Roberto Salbitani e l’immagine capovolta.
A cura di / Curated by Vincenzo Circosta, Marco Vincenzi, Christina Magnanelli Weitensfelder
MOSTRA / EXHIBITION Il presente catalogo è pubblicato in occasione della mostra / This catalogue is published on the occasion of the exhibition: Roberto Salbitani e l’immagine capovolta. A cura di / Curated by Vincenzo Circosta Marco Vincenzi Christina Magnanelli Weitensfelder
Organizzata da / Organized by BAG Photo Art Gallery via degli abeti 102 Pesaro - Italy ph. +39 366.1977633 bag@bildungartgallery.com www.bildungartgallery.com Sedi Espositive / Exhibition venues Bag Photo Art Gallery – via degli Abeti 102 – Pesaro – Italy Chiesa Di Santa Maria Maddalena – via Zacconi – Pesaro – Italy 17 maggio 2014 - 22 agosto 2014 17 may 2014 - 22 august 2014
CATALOGO / PUBLICATION Direzione editoriale / Publishing direction: Christina Magnanelli Weitensfelder Direttore di produzione / Production direction: Roberto Palumbo Progetto grafico / Graphic design: Bildung Inc. (bildung-inc.com) Traduzione inglese / English translation Claudio Capitani Testi / Texts by: Christina Magnanelli Weitensfelder Marco Vincenzi Roberto Salbitani Vincenzo Circosta Immagini e opere / Images and artworks: Studio Roberto Salbitani Nessuna parte della pubblicazione può essere riprodotta e/o trasmessa in qualsiasi forma, mezzo elettronico o meccanico o altro senza l’autorizzazione dei proprietari dei diritti e dell’editore. No part of the publication may be reproduced and/or stored in a retrieval system or transmitted in any form or by any means without the prior permission in writing of copyright holders and of the publisher. Tutti i diritti sono riservati. / All rights reserved. GRETA EDIZIONI ISBN 978-88-908201-7-5 Stampa / Print by: Graffietti Stampati Finito di stampare nel mese di aprile 2014 / Printed in April 2014 A cura di / Curated by: Bildung Inc. per Greta Edizioni. Printed in Italy.
gretaedizioni.com via degli abeti 104 61122 Pesaro (Italy) ph. +39 0721.403988 greta@gretaedizioni.com
Il pugno del fotografo di/ by Christina Magnanelli Weitensfelder
“Il fotografo è un creativo, non quando entra nel mondo dell’arte con il solo approccio alla macchina fotografica, ma quando interagisce con più discipline”. Salbitani mi ha colpito per il fare da artista della “vecchia guardia”, ruvido nella comunicazione e poco incline al compromesso, di chi progetta nella propria mente e sviluppa tramite la ricerca e la sperimentazione. L’iter di Salbitani parte da un’introspezione che muta nell’ idea e che attraverso l’esecuzione, sublima in un’importante sintesi estetica. Divagazioni tra reale e irreale con un equilibrio perfetto tra i toni di grigio ed i neri profondi. Per citare Federico Zeri “l’arte o ti da un pugno nello stomaco o ti trascina dentro”: evidentemente siamo in presenza di ambedue le conseguenze descritte da Zeri, addentrandoci nelle immagini fumose e fangose, forgiate da un perfetto mix di tecnica e sperimentazione di Salbitani. L’estetica morbida funge da passaggio ai concetti decisi. L’esempio perfetto è proprio il lavoro dal titolo “Autismi” presentato in occasione della mostra “Roberto Salbitani e l’immagine capovolta”, alla quale è dedicato questo catalogo. Di Roberto Salbitani non scopro soltanto la potenza fotografica, ma il suo pensiero di vita, da sé stesso convertito in pensiero filosofico e che la Bag Photo Art Gallery vuole diffondere nel suo percorso. Ospitare le sue opere rappresenta per la galleria anche un’evoluzione culturale, che Goethe identificava con il termine “bildung” dedicato ad un ideale di uomo integrale, capace di accordare in sé sensibilità e ragione, di sviluppare sé stesso in piena libertà interiore e di organizzarsi attraverso un vivo rapporto della cultura, come personalità armonica.
photographer’s punch ‘The photographer is creative, not when he enters the world of art solely with the camera, but when he interrelates with multiple disciplines.’ Salbitani struck me as an artist of the ‘old guard,’ coarse in communication and unwilling to compromise, one of those who plans in his mind and develops through research and experimentation. Salbitani’s modus begins with an insight that transforms into an idea and through its execution sublimates into a significant aesthetic synthesis. An interplay between the real and unreal with a perfect equilibrium between tones of greys and deep blacks. To quote Federico Zeri “art either gives you a punch in the stomach or drags you inside”: evidently we are experiencing both of the consequences described by Zeri when venturing into the smoky and muddy images, forged by the perfect mix of art and experimentation in Salbitani’s photographs. The soft aesthetic acts as a gateway to decisive concepts. The perfect example of this is the work entitled “Autismi” (Autisms) presented on the occasion of the exhibition “Roberto Salbitani e l’immagine capovolta” (“Roberto Salbitani and the overturned image”), to which this catalogue is dedicated. Not only do I discover the power of photography in Roberto Salbitani, but also his way of thinking about life, converted by him into a philosophy which the Bag Photo Art Gallery wants to disseminate. Hosting his works is for the gallery a cultural evolution, one which Goethe defined with the term “bildung” dedicated to the ideal of the integrated man, capable of reconciling within himself sensitivity and reason, to develop himself in full inner freedom and to organise himself through a living relationship with culture, as an harmonic personality.
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Autismi di/ by Marco Vincenzi
Amo la “makkina”, come la chiama Roberto Salbitani, ma comprendo il perché del suo pensiero. La amo per la libertà che mi ha regalato e che non avevo prima di utilizzarne una; quella di potermi muovere con rapidità, nelle distanze, senza dipendere da altri; quella di poter essere da solo, protetto in uno spazio privato e, contemporaneamente, in mezzo alla gente, nelle città, sulle strade, oppure negli spazi della “natura”, vicino ad essa, protetto da essa, ma capisco come Roberto Salbitani abbia costruito il suo dissenso. Amo restare solo, chiuso dentro l’automobile, che al tempo stesso è aperta allo sguardo, sia esso fermo o in movimento; uno sguardo che per me, il più delle volte, è possibilità per un pensiero creativo, ma mi rendo conto che il punto di vista offertoci attraverso “Autismi” è concreto e saggio, seppur diverso dal mio. Ne comprendo il senso, dicevo, quello sociale, e l’analisi personale che riflette, anche se io e Roberto siamo differenti, per cultura, provenienza, stile di vita e per generazione. Comprendo anche che questa mia posizione possa essere conseguenza di ciò che lui definirebbe una trasformazione indotta (plasmata, forse) dai cambiamenti dovuti all’introduzione nella vita sociale delle makkine, che hanno spostato l’attenzione dall’essere umano alla produzione, al consumo. Di certo, della makkina non amo le esibizioni, le marche, le prestazioni e le forme, non m’interessano, e convengo con Roberto sul fatto che è diventata un simbolo, il “sacro totem del nostro tempo” e che rappresenta la volontà di potenza dell’uomo moderno, ma per me ha solo un valore d’uso. Questo lavoro fotografico è stato realizzato nei dieci anni che stanno a cavallo tra gli ultimi due secoli (1997-2006), quando l’autore aveva appena concluso l’esperienza svolta, per altrettanti anni, a Mogginano, in provincia di Arezzo, in una fattoria, tra i pascoli degli animali, i campi coltivati e i boschi, dove fondò e condusse in prima persona le attività della Scuola di fotografia nella natura che, come scrive Roberta Valtorta, nel libro a lui dedicato “Roberto Salbitani. Storia di un viaggiatore”, nasce da un’esigenza di isolamento, in un periodo storico, gli anni Ottanta, caratterizzati dal riflusso e dalla perdita del senso per il lavoro collettivo, che anche Salbitani aveva abbracciato in precedenza, condividendo attività e riflessioni con un gruppo di fotografi, quelli che scrissero la storia della fotografia italiana di quel periodo. Gli anni che seguono questa esperienza di scuola non accademica sono molto meno stanziali per Roberto Salbitani; sono anni che lo vedono condurre l’attività di fotografo e, in particolare,
l’insegnamento, in diverse località della nostra penisola. Non penso sia stato un caso che abbia sviluppato una riflessione visiva sul più diffuso mezzo di trasporto utilizzato dalla gente nella nostra società, proprio in quegl’anni. Le prime fotografie di “Autismi” vengono infatti scattate a Bologna, nel 1997, mentre stava realizzando un’attività con degli studenti, per un progetto che lo vide impegnato come insegnante in uno stage che si svolse in quella città, solo occasionalmente. Il titolo del lavoro, mi ha spiegato Roberto, nasce da un’associazione fatta con la condizione che vivono le persone autistiche, perché quando siamo chiusi in auto, restiamo in quell’abitacolo come se fosse un tutt’uno con noi stessi, perdendo il contatto diretto (e “vero”) con la realtà. È un po’ come ritrovarsi nell’utero materno, dove non è ancora possibile costruirsi una vita interiore propria. Quello messo in immagine con “Autismi” è uno sguardo dal carattere sociologico, perché propone un pensiero generalizzato, pur riflettendo il punto di vista personale dell’autore, portato con lo stile che lo caratterizza e che lo connota, in una forma rigorosamente creativa, come si addice all’espressione artistica. Scure fotografie in bianco e nero che, a prescindere dai soggetti trattati, evocano la pregnanza del petrolio; il nero petrolio da cui prende forma il carburante che muove le automobili. Mi verrebbe da dire che in questo suo lavoro, Roberto Salbitani mette in secondo piano la dimensione introspettiva in senso stretto, la ricerca che parte dalla sua esigenza d’espressione rivolta al rapporto personale con la vita, quello intimo, per favorirne uno più attento alla dimensione collettiva, così come era stato anche nell’approccio utilizzato per il suo primo lavoro fotografico, “La città invasa”, realizzato nei primi anni Settanta. Con questo, intendo dire che “Autismi” è il lavoro di un fotografo che si interroga sulla nostra società contemporanea, quella precedente l’insorgere della crisi economica, che ancora ci attanaglia, quella fatta e dominata dai consumi, che in quel periodo sono ancora il “vero” simbolo dell’esistenza umana. Salbitani lo fa per mostrarne il limite, per indicarne, dispiaciuto, affranto, la povertà nei valori, per metterci in allarme verso quelli che ritiene essere dei simboli “negativi” di questa nostra civiltà. Ci mostra, attraverso l’automobile, una società che mette in scacco l’essere umano, lo reclude in un ruolo subalterno, dipendente in modo inconsapevole dalle ossessioni indotte e dagli oggetti che diventano il surrogato delle opportunità umane, e a cui andiamo affidando funzioni e sentimenti essenziali, come sono l’amore, la carnalità del
sesso, la “natura” più profonda di cui è fatta la nostra identità. Immagino che per Roberto anche il mio modo di concepire l’uso dell’auto, di valorizzarlo nei significati, quelli che ho indicato e che sono andati assumendo per me e per la mia vita, sia una forma di dipendenza, una deformazione inconsapevole dell’esistenza, che altrimenti avrei potuto vivere. Ma l’esistenza che mi sarebbe stata offerta da una vita maggiormente libera dalle makkine e più vicina alla “natura” è quella di un pensiero al passato che, come anche Salbitani scrive, oggi non è più possibile, perché oggi “non possiamo non vedere (che) automobilisticamente… le facoltà dello sguardo, il modo di guardare (e di essere) di tutti noi è già cambiato e sta continuamente cambiando, che sia l’uso del televisore o quello dell’auto a determinarlo” quindi, non ci resta altro da fare che assumercene la responsabilità prendendone coscienza piena, quantomeno per evitare che continui ad accadere tutto ciò che “Autismi” ci mostra essere accaduto: alienazione e morte. Roberto Salbitani, con questa sua opera fotografica, ci offre la possibilità di fruire della sua profonda meditazione sullo stato delle cose; una condizione che l’uomo è portato a non osservare, perché ingabbiato nel flusso del tempo che scorre veloce insieme a sé stesso, non permettendogli di vedere le cose che stanno accadendo in maniera riflessiva e critica. Questa nostra incapacità di vedere e di comprendere accresce la paura in chi, come Salbitani, è allarmato per lo stato in cui abbiamo ridotto il nostro ambiente e per la deriva che, anche attraverso l’uso delle auto, ci si prospetta, ormai quasi inevitabilmente, con fredda violenza. Aggrappati ad un’appartenenza sociale ormai stereotipata e disumanizzata, osserviamo le fotografie di Roberto Salbitani come fossero dei fantasmi e, forse, non comprendiamo come, invece, sono solo la fotografia del nostro vivere quotidiano fatto di luccichii, come luccicano le carrozzerie delle auto nuove, ma anche di morte, com’è quella che, sulle strade o nelle nostre menti, vanno causando le “Makkine”.
“I miei soggetti di osservazione sono stati, sono tutt’ora, la “makkina” e la strada (…), soggetti opachi alla percezione e alla coscienza dell’uomo contemporaneo. Divenuta ormai un prolungamento “naturale” del nostro corpo e del nostro modo di vivere, la “makkina” viene qui pedinata durante le sue più sfrontate esibizioni, in quanto insuperato idolo di massa, sacro totem del nostro tempo; ma anche come strumento in grado di tingere di atmosfere funebri i luoghi del nostro passaggio (…), un’arrogante cabina di regia di una capsula sospesa in un etere tutto suo. Indifferente alla gravità, al pulsare del paesaggio circostante.” Roberto Salbitani, 2006
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05 “My subjects of observation have been and still are the “makkina” (car) and the road ( … ), subjects opaque to perception and the consciousness of contemporary man. Having by now become a “natural extension” of our body and our way of life, the “makkina” is followed for its more ostentatious performances, being an unrivaled idol of the masses, a sacred totem of our time; but also as a apparatus able to taint our places of transit with funereal atmospheres (...), an arrogant control room of a capsule suspended in a self-contained ether. Indifferent to gravity, and to the pulse of the surrounding landscape. Roberto Salbitani, 2006
AUTISMS I love the “makkina” (car), as Roberto Salbitani calls it, but I understand his reasoning. I love it for the freedom that it gives me that I did not have before I started using one; that of being able to move quickly, into the distance, without depending on others; the freedom of being able to be alone, protected in a private space, whilst at the same time being, in the midst of people, in the city, on the streets, or close to “nature”, protected by it, but I understand how Roberto Salbitani has built his dissent. I love to be alone, locked inside the car, which at the same time allows me to look out, whether it is stationary or in motion; a outlook that for me, more often than not, is an opportunity for creative thinking, but I concede that the point of view offered to us through “Autisms” is concrete and wise, albeit different from mine. I understand the sense, namely, the social significance, and the personal analysis that it reflects, although Roberto and I are different in culture, origin, lifestyle and generation. I also understand that my position might be the consequence of what he would call an induced transformation (moulded, perhaps) due to the introduction of changes in the social life by makkine (cars), which have shifted the focus from the human towards production and consumption. Certainly, with regard to the makkina I do not like the exhibitionism or the brands, and their form and performance do not interest me, and I agree with Roberto that has it become a symbol, the ‘sacred totem of our time’ that represents the need for power of modern man, but for me it has only one value, its use. This photographic work was achieved in the ten years that straddle the last two centuries (1997-2006), following a similar period in Mogginano, in the province of Arezzo, on a farm, with livestock, cultivated fields and woods, where he founded and led in person the activities of the Scuola di Fotografia nella Natura (School of Photography in Nature), Which, as Roberta Valtorta writes in the book dedicated to him, “Roberto Salbitani. Storia di un Viaggiatore” (“Roberto Salbitani. Story of a Traveller”), originates from a need for isolation, in an historical period, the eighties, characterized by the reflux and the loss of the sense for collective work, which Salbitani had previously embraced, sharing activities and reflections with a group of photographers, those who wrote the history of Italian photography in that period.
The years following this experience of nonacademic schooling are much less stationary for Roberto Salbitani; they are years that saw him occupied as a photographer and, in particular, teaching photography in different locations in Italy. I do not think it was a casual occurrence that precisely in that period he undertook a visual scrutiny of the most widely used means of transport used by the people in our society. The first photographs of “Autismi” are in fact taken in Bologna, in 1997, while he was carrying out an activity with students, for a project that saw him engaged as a teacher in a course that only occasionally took place in that city. Roberto explains that the title of the work stems from an association with the condition that autistic people experience, because, when we are closed up in a car, we remain in the compartment as if enclosed within ourselves, losing direct contact with reality. It’s a bit like finding yourself in the maternal uterus, where it is not yet possible to build an inner life of your own. What the images of “Autismi” illustrate is a sociological perspective, because it proposes a generalized standpoint, whilst reflecting the personal viewpoint of the photographer, conveyed with a style that characterizes it and connotes it, in a rigorously creative way as befits artistic expression. Dark black and white photographs that, regardless of the subjects treated, evoke the poignancy of oil; the black oil from which is derived the fuel that moves cars. I am tempted to say that in this work, Roberto Salbitani subordinates the introspective dimension in the strict sense, the search starts from the need to express his personal relationship with life, the intimate one, in order to facilitate an attentive attitude to the collective dimension, which was the approach used for his first photographic work, “La città Invasa”, (“The invaded City”) in the early seventies. By this, I mean that “Autismi” is the work of a photographer who interrogates himself about the nature of our contemporary society, the one prior to the onset of the economic crisis that still besets us, the one dominated by consumption, which at that time was still the ‘true’ symbol of human existence. Salbitani does it to show the limit, to indicate the, disenchanted, distraught, poverty in values, to alert us to what he considers to be the ‘negative’ symbols of our civilization. He shows us, through the car, a society that restricts the human being, relegates him to a subordinate role, unwittingly dependent on the obsessions
induced by the objects that become the surrogate for human opportunity, and to which we entrust essential feelings, such as love, the carnality of sex, the profound ‘nature’ of our identity. I imagine that for Roberto my way of conceiving the use of cars, enhancing its significance in the way I have indicated and the connotations the use of the car has assumed for me and for my life, is a kind of addiction, an unwitting deformation of the existence I could otherwise live. But the existence that I would have been offered by a life free from makkine and closer to ‘nature’ is that of a retrospective vision that is no longer possible today because as Salbitani himself states, “we cannot but fail to see (that) the way we perceive, the way we observe (and exist) has already changed all of us and is continually changing, be it determined by use of the TV or the car” therefore there remains nothing more to do than to take responsibility with full cognition, at the very least to prevent a continuing recurrence of what “Autismi“ shows to have happened: alienation and death. Roberto Salbitani, with his photographic work, offers us the possibility of benefiting from his profound meditation on the state of things; a condition that man is inclined to ignore, because he is caught up in himself rushing around in the flow of time, not allowing himself to take stock of what is happening in a reflective and critical manner. Our inability to see and understand heightens fear in those who, like Salbitani, is alarmed by harsh reality of the state in which we have reduced our environment through the use of cars. Clinging on to a stereotyped and dehumanized social status, we look at the photographs of Robert Salbitani as if they were ghosts, and perhaps we do not understand how, instead, they are just the photos of our daily life made up of shimmers, like the glistening bodies of new cars, but also of death, like the one on the streets or in our minds, caused by the “Makkine”.
Venezia.
Circumnavigazioni e derive di/ by Roberto Salbitani
Con l’idea di città, con il concetto che normalmente applichiamo a questo termine, Venezia ha poco da spartire. Questo non è un luogo per svolgervi mansioni quotidiane, attuare comportamenti e adempiere a funzioni canoniche come se si trattasse di una città qualsiasi. O, per meglio dire, sarebbe come avere a disposizione un tesoro ed accontentarsi della cassetta che lo contiene. No, Venezia è l’occasione imperdibile per evadere dal carcere di quelle che chiamiamo ancora “città” e fare un volo a ritroso nel tempo per ritrovare il luogo d’origine: le terre circondate dalle acque madri da cui è partita l’avventura di una comunità in cerca di una protezione dalle insidie della terraferma. Credo non si sia ancora dato il giusto risalto alla storia degli sforzi e delle astuzie che hanno compiuto gli uomini per guadagnarsi uno spazio dove mettersi in salvo e, insieme a questa, alla geografia delle paludi e di tutti i luoghi impervi che hanno assecondato questa loro lotta per la sopravvivenza. Non nascondiamoci oggi dietro la città ridotta ad attrazione turistica: arrendersi alla supremazia del botteghino vorrebbe dire permettere che ci srotolino davanti agli occhi i fotogrammi di una cecità fattasi anch’essa sistema. Venezia è, si, il luogo per eccellenza della visibilità al culmine del suo splendore, ma è un posto dove potremmo vagare anche tenendo le palpebre abbassate. C’è cibo per tutto lo spettro dei nostri sensi. Se mi muovo di notte nelle calli più buie, sono gli sciacquii, le brezze, l’eco attutita di suoni tra terra e acqua, il risveglio brusco e anche inquietante di odori dimenticati a farmi sentire il sottosuolo che si cela ancora nel profondo del mio organismo. Certo, c’è sentore di stagnazione ma per non restare avvolto nella morsa dell’umido posso sempre riemergere all’aria aperta, all’azzurro pulito del cielo, che poi qui è il premio che spetta a chi è riuscito a trovare la via d’uscita dal labirinto. Se di Venezia percepisco solo la frontalità dei monumenti che intendono glorificarla, so di tradirne quel diffuso spirito di sfida che qui si può cogliere dappertutto, anche nei manufatti apparentemente più insignificanti. L’equilibrio è delicato perché l’ossatura è fragile: chi vive qui sa che non abita una città ma un’opera d’arte.
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Non c’è cosa peggiore di accettare passivamente una fine già annunciata. Ogni volta che rivedo questa che è divenuta la mia terra d’elezione, e iddio sa se sono in buona compagnia, ritrovo le mie energie migliori come a voler ringiovanire il suolo che calpesto. Da ogni dove mi perviene qui un unico messaggio: resistere. Il presente non sopravvive a Venezia, è la più grande delle illusioni dato che in un batter d’occhio ritorna subito passato. L’arma comunque più sovversiva con cui attuo una costante rianimazione di ciò che incontro è quella con cui curo me stesso, e cioè la mia immaginazione. È a lei che devo l’abbattimento delle facciate che mi vogliono solo spettatore, è per mezzo suo che scoperchio le cupole e apro brecce nei mattoni sfarinati per spingermi oltre nella visione. Affidandomi alla lentezza del passo e dell’osservazione circumnavigo le isole da viaggiatore ma mi accorgo da una vita che sono cerchi che riapro incessantemente. È nel piacere vivo di ritrovare delle sensazioni uniche che finisco per ritornare e ritornare, e per uno che non ha mai pensato ad una casa tutta sua è come averne una da abitare viaggiando, con l’acqua che ti scorre eterna sotto i piedi e che proprio per questo ti dà tutto il piacere e anche l’illusione di approdare ad un suolo duro. Intanto le nuvole, mai così alte e pure sopra la mia testa, mi traghettano di qua e di là, anche loro come prese dentro una centrifuga, ma lentissima. Sono a perfetta misura del mio scomparire girovagando. Lo avevo premesso all’inizio: non si tratta semplicemente di una città. Mi vedo camminare fino alla fine di una fondamenta che dà sul mare aperto. Ora, mentre sto scrivendo, mi sembra di intravederle quelle primitive lingue di terra e di mare che l’uomo ha costretto ad una impossibile alleanza per potervici abitare ed erigere templi. Isole, lembi di laguna, correnti marine a cui tutto un giorno ritornerà, cosi come da lì un giorno ormai lontano tutto è sorto. Con tutta evidenza non è un caso se, proprio perché quelle terre erano così monotonamente piatte, Venezia ha preso un tale slancio verso il cielo. E su una tale ostentazione di gloria politica, artistica e religiosa potranno un giorno rifluire le
maree come se niente fosse stato? Venezia l’ho sempre spiata fin da quando da ragazzo marinavo le lezioni dell’istituto tecnicoindustriale di Mestre. Era la mia libertà di spostamento ma soprattutto di deviazione dal percorso di simil-schiavitù a cui ero stato destinato. Mi affascinava perdermi nel sogno di quella grande conchiglia che già allora non mi sembrava per niente essere una città. Troppo imprevedibile, completamente fuori del tempo, come io un pochino lo ero, anzi, lo ero molto, e del tutto fuori centro rispetto ai bersagli che avrei dovuto colpire appena avessi messo piede nella vita. Quella vera, quella che hanno sempre in testa gli altri e mai voi. Così ho finito per essere talmente venezia-dipendente da finire per confondere il destino di questo luogo con il mio. Vengo qui come si va all’esistenza, ma forse con un senso di malinconia per come diversamente avrebbero potuto andare le cose. Non so se in questa esposizione e nel libro che l’accompagna c’è traccia di quello che sono andato qui dicendo. Se non ce ne fosse, se non in minima dose, non ne sarei affatto stupito perché se qualcosa ho capito in quarant’anni di fotografia è che anche le vie fotografiche sono vie tortuose. D’altronde si sa che le parole hanno un immaginario tutto loro. Forse ha un senso dire che anche questi miei bromuri d’argento sono delle isole che affiorano sul pelo del loro bagno rivelatore, prima di asciugarsi e farsi finalmente suolo: “ […] Venezia mi appare come una grande imbarcazione circolare che trasuda tempo e memoria, la cui stiva è una pancia affaticata dal troppo umano, dal troppo fango che si sedimenta in lei. Balena galleggiante, filtra un flusso ininterrotto di immagini. Oltre all’acqua, Venezia imbarca immaginazione. Incatenate a fatica agli ormeggi, la “città” e le sue immagini - corpo unico - vanno lentamente alla deriva nella mente di qualsiasi viaggiatore in fuga dalla stagnazione per il mare aperto. […] Un libro di immagini raggiunge il suo porto se è in grado di aprirsi all’esplorazione altrui: perché l’immaginazione non si ferma mai, perché è l’unico fenomeno che ci fa sentire davvero liberi. Non mi dedicherei alla fotografia se non presumessi che i bromuri sono al tempo stesso fango ed argento vivo”.
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Venice. Circumnavigation and drifts Venice has little or nothing to do with the notion of a city or the concept that normally is applied to this term. It is not a place to pursue daily tasks, carry out activities and fulfil canonical functions as if it were any other city. Or, better said, it would be like possessing a treasure and settling for the box that contains it. No, Venice is an opportunity to escape from the prison of what we call “the city”, and step back in time to rediscover the place of origin: lands surrounded by the source water from which began the adventure of a community seeking protection from the dangers of the Mainland. I don’t think history has done justice to the efforts and the schemes that were instigated by men to create a space in which to save themselves or to the geography of the marshes and all the inaccessible places that abetted their struggle for survival. So, today lets not hide behind a city reduced to a tourist attraction: surrendering to the supremacy of the box office would be to allow the rolling out before our eyes the photograms of a blindness which has become systemic. Yes, Venice is the place par excellence of visibility at the height of its splendour, but it is also a place where we could wander about with lowered eyelids. There is nourishment for the whole spectrum of our senses. If I move at night in the darkest allies, it is the lapping water, the breeze, the muffled echo of sounds between land and water, the harsh impact of forgotten and disturbing odours that brings me into contact with a subsoil that still lurks deep in my soul. Of course, there is a hint of stagnation but to escape the clutches of dampness I can always re-emerge in the open air, clean blue of the sky, which is the reward for those who manage to find their way out of the labyrinth. If the only aspects I perceive of Venice are the facades of the monuments that glorify her, I know I am betraying the common spirit of challenge that is palpable everywhere, even in the most seemingly insignificant artefacts. The balance is delicate because the framework is fragile: those who live here know that they don’t live in a city but in a
work of art. There is nothing worse than passively accepting a preannounced conclusion. Every time I reappraise what has become my adopted land, and god knows if I’m in good company, I feel reenergized as if by a desire to rejuvenate the soil I walk on. From every angle I receive a single message: resist. The present does not survive in Venice; it is the biggest illusion because in the blink of an eye it becomes the past. However, the most subversive weapon I use to constantly revitalize what I encounter is one that I use to take care of myself, namely my imagination. It is this that allows the demolition of facades that want to force me into the role of a mere spectator; it is my imagination that helps me to uncover the domes and open gaps in the crumbling bricks so that my vision can penetrate further. Entrusting myself to the slow pace of observation I circumnavigate the islands as a traveller but I realize that I am endlessly reopening circles. It is the pleasure of rediscovering unique sensations that brings me back over and over again and, for someone who has never thought of having a house of his own, it is like having one to live in while traveling, with water flowing eternally under your feet and it is precisely for this reason that one derives all the pleasure and the illusion of landing on solid ground. Meanwhile the clouds, ever so high and far above my head, ferry me to and fro, and even they seem to be in a centrifuge, but a very slow one. They are in perfect measure with my wandering disappearance. As I stated at the outset this is not just a city. I see myself walking up to the end of a platform overlooking the open sea. Now, while I’m writing, I think of those primitive ridges of land and sea that man forced into an impossible alliance to make it habitable and to erect temples. Islands, banks of the lagoon, sea currents to which everything one day will return, in the same way as in the distant past everything arose. It is apparently not a coincidence that, precisely because those lands were so monotonously flat, that Venice took such a momentum towards the sky. And will it be over such ostentation of political, religious and artistic glory, that, some day, tides will flow as if nothing had ever happened?
I have always spied on Venice since as a boy I absorbed the lessons at the technical-industrial institute in Mestre. It was my freedom of movement but, most of all, a deviation from the path towards a slave-like destiny. It was fascinating for me to lose myself in the dream of that big shell that even then did not seem at all to be a city. Too unpredictable, completely out of time, as I was a little, indeed, a lot, and completely off target in respect to the objectives that from birth I was expected to aim for in life. The real life, the one that is always in the mind of others and never yours. So I ended up being so Venice-dependent as to end up confusing the fate of this place with my own. I come here as one comes into existence, but perhaps with a sense of melancholy for how things could have been otherwise. I do not know if in this exhibition and the book that it accompanies there is a trace of what I went on to say here. If there is not, except in a small dose, I would not be at all surprised because, if I’ve learned anything in forty years of photography, it is that even the byways of photography are tortuous. On the other hand we know that words have an imaginary significance of their own. Maybe it makes sense to say that even my silver bromides are islands that emerge on the surface of their development solution, before finally drying and becoming solid ground. [ …] Venice appears to me like a large circular vessel that exudes time and memory, whose hold is a belly fatigued by too much humanity, from too much mud that deposits in her. A floating whale, filtering an uninterrupted flow of images. As well as taking in water, Venice takes in the imagination. Chained with fatigue to the moorings, the ‘city’ and its images – an integrated entity - slowly drift into the mind of any traveller who is trying to escape from stagnation to the open sea. […] A picture book reaches its port if it is capable of opening itself up to exploration by others: why does the imagination never stop, because it is the only phenomenon which makes us feel really free. I would not dedicate myself to photography if I did not presume that the bromides are both mud and Quicksilver“.
Roberto Salbitani di/ by Vincenzo Circosta
Artista tra i più interessanti nel panorama fotografico nazionale Roberto Salbitani inizia il proprio viaggio fotografico agli inizi degli anni Settanta, diventando così uno dei maestri della fotografia italiana contemporanea. La parola “viaggio” non è usata a caso ma contestualizza il percorso iconografico del maestro. Come afferma lui stesso in una recente intervista il proprio cammino parte dalla provincia padovana, in cui egli nasce e vive, per i primi anni della sua esistenza, a contatto diretto con la natura e preparandosi psicologicamente ad affrontare la città che avrebbe dovuto poi accoglierlo. Nel suo trasferirsi ricorrente e nel susseguirsi dei suoi viaggi, in Italia e per il mondo, Salbitani usa la macchina fotografica come mezzo catartico tra il suo essere puro e la realtà di un progresso inevitabile quanto a volte invasivo, o come se fosse un suo personale mezzo di dialogo con l’esterno. La sua arte diventa così testimonianza di una metamorfosi sociale immortalata con il proprio strumento e la fotografia diventa una compagna indispensabile per il proprio cammino professionale. In questo lungo itinerario l’uomo rimane l’essere da salvaguardare. Le immagini che ne escono sono fotografie che parlano di vita, una vita sospesa tra l’onirico ed il surreale stampate con grande maestria in analogico ai sali di bromuro d’argento. L’idea fotografica del maestro, che dura ormai da più di quarant’anni viene riassunta, nel caso fosse possibile, nei lavori presenti in “Autismi” e “Venezia, circumnavigazioni e derive”. Nel primo lavoro si studia il rapporto, a volte simbiotico, che gli uomini hanno molto spesso con la macchina, un rapporto malato, prevaricante, attraverso il quale la macchina diventa sublimazione della vita reale per cercare di nascondere frustrazioni ed insofferenza. Nelle fotografie di “Venezia” invece la città lagunare viene immortalata in maniera intima e realistica ma allo stesso tempo sorprendente ed inconsueta. La laguna e la città sono costruite nelle fotografie in modo simbolico ed iconico tagliate in un tondo, forma desueta quasi a ricordare gli antichi deschi da parto.
As one of the most interesting artists on the national photographic scene, Roberto Salbitani starts his photographic journey in the early seventies, eventually becoming one of the masters of Italian contemporary photography. The word ‘journey’ is not used casually but contextualizes the iconographic path of the master. As he himself acknowledges in a recent interview this journey began in the province of Padua, where he was born and lived, in the early years of his existence, in direct contact with nature and preparing psychologically for the city that was to welcome him. In his recurrent transferals and in successive travels in Italy and around the world, Salbitani uses the camera as a cathartic medium between his pure being and the reality of an inevitable, sometimes invasive progress, or as if it were a personal medium for dialoguing with the outside world. His art thus becomes witness to a social metamorphosis immortalized with his instrument and the photograph becomes an indispensable companion on his professional journey. In this long voyage it is the human that remains the being to be safeguarded. The images that emerge are photographs that speak of life, a life suspended between the dreamlike and surreal, analogue images printed with great skill with silver bromide salts. The photographic notion of the master photographer, which has now lasted for more than forty years, can be summarized, if that’s possible, in the work found in “Autismi” and “Venezia, circumnavigazioni e derive”. The former body of work is a study of the relationship, sometimes symbiotic which men very often have with the camera, a sick, prevaricating relationship, whereby the machine becomes a sublimation of real life, an attempt to hide frustration and intolerance. In the photograph collection of “Venezia”, on the other hand, the lagoon city is immortalized in an intimate and realistic manner, which at the same time is surprising and unusual. The lagoon and the city are bound together in the photographs in a symbolic and iconic manner, cut into round shapes, an out-dated format almost reminiscent of ancient birth salvers.
Roberto Salbitani è nato a Padova nel 1945 e inizia a fotografare durante i suoi viaggi in Italia e all’estero, che compie come giornalista di fotografia e di cinema. Dopo le vicende legate all’attività sulla fotografia svolte a Venezia, Mogginano (AR) e in diversi territori della provincia italiana, dalla fine degli anni Novanta vive a Roma. Roberto Salbitani was born in Padua in 1945 and began photographing during his travels in Italy and abroad, in his role as a journalist of photography and cinema. Following the photographic work executed in Venice, in Mogginano (AR) and various other Italian provinces at the end of the nineties, he has been living in Rome. www.scuolafotografianatura.it
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B A G A R T p h o p h o t o
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g a l l e r y
greta edizioni ISBN 978-88-908201-7-5
18 ₏ (IVA assolta dell’editore)