione e nell’esposizione del volumetto: un concentrato di pensieri aspri e ironici, dai quali il lettore è rapito e ne risulta quasi divertito.

Ugo Nespolo, Arte & veleni, Espress Edizioni, Collana Tazzine di Caffè, 2012, pagg. 160, euro 6,90, ISBN: 9788897412731. www.espressedizioni.it

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”Tutto è differente quando è stampato. Altrimenti a che servirebbero i giornali?“. La frase di Henry James è stranota, meno noto il suo lungo racconto I Giornali. Scritto nel 1903 come parte della raccolta The Better Sort, l’edizione in lingua inglese compie centodieci anni esatti. Mai più ristampato (e pure un po’ snobbato dalla critica), per fortuna è reperibile in libreria nella versione italiana pubblicata da Liberilibri. Sorprendente, come già più di un secolo fa uno scrittore e critico letterario come James (New York 1843 Londra 1916) autore di romanzi, racconti, e tra i più fecondi autori di letteratura di viaggio, ponesse al centro delle sue riflessioni la questione della comunicazione di massa, della funzione della stampa nella società contemporanea. I giovani protagonisti Maud e Howard, figure di intellettuali nuovi nelle pagine jamesiane, sono due sgangherati reporter dalle ambizioni letterarie e si muovono freneticamente nello Strand londinese facendosi trascinare dal suo caos sonoro e visivo. Calcano giorno e notte Fleet Street, la via dei giornali, villaggio globale ante litteram senza confini, il centro di gravità dell’azione e del tentativo di emergere e affermare il proprio talento. Frastornati dalla modernità che li minaccia e sballottati nella città in cui comunque trovano rifugio, sono ritratti da James con lo ”stile dell’ansia“ come scrive Donatella Izzo nell’Introduzione, in un crescendo di suspense tutto da leggere. Henry James, I Giornali, a cura di Donatella Izzo, Collana Narrativa, 1990, Liberilibri, pagg. 162, euro 13,43, ISBN: 9788885140035. www.liberilibri.it


english texts/ by Susan Charlton

“It is a world so much higher than ourselves that we do not perceive the sound of it. We hear only an immense silence which, translated into a physical image, appears to us like a cold, insurmountable, indestructible, infinite wall. This is why white strikes us as a huge silence which seems absolute […] It is a silence which is not dead but rich in potential”. I could have written nothing and everything would still have been clear, if not clearer. Nothing is, in fact, more striking than white, and nothing catches the eye more rapidly than empty space on a canvas or a poetic pause. And it is also true that nothing captures the attention like the tiny sign on a vast emptiness. Both these tendencies are dictated by the muteness emanated by the colour white, which, as in the words of Kandinsky, blocks our access to other shores, while letting us intuit their presence. Thus it is natural curiosity which shifts the viewer’s attention onto the non-work, that is to say that immense, unexplorable universe on which the artistic product lies, and whose gushes of expression the viewer himself tries to bring to light, like a drill on a vast oil field. White is the perfect metaphor of the ineffable and the unexplorable, from which any nuance can be extracted; in other words it is the guardian of artistic Eldorado. Thus every brush-stroke, every syllable of ink becomes a challenge to White, with its fervid conviction that each tone stolen from its basket is a chip of gold from the kingdom it is guarding. Art is always a war on inexpressibility. And like every war, it proceeds through armistices, fierce attacks, rearming of the defeated; the latter two in particular fully epitomise universal artistic tension, that perpetual struggle between the natural inclinations of the artist’s soul and the ability of his/her hands. The single individual visions and the artistic currents which have tried to rethink the basics of art have sensed the ineffectiveness of the sign. One of the most clamorous calls to rearmament was Giulio Paolini’s Geometric Drawing, a work which became the mouthpiece of the widely-felt need for redefinition of the alphabet of art in the 1960s. This canvas, a simple square, ex-

pressed the need for a new definition of space in art, and it had an ally in another “war-monger” of that time, Lucio Fontana. The holes and slits clearly express the challenge to white; the challenge is more open than ever and is intensified by the alliance between sculpture and painting in Fontana’s representations. We are witnessing the violent venting of a tension which is at its breaking point, frustrated by the inadequacy of artistic expression. Geometric Drawing and Fontana’s canvases are thus two complementary moments of the exploration of the indefinite, respectively rearmament and attack, in the fight against the inexpressible. The fight of course attracted other leaders, many of whom were recruited within that 1960s American ethos which one of its exponents, Joseph Kosuth, defined as conceptual art, which was to affect a large part of the contemporary art scene. This artistic approach underlines how new frontiers of expression often come to be explored through a rejection of the traditional paradigms of representation and the traditional reaction to them, as Duchamp suggests: “Painting should not be just retinal or visual; it should interact with the grey matter of our understanding instead of being purely visual […] By retinal approach I mean the aesthetic pleasure which depends almost exclusively on the sensitivity of the retina without any auxiliary interpretation. The last 100 years have been retinal”. So rejection of convention is the tool for sharpening the arrow-heads for the ancestral battle, whose titanic matrix is the essence itself of art and the reason for its survival. Once El Dorado has been plundered, art would no longer have any reason to exist. page 11 The disquietude of dreams The lights and shadows of Nicoletta Ceccoli by Adele Rossi Child’s eyes, baby-blue faces, porcelain complexions are immersed in surreal, dreamlike worlds with lunar landscapes. The innocence of adolescence fuses with dreams which waver between idyllic and disquieting, because they bring to mind visions of a submerged unconscious. We might thus introduce the works of Nicoletta Ceccoli, children’s book illustrator, who has fascinated Europe with her drawings. Born in 1973, Ceccoli graduated from the Urbino State Institute of Art in

www.nicolettaceccoli.com page 12 Artcurial in Italy… going, going, gone! by Rachele Bifolchi Artcurial has arrived in Milan. In November 2012 the famous French auction house put down roots in the Lombard capital, setting up in one of the most prestigious buildings of the town, Palazzo Crespi. The Milanese branch, just a few steps away from the cathedral, is competently managed by Gioia Sardagna Ferrari, of Italian birth and French education. Dr. Ferrari is a specialist in modern and contemporary art and she is pursuing an ambitious goal: to promote the economic and cultural rebirth of Italy through art. Economic crisis and collecting. These two expressions seem like an oxymorom. Why do people choose to invest in works of art today? There’s no logical reason: art is passion. A work of art is the true transposition of this passion. It lives with us, it’s the mirror of our desires. It represents the door out of reality and into dreams. The description you have just given of art is rather romantic. It seems to belong more to the past than the present. What’s the artist’s role in the current economic ethos? Rather than talk about “artist” in the singular, I would talk about types of artist. The first type are the artists animated by a real vocation. Their passion is to produce, the creative process is the only way they have of expressing themselves. Because of this “pure” nature, they often stay shut up in their own particular reality and don’t manage to impose themselves on the market. On the other hand there are the artists-cum-businessmen, those who become fashion phenomena thanks to their talent. A perfect example of this is Jeff Koons; he hands his creativity and ideas over to a workshop of skilled craftsmen, who convert it into a concrete product as in a kind of art factory. Hi Tech, digital, computerised. What’s Arcurial’s relationship to technological innovation? A symbiotic one. Two years ago we launched Arcurial Live Bids, an online auction platform which enables whoever’s interested to follow the auction and make offers from the comfort of their own homes. It’s been an over w helming success. In 2012 alone over 3.5 million euros came under the hammer, obtaining a 54% increase over 2011. The next step will be the creation of a smartphone app. Taking advantage of our presence at Basileaworld, we’d like to get details from you of the world of watches and jewellery.

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page 10 Art and beyond, war “on the colour white” From Fontana to Duchamp, the challenge to inexpressibility by Christian Leoni

What is authentic art for you? Any form of artistic expression which involves serious methodical reflection. This process is important for appreciating the result. The history of art is made up of occurrences and recurrences, of moments of rejection of figuration with concentration on more conceptual expressions, alternations of extreme experimentation and tradition which quote and borrow from one another. I'm interested in art in which I can recognise an original view of reality, whatever form it may take. Do we learn from art or from the artist? All the artists I love teach me even though I’ve never met them. They offer me emotions, and I carry them with me like all my meetings, journeys, all the things I’ve observed and experienced. The creative person is like a tree whose roots draw nourishment from experience and transform it slowly into new leaves. “[…] Perfect craftsmanship is essential for every artist”. Walter Gropius wrote this in the Bauhaus manifesto. How true is it of the technological world? When I use the computer to create, it requires just as much effort, “craftsmanship” and care as traditional brushes and pencils. The computer presents as many challenges as the classic techniques, they’re just different. What does a woman who draws female characters think of women in the art world? I love some 20th-century Surrealist artists like Rimedio Varo and Legno Fini. Unfortunately in the past women didn’t get the chance to make their voices heard; Gentileschi, Garzoni, Carriera are the very few who are remembered. The role of women in art was simply as the muse of male painters. Luckily it’s different today. When I draw, I think of my children as temperamental creatures, strong and fragile at the same time. Who no longer need to find salvation in the arms of Prince Charming. Indeed, my young adolescent girls are no longer children and not yet women. I use them to describe a delicate nostalgia. They express vanity, fragility, cruelty, with grace and beauty at the same time. I feel them to be my alter egos; like them, inside myself I don’t yet feel ready to grow up. My illustrations enjoy playing with contradictions. They’re eccentric, but also disquieting, dreamlike, they make you think.

Like the dark side of a nursery rhyme, a dream of delightful things with a small area of shadow.

the animated cinematography section. Soon, however, she discovered a true passion for illustration, to which she dedicated herself body and soul, publishing over 20 works with the most important Italian publishers and many foreign ones. In 2001, Nicoletta Ceccoli won the Andersen-Baia Fairy Story Prize for best illustrator of the year, and the following year the Award of Excellence of Communication Art (USA) for her illustrations for Pinocchio (Mondadori). She’s going to talk about herself, and begins by giving a precise definition of her artistic philosophy.


aperitivoillustrato.it / part 3

english texts/ by Susan Charlton What’s Arcurial’s relationship with these important market sectors? They’re two fundamental sectors. For the watch sector, we organise four annual. For the watch sector, we organise four annual auctions with catalogues chock full of important pieces. For jewellery, there are fewer events: once a year in July in Monte Carlo at Hotel Hermitage. This event is the key moment of the season, with buyers and sellers from all over the world and almost 1.000 lots in the catalogue. This issue of Aperitivo Illustrato will concentrate on the colour white. What is Gioia Sardagna Ferrari’s favourite white work of art? Convex/Concave by the Swedish artist Mats Bergquist. In this interlocking work on wood, there’s everything: man and woman; concave and convex; white representing purity as in the western view, and mourning as in the eastern one. There’s the whole universe. How does the new branch in Milan fit into the Arcurial universe, and what plans do you have for 2013? For this coming year we’ve planned a preview of the April Parisian auctions and an exclusive aeronautical exhibition before the summer. We’d like to organize exhibitions and conferences in a more regular fashion so that Italian Arcurial becomes a cultural hub. Last but not least the expertise days… We’ve planned six of them, each one reserved for a particular speciality. They’re days on which experts of the various sectors are at the disposal of anybody wanting information or estimates for works of art they have at home. The consultations are free and wholly confidential. A useful service, I believe a unique one in Italy. www.artcurial.com page 15 Visionary production. Impossible made possible; Chu Teppa’s vision. by Adele Rossi And yet, and yet . . . Denying temporal succession, denying the self, denying the astronomical universe, are apparent desperations and secret consolations. Our destiny is not frightening for being unreal; it is frightening because it is irreversible and inexorable. Time is the substance I am made of. Time is a river which sweeps me along, but I am the river; it is a tiger which destroys me, but I am the tiger; it is a fire which consumes me, but I am the fire. The world, unfortunately, is real; I, unfortunately, am Borges. A quote from Jorge Luis Borges on Borges, time, myth, and destiny that perfectly describes my approach. Chu was born in Còrdoba, Argentina and has resided in the United States since the year 2000. Before discovering her most particular relationship with children’s mythology, her former education in Industrial Design led her to manufacture lamps, and to create her own clothing label, as well as costumes for the movie and TV industries. We are what we want to be or what others want us to become. However, in addition to that, Chu believes that we can become something else; an essence of what may seem impossible to the eyes of the beholder who may not want to see what is actually present before him or her . She

creates mythology and dreams that she molds at will. Chu conceives her creations from forgotten vintage items, and then places them on her all-powerful, visionary framework, from where mythological, sensual and confident creatures of kitsch royalty emerge, and come back to Earth with a recycled soul and a firm conviction that everything will be possible during this second chance. Chu Teppa unveils the impossible roots of the myth and then makes them possible. www.chuteppa.com page 40 Querini Stampalia and Botta: a 20-year old affair The Director of the Foundation’s point of view on the intervention of modernisation. by Nicola Bustreo

He has never however had any doubts or second thoughts in his reflections and proposed solutions. Leaving aside the aesthetic and functional aspects, I feel the quality of his intervention should also be measured in terms of his great capacity for envisioning the complex project as a whole even when it was broken up into many separate parts. www.querinistampalia.it page 41 Botta: the non-global project of the Querini Foundation The Ticino architect’s latest intervention in the Venetian foundation by Nicola Bustreo

not overload the bridge and entrance and above all preserves them intact. On the other hand, in the new part we’ve tried to create a discreet, non-competitive dialogue. This has been possible by lowering the tones of the intervention, which is what Mario Gemin and I have always tried to do. That is to say, by adopting some of the approaches which Scarpa himself used, like the panels detached from the walls, but using a language that is nearer to our time and our sensitivity. In the light of your intervention which in fact has had to deal with an old structure, what do you think about the conception of restoration in Italy? Carlo Scarpa used to say: “The only way to respect the past is to be authentically modern.” I believe that every restoration carries with it an idea of transformation; a past mode of existence becomes a new

Marigusta Lazzari, Director of the non-profit Querini Stampalia Foundation, tells us about the conception and development of the restoration project commissioned from the architect Mario Botta in May 1994. What have been the most difficult and the most enthusiastic moments in this complex and delicate intervention? The architect Botta’s approach to the Querini Stampalia Foundation and its new requirements has always been very lucid and informed. His bond of affection with the structure, which was formed when he was studying architecture in Venice and he met and socialised with its director of that time, Giuseppe Mazzariol, has enabled him to guide a 20-year intervention of modernisation without having any general starting project. There have been many interventions in which enthusiasm and difficulty have made the problem-solving more stimulating: the covered courtyard, the auditorium, the main staircase…the homogeneity of the works despite their having been done at very different times and despite their being in a building which has already undergone so many important interventions. The architectural project has a particular intrinsic splendour, since various types of reflection converge on it: the urban context, the combination of different architectural cultures and the varied multifunctional nature of the Foundation. Does Mario Botta’s work-in-progress create a new “cultural/generational sociological bridge” with the town, or rather the community, of Venice? Mario Botta’s work has certainly enabled the Foundation to present itself to the new generations but also to the new kinds of public, showing the different ways of using cultural services in a functional and innovative way, and also giving us the chance to update the service to meet the new demands. Which of the new areas best expresses Botta’s aesthetic, philosophical and cultural interests? The project has had various interruptions and new beginnings which have depended on finding the necessary resources and on the requirements of the structure which has always continued to function.

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The Querini Stampalia foundation is the only example in Italy of an historical building whose heritage, residence, library, archive, art collections and furnishings have all been conserved. This 16th-century palazzo, situated between Rialto and San Marco, today houses the civic library of the Venice historical centre and the environmental museum. Over the years, the Foundation has undergone numerous restorations, including the maintenance and improvement of the ground floor and garden by Carlo Scarpa in the early 1960s. Recently, Mario Botta undertook the restoration project for a new entrance, the bookshop and the cafeteria. “Rather than a restoration”, says Botta, “the project of the Querini Stampalia Foundation has shown itself to be a way of bringing the town of Venice back to life through its history and buildings. It gathers information about the town, its historical stratification and above all about the discontinuous function of the Querini which was first a land registry and then an apartment. I’d define it as a ‘non-global’ project, in the sense that it shapes its later identity on the basis of its previous historical ones.” Have the obligatory compositional elements left behind by the architect Carlo Scarpa in any way influenced your plan for the exhibition room on the first floor? Coming to terms with Carlo Scarpa is a difficult task for the contemporary architect. Scarpa involved and still involves an artisanal world which is slowly disappearing. On the one hand we have tried to respect Carlo Scarpa’s work by conceiving an access to the new building which does

modernity. For this reason I think restoration should apply modifications and not only functional meanings. The outright protection of historical buildings, the rejection of radical restoration activities which exists in Italy, is paradoxical because it is senseless. The lifestyle of the past exploited space in a different way from today, and the elements which modified it were also different. A critical, not only conservative, restoration is a must if we really wish to respect pre-existing structures. How has the choice of interiors, including the choice of materials which are apparently very different from your habitual language, interacted with your compositional dialectics? The Querini Stampalia project is an intervention of restructuring which uses ‘soft’ tools recalling the particular elements of the town of Venice. The first is water. In the Mazzariol courtyard the concept of water has been extended to the sky thanks to a roof with a shot silk effect, which gives the space a different light effect; it refers to the culture of water with the sky reflected in it. Next to water there is light, light as the generator of space and the presence of gravity. The panels detached from the walls for technical/sanitary reasons tell us that these walls reach right down to the very foundations of the lagoon. The choice was expressed in a very subtle, very indirect, non-explicit language which rejects any tectonic expressive force of the element, while the elements of the construction form an architectural stage set which echoes the magic of Venice. www.botta.ch


Who knows how many ideas would bombard our neurons and synapses by mental association if only we were to concentrate for a moment on a single word. China. Bicycles, parks, dragons, chaos, lanterns, spring rolls, martial arts, monks, dǒu lì (the typical bamboo hat), chopsticks, pandas, Cantonese rice, the Great Wall etc. I think most of us Italians think that as time slides by and we are occupied with our busy schedules, China has stopped dead at the 1960s. At the clichés cited above. And instead…. Galaxy Soho is a complex designed by one of the team leaders of architecture and design: Zaha Hadid Architects. This group has been responsible for 950 projects in 44 countries, with a staff of 400 people. It was founded by the architect and designer Zaha Hadid, an Iraquiborn naturalised British citizen, today one of the 100 most influential women in the world, who has taught at Harvard (occupying the same chair formerly held by Kenzo Tange) and is the first woman to have received the Pritzker Prize in 2004. One of the latest projects is indeed the Galaxy Soho mega-structure in the heart of Peking. The complex is a fusion of five volumes linked by external plateaus at various levels; it stretches over an area of 50,000 m2 and has a gross surface of 328,204 m2. Each tower, built of concrete, glass and aluminium, has 18 floors: 3 underground parking areas, 5 floors for shops and other commercial areas, and 13 floors for offices, restaurants and bars in the upper part, with a panoramic view over the town. One of the concepts developed by the team has been that of the typical Chinese inner courtyard and the vast stretches of rice fields among the mountains; these are reinterpreted by the different plateaus which link the four towers and foster communication among the various

offices. At the same time the parametric design projects the whole structure into the future. The lines are fluid, continuous, sinuous, and integrate with one another creating a dynamic urban landscape. The complex has been conceived for easy navigation, and the plays of light and inner and outer shadow have also been carefully studied. It should not be forgotten that

this is sustainable architecture aspiring to LEED certification. It’s up to you now to discover other things about a country which is already creating the towns and cities of its future.

page 48 The soul of silver Beyond fashion, the crystal jewels of time by Gardenia Costantini

www.galaxysoho.sohochina.com

“All of us architects, sculptors and painters must rely on craftsmanship. Art is not a profession, there is no essential difference between the artist and the craftsman. In rare moments, inspiration and the grace of God, which are beyond our control, may allow the work to blossom into art, but perfect craftsmanship is essential for every artist. It is a source of creative imagination”. Walter Gropius, Bauhaus Manifesto and Programme.

page 47 The return of the supercar by Mattia Paolasini “A racing car, its bonnet adorned with large tubes like snakes emitting explosive hisses, a roaring car which seems to run on grapeshot, is finer than the Victory of Samothrace”. F.T. Marinetti If Filippo Tommaso Marinetti were still going around the thoroughfares of our towns, he would be doing it driving, comfortably seated in a Bugatti Veyron. Because of its W 16-cylinder engine with 7,993 cc displacement, a thunderclap would be heard from afar, while thanks to a tremendous acceleration the founder of Futurism would be whizzing along the roads of Italy from 0-100 km in just 25 seconds. Wrapped inside an avant-garde body of special light metal alloys, sophisticated German technology and exclusive luxury leatherwork, our Marinetti would be truly proud and excited to be “riding” such a formidable stallion, only a very few pieces of which were made for each series produced. A true work of art! Born in 1909 to Ettore Bugatti and now the property of the Volkswagen group, the French car manufacturing company celebrated its 104th birthday by receiving recognition as an icon for car manufacturers the world over, because of the quality and authenticity of its models. So unique and unbeatable as to challenge even Euro fighter Typhoon aircraft, as reported by our colleagues from Top Gear; it did not manage to win but anyway put on a good show even against a jet. The car is wholly handmade in the factory of Molsheim in France, the company headquarters, and it takes its name from the driver Pierre Veyron who won the Le Mans 24-hour race in 1939, in fact driving a Bugatti. The project was begun in 1999 but production began only in 2005, the year in which the first cars were delivered to the rich clients who had been patiently awaiting them. A decidedly important purchase: one million euros in exchange for a dream car, with a guarantee of 2 years or 50,000 km; strictly two-seater and dedicated to those who are not afraid of speed and are prepared to ‘fly’ at 415 km/h. There has been a succession of many models over the last few years, from the coupé to the roadsters, to the special versions, as for example the Bugatti Veyron Gard Sport L’Or Blanc, created in collaboration with the German firm Königliche Porzellan-Manufaktur, with white porcelain interior and exterior decorations. A version decidedly beyond all imaginings, with the (almost) prohibitive cost of 1 million 650 thousand euros. But if you are thinking of saving up to make this mad purchase, put your mind at rest, and your wallet back in your pocket: the Oro Bianco version had already been sold just a few hours after its official presentation in Berlin. Talk about luxury knowing no crises! www.bugatti.com

Creativity, uniqueness, purity of materials and attention to detail. These are the ingredients of the success of Athena, the jewellery firm from Misano Adriatico which has become famous in Italy and Europe for its artisanal collections in silver 925 natural. The company founded by Silvio Muratori has been on the market for almost 30 years with men’s, women’s and children’s collections. Muratori has had a true passion for handicraft, which has transformed him from qualified mechanic into a craftsman who is “obsessively” attentive to details, because as he himself says: “the challenge is to invent and reinvent always. I minutely observe what the other goldsmiths and jewellers are making so as to avoid creating a duplicate or something already seen. My true aim is to understand the soul of the product, always trying out something new”. Taste, style and fashion. Very often these words lose their unequivocal meanings and become flexible, confused definitions. What’s style for you? An emotion, a pleasant memory, a way of crystallising the joy of an instant. The stylish jewel has the noble task of trapping a positive memory in an object which becomes a life companion, not a trendy trinket to be changed every season. Style is the antithesis of that fashion which imposes dictates at all creative levels: from the model, to the composition, to the choice of materials. This “globalising” tendency of fashion is even applied to silver. Let me give an example: a couple of years ago, fashion was proclaiming the return of yellow-gold. Manufacturers and retailers were calling for coated silver. Then it was the year of pink gold (which does not exist in nature). Silver too has lived through its “female” period, adapting itself to the trend of the moment. Despite all these waves of taste which have swept over us, we have always stayed faithful to our production philosophy: to make objects in natural metal, that is to say white silver, which distinguish themselves for their uniqueness and refined details, regardless of any momentary, heavily-promoted style fetish. The Latin word Argentum means “glowing”, “bright”, “white”. Do you see these meanings in your production? Certainly. My collections are the result of the search for the soul of silver, of its purest nature. Because beauty lies only in natural things. If they aren’t galvanic, what makes your collections unique? The various techniques we use. Like the shiny/opaque contrast or the moulded tracery which is made with a very particular technique, a mixture of laser punching and moulding. This allows us to combine

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the innovation of the laser with the tradition of artisanal moulding to obtain highquality, unique pieces, each one different from the other. Precious stones and silver. Love or hate? I’d call it a “marriage which must not take place” (ndt. quotation from Manzoni’s novel “The Betrothed”). In fact, we created a line called Bizzarre, in which we joined silver to precious stones to make animals for rings and pendants. It didn’t work for two reasons. First the cost: inserting precious stones raised the price so much as to make it inaccessible for our base clientele. Secondly and more importantly, the lack of respect for our special production philosophy: enamels and precious stones are just frames for the purity of the silver, which must be the absolute protagonist of the object. Our clients appreciate and ask for the candour of the precious, pure metal. Stefano Micelli, Professor of Economics and Company Management at the University of Ca’ Foscari of Venice talks of craftsmanship as the new system for getting the economy going again. The 3.0 economy would start from the Made in Italy model. What do you think about this? I absolutely agree. The true Made in Italy product is a feather in our cap which should be promoted, re-appreciated and not allowed to be dislocated abroad. The true Made in Italy product must be wholly produced and finished in our country so that the high quality standards which distinguish us from low-cost competition are respected. Nowadays we’re lowering our standards, relying more on form than substance. Want an example? At the jeweller’s we find brass products which careful marketing campaigns have wrapped in an aura of fascination; or in semiprecious bronze, or copper and brass alloy with a hint of silver. Where’s the quality in that? What are consumers buying? There’s no other answer; the only way to get out of this economic and cultural crisis is to reactivate a kind of genuineness and creativity which is uniquely Italian. www.athenagioielli.it

page 42 Be(ij)ing Future by Ilaria Sartori

aperitivoillustrato.it / part 3

english texts/ by Susan Charlton


L’Aperitivo Ill u s t r a t o quarterly

Synthesis of art, form & content.

61th issue_spring 2013_ white silver_the syn­ thesis Rivista di tendenza culturale. Fondata nel 2007. Anno VII. Casa editrice: Greta Edizioni. Testata di proprietà' di Bildung Inc. srl. Registrazione presso il tribunale di Ancona n. 01/07 del 16/01/07. Distribuito in edicola, libreria e bookshop museali a euro 12,00. Redazione: via degli Abeti 104, 61122 Pesaro (PU) Italia. tel. +39 0721.403988 fax 0721.17992507 Diretto da (designer editoriale) Christina Magnanelli Weitensfelder UFFICIO CENTRALE Direttore responsabile Rachele Bifolchi bifolchi@aperitivoillustrato.it Caporedattore centrale Luca Magnanelli Weitensfelder Segreteria Ilaria Sartori redazione@aperitivoillustrato.it per questo numero hanno scritto: Benedetta Alessi, Alessandro Antonioni, Marco Apolloni, Margherita Bai, Giacomo Belloni, Nicola Bustreo, Martina Cecchini, Gaia Conti, Gardenia Costantini, Giacomo Croci, Michele De Luca, Alessandro Di Caro, Isabella Dionisio, Lucia Evangelisti, Luigi Farresin, Monica Fior, Marta Franchini, Maria Stefania Gelsomini, Fili ppo Guerriero, Christian Leoni, Valentina Majer, Valerio Marconi, Gian Ruggero Manzoni, Greta Marinetti, Marco Pane, Giacomo Maria Prati, Ferdinando Ricci, Vincenzo Rizzo, Giorgio Rotta, Adele Rossi, Chiara Serri, Marilena Severini, Andrea Tessadori, Chiara Vecchio Nepita, Alberto Zanchetta, Roberta Zanutto, Bianca Maria Zini.

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Chi dice che l'arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue. Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, 1952

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