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IO, PAMELA
PAMELA VILLORESI: RICORDI DELLA CITTÀ D’ORIGINE
DI TERESA FAVI E FRANCESCA LOMBARDI
È tornata a Prato, in scena al Politeama con Viva la vida per interpretare l’artista messicana Frida Kahlo con intensità e impeto, insieme alla musicista Lavinia Mancusi e Veronica Bottigliero, body painter. Parliamo di Pamela Villoresi, genuinamente pratese in quella “c” che a volte fa scomparire con padronanza, quasi un vezzo che la mantiene ancorata alle sue radici. Da qui se n’è andata quindicenne, per inseguire un sogno che ha preso forma fin da subito: il Teatro. Ma distanza di tempo e con una carriera intensa alle spalle, anche ora che vive a Palermo dove da due anni e mezzo dirige il Teatro Biondo, se le chiedi i suoi ricordi dell’infanzia a Prato, la prima risposta arriva senza esitazioni: la collina e quell’armonico intercalare a perdita d’occhio tra gli ulivi e i muriccioli bassi.
Com’è nata la passione per il teatro?
Quando ero molto piccola volevo fare la suora, missionaria. Nelle foto della prima comunione ho la faccia tutta rossa per l’emozione e il trasporto. La scuola ha avuto un ruolo determinante nel mio cambio di rotta: ci portavano a vedere spettacoli di grandi registi e con ottimi attori. Ricordo una versione dei Gemelli veneziani che mi colpì profondamente. Da lì è partito tutto il resto, per questo sento un debito con Prato.
È facile intuire un suo luogo dell’anima in città…
Beh sì, il teatro Metastasio. Ricordo la prima volta che ho messo piede al Teatro Studio, il laboratorio di formazione di Magelli e Rellini. Eravamo la seconda generazione di studenti. Il primo round aveva formato ottimi talenti. Adesso toccava a noi: con me c’erano Benigni, con il quale frequentavo anche il primo anno di ragioneria al Datini, e Saverio Marconi, diventato poi uno dei maggiori produttori italiani di musical. Dal primo giorno ho sentito che ero a casa. Avevo solo quindici anni e un anno di laboratorio alle spalle quando lasciai Prato per la prima tournèe. Da lì è stato un crescendo che mi ha portato sempre più spesso lontano da casa, prima al Piccolo di Milano da Giorgio Strehler, poi mi sono trasferita a Roma.
Agli inizi, la sua inclinazione all’arte si è scontrata con una città concreta o la sua è stata una digressione morbida?
In famiglia ho avuto un appoggio pieno e incondizionato. Mi capitava di sentirmi spesso fuori luogo soprattutto tra i miei coetanei, perché con il teatro avevo ritmi diversi e frequentavo un mondo di adulti.
Roma è stata importante per la sua carriera?
Non occorre lasciare la città dove si è nati e cresciuti per avere una vita che ci somiglia. Anzi. L’unica cosa veramente necessaria è avere il coraggio di cambiare, se cambiano gli scenari.
PAMELA VILLORESI, ATTRICE DI ORIGINI PRATESI, DAL 2019 DIRETTRICE DEL TEATRO BIONDO DI PALERMO
PAMELA VILLORESI IN SCENA AL TEATRO POLITEAMA DI PRATO CON VIVA LA VIDA
Un ricordo d’infanzia?
Da piccola abitavo alla Pietà, in quegli anni era ancora molto verde. Rammento i pomeriggi nei giardini, a cavalcioni sugli alberi. E poi la casa della mia bisnonna Luisa e della zia Ottorina. Abitavano in piazza San Francesco e una finestra minuscola si apriva sulla piazza. Nonna Luisa, sarta per i mobili come la chiamavo io (in realtà lavorava per un tappezziere!), passava ore alla finestra con lo scaldino in mano. Anche quando finalmente ebbe il riscaldamento in casa. I pomeriggi da lei avevano il gusto dei piccoli dolci di farina di castagne fatti nei ditali da cucito, riempiti e messi nella brace.
Quale rito pratese le è caro ancora oggi?
Il Natale. Mamma tedesca, babbo pratese: si festeggiava la vigilia in stile nord europeo con il grande albero tutto d’argento, grande come a Prato non lo aveva nessuno. Dopo pranzo, l’immancabile l’arrivo di mio padre vestito da babbo Natale. Il vestito l’aveva cucito la nonna... Il rito del cucire insieme, nei miei ricordi, non è meno bello del Natale. A Prato, in ogni casa c’era un baule di stoffe e la stanza per cucire. Quella della nonna dava su una corte interna: c’erano le macchine da cucire Singer e le sedie intorno ai tavoli da lavoro, i fili e i bottoni colorati. Negli orecchi mi torna il suono squillante delle voci delle donne di casa: zitte zitte, c’è le figliole… quando dicevano qualcosa di sconveniente.
Cosa ama dei suoi concittadini?
L’imprenditorialità. Siamo degli instancabili lavoratori. Lo capisci quando vai via da Prato e ti confronti con realtà diverse.
Che tipo di teatro sta portando avanti al Biondo?
Un teatro a servizio della città. Da un lato, cerco di affondare nelle radici, sia culturalmente che a livello di talenti, dei giovani talenti che realmente ci sono, affinché non debbano più andarsene per avere le opportunità che si meritano. Per un altro verso, sto cercando di espandere la scena del Biondo a una ricerca nazionale e internazionale. Chiamiamo grandi artisti anche da fuori a patto che coinvolgano i nostri attori, acrobati, musicisti, ballerini.
Quale regalo ha ricevuto da Viva la Vida?
Quello di conoscere a fondo la forza di Frida
‘AL TEATRO Kahlo proprio in un momento come quello STUDIO C’ERANO che abbiamo vissuto e dal quale non siamo
CON ME ANCHE ancora fuori comple tamente; capire attra ROBERTO BENIGNI verso di lei che è davvero possibile trasfor-
E SAVERIO mare ogni esperienza, anche la più drammatiMARCONI, AVEVO SOLO 14 ANNI. ca e difficile, in un’occasione. Il tema della donna,
A 18 ERO il suo valore e la sua forza, è sempre sta-
DA STREHLER’ to ricorrente nei suoi spettacoli.
Credo nel valore delle donne e, soprattutto, credo nell’uguaglianza. Qualunque forma di discriminazione per me è un abuso, una violenza. Anche nei paesi più evoluti, come il nostro, la parità non è totalmente raggiunta: negli incarichi più apicali le donne scompaiono o comunque la percentuale si riduce a cifre imbarazzanti. L’occupazione femminile in teatro è del 45%, ma appena si guarda ai ruoli di responsabilità come la regia questa percentuale scende al 25%. È significativo. Prendiamo il mio caso, per esempio: sono la sesta donna nella storia della Repubblica Italiana a dirigere un Teatro Stabile; la dice lunga, no? Io, nel mio piccolo (o grande) cerco di dare uguali opportunità a tutti.