Non è la solita guida Redazione a cura di
Carpentieri Amelia Di Pascale Fabiana Mazziotti Giuliana Thomas Martina
Progetto grafico: Elena Carrucola
P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”
Volume viola: ‘Aglianico’
Un bicchiere di sangue...
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La presente non vuole essere la solita guida turistica per invogliare i turisti a recarsi a Napoli o in tutta la Campania, ma nasce dalla volontà di catturare l’attenzione del lettore attraverso veri e proprio percorsi emozionali che facciano quasi “sentire” al turista il sapore e il gusto di antiche tradizioni, di antiche culture e, perché no, di antiche superstizioni che rendono Napoli in particolare, ma la Campania tutta, terra fertile e rigogliosa. Tale guida vuole suggerire emozioni più che nozioni vere e proprie. Napoli non è solo una città con uno sconfinato patrimonio culturale, non è solo ricca di tradizioni culinarie come la pizza, la mozzarella o il pomodoro, ma in Napoli risiedono antiche superstizioni e credenze, che ricoprono la città di un alone di mistero a volte molto fitto, altre invece quasi impercettibile. Numerose opere o chiese a Napoli sono legate a storie antiche di spettri o figure fantastiche che vivevano in esse. Questo è solo una parte di quanto questa guida vuole rappresentare. Rendere manifesto, cioè, un altro volto dei mille e più diversi, che questa meravigliosa città possiede.
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L'Aglianico è un vitigno rosso coltivato prevalentemente in Basilicata, Campania, Puglia e Molise. Il vitigno è stato recentemente introdotto in Australia, dato che si sviluppa in climi prevalentemente soleggiati. E’ molto antico, probabilmente originario della Grecia e introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C. Una delle tante testimonianze della sua lunga storia è il ritrovamento dei resti di un torchio romano nella zona di Rionero in Vulture, provincia di Potenza. A lungo si è discusso dell’origine del suo nome: se alcuni, infatti, lo fanno risalire ad una storpiatura del termine Ellenico, altri, invece, la fanno risalire ai termini “anicus” (dal latino) e “llano” (dallo spagnolo). Il termine “Ellenico” riferito all’Aglianico viene fu utilizzato, per la prima volta, nel 1592 dal filosofo napoletano Della Porta che, nel suo libro Villae, sosteneva che lo stesso Plinio, nel suo Historia Naturalis, avrebbe parlato dell’uva che nasce all’ombra del Vesuvio. Molti studiosi sostengono che all’epoca i romani non conoscevano il termine “ellenico” e che utilizzavano, al suo posto il termine “grecus”. In Italia il termine “ellenismo” appare per la prima volta nel 1640. Lo studioso Riccardo Valli sostiene che anche morfologicamente questa derivazione etimologica non sarebbe possibile: come potremmo, infatti, spiegare la mutazione in “a” delle due “e” presenti nel termine ellenicus? Oltre all’ipotesi, sostenuta tra l’altro da Valli, di un’origine spagnola del termine, ve ne è un’altra che pure sembra essere probabile e che è sostenuta, invece, da Andrea Bacci: il termine deriverebbe da “Aglaos”(chiaro) e “Aglaia” (splendente). L'utilizzo del vitigno è predominante nella zona del Monte Vulture. L'Aglianico del Vulture, considerato uno dei migliori vini rossi italiani, è per ora l'unico vino della provincia di Potenza che ha ottenuto il marchio DOCG il 30 novembre del 2011 con il nuovo nome Aglianico del Vulture Superiore. Un'altra zona di produzione dell'Aglianico è la provincia di Benevento, in particolare alle pendici del monte Taburno, dove abbiamo la DOCG: Aglianico del Taburno DOCG con la produzioni di diversi vini: rosso, rosato, rosso riserva. Senza dimenticare la provincia di Avellino (Vertecchia di Pietradefusi) dove è il vitigno fondamentale per la produzione del prestigioso Taurasi DOCG, importante rosso del Sud Italia. 5
All’aglianico ricordiamo che fu anche dedicato un romanzo "Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo", scritto da Gaetano Cappelli e pubblicato nel 2007. Immaginiamo, ora, un bicchiere di vino rosso, posto al di sopra, di un tavolo ed un braccio che, in maniera del tutto casuale, lo urta riversandone il contenuto per terra. Il liquido potrà prendere un'unica direzione o dividersi in più direzioni, ramificandosi, via via, sempre di più. È così che si può visitare la città di Napoli: seguendo un unico percorso o provando ad aprire la mente e a lasciarsi guidare, non dalla strada, ma da quei legami che uniscono ora alcuni, ora altri monumenti della città. “T'accumpagn vic vic sul a te ca sì n'amic e te port pe' quartier addò o sole nun s' vere, ma s' ver tutt'o riest…” (cit.) La città di Napoli, che per secoli ha affascinato illustri personaggi provenienti da tutto il mondo, non può essere conosciuta perfettamente se non si “osa” entrare in quei vicoli, nascosti dalla luce del sole, che tanto hanno da raccontare ai visitatori. Con il seguente volume ci proponiamo di accompagnare il lettore alla scoperta delle opere “Gotiche”, di quelle che giacciono Sottoterra e nel fondale marino, delle leggende di Magia Nera e di uno degli eventi più disastrosi avvennuti in città: la Peste Nera. Sirene, maghi, alchimisti e massoni, infatti, hanno abitato le vie della nostra città, arricchendole di storia, leggende ed opere d’arte che tramandano nuove forme di sapere e che, allo stesso tempo, lasciano quell’alone di mistero nella mente del turista: cosa rappresentano i segni del bugnato della Chiesa del Gesù Nuovo? E qual è il significato dell’incisione che si trova sulla presunta tomba di Vlad l’Impalatore? Il destino della città, è davvero legato ad un uovo magico? Napoli, però, che come già detto, aveva annoverato tra i suoi abitanti maghi e massoni, non poteva ,di certo, chiudere le porte a colui che, più di tutti, avrebbe potuto essere considerato la personificazione della Magia Nera: Dracula. Pare, infatti, che l’oscuro conte attratto, forse, da una sorta di potere oscuro, avesse deciso di dormire il suo sonno eterno all’interno di un piccolo chiostro nascosto nel cuore della città, collocato cioè, lì dove “o sol nun s ver”.
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Il gotico
pag. 10
I tesori sommersi
pag. 42
La magia nera
pag. 58
La peste
pag. 82
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Il gotico
«Questa città è Napoli l'illustre, le cui vie percorsi più di un anno. D'Italia gloria e ancora del mondo lustro, chè di quante città in sè racchiude non v'è nessuna che così l'onori. Benigna nella pace e dura in guerra, madre di nobilitade e d'abbondanza, dai campi elisi e dagli ameni colli.»
(Miguel de Cervantes Saavedra, Viaje del Parnaso, Cap. VIII)
Il marmo, che appartiene alla tomba di Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso di riferimenti che non apparterrebbero alle spoglie dell’uomo che dovrebbe essere lì dentro. E qui la realtà diventa romanzo, almeno finché la scienza non dirà che è tutto vero. Infatti il conte si chiamava Dracula Tepes e raffigurato sul marmo c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto, e ci sono due simboli di matrice egizia mai visti su una tomba europea. Si tratta di due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes. In quei simboli c’è ”scritto” Dracula Tepes, il nome del conte. Questo è quanto hanno scoperto i ricercatori di Tallin. Questa è soltanto una delle numerose storie narrate a Napoli misteriose e sensazionali che verranno descritte all’interno della sezione “Il Gotico”. Chiesa di Santa Maria la Nova La Nova, chiamata così per distinguerla dalla chiesa che un tempo sorgeva dove poi fu eretto Castelnuovo, venne fondata dai Frati Minori verso la fine del 1200, sul terreno donato loro da Carlo I d’Angiò. Dopo il 1596 fu completamente riedificata, in seguito ai danni cau-
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sati dallo scoppio della polveriera di Castel Sant’Elmo. Tra le bellezze artistiche racchiuse nella chiesa, vi è lo splendido soffitto in legno dorato, nel quale sono incassate 46 tavole dipinte fra il 1598 e il 1603 dai più importanti artisti napoletani dell’epoca, fra cui Francesco Curia, Girolamo Imparato, Fabrizio Santafede e Belisario Corenzio, oltre a Giovan Bernardo Azzolino, Luigi Rodriguez e Cesare Smet. Dell’antico complesso conventuale potrà essere visitato il refettorio e il chiostro di San Giacomo, con le sue volte affrescate e i numerosi monumenti funerari del cinquecento. In essa sono presenti due chiostri: il primo, grande, che è detto "di San Francesco" per via gli affreschi dedicati al Santo; di forma quadrata conta nove arcate per lato sorrette da colonne ioniche in marmo bianco che contrasta-
no la pietra di piperno degli archi. Le decorazioni, volute da padre Clemente da Nola, furono realizzate secondo il gusto orientale dopo che questi ritornò dalle missioni in Cina. Gli affreschi del Santo furono realizzati da Luigi Rodriguez seguendo i dettami di padre Clemente; le pitture erano accompagnate da terzine che descrivevano la vita di san Francesco, opera di padre Dioniso di Capua. Lo stesso padre Clemente fece sistemare alcune colonne al centro del chiostro ridecorandole con motivi orientaleggianti con lo scopo di sostenere un pergolato coltivato a viti. Verso la fine del Seicento avvennero sostanziali cambiamenti stilistici in seguito al degrado delle decorazioni. Già padre Leonardo del Giudice nel 1686 fece eliminare il pergolato orientale perché non consono allo stile di vita del monastero. Gli affreschi con il tempo scolorirono fino a quando, nel 1747, padre Bonaventura da Ducenta decise di farli imbiancare coprendoli sotto una decorazione in stucco in stile rococò caratterizzata da medaglioni ovali vuoti. Il chiostro piccolo è di forma rettangolare e si pone in posizione centrale tra
la chiesa ed il chiostro grande. Le colonne monolitiche che compongono il chiostro, sono sormontate da capitelli di ordine ionico e sono collocate su un basso muretto interrotto da quattro passaggi con cancelli in ferro battuto. Gli archi a tutto sesto hanno il raggio di cinque metri, mentre i portici sono caratterizzati da volte a crociera affrescate da Simone Papa nel 1627, il quale eseguì un ciclo dedicato a San Giacomo della Marca caratterizzato da iscrizioni illustrative. Nel chiostro sono presenti, oltre al pozzo di marmo e agli affreschi, anche alcune tombe di nobili spostate qui durante la ricostruzione tardorinascimentale, tra cui quella si bottega dei Malvito, dedicata a Sante Vitaliano e alla consorte Ippolita Imperato del 1497. Da allora il chiostro fu detto di San Giacomo e venne riconosciuto tra i più bei chiostri di Napoli. Oggi lo stesso ospita il museo d'arte religiosa contemporanea. La sezione di tale volume si intitola IL GOTICO, e a tal proposito conviene fare un excursus letterario su tale termine, in quanto viene considerato uno dei movimenti artistici più importanti nella storia dell’arte. Il gotico ha ufficialmente origine nell’Ile-de-France nella prima metà del XII secolo, esattamente nel 1144, anno in cui fu completato il deambulatorio della Basilica di Saint Denis, una delle più importanti cattedrali di Francia. Per più di duecento anni, fino alla sua cosiddetta fase “internazionale”, lo stile gotico si diffuse a macchia d’olio 11
in tutta Europa e coinvolse, oltre ovviamente all’architettura, anche tutti gli altri settori dell’arte, dalla pittura alla miniatura, dalla scultura all’oreficeria. In senso lato, il gotico può essere considerato, alla pari del Barocco, uno stile “capriccioso”, in cui i virtuosismi tecnici e l’abbondare delle decorazioni, spesso preziose, sono le caratteristiche dominanti. In architettura, ad esempio, il “capriccio” è evidente nella tendenza generale degli architetti gotici ad abolire le masse murarie a favore di elementi portanti e allo stesso tempo decorativi, come colonne, archi, finestre, pilastri e rosoni, spesso arricchiti da elementi plastici, come statue, guglie e pinnacoli, che ornano ulteriormente i colossali edifici gotici. Proprio la monumentalità delle costruzioni gotiche, altra caratteristica fondamentale di questo stile, dovuta appunto all’abbondante uso di archi, pilastri e colonne, che alleggeriscono la struttura dell’edificio, ha inoltre portato molti studiosi a sostenere che il gotico na-
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scesse dal desiderio, mai spento, dell’uomo di raggiungere Dio; desiderio metaforicamente espresso attraverso le alte e slanciate chiese gotiche, le cui navate spesso si innalzano a decine di metri dal suolo, soprattutto grazie all’impiego smisurato di archi ogivali, o a sesto acuto, già più volte utilizzati in epoca romanica, la cui forma permetteva di guadagnare nuovi metri in altezza. In Italia, dove la tradizione romanica era fortemente radicata, il gotico giunse relativamente tardi, sul finire del XII secolo, ad opera soprattutto dei monaci cistercensi che, in Francia, avevano quasi subito “riadattato” lo stile secondo la propria regola, eliminando dalle loro chiese ogni forma di eccesso. Questa versione “sobria e moderata” di gotico ben si adattava al clima artistico italiano dove la tecnica dell’affresco, ereditata dagli antichi romani, era rimasta la forma più diffusa di decorazione architettonica. Particolarissimo è il caso di Napoli dove, sotto il dominio francese degli Angiò, il gotico si affermò in una versione ancora più spettacolare. Dal 1266 gli Angioini governavano sulla città e una rete di scambi commerciali e culturali legava la città alla Provenza, territorio di origine della casata. Per più di un secolo artisti e architetti francesi lavorarono fianco a fianco con artisti e architetti napoletani. Il risultato fu la formazione di uno stile ibrido, a cavallo tra quello francese e quello italiano, tuttora visibile nei due più importanti cantieri ecclesiastici angioini: la Basili-
ca di San Lorenzo Maggiore e il Complesso monastico di Santa Chiara. La basilica di San Lorenzo Maggiore La Basilica di San Lorenzo Maggiore, eretta a partire dal 1270 da Carlo I d’Angiò, è una delle più antiche chiese di Napoli. Sebbene la facciata sia stata ricostruita in epoca barocca da Ferdinando Sanfelice, la chiesa conserva al suo interno gran parte della struttura originale. L’edificio è caratterizzato da un ampia navata centrale, separata dalle più basse navate laterali da una serie di archi ogivali poggiati su pilastri a fascio. Grandi finestroni, anch’essi ogivali, innalzano ulteriormente le mura circostanti, evidentemente progettate dalle maestranze italiane. L’abside, invece, considerato uno dei più rari esempi “classici” di gotico francese, appare completamente traforato da archi e finestre a sesto acuto, secondo la più radicale tradizione nordeuropea. Appartenente all’ordine francescano, questa chiesa è certamente tra le più importanti di Napoli. Pare infatti che, in San Lorenzo, Boccaccio incontrasse per la prima volta la sua Fiammetta e che, nell’annesso convento, Petrarca dimorasse. Nella stessa basilica, inoltre, fu consacrato sacerdote San Ludovico da Tolosa, il santo erede rinunciatario del trono angioino. La chiesa di San Lorenzo Maggiore, massima espressione architettonica del Centro Storico UNESCO di Napoli, è stato l’edificio delle riunioni della magistratura cittadina partenopea, prima che divenisse la più antica chiesa e di
fatto anche la sede giuridica dei Frati Minori Conventuali nell’omonimo quartiere. Si trova, all’apice della via dei pastori sulla direttrice del complesso monastico di San Gregorio Armeno, più o meno collocata sul territorio dell’antica regio Nilensis, al vertice di un triangolo perfetto creato in asse con la chiesa e convento dei Predicatori a piazzetta San Domenico e gli Agostiniani alla Zecca sul Rettifilo. Costruita sullo sterrato dell’area archeologica e l’antichissima bottega dell’allume, i restauri, apportati nell’ultimo ventennio del ’900, l’hanno restituita spogliata degli stucchi aggiunti sulle architetture primitive disegnate di purissimo stile gotico d’Oltralpe, scoprendo tra l’altro affreschi, i quali, assieme a quelli dell’Incoronata a via Medina, Donnaregina Vecchia a Settembrini e la Cappella Palatina al Maschio Angioino, offrono una veduta d’insieme dell’arte pittorica del Trecento italiano. La chiesa quindi è un grandioso monumento di Storia Patria installata nel quartiere un poco aragonese ed un poco barocco di San Gaetano ai Tribunali.
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Anticipa e posticipa la via per la chiesa della Misericordia ed il largo della chiesa dei Girolamini. Qui si conservano le ceneri di Raimondo Berengario, figlio di Re Carlo II, alias Lo Zoppo, qui le ceneri di Ludovico, morto nel 1310, figlio di Re Roberto il Saggio, sepolto a Santa Chiara a Spaccanapoli; in questa chiesa il sepolcro di Caterina d’Austria morta nel 1323, Carlo di Durazzo del 1347, Maria figlia di Carlo III, Roberto d’Artois con la moglie Giovanna duchessa di Durazzo. Si Narra che qui Boccaccio incontrò la sua Fiammetta, Teresa D’Aquino, figlia del re Roberto D’Angiò, sua musa ispiratrice, dopo averla vista nella chiesa dopo la messa del Santo Sabato del 1334. Si ricorda inoltre, che Francesco Petrarca dimorò nel convento per alcuni giorni e la notte del 4 novembre del 1343, terrorizzato da un’eremita che aveva predetto una spaventosa tempesta, discese dalla sua cella per unire le sue preghiere a quelle dei monaci. La chiesa inoltre presenta una torre campanaria, detta anche “Torre di Masaniello” perché coinvolta nei moti
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insurrezionali del 1647; le fonti narrano che essa fu impiegata come un vero e proprio fortino, nel quale furono nascoste armi e cannoni. Attualmente la chiesa è stretta dalla morsa di abitazioni private che ne coprono l’intera visuale mortificando l’originario slancio architettonico. Senz’alcun dubbio, tutte le linee della chiesa di san Lorenzo Maggiore erano di stile archiacuto, come lo si osserva dall’andamento del portale, unico elemento superstite della chiesa trecentesca. Nonostante tutto, è sul suo portale che è possibile leggere molta della sua storia. Lo stemma di Bartolomeo de Capua, protonotario del Regno, sta sotto il lunettone soprastante la porta centrale dove è ancora visibile sotto poca forma l’affresco attribuito ad Angelo Mozzillo, ritraente lineamenti del Martirio di San Lorenzo, partono della chiesa, che si presenta a navata unica e che incrocia il transetto diviso dall’abside dall’altare maggiore e dallo spazio delle cappelle radiali. Ai lati del transetto i varchi che conducono alla Sala capitolare, la vecchia sacrestia, il convento ed il chiostro francescano. Un particolare effetto scenografico è dato dall’abbondanza della luce solare catturata dalle quattro lunghe finestre bifore sfondate nelle pareti laterali assieme ad altri nove finestroni sempre bifori praticati nelle pareti dell’abside della chiesa. Nel primo piliere dopo la scomparsa cappella di Santa Maria di Loreto, si trovava prima di andar perduto per sempre lo stupendo altare della Santissima Concezione della Bea-
ta Vergine costruita nel 1549 da Nardo Antonio Della Porta poi inseguito ereditata dai figli uno dei quali è Giambattista Della Porta. Della medesima cappella e dell’altare oggi non resta che una lapide. In chiesa le cappelle esistenti, la prima a destra è la Cappella San Giuseppe intercomunicante con la seconda cappella San Bonaventura; la terza è la Cappella del Rosario, seguono la Cappella San Rocco, la Cappella del Crocifisso e la Cappella della Santissima Annunziata ed infine la Cappella di San Ludovico d’Angiò. Ritornando verso l’ingresso a sinistra del transetto l’egregia cappella Sant’Antonio da Padova, opera barocca di Cosimo Fanzago; la prima a sinistra in direzione dell’ingresso è la Cappella di Vito Pisanelli, segue la Cappella Santa Lucia, la Cappella del Puderico, ed infine oltre la porta piccola le cappelle dei Tre Magi, della Circoncisione, del Salvatore e dell’Angelo Custode. Basilica di Santa Chiara « Munastero 'e Santa Chiara / tengo 'o core scuro scuro... / Ma pecché, pecché ogne sera, / penzo a Napule
comm'era, comm'è... »
/
penzo
a
Napule
Questa canzone venne scritta in memoria della semi-distruzione della basilica, in seguito ai bombardamenti aerei del 4 agosto 1943, data in cui il notevole interno barocco andò distrutto, ecco perché si può osservare un aspetto così scarno ed essenziale. Ogni volta che la si visita, si può cogliere quell’essenza primigenia dell’antica cristianità, quasi si entrasse in contatto direttamente con Dio, un luogo dove ci si può rinchiudere in se stessi e nella preghiera, grazie alla totale assenza dell’artificio. Qualcuno la definisce spettrale, qualcun altro spoglia, ma in realtà la basilica è l’essenza di quel culto silenzioso e intimista che caratterizzava proprio gli ordini religiosi di inizio novecento. La basilica di Santa Chiara, con l'adiacente complesso monastico, entrambi conosciuti anche come monastero di Santa Chiara, è un edificio di culto di Napoli. Edificato tra il 1310 e il 1340 su un complesso termale romano del I secolo d.C., per volere di Roberto d'Angiò e della regina Sancha d'Aragona, nei pressi dell'allora cinta muraria occidentale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al convento faceva parte anche il complesso delle Clarisse, oggi luogo di culto a sé. Può essere considerata come la più grande basilica gotica della città. Nella basilica di Santa Chiara, il 14 agosto 1571, vennero solennemente consegnate a don Giovanni d'Austria, il vessillo pontificio di Papa Pio V ed il 15
bastone del comando della coalizione cristiana prima della partenza della flotta della Lega Santa per la battaglia di Lepanto contro i Turchi Ottomani. Lepanto, una delle più grandi battaglie navali della storia, fu un momento fondamentale per la salvezza della Cristianità e del mondo occidentale. Nel 1590 fu a lungo custode del regio monastero di S.Chiara, Antonino da Patti, autore di varie grazie e miracoli sui malati, Il quale diverrà Venerabile. Tra il 1742 e il 1796 venne ampiamente rist ru tt u rat a in f orme barocche da Domenico Antonio Vaccaro e Gaetano Buonocore.[Gli interni furono abbelliti con opere diFrancesco de Mura, Sebastiano Conca e Giuseppe Bonito; mentre Ferdinando Fuga eseguì il pavimento decorato.[ Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento degli Alleati del 4 agosto 1943 provocò un incendio durato quasi due giorni che distrusse l'interno della chiesa quasi interamente, perdendo così tutti gli affreschi eseguiti nel XVIII secolo. Nell’ottobre 1944 Padre Gaudenzio Dell'Aja fu nominato "rappresentante
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dell'Ordine dei Frati Minori per i lavori di ricostruzione della basilica", alla cui ricostruzione partecipò in prima persona. In seguito, i massicci e discussi lavori di ristrutturazione riportarono la basilica all'aspetto originario trecentesco omettendo in questo modo il ripristino delle aggiunte settecentesche. I lavori terminarono definitivamente nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pubblico. La basilica di Santa Chiara sorge sul lato nord-orientale di piazza del Gesù Nuovo, di fronte alla chiesa omonima, ed ha il suo ingresso su via Benedetto Croce. Questo è costituito da un grande portale gotico del XIV secolo, con arco ribassato e lunettapriva di decorazioni, sormontata da un'unghia aggettante di lastre di piperno. Il sagrato antistante la chiesa è recintato da un alto muro. La facciata presenta una struttura a capanna ed è preceduta da un pronao a tre arcate ogivali, di cui quella centrale inquadra il portale di marmi rossi e gialli con lo stemma di Sancha. In alto, al centro, si apre il rosone, il quale è stato in gran parte reintegrato durante la ricostruzione.
Alla sinistra della chiesa, si eleva la torre campanaria trecentesco, in seguito restaurata in stile barocco. Il campanile è a pianta quadrata e si articola su tre ordini separati da cornicioni marmorei. Mentre l'ordine inferiore ha un paramento in blocchi di pietra, i due superiori sono in mattoncini con lesene marmoree, tuscaniche in quello inferiore e ioniche in quello superiore. Tra il 1742 e il 1762 l'aspetto gotico fu celat o da decoraz ioni barocche progettate da Domenico Antonio Vaccaro, Gaetano Buonocore e da Giovanni del Gaizo. La volta fu dec o r a t a d a s t u c c h i e affreschi di Francesco De Mura, Giuseppe Bonito,Sebastiano Conca e Paolo de Maio. Il bombardamento alleato del 1943 distrusse il tetto e la decorazione barocca, mentre le opere scultoree furono totalmente o parzialmente danneggiate; quelle sopravvissute, dopo la ricostruzione, furono spostate in un altro luogo, tranne il pavimento disegnato da Ferdinando Fuga. L'interno risulta attualmente formato da un'unica navata rettangolare, disadorna e senza transetti, con dieci cap-
pelle per lato. Nella zona presbiteriale sono posti sulla parete di fondo il sepolcro di Roberto d'Angiò, opera dei fiorentini Giovanni e Pacio Bertini. Ai lati del sepolcro del re ci sono quelli di Maria di Durazzo e del primogenito Carlo, Duca di Calabria ,databili 1311-1341 con il primo attribuito ad ignoto maestro durazzesco, mentre il secondo a Tino di Camaino. Sulla parete sinistra del presbiterio invece vi è il Sepolcro di Maria di Valois, databile 1331 ed anch'esso del Camaino. Di fronte ai monumenti funebri invece vi è il trecentesco altare maggiore di autore ignoto, con un crocifisso ligneo del XIV secolo, di ignoto autore probabilmente senese. A destra del presbiterio vi è l'accesso alla barocca sagrestia con affreschi e arredi mobiliari risalenti al 1692; in una sala adiacente si può ammirare un panno ricamato del XVII secolo. Altri due ambienti di passaggio, il primo decorato da maioliche del XVIII secolo e il secondo con affreschi di un pittore fiammingo del XVI secolo, si passa di fronte ad
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una scalinata chiusa al pubblico che sale al convento e quindi, per un portale gotico, si accede al "Coro delle monache". Sulla controfacciata si trova al lato sinistro il Sepolcro di Agnese e Clemenza di Durazzo, opera di Antonio Baboccio da Piperno, sulla destra invece resti di un affresco vicino a Giotto. Nelle venti cappelle ci sono principalmente sepolcri monumentali realizzati tra il XIV e il XVII secolo, appartenenti ai personaggi di nobili famiglie napoletane. Chiesa San Giovanni a Carbonara La chiesa di San Giovanni a Carbonara è senza ombra di dubbio uno degli esempli più chiari e ben riusciti dell’architettura gotica del centro storico di Napoli. E' ubicata in Via Carbonara, in zona extra-moenia, vicino all'antica muraglia aragonese, sul lato orientale dela città che conserva gli elementi più preziosi che si custodiscano in città. Via Carbonara non è solo una strada ricca per lo più di palazzi ottocenteschi, innalzati durante i nuovi piani di Carlo di Borbone, ma è anche un'area di grande attrazione turistica, forse fuori dai classici itinerari, ma che per l'importanza, la bellezza e il prestigio merita ampiamente una visita. Il complesso di apre con un imponente doppia scalinata in Piperno disegnata dall'architetto Ferdinando Sanfelice nel 1707 famoso architetto che proprio in questi anni darà i migliori frutti a Napoli. Ol18
trepassato il cancello, si accede alla Barocca Chiesa di Santa Sofia (il nome prende dal tracciato del Decumanus Superior Via Santa Sofia). Sulla sinistra si accede nella chiesa di San Giovanni a Carbonara. Iniziata nel 1343, completata nel 1400 per volere del Re Ladislao, famiglia Angioina, ampliata e rimaneggiata successivamente nel XVIII secolo. La facciata è dominata da un portale gotico, la cui lunetta è stata affrescata da un pittore lombardo. Navata rettangolare con aggiunte di varie cappelle, mostra ancora l'ossatura gotica, particolarmente nel Presbiterio. Oltre ai dipinti, di grande importanza è il monumento funebre al Re Ladislao elevato dalla sorella Giovanna II che gli successe al trono è alto 18 metri, presenta cuspidi e archi trilobi gotici. Altro elemento prestigioso è la Cappella Caracciolo del Sole con meravigliose decorazioni, imponente la cupola e uno straordinario pavimento a mattonelle maiolicate di stile toscano. San Giovanni a Carbonara è un gioiello
da tutelare, conservare e promuovere. L'interno è a croce latina con un'unica navata rettangolare, il soffitto a capriate e l'abside coperta a crociera con cappelle aggiunte in tempi posteriori. L'altare maggiore con balaustra (1746) presenta una pavimentazione a marmi policromi ed è posto tra due finestroni a linea tipicamente gotica. Il complesso presenta sculture e pitture di gusto prevalentemente gotico e rinascimentale. Nella zona absidale domina il monumento funebre a re Ladislao mentre per la sacrestia furono composte nel 1546 sedici tavole del Vasari con la collaborazione di Cristoforo Gherardi oggi al museo di Capodimonte; del pittore aretino è rimasta nella chiesa, accanto al monumento a re Ladislao, una Crocefissione. Sull'altare maggiore vi è invece la statua della Madonna delle Grazie di Michelangelo Naccherino (1578) e dello stesso autore sono altri monumenti funebri ed una Madonna col Bambino. Di Bartolomé Ordoñez è infine l'Altare dell'Epifania del 1517 circa.
Napoli tra superstizione e leggende Fino adora come un filo d’Arianna si è cercato di creare connessioni temporali ed emozionali tra Napoli, città non solo dai mille volti, mille stili artistici ma anche città misteriosa e affascinante. La città partenopea è ricca di superstizioni che la rendono per certi aspetti spaventosa. Antiche storie di chiese sconsacrate, spettri che si agirano nei palazzi vecchi e abbandonati, presenze quali “o munaciello”, popolano i vicoli della città, vengono bisbigliate e sussurrate tra gli abitanti e tramandate di padre in figlio. Scrittori, poeti, cantautori, di qualsiasi città o nazionalità di appartenenza hanno contribuito ad arricchire questo aspetto del capoluogo partenopeo. Di seguito solo alcune delle numerose leggende che contribuiscono a rendere Napoli una delle più belle e affascinanti capitali europee. Le chiese sconsacrate A Napoli sono presenti tantissime chiese sconsacrate, molte delle quali purtroppo ancora chiuse al pubblico, ma in procinto di essere di nuovo riaperte, per essere rivisitate dai turisti o riutilizzate come punti di informazione o di ritrovo, utili nel sociale. Le chiese di una città sono la testimonianza del suo glorioso passato, ma soprattutto possono costituire un potente mezzo di sviluppo perché in grado di attirare, come ai tempi eroici del Grand Tour, un esercito di forestieri. Si tratta di edifici più o meno noti come Sant’Agostino alla Zecca o Santa 19
Maria delle Grazie a Caponapoli, come la Sapienza o Santa Maria del Popolo agli Incurabili, ma anche tante altre, come Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Immacolata a Pizzofalcone, San Giuseppe a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina della Croce, i Santi Severino e Sossio, i Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, Santa Maria Vertecoeli. Su queste chiese aleggiano leggende e miti, con vergini e draghi che bisogna rammentare assieme a cenni su quando e da chi furono edificate. San Giovanni Maggiore, che nel I secolo fungeva da tempio pagano, Fatto erigere dall’imperatore Adriano in onore di Antino. Nel IV secolo poi l’imperatore Costantino trasformò il tempio in chiesa che volle dedicare a San Giovanni Battista per essere poi arricchita da quadri e suppellettili. La chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli sorge su una piccola altura dove vi era un boschetto utilizzato spesso per le sfide a duello e dove molti pensavano che vi fosse la tomba della sirena Partenope, fondatrice della città e conosciuta dal popolino come “’a capa ‘a Napule”. Un’altra leggenda ci parla di un’edicola
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votiva pendente da un albero, davanti alla quale una donna sterile venne ad impetrare la grazia di un figlio, che dopo poco nacque e venne battezzato col nome di Agnello, in vernacolo Aniello, il quale da grande ascese alla gloria degli altari. La chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, entrambi medici, venne per esempio edificata nel 1616 dall’associazione dei barbieri e la cosa non deve destare meraviglia, perché a quell’epoca e per lungo tempo questi artigiani svolgevano anche attività sanitarie. Trecento vergini di nome Immacolata frequentavano nel ‘500 una chiesetta denominata del Rosario, sulla collinetta di Pizzofalcone, frequentata dai soldati spagnoli lì acquartierati. Nel 1850 il re Ferdinando II la fece completamente riedificare ed in ricordo dell’antica frequentazione le impose il nome di Immacolata a Pizzofalcone. Orefici e gioiellieri, quasi tutti genovesi, fondarono nel 1857 in via Medina una chiesa, San Giorgio dei Genovesi. Oltre a questi artigiani molto ricchi vi era una vasta colonia di liguri, abilissi-
mi nell’attività di ristoratori. Infatti ai napoletani piaceva molto la carne alla genovese. Cuochi e camerieri si recavano a pregare nella cappella dell’infermeria di Santa Maria la Nova prima dell’edificazione della loro chiesa, la quale divenne famosa perché sull’altare maggiore troneggiava un dipinto raffigurante San Giorgio mentre trafigge un drago. In via Medina si trova anche la celebre chiesa della Pietà dei Turchini, fondata nel 1592, a cui era annesso un orfanotrofio i cui componenti erano avviati allo studio della musica indossando un abito talare di colore turchino. Tra gli allievi vi fu il grande Alessandro Scarlatti e nella chiesa fu dato l’ultimo saluto ad Aurelio Fierro. IL Complesso degli Incurabili Il complesso degli Incurabili è un sito monumentale di Napoli ubicato nel centro storico, non lontano dal decumano superiore (ora via dell'Anticaglia). Dal 2010 una parte del complesso, inclusa la storica farmacia e la chiesa di Santa Maria del Popolo, fa parte del "museo delle arti sanitarie di Napoli". Il complesso, di epoca rinascimentale, comprendeva originariamente: la chiesa di Santa Maria del Popolo la chiesa di Santa Maria Succurre Miseris dei Bianchi lo storico ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili. Col tempo ingloberà anche la chiesa di Santa Maria delle Grazie Maggiore a Caponapoli e l'omonimo chiostro,
il complesso di Santa Maria della Consolazione, la chiesa di Santa Maria di Gerusalemme e il chiostro delle Trentatré. Santa Maria del Popolo La chiesa di Santa Maria del Popolo è caratterizzata da un interno ad aula unica con cappelle, decorato con stucchibarocchi; gli altari delle cappelle sono in marmo bianco, mentre quello maggiore, opera di Dionisio Lazzari, è in marmo commesso. Accanto all'altare maggiore è posto un sepolcro rinascimentale realizzato da Giovanni da Nola. Gli affreschi della chiesa furono portati a termine tra il XVI ed il XVIII secolo; le principali opere pittoriche sono di Giuliano Bugiardini, Marco Cardisco, Francesco De Mura, Marco Pino, Giovanni Battista Rossi e Carlo Sellitto. Nella Cappella Montalto è posta un'opera di Girolamo D'Auria. Nella sagrestia ci sono dei notevoli pezzi di arredo risalenti al 1603 e la volta fu affrescata ancora dal medesimo Giovanni Battista Rossi.
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Santa Maria dei Bianchi La chiesa di Santa Maria dei Bianchi (o congrega dei Bianchi della Giustizia) è l'altro edificio sacro inglobato nel complesso degli Incurabili. Il nome della confraternita e quindi della chiesa fa riferimento al colore dell'abito dei religiosi ed al loro specifico ufficio, ovvero l'assistenza ai condannati a morte. La chiesa, insieme alla congregazione, venne fondata nel 1473 da san Giacomo della Marca e nel 1519, grazie all'appoggio di papa Paolo IV, venne ingradita e restaurata. Nel XVI secolo la congregazione, trasferitasi nella Santa Casa degli Incurabili, divenne nota nel Regno e fuori grazie alla sua attività. Nel 1583 il re Filippo II ne ordinò lo scioglimento poiché essa generava sospetti nelle autorità spagnole a causa della segretezza nella quale si svolgeva la sua opera. Nel 1673 vennero eseguite nella chiesa modifiche e restauri barocchi su progetto di Dionisio Lazzari. L'ingresso alla chiesa si trova su una scala in piperno devastata; l'ingresso è costituito da un portale anch'esso in piperno. L'elemento architettonico di spicco è la settecentesca scala a tena-
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glia che dal cortile degli Incurabili sale all'ingresso secondario della chiesa, e che oggi versa in stato di degrado. Nell'interno una effimera decorazione barocca composta da affreschi sulla volta; nelle fasce laterali vi sono efe bi che h an n o funz io ne di telamoni, ai quali si alternano conchiglie con figure allegoriche. Sull'altare è posta una statua della Vergine diGiovanni da Nola, mentre la volta fu affrescata da Giovan Battista Beinaschi. Nella sagrestia si trovano affreschi di Paolo De Matteis raffiguranti membri eminenti della confraternita. Chiesa della Monaca di Legno e la chiesa della Riforma La chiesa della Monaca di Legno e la chiesa della Riforma, sono due piccole strutture storico-religiose inglobate nel complesso degli Incurabili che facevano dapprima parte di due monasteri distinti. La prima prende la propria denominazione dal cognome di una delle prime suore che qui dimorarono; ma la leggenda vuole che una suora, tentando di uscire dal monastero, restasse ferma
come una statua di legno. Col decennio francese, la chiesa fu abbandonata, per poi essere concessa alla Confraternita della Visitazione di Maria, che vi collocò un quadro ovale della Vergine (opera di Paolo De Matteis). Nel 1867, i frati si trasferirono nel monastero di Donnaregina, portando con sé l'opera d'arte. La cappella fu quindi ceduta ad un'altra congrega. L'altra chiesina, è chiamata della Riforma perché la fondatrice del complesso, Maria Longo, qui raccoglieva le donne di mondo, dette anche della Buona Morte, per "riformarne" la vita e condurle sulla retta strada. Nel decennio francese, queste furono trasferite nella chiesa delle Trentatré e la cappella fu concessa alla Congrega di Santa Maria Regina Paradisi, poi a quella dei Cucchi. I due monasteri, espulse le suore, nel 1813 passarono a far parte dell'ospedale. Chiesa di San Giuseppe delle Scalze a Pontecorvo L'edificio fu costruito nel 1619 occupando l'area di palazzo Spinelli a Pontecorvo ed ebbe un importante rifacimento tra il 1643 e
il 1660 ad opera di Cosimo Fanzago. Ulteriori decorazioni furono apposte nel 1709, su progetto di Giovanni Battista Manni, con l'esito di un generale danneggiamento della facciata e dell'interno originari, ridecorata negli interni intorno al 1903 per il crollo della volta a causa dell'incuria. La chiesa appartenne prima alle monache Teresiane e successivamente vi ebbero i loro offici i padri barnabiti. Il terremoto del 1980 fece crollare il tetto a capriate trascinando con sé il controsoffitto affrescato, i cui frammenti residui si persero col passare del tempo a causa dell'assenza di una copertura che impedisse l'entrata di pioggia e il deterioramento dell'interno. Negli anni novanta fu costruito l'attuale tetto a capriate in legno. Tuttavia la chiesa fu depredata di molti arredi sacri e decorazioni, come marmi e balaustre. L'ipogeo è stato profanato. Attualmente la chiesa mostra i danni causati dalle intemperie e necessita di una ristrutturazione complessiva, in particolare della facciata. Tuttavia la stabilità dell'edificio permette ad alcune associazioni di tenere aperta la chiesa (e sfruttare gli ambienti del
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complesso per attività ludiche e ricreative. Sant’Aniello a Caponapoli Il toponimo della zona è dovuto alla chiesa di Sant’Agnello Maggiore nota appunto come Sant’Aniello a Caponapoli, era la parte più alta della “Neapolis” sorta nel V secolo a.c. quando gli antichi coloni si spostarono nell’attuale zona dopo che fu abbandonata Palepolis, l’antica Partenope, ubicata tra il Monte Echia e Pizzofalcone, da loro fondata nel VII secolo a.c. non più sicura dagli attacchi dei predoni che venivano dal mare. Prima di parlare dei rinvenimenti archeologici passiamo a narrare la storia della chiesa e del luogo: lo descrive così il Canonico Carlo Celano “vedesi una bellissima piazza detta S. Aniello che serve da delizia in estate per i Napoletani poiché oltre delle aure fresche che in essa si godono, le nostre amene colline formano alla vista un teatro molto dilettoso, e la sera in questo luogo si vedono adunanze di uomini eruditi e letterati” ,infatti l’aria di questa collina era ritenuta la più salubre di Napoli, e diede luogo al detto: “Coppole pè cappielle, e case ‘a sant’Aniello“, ossia con-
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tentarsi di vivere modestamente, ma respirare l’aria di Sant’Aniello. Sant’Agnello, o Sant’Aniello, era un vescovo di Napoli del VI secolo ed aveva salvato più di una volta la città dalle invasioni barbariche. Proclamato santo, divenne il settimo patrono della città, molto venerato dai napoletani, e nel 1628 fu assurto a protettore del Regno di Napoli. Si narra che i suoi genitori venissero in questo luogo a pregar la Vergine Maria affinché concedesse loro la grazia di avere un erede che poi fu Sant'Agnello e per grazia ricevuta fecero costruire la chiesa di Santa Maria Intercede a Caponapoli – ora non più esistente - dove furono raccolti i resti mortali dello stesso Santo. Le prime notizie certe della chiesa di Sant’Agnello Maggiore e del convento risalgono al 1058. Nel 1517 essa inglobò anche quel che restava della chiesa dove era sepolto il Santo. La sua decadenza iniziò nel 1914 quando venne spostata la sede della parrocchia e le sue opere d’arte trasferite presso la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, ma il suo attuale stato di abbandono e di devastazione è conseguenza dell’indiscriminato e gratuito bombardamento alleato del 1943 che polverizzò tutta la zona antica della città, priva di obiettivi militari, e poi dai consueti furti vandalici e da un interminabile cantiere di scavi archeologici iniziati nel 1962 e terminati solo pochi anni fa. Oggi vi rimane (ma fino a quando?) solo il grande altare opera di Girolamo Santacroce, capolavoro del rinascimento napoletano del 1524, straziato e sfregiato
dai furti. La zona è ricca di reperti archeologici ai quali solo oggi è stata ridata valenza culturale; era la collina su cui sorgeva “l’Acropoli” a nord ovest della Neapolis, con destinazione religiosa che si riempì di templi in marmo, tanto da meritare l’appellativo di “Regio Marmorata” che le rimase fino al Medioevo quando ancora erano visibili i resti di alcuni templi: quello del Dio Sole, di Demetra, di Apollo e di Diana, quest’ultimo, identificato con l’attuale chiesa di Santa Maria della Pietrasanta. Qui si svolgevano i fondamentali riti religiosi, si veneravano le divinità della città, si svolgevano i sacrifici e le processioni che si inerpicavano sulla via “Sacra” probabilmente corrispondente all’attuale via del Sole, oggi delimitata dalla caserma dei Vigili del Fuoco e dalla sede del vecchio Policlinico.
neggiata dalle lave, venne ricostruita nel 1760 grazie a Luca Vecchione. Per la nuova ricostruzione furono presentate varie proposte architettoniche, la più famosa delle quali fu certamente quella di voler realizzare un tempio a pianta stellare, secondo il progetto di Ferdinando Sanfelice. Tuttavia, alla fine della disputa, l'edificio venne eretto con pianta a croce latina, con cappelle laterali e navata unica; elemento architettonico di spicco è sicuramente l'impostazione centrale della possente cupola. La facciata è preceduta da una bella scalinata, creata in pietra lavica; questa venne costruita affinché la chiesa venisse rialzata rispetto alla quota stradale, visto che il tempio era stato più volte invaso da torrenti di varia natura. La facciata vera e propria propone due ordini articolati da lesene composite (decorate completamente in stucco) e raccordati da volute. L'ingresso secondario è caratterizzato dal portale riccamente decorato, testimone di una indubbia influenza del rococò. Il tempio conserva un interno prettamente barocco,
molto bello e finemente decorato, di particolare pregio è la bella cupola caratterizzata da una geometrizzazione degli ornamenti; attualmente la chiesa è chiusa e versa in stato di abbandono. Le sue scalinate spesso sono rifugio di mendicanti. Questo piccolo borgo è di fatto l’epicentro storico della leggendaria sepoltura negli ipogei greci di questo comparto del primo vescovo di Napoli, Sant’Aspreno, ed i padri Crociferi, proprietari dell’immobile, furono i medesimi fondatori della chiesa delle Crocelle al Chiatamone. Esso rappresenta il primo varco su via Foria, aperto come libero accesso a via dei Vergini e via dei Miracoli, che conduce all’omonimo comparto alle sue spalle, ed un’ assegnazione di caratteri polifunzionali lo distinguono nettamente dai comparti afferenti via Mario Pagano, strada aperta nell’Ottocento a sostegno della piazza dei commestibili dei Vergini e delle chiese di Santa Maria della Misericordia e Santa Maria Succurre Miseris. Il toponimo Crociferi sembra non giustificarsi affatto, per la presenza sul posto della chiesa delle Crocelle, che,
Sant’Aspreno ai crociferi La chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi è uno storico luogo di culto di Napoli; si erge nell'omonima piazzetta nel cosiddetto Borgo dei Vergini. La struttura religiosa fu costruita nel 1633 e, dan25
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stante alle vedute della città di Napoli, prima del Lafrery del 1566 che lo presenta priva dell’immobile, e poi della veduta di Alessandro Baratta del 1629 che invece lo edita con una fila di case che marcano il fronte della strada e subito dietro orti e giardini, ma ancora senza chiesa, è verosimile credere gli sia stato dato il nome di Crociferi solo al sopraggiungere degli stessi padri Ministri degli Infermi nel 1633. Il borgo è praticamente piccolissimo, con appena una micro rete di vicoletti che ne segnano i confini al di qua e al di là degli accessi speculari al quartiere della Stella e lo stringono fino all’ordine di piazzetta dei Crociferi, sulla quale, affaccia la chiesa dei Crociferi, facciata a doppio ordine, incassata nella quinta scenica ed arretrata rispetto ai corpi di fabbrica prospicienti l’omonima stradina. Significativo resta, alla fine, la storia di questo piccolo borgo a partire dalla storia stessa della chiesa attorno alla quale sembra tutto ruotare. Si evince dai testi, infatti, che al discendere delle lave d’acqua piovana, la chiesa a mano a mano venne quasi del tutto sepolta, segno, evidentemente, che l’attuale facciata in sostanza dev’esser stata rialzata di quota rispetto alle sue fondamenta. La chiesa fu dunque ricostruita, nel 1760, a spese del matematico Antonio Monforte, forse probabilmente solo allora, dovette esser stata consacrata a Sant’Aspreno, ”primo christiano e primo vescovo della città di Napoli”. Esiste un progetto autografato Ferdi-
nando Sanfelice che prevedeva la ricostruzione dell’immobile sacro a pianta stellare, che, per motivi economici non fu mai realizzato. L’incarico di ricostruire la chiesa fu affidato all’architetto Luca Vecchione con la direzione dei lavori al fratello Bartolomeo . In un rilievo quindi del Settecento, la chiesa di Sant’Aspreno appare a croce latina, una sola navata, con transetto, quattro cappelle per lato ed una cupola molto alta, unico elemento architettonico emergente della fabbrica stretta tra i palazzi di seconda fondazione Chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi La chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi è una chiesa monumentale di Napoli ubicata il largo Banchi Nuovi . La chiesa sorge nel punto dove prima esisteva la loggia dei Banchi Nuovi. L'edificio venne fondato nel 1616 e ampliato nel corso del secolo; alle strutture venne fatto un restauro diretto dall'ingegnere Luigi Giura che la ampliò ulteriormente. La facciata utilizza l'impianto del preestistente edificio: si notano infatti gli archi a tutto sesto della loggia cinquecentesca. Nei tompagni laterali si aprono due botteghe, mentre nel centrale si apre il portale secentesco inpiperno sormontato da un finestrone polilobato in stucco del Settecento; lo schema della facciata è scandito dalla presenza quattro lesene rialzate da un basamento. Nell'interno c'è l'altare settecentesco sul quale è posta una tela
del Donzelli e una della scuola di Luca Giordano. Le credenze popolari e leggende La leggenda di Donnalbina, Donna Romi ta, Donna Regina, corre ancora per la lurida via di Mezzocannone, per le primitive rampe del Salvatore, per q u e l la pacifica parte di Napoli vecchia che c o s t e g gia la Sapienza. Corre la leggenda per quelle vie, cade nel rigagnolo, si rialza, si eleva sino a l c i e l o , d i s c e n d e , si attarda nelle umide ed oscure navat e delle chiese, mormora nei tristi giardini dei conventi, si disperde, si ritrova, si rinnovella – ed è sempre giovane, sempre fresca. E r a n o l e tre figlie del barone Toraldo, nobile de l s e d i l e d i N i l o . La madre, Donna Gaetana Scauro, di nobilissimo parentado, era morta molto giovane: il barone si crucciava che il suo nome dovesse estinguersi con esso: pure, non riprese mo-
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glie. Ottenne come special favore dal r e Roberto d'Angiò che la sua figliuola maggiore, Donna Regina, potesse, una volta convolata a nozze, conservare il suo nome di famiglia e trasmetterlo ai s u o i f i g l i u o l i . E nel 1320 si morì, racconsolato nella f e de del Cristo Signore. Donna Regina ave v a a l l o ra diciannove anni, Donnalbina diciasse tte, Donna Romita quindici. La maggiore, aveva nell’anima una g r a n d e a u s t e r i t à , un sentimento assoluto del dovere, un'alta idea del suo compito, una venerazione cieca del nome, delle tradizioni, dei diritti, dei privilegi. Era lei il capo della famiglia, l'erede. Donnalbina, la seconda sorella, veniva chiamata cosi dalla bianchezza ecce zionale del volto ed era una fanciulla amabile, mentre Donna Romita era una singolare giovinetta, mezzo bambina e di animo irrequieto. Nel palazzo in cui vivevano le tre sorel-
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le tutto regnava tranquillo fino a quando il re di Napoli D’Angiò non scrisse una lettera alla sua priimogenea, per comunicarle che le aveva trovato come sposo, il cavaliere della corte napoletana Filippo Capece. Un giorno mentre Donna Regina leggeva il libro delle sue preghiere le si avvicinò sua sorella Donn’Albina , rivelandole le sue enormi preoccupazioni verso la loro sorella minore, perché sembrava soffrire di pene d’amore. L’uomo in questione era proprio Don Filippo. In realtà non solo Donn’Albina ma anche la stessa Donna Romita erano profondamente innamorate di Don Filippo Capece, e così da quel momento Donna Regina cominciò a passare le sue giornate a p r e g a r e l a M a d o n n a Br u n a (raffigurata nella chiesa di Santa Maria del Carmine) affinché potesse dimenticare il suo amore. Le tre sorelle si persero di vista perché tutt’e tre innamorate contemporaneamente dello stesso uomo, fin quando non si ritrovarono nel periodo della Santa Pasqua, dove le sorelle minori implorarono il perdono di Donna Regina e ritenendo fosse indispensabile intraprendere la vita monacale. Donna Regina rispose che non dovevano sacrificarsi perché lei aveva scoperto che in realtà Don Filippo non l’amava e così sarebbe stata lei quella a prendere i voti e rinchiudersi in un convento che lei stessa aveva fondato. Così prese uno scettro d’ebano borchiato d’oro, lo spezzo in due parti, e rivolgendosi all’ultimo ritratto del Barone Toralto disse che la sua casa era morta. Per omaggiare questa storia d’amore
cosi triste a Napoli ci sono tre luoghi con i nomi delle tre sorelle, Via Donnalbina in prossimità di piazza Matteotti, via Donnaromita e Largo Donnaregina adiacenti al duomo. Maria D’Avalos Nel maggio 1586 Napoli era governata dagli spagnoli, quando nella chiesa di San Domenico Maggiore, fu celebrato il matrimonio tra Carlo Gesualdo, principe di Venosa e sua cugina Maria D’Avalos D’Aragona. Era allora abitudine delle famiglie nobili, sposarsi tra consanguinei per non disperdere il patrimonio. Naturalmente date le premesse non fu di certo un matrimonio d’amore, visto che l’unico motivo era quello di procreare un erede che succedesse ed ereditasse il titolo e le ricchezze. Donna Maria era già convolata a nozze ben due volte, rimasta vedova con due figli, era certamente una donna fertile. L’erede si chiamò Emanuele, e nel giro di un paio di anni il principe Carlo potè ritornare alla sua antica passione, vale a dire la musica. Principe Carlo produceva dei bellissimi madrugali, ma purtroppo nella vita coniugale era un uomo rozzo, avvezzo a manifestare in maniera ossessiva il suo amore per Maria. Quest’ultima fu presto delusa dalla sua vita matrimoniale, accettò il corteggiamento di Fabrizio Carafa, duca D’Andria e Conte di Ruvo. Questa relazione durò all’incirca due anni prima che il principe Carlo se ne accorgesse, o quanto meno cominciasse ad averne il sospetto. I due amanti furono scoperti dallo zio del principe Carlo che a sua
volta aveva tentato di sedurre Maria ma non ci era riuscito, così decise di vendicarsi. Don Carlo tese loro una trappola, fece finta di partire, e in realtà mandò da loro dei sicari, mentre lui aspettava nella stanza accanto. Uccisi con diverse pugnalate i loro corpi furono esposti nudi in pubblico, e tutti accorsero il giorno dopo per assistere allo scempio. Ancora oggi sembra ancora di sentire in alcune mattinate tranquille e silenziose l’urlo di Maria prima di essere uccisa brutalmente, nella piazza di san Domenico Maggiore, tra l’obelisco e il celebre Palazzo di Sangro dei Principi di Sansevero. Nel 1889 crollo l’ala del palazzo dove fu commesso l’omicidio e si narra che solo così lo spirito di Maria riuscì a trovare un po’ di pace. Ma nelle notti di luna piena pare sia possibile scorgere ancora oggi una figura evanescente di donna, che con vesti succinte si aggirerebbe dolente alla ricerca del suo eterno amante Fabrizio. Anche il celeberrimo poeta Torquato Tasso gli ha dedicato dei versi molto affascinanti :
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<Piangete o grazie, e voi Amori, feri trofei di morte, e fere spoglie di bella coppia cui n’vidia e toglie, e negre pompe e tenebrosi orrori… la bella e irrequieta Maria >. Donn’Anna Carafa Il Palazzo Donn’Anna fu edificato nel cinquecento è un grosso edificio che si erge nel mare di Posillipo. Uno dei primi proprietari fu Dragonetto Bonifacio, poi diventò di proprietà dei Ravaschieri e dopo il 1571 fu acquistato da Luigi Carafa di Stigliano. Uno dei discendenti dei Carafa, Antonio, sposò Elena Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, ed ebbe tre figli: Onofrio, Giuseppe ed
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Anna. Purtroppo la giovane Anna non ebbe una vita facile perché in giovane età perse in pochissimo tempo il padre e i due fratelli, e visse con la madre e i nonni. Quando nel 1636 sposò il vicerè spagnolo Filippo Ramiro Guzman, Duca di Medina, Donn’Anna ereditò il palazzo. Una famosissima scrittrice italiana, Matilde Serao scrisse nelle sue Leggende Napoletane, riferendosi al palazzo: < sotto le sue volte s’ode solo il fragor del mare...le sue finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senz’anima>. Tanti anni fa dalle finestre del palazzo splendevano vivide luci, numerose barche erano ormeggiate li attorno e la nobiltà spagnola e partenopea accorreva numerosa alle splendide feste dell’altera Donna Anna Carafa. Anna era una donna bellissima e raffinata, contesa da nobili e personaggi illustri, ma la sua inesauribile brama di potere aveva contribuito a crearle diverse ostilità Quella sera, alla festa ci sarebbe stata una rappresentazione teatrale, una commedia e una danza moresca e gli attori come da moda francese in voga in quegli anni sarebbero stati membri della stessa nobiltà. Tra gli attori c’era anche donna Mercede de las Torrres, nipote spagnola di Anna, ed era una ragazza molto bella e affascinante, e doveva interpretare il ruolo di una schiava innamorata del suo padrone, che muore per salvare la vita al suo amato. La ragazza recitò con grande trasporto accanto al suo compagno di scena Gaetano di Casapesenna che interpretava a sua volta la parte del
cavaliere. Infatti nella scena finale dove lei avrebbe dovuto separarsi dal suo innamorato lo baciò con così tanto trasporto che applaudi commossa tutta la platea, tutti tranne Anna, che fu improvvisamente mossa da gelosia in quanto Gaetano di Casapesenna era stato il suo amante. Nei giorni successivi alla festa le due donne si ingiuriarono profondamente fino a quanto la ragazza scomparve improvvisamente e tutti pensarono che fosse stata mossa da un sentimento religioso e si fosse chiusa in convento. Il giovane Gaetano, innamorato di lei, la cercò ovunque, in Spagna, Francia e Ungheria fin quando non morì in battaglia prematuramente. Il 7 maggio 1644 Guzman fu nominato vicerè a Castiglia e Anna invece si ritirò a Portici dove morì il 24 ottobre 1645 in totale solitudine. La leggenda vuole che nel palazzo di Posillipo appaia di tanto in tanto lo spettro di donn’Anna. Altri invece ritengono che le oscure presenze siano ad ascriversi alle anime in pena di Gaetano di Casapesenna e Mercede de Las Torres, altri ancora ritengono invece che nella struttura appaia il fantasma della regina Giovanna I D’Angiò. Nelle
credenze popolari la regina Giovanna d'Angiò avrebbe incontrato qui i suoi giovani amanti, scelti fra prestanti pescatori e con i quali trascorreva appassionate notti di amore, per poi ammazzarli all'alba facendoli precipitare dal palazzo; la leggenda vuole che le anime di questi sventurati giovanotti tuttora si aggirino nei sotterranei dell'antica dimora, affacciandosi al mare ed emettendo lamenti. Altri invece raccontano che la regina facesse uscire il suo amante con una barca a remi dall'entrata che dà sul mare, quella che oggi è possibile vedere dalla spiaggia, tuttora usata dagli inquilini per accedere alle imbarcazioni. Comunque sia il palazzo ancora oggi, anche dopo le ristrutturazioni, presenta ancora un alone di fascino e mistero. Chiesa di Sant'Arcangelo a Baiano La chiesa ha origini molto antiche; infatti, sembra sia stata fondata insieme al monastero attiguo verso la fine del VI secolo da una comunità di basiliani, passando poi alle monache benedettine. Nel XIII secolo venne rifatta su commissione del re Carlo I d'Angiò, costituendo la prima ope-
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ra angioina della città. Il re si prodigò anche di donare alle monache del convento, le reliquie di San Giovanni Battista. Secondo la tradizione, nel monastero si ritirò Maria d'Angiò figlia di Roberto d'Angiò e Fiammetta di Boccaccio. La chiesa venne rimaneggiata anche nel XVII secolo con la costruzione della piazzetta antistante. Il monastero annesso alla chiesa ebbe vita breve, poiché fu soppresso nel 1577 a causa delle gravi accuse di condotta immorale e delittuosa mosse alle monache come ricorda anche Benedetto Croce: « Di orrenda memoria, ma per diversa ragione, non perché infestato di spiriti ma perché bruttato da fatti di libidine e di sangue e di sacrilegio, era il vicolo di Sant'Arcangelo di Baiano, dove si vedeva ancora la chiesa superstite dell'antico monastero di monache benedettine, abolito nel 1577. » Il filosofo racconta anche di un giovane pittore che, per volontà del principe di Fondi, dipinse un quadro raffigurante i vari scempi che accadevano nel monastero. L'artista, a tal riguardo asserì: « Anch'io, che qualcosa avevo letto di quegli orrori nelle Leggende napoletane del Dalbono e altrove, provavo l'impressione di calcare un suolo maledetto, quando la prima volta percorsi quel vecchio vicolo ed entrai nell'ammodernata chiesa. » Anche Stendhal ne parlerà in un suo famoso libro, intitolato: Cronaca del Convento di Sant'Arcangelo a Baiano. Lo scrittore francese, partendo proprio 32
dalle vicende di questo monastero, né approfitterà per spiegare le numerose vicende storiche patite dalla città e di come queste, abbiano "schiacciato", sotto un clericalismo intransigente e "miope", una parte dei suoi abitanti. Secondo la tradizione, tra le mura massicce di quella costruzione venne educata e si ritirò a viverci Maria d'Angiò, figlia di Roberto d'Angiò; vi soggiornò inoltre anche la Fiammetta amata da Giovanni Boccaccio ed il convento fu anche citato nel Filocolo – etimologicamente Fatica d'amore – uno dei lavori della giovinezza del poeta e scrittore nato a Certaldo, primo romanzo avventuroso della letteratura italiana, scritto in prosa ed in volgare (mentre i romanzi delle origini erano costituiti da poemi scritti in versi) durante il suo soggiorno a Napoli, nel 1336. Il monastero annesso alla chiesa ebbe però vita breve. Nella seconda metà del Cinquecento – era l’anno 1577 – notizie sulla corruzione in esso dilagante cominciarono rapidamente a diffondersi fino ad arrivare a tal punto da
provocare una reazione delle autorità ecclesiastiche che portò alla chiusura: causa scatenante dello scandalo era la vita non certo “religiosa” delle giovani monacate. Era regola imperante nelle le famiglie aristocratiche che tutte le figlie nate successivamente alla primogenita dovessero ritirarsi giovanissime in convento. La loro provenienza nobiliare non era un ostacolo, anzi era addirittura una condizione necessaria ed indispensabile per entrare a far parte di un convento di alto lignaggio. L’obbligo imposto alle fanciulle di rinunciare ad avere legami con il mondo, ad aspirare di costruirsi una famiglia, a poter disporre della propria sessualità, accoppiato alla incontenibile voglia di libertinaggio dei giovani maschi in genere, meglio ancora se dabbene e se proiettati fuori dalle loro mura domestiche, venne a formare una miscela esplosiva di immense proporzioni. Le cronache di quegli anni del monastero di San’Arcangelo a Baiano tra sedute esoteriche e messe nere più o meno vere o presunte si ridussero
quindi a continui incontri sfocianti in orge erotiche che le novizie napoletane, pare tutte belle e nobilissime, erano costrette ad avere nelle loro celle, trasformate in confortevoli alloggi privati, con irresistibili nobiluomini più o meno coetanei. L’assurdo della vicenda è che il cattivo esempio per tutto ciò sarebbe stato dato dal comportamento pubblico di un personaggio, lo stesso che probabilmente fu costretto ad ordinare la chiusura del convento, cioè il viceré don Pedro da Toledo. Con lo sgombero del monastero e la chiusura della chiesa non tardarono a farsi vive le voci di apparizioni notturne dietro le finestre schiuse della facciata del palazzo, quindi mostranti l’ondeggiare di ombre inquiete vaganti nella luce surreale degli interni ed al fruscìo lento di affannosi lamenti. Quella vicenda non poteva non richiamare l’attenzione delle penne di scrittori e storici. Vicoli di partenope Figure sospese tra il mito e la storia: il munaciello, la bella ’mbriana, i miti di Virgilio. Fatti di Napoli, misteri tradotti in realtà, episodi reali, talvolta imbrattati di sangue e poi trasfigurati in leggende ancora vive tra i vicoli della bella Partenope. La città e il fascino dell’occulto, una miscela unica dal sapore antico, la cui origine si perde nella notte dei secoli. Quali e quanti storie hanno animato, nel corso dei secoli, le notti dei Napoletani? Quali e quanti racconti sono stati tramandati di padre in figlio fino a giungere ai 33
giorni nostri, praticamente intatti? Le storie sono tantissime, amori finiti in tragedia, storie senza un lieto fine o passioni sconvolgenti che poi hanno condotto gli amanti alla rovina, tutto ciò è presente a Napoli e in ogni vicolo di queste antiche stradine, così ricche di storia, così misteriose. Non è una storia di fantasmi, ma non per questo merita di rimanere nascosta la leggenda legata all’arco di Sant’Eligio, uno dei luoghi simbolo della città di Masaniello. Anche in questo caso si tratta di un racconto che ha cominciato a prendere piede nel corso del Seicento, anche se i fatti narrati sembrano portarci alla prima metà del Cinquecento. Tutto è legato alle due teste scolpite nella cornice che si trova alla base dell’arco, proprio sotto lo storico orologio. Le teste, secondo la tradizione popolare, sarebbero quella di una giovane fanciulla di nome Irene Malarbi e quella del potente duca, Antonello Caracciolo. Si narra che l’uomo, privo di scrupoli, innamoratosi della giovane vergine e vista l’impossibilità di poterla fare propria, fece condannare senza alcuna colpa il padre di lei, chiedendo in cambio della sua liberazione le gra-
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zie della fanciulla. A quanto pare Caracciolo riuscì nel suo intento, ma la famiglia della bella Irene non rimase con le mani in mano e si rivolse a Isabella d’Aragona, figlia del sovrano Ferdinando II, pur di ottenere giustizia. La richiesta diede i suoi frutti. Impietosita, la principessa condannò infatti, Caracciolo alla pena di morte per decapitazione, ma prima lo costrinse a sposare la giovane per poter riparare al torto subìto.
Il parco vergiliano Il Vergiliano nel 1930 ha ricevuto la "nomina" di Parco ed accoglie tra il verde le tombe del poeta Giacomo Leopardi e del poeta Publio Virgilio Marone. Poeta e mago, secondo le leggende. Una di queste innumerevoli dicerie vede il poeta dell'Eneide, circa 40 anni prima della nascita di Cristo, evocare dal nulla un gruppo di demoni infuocati affinché potessero scavargli una grotta lunga un chilometro ai piedi di una collina. Un'apertura come se fosse un acquedotto che avrebbe rifornito le città e i paesi circostanti.
Il lavoro si sarebbe completato in una sola notte, se non fosse passato di lì un cittadino che, gridando impaurito verso i lampi di luce e il frastuono del lavorìo, mise in fuga gli spiriti infernali che si volatilizzarono nel nulla. Questi lasciarono il lavoro quasi ultimato, poiché soltanto per altri 100 metri il tunnel sarebbe stato costruito. E' così che nacque la Cripta Neapolitana, sita tra la tomba commemorativa di Leopardi e il colombario che conteneva (ma ora non più) le ossa di Virgilio. Arrivati al Parco ciò che risalta subito all'occhio è il particolare sentiero che porta sino al colombario. Ai lati, sul verde, sono poste delle indicazioni scritte riguardo gli organismi vegetali (alberi, piante, fiori) che si incontrano lungo il tragitto, i quali hanno a che fare con le opere del poeta (come, un esempio tra tutti, l'alloro). Sulla prima rampa in una nicchia è posto il busto di Virgilio; alla seconda si raggiunge la tomba di Leopardi che costeggia la Cripta Neapolitana. Al centro delle due c'è una rampa di scale che porta al corridoio che rappresenta un acquedotto romano (dal quale è
possibile carpire alcuni dettagli dell'apertura della Cripta altrimenti non raggiungibili dalla vista). La rampa di scale poi continua sin a raggiungere un passaggio per il colombario in cui è riposto un braciere e una corona d'alloro, simboli commemorativi per il poeta/divinatore. L'entrata della Cripta Neapolitana è ad oggi sbarrata da una cancellata che, confrontando foto antiche e quelle moderne, è stata resa sempre più alta per non permettere l'ingresso ad alcuno. E' perennemente chiusa al pubblico per lavori in corso che non vengono completati. Il motivo per cui non è permesso entrare, è la paura dei lavoratori che scappano via terrorizzati in seguito all'ascolto di rumori e visioni mai sentiti e viste prima. I più superstiziosi parlano di alcuni demoni che sono rimasti nascosti tra le mura interne dopo che Virgilio li richiamò dagli inferi; c'è chi afferma di aver sentito i suoni dei baccanali che si celebravano all'interno della grotta. In entrambi i casi, per scongiurare il riavvicinarsi delle credenze pagane e delle paure per il maligno (e probabilmente anche per superstizione pura!), furono installati al di fuori della Cripta degli affreschi: una Madonna con Bambino in braccio è visibile anche dal basso, sul muro sinistro - inserita nel 1353 da Don Pedro di Toledo durante i suoi riassestamenti territoriali per scongiurare anche i riti orgiastici in nome di Priapo; un santo 35
(probabilmente San Luca, come ci fu indicato da un'esperta guida) è posto sulla parete destra, visibile però attraversando il cunicolo più piccolo dell'acquedotto romano, che corre parallelo alla Cripta vera e propria. Il Parco Vergiliano (che ricordiamo non è il Parco Virgiliano su a Posillipo) è una delle tante gemme della città, che splende ancor di più per la presenza della Cripta Neapolitana. Ciò che più affascina però è il lato oscuro, la leggenda della divinazione di Virgilio. La Chiesa della Madonna a Piedigrotta Al numero 27 di Piazza Piedigrotta, durante il cammino verso il Parco Vergiliano, sorge la Chiesa di Santa Maria a Piedigrotta. Nella seconda metà del 1300 l'architetto Albino ordinò la costruzione di questo edificio sacro. In realtà una piccola cappella fu costruita già dai pescatori che dal borgo di Santa Lucia si trasferirono nel borgo di Piedigrotta. Nella cappella, semplicemente vuota, scarna ed essenziale, fu eretta soltanto una statua di legno, per pregare la Madonna, la quale, vuole la leggenda,
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fece visita in quel luogo alcuni secoli dopo la nascita di Cristo. Improvvisamente la Madonna apparve. Si narra che precisamente il giorno 8 settembre, la Vergine apparve a tre persone: una monaca, un eremita e un monaco benedettino. Da allora, la umile cappella "artigianale" che poi divenne chiesa a tutti gli effetti dal 1307 (anno ufficiale di inizio dei lavori) mantiene il nome della Madonna di Piedigrotta, per benedire tutti coloro che attraversano la grotta per giungere ai Campi Flegrei o tornare indietro. Negli anni in cui prendeva piede il culto cristiano della Madonna dell'Idria (così veniva chiamata, come quella tipicamente siciliana), il culto pagano della Crypta Neapolitana teneva testa ai numerosi tentativi di cristianizziazione di Don Pedro di Toledo. E’ da notare che la Madonna di Piedigrotta è la stessa raffigurata nell'affresco appena fuori l'ingresso chiuso della Crypta Neapolitana, per allontanare i
rimanenti demoni che scavarono la grotta per Virgilio, per distruggere ogni tipo di superstizione, per rendere cristiano un luogo pagano dove Priapo veniva festeggiato con riti orgiastici. Inoltre sulla facciata principale esterna verso la piazza, in alto, vi sono delle scritte in latino e una di queste frasi dice: "Indulgentia Plenaria Quotidiana Perpetua Pro Vivis Et Defunctis". La chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, dedicata alla Natività di Maria, fu eretta a partire dal 1352 e terminata nel 1353, sul sito di una precedente chiesa dedicata all'Annunciazione alla Vergine Maria costruita nel V secolo, dove già si venerava un'immagine lignea della Vergine. Nei pressi sorgeva anche la piccola ed ugualmente antica cappella di Santa Maria dell'Itria, nome derivante per deformazione da "Odigitria", che è il nome di un particolare culto ed aspetto mariano di origine bizantina riconoscibile da una iconografia specifica, cioè col bambino in braccio nell'atto di benedire, e diffuso in tutto il sud dell'Italia, Questa cappella fu costruita su un precedente sacello del dio Priapo citato nel Satyricon di Petronio. Riti orgiastici erotici settembrini che si svolgevano anticamente, con danze e canti osceni intorno al simulacro del dio, anticiparono la successiva festa di Piedigrotta. D'altra parte ritrovamenti archeologici testimoniano con assoluta evidenza come nell'area dell'attuale chiesa già si praticasse il culto di Mitria. Nel 1453 il re Alfonso d'Aragona concesse la chiesa ai canonici lateranensi, per
essere poi restaurata nel 1520, nel 1820 e nel 1853. In origine l'ingresso principale della chiesa era presso l'altare maggiore, ma nel 1506 fu spostata sulla facciata rivolta verso la città. Nel 1571 don Giovanni d'Austria, comandante della flotta della Lega Santa, si recò in agosto a pregare la Madonna di Piedigrotta prima della battaglia di Lepanto e vi ritornò in ottobre in ringraziamento, dopo avere sconfitto la flotta dell'impero ottomano. L'interno della chiesa fu rimaneggiato tra il 1809 ed il 1824 e nel 1912 la chiesa fu eretta a parrocchia dal cardinale Prisco. Chiesa di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta La chiesa di Santa Maria Maggiore alla P i e t r a s a n t a è una chiesa basilicale del centro storico di Napoli; è tra le più interessanti dal punto di vista storico ed artistico e fu la prima chiesa della città ad essere dedicata alla Vergine. Sorge dinnanzi
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alla cappella dei Pontano e alla chiesa dell'Arciconfraternita del Cappuccio alla Pietrasanta. L'edificio sorse nel VI secolo come basilica paleocristiana su una struttura di epoca romana; la chiesa attuale fu eretta tra 1653 e il 1678 su progetto di Cosimo Fanzago che la riedificò in chiave barocca. Notevole è la facciata che è rimasta incompiuta al secondo ordine, mentre il portale, realizzato da Pietro Sanbarberio, risale al 1675. Ulteriori restauri furono compiuti tra il XVIII ed il XIX secolo; inoltre, nel 1803 il complesso conventuale venne adibito a caserma dei pompieri. I bombardamenti della seconda guerra mondiale colpirono gravemente la struttura religiosa ed il restauro fu portato a termine nel 1976. Venne chiamata "della Pietrasanta" perché all'interno veniva custodita una pietra che, quando la si baciava procurava l'indulgenza. La tradizione vuole che vi sia stato sepolto papa Evaristo. Sorse, come molti edifici ecclesiastici, per contrastare i vecchi riti romani pagani: in quella zona era radicato fortemente il culto per la dea Diana e riservato alle sole donne (perché a queste prometteva parti non dolorosi). Gli uomini ne furono sempre più infastiditi, tant'è che tali donne venivano appellate col sostantivo di ianare, dianare o sacerdotesse di Diana, in modo dispregiativo. Furono infine bollate di stregoneria, capaci di invocare il demonio. Forse qui nasce la leggenda del diavolo 38
travestito da enorme maiale che, tutte le notti, si aggirava minaccioso per la piazza e le strade limitrofe per spaventare col suo diabolico grugnito i passanti. La leggenda fu efficace per poter permettere al vescovo Pomponio, nel 533, la costruzione della versione più antica della Chiesa di Santa Maria Maggiore: durante il sonno la Vergine si presentò al vescovo e gli ordinò di costruire questa basilica paleocristiana sul tempio della dea Diana. Solo in questo modo avrebbe sconfitto il porco. Così fu, e ogni anno per molti secoli il vescovo sgozzava affacciato alla finestra della basilica un'enorme scrofa. Suino che doveva essergli offerto dai fedeli. La pratica è stata poi abbandonata perché ritenuta indecorosa. Riguardo l'edificio, è stato numerose volte restaurato: nella seconda metà del 1600 fu ricostruita per mano dell'architetto Cosimo Fanzano che le diede uno sfarzo del tutto barocco e il portale fu opera di Pietro Sanbarberio nel 1675.
Il pavimento fu ricostruito da Giuseppe Massa nel 1764 e furono collocate statue dello scultore e pittore Matteo Bottiglieri. Per esigenze di spazio fu usata come caserma dei pompieri all'inizio del 1800. Nel 1976 furono ultimati i restauri necessari per rimetterla in sesto dopo i bombardamenti nel secondo conflitto mondiale. Nonostante tutto ciò, non è mai stata ritrovata la favolosa Pietra Santa (da qui il nome alternativo della piazza e della chiesa): una roccia capace di dare l'indulgenza completa a chi la bacia. La leggenda del sogno del vescovo Pomponio si estende appunto alla Pietra che la Vergine indicò ricoperta da un leggero fazzoletto, proprio al di sotto del tempio di Diana. Non era importante trovarla, ma almeno costruirci su la chiesa. I resti del tempio di Diana, comunque, sono ancora visibili dentro, fuori e nella cripta della chiesa, come ad esempio i frammenti di un antico mosaico roma-
no. Il campanile della Pietrasanta: il più antico campanile d'Italia. Costruito in laterizio, classico esempio di architettura romana, databile tra il X e l'XI secolo. I resti in opus reticulatum alla base sono una riprova dell'esistenza dell'antico tempio della dea Diana che fu eretta proprio in quella piazza. E le effigi di marmo a forma di grugno di maiale che si possono tutt'ora trovare nelle parti pù alte ricordano la leggenda del vescovo Pomponio. Negli ultimi anni lavori di restauro hanno rinvenuto, nella parte inferiore del campanile, la tavola del gioco romano "ludus latrunculorum", il gioco dei soldati, un antenato del gioco della dama o dell'Otello, e il feretro funebre del naturalista Stefano delle Chiaie che, divenuto direttore del Museo di Anatomia Umana di Napoli per venti anni prima della sua morte, fu sepolto in quel luogo nel 1860. I segnali della leggenda della Pietra Santa sono troppi e troppo insistenti. Non è da escludere che prima o poi verrà ritrovata in un anfratto dell'infinita cripta che si estende al di sotto della piazza. Intanto, i grugniti del maiale in alcune notti dell'anno possono essere udite distintamente. Una leggenda locale non accreditata del tutto è quella di Sant'Evaristo, il quinto papa della chiesa cattolica dalla sua fondazione, che è stato sepolto sotto la piazza. Si dice che ogni 27 ottobre, il giorno della sua commemorazione, la piazza 39
emani una forte sensazione di benessere dalle sue fondamenta. Conclusione Questa sezione intitolata “Il Gotico” voleva semplicemente palesare ancora una volta che il capoluogo partenopeo è un luogo meraviglioso dove poter trascorrere un intero fine settimana o periodi di lunga durata perché i luoghi da visitare non mancano. Chiese, cattedrali, piazze, strade, vicoli o parchi, tutto è intriso di cultura e tradizioni che investono la città di un’aura leggendaria e meravigliosa. Non solo, si è tentato di dimostrare che anche partendo da un tema generale come il vino aglianico, si riesce a creare una sorta di percorso immaginario che parte dallo stesso vino, per arrivare alle leggende di Dracula, il signore della notte, al “gotico” inteso sia come stile artistico che nell’accezione di “noir”, vale a dire il ricorso al misterioso. Napoli è una città dalle mille angolazioni e prospettive proprio perché lo stesso popolo partenopeo ne rispecchia molteplici.
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Negli ultimi anni si è cercato di dare di Napoli un’immagine stereotipata, con accezioni negative, il napoletano a volte è stato dipinto come rissoso, violento, incolto, rozzo o incivile. Anche questa è un’angolazione da cui guardare la città o chi ci abita, ma non è solo questa. Napoli vive nei cuori della persone che hanno avuto il piacere di visitarla o nell’immaginario di chi invece spera di poterla visitare un giorno. Questa città non è solo la terra che ha dato i natali a personaggi famosi e illustri che l’hanno resa celebre in tutto il mondo come Totò, Troisi, De Filippo, ma è la stessa che fa invidia a molte altre semplicemente perché non ci si sente in grado di reggerne il confronto. Parlarono di Napoli numerosi scrittori celebri, perché è vero quanto si dice e cioè che non può dire di aver viaggiato se Napoli non è stata visitata. Difatti Stendhal poco prima di partire disse: <Parto, non dimenticherò ne la via di Toledo ne tutti gli altri quartieri di Napoli, ai miei occhi e senza nessun paragone, la città più bella dell’universo>.
I tesori sommersi Un piccolo percorso che porta i viaggiatori a scoprire le origini di Neapolis, dai resti delle antiche mura greche invase dalla modernità fino al sottosuolo di Napoli, dai preziosi ritrovamenti degli scavi della metropolitana fino ai tesori nascosti sotto gli edifici napoletani. Il sottosuolo di Napoli offre numerosi tesori che sono stati custoditi per millenni dal successivo depositarsi di materiale di risulta derivante dalla costruzione della città. Venuti poi alla luce a seguito di quattro eventi particolari: il risanamento dopo il colera, le ricostruzioni dopo i bombardamenti, il terremoto del 1980 ed infine i lavori per la realizzazione della metropolitana. Alla fine del nostro piccolo percorso dei tesori del centro di Neapolis non possiamo non parlare di un altro importante tesoro archeologico: il parco sommerso di Baia. Le origini di Parthenope e Neapolis Il primo nucleo della città di Napoli, che si chiamò Parthenope dal nome della sirena che vi era venerata, sorse nell’area del promontorio di Pizzofalcone e sull’isolotto di Megaride, lì dov’è oggi il Castel dell’Ovo, a quel tempo collegato alla terraferma. Secondo 41
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Strabone (63a. C.-20 d. C. ca.) e Stefano di Bisanzio (VI sec. d. C.) Parthenope fu fondata dai Rodii, popolo proveniente dalla Grecia, probabilmente prima dell’VIII secolo a. C. Più verosimilmente, invece, qualche decennio prima della metà del VII secolo a. C., proprio in questa stessa zona era stato realizzato un epineion, e cioè uno scalo marittimo fortificato voluto dai Cumani in una posizione particolarmente strategica, a guardia dell’accesso meridionale del golfo che in quel periodo prendeva da loro il nome, mentre l’accesso settentrionale era controllato dalle colonie di Pithecusa (Ischia) e di Capo Miseno. Considerando che la navigazione avveniva principalmente sotto costa, presidi di tal genere consentivano un controllo efficace dei traffici marittimi ed in particolare, nel caso di Parthenope, delle rotte tirreniche verso gli empori minerari del Lazio e della Toscana, offrendo un porto sicuro e bene attrezzato anche per le navi che invece dovevano prendere il mare aperto in direzione della Sardegna, delle Baleari e dell’Iberia. La collocazione di Parthenope nella zona sopraindicata, in passato piuttosto discussa, è stata definiti-
vamente confermata solo nel 1949 grazie alla fortuita scoperta, in via G.Nicotera, di una necropoli suburbana composta di tombe “a cassa ditufo” che avevano conservato corredi funerari, in larga parte di tipo greco e grecocoloniale, affini a quelli di Cuma, costituiti principalmente da unguentari di Corinto e da brocche di Cuma, databili appunto tra il 650 a. C. ed il 550 a. C., ed anche dal rinvenimento di analoghi frammenti di ceramica nella zona di via Chiatamone, ove erano stati certamente portati dalle acque defluenti dall’altura di Pizzofalcone. Parthenope conobbe però certamente una fase di declino tra la prima metà del secolo VI ed i primi decenni del V secolo, ma non è ben chiaro se in realtà sia stata abbandonata dai fondatori Cumani, la cui egemonia nel golfo era ormai in crisi, oppure sia stata distrutta dagli Etruschi che erano i loro principali antagonisti. Secondo l’opinione generalmente seguita fino a pochi anni orsono, comunque, dopo la grave sconfitta navale subita proprio dagli Etruschi nel 474 a. C. per opera dei Cumani e dei Pithecusani-Siracusani, i primi ed i loro alleati
poterono riprendere il controllo delle zone perdute in precedenza, compresa ovviamente Parthenope. Lavecchia rocca posta a strapiombo sul mare era però evidentemente in sufficiente ad accogliere oltre che gli antichi fondatori anche i Pithecusani-Siracusani, e per tali motivi fu necessario fondare un più ampio insediamento urbano che prese appunto il nome di Neapolis ovvero “città nuova”, per distinguerla dalla Palaepolis, la “cittàvecchia” e cioè Parthenope. Quest’opinione si fondava in particolare, sull’elemento offerto dalla datazione dei frammenti di vasi di ceramica attica rinvenuti durante gli scavi del 1914-1916 nella necropoli di Castel Capuano, dalla quale poteva ritenersi che la realizzazione della nuova città fosse avvenuta intorno al 470 a. C.. Più recentemente invece, a seguito dell’individuazione in vico Soprammuro a Forcella di un tratto di fortificazione risalente al periodo tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a. C. e del ritrovamento di vari frammenti ceramici di età precedente il V secolo nelle zone di S. Aniello a Caponapoli, S.Domenico maggiore e S. Marcellino, può ritenersi che Neapolis sia stata fondata piuttosto intorno alla seconda metà del VI secolo a. C.
età ellenistica Licofrone (717 ss; 732 ss.- le Sirene, figlie di Acheloo e di una Musa, coi nomi di Parthenope, Leukosia e Ligeia, divengono tre, sono situate sulle tre isolette Seirenoussai (ovvero Li Galli), presso il promontorio sorrentino (Strabone V,4,8) , e si suicidano gettandosi nel mare subito dopo il passaggio di Odisseo, che aveva senza danno ascoltato il loro canto. Tutte e tre sono eponime dei luoghi in cui sono sepolte : Parthenope nell’area portuale di Neapolis ,Leukosia su un’isola a sud di Poseidonia (l’attuale Licosa), Ligeia su un’isola presso Terina. Cinta muraria e urbanistica La zona prescelta aveva un’area di circa 80 ettari, pari a quattro volte quella di Parthenope dalla quale il nuovo insediamento distava solo 1,5 km circa, e consisteva in un ampio pianoro in gran parte costituito da un banco di tufo giallo misto ad altri materiali piroclastici, articolato in basse terrazze digradanti dolcemente verso il mare dove, dopo un salto di circa 15 metri, era posta la spiaggia. Il pianoro era in particolare munito di valide difese naturali essendo chiuso a nord dalle tre colline
La tradizione sulla sirena Partenope Le Sirene, nella versione di Omero (Od. XII,45;159;167), erano solo due, situate su un prato fiorito ed anonime, prive di un genealogia. Nella tradizione successiva- che appare nei tratti definitivi nel poeta greco di 43
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di Capodimonte-Sanità, dell’Arenella e del Vomero e dal vallone di Foria, a sud dal litorale marino, mentre ad est e ad ovest si trovavano due opposte vie naturali di deflusso delle acque pluviali denominate anche lavinarii, costituite dal vallone di via S. Giovanni a Carbonara e dalla valle di piazza Dantecalata Trinità Maggiore. Questa particolare conformazione fu attentamente sfruttata per la realizzazione di una prima cinta muraria del tipo a doppia cortina collegata da briglie trasversali e rafforzate da un terrapieno (emplekton) realizzato con scaglie di tufo e terra. Le mura erano lievemente a scarpa con torri a base quadrata, e ne esistono ancora oggi resti in via Foria sotto lo strapiombo degli Incurabili, in via Costantinopoli, nell’area orientale di via Mezzocannone, al corso Umberto I, in piazza Calenda ed in via Duomo. Il tracciato murario era in linea di massima il seguente: da via Foria, lungo via Costantinopoli, piazza San Domenico Maggiore, poi su entrambi i versanti di via Mezzocannone, quindi attraverso le rampe di S.Marcellino fino all’Archivio di Stato, per poi ridiscendere fino a piazza Nicola Amore, da dove le mura costeggiavano il lato set-
tentrionale del corso Umberto, e da via Pietro Colletta risalivano verso Forcella e C a s t e l C a p u a no, ricongiungendosi infine in via Foria. La prima fase della costruzione della cinta muraria risale all’inizio del V secolo, nuovi interventi comunque si ebbero in concomitanza della guerra sannitica nel corso del IV secolo a. C., ed ancora nel secolo III a. C.. La città murata era percorsa da tre strade più ampie, denominate in greco plateiai e non decumani, corrispondenti la prima, alle attuali vie SS. Apostoli, Anticaglia, Pisanelli e Sapienza, la seconda a via Tribunali, e la terza alle vie Vicaria e S. Biagio dei Librai, che correvano tutte in direzione estovest, ed in circa venti strade minori, in greco stenopòi e non cardines,, orientate invece in direzione nord-sud. (Com’è noto decumanus e cardo designano gli assi della divisione agraria, la centuratio del mondo romano, e non hanno niente a che vedere con le strade urbane, specialmente di una città greca come Neapolis) Gli isolati (insulae) determinati dall’incrocio delle strade minori con i principali assi viari, avevano in particolare dimensioni dimetri 187 circa per 37 circa. Possiamo ubicare una serie di porte in corrispondenza con gli assi stradali citati; all’estemità est della platea di San Biagio vi era Porta Nolana o Furcellansis (unica porta di cui abbiamo dei resti) a ovet invece era ubicata una porta nell’area di piazza S. Domenico; la era una porta ubicata sotto platea dei Tribunali ad est terminava con porta Capuana( da
ubicare nei pressi del castello), e a ovest sotto la chiesa di S. Pietro a Majella; la platea dell’Anticaglia terminava a est con una porta presso la chiesa di Santa Sofia ma non aveva sbocchi sul lato occidentale. La tradizione conosce anche una Porta San Gennaro (allo sbocco di via Duomo) ed una Porta Ventosa che viene solitamente ubicata sul lato sud di via Mezzocannone. Mentre i vici erano larghi 3 metri le platee erano larghe circa 6 metri. La larghezza di 6-7 metri risulta corrispondere a quella della carreggiata, ma la platea era fornita anche da marciapiede, largo 3,5metri. Se si ipotizza una situazione su entrambi i lati della strada possiamo dire che la platea era larga 14 metri. Tale impianto “a fasce” (per strigas) è analogo a quello adottato nelle colonie greche di Selinunte, Imera, Locri e Poseidonia e sarebbe dunque più antico della pianta stabilita da Ippodamo di Mileto, architetto ricordato anche da Aristotele, per la città di Thurii nel 444a.C.. Secondo un’altra tesi invece, il reticolo urbanistico di Napoli greca deriverebbe proprio dal modello ippodameo, che sarebbe stato adottato, 45
infatti, a Napoli solo intorno al 430 a. C., a seguito dell’arrivo in città degli Ateniesi fondatori di Thurii. Quasi sempre in rapporto agli accessi sono collocate le torri che potevano essere sia a pianta quadrata che a pianta circolare. Poi vi erano due strade principali una chiamata via per colles e l’altra via per cryptam. Dalla porta situata nei pressi di San Pietro a Majella la strada per i colli montava per Salita Tarsia, il Vomero e poi scendeva per Fuorigrotta per raggiungere via Terracina dove era un vicus(villaggio) cui apparteneva l’edificio termale riportato alla luce; qui incontrava la via per crypta e proseguiva fino al territorio di Pozzuoli, attraverso il valico tra la Solfatara ed il monte Olibano. La via per cryptam usciva dalla porta in piazza San Domenico, percorreva la Riviera di Chiaia a Mergellina entrava nella crypta e, a via Terracina, incontrava l’altra che scendeva dai colli. I tesori del centro di Neapolis
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Nel centro di Neapolis, a cavallo della platea mediana coincidente con l’attuale via Tribunali, e precisamente tra via Anticaglia, via San Biagio dei Librai, via Fico al Purgatorio, via Purgatorio ad Arco e vico Giganti, in periodo greco, era posta l’agorà, che costituiva invece la piazza dove si riuniva l’assemblea popolare e si svolgeva la vita politica e amministrativa. Qui si trovava anche il tempio dei Dioscuri, al cui posto è oggi la chiesa di S. Paolo Maggiore. In periodo romano l’agorà della città greca fu trasformata in un forum duplex e cioè un foro doppio, perché a sud della piazza già destinata alle riunioni dell’assemblea cittadina, fu real i z z a t o i l m e r c a t o o forum rerum venalium , al cui centro era posto il macellum , un edificio adibito alla vendita di commestibili, proprio nell’area oggi occupata dal convento di S. Lorenzo Maggiore. L’antico tempio dei Dioscuri fu allora riedificato in dimensioni imponenti, fino a raggiungere la notevole altezza di 27 metri dal livello stradale, mentre alle sue spalle furono costruiti o, secondo alcuni, ristrutturati, l’Odeion , teatro co-
perto destinato agli spettacoli musicali, i cui resti non sono stati ancora esattamente individuati, ed il Teatro scoperto capace di accogliere fino a circa diecimila spettatori, e le cui attuali strutture risalgono a dopo il 62 d. C. I Teatri Nella topografia di Neapolis i Teatri occupavano la parte settentrionale dell’area pubblica della città cioè nel Foro, a nord del Tempio dei Dioscuri ora sormontata dalla Chiesa di San Paolo Maggiore, nei moderni isolati compresi tra via dell’Anticaglia, Vico Purgatorio ad arco e Vico Giganti. L’attuale via San Paolo separa l’Odeion dal Teatro scoperto. Nella parte meridionale invece si trovava il Macellum i cui resti si trovano al di sotto dell’attuale Chiesa di San Lorenzo Maggiore. Non restano tracce evidenti delle importanti costruzioni, se non nella forma curvilinea degli attuali edifici. Per quanto concerne il Teatro scoperto, lungo via Anticaglia sono visibili due arcate che documentano interventi di rinforzo della facciata. Successive costruzioni incorporarono il Teatro sco-
perto così che i due archi sembrano sostenere soltanto i muri esterni dei palazzi. C’è una tradizione letteraria sull’esistenza del Teatro di Neapolis la quale dice che sicuramente la città doveva avere un Teatro già durante il regno di Augusto, perché nel 2 d.c. quest’ultimo decide di far celebrare dei giochi a Napoli (Napoli era considerata la città della cultura nel mondo romano) che erano l’imitazione delle olimpiadi greche. Le olimpiadi prevedevano manifestazioni ginniche che si tenevano nella parte bassa della città dove c’era il Gymnasio, manifestazioni musicali nell’Odeion ed infine rappresentazioni drammatiche (commedie e tragedie) nel Teatro scoperto. Quindi certamente nel 2 d.c. Napoli doveva avere il suo Teatro. Sappiamo anche che sia l’imperatore Claudio e poi successivamente Nerone si sono recati a Napoli per rappresentare delle loro opere. Di conseguenza almeno dall’epoca Neroniana vi è conferma che Napoli avesse un teatro. Il teatro che si osserva attualmente 47
non appartiene né al periodo di Augusto né a quello di Nerone. È un monumento costruito alla fine del I sec. d.c. durante o dopo il regno di Domiziano, periodo in cui diversi edifici furono ricostruiti a seguito del terremoto che aveva devastato la Campania come conseguenza dell’eruzione del Vesuvio (79 d.c.). Si ipotizza che sia stato ricostruito ex novo dalle fondamenta in quel periodo, quindi sicuramente non è quello frequentato né da Claudio né da Nerone. È vero si che Nerone si è recato a Napoli per recitare in un teatro ma di certo non si tratta del Teatro romano in quanto sicuramente è stato costruito dopo. I lavori di restauro per questo monumento non sono ancora ultimati a causa dei mancati fondi economici. L’obiettivo, oltre a riportare alla luce il Teatro, è stato anche capire quando il monumento fu realizzato. Attraverso questi studi si è giunti ad una conferma cioè che il Teatro è stato realizzato alla fine del I sec. d.c. restando in uso fino alla fine del IV sec. d.c. Venne abbandona-
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to intorno al V sec. d.c. iniziando così a riempirsi con scavi di risulta e con tutti i rifiuti di questo quartiere. Era divenuto una vera e propria discarica perché si trattava di uno spazio enorme che non apparteneva più a nessuno. Questi rifiuti sono stati la sua fortuna poiché hanno nascosto una parte della cavea. Nella struttura di un teatro viene definita cavea l'insieme delle gradinate di un anfiteatro o di un teatro classico, dove prendevano posto gli spettatori per assistere alle rappresentazioni, ai giochi, o ad altri intrattenimenti. Divisa per ceto sociale, era distinta in ”ima”, ”media” e ”summa cavea”, in cui prendevano posto rispettivamente i ceti dei rango senatorio (in prima fila) e di rango equestre, le categorie intermedie, e la plebe. La zona indicata fino ad ora è l’ima cavea. Nella media cavea invece venne realizzato un orto. Sono state infatti ritrovate delle buche che venivano utilizzate per inserire le piante. La parte superiore invece, che corrisponde alla summa cavea, è andata
progressivamente distruggendosi a causa delle intemperie e soprattutto per la costruzione delle nuove abitazioni. Le case che si vedono osservando la figura sono tutte disposte in curva in quanto anticamente sono state costruite seguendo il perimetro del monumento. Questa disposizione permetteva ancora una visione del Teatro. Successivamente vennero addossati alla facciata esterna del Teatro degli edifici che ne impedirono la visibilità. Solo nel 1500, l’apertura di Vico Cinquesanti ha spaccato tutte le abitazioni all’interno delle quali sono state rinvenute tracce delle gradinate e dei muri romani. Gli ambienti interni Gli spettatori che entravano nel Teatro avevano tre strade per poter raggiungere i posti da occupare. Se erano particolarmente importanti e dovevano andare ai posti più bassi quindi nell’ima cavea non facevano scale ma attraversavano gli ambienti aperti. Se dovevano andare nella parte alta cioè nella summa cavea, quella dedicata al popolo, dovevano prendere delle scale quindi
dal corridoio esterno con una prima rampa di scale arrivavano sul ballatoio, poi attraverso questo passaggio trovavano nell’ambiente accanto una seconda rampa di scale che li portava in un’altra zona più in alto. Gli spettatori che invece dovevano andare nella media cavea percorrevano un’unica rampa che li portava direttamente nella zona a loro destinata. Nei sottoscala il pubblico non aveva accesso infatti la pavimentazione è più rozza (coccio pesto), probabilmente questa zona veniva usata anche come bagno per il pubblico. All’epoca avevano già capito che l’onda sismica veniva trasmessa diagonalmente, quindi il teatro fu organizzato secondo la tecnica dell’opus mixtum, dove il reticolatum serviva a disperdere l’onda e il latericium a bloccarla. I vomitoria erano degli ambienti di passaggio che venivano utilizzati per dirigersi diversamente nella cavea. Attraverso il vomitorium dall’ambulacro esterno a quello interno indicato nell’immagine si arriva nell’anello interno in cui si aprivano una serie di ambienti: alcuni erano ambienti di passaggio che facevano arrivare i visi-
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tatori direttamente nella cavea altri erano ambienti chiusi che venivano utilizzati per custodire tutto quello che serviva durante le rappresentazioni (maschere, costumi, scenografie) quindi non erano destinati al pubblico. Il pavimento degli ambienti di passaggio era molto più consistente ma anche più pregiato, era sempre cocciopesto ma oltre alla terracotta conteneva anche pezzetti di marmo bianco e pezzetti di marmo colorato in tessere più grandi. Quest’ultime non sono disposte a caso ma seguono un percorso preciso, per cui negli ambienti rettilinei sono visibili tre file parallele di tessere più grandi, nell’ambulacro la disposizione è diversa mentre nel punto di incontro tra il vomitorium e l’ambulacro la quantità delle tessere colorate è maggiore. Su alcune pareti dell’ambulacro si possono osservare delle decorazioni molto semplici, bianche nella parte alta e con delle fasce rosse e verdi nella parte bassa, il cui intonaco si è preservato grazie alla presenza dei rifiuti, mentre per la parte superiore delle pareti non abbiamo decorazioni perché andate perdute. L’unica zona della cavea che si può
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osservare, nonostante sia circondata da palazzi è la media cavea nella quale è ancora presenta l’arco di tufo che dava accesso al giardino pensile del palazzo. Di fronte alle gradinate che si vedono in figura c’era il palcoscenico purtroppo non più visibile, ora è possibile osservare solo il muro posteriore alla scena che affaccia nel chiostro del complesso dei Padri Teatini. Tutte le case che circondano i resti del Teatro sono rimaste al loro posto poiché non era giusto chiedere ad un interno quartiere di andarsene e anche perché gli archeologi erano certi del fatto che nei palazzi non ci fossero resti tali da giustificare un esproprio. Oltretutto questa bella convivenza tra passato e presente è stata accettata di buon grado dai residenti. Un’altra parte interna del teatro può essere osservata attraverso il percorso di Napoli Sotterranea visitabile tramite una botola in un basso di vico Cinquesanti che conduce al lato est del teatro: il proprietario del terraneo aveva ricavato l'accesso agli ambienti sotterranei che aveva adoperato come cantina tramite una botola che era situata sotto il letto. Aveva inoltre escogitato un meccanismo che permet-
teva la scomparsa del letto, che scorreva lungo dei binari, in una nicchia del muro. La scoperta di frammenti murari in opus latericium portò successivamente all'esproprio del basso e alla nuova destinazione d'uso. Macellum Questo monumentale complesso si estende all'angolo fra via Tribunali e via San Gregorio Armeno e rappresenta un notevole esempio di stratificazione edilizia, avvenuta nel corso dei secoli. A causa della conformazione non pianeggiante del territorio, in epoca greca in quest'area fu creato un terrazzamento, sostenuto da un muro di contenimento lungo tre lati (quello meridionale è a doppia cortina per contenere la spinta del terreno): lo spazio interno fu poi colmato artificialmente, in modo da avere a disposizione un pianoro. Nessuna certezza sulla funzione dell'area, da alcuni identificata con l'agorà. Con l'arrivo dei Romani, l'area ricadde a ridosso del Foro e su di essa sorse il Macellum, il mercato della città, con botteghe estese su due livelli e con l'Erario. Nel corso del V secolo d.C., una colata di fango dovuta ad un'alluvione ricoprì la zona, colmando l'intera strada ed il
livello inferiore del macellum. Lo spessore della colata fangosa portò alla radicale decisione di colmare l'area fino al livello stradale. Tra il 537 ed il 557, Giovanni II, vescovo di Napoli, fece costruire una Basilica paleocristiana le cui fondazioni, oltre a sfruttare le sostrutture del decadente macellum, furono in parte allocate nel fango. Al IX-X secolo risale la fondazione del Seggio. Nel 1234 l'area fu ceduta ai Francescani che, a partire dal 1284, iniziarono la costruzione della Basilica gotica con annesso convento, il che comportò l'abbattimento delle strutture romane superstiti, della Basilica paleocristiana e del Seggio. Le strutture sottostanti ancora utilizzabili vennero cosi usate nel corso dei secoli come sversatoio di materiale edilizio, nonché come fosse comuni. I primi sporadici ritrovamenti si ebbero nel 1929, durante lavori di restauro. Altri materiali vennero alla luce durante scavi tra il 1945 ed il 1950. Nel 1954, durante lavori di sistemazione del pavimento della chiesa, venne rilevato quasi completamente il perimetro della basilica paleocristiana, mentre scavi nel transetto portarono alla luce
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notevoli resti. I lavori di scavo ripresero nel 1972 portando alla luce i resti attualmente visibili. Negli ultimi anni si lavora solo per interventi di restauro o di consolidamento: essendo, infatti, gli scavi in galleria, il rischio maggiore è quello di trovarsi di fronte a crolli o a caduta di materiale. Si accede agli scavi dai chiostro settecentesco della chiesa, dove è possibile vedere parte del Macellum, ossia il mercato della città romana. L'intero edificio è largo 36 metri e si sviluppa a forma di rettangolo sul terrazzamento sopra citato In epoca romana, posteriormente al terremoto del 62 d.C., tutta l'area fu sistemata nell'attuale configurazione. Il Macellum, all'interno del terrazzamento, si presenta con un edificio circolare centrale (tholos) e file di botteghe (tabernae) sui lati est, sud, ovest, mentre il lato nord costituiva l'ingresso monumentale sulla platea mediana (l'attuale via Tribunali), all'altezza del Foro. Da una scala si scende al livello inferiore che corrisponde allo stenopos vico
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Giganti, che accoglie una serie di ambienti in doppia fila. Numerose sono le trasformazioni d’uso leggibili all’interno di questi ambienti: in alcuni ad esempio vi sono delle vasche per l’allestimento di fulloniche( tintorie), o un piccolo forno in un altro ambiente. Lungo l’estremità settentrionale dello stenopos si estendono forse ambienti destinati all’Erario della città, dove erano conservate le finanze cittadine provenienti dalle tasse; l’identificazione si deve alla presenza di una spessa inferriata alla finestra e alla robustezza dei battenti della porta. Al termine della strada, si incontra invece uno dei quattro lati di un criptoportico, costituito da ambienti intercomunicanti, con volta a botte e lucernari per l'ingresso dell'aria e della luce solare. Le terme Un altro tesoro sommerso del centro storico è il complesso termale di Santa Chiara. La terma romana è composta da vari ambienti. La zona per i bagni di acqua fredda Frigidarium, tiepida Tiepidarium, calda Calidarium, sauna Laconi-
cum. Ognuno di questi ambienti aveva una propria planimetria: laconicum forma circolare, frigidarium rettangolare, il calidarium aveva generalmente pianta rettangolare terminava con un abside. Le terme erano considerate come luoghi di ritrovo in quanto utilizzate dalla maggior parte dei romani come bagni pubblici dove erano soliti lavarsi poiché non lo facevano nelle proprie abitazioni. In tutte le strutture termali c’era la zona detta Prefurnium, dove c’era un grande forno che generava calore e che attraverso condutture, dette intercapedini, veniva disperso nelle parerti e sotto i pavimenti. Sia sotto le piscine che sotto il laconicum il pavimento era sorretto da colonnine di mattoncini disposte in un modo regolare proprio per facilitare il passaggio del calore. Queste colonnine dette sospensure identificano una particolare tecnica di costruzione romana, laddove vengono rinvenute si parla chiaramente di struttura termale e romana. Vi erano anche la Natatio, piscina utilizzata solo per nuotare, e lo spogliatoio Apodyterium. Il complesso termale di Santa Chiara, compreso all'interno del trecentesco convento, è sito in un'area che ricadeva al di fuori della cinta muraria greca, ad ovest della porta urbica. La scoperta dell'edificio termale e l'analisi di vecchi e nuovi rinvenimenti archeologici, hanno chiarito come il luogo, già dal I secolo d.C., sia divenuto, per esserlo almeno fino al IV, un quartiere residen-
ziale con edifici a carattere pubblico. Inglobato nella cinta muraria a seguito dell'ampliamento del 440 d.C., il complesso termale di Santa Chiara conservò la sua funzione sino all'età tardoantica, quando se ne affrontò una consistente ristrutturazione. L'area comprende una serie di ambienti termali e rappresenta tuttora il più completo esempio di therma documentato per Neapolis. L'impianto, che si estende per una superficie di oltre 900 mq ed è ascrivibile alla fine del I sec. d.C. L'impianto è costituito da un ambiente coperto ospitante una piscina (natatio), dinanzi alla quale è un'area destinata forse a palestra. Segue l'impianto termale vero e proprio che si sviluppa su due livelli (quello inferiore non è visibile) e nel quale si distinguono: un ambiente absidato con rivestimento marmoreo, forse la vasca di un tepidarium; un ampio ambiente in laterizio con quattro absidi angolari e pavimento mosaicato, forse un laconicum; una grande cisterna a tre navate.
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Domus romana sotto l’Archivio storico del Banco di Napoli Nei cantinati del Palazzo Ricca, attualmente sede dell'Archivio Storico del Banco di Napoli, sono stati rinvenuti resti di un monumentale complesso di età tardo repubblicana (II sec. a. C.) con decorazioni parietali del IV stile e quasi sicuramente connesso al complesso rinvenuto e distrutto dai lavori del Risanamento. Di particolare evidenza sono le strutture di età Flavia in opera laterizia (arcate e sostruzioni di ambienti) con notevole ricorso a pareti in opera reticolata e da un imponente ambulacro, in laterizio, disposto ortogonalmente al decumano maggiore (via dei Tribunali). Il rinvenimento di un ipocausto non può che confermare la pertinenza ad un impianto termale. Immediatamente dopo il maestoso portale dell'edificio, antica sede del Monte e Banco dei Poveri (1617), sulla sinistra di un ampio cortile, si apre sulla sinistra un corridoio che immette nell'area archeologica rinvenuta negli anni '70 a seguito di lavori di consolidamento del palazzo. Sulla sinistra del corridoio si accede ad un vasto ambiente che presenta sul lato di fondo due poderose
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arcate in laterizio che immettono in un altro ambiente, tompagnato in epoca successiva, forse interpretabile come criptoportico. Proseguendo lungo il corridoio si accede da un ampio salone ad un altro ambiente a forma rettangolare diviso in due da un muro di epoca successiva. Sul lato sinistro si evidenzia un pavimento a mosaico, realizzato a tessere bianche e nere, poste in modo da formare una raffigurazione a motivi geometrici, racchiusa da una doppia fascia a tessere bianche. Alla parete di fondo, presumibilmente in opera laterizia, si appoggia una struttura muraria in opera vittata, che si sovrappone in parte al pavimento a mosaico, segno che si tratta di un intervento di epoca successiva. Entrambe le strutture sono rivestite da una decorazione pittorica con zoccolo a motivi vegetali, su fondo rosso, inquadrabili nel IV stile. L’ambiente era chiuso da una struttura in opera reticolata, individuata in un altro ambiente dell’edificio. Dall’ampio salone si accede ad un altro settore, parallelo al corridoio di accesso, costituito da una serie di ambienti in opera laterizia o laterizia con specchiature in opera reticolata e copertura
con volta a botte. L’identificazione funzionale di questi ambienti, prospicienti ai primi visitati, è incerta. Necropoli Altri tesori importanti per la nostra città sono le necropoli. Le necropoli urbane sono state scoperte nelle aree immediatamente adiacenti alla cinta muraria, dove sono stati individuati diversi nuclei per lo più ubicati in corrispondenza delle porte e delle strade. Almeno quattro sono i principali nuclei di necropoli. Il primo, dove sono stati rinvenuti i corredi più importanti di Neapolis, è quello situato nell’area di Castel Capuano; il secondo si estende da via Settembrini a via Foria fino alle alture dei Cristallini e dei Vergini, e a valle della Sanità; il terzo gruppo occupa la zona di via Santa Teresa degli Scalzi; il quarto è situato tra il Pallonetto Santa Chiara e Santa Maria la Nova. Un ruolo rilevante lo assumono le tombe ipogee di via Cristallini in quanto sono veri e propri monumenti scavati nel banco tufaceo della collina. E’ costituito da quattro ipogei adiacenti,
ciascuno caratterizzato da un vestibolo e una camera sepolcrale a pianta rettangolare disposti su due livelli; il vestibolo presenta su tre lati banchine per le offerte funebri e al centro una scala che conduce alla camera funebre sottoposta. In quest’ultima sono collocati lungo le pareti sarcofagi ugualmente cavati nel tufo, imitano i letti funebri. Sono riccamente decorati, infatti in un ipogeo è presente una enorme testa di Medusa inscritta in un tondo decorato da foglie e serpenti. Ritrovamenti grazie ai lavori per la realizzazione della metropolitana Durante gli scavi della metropolitana di Napoli sono stati rinvenuti numerosi
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reperti archeologici attribuibili a diverse epoche della città partenopea. Collocabili nell'epoca preistorica, greca, romana, bizantina, medievale e aragonese, i reperti sono esposti all'interno della Stazione Neapolis, un piccolo ambiente museale facente parte del complesso del museo archeologico nazionale di Napoli. La maggior parte dei reperti sono stati portati alla luce negli scavi delle stazioni di Municipio e Duomo. Municipio « Lo scavo della metropolitana è stata un'occasione unica. Il nucleo grecoromano è rimasto più o meno delle stesse dimensioni per molti secoli, in età angioina, aragonese e vicereale, come un gioco di scatole cinesi. » (Daniela Giampaola, l'archeologa italiana che dirige lo scavo di piazza Municipio) Gli scavi della stazione di Municipio si sono rivelati molto fruttuosi infatti sono stati rinvenuti più di tremila reperti. Grazie a questi scavi è stato possibile ubicare il porto di Neapolis in quanto per anni vi erano diverse ipotesi.
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Secondo il Capasso vi erano due porti grande e uno piccolo. Il primo, Portus Vulpulum, era ubicato nell’area occupata oggi da Castel Nuovo, piazza Municipio e Via Medina; il secondo, Portus de Arcina, era situato tra via Porto e Maio di Porto. Mario Napoli sosteneva invece che l’area portuale si trovava nella vasta aerea occupata da Palazzo Reale, dal Teatro San Carlo, dal Castello Angioino e da piazza Municipio sino all’alteza di via Medina. Ma grazie agli scavi si è arrivati alla conclusione che il porto era situato tra piazza Municipio e piazza Bovio. Questi scavi hanno riportato alla luce tre navi chiamate A,B,C. Le prime erano navi commerciali marittime, la terza era utilizzata per servitù portuale per il carico e lo scarico delle merci o per attività di pesca. Napoli A e Napoli C sono state trovate in posizione perpendicolare tra loro, probabilmente affondate e poi insabbiate. Napoli B affonda forse per una mareggiata. Oltre alle navi sono stati portati alla luce suole in cuoio di calzari romani, monete, sigillate corinzie con decora-
zioni di scene bacchiche, balsamari, una notevole quantità di ceramica ben conservata (ovvero anfore, pentole di terracotta, coppe di produzione africana che si erano frantumate cadendo nell'acqua), bottiglie di vetro tappate chiuse con tappi di sughero. Duomo Durante gli scavi della stazione di Duomo, sita a piazza Nicola Amore, sono emersi numerosi reperti archeologici che, per numero, sono secondi solo a quelli ritrovati nei cantieri della poco distante stazione di Municipio. Però, in precedenza grazie ai lavori del Risanamento si è potuto identificare l’area di piazza Nicola Amore, come aerea dei giochi. Dell'antico gymnasium sono testimonianza una statua di Nike acefala, un'erma di Eracle e numerose iscrizioni relative ai Sebastà, tutti provenienti dalla zona compresa fra Sant'Agostino alla Zecca, corso Umberto e Sant'Agata degli Orefici. Recente è infine il rinvenimento in piazza Nicola Amore dei resti di un tempio prostilo su podio, identificato con il tempio annesso al gymnasium, di età giulio - claudia,
circondato da un portico le cui pareti erano rivestite di lastre iscritte, ritrovate ribaltate, con le dediche dei vincitori nei diversi tipi di gare ginniche, equestri e musicali dei Giochi Isolimpici. Le lastre portano portano impressi, in greco, i nomi dei vincitori delle Isolimpiadi, divise per categorie (uomini, donne, fanciulle, ragazzi) e discipline (pancrazio, lotta, pugilato, corsa armata).
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La magia nera Un mago a Napoli Quando si parla di magia nera nella città di Napoli, non si può non pensare immediatamente a Virgilio. Il poeta, difatti, fu apprezzato non solo per le sue doti letterarie quanto, e soprattutto, per aver liberato la città da varie iettature, così come raccontano le leggende popolari. A lui, i napoletani dedicarono l’omonimo parco di Piedigrotta: il Vergiliano, spesso erroneamente confuso con il Virgiliano che si trova, invece, a Posillipo. Dalla visita di questo parco inizia il nostro Itinerario. Percorrendo la lunga scalinata che, anticamente, collegava la città di Napoli alla zona dei campi Flegrei, i napoletani potevano ritrovarsi dinanzi al colombario, antico monumento funebre romano chiamato così per le numerose nicchie scavate al suo interno e leggere la seguente incisione: “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope;cecini pascua, rura, duces ” (Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, mi tiene ora Napoli; cantai i pascoli, le campagne, gli eroi). È nel Vergiliano, infatti, che è custodita la tomba del poeta. 58
Il Mausoleo di Virgilio, decorato con affreschi medievali, non è l’unico monumento funebre presente nel parco. Poco distante, difatti, precisamente subito dopo l’ingresso del parco, un altro poeta dorme il suo sonno eterno: si tratta di Leopardi, la cui tomba fu trasferita qui nel 1934, anno in cui furono ultimati i lavori all’interno del parco. Proseguendo più avanti, potremo notare, sulla destra, la Cripta Neapolitana , un’antica galleria, ora chiusa per restauri, che collegava Mergellina con Fuorigrotta. Alcuni raccontano che sarebbe stato lo stesso Virgilio a creare la galleria in una sola notte, ricorrendo alle sue doti magiche.
Parco Vergiliano
In realtà essa fu realizzata da Lucio Cocceio Aucto per volontà di Marco Vipsanio Agrippa. Secondo i racconti, Cocceio, usufruendo del lavoro di cento uomini, avrebbe terminato l’opera in quindici giorni. Mentre le altre gallerie flegree persero, in seguito alla guerra tolemaica, la loro importanza strategica, la Crypta Neapolitana continuò ad essere utilizzata come infrastruttura civile. Seneca, però, la descrive come un luogo angusto, buio ed opprimente e, proprio per questo motivo, nel corso dei secoli si cerco di ampliarla e migliorarla per porre fine a tali problematiche. Nel 1455 il re alfonso V d’Aragona rese meno ripido il pendio d’accesso da Margellina. Nel 1548 don Pedro di Toledo la fece ampliare e pavimentare e, successivamente, furono effettuati vari restauri volti al rafforzamento della galleria. La galleria, tenendo in considerazione le conoscenze tecniche dell’epoca, può essere considerata un capolavoro dell’ingegneria. La crypta, inoltre, aveva una forte valenza simbolica, essa era, difatti, considerata il simbolo
Iscrizione tomba di Virgilio
materno e uterino, del passaggio tra la morte e la vita, tra la luce e il buio. Nei suoi scritti, Petronio racconta che, nel I secolo, la cripta era stata consacrata a Priapo, il dio della fertilità. In onore del dio furono organizzate cerimonie misteriche e riti orgiastici. In epoca magno-greca nella grotta furono celebrate feste in onore di Afrodite, dea dell’amore, durante le quali le fanciulle vergini e le spose infeconde praticavano pratiche propiziatorie. Se la testimonianza di Petronio non ha altri riscontri, durante i lavori eseguiti sotto la dominazione spagnola fu ritrovato un bassorilievo rappresentante Mitra Tauroctono tra il sole e la luna, datato intorno al III-IV secolo, che oggigiorno è conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La galleria era, inoltre, orientata in modo tale che, in occasione degli equinozi, il sole fosse perfettamente allineato tra i due ingressi all'alba e al tramonto, in modo tale che, in quei momenti, la galleria che solitamente era immersa nell’oscurità, potesse risplendere, da ogni parte, di luce. Il tunnel acquisì un carattere ambivalente: da un lato si riteneva che un grande maleficio si sarebbe abbattuto su coloro che avessero provato ad attraversarlo, da soli, di notte; dall’altro uscirne indenni ma, soprattutto, uscirne, era considerato un presagio fausto. I riti legati al culto di Mitra furono, nel corso dei secoli, sostituiti con quelli del Cristianesimo. Petrarca, nei suoi scritti, parla del culto della Madonna Odigitria in una cappella ricostruita sui 59
resti del sacello di Priapo. Tale cappella divenne un luogo di culto per i cristiani, fino a quando non fu costruita la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta proprio dinanzi all’ingresso della Crypta. Boccaccio, in una lettera del 1339, parla di una “donna di pederocto “ riferendosi, probabilmente, risale al simbolismo del piede, legato al parto e al passaggio morte-vita. Secondo le credenze popolari, esisteva un talismano, chiamato lo scarpunciello da Madonna” che aveva un potere propiziatorio per le partorienti che, come avveniva in passato per la crypta, dovevano recarsi nella Chiesa della Madonna di Piedigrotta. Il Castel Dell’Ovo Virgilio era, dunque, un mago o ,comunque, così lo consideravano i napoletani. La testimonianza più famosa di questi suoi poteri sarebbe, secondo le leggende, il Castel dell’Ovo. Il nome di questo
castello, costruito sull’antica Megaride, racchiuderebbe in sé il destino dell’intera città. Si racconta, infatti, che Virgilio abbia nascosto, in una delle nicchie presenti nelle fondamenta del castello, un uovo. Alla rottura di quest’ultimo, l’interacittà sarebbe crollata. I napoletani credettero così tanto a questa leggenda che, nel XIV secolo, in seguito al crollo di alcune parti dell’arco principale del castello, la regina Giovanna I, per evitare che in città si diffondesse la paura tra il popolo, fu costretta a recarsi in città per rassicurare tutti: lei stessa aveva personalmente provveduto a sostituire l’uovo, che i poteri dell’uovo erano stati ristabiliti e che i sudditi non avevano più nulla da temere. In realtà, secondo alcuni studiosi meno inclini a credere a simili “storielle”, il nome del castello sarebbe legato all’”uovo filosofico”, termine esoterico che si riferisce all’athanor ovvero al
Tomba di Leopardi
Santa Maria di Piedigrotta 60
forno di metallo o vetro all’interno del quale gli elementi primari, quali zolfo e mercurio, si trasmutavano lentamente nell’oro alchemico. A napoli, durante il periodo medievale sorge un’importante scuola ermetica dedita allo studio dell’alchimia. Secondo alcuni scritti antichi , oltre che un grande poeta, Virgilio sarebbe stato un alchimista e uno sperimentatore dell’uovo filosofico. Per operare nella massima segretezza, Virgilio si sarebbe recato, insieme con i suoi seguaci, in uno degli antri segreti dell’isoletta di Megaride attirando l’attenzione di qualche curioso che avrebbe raccontato in giro di quel uovo misterioso di cui, in realtà, aveva frainteso il vero significato. Prima, però, di soffermarci sul Castello è opportuno fare qualche passo indietro nel tempo e tornare alle origini di quell’isoletta che, quasi come una madre, aveva accolto il corpo inerte della sventurata sirena Partenope…
Castel dell’Ovo.
Nel I secolo a.C. Lucio Licinio Lucullo realizzò, sull'isola, una splendida villa dotata di una grande biblioteca, di allevamenti di murene e di alberi di pesco importati dalla Persia, che per l'epoca erano una novità assieme ai ciliegi che il generale aveva fatto arrivare da Cerasunto. La memoria di questa proprietà perdurò nel nome di Castrum Lucullanum che il sito mantenne fino all'età tardoromana. Intorno alla metà del V secolo la villa fu fortificata per volontà di Valentiniano III. Nel 476 re Odoacre rinchiuse, nel castello, l’ultimo imperatore d’Occidente: Romolo Augusto. Alla morte di quest’ultimo, sull’isola giunsero i monaci basiliani che, approfittando dell’immensa biblioteca luculliana, crearono un importante scriptorum. Nel 1140, dopo aver conquistato Napoli, Ruggiero il Normanno si trasferì in città dando inizio ad una fortificazione del sito. Testimonianza più evidente di questa fortificazione è la Torre Nor-
Resti Villa Luculliana 61
mandia. Con Federico II, nel 1222, il castello fu ulteriormente fortificato divenendo sede del tesoro reale. Con Federico II furono erette la Torre di Colleville, la Torre Maestra e la Torre di Mezzo. Il castello divenne reggia e prigione di stato. Con l’avvento di Carlo I d’Angiò la corte fu spostata al Maschio Angioino, ma il Castel dell’Ovo mantenne la sua funzione di prigione di stato. Qui, infatti, fu rinchiuso Corradino di Svevia prima di essere decapitato nella piazza del Mercato. Dopo il terremoto del 1370 che causò il crollo di una parte dell’arco principale, la regina Giovanna I fece rinforzare le murature e restaurò anche le antiche costruzioni normanne. Dopo avere abitato il castello come sovrana, la regina venne qui imprigionata dall’infedele nipote Carlo di Durazzo, prima di essere mandata in esilio a Muro Luca-
Interno Castel dell’Ovo
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no. Alfonso V d'Aragona apportò al castello ulteriori ristrutturazioni: egli arricchì il palazzo reale, ripristinò il molo, potenziò le strutture difensive. Alfonso lo preferì al Maschio Angioino, trasferendovi la sua corte e passando qui la maggior parte del suo tempo. Dopo aver previsto di essere vicino alla morte, il sovrano chiese di essere temporaneamente seppellito nel castello prima di essere trasferito, in maniera definitiva, nel suolo natio. Nel 1503 l’assedio alla città di Napoli, realizzato da Ferdinando il Cattolico, si concluse con la distruzione delle due torri e la conquista dell’intero Regno di Napoli in favore della Spagna. Le mura del castello, che assunse la forma odierna, furono inspessite, furono migliorati gli armamenti e le strutture difensive furono orientate verso terra. Durante il vicereame spagnolo e, successivamente, con i Borbone, il castello fu fortificato e furono aggiunti due ponti levatoi. La struttura perse il ruolo di residenza reale e dal XVIII secolo divenne un avamposto militare. Da qui, gli spagnoli bombardarono la città durante i moti di Masaniello. Il Castello mantenne, però, la funzione di prigione. In esso, infatti, furono rinchiusi Tommaso Campanella, prima di essere condannato a morte, e, in seguito, alcuni giacobini, carbonari e liberali come, ad esempio, Carlo Poerio, luigi Settembrini e Francesco de Sanctis. Durante il periodo del cosiddetto "Risanamento", che cambiò il volto di Napoli dopo l'Unità d'Italia, un progetto
elaborato dall'Associazione degli scienziati letterati e artisti nel 1871 prevedeva l'abbattimento del castello per far posto ad un nuovo rione. Tuttavia, , fortunatamente per la storia e la cultura della città, quel progetto non fu attuato e l'edificio rimase in possesso del demanio. Nelle grandi sale presenti al suo interno si svolgono, durante tutto l’anno, mostre, convegni e manifestazioni. Alla sua base sorge il porticciolo turistico del "Borgo Marinari", animato da ristoranti e bar, sede storica di alcuni tra i più prestigiosi circoli nautici napoletani. Percorso il breve pontile che congiunge il castello e Via Caracciolo, vi sentirete quasi catapultati in un’altra dimensione, in un’epoca che va dal vicereame spagnolo fino a giungere all’età dei Borbone. Camminando per il castello potrete osservare la Torre Maestra, le celle dei monaci, la Torre Normandia. Sarà il punto più alto del castello, però, a mostrarvi lo spettacolo più grande: da un lato il mare e tutto ciò che
potete toccare solo attraverso l’immaginazione, dall’altro la concretezza di secoli di storia, di cultura che quasi sembrano proporsi come biglietto da visita a coloro che giungono dal mare e che si trovano dinanzi ad una città che di storia ne ha da raccontare… Il Diavolo di Mergellina Nella prima metà del Cinquecento, una bella donna napoletana, il cui nome era Vittoria, si innamorò del vescovo di Ariano, Diomede Carafa. La fanciulla, che in passato aveva deciso di farsi suora, abbandonò il noviziato e incaricò una fattucchiera di creare una fattura d’amore per fare in modo che il vescovo si innamorasse di lei. Improvvisamente il vescovo iniziò a sentirsi attratto da quella fanciulla tanto che la sua immagine iniziò a perseguitarlo. Resosi conto di essere vittima di un maleficio, il vescovo inizio a documentarsi per trovare una soluzione al maleficio. L’unico modo per riuscire a scacciare la fattura, secondo i testi da lui letti, era quello di far realizzare da un artista un dipinto raffigu-
rante S. Michele e un drago (rappresentazione del diavolo) avente il volto di Vittorio: egli progettò, in poche parole, una sorta di contro fattura. L’opera, inoltre, doveva essere protetta in un posto sacro ed essere ricoperta di acqua santa e balsamo. Il dipinto si trova ora nella Chiesa di S, Maria del Parto a Mergellina. La leggenda, narrata tra l’altro da Benedetto Croce, si diffuse presto tra il popolo napoletano tanto che fu creato il detto “si bella e ‘nfama comm’ ‘o riàvule ‘e Margellina” La Chiesa di Santa Maria del Parto Nel 1497 Federico I salì al treno del Regno di Napoli e concesse a Jacopo Sannazaro un terreno nella zona di Mergellina appartenuto, in passato, ai monaci benedettini . Alla villa preesistente, Sannazaro fece aggiungere una torre e due chiese sovrapposte i cui lavori inizarono nel 1504, anno del definitivo trasferimento a Napoli del poeta. La Chiesa sottostante, interamente scavata nel tufo, fu terminata nel 1525 e fu dedica a Santa Maria del Parto. Essa divenne luogo di pellegrinaggio di tutte le donne incinta o di coloro che
volevano avere figli. Dopo la morte del poeta la chiesa cadde in uno stato di abbandono, mentre quella superiore rimase inconclusa non solo a causa dell’epidemia di pesta dell’epoca ma anche e, soprattutto, per l’instabilità politica dell’epoca. Prima della sua morte Sannazaro donò il suo possedimento ai frati dei Servi di Maria facendosi promettere che al suo interno avrebbero fatto costruire il suo monumento funebre. Quando. Nel decennio francese, Napoleone Bonaparte fece sospendere gli ordini sacerdotali la chiese e le sue proprietà passarono nelle mani dei privati che ne modificarono la facciata per allargare lo spazio necessario per le abitazioni. Nel 1971 la Chiesa tornò nelle mani dei Servi di Maria. La facciata della chiesa ha forma rettangolare ed è tinteggiata in rosso. Essa è divisa in due parti: quella inferiore è caratterizzata da un arco, nel quale è iscritto un arco più piccolo che dà l'accesso al vestibolo; accanto ad esso altri due archi più piccoli sono utilizzati come ingressi secondari e sono sormontati da due epigrafi, una a
Interno Castel dell’Ovo
Pontile che congiunge il Castel dell’Ovo e via Caracciolo
S. Michele e il Drago– Santa Maria del Parto
Esterno Chiesa di S. Maria del Parto
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destra, l'altra a sinistra, che narrano alcuni degli eventi riguardanti la storia della chiesa. Al di sopra delle due epigrafi sono affrescate le figure di Federico d’Aragona e Jacopo Sannazaro, entrambe fortemente danneggiate. A concludere questa parte della facciata, vi sono una botola che è utilizzata come fonte di luce e due stemmi gentilizi. La parte superiore della facciata, invece, è caratterizzata da tre balconi, tutti terminanti con stucchi riproducenti un timpano, e nella parte centrale, sormontato da una croce in ferro, si trova un rosone. La facciata non è quella originale progettata da Sannazaro, ma fu modificata durante il decennio francese . « La nobile e decorosa facciata con porta rettangolare, coronata da tra statue marmoree, come ben rammentano i vecchi abitatori di quella contrada, fu deformata miseramente da un lungo braccio di casa privata, edificato sopra di quella e sopra l'area dell'interno vestibolo. » (Antonio Mancini)
Interno– Santa Maria del Parto
Superato l'arco di ingresso si accede al vestibolo: ai lati del portale ligneo, che funge da vera entrata alla chiesa, sono visibili resti di affreschi, mentre nel lato destro, in una sorta di piccola cappella, è custodito un presepe con statue lignee, realizzato nel XVI secolo da Giovanni da Nola e precedentemente custodito nella chiesa inferiore. La chiesa ha un’unica navata. La volta della chiesa non ha decorazioni mentre il pavimento fu rifatto nel XX secolo con piastrelle bianche e nere mentre, in una delle cappelle laterali, rimangono tracce della pavimentazione di maioliche. Lungo tutto la navata vi sono decorazioni di stucco bianco e dorato che riproducono non solo elementi naturali, ma anche putti che recano, oltre alle allegorie della Fortezza, Carità, Fede e Speranza, anche i simboli della passione di Gesù. Su ogni lato della navata vi sono, inoltre, tre cappelle recanti dipinti e decorazioni di vari artisti. Nel XVIII secolo fu aggiunto l’altare maggiore nelle vicinanze dell’arco trionfale realizzato, quest’ultimo, da Pietro Nicolini e su cui, tra l’altro, è posata la statua della Madonna col Bambino, in legno policromo, realizzata da Francesco Saverio Citarelli nel 1865. Subito dopo troviamo un altro arco sotto le cui curve sono poste le tele di Giovanni Battista Lama. L’abside, la cui forma è rettangolare, ospita la tomba di Sannazaro. Il monumento funebre fu realizzato da Giovanni Angelo Montorsoli . 65
L’oscuro principe di San Severo Tra i principali personaggi che figurano nella scuola degli alchimisti napoletani, spicca il nome di Raimondo di Sangro Principe di San Severo . Tra i massimi scienziati napoletani e accanito studioso di tutti i fenomeni riguardanti la natura, il principe divenne famoso per le sue numerose scoperte: dalla tipografia simultanea a più colori alla proprietà dei metalli, dalla decifrazione del linguaggio esoterico degli Indios fino alla realizzazione di “intrugli” in grado di indurire i materiali. Tali scoperte restano, però, avvolte nel più totale mistero: considerando le conoscenze dell’epoca, com’è possibile che il Principe sia arrivato a tali risultati? Grande anatomista, il di Sangro lasciò tutti stupefatti ed increduli attraverso la sua perfetta ricostruzione delle reti venose del corpo umano, grazie all’aiuto del suo allievo salerno. Figlio di Antonio di Sangro, Raimondo poteva vantare una discendenza Borgognona dallo stesso Carlo Magno. Lo
stemma della casate dei di Sangro, difatti, è quella della dinastia borgognona che fondeva al suo interno la stirpe carolingia, longobarda e normanna. Raimondo, per la sua versatilità e intelligenza fu annoverato tra i più insigni studiosi del XVIII secolo. Uomo animato da una grande voglia di rinnovamento ideologico, aderì alla massoneria un’associazione, questa, che inizialmente non trovò alcun tipo di opposizione nella città di Napoli. Successivamente Benedetto XIV fece intervenire il re Carlo per reprimerla e, nel 1751, il clero ebbe reazioni violente contro la massoneria e contro tutti quelli che ne facevano parte. Lo stesso Principe fu costretto, almeno apparentemente, ad allontanarsene. Solo apparentemente perché quando, nello stesso anno, vi fu una forte battuta d’arresto per l’associazione, il di Sangro decise di affidare alla cappella di famiglia, che stava restaurando, il compito di trasmettere ai posteri il suo pensiero
Tomba di Sannazaro—Chiesa S. Maria del Porto
Stemma casata di Sangro 66
ideologico. Nel suo laboratorio sotterraneo iniziò un’attività topografica, supportato dall’ausilio di macchine costosissime, con i quali, si dice, abbia stampato anche alcune opere scientifiche e testi massoni ritrovati nella sua immensa libreria. Questa notizia si diffuse ben presto in città tanto che il Principe, per evitare problemi, decise di regalare la stamperia a re Carlo di Borbone Nonostante le sue invenzioni, o comunque parte di esse, siano andate perdute, è possibile averne testimonianza grazie alle lettere, poi ritrovate, che egli si scambiò con i suoi amici. Tra le sue prime invenzioni realizzato con l’aiuto di poche corde, facile da smontare e realizzabile in uno spazio non vastissimo. Il palcoscenico fu realizzato per festeggiare la nascita del figlio di Carlo VI d’Austria e, grazie ad esso, riuscì ad ottenere l’ammirazione dei più grandi scienziati dell’epoca. Da questo momento in poi realizzerà numerose e geniali invenzioni: dal marchingegno che poteva sparare sia a polvere che a salve alla macchina capace di far giungere l'acqua a notevole altezza senza l'aiuto di animali; da una lega metallica ultra leggera e, con essa, un cannone con una gittata superiore a quelli del suo tempo ad un panno impermeabile, resistente alla pioggia più forte; dal congegno che utilizzò, poi, per costeggiare il golfo senza l’aiuto dei remi ad una lampada esterna; dalla scoperta di come realizzare pietre preziose utilizzando pietre grezze fino alla realizzazione di due macchine
anatomiche di cui, però, parleremo più avanti. La Cappella di San Severo Quando si parla del Principe di san Severo non si può non far riferimento alla Pietà dei Sangro di San Severo, una cappella fortemente voluta dal Principe per onorarne i personaggi sepolti e dare un maggior lustro alla sua casata: ecco, dunque, che egli farà mettere in mostra il valore e la nobiltà di spada degli uomini, e la virtù e la nobiltà d’animo delle donne. Animato da una forte ideologia massonica, il Principe progettò opere che racchiudessero quella simbologia e la trasmettessero ai posteri. Le rappresentazioni presenti nella cappella corrispondono ad un preciso codice allegorico: dopo aver scelto la vitù più adeguata a rappresentare un determinato membro della sua famiglia, egli aggiunge nuove simbologie per dare un significato ancor più profondo all’opera. Per la realizzazione di tale opera, oltre ai napoletani Sanmartino, Celebrano, Persico, Russo e Amalfi, furono chiamati in città anche Queirolo e Corradini. A loro il principe consegnò anche i marmi da utilizzare e colori alchemici. Dopo l’ultimazione della cappella Raimondo lasciò scritto, nel suo testamento, che le opere in essa contenuta non dovevano essere né spostate dal l’ubicazione originale né, tantomeno, modificati. La Cappella di San Severo Quando si parla del Principe di san Severo non si può non far riferimento alla Pietà dei Sangro di San Severo, una 67
cappella fortemente voluta dal Principe per onorarne i personaggi sepolti e dare un maggior lustro alla sua casata: ecco, dunque, che egli farà mettere in mostra il valore e la nobiltà di spada degli uomini, e la virtù e la nobiltà d’animo delle donne. Animato da una forte ideologia massonica, il Principe progettò opere che racchiudessero quella simbologia e la trasmettessero ai posteri. Le rappresentazioni presenti nella cappella corrispondono ad un preciso codice allegorico: dopo aver scelto la vitù più adeguata a rappresentare un determinato membro della sua famiglia, egli aggiunge nuove simbologie per dare un significato ancor più profondo all’opera. Per la realizzazione di tale opera, oltre ai napoletani Sanmartino, Celebrano, Persico, Russo e Amalfi, furono chiamati in città anche Queirolo e Corradini. A loro il principe consegnò anche i marmi da utilizzare e colori alchemici. Dopo l’ultimazione della cappella Raimondo lasciò scritto, nel suo testamento, che le opere in essa contenuta non dovevano essere né spostate dal l’ubicazione originale né, tantomeno, modificati.
Pietà dei Sangro di San Severo 68
Le sculture che decorano l’intera struttura sono espressione di una simbologia massonica-templare che ha un impatto visivo così forte che persino coloro che non sono esperti di iconografia o simbologia, riescono a percepire che quelle sculture vogliano “dire” molto di più di quello che potrebbe sembrare. Ma andiamo per gradi… La vegetazione marmorea, scolpita in tutta la cappella, rappresenta rami e arbusti di quercia. Il ramo rappresenta la forza e la sapienza, due virtù fondamentali per la massoneria. Gli arbusti, invece, rappresentano, sempre in maniera simbolica, la conoscenza del bene e del male. Soffermiamoci, a questo punto, sulla statua della Pudicizia: è quasi impossibile non rimanere stupiti dinanzi ad una rappresentazione così sensuale e femminile di tale virtù. Il velo che la ricopre, anch’esso frequente nelle rappresentazioni della cappella, rappresenta la Sapienza che deve essere svelata. La lapide spezzata, segno evidente della morte prematura della madre Cecilia Gaetani, si riferisce al tema dell’antica sapienza velata e intangibile per coloro che non sono “iniziati” ai suoi misteri. Ai piedi della statua, inoltre, vi è un vaso bruciaprofumi che allude alle fumigazioni con le quali i massoni erano soliti sacralizzare le loro cerimonie. La piramide, presente sullo sfondo della "Liberalità", della "Soavità del giogo coniugale", della "Sincerità" e della "Educazione", simboleggia la chiara ed
alta gloria dei principi che hanno fabbriche sontuose per mostrare la loro gloria. L’ Aquika, rappresentata nella statua della Liberalità, è il simbolo della vittoria, mentre la colomba, rappresentata nella “Sincerità” e nella “soavità del giogo coniugale”, rappresenta la pace e rafforza il concetto di unione coniugale. Che voi siate degli esperti d’arte o meno, non potrete non rimanere impressionati dinanzi al Cristo Velato, nell’ammirare una scultura che, a vederla, sembra così reale , da suscitare una forte commozione in colui che la osserva. Tale scultura, attualmente ubicata al centro della struttura era originariamente pensata per essere collocata nella cripta ovale che si trova al di sotto della cappella. Il Cristo velato, per secoli, ha impe-
La Pudicizia– Cappella di San Severo
gnato numerosi studiosi: com’ è possibile che il velo di marmo possa rendere visibile anche i lineamenti del viso di Gesù e i particolari del resto del suo corpo? Secondo alcuni fu lo stesso Raimondo a realizzare il velo del corpo di Gesù ma, a questo punto le ipotesi più accreditate sarebbero due: da una parte, Raimondo avrebbe usato una sostanza in grado di indurire, come il marmo, un tessuto lasciandone anche i drappi; dall’altra è possibile che Raimondo avesse creato uno strato così sottile di marmo da averlo reso trasparente. Fu compito di Sammartino, il realizzatore del corpo di Gesù, quello di rendere i due blocchi di marmo un pezzo unitario. Il tema del Cristo risorto rimanderebbe al viaggio compiuto dall’iniziato che, dopo essere morto simbolicamente, risorge a nuova vita. Il tema della Morte è riproposto ben due volte all’interno della cappella: la ritroviamo, infatti, sia nel Cristo Velato che nella Deposizione. Numerosi sono, anche, i simboli nel
Disinganno. La statua, che rappresenterebbe il padre di Raimondo, mostra un uomo, circondato da una fune piena di nodi che lo avvolgono senza, però, toccarlo. Il tema della statua è quello della rottura con i legami mondani fino ad arrivare alla redenzione. A quest’ultima l’uomo giungerà non attraverso la fede ma grazie all’intelletto che, illuminando la mente, la libera dalle passioni umane. Scolpito su tutto il pavimento della cappella, vi era un labirinto di cui purtroppo, ora, restano solo poche tracce. Il significato del labirinto è duplice: da una parte potrebbe rappresentare la volontà, del Principe, di esplorare e conoscere anche le parti più oscure della natura, conoscerla, in sostanza, come nessuno aveva mai fatto prima di lui; dall’altra potrebbe rappresentare l’idea che per giungere alla verità è necessaria l’intelligenza, così come la luce è fondamentale per non perdersi nel labirinto dell’universo. La vera entrata della cappella era quella laterale , l’entrata era dunque al Nord come prevedevano le antiche Log-
Il Cristo velato– cappella di San Severo
Il Disinganno– Cappella di San Severo
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ge massoniche; mentre la porta attualmente utilizzata come ingresso era murata. Ciò non era un caso, ma faceva parte di quel labirinto iniziatico che l’adepto doveva affrontare per uscire, davvero, dalla vita profana. Nella zona dove sorge tale cappella, un tempo vi era ubicato il tempio che gli alessandrini d’Egitto dedicarono alla dea Iside e dove essi veneravano la statua, velata, della dea. La cappella del Principe era segretamente unita al suo palazzo da un passaggio segreto, oggi andato completamente distrutto. Proprio all’intorno del palazzo egli realizzò la sua officina dove sperimentò l’impermeabilizzazione dei tessuti e progettò il famoso Lume della Fama che avrebbe dovuto risplendere, ai piedi del Cristo, velato senza mai spegnersi. Collocate originariamente nel Palazzo della Fenice del di Sngro e spostate, solo successivamente alla sua morte, nel sotterraneo della cappella, vi sono le due “Macchine Anatomiche”: (una maschile e una femminile) che rappre-
Ingresso Cappella di San Severo 70
sentano in maniera, quasi perfetta e dettagliata, l’intero sistema circolatorio del corpo umano. Le Macchine erano, in verità, tre,. Purtroppo, però, l’ultima, che rappresentava un feto, fu rubata intorno al XX secolo e di essa non si è mai più saputo nulla. Anche intorno a quest’opera, che da sempre suscita sbigottimento e ammirazione in coloro che la osservano, sono circolate numerose leggende. Secondo alcuni, infatti, il Principe , aiutato dal suo allievo Salerno, avrebbe realizzato tali macchine facendo degli esperimenti su due dei suoi servi, iniettando nelle loro vene una sostanza, da lui inventata, che avrebbe salvato il circuito sanguigno. Tale “leggenda” viene ritrovata anche negli scritti di Benedetto Croce che, nei suoi “Scritti di storia letteraria e politica, così scrive: « [...] fece uccidere due suoi servi, un uomo e una donna, e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie e le vene. » Le due Macchine furono realizzate, non
Macchina Anatomica– Cappella di
solo per creare stupore ma anche ,e soprattutto, come materiale didattico per coloro che volevano acquisire una conoscenza maggiore dell’apparato circolatorio umano. Quando il Vaticano costrinse il Principe ad abiurare e a fare i nomi di altri Iniziati come lui, i suoi parenti distrussero gran parte delle sue creazioni e scoperte, per evitare che i massoni, ritenutisi traditi dal loro fratello, potessero vendicarsi. Tutto ciò che potesse collegare il Principe al mondo oscuro fu prontamente fatto sparire da coloro che avevano ocn lui legami di parentela. Tra queste invenzioni non possiamo non citare l’orologio, dotato di un particolare carillon a campane ,che rappresentava una sorta di faro, utile ad indicare il sito iniziatico dei nuovi adepti . Tale meccanismo, nascosto in un tempietto ad otto colonne ( il numero 8 rappresenta un simbolo onnipresente nella rappresentazione massonica), permetteva di eseguire qualsiasi motivo percuotendo dei tasti rotondi che corrispondevano ai vari suoni delle campane. Il Segreto del bugnato del Gesù Nuovo Camminando per la famosissima Piazza del Gesù, collocata a poca distanza dalla cappella di Sansevero, si erge la maestosa Chiesa del Gesù Nuovo. La struttura, inizialmente concepita come palazzo, fu progettata da Novello da San Lucano, per volontà di Roberto Sanseverino, e ultimato nel 1470. Ai tempi di Ferrnte Sanseverino e di sua 71
moglie Isabella, il palazzo divenne famosso per lo sfarzo e la bellezza delle sue decorazioni, per gli affreschi e per lo splendido giardino. Divenne inoltre un punto di riferimento per la cultura napoletana non solo rinascimentale ma anche barocca. NEL 1536, dopo aver conquistato Tunisi, Carlo V giunse a Napoli e fu ospitato in questo palazzo da Ferrante in persona che, per l’occasione, organizzò una festa che rimase celebre nelle cronache del tempo. Nel 1547, durante il viceregno di don Pedro di Toledo, gli spagnoli cercarono di introddurre in città l’Inquisizione. I napoletani, sostenuti da Ferrante, si opposero a quest’imposizione riuscendo ad evitarla. Le conseguenze, però, per Ferrante furono gravose: egli fu costretto ad andare in esilio. E a rinunciare a tutti i suoi beni che, per volontà di Filippo II, furono messi in vendita. Nel 1548 il palazzo acquistato dai gesuiti. Costoro affidarono i lavori di manutenzione a due dei loro confratelli: Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi, della costruzione originale, risparmiarono solo il bugnato esterno ed il porta-
le marmoreo. La Chiesa fu consacrata nel 1601. Tra il 1629 e il 1634, sotto la direzione di Agatio, fu eretta la cupola il cui affresco, rappresentante il Paradiso, fu realizzato da Giovanni Lanfranco. La Chiesa fu sottoposta , in seguito ad un incendio verificatosi nel 1639, ad alcuni restauri al termine dei quali fu incaricato Aniello Falcone di eseguire la decorazione della volta della grande sacrestia. Nel 1688, in seguito al terremoto, la cupola crollò. Tra 1693 e 1695, ad opera di Arcangelo Guglielmelli, fu ricostruita la cupola e il portale marmoreo fu arricchito con nuove decorazioni (due colonne, due angeli e lo stemma dei gesuiti “IHS”). Su progetto di Ferdinando Fuga, la Chiesa fu rinforzata con sottopilastri ed archi e a Paolo de Matteis fu affidato il compito di realizzare un nuovo affresco per la cupola. Nel 1767 i gesuiti furono banditi dal regno di napoli e la Chiesa passò nelle mani dei francescani che, a causa di alcuni crolli, lasciarono la struttura. Nel 1774, infatti, parte della cupola
Chiesa del Gesù Nuovo
Interno della Chiesa del Gesù Nuovo 72
crollò e si decise di abbatterla totalmente per evitare nuovi ed improvvisi crolli. La Chiesa rimarrà chiusa per circa trentanni. Nel 1786 l’ingegnere Ignaziodi Nardo sostituì la cupola originaria con una falsa a calotta schiacciata, mentre la copertura della Chiesa venne provvista con un tetto a capriate. Il Segreto del bugnato del Gesù Nuovo Camminando per la famosissima Piazza del Gesù, collocata a poca distanza dalla cappella di Sansevero, si erge la maestosa Chiesa del Gesù Nuovo. La struttura, inizialmente concepita come palazzo, fu progettata da Novello da San Lucano, per volontà di Roberto Sanseverino, e ultimato nel 1470. Ai tempi di Ferrnte Sanseverino e di sua moglie Isabella, il palazzo divenne famosso per lo sfarzo e la bellezza delle sue decorazioni, per gli affreschi e per lo splendido giardino. Divenne inoltre un punto di riferimento per la cultura napoletana non solo rinascimentale ma anche barocca. NEL 1536, dopo aver conquistato Tunisi, Carlo V giunse a Napoli e fu ospitato in questo palazzo da Ferrante in persona che, per l’occasione, organizzò una festa che rimase celebre nelle cronache del tempo. Nel 1547, durante il viceregno di don Pedro di Toledo, gli spagnoli cercarono di introddurre in città l’Inquisizione. I napoletani, sostenuti da Ferrante, si opposero a quest’imposizione riuscendo ad evitarla. Le conseguenze, però, per Ferrante furono gravose: egli fu costretto ad andare in esilio. E a rinunciare a tutti i suoi beni che, per volontà di
Filippo II, furono messi in vendita. Nel 1548 il palazzo acquistato dai gesuiti. Costoro affidarono i lavori di manutenzione a due dei loro confratelli: Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi, della costruzione originale, risparmiarono solo il bugnato esterno ed il portale marmoreo. La Chiesa fu consacrata nel 1601. Tra il 1629 e il 1634, sotto la direzione di Agatio, fu eretta la cupola il cui affresco, rappresentante il Paradiso, fu realizzato da Giovanni Lanfranco. La Chiesa fu sottoposta , in seguito ad un incendio verificatosi nel 1639, ad alcuni restauri al termine dei quali fu incaricato Aniello Falcone di eseguire la decorazione della volta della grande sacrestia. Nel 1688, in seguito al terremoto, la cupola crollò. Tra 1693 e 1695, ad opera di Arcangelo Guglielmelli, fu ricostruita la cupola e il portale marmoreo fu arricchito con nuove decorazioni (due colonne, due angeli e lo stemma dei gesuiti “IHS”). Su progetto di Ferdinando Fuga, la Chiesa fu rinforzata con sottopilastri ed archi e a Paolo de Matteis fu affidato il compito di realizzare un nuovo affresco per la cupola. Nel 1767 i gesuiti furono banditi dal regno di napoli e la Chiesa passò nelle mani dei francescani che, a causa di alcuni crolli, lasciarono la struttura. Nel 1774, infatti, parte della cupola crollò e si decise di abbatterla totalmente per evitare nuovi ed improvvisi crolli. La Chiesa rimarrà chiusa per circa trentanni. Nel 1786 l’ingegnere Ignaziodi Nardo 73
sostituì la cupola originaria con una falsa a calotta schiacciata, mentre la copertura della Chiesa venne provvista con un tetto a capriate. Nel 1821, rientrati i Borboni a Napoli, i gesuiti tornarono in possesso della Chiesa da cui verranno, però, nuovamente abbandonati nel 1860. L'8 dicembre del 1857, l'altare maggiore ideato dal gesuita Giuseppe Grossi, fu ultimato e la chiesa fu dedicata all'Immacolata Concezione. Nel 1900 l'ordine dei Gesuiti poté rientrare definitivamente. La Chiesa subì numerosi danni durante gli attacchi aerei della seconda guerra mondiale. Durante uno dei bombardamenti una bomba cadde sul soffitto della Chiesa rimanendo, però, inesplosa: la bomba è ancora oggi esposta all’interno della Chiesa. L’interno barocco, con pianta a croce greca, è caretterizzato da una ricca
Interno Chiesa del Gesù Nuovo 74
decorazione marmorea realizzata da Fanzago nel 1630. Le decorazioni delle controfacciate della navata centrale e di quelle laterali, furono realizzata da Francesco Solimena e dalla sua scuola. Le volte a botte, invece, furono dipinte da Belisario Corenzio e da Paolo De Matteis. La cupola, ricostruita da Ignazio Nardo, fu rinforzata con una struttura in calcestruzzo armato ed è caratterizzata da una calotta sferica scandita da finestrellle lunettate. Il transetto presenta ,sul lato sinistro, opere pittoriche di Jusepe de Ribera (Gloria di sant'Ignazio e Papa Paolo III approva la regola di sant'Ignazio, poste in alto al centro ed a destra, entrambe del 1643-44), sculture di Cosimo Fanzago (che eseguì le statue del David e Geremia laterali all'altare, 1643-1654), cicli di affreschi di Paolo De Matteis e Belisario Corenzio. Sul lato destro invece vi sono tele di Luca Giordano (San Francesco Saverio trova il Crocifisso in mare, Il Santo caricato dalle croci ed Il Santo che battezza gli indiani, tutte del 1690-92, poste rispettivamente in alto a sinistra, al centro ed a destra della cappella), un dipinto di Fabrizio Santafede sulla parete di destra, ed ancora cicli di affreschi del Corenzio e del De Matteis, mentre del Fanzago sono le due sculture ai lati dell'altare raffiguranti Sant'Ambrogio e Sant'Agostino, entrambe databili 1621. Sul lato destro del transetto, inoltre, vi è una porta d'accesso alle antiche stanze private di Giuseppe Moscati, con esposti tra l'altro anche alcuni manoscritti del santo,
sue fotografie storiche ed alcuni rosari. Nella navata destra si aprono tre cappelle ed una cappella più grande che corrisponde alla parte terminale del transetto: la prima cappella presenta , al suo interno, decorazioni marmoree di Costantino Marasi e Vitale Finelli e dipinti di Giovanni Bernardino Azzolino; la seconda è dedicata a San Giuseppe Moscati e conserva un dipinto all'altare di Massimo Stanzione; il Cappellone di San Francesco Saverio è ornato da dipinti di Luca Giordano, la decorazione marmorea è di Giuliano Finelli, Donato Vannelli e Antonio Solaro mentre le sculture sono di Michelangelo Naccherino e Cosimo Fanzago; la cappella a destra del presbiterio è arricchita con decorazioni di Angelo Mozzillo e Sebastiano Conca, mentre i marmi furono disegnati nel XVIII secolo da Giuseppe Astarita; l’ultima cappella, che funge da abside destro, presenta ornamenti di Belisario Corenzio e marmi di Costantino Marasi. Nella navata sinistra, con stesso schema di quella destra, si aprono le cappelle: la prima presenta una decorazione del Marasi, una tela dell'Azzolino e affreschi di Corenzio; la seconda è impreziosita con decorazioni di Corenzio e di Girolamo Imparato ed inoltre con statue di Michelangelo Naccherino, Pietro Bernini e Girolamo D'Auria; il Cappellone di Sant'Ignazio fu decorato da Cosimo Fanzago, Costantino Marasi e Andrea Lazzaro, mentre le statue furono eseguite dal Fanzago e le tele sono dello Spagnoletto e di Paolo De Matteis; la cappella di sinistra del presbi-
terio ha decorazioni di Giovanni Battista Beinaschi e Francesco Mollica; la cappella che funge da abside sinistro presenta marmi disegnati da Giuseppe Bastelli, Domenico di Nardo, Donato Gallone e affreschi di Francesco Solimena. L'organo a canne della chiesa è stato costruito da Gustavo Zanin nel 1989 riutilizzando la cassa barocca e parte del materiale fonico del precedente strumento secentesco, che era stato realizzato, invece, da Pompeo de Franco. Il portale marmoreo , pur avendo subito delle modifiche per volontà dei gesuiti, è originario del Palazzo di Sanseverino e risale al XIV secolo. Essi aggiunsero, lateralmente, due colonne prolungando la cornice ed il frontone fu spezzato per inserirvi uno scudo ovale che ricorda la generosità della principessa di Bisignano, Isabella Feltria della Rovere. Alla sommità latera-
Organo a canne—Gesù Nuovo 75
le furono apposti gli stemmi dei Sanseverino e dei della Rovere e sull'architrave un altro fregio con cinque testine che sorreggono dei festoni di frutta. La facciata della Chiesa del Gesù Nuovo è caratterizzata da particolari bugne, una sorta di piccole piramidi aggettanti verso l'esterno, tipèiche del Rinascimento veneto e pittosto insolite nel Meridione. Guardando attentamente il bugnato della Chiesa è impossibile non notare dei segni, quasi un alfabeto, che si ripetono in maniera ordinata quasi a scandire un ritmo. Per tanto tempo gli studiosi si sono interrogati su quelle incisioni, realizzate dai tagliapietra napoletani che avevano inciso la dura pietra di piperno, chiedendosi quale fosse il messaggio in esse nascosto. Nel Rinascimento esistevano a Napoli alcuni maestri della pietra che si credeva fossero in grado di caricarla di energia positiva per tenere lontane le
Bugnato facciata del Gesù Nuovo
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energie negative. Gli strani segni incisi che si riconoscono sulla facciata ai lati delle bugne "a punta di diamante" (disposti in modo che sembrasse si ripetessero secondo un ritmo particolare che lasciasse intuire una “chiave” di lettura occulta) hanno dato luogo ad una curiosa leggenda. La leggenda vuole che Roberto sanseverino avesse voluto che ,a partecipare alla realizzazione dell’opera , ci fossero i maestri pipernieri che avevano anche conoscenza di segreti esoterici capaci di caricare la pietra di energia positiva. Tali segreti, gelosamente e attentamente custoditi, venivano tramandati da maestro ad adepti solo in seguito ad un giuramento: nessuno di loro avrebbe dovuto svelare quelle conoscenze. I segni misteriosi graffiti sulle piramidi della facciata, secondo la leggenda, avevano a che fare con queste arti magiche o conoscenze alchemiche. Essi dovevano convogliare tutte le forze positive e benevole dall'esterno verso l'interno del palazzo. Per imperizia o malizia dei costruttori, queste pietre segnate non furono piazzate correttamente, per cui l'effetto fu esattamente opposto: tutto il magnetismo positivo veniva convogliato dall'interno verso l'esterno dell'edificio, attirando così ogni genere di sciagure sul luogo. Questa sarebbe la ragione per cui nel corso dei secoli tante sventure si sono abbattute su quell'area: dalle confische dei beni ai Sanseverino, alla distruzione del palazzo, dall'incendio della chiesa, ai ripetuti crolli della cupola, alle varie
cacciate dei Gesuiti, e così via. Nel 2010 però, lo storico dell'arte Vincenzo De Pasquale e i musicologi ungheresi Csar Dors e Lòrànt Réz hanno identificato nelle lettere aramaiche incise sulle bugne, note di uno spartito costituito dalla facciata della chiesa, da leggersi da destra verso sinistra e dal basso verso l'alto. Si tratta di un concerto per strumenti a plettro della durata di quasi tre quarti d'ora, cui gli studiosi che l'hanno decifrato hanno dato il titolo di Enigma. Questa interpretazione è stata messa in discussione dallo studioso di ermetismo e simbologia esoterica Stanislao Scognamiglio, che ha sostenuto che i segni sulle bugne non siano caratteri dell'alfabeto aramaico, ma che invece possano essere sovrapponibili ai simboli operativi dei laboratori alchemici in uso fino al Settecento. Che si tratti di uno spartito musicale o di un messaggio in codice da trasmettere solo a coloro che avessero “occhi per vedere ed orecchie per sentire” non è dato sapere; il bugnato del Gesù Nuovo resta, ancora oggi, avvolto dal mistero. Un vampiro a spasso per Napoli: Dracula Napoli terra che ,un tempo, era stata abitata da maghi, alchimisti e massoni non poteva lasciarsi scappare la possibilità di ospitare la creatura più oscura conosciuta nell’immaginario mondiale: Dracula. Se Virgilio e Raimondo di Sangro si erano lasciati sedurre dalla magia nera e ne avevano conosciuto i meandri più oscuri, ecco che in città giunge
colui che con l’oscurità aveva stretto un patto: Vlad Tepes . Vlad nacque in Transilvania nel 1431. Divenne famoso con il nomignolo di “L’Impalatore” per la sua abitudine di impalare i corpi dei suoi nemici. Il suo patronimico rumeno “Draculea” e il suo essere un sanguinario e crudele combattente, ispirarono Bram Stoker nella realizzazione del famoso romanzo Dracula. Impalare i suoi nemici, i traditori o semplicemente coloro che si mostravano poco inclini a rispettarlo era diventato il suo passatempo preferito tanto che egli, invento un modo diverso di impalare le persone a seconda del misfatto compiuto: a seconda della colpa, insomma, aumentava la durata dell’agonia del malcapitato. La crudeltà dell’Impalatore divenne famosa in tutta Europa tanto che, si dice, dopo la sua morte molti avrebbero pregato in nome suo per “mantenerlo buono” altri, invece, raccontano che ,dopo la sua morte, i nemici gli tagliarono la testa temendo che potesse tornare in vita. In realtà il corpo di Dracula non è mai stato ritrovato. Negli ultimi tempi , secondo le ricerche condotte da alcuni studiosi, è trapelata la notizia secondo la quale il corpo del conte potrebbe trovarsi in una nicchia di Santa Maria la Nova, a Napoli. Ma perché il sanguinario conte decise di venire a Napoli? Dopo essere stato portato a Costantinopoli, secondo questi studiosi, Vlad fu riscattato da sua figlia che , avendo sposato un ita77
liano, pensò di trovare rifugio per il padre proprio a Napoli. Santa Maria la Nova Nel 1279 Carlo I d’ Angiò concesse ai francescani , come risarcimento della struttura che gli era stata confiscata per la realizzazione del Maschio Angioino, di poter costruire una nuova struttura nella zona in cui sorgeva un vecchio torrione difensivo, risalente all’alto medioevo. La Chiesa fu chiamata, Santa Maria la Nova. Giovanni Pisano progetto la chiesa dandole forme gotiche e dotandola di tre navate. I terremoti del 1456,1538 e 1569 danneggiarono fortemente la costruzione e l’esplosione della polveriera del Castel Sant’Elmo provocò numerosi danni alle decorazioni in legno dell’edificio. Tra il 1596 e il 1599, sotto la direzione di Giovanni Cola, furono realizzati i restauri. Se consideriamo il breve tempo impiegato per il rifacimento della struttura, possiamo ipotizzare che i setti murari della chiesa precedente, siano stati inglobati nei nuovi lavori. Di sicuro, della vecchia struttura, furono
riutilizzati tufo, piperni e tegole. Nel 1603 fu realizzato il soffitto ligneo, nel 1606 fu innalzata la facciata, nel 1620 fu costruito il coro e nel 1663 Cosimo Fanzago lavorò al rinnovo, in stile barocco, del transetto e del presbiterio, realizzando il maestoso altare maggiore. Tra 1858 e 1859 Federico Travaglini dovette restaurare le decorazioni in piperno che, a causa della scarsa manutenzione, avevano subito un veloce degrado. Inizialmente Travaglini pensò di riportare alla luce le antiche decorazioni rinascimentali ma, la mancanza di fondi, lo fece desistere da tale decisione e lo spinse a rafforzare la decorazione barocca arricchendola con motivi nuovi. Egli, inoltre, rafforzò il soffitto a cassettoni e realizzò gli altari laterali addossati ai pilastri delle navate. La facciata della chiesa è composta da
Santa Maria la Nova
Presunta Tomba di Dracula– santa 78
un doppio registro con quattro pilastri corinzi e compositi e si raccorda sul prospetto della cappella di S.Giacomo della Marca , al centro vi è un portale in marmo e granito con l’edicola raffigurante la Vergine. A sinistra, nell’angolo, vi è una piccola cappella con cupola che era appartenuta ai Fasano .La scala d’accesso, costituita da una doppia rampa, è stata realizzata con piperno e marmo. Ciò che colpisce di più, entrando in chiesa, è il cassettonato, realizzato tra 1598 e il 1603, dove sono collocate tele realizzate dai principali pittori manieristi attivi a Napoli come, ad esempio, Francesco Curia, Girolamo ImparatoGiovanni Bernardino Azzolino, Belisario Corenzio, Luigi Rodriguez, Cesare Smet e Tommaso Maurizio. I restauri effettuati nel Novecento spostarono i dipinti in cassettoni diversi da quelli in cui,
originariamente, erano stati disposti. L'altare maggiore fu realizzato, seguendo il progetto di Cosimo Fanzago,nella metà del XVII secolo. Esso occupa tutta la larghezza del presbiterio . All’interno delle cappelle presenti nella chiesa vi sono dipinti e decorazioni di numerosissimi artisti attivi a Napoli. Il chiostro maggiore è caratterizzato da una pianta quadrata con nove arcate per lato epresenta resti di antiche decorazioni. Il chiostro più piccolo, invece, risale al XVI secolo ed ha forma rettangolare. Il perimetro del chiostro è percorso quasi interamente da un muretto su cui poggiano le colonne ioniche che sorreggono l’ambulacro. Nei quattro punti in cui il muretto si interrompe, vi sono delle cancellate realizzate in ferro battuto. Sulla volta dell’ambulacro vi sono, inoltre, affreschi del pittore Simone Papa che raccontano la vita si San Giacomo la Marca. All’interno del chiostro vi sono conservati alcuni monumenti funebri tra i
quali, come detto precedentemente, si nasconderebbe anche quella del conte Dracula.
Interno Santa Maria la Nova Interno Santa Maria la Nova 79
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La peste
La peste del 1656 a Napoli e i suoi luoghi. La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie del diffondersi nella città di Napoli di disastrose epidemie, che talune volte hanno falciato quote cospicue della popolazione. Tra queste il colera sembra essere divenuto quasi endemico; esplode sempre d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature raggiungono i loro picchi annuali e colpisce per primi gli abitanti dei bassi, dove le precarie condizioni di vita favoriscono la diffusione del contagio. Lungo i secoli bui del Medioevo le epidemie si susseguivano e si sovrappone-
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vano procurando migliaia di decessi: difterite, tifo, malaria, vaiolo, epatite e salmonellosi hanno imperversato a lungo in città ed in provincia. Tra le epidemie più disastrose bisogna ricordare quella di peste del 1191, durante l’assedio di Enrico lo Svevo con migliaia di morti, anche se la vera peste fu quella del 1656, che dimezzò la popolazione, spazzando via un’intera generazione di pittori, mentre i pochi superstiti ne hanno immortalato scene indimenticabili, come Micco Spadaro, che ci ha fornito un’immagine grandiosa dell’odierna piazza Dante con una marea di moribondi, mentre squadre di monatti compivano il loro triste ufficio o Carlo Coppola che inquadra gli avvenimenti della grande piazza del Mercato e Luca Giordano il quale ci mostra San Gennaro nel pieno della sua attività di protettore della città e nel basso della composizione ci restituisce il particolare straziante di un bambinello abbandonato al suo destino dalla madre morta, che cerca disperatamente nutrimento nelle mammelle di una puerpera da poco spirata. E concludiamo con Mattia Preti che ebbe l’incarico di eseguire sulle porte della città dei gigan-
teschi ex voto di ringraziamento per la cessazione del morbo. Anche il Settecento fu triste sotto il profilo delle epidemie e nell’Ottocento, dopo l’Unità d’Italia, in poco più di venti anni Napoli venne colpita ben cinque volte dal colera, pagando nel 1865 un tributo di oltre 6000 vittime alla furia del morbo ed ancora di più l’anno successivo, fino a quando, dopo l’ulteriore disastrosa epidemia del 1884, si raccolse l’urlo disperato della Serao:”Bisogna sventrare Napoli” e si diede mano alla colossale opera del Risanamento, ridisegnando interi quartieri. Del persistere delle epidemie molti abitanti davano la colpa ai nuovi amministratori al punto che in alcuni ospedali circolava il demenziale ritornello: “Si vulite ca cacammo tuosto, Datece ‘o Rre Nuosto”. Il colera ha infuriato incontrastato per decenni, complice il degrado in cui
versava gran parte della città antica, servita da un acquedotto, che chiamare vergognoso significava fargli un complimento, perché in molti punti era inquinato dai liquami fognari. Anzi in quasi tutti i bassi si utilizzava per bere e per cucinare l’acqua di un pozzo, che “fraternizzava” con gli escrementi che scolavano verso la cloaca da un orribile buco, il quale fungeva in ogni abitazione da cesso, permettendo il passaggio verso il basso e l’esterno di feci ed urine e verso l’alto e l’interno di topi e zoccole, da cui la necessaria presenza in ogni basso di una colonia di gatti, che cercava disperatamente di opporsi al proliferare dei ratti. Il periodico presentarsi delle epidemie di colera provocava numerosi decessi, per cui fu necessario realizzare nel 1836 un cimitero dedicato unicamente ai trapassati per via del morbo. Anzi ad essere più precisi ne vennero creati due, perché al primo accedevano prevalentemente gli appartenenti alle famiglie illustri della città, mentre al secondo, un sepolcreto costruito nel 1837 vicino al cimitero delle 366 fosse, il popolino, che altrimenti sarebbe finito nelle fosse comuni dell’attiguo cimitero realizzato dal Fuga per trovare un’eterna dimora ai senza dimora ospitati nell’Albergo dei poveri. E qui si apre un’altra dolorosa ferita nella conservazione della memoria della città, perché il cimitero, per quanto conservi le spoglie del gotha dell’aristocrazia napoletana, a partire dai Caracciolo e dai Carafa ed un profluvio di epigrafi che ci raccontano, con accenti 83
commossi, storie di amore e di sofferenza, versa in uno stato di abbandono deplorevole, con i monumenti funebri avvolti da un’inestricabile boscaglia che umilia questa prodigiosa Spoon River partenopea. Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare Napoli ad una città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori ed amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a regolare la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la sproporzione tra numero degli abitanti e superficie a disposizione, per cui una quota significativa della popolazione è costretta a sopravvivere in condizioni precarie. Nella mastodontica opera di ristrutturazione del Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi. Prese forma il Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli, ma non si costruirono come promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu costretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto, dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Piazza Dante Piazza Dante è una delle più importanti piazze di Napoli ed è situata nel centro storico cittadino. Costituisce l'inizio di via Toledo e, tramite l'accesso a Port'Alba sul lato nord della piazza, la stessa confluisce lungo 84
il Decumano maggiore. In origine era detta Largo del Mercatello, poiché vi si teneva, fin dal 1588, uno dei due mercati della città, differenziandosi con il diminutivo mercatello da quello più grande ed antico di piazza del Mercato. Fino alla metà dell'Ottocento sorgevano a nord l'edificio delle fosse del grano e a sud le cisterne dell'olio, per secoli i principali magazzini di derrate della città; inoltre vi gravitano uffici, ospedali, istituzioni culturali e rinomatissimi bar. Ulteriore importanza fu l'apertura "ufficiale" di port'Alba nel 1625, ufficiale perché la popolazione aveva creato nella muraglia un pertuso abusivo per facilitare le comunicazioni con i borghi, in modo particolare con quello dell'Avvocata che si stava rapidamente ingrandendo. La piazza assunse l'attuale struttura nella seconda metà del Settecento, con l'intervento dell'architetto Luigi Vanvitelli; il "Foro Carolino" commissionatogli doveva costituire un monumento celebrativo del sovrano Carlo III di Borbone. I lavori durarono dal 1757 al 1765, e il risultato fu un grande emiciclo, tangente le mura aragonesi, che visto orizzontalmente inglobava Port'Alba a ovest, e affiancò la chiesa di San Michele ad est. L'edificio, con le due caratteristiche ali ricurve, vede in alto la presenza di ventisei statue rappresentanti le virtù di Carlo (tre sono di Giuseppe Sanmartino, le altre di scultori carraresi), e al centro una nicchia che avrebbe dovuto
ospitare una statua equestre del sovrano (che non fu mai realizzata), oltre a un torrino d'orologio, di epoca successiva. Dal 1843 la nicchia centrale costituisce l'ingresso al convitto dei gesuiti, divenuto nel 1861 Convitto nazionale Vittorio Emanuele II, ospitato nei locali dell'antico convento di San Sebastiano e di cui sono ancora visibili i due chiostri (la cupola della chiesa è crollata nel maggio 1941); il più piccolo e antico è rara testimonianza della Napoli tra età romanica e gotica, il maggiore conserva la strutture cinquecentesche. Al centro della piazza si erge una grande statua di Dante Alighieri, opera degli scultori Tito Angelini e Tommaso Solari junior, inaugurata il 13 luglio 1871 (data dalla quale la piazza è intitolata al sommo poeta) e collocata su un basamento disegnato dall'ingegner Gherardo Rega. Oggi ai suoi lati, più defilate, ci sono le vetrate delle uscite della linea 1 della metropolitana. La piazza è stata ridisegnata e riarredata proprio in occasione dei lavori per la metropolitana, conclusi nel 2002. L'intero emiciclo è divenuto così area pedonale. Ancora, presso la piazza sono presenti
quattro monumentali chiese: in senso antiorario da nord quella dell'Immacolata degli Operatori Sanitari, di Santa Maria di Caravaggio, di San Domenico Soriano e di San Michele a Port'Alba. Sul lato opposto all'emiciclo sono situati oltre alle chiese di Santa Maria di Caravaggio e San Domenico Soriano anche i rispettivi ex-conventi: il primo divenne sede dell'istituto per ipovedenti fondato da Domenico Martuscelli (ricordato con un suo busto scolpito nel 1922 da Luigi De Luca e collocato nei giardinetti della piazza) per poi diventare sede della Seconda Municipalità di Napoli. Il secondo convento è oggi sede degli uffici anagrafici del Comune. Tra i due ingressi è situato il palazzo Ruffo di Bagnara con annessa cappella privata mentre sul lato sinistro di Port'Alba il palazzo Rinuccini. Poco distante dalla piazza al numero civico 7 di vico Luperano, la villa Conigliera, quest'ultima fatta edificare durante l'epoca aragonese. Dopo i lavori di realizzazione della Stazione Dante della Linea 1, l'emiciclo della piazza è stato totalmente pedonalizzato. Nel settembre 2011, la piazza è stata completamente inibita al traffico privato per scoraggiare l'uso
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dell'automobile in città, divenendo una corsia preferenziale ad uso esclusivo dei mezzi pubblici. Successivamente, dall'estate del 2013, la chiusura al traffico è stata ridotta dalle 9 alle 18 di tutti i giorni, trasformandosi così in ZTL. Basilica di San Gennaro fuori le mura La Basilica di San Gennaro Fuori le Mura si trova in Vico San Gennaro dei Poveri. La basilica di San Gennaro Fuori le Mura deve il suo nome al luogo di costruzione, scelto al di fuori delle mura della città per tenerla lontana dal mondo pagano. La sua edificazione risale al V secolo, nella zona delle Catacombe di San Gennaro, probabilmente come risultato dell'unione di due preesistenti siti cimiteriali di epoche diverse: uno
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del II secolo in cui era conservato il corpo di Sant'Agrippino, primo patrono di Napoli, e un altro del IV secolo che ospitò le spoglie di San Gennaro fino alla loro prima traslazione nel IX secolo. L'edificio rappresenta un'altra buona testimonianza di architettura paleocristiana, anche se ha subito alcune modifiche nei secoli successivi alla sua edificazione, soprattutto tra il IX e il XV secolo; inoltre, nel XVII secolo fu restaurata e modificata secondo il gusto barocco, diventando prima un ospedale per gli appestati e, poi, un ospizio per i poveri. Nel 1892 la volta fu sostituita con un soffitto a capriate, mentre in un restauro di inizio Novecento si tentò di recuperare la struttura originaria eliminando alcune modifiche fatte in precedenza. Il risultato è un ibrido tra molti stili; per esempio, l'interno, con una struttura a 3 navate, richiama quello tardo gotico e presenta un'abside semicircolare paleocristiana, sorretta da due colonne corinzie. Le opere d'arte che erano contenute nella basilica, sono state traslate nel Museo Civico di Castel Nuovo per motivi
di sicurezza. Chiesa di Sant'Agnello Maggiore La chiesa di Sant'Agnello Maggiore, detta anche Sant'Aniello a Caponapoli o Santa Maria Intercede, è una delle più antiche chiese monumentali di Napoli; si trova nel centro storico della città. Sant'Agnello, oggi, è compatrono della città di Napoli; secondo la tradizione è sepolto proprio in questa chiesa, sebbene altre fonti sostengono che sia stato sepolto nella cattedrale di Lucca. La storia di questo tempio è strettamente legata a quella di sant'Agnello che fuvescovo di Napoli nel VI secolo. Il santo fu un accanito difensore della città contro l'assedio dei Longobardi. Secondo un'antica tradizione, i genitori del santo avrebbero già eretto in quel luogo una chiesetta; questa, fu dedicata a santa Maria Intercede e venne costruita come voto di ringraziamento allaVergine per aver concesso loro la grazia della nascita di un erede. L'edificio sorse sul luogo di un'antica acropoli, dove sono stati scoperti resti risalenti al IV secolo. Morto il santo alla fine del secolo, la chiesa cambiò il nome in "Santa Maria dei Sette Cieli". Nel IX secolo, il vescovo Attanasio di Napoli vi fece erigere un nuovo edificio religioso dedicandolo all'abate e fece trasportare le sue reliquie nella chiesa. Nel corso del Medioevo, il culto divenne sempre più importante e dalla fine del XIII secolofu governata da un rettorato che durò fino al 1517, anno in cui si unì
ai canonici regolari della Congregazione del Santissimo Salvatore lateranense. Dal secondo decennio del XVI secolo, la chiesa fu completamente rifatta ed ampliata ad opera dell'arcivescovo Giovanni Maria Poderico. Il transetto, che anticamente era la chiesa di Santa Maria Intercede, fu ampliato prima dei lavori d'inizio del nuovo corpo di fabbrica; i lavori iniziarono nel 1517 e terminarono nel XVIII secolo, in questo lasso di tempo furono commissionate opere di grande valore come l'altare maggiore di Girolamo Santacroce (Nola, 1502 – Napoli, 1537). Negli interventi tardo-settecenteschi eseguiti dall'architetto Giovanni Battista Pandullo, l'altare fu portato più avanti rispetto all'originaria posizione e le spoglie del santo furono traslate nella cappella a lui dedicata. Altri interventi sono di Vincenzo Martino, che rifece il pavimento in terracotta e il cassettonato; coeva a quiesti interventi è una cisterna ritrovato insieme agli scavi archeologici. Il 7 agosto 1809 fu soppresso l'ordine monastico e il 12 gennaio 1813 i locali del monastero furono venduti dal Mini-
stero delle Finanze ad un certo Cosimo d'Orazio; nel 1856 il Ministero dell'Interno ne curava la manutenzione. Dopo i restauri eseguiti nel XIX secolo, nel 1903, si ipotizzò la demolizione della chiesa che però non fu mai attuata. Nel 1913, la parrocchia fu trasferita nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli per le precarie condizioni statiche dell'edificio. Nel 1944 la chiesa fu danneggiata dai bombardamenti e nel 1962 fu restaurata con il ripristino della copertura e con la scoperta di resti dell'acropoli. Nel 1980 fu danneggiata dal sisma e nuovamente restaurata. Nel corso degli anni la chiesa ha subito atti vandalici come furti delle opere d'arte e marmi. Nel 2011, dopo un lungo lavoro di restauro, la chiesa è stata riaperta. Piazza del Mercato e Piazza del Carmine Piazza del Mercato (già Foro Magno, detta comunemente piazza Mercato) è una delle piazze storiche di Napoli, situata nel quartiere Pendino, a pochi passi dal quartiere Mercato. Confina con piazza del Carmine e con
l'attigua basilica del Carmine Maggiore. Oggi è una delle maggiori piazze della città, ma in origine non era altro che uno spiazzo irregolare esterno al perimetro urbano, chiamato Campo del moricino (o muricino) "perché «attaccato» a mura divisorie della cinta muraria cittadina". Gli Angioini ne fecero un grande centro commerciale cittadino: infatti nel 1270 sotto Carlo I d'Angiò la sede mercatale della città fu spostata dalla piazza di San Lorenzo (cioè piazza San Gaetano, che lo ospitava sin dall'età greco-romana) in una zona extramoenia, appunto il campo del moricino, che d'ora in poi sarà detto mercato di Sant'Eligio e principalmente foro magno, snodo fondamentale dei traffici provenienti dalle più importanti basi commerciali italiane ed europee e volano dello sviluppo urbanistico della fascia costiera. Ivi si svolgevano le esecuzioni capitali, a partire dalla decapitazione di Corradino di Svevia, il 29 ottobre 1268, fino a quelle dei giacobini dopo la soppressione della Repubblica Napoletana del 1799. La piazza, poi, è particolarmente celebre per essere stata il luogo dove ebbe inizio la rivoluzione di Masaniello, il quale nacque e visse in una casa alle spalle della piazza, dove oggi, in sua memoria, è murata, dal 1997, un'epigrafe che recita le seguenti parole: “In questo luogo era la casa dove nacque il XXIX giugno MDCXX
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Tommaso Aniello D'Amalfi e dove dimorava quando fu capitano generale del popolo napoletano” Nel 1781 le numerose botteghe in legno che costellavano la piazza presero fuoco dopo uno spettacolo pirotecnico. Su volontà di re Ferdinando IV di Borbone si procedette alla realizzazione di un'esedra che lambisse il perimetro della piazza e che desse alle attività commerciali una degna sistemazione. Il progetto fu guidato dall'architetto Francesco Sicuro, il quale realizzò anche la chiesa di Santa Croce e Purgatorio unendo in un solo edificio le preesistenti chiese di Santa Croce e Purgatorio distrutte dall'incendio e inoltre tre fontane che avrebbero decorato la piazza. I bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale danneggiarono gravemente la zona portuale e in particolare la piazza e i suoi stretti dintorni. Nel 1958 a sud della piazza fu realizzato il cosiddetto palazzo Ottieri (il più simbolico degli edifici che il costruttore edile Mario Ottieri realizzò negli anni della speculazione edili-
zia laurina per tutta la città) che si sostituì agli antichi edifici e al corrispondente reticolato viario. L'enorme palazzo si presentò subito come una barriera visiva che la separava dalla vicina piazza del Carmine. La piazza è ornata da due settecentesche fontane-obelischi (sul lato est e sul lato ovest), ed è inoltre abbellita dalla presenza al centro dell'esedra settecentesca dellachiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato. Le fontane e la chiesa, nonché l'esedra che contorna la piazza sono di Francesco Sicuro. Sono visibili dalla piazza la Chiesa di Sant'Eligio Maggiore e la Basilica santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore. In piazza vi erano altre tre fontane. Una era la fontana dei Delfini, dalla quale si crede che Masaniello arringasse la folla. Il monumento fu acquistato nel 1812 dal comune di Cerreto Sannita nella cui piazza principale è oggi ospitato. La seconda fontana fu eretta nel 1653 sotto il viceregno del conte di Ognatte, Iñigo Vélez de Guevara. Progettata da Cosimo Fanzago, era detta fontana maggiore ed era colloca-
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ta sul lato destro della piazza. Fu restaurata da Francesco Sicuro nel1788. Oggi non è più esistente. La terza fontana è la fontana dei Leoni, la terza fontana che Sicuro realizzò nella piazza. Dagli anni trenta del XX secolo è visibile nei giardini del Molosiglio. Cimitero delle fontanelle Il cimitero delle Fontanelle (in napoletano 'O campusanto d' 'e Funtanelle) è un antico cimitero della città di Napoli, situato in via Fontanelle. Chiamato in questo modo per la presenza in tempi remoti di fonti d'acqua, il cimitero accoglie 40.000 resti di persone, vittime della grande peste del 1656 e del colera del 1836. Il cimitero è molto noto anche perché vi si svolgeva un particolare rito, detto delle "anime pezzentelle", che prevedeva l'adozione e la sistemazione di un cranio (detta «capuzzella»), al quale corrispondeva un'anima abbandonata («pezzentella» quindi) in cambio di protezione.
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L'antico ossario si sviluppa per circa 3.000 m2, mentre le dimensioni della cavità sono stimate attorno ai 30.000 m3. Si trova all'estremità occidentale del vallone naturale della Sanità, uno dei rioni di Napoli più ricchi di storia e tradizioni, appena fuori dalla città greco – romana, nella zona scelta per la necropoli pagana e più tardi per i cimiteri cristiani. Il sito conserva da almeno quattro secoli i resti di chi non poteva permettersi una degna sepoltura e, soprattutto, delle vittime delle grandi epidemie che hanno più volte colpito la città. In quest'area, situata tra il vallone dei Girolamini a monte e quello dei Vergini a valle, erano dislocate numerose cave ditufo, utilizzate fino al 1600 per reperire il materiale, il tufo, appunto, per costruire la città. Lo spazio delle cave di tufo fu usato a partire dal 1656, anno della peste, che provocò almeno trecentomila morti, fino all'epidemia di colera del 1836. A tali resti si aggiunsero nel tempo anche le ossa provenienti dalle cosiddette "terresante" (le sepolture ipogee delle chiese che furono bonificate dopo l'arrivo dei francesi di Gioacchino Murat) e da altri scavi. Il canonico ed etnologo Andrea de Jorio, nel 1851 direttore del ritiro di San Raffaelea Materdei, racconta che verso la fine del Settecento tutti quelli che avevano i mezzi lasciavano disposizioni per farsi seppellire nelle chiese. Qui però spesso non vi era più spazio sufficiente; accadeva, allora, che i becchi-
ni, dopo aver finto di aderire alle richieste e aver effettuato la sepoltura, a notte fonda, posto il morto in un sacco, se lo caricassero su una spalla e andassero a riporlo in una delle tante cave di tufo. Tuttavia, in seguito alla improvvisa inondazione di una di queste gallerie, i resti vennero trascinati all'aperto portando le ossa per le strade. Allora le ossa furono ricomposte nelle grotte, furono costruiti un muro ed un altare ed il luogo restò destinato ad ossario della città. Secondo una credenza popolare uno studioso avrebbe contato, alla fine dell'Ottocento, circa otto milioni di ossa di cadaveri rigorosamente anonimi. Oggi si possono contare 40.000 resti, ma si dice che sotto l'attuale piano di calpestio vi siano compresse ossa per almeno quattro metri di profondità, ordinatamente disposte, all'epoca, da becchini specializzati. Nel marzo 1872 il cimitero fu aperto al pubblico e affidato dal Comune al canonico Gaetano Barbati, ritenuto erroneamente parroco di Materdei, il quale, con l'aiuto del Cardinale Sisto Riario Sforza, eseguì una sistemazione dei resti secondo la tipologia delle ossa (crani, tibie, femori) e organizzò a mo' di chiesa provvisoria la prima cava, in attesa che fosse costruito un tempio stabile. Negli anni sessanta, gli anni del Concilio Vaticano II, il parroco della chiesa delle Fontanelle Don Vincenzo Scancamarra preoccupato per il feticismo insito nel culto delle "anime
pezzentelle" chiese consiglio all'arcivescovo di Napoli, il cardinaleCorrado Ursi, sul problema. Il 29 luglio 1969 un decreto del Tribunale ecclesiastico per la causa dei santi proibì il culto individuale delle capuzzelle, oggetto di una fede pagana, consentendo che fosse celebrata una messa al mese per le anime del purgatorio e che fosse eseguita una processione al suo interno ogni 2 novembre, giorno della commemorazione dei defunti. Non fu la decisione delle istituzioni religiose, ma il progressivo oblio devozionale a far scivolare il cimitero nel dimenticatoio. Per anni in stato di abbandono, fu messo in sicurezza e riordinato nel marzo del 2002, ma mai riaperto al pubblico se non per pochi giorni l'anno, specie in occasione del Maggio dei Monumenti napoletano. Il 23 maggio 2010 una pacifica occupazione degli abitanti del rione ha convinto l'Amministrazione Comunale a riaprirlo. Da quel giorno il cimitero è realmente di nuovo accessibile. Il cimitero è scavato nella roccia tufacea gialla della collina di Materdei. È formato da tre grandi gallerie a sezione trapezoidale, in direzione N-S, con un'altezza variabile tra i 10 e i 15 m e lunghe un centinaio di metri collegate da corridoi laterali. Queste gallerie, per la loro maestosa grandezza, sono chiamate navate come quelle di una basilica. Ogni navata ha ai propri lati delle corsie dove sono ammucchiati teschi, tibie e femori e ha un proprio nome: la navata sinistra è detta navata dei preti perché in essa sono depositati 91
i resti provenienti dalle terresante di chiese e congreghe; la navata centrale è detta navata degli appestati perché accoglie le ossa di quanti perirono a causa delle terribili epidemie che colpirono la città (la peste su tutte, in special modo quella del 1656); infine la navata destra è detta navata dei pezzentielli perché in essa furono poste le misere ossa della gente povera. L'ingresso principale è attraverso una cavità sulla destra della piccola chiesa di Maria Santissima del Carmine, costruita sullo scorcio del XIX secolo a ridosso delle cave di tufo. Già alla fine del Settecento si registrò una prima sommaria sistemazione dei resti e si assistette al concretizzarsi di numerose stuoie e sudari di ossa. I resti anonimi si moltiplicarono col passare degli anni ed è qui che confluirono, oltre alle ossa trasferite dalle terresante, anche i corpi dei morti nelle epidemie. Alla fine dell'Ottocento alcuni devoti, guidati da padre Gaetano Barbati, disposero in ordinate cataste le migliaia di ossa umane ritrovate nel cimitero. Da allora è sorta una spontanea e significativa devozione popolare per questi defunti, nei quali i fedeli identificano le anime purganti bisognose di cura ed attenzione. Alcuni teschi furono quindi "adottati" da devoti che li allocarono in apposite teche di legno, identificandoli anche con un nome e con una storia, che affermavano essere svelati loro in sogno. Per lunghi anni, il cimitero è stato teatro di questa religiosità popolare fatta di riti e pratiche del tutto 92
particolari. Si vuole che qui riposino anche i resti del poeta Giacomo Leopardi, morto durante il colera del 1836. In realtà il poeta fu inumato prima nella cripta, poi nell'atrio della chiesa di San Vitale fino a quando nel 1939 fu spostato al Parco Vergilianoanche se sui resti di Leopardi esiste tuttora un caso. In esso furono collocate le ossa ritrovate nel corso della sistemazione di via Toledo degli anni 1852-1853, risalenti alla peste del 1656. Ed ancora, nel 1934, vi furono collocate le ossa ritrovate ai piedi del Maschio Angioino durante i lavori di sistemazione di via Acton e quelle provenienti dalla cripta della chiesa di San Giuseppe Maggiore demolita nello stesso anno, come ricordano due lapidi ben visibili nella prima ala destra del cimitero. Alla fine dell'Ottocento, dinanzi all'ingresso principale della cava, viene eretta lachiesa di Maria Santissima del Carmine. Il tempio sostituisce la cappella ricavata all'interno della cava, regolarmente utilizzata per le celebrazioni liturgiche fino aglianni ottanta (anche se alcune celebrazioni sono state svolte recentemente). La chiesa interna è accessibile dalla prima ala a sinistra ed è longitudinalmente appartenente in toto alla navata sinistra. Alla destra dell'ingresso, in una specie di atrio dominato dall'abside della nuova chiesa, è collocata la riproduzione della grotta di Lourdes, dove si trovano la statua dell'Immacolata e di Bernadette. All'interno, a sinistra si trovano due
bare con gli unici scheletri ben visibili dentro il cimitero, entrambi vestiti. Sono le spoglie di una coppia di nobili: Filippo Carafa conte di Cerreto, dei duchi di Maddaloni, morto ad ottantaquattro anni nel 1793 e sua moglie, donna Margherita, morta a cinquantaquattro anni. Quest'ultima, il cui cranio si è preservato mummificato, presenta la bocca aperta e da qui proviene la diceria che sarebbe morta soffocata da uno gnocco. A destra vi è la cappella con la statua di Cristo deposto che ricalca molto sommariamente il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino. Sulla sinistra dell'altare maggiore, su cui campeggia il Crocifisso sagomato, è presente un alto finestrone e un presepe sistemato nella prima metà del Novecento, con Maria e Giuseppe a grandezza naturale. Sotto il finestrone, infine, ci sono le prime due bare che raccolgono i resti di ossa (forse di bambini). La navata dei preti. Proseguendo nella prima navata subito a sinistra è stata realizzata la cappella che ricorda il canonico Gaetano Barba-
ti il quale organizzò le prime squadre di fedeli per la sistemazione dei resti e fece inoltre scrivere la lapide sulla facciata della chiesa, come monito di pietà cristiana per i posteri. Ai piedi della statua di Gaetano Barbati vi è una bara in cui sono deposti i resti di due scheletri posti l'uno accanto all'altro e la credenza popolare li identifica come i due sposi. Proseguendo, in una cavità sempre a sinistra, illuminata da un impossibile raggio di luce, si innalza l'inquietante figura del Monacone: l'impressionante statua di San Vincenzo Ferrer col tipico abito domenicano bianco-nero e decapitata, sulla quale una mano ignota ha posto un teschio in luogo della testa che fu rimosso dopo i lavori di risistemazione del cimitero. Nel fondo si trova l'antro forse più noto, definito il Tribunale per la presenza di tre croci con una base di teschi. Qui, secondo quanto si racconta da almeno un secolo, si riunivano i vertici della camorra antica per i famosi giuramenti di sangue e gli altri riti di affiliazione e, anche, per emettere le condanne a morte.
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La corsia alla destra del tribunale ospita il teschio più famoso, ovvero quello del Capitano. Sulla sua figura aleggiano varie leggende e ad essa è legata anche quella dei suddetti sposi, situati nella bara sotto la statua del canonico Barbati. Non lontano vi è il Calvario, chiamato così perché il Golgota - il monte dove spirò Gesù - in aramaico significa teschio. Attualmente la sistemazione non è più quella originaria per via di un'alluvione, che determinò la copertura di fango di quasi tutti i teschi. La navata degli appestati. Continuando nella navata centrale, quella degli appestati, ogni lato è occupato da cataste di teschi che, in base all'ennesima leggenda, sarebbero stati ordinati secondo la condizione sociale dei defunti. Sulla sinistra, nel mezzo d'un ambiente di grande impatto visivo ed emozionale, quello che si potrebbe definire l'ossoteca, una grande cappella piena di tibie e femori, al cui centro si erge un Cristo risorto. Dopo il Calvario sulla sinistra si possono osservare i teschi adottati e custoditi in teche di marmo apprestate da chi poteva permetterselo, con su scritto: Per
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Grazia ricevuta, nome, cognome e l'anno di adozione del devoto; chi invece non aveva possibilità custodiva il teschio adottato in una scatola. Poteva andar bene anche una scatola di biscotti. Nell'ultimo antro ci sono gli scolatoi, dove i morti venivano appoggiati per far colare i liquidi. Sulle pareti sono ancora ben visibili le grappiate utilizzate dai cavamonti per scendere nella cavità e poter estrarre e lavorare il tufo. La leggenda del Capitano. La prima versione ci racconta che una giovane promessa sposa era molto devota al teschio del capitano, e che si recava spesso a pregarlo e a chiedergli grazie. Una volta il fidanzato di lei, scettico e forse un po' geloso delle attenzioni che la sua futura moglie dedicava a quel teschio, volle accompagnarla e portandosi dietro un bastone di bambù, lo usò per conficcarlo nell'occhio del teschio (da qui l'aition dell'orbita nera), mentre, deridendolo, lo invitava a partecipare al loro prossimo matrimonio. Il giorno delle nozze apparve tra gli ospiti un uomo vestito da carabiniere.
Incuriosito da tale presenza, lo sposo chiese chi fosse e questi gli rispose che proprio lui lo aveva invitato, accecandogli un occhio; detto ciò si spogliò mostrandosi per quel che era, uno scheletro. I due sposi e altri invitati morirono sul colpo. L'altra versione raccolta da Roberto De Simone, mette in scena una leggenda nera popolare: un giovane camorrista, donnaiolo e spergiuro, aveva osato profanare il cimitero delle Fontanelle, ivi facendo l'amore con una ragazza. A un tratto sentì la voce del capitano che lo rimproverava ed egli, ridendosene, rispose di non aver paura di un morto. Alle nuove imprecazioni del capitano, il temerario giovane lo aveva sfidato a presentarsi di persona, giurando ironicamente di aspettarlo il giorno del suo matrimonio (e intanto giurando in cuor suo di non sposarsi mai). Però il giovane, dimentico del giuramento, dopo qualche tempo si sposò. Al banchetto di nozze si presentò tra gli invitati un personaggio vestito di nero che nessuno conosceva e che spiccava per la sua figura severa e taciturna. Alla fine del pranzo, invitato a dichiarare la sua identità, rispose di avere un dono per gli sposi, ma di volerlo mostrare solo a loro. Gli sposi lo ricevettero nella camera attigua, ma quando il giovane riconobbe il capitano fu solo questione di un attimo. Il capitano tese loro le mani e dal suo contatto infuocato gli sposi caddero morti all'istante. Donna Concetta: 'a capa che suda Un'altra capuzzella "di spicco" nel cimi-
tero delle Fontanelle è quella di donna Concetta, più nota come 'a capa che suda. La particolarità di tale teschio, posto all'interno di una teca, è la sua lucidatura: mentre gli altri crani sono ricoperti di polvere, quest'ultimo è infatti sempre ben lucidato, forse perché raccoglie meglio l'umidità del luogo sotterraneo che è stata sempre interpretata come sudore: "Se domandate ai devoti vi diranno che quell'umidità è sudore delle anime del Purgatorio". Gli umori che si depositano su questi resti sono ritenuti dai fedeli acqua purificatrice, emanazione dell'aldilà in quanto rappresentazione delle fatiche e delle sofferenze cui sono sottoposte le anime. Secondo la tradizione, anche donna Concetta si presta a esaudire delle grazie; per verificare se ciò avverrà, basta toccarla e verificare se la propria mano si bagna. Il culto delle anime pezzentelle Le ossa anonime, accatastate nelle caverne lontano dal suolo consacrato, sono diventate per la gente della città le anime abbandonate, cosiddette anime pezzentelle, un ponte tra l'aldilà e la terra, un mezzo di comunicazione tra i mondi dei morti e i mondi dei vivi. Queste sono un segno di speranza nella possibilità di un aiuto reciproco tra poveri che scavalca la soglia della morte: poveri sono infatti i morti, per il semplice fatto di essere morti e dimenticati, e poveri i vivi che vanno a chieder loro soccorso e fortuna. 95
Al teschio, spesso, era associato un nome, una storia, un ruolo. Ancora negli anni settanta c'era l'abitudine di sostare di notte ai cancelli del cimitero per aspettare le ombre mandate dal teschio di don Francesco, un cabalista spagnolo, a rivelare i numeri da giocare al lotto. Spesso il napoletano, più che altro donne, si recava sul posto, adottava un teschio particolare che l'anima le aveva indicato nel sogno. Da questo punto in poi il cranio diventava parte della famiglia del devoto. Al camposanto delle Fontanelle, il comportamento rituale si esprimeva in un preciso cerimoniale: il cranio veniva pulito e lucidato, e poggiato su dei fazzoletti ricamati lo si adornava con lumini e dei fiori. Il fazzoletto era il primo passo nell'adozione di una particolare anima da parte di un devoto e rappresentava il principio affinché la collettività adottasse il teschio. Al fazzoletto si aggiungeva il rosario, messo al collo del teschio per formare un cerchio; in seguito il fazzoletto veniva sostituito da un cuscino, spesso ornato di ricami e merletti. A ciò seguiva l'apparizione in sogno dell'anima prescelta, la quale richiedeva preghiere e suffragi. I fedeli sceglievano chi pregare e a chi offrire i lumini nelle loro visite costanti e regolari. Solo allora il morto appariva in sogno e si faceva riconoscere. In sogno comunque la richiesta delle anime è sempre la stessa: tutte hanno bisogno di refrisco, cioè di refrigerio: la frase ricorrente nelle preghiere rivolte 96
alle anime purganti era infatti la seguente: «A refrische 'e ll'anime d'o priatorio». Si pregava l'anima per alleviare le sue sofferenze in purgatorio, creando un vero e proprio rapporto di reciprocità, in cambio di una grazia o dei numeri da giocare al lotto. Se le grazie venivano concesse, il teschio veniva onorato con un tipo di sepoltura più degno: una scatola, una cassetta, una specie di tabernacolo, secondo le possibilità dell'adottante. Ma se il sabato i numeri non uscivano o se le richieste non erano esaudite, il teschio veniva abbandonato a se stesso e sostituito con un altro: la scelta possibile era vasta. Se il teschio era particolarmente generoso si ricorreva addirittura a metterlo in sicurezza, chiudendo la cassetta con un lucchetto. I teschi, inoltre, non venivano mai ricoperti con delle lapidi, perché fossero liberi di comparire in sogno, di notte. Secondo la tradizione popolare infatti l'anima del Purgatorio rivelava in sogno la sua identità e la sua vita. Il devoto ritornava allora sul luogo di culto, raccontava il sogno, e se l'anima del teschio era particolarmente benevola, si concedeva a tutti di pregare lo stesso teschio determinando così una sorta di santificazione popolare. Utili erano tutti i tipi di segni che potevano venire alle anime. Un primissimo segno era il sudore, cioè la condensa da umidità. Se ciò si verificava era segno di grazia ricevuta. Se il teschio non sudava, questo veniva interpretato come una sofferenza dell'anima abban-
donata e cattivo presagio. In questo caso si chiedeva soccorso a GesÚ e, soprattutto, alla Madonna. Ancora oggi un teschio particolarissimo riguardo a questo fenomeno è quello di donna Concetta, insolitamente e costantemente lucido. L'unico mezzo di comunicazione tra i vivi e i morti era il sogno: dai sogni spesso nascono cosÏ varie personificazioni delle anime pezzentelle, ed ecco moltiplicarsi le diverse figure di giovinette morte subito prima del matrimonio, di uomini morti in guerra o comunque in circostanze drammatiche e singolari. Il culto fu particolarmente vivo negli anni del secondo conflitto mondiale e del primo dopoguerra: la guerra aveva diviso famiglie, allontanato parenti, provocato morti, disgrazie, distruzioni, miseria. Non potendo aspettarsi aiuto dai vivi, il popolo lo chiedeva ai morti, e l'evocazione delle anime purganti diventa insieme la concreta rappresentazione della memoria e la speranza di sottrarsi miracolosamente all'infelicità e alla miseria.
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