Non è la solita guida

Page 1

VOLUME BASILICO

1


INTRODUZIONE AL VOLUME A partire dalla storia del basilico, erba regale, questa piccola guida invita a gustare bellezze di Napoli e della Campania e intende regalare con ogni foto e scrittura tante sfumature di emozioni. Bellezze da assaggiare per innamorarsi di paesaggi da imprimere nei pensieri e nei cuori per sempre. Napoli e la Campania sono caratterizzate da bellezze per tutti i gusti. Questa piccola guida porta a scoprire maestose tenute reali e affascinanti tesori naturali che rendono la regione e la città famosa in tutto il mondo. Sin dalla loro realizzazione i siti proposti hanno destato l’attenzione di numerosi viaggiatori e studiosi, suscitano notevole interesse per la bellezza paesaggistica che interagisce sia con il panorama del golfo sia perché fondono insieme storia, arte, natura e cultura. Qui dieci tappe che non possono mancare in un tour d’assaggio della città di Napoli.

Buona lettura!

<<Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate... Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!>> Wolfgang von Goethe

P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”

2


VOLUME BASILICO a cura di Maria Settembre e Simona Cartiero INDICE INTRODUZIONE AL VOLUME pag. 2 SEZIONE I - LE TENUTE REALI A CURA DI SIMONA CARTIERO pag. 4 1. NAPOLI: A SPASSO TRA CASTELLI E TENUTE REALI pag. 4 2. MENÙ IN CINQUE TAPPE REALI TRA NAPOLI E CASERTA pag. 6 - Il Castel dell’Ovo - Il Palazzo Reale di Napoli - La Reggia di Capodimonte - La Reggia di Caserta - La Reggia di Carditello SEZIONE II - TESORI NATURALI A CURA DI MARIA SETTEMBRE PREMESSA. ALLA RICERCA DEL BASILICO. ETIMOLOGIA E STORIE SUL BASILICO, CARATTERISTICHE E CREDENZE pag 17 1. L’ARRIVO DEL BASILICO A NAPOLI. LA STORIA DELLA CITTÀ E L’EVOLUZIONE DEI GIARDINI NAPOLETANI. pag. 20 2. MENU’ IN CINQUE TAPPE: TESORI VERDI IN CITTA’ pag.25 - Il Parco Archeologico di Pauslypon – La Villa di Vedio Pollione - Il Chiostro della Certosa di San Martino - L’Orto Botanico - La Villa Comunale - La tomba di Virgilio e Leopardi e il Parco Virgiliano

3


SEZIONE I - “LE TENUTE REALI” A CURA DI SIMONA CARTIERO 1.

NAPOLI: A SPASSO TRA CASTELLI E TENUTE REALI

La storia di Napoli è strettamente intrecciata ai suoi castelli e alle tenute reali. La città di Napoli ha quattro castelli, ubicati in diverse zone della città, con storie e origini diverse: il Castel dell’Ovo, il Maschio Angioino, Castel Sant’Elmo e Castel Capuano. Il più noto nell’immaginario collettivo, quale immagine di Napoli nel mondo, è il Castel dell'Ovo, famoso per la leggenda dell’uovo nelle sue fondamenta che mantiene oltre il castello la città tutta. Costruito sulla villa di Lucullo, dove l'ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, trascorse il suo esilio. Sorge sull'isolotto di Megaride, popolato sin dalle origini della città e legato al mito della Sirena Parpenope, divenuto convento basiliano,

risale la costruzione della rocca difensiva al dodicesimo secolo, edificazione ampliata dai Normanni e dagli Angioini. Il Maschio Angioino, o Castel Nuovo, domina Piazza Municipio, il primo monumento che accoglie i viaggiatori

che

arrivano a Napoli dal mare. Costruito nel tredicesimo secolo dagli angioini, fu poi rinnovato dagli aragonesi successivamente. Bellissimo e imponente rappresenta il classico castello medievale e fu reggia per i Re Angioini ed Aragonesi. Il Castel Sant'Elmo abbraccia la Napoli dall'alto, sorgendo sulla sommità della collina del Vomero. Costruito in tufo e nel tufo, con pianta a stella e permette di vedere dai possenti bastioni tutta la città. Fatto costruire nel quattordicesimo secolo per volontà di Roberto d'Angiò. E’ un’imponente che, con la sua particolare forma a stella con sei punte, serviva da estrema difesa e vedetta. Fu il quartier generale dei Giacobini nella repubblica partenopea del 1799. Il Castel Capuano, nella zona orientale della città, è’ il meno noto dei quattro. Fondato nel dodicesimo secolo da Guglielmo I, ampliato da Federico II e restaurato da Carlo d'Angiò, prende il nome dalla vicina Porta Capuana, uno degli antichi accessi alla città. Da secoli è sede dei Tribunali. La storia del Castel Nuovo (Maschio Angioino) e del

4


Castel dell'Ovo, due dei principali castelli napoletani, sono intrecciate con le leggende della città e molto legate alla figura del poeta latino Virgilio, autore del poema epico Eneide, considerato “Mago” dai napoletani. Tra i castelli che non ci sono più: il Castello del Carmine, famoso durante la rivolta di Masaniello (1647), sventrato nel 1906 per costruire via marina, oggi restano solo due torri; il Castello di Nisida, costruito sull'omonima isola dagli Angioni, oggi carcere minorile, ed infine il Castello di Vigliena del quale oggi sono visibili solo pochi ruderi. Il Palazzo Reale di Napoli è una delle quattro residenze usate dalla casa reale dei Borbone di Napoli durante il Regno delle Due Sicilie; le altre tre sono la reggia di Capodimonte sita a nord del centro storico, la reggia di Caserta e la reggia di Portici alle pendici del Vesuvio. Nel 1734 Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, fu incoronato re di Napoli, mettendo fine a due secoli di vicereame, spagnolo e austriaco, ripristinando l’autonomia del Regno. Nel clima illuminato del Settecento, per volontà dei Borbone, furono recuperati e valorizzati numerosi insediamenti regi definiti Siti Reali: questa espressione indicava qualsiasi bene immobile – dall’edificio rappresentativo al semplice casale di campagna, ma anche un terreno, un bosco, un’isola, un cratere – destinato ad uso della Corona e amministrato dalla cosiddetta Giunta dei Siti Reali. La monarchia borbonica raggruppò in tutto il Mezzogiorno d’Italia ventidue Siti reali con diverse funzioni. Oltre ad essere luoghi di svago, dove il Re con la corte praticava attività come la pesca o la caccia, questi siti avevano una funzione più utilitaristica, affiancando alla funzione residenziale quella produttiva. I Siti reali anche detti le Reali Delizie costituirono un valido stimolo alla costruzione di infrastrutture, con la costruzione di strade che collegavano le tenute tra loro e con Napoli, il tutto per un ammodernamento programmato del territorio, inserito in un preciso progetto di sviluppo economico e sociale del Regno. Le ventidue tenute in Campania dei Siti Reali sono: il Palazzo Reale di Napoli, la Reggia di Capodimonte, la Reggia di Portici, la Villa Favorita di Ercolano, la Real Fagianeria di Resina e la Villa d’Elboeuf a Portici, il Palazzo d’Avalos nell’isola di Procida, il Palazzo Reale nell’isola d’Ischia, la Real Tenuta degli Astroni, il Real Casino di caccia di Licola Borgo, il Real Palazzo di Venafro (un tempo in Terra di Lavoro, in Campania, ed oggi appartenente alla provincia d’Isernia), la Real Tenuta di caccia e pesca di Torcino a Ciorlano, le Reali Cacce del demanio di Cardito con la Real Delizia di Carditello in San Tammaro, il Real Sito di Persano a Serre, la Real Tenuta di Maddaloni con i ponti della valle, la Real Fagianeria di Caiazzo, la Reggia di Caserta, il Real Sito di San Leucio, la Casina del Fusaro, la Reggia di Quisisana in Castellammare di Stabia, la Real Tenuta di Falciano ed il Real Casino del Demanio di Calvi.

5


2. MENÙ IN CINQUE TAPPE REALI TRA NAPOLI E CASERTA 1° TAPPA- REALE: CASTEL DELL’OVO

Il castel dell'Ovo (castrum Ovi, in latino), è il castello più antico della città di Napoli ed è uno degli elementi che spiccano maggiormente nel celebre panorama del golfo. Si trova tra i quartieri di San Ferdinando e Chiaia, di fronte alla zona di Mergellina. A causa di diversi eventi che hanno in parte distrutto l'originario aspetto normanno e grazie ai successivi lavori di ricostruzione avvenuti durante il periodo angioino ed aragonese, la linea architettonica del castello mutò drasticamente fino a giungere allo stato in cui si presenta oggi. Il Castel dell'Ovo spicca maestoso sull'antico Isolotto di Megaride. Una delle più bizzarre leggende napoletane attribuisce il nome del castello all'uovo che Virgilio avrebbe tenuto nascosto in una gabbia posta nei sotterranei. L'uovo fu difeso con pesanti serrature e mantenuto segreto perché proprio da questo "oggetto prezioso" dipendeva la buona sorte del Castello. Da quel momento in poi il destino non solo del Castello, ma anche dell'intera città di Napoli, è stato legato a quell'uovo, certo un sostegno che potremmo definire un po' fragile, ma pur sempre qualcosa a cui appigliarsi per un po' di speranza. Si pensi che la cronaca dell'epoca riporta che, al tempo della regina Giovanna, il Castello subì gravi danni a causa del crollo dell'arcone che lega i due scogli su cui è innalzato e che la Regina fu praticamente obbligata a dichiarare ufficialmente di aver sostituito l'uovo per evitare che in città si spargessero timori per l'avvento di nuovi e più dannosi disastri. Il Castello si trova nella zona di via Caracciolo, una parte della città di Napoli molto suggestiva: la mattina si

6


anima di gente che va a lavorare ed è un caos di macchine in fila, la sera invece si accendono le luci tenui della metropoli, tutto sembra fermarsi e ci si immerge in un'atmosfera di altri tempi, con il mare che risplende accarezzato dalla luna. Dagli spalti del Castello e dalle sue terrazze è possibile godere interamente di questo incantevole scenario. 2° TAPPA – REALE: IL PALAZZO REALE DI NAPOLI Il palazzo si affaccia maestoso sull'area monumentale di piazza del Plebiscito ed è circondato da altri importanti e imponenti edifici quali il palazzo Salerno, la basilica di san Francesco di Paola e il palazzo della Prefettura. Nel corso della sua storia, il palazzo divenne la residenza dei viceré spagnoli, poi di quelli austriaci e, in seguito, dei re di casa Borbone. Dopo l'Unità d'Italia divenne residenza napoletana dei sovrani di casa Savoia. Il Palazzo Reale nasce nel 1600 dal genio dell’architetto svizzero Domenico Fontana. Fu costruito dai re spagnoli come palazzo di rappresentanza, dove ospitare le teste coronate d’Europa in visita a Napoli, poi si consolidò come reggia ufficiale, nonostante il fatto che spagnoli e Borboni preferissero ancora, per motivi strategici e di tranquillità, luoghi più lontani dalla costa o dal centro urbano del regno. Nel ’700 il Vanvitelli costruì il portico con archi dell’attuale facciata. Con l’arrivo di Napoleone il palazzo fu riqualificato in stile neoclassico. Fu poi distrutto da incendio e ricostruito dal Genovese. Con l’arrivo dei Savoia il palazzo fu arricchito di fregi esteriori. Umberto I volle che le nicchie ospitassero le statue dei re di Napoli, disposti cronologicamente uno dopo l’altro di fronte all’abbraccio di piazza del Plebiscito.

Alla base del palazzo ci sono otto statue dei re di Napoli. Da Ruggero il Normanno, il primo re di Napoli, fino a Vittorio Emanuele II. In questo senso Carlo I di Borbone diventa Carlo III, come se la dinastia borbonica non fosse mai esistita se non come costola dell’impero spagnolo. Da cento anni i napoletani giocano con le statue, le guardano, ci

7


scherzano, dando vita a valutazioni storiche arbitrarie basate sulla simpatia del volto scolpito o inventando paradossali dialoghi tra i personaggi. Ogni re è fissato in una posa particolare che per i napoletani ha un chiaro valore espressi vo. Nasce così la famosa leggenda della pipì reale. Le interpretazioni e le varianti sono moltissime, ma escludendo i primi quattro seriosi monarchi (Ruggero, Federico II, Carlo d’Angiò e Alfonso V) la trama ha il suo fulcro narrativo nel dialogo tra Carlo V, Carlo Borbone (come ricordato come Carlo III), Murat e Vittorio Emanuele II. L’imperatore Carlo V, infatti sembra proprio indicare per terra. “Chi ha fatto pipì a terra?”, dice tirando su il mento. “Io non so proprio niente”, risponde Carlo III allargando le braccia. Prende coraggio Murat che toccandosi il petto afferma:

“Sono

stato io,

embè?”.

Vittorio

Emanuele sguaina la spada: “E mo’ ti tagliamo il pesce!”. Chi è stato veramente a imbrattare la piazza? I napoletani danno la colpa all’uno o all’altro re e giungono anno dopo anno nuovi fatti e interpretazioni. Intanto Vittorio Emanuele aspetta, con la spada tesa, di punire il trasgressore. Sinuosi vialetti e aiuole colorate conferiscono ai giardini un'aura romantica alla scoperta di nuovi ed incredibili scorci sul Golfo di Napoli. La costruzione dell'area verde di Palazzo Reale ebbe inizio già nel XIII secolo con la dominazione angioina. Proseguì nel periodo dei viceré spagnoli, con la trasformazione in un parco abbellito da statue. Il Palazzo Reale di Napoli fu una delle quattro residenze usate dalla casa reale dei Borbone. Fu solo nell'Ottocento, però, che il giardino acquistò un nuovo aspetto, un perfetto stile inglese. Addobbato con magnolie, lecci, "giardini segreti", piante rare e di grande varietà cromatica, tra le quali la Persea indica, la Strelitza niccolai e la Cycas revoluta. Sempre negli stessi anni il giardino fu cinto da una cancellata in ferro con lance a punta dorata, su cui si apre un ingresso delimitato da statue in ferro di Palafreni, i famosi "Cavalli di bronzo", dono prezioso dello zar Nicola I a re Ferdinando. I giardini di Palazzo Reale offrono una suggestiva vista sul Castello Maschio Angioino. Oggi sono molto frequentati da studenti e studiosi in visita alla Biblioteca Nazionale di Napoli.

8


3° TAPPA – TENUTA REALE: LA REGGIA DI CAPODIMONTE La Reggia e il Bosco di Capodimonte sono dei capolavori di Carlo di Borbone. La grande reggia domina la collina di Capodimonte e tutta Napoli, ospita uno dei più ricchi musei d’Italia e che ospitò una delle più celeberrime manifatture del mondo. Il 10 settembre 1738 si inaugurarono i lavori per la Reggia. Carlo nel 1734 aveva conquistato Napoli e Sicilia, e immediatamente dispose la costruzione del nuovo Palazzo: era la prima dimostrazione materiale della sua volontà di rendere il Regno a tutti gli effetti sovrano e indipendente dalla Spagna. Fin dall’inizio, Carlo scelse come luogo della futura reggia il vastissimo bosco di Capodimonte (124 ettari di terreno), da cui si può ammirare il panorama del golfo e della città, tra il Vesuvio, la collina di San Martino e Posillipo. Dall’inizio, fu subito intenzione del Re che il palazzo – come Palazzo Pitti a Firenze – avesse la duplice funzione di residenza regale e di celebrata sede museale. Architetti furono il palermitano Giovanni Antonio Medrano e il romano Antonio Canevari, che si lasciarono in seguito coinvolgere in una non molto qualificante reciproca rivalità. Negli anni Cinquanta-Sessanta sovrintendente generale ai lavori fu

9


Ferdinando Fuga. Medrano elaborò tre varianti di progetto: fu scelta alla fine la variante C (tuttora conservata a Capodimonte), che prevedeva un vasto edificio a pianta rettangolare (m. 170 in lunghezza e m. 87 sul lato minore), con un ammezzato e due piani oltre ai sottotetti per lo sviluppo verticale (m. 30). Lo stile adottato è quello neoclassico, proprio delle grandi Corti europee; l’impianto solenne e maestoso, celebrativo della dinastia. Per i prospetti il Palazzo presenta, esternamente e verso l’interno, rigorose facciate in severo stile dorico (considerato il più idoneo per un edificio destinato ad ospitare una sede museale) e di misurato gusto neocinquecentesco, ritmate da forti membrature in piperno grigio, sapientemente contrastate con il rosso napoletano delle pareti intonacate. Nei primi mesi la costruzione procedette velocemente, superando anche i molti ostacoli procurati dal trasporto dei materiali sulla sommità di Capodimonte, allora raggiungibile solo attraverso un impervio percorso in salita, attraverso l’utilizzo di pietre tufacee ricavate da scavi condotti per le profonde fondazioni dell’edificio; e furono create anche vaste e profonde cisterne per fronteggiare la cronica carenza di acqua. Vi fu un certo rallentamento nei lavori, sia per problemi specificamente economici, sia perché Carlo iniziò a pensare e a rendere concreto il grande progetto della Reggia di Caserta. Riprenderanno poi negli anni Sessanta sotto Ferdinando IV e Tanucci (peraltro, sono gli anni in cui rallentarono i lavori della Reggia di Caserta); ma solo negli anni di Ferdinando II il palazzo sarà completato, sotto la direzione

dell’architetto

Tommaso Giordano e la supervisione

di

Antonio

Niccolini, con l’elevazione del cortile settentrionale. Fondamentale ruolo svolse il

grande

parco

per

la

caccia, che non era solo una passione comune ai Borbone di Napoli, ma una vera e propria «funzione di Stato; intorno al Sovrano, impegnato

10

nell’attività


venatoria, si sposta una variegata Corte composta da ministri, nobili, ospiti stranieri, spesso Capi di Stato, oltre ad artisti e pittori chiamati a ritrarre la scena come una cerimonia ufficiale» [Capodimonte. Da Reggia a Museo, della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli e Provincia, Elio de Rosa editore, Napoli 1995, p. 9. Riprendiamo le notizie da tale opera. Si veda anche: Museo Nazionale di Capodimonte, a cura di N. Spinosa, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli e Provincia, Electa Napoli,

1994;

N.

SPINOSA,

Capodimonte,

Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli e Provincia, Electa Napoli, 1999]. Il Bosco, tradizionalmente

attribuito

a

Ferdinando

Sanfelice, a differenza degli altri parchi reali venne concepito in maniera del tutto autonoma rispetto alla dislocazione della Reggia, e l’impianto stesso venne studiato in rapporto all’attività venatoria. Presenta oltre 4000 varietà censite di alberi secolari, tra elci, querce, tigli, castagni, cipressi, pini. Sparsi nel verde vi sono una serie di fabbricati destinati allo svolgimento della vita di Corte (Casina della Regina, Palazzina dei Principi), a sede di fabbriche reali (fra cui l’edificio della Manifattura di Porcellana), a funzioni di culto (Chiesa di San Gennaro, Eremo dei Cappuccini), ad attività

agricole

e

zootecniche

(Fagianeria,

Cellaio, Vaccheria). Da ricordare è poi il Parco della Statuaria, realizzato a ornamento di fontane, viali e casini. Nel Palazzo soggiornarono, nel corso del tempo, protagonisti illustri della cultura europea, come, fra gli altri, Winckelmann, Fragonard, Angelika Kauffmann, Canova, Goethe, Hackert, che restaurò i dipinti rovinati e curò la pinacoteca. Per il Museo, gà dal 1735 Re Carlo aveva dato disposizione per il trasferimento a Napoli delle collezioni farnesiane ereditate dalla madre Elisabetta Farnese . Le consistenti raccolte, costituite da dipinti, disegni, bronzi, oggetti d’arte e d’arredo, medaglie e monete, gemme, cammei e vario materiale archeologico, erano allora prevalentemente sistemate nel Palazzo della Pilotta a Parma, quindi in maniera minore nel Palazzo del Giardino sempre a Parma, nel Palazzo Ducale di Piacenza, nella residenza di Colorno e nel Palazzo Farnese a Roma. Re Carlo, che era ancora Duca di Parma e Piacenza, ordinò di fare un grande inventario generale del materiale artistico: furono

11


scartati i pezzi di poco valore (solo una minima parte, naturalmente), mentre il grande insieme delle opere, portato a Napoli, fu dapprima sistemato nel Palazzo Reale, per poi passare a Capodimonte non appena la Reggia fosse pronta per ospitare il museo. Già nel 1739 una commissione di esperti fu incaricata dal Sovrano di studiare la più idonea sistemazione di una parte delle raccolte giunte da Parma: si stabilì di riservare ai dipinti le sale esposte a mezzogiorno e verso il mare, perché più asciutte e meglio illuminate, mentre per i libri, le medaglie e gli altri oggetti furono scelte le cosiddette “retrostanze”, che affacciavano verso il bosco. Proprio qui, in questo bosco si narra la leggenda della grotta di Mariacristina: Maria Cristina di Savoia, prima moglie di Ferdinando II di Borbone, fu una regina d'una bellezza seria e soave: alta di statura, bianca di carnagione, ma sfortunata. Morì non ancora ventiquattrenne per i postumi del parto, nel dare alla luce l'unico figlio, Francesco, che sarebbe salito al trono e sarebbe stato l'ultimo re del regno delle Due Sicilie. Francesco sarebbe poi stato educato nel culto di sua madre, chiamata la Regina Santa. Era infatti una donna molto devota e si dice che amasse raccogliersi nella grotta in solitaria preghiera. In effetti la caverna è un'oasi di tranquillità. Lontana dal trambusto del centro e immersa nel verde, è il luogo ideale per chi voglia raccogliersi in solitudine. Ma attorno ad essa da sempre circolano leggende. È la sorte di tutti i luoghi suggestivi e avvolti da un aurea di mistero, che si rafforza in una città come Napoli, così ricca di miti. Da sempre la grotta ha alimentato le fantasie dei ragazzini che qui si sfidavano in prove di coraggio, e per farsi paura si raccontavano che qui Maria Cristina era solita trascorrere le giornate non solo per pregare, ma anche per incontrare i suoi amanti, che, come una mantide religiosa, ammazzava buttandoli dall'alto nella cava. Così si spiegavano il cumulo di terra in corrispondenza dell'apertura. Storielle piene di fantasia che solo un luogo pieno di fascino può suscitare. Solo nel 1758, però, furono ultimate al piano nobile le prime 12 delle 24 sale destinate alla biblioteca, al medagliere, alla pinacoteca e alla raccolta di antichità. Prima del saccheggio operato dai napoleonici nel 1799, i dipinti ammontavano a ben 1783 (da notare che l’originale pinacoteca farnesiana contava “solo” 329 quadri, e neanche tutti furono portati a Napoli da Carlo); è chiaro che, oltre alla collezione farnesiana, erano già esposte le opere della

12


collezione borbonica. I francesi se ne portarono via più di 300. Nel corso dell’ottocento il Museo si arricchisce di altre importanti sezioni: le collezioni borboniche, dipinti e oggetti preziosi provenienti da monasteri soppressi, da donazioni reali e di privati e da successive acquisizioni; ancora i capolavori del cardinale Borgia, acquistati da Ferdinando I nel 1817, antichità egizie, etrusche, volsce, greche, romane, tra cui il famoso Globo celeste. Infine la raccolta grafica, una delle più prestigiose in Italia, e il nuovo nucleo di opere di artisti contemporanei. Una dimostrazione esemplare, imperniata su rigore, cultura, passione della gestione quotidiana del tutto inconsueti, di come un patrimonio storico formidabile possa riproporsi alla ribalta dei grandi circuiti artistici internazionali. Altre “asportazioni” avvennero poi nel 1860, al momento dell’occupazione del Regno da parte di Garibaldi: dei 900 e oltre dipinti esposti, ne rimasero meno di 800. 4° TAPPA -TENUTA REALE: LA REGGIA DI CASERTA La Reggia di Caserta, o Palazzo Reale di Caserta, è una dimora storica appartenuta voluta dai Borbone, è uno dei ventidue siti reali ed stata proclamata patrimonio dell’umanità dell’Unesco . Situata nel comune di Caserta, è circondata da un vasto parco nel quale si individuano due settori: il giardino all’italiana, in cui sono presenti diverse fontane e la famosa Grande Cascata, e il giardino all’inglese, caratterizzato da fitti boschi e fontane: la Fontana Margherita; la Vasca e Fontana dei Delfini; la Vasca e Fontana di Eolo: Cascatelle e Fontana di Venere e Adone; la fontana di Diana sovrastata dalla Grande Cascata. Le vasche sono popolate da numerosi pesci. Il Palazzo reale di Caserta fu voluto dal re Carlo Borbone, il quale, colpito dalla bellezza del paesaggio casertano e desideroso di dare una degna sede di rappresentanza. Al governo della capitale Napoli e al suo reame, volle che venisse costruita una reggia tale da poter reggere il confronto con quella di Versailles. Si diede inizialmente per scontato che sarebbe stata costruita a Napoli, ma Carlo di Borbone, cosciente della considerevole vulnerabilità della capitale a eventuali attacchi (specie da mare), pensò di costruirla verso l'entroterra, nell'area casertana: un luogo più sicuro e tuttavia non troppo distante da Napoli. La reggia, definita l'ultima grande realizzazione del Barocco italiano fu terminata nel 1845, ebbene fosse già abitata nel 1780, risultando un grandioso complesso di 1200 stanze e 1742 finestre, per una spesa complessiva di 8.711.000 ducati Nel lato meridionale, il palazzo è lungo 249 metri, alto 37,83, decorato con dodici colonne. La facciata principale presenta un avancorpo centrale sormontato da un frontone; ai lati del prospetto, dove il corpo di fabbrica longitudinale si interseca con quello trasversale, si innestano altri due avancorpi. La facciata sul giardino è uguale alla precedente, ma presenta finestre inquadrate da lesene scanalate.

13


14


5° TAPPA -TENUTA REALE: LA REGGIA DI CARDITELLO La Reale tenuta di Carditello, sita in San Tammaro (CE), detta anche Real sito di Carditello oppure, con riferimento alla palazzina ivi presente, Reggia di Carditello, faceva parte di un gruppo di 22 siti della dinastia reale dei Borbone di Napoli posti nella Terra di Lavoro: Palazzo Reale di Napoli, Reggia di Capodimonte, Tenuta degli Astroni, Villa d'Elboeuf, Reggia di Portici, Villa Favorita, Palazzo d'Avalos nell'isola di Procida, lago di Agnano, Licola, Capriati a Volturno, Cardito, Reale tenuta di Carditello, Reale tenuta di Persano, Fusaro di Maddaloni, Selva di Caiazzo, Sant'Arcangelo, Reggia di Caserta, San Leucio, Casino del Fusaro, Casino di Quisisana, Mondragone e Demanio di Calvi. La tenuta fu inizialmente riserva di caccia di Carlo di Borbone, che poi volle impiantarvi un allevamento di cavalli, da cui la Corte si approvvigionava di cavalli di razza. A partire dal 1787 fu trasformata da Ferdinando IV in una moderna fattoria di circa 2000 ettari per la coltivazione di cereali, legumi e foraggi, questi ultimi a sostegno dell’allevamento di razze pregiate di cavalli e di bovini posto nelle ali dell’edificio che fu costruito al centro della tenuta sotto la direzione di Francesco Collecini (1724-1804), allievo e collaboratore di Luigi Vanvitelli. Dopo l'unità d'Italia la Tenuta passò alla casa reale dei Savoia, come tutte le tenute e regge dei Borbone. Nel 1919 fu donata all'Opera Nazionale Combattenti, che procedette alla lottizzazione e vendita dei terreni, che, purtroppo, fu l’inizio di troppi anni di incuria, di vandalismi, di scandaloso abbandono con conseguente spoliazione di arredi e suppellettili. Dalla lottizzazione sono esclusi i fabbricati e i 15 ettari circostanti, che nel secondo dopoguerra sono affidati al Consorzio Generale di Bonifica del Bacino Inferiore del Volturno.Solo negli anni 80 dello scorso secolo si procedette al restauro del corpo centrale dell’edificio con parziale recupero e restauro degli affreschi. La “Reale Tenuta di Carditello” comprende la Palazzina reale incastonata in edifici lunghi e bassi, arretrati rispetto ad essa, adibiti alle attività agricole ed all’allevamento. La Palazzina reale ha il piano terreno, il piano nobile e, al secondo piano, il belvedere ed una balaustra traforata con agli angoli trofei d’armi. Essa prospetta su una gran corte rettangolare in cui il Collecini, ispirandosi agli antichi circhi, pose una pista ellittica di terra battuta con due fontane con obelischi nei due fuochi ed una piccola rotonda, in forma di tempietto, al centro dell’ellisse. Ancora oggi, pur con le erbacce che infestano la corte rettangolare e le mutilazioni delle fontane, l’ispirazione e la realizzazione del Collecini suscitano subito, nel visitatore, ammirazione e rispetto per il sito. Su quella pista venivano addestrati i cavalli e, nel giorno dell’Ascensione, si tenevano corse di cavalli, seguite dal Re dalla rotonda. All’interno della palazzina reale due scale simmetriche conducono al piano nobile, ma una di esse è stata completamente spogliata di tutti i suoi marmi e non agibile. Alle loro pareti vi sono stucchi di trofei di cacciagione ed armi, che, con

15


quelli dipinti in vari ambienti, testimoniano l’interesse dei Sovrani per questa attività . Siamo comunque riusciti ad entrare in alcuni ambienti ad est della Palazzina reale e siamo rimasti sorpresi da quanto essi, malamente, custodiscono: presse per olive, a mano o meccaniche, torchi per uva, una grande ruota probabilmente mossa ad acqua, macine per le olive e per il grano mosse da asini o dallo scorrere dell’acqua, bilance e stadere, una trebbiatrice, basti per muli, e altro ancora,. Il loro restauro darebbe significativa testimonianza di quanto era necessario per il compimento delle attività che si svolgevano nella villa-masseria reale.

16


VOLUME BASILICO – SEZIONE I TESORI NATURALI A CURA DI MARIA SETTEMBRE PREMESSA. ALLA RICERCA DEL BASILICO. ETIMOLOGIA E STORIE SUL BASILICO, CARATTERISTICHE E CREDENZE.

BASILICO lat. basilĭcum, gr. βασιλικόν: (erba) regia; (pianta) regale, (dal greco basileus "re"); lat. scient. Ocimum basilicum L.; fr. basilic; sp. albahaca; ted.basilikum; ingl. basil). Il basilico è una pianta officinale nota in botanica come Ocimum basilicum, nel quale il prenome scientifico deriva probabilmente dal vocabolo greco okimon che significa aroma. Fa parte della famiglia delle Lamiaceae, il genere Ocimum comprende circa 60 specie e varietà, che crescono spontanee o coltivate in tutte nelle zone calde e temperate. Presenta un fusto eretto che raggiunge un’altezza di 30-60 cm, è cespuglioso e ramoso, con foglie ovali e lisce; ha semi neri e fiori bianchi. E’ una pianta erbacea annuale, originaria dell’India e dell’Asia tropicale. Nel 350 a. C. ai tempi di Alessandro Magno, il basilico si

17


diffuse in Medio Oriente, nell’Antica Grecia, in Italia. Arrivò anche nella Francia del Sud. Nel XVII secolo iniziò ad essere coltivato in Inghilterra e nelle Americhe. Si semina in varie stagioni, principalmente in primavera. Per Columella (I sec. d.C.) era una pianta da seminare in abbondanza "dopo le idi di maggio fino al solstizio d’estate". I Galli lo coltivavano tra luglio e agosto finché fioriva. Per i Romani era ritenuta sacra a Venere e andava raccolta con precisi rituali, tramandati anche in epoca medievale: chi tagliava il basilico doveva indossare candidi abiti di lino e doveva purificare la mano destra con un ramo di quercia bagnato con l’acqua di tre fonti diverse, doveva poi rivestirsi con vestiti puliti, tenersi a distanza dalle persone impure e non utilizzare attrezzi in ferro perché il metallo avrebbe annullato le qualità portentose. In quanto pianta sacra, capace di guarire le ferite, ingrediente con altre sedici erbe dell’acqua vulneraria, era necessario questo rito propiziatorio di purificazione. Secondo un’altra tradizione, per i Greci affinché la pianta desse un buon raccolto, al momento della semina bisognava pronunciare insulti. Da qui probabilmente deriverebbe il proverbio popolare «seminare il basilico» nel senso di lanciare maledizioni. Nella visione magico-religiosa antica, le credenze sul potere curativo o maligno del basilico non sono in contrasto tra loro, così come la stessa pianta poteva essere considerata simbolo sacro, erotico e funerario. Apparenti contraddizioni vanno contestualizzate storicamente, sono da leggere attraverso la lente del panteismo e dell’animismo dell’epoca, in base alle quali il forte profumo racchiuderebbe in sé un’entità magica, che potrebbe avere effetto sia sull’anima del defunto sia sullo spirito della persona amata (molte magie d’amore avevano efficacia per l’azione di profumi intensi). Crisippo elencava i “demeriti” del basilico perché a causa del forte profumo era ritenuto malefico. Tra gli antichi era considerato un simbolo diabolico, di sfortuna e di odio perché associato, confondendo il nome, alla figura mitologica del Basilisco, creatura a forma di serpente in grado di uccidere con lo sguardo. Per Teofrasto era una pianta dall’alto potere terapeutico, quasi dotata di virtù magiche per l’aroma delle sue foglie. Nei manoscritti di Plinio il Vecchio, le foglie di basilico avevano la capacità di generare stati di torpore e pazzia mentre i semi potevano produrre effetti afrodisiaci. Gli Egizi, i Greci e gli Indiani lo utilizzavano per le offerte sacrificali, ritenendolo di buon auspicio per l’aldilà. Si usava porre il basilico nelle mani dei defunti per assicurarne un buon viaggio nell’aldilà. Alcune tradizioni europee conservano questa usanza che sembra affondare le radici nella cultura bizantina, come avviene ancora a Creta. Nella Chiesa Greca Ortodossa, il basilico viene usato per preparare l’acqua benedetta. Gli ortodossi bulgari, serbi, macedoni e rumeni mettono piantine di basilico sotto gli altari delle chiese. Queste tradizioni nella Chiesa Ortodossa sono legate alla pianta di basilico che sarebbe stata trovata vicino alla tomba di Cristo dopo la resurrezione. Nelle miniature dei manoscritti medievali, è il simbolo dell’odio e di Satana. Sembra trarre origini dalla cultura bizantina anche la Novella di Lisabetta da Messina, raccontata nel Decameron di Giovanni Boccaccio (Giornata IV, novella 5). La storia narra della giovane Lisabetta, nubile, che viveva con i suoi tre ricchi fratelli mercanti,

per

i

quali

lavorava

Lorenzo,

un

giovane

di

bell'aspetto, ma di condizione modesta. Lorenzo e Lisabetta si innamorarono, ma era un amore segreto perché i fratelli non avrebbero mai approvato la relazione della sorella con un garzone. Un giorno Lorenzo sparì. Lisabetta iniziò a piangere, finché non le apparve in sogno il suo amato che le

18


rivelò dove era sepolto. La giovane si recò sul posto e trovò il corpo, gli tagliò la testa che portò a casa e piantò in un vaso di basilico che innaffiava con le lacrime. Ispirata alla storia di Lisabetta da Messina, è la canzone popolare del XIV secolo (manoscritto conservato nella Biblioteca Laurenziana) che racconta di una donna che conservava la testa dell'amante ucciso dai fratelli in un vaso di basilico, che innaffiava con le lacrime. A Napoli, l’etimologia dialettale del basilico “vasenicola” sembra legata ad una leggenda simile, con la differenza che il nome del ragazzo era Nicola e non Lorenzo. D’estate dal vaso innaffiato con le lacrime spuntò una piantina di basilico dal profumo intenso per l’amore di gioventù, detta “Vas-e-nicola”, “vaso di Nicola”. In altre versioni e interpretazioni il significato di “vasenicola” è “bacia Nicola” perché il basilico posto sul davanzale del balcone di una fanciulla indicava la disponibilità ad aprirsi al corteggiamento dell’uomo. In molte novelle ricorre come simbolo dell’amore ricambiato. Il basilico era usato principalmente a scopi terapeutici, i crociati riempivano le navi per allontanare le zanzare, per guarire le punture e le ferite, ma iniziò ad attestarsi anche nelle cucine di tutta Europa, con “l’agliata”, una salsa medievale, a base di aglio e basilico con la quale si aromatizzavano le carni bollite o arrostite. La diffusione sempre più ampia del basilico in Italia è descritta dal Mattioli nel Cinquecento: “poche sono quelle case, e massimamente nelle città, che non habbiano l’estate il basilico in su le finestre, in su le loggie e nei giardini”, fino ad arrivare a tempi più vicini con Gabriele D’Annunzio.“Dal profumo fresco ed invitante che fa pensare a cibi semplici e genuini, alle cose buone nate dalla fantasia del popolo e che ormai fanno parte della nostra più schietta tradizione”, scriveva “una foglia odorosa, una foglia d’una di quelle erbe che crescono in un vaso di terracotta sui davanzali delle finestre”. In Italia, ebbe i suoi primi piatti in Sicilia con carne, pesce e verdure e poi pasta al profumo al sapore del basilico.

Man mano questa

preziosa piantina ha risalito la penisola: regalando aroma e gusto a spaghetti al pomodoro, pizza alla napoletana, bruschetta alla

romana

fino

ad

arrivare

al

pesto

genovese. Oggi i tipi più usati sono il “basilico genovese”, dal profumo più intenso e il “napoletano” a foglia grande e con odore più delicato. Anche Allende in Afrodita: “ Basilico. Nel Sud Italia sa di pranzo della domenica. Le sue foglie aromatiche sono indispensabili in tutte le cucine che si rispettino. E’ più efficace da fresco, si aggiunge alla fine, ma nella preparazione di certi piatti si può usare secco. Nei culti antichi - e ancora oggi in quello vudù di Haiti - il basilico è associato alla fecondità e alla passione. ”

19


1. L’ARRIVO DEL BASILICO A NAPOLI. LA STORIA DELLA CITTÀ E L’EVOLUZIONE DEI GIARDINI NAPOLETANI. La storia del basilico è la storia di tanti viaggiatori in diverse epoche storiche. Napoli ha conosciuto il basilico solo grazie alle campagne in Mesopotamia di Alessandro Magno? Dalla Grecia è passato all’Impero Romano, all’Europa Meridionale e poi in tutta Europa? Il basilico era già familiare anche agli Etruschi, originari della Lydia? I diversi potrebbero essere arrivati dall’Asia sulle coste del Mediterraneo con i mercanti medievali? Si propone qui un viaggio immaginario che parte dall’arrivo a Napoli del basilico ai tempi di Alessandro Magno nel 350 a.C. e fonde la storia della città all’evoluzione dei giardini, oggi sommersi spesso da stratificazioni. Si offrire un menù in dieci tappe di tesori verdi, tesori naturali che raccontano il verde napoletano, dove un tempo il profumo basilico si sentiva davvero! L'evoluzione del verde a Napoli è strettamente legata alle vicende storiche della città. Interessanti gli studi tratti dal testo tratto “Giardini storici napoletani di Maria Luisa Margiotta e Pasquale Belfiore, Electa Napoli” per guidare il viaggio alla ricerca del basilico nella città di Napoli. <<I caratteri del tessuto urbano della nuova città Neapolis, costituita da tre decumani larghi circa sei metri e nella direzione ortogonale da venti cardini larghi circa tre metri, tra i quali si cela, frammentaria ma diffusa, l’antica materia vegetale nel cuore delle insule. In origine, non orti e giardini ma “spazio agrario”: prima della fondazione nel V secolo a.C. il territorio di Neapolis sarebbe stato l’ordinato spazio agrario di Cuma con un suo frazionamento fondiario che è transitato nel disegno urbano di matrice ippodamea. L’ipotesi alimenta l’immagine di antichissimi e fertili campi coltivati dai cittadini cumani trasformati poi negli orti, nei frutteti e nei giardini della città greco-romana e poi ridotti dalle secolari trasformazioni nell’hortus conclusus della città medioevale, nei giardini ameni della città rinascimentale e poi infine nelle esigue testimonianze degli attuali giardini-frutteto: tracce, dunque, di un ostinato

ritorno

fondazione.

all’originaria

Un’altra

ipotesi

ruralità

del

riguarda

le

sito

di

presenze

naturalistiche nel centro antico, partendo dalle vaste aree libere, nella parte centrale delle insule e sul fronte di alcuni cardini, emerge non solo un modello di domus basato su una ripartizione dell’isolato in lotti estesi da cardine a cardine ed in una netta suddivisione dello spazio libero interno in corte ed orto, ma anche una possibile alternanza fra cardini principali – dove si aprono gli accessi – e secondari – dove si aprono i giardini – un

20


tempo contrassegnati dal verde (Savarese 1991, p. 11). La ricostruzione della collocazione degli spazi verdi nella città antica coincide anche con l’evoluzione tipologica sia della casa italica, con l’orto posto sul retro alle spalle e due ingressi contrapposti, l’uno sul fronte principale e l’altro su quello posteriore, sia della casa greca di età classica, sia della casa ellenistica prima e della casa romana : una struttura centripeta con area interna. La struttura di Neapolis fatta di insule o isolati è scandita in strisce trasversali o settori, che si presentano semplici o complessi in relazione al numero di lotti che li compongono. La domus della città greco-romana, dunque, è una casa quadrilatera regolare, attestata trasversalmente nell’isolato, con ingresso prevalentemente sui cardini, priva di finestre all’esterno, gravitante su un’a rea scoperta all’interno e su un orto posteriore affacciato sul cardine retrostante, elementi che più tardi si trasformeranno in un lussuoso peristilio. Così dovevano presentarsi ed evolversi le splendide domus di Lucio Cornelio Sulla, di Marco Fonteio, del seguace di Epicuro Papirio Peto, di Silla, di Pompeo Magno segnalate da Cicerone e Plutarco (Capasso 1905, pp. 104, 105), ma anche ipotizzate come tali dai ritrovamenti archeologici nell’area del Primo Policlinico e di piazza San Domenico Maggiore. Domus che convivevano fianco a fianco con le “case-insula” per i ceti medio-bassi, secondo un modello abitativo urbano che sarà presente nei secoli a venire. Nell’area dell’orto si attesta dunque il nuovo “quartiere” di abitazione sviluppato intorno al peristilio che si diffonde a Pompei intorno alla metà del II secolo a.C. come diretta ed innegabile derivazione dai modelli ellenistici. Con la realizzazione del peristilio l’hortus si trasforma in viridarium, la vegetazione di tipo utilitaristico diviene prevalentemente ornamentale all’interno di un impianto planimetrico geometrico; l’influenza del costume greco sulla vita romana è tale da determinare anche l’uso, riportato da Vitruvio, di vocaboli greci per definire le parti della casa greco-romana: andron, oecus, coeton, procoeton, diaeta, exedra, trichila, xystus (Maiuri 1973, p. 58). I piccoli giardini del centro antico di Napoli conservano ancora i caratteri della “grecità”, radicati a tal punto nella città antica da renderla «sintesi e modello di città greca» (Greco 1985, p. 130) anche dopo la conquista romana ed il foedus del 326 a.C. Una grecità riconoscibile in molti casi, nella permanenza dell’orografia originaria; nel ruolo di spazio centripeto sul quale gravitano per motivi funzionali non solo l’edificio e l’abitazione di pertinenza ma spesso, visivamente, anche gli edifici limitrofi; nell’isolamento di questi spazi dalla città e quindi nell’affermazione di una vita raccolta e appartata, lontana dal clamore della strada; nella prevalente tipologia del giardino-frutteto pensile adagiato su terrazzamenti posti alle spalle degli edifici e a servizio dell’appartamento al primo piano “nobile”. In pochi casi superstiti, si attesta in posizione sopraelevata sul perimetro del cardine e fornisce così una preziosa testimonianza degli orti più arcaici, come il giardino di via Atri 11 che affaccia su vico Purgatorio ad Arco. Il banco tufaceo su cui insistono quasi tutti i giardini, forato da mille e mille cunicoli e grotte, esprime il saldo legame dell’elemento vegetale con il sito di fondazione della città cumana, distesa nel punto più alto di un pianoro conformato a terrazzamenti naturali che degradano in pendio da Sant’Aniello a Caponapoli fino a Monterone e cinta da mura che assecondano docilmente l’orografia naturale (Napoli 1967, p. 391).

Il giardino pensile di palazzo Venezia in via Benedetto Croce è una

testimonianza. Esso conserva ancora un accentuato andamento in pendio sul massiccio banco tufaceo percorso da cavità artificiali che mettono in comunicazione il cortile, l’appartamento ed il giardino che presenta l’orientamento del vicino convento di San Domenico Maggiore, a sua volta condizionato dalla presenza delle mura greche lungo il lato occidentale della chiesa. Si tratta di un giardino di grande rilievo

paradigmatico

perché,

sebbene trasformato, esprime in maniera esauriente i caratteri fondamentali dei giardini del centro antico.

L’edificio cui

appartiene fu definito da Croce «il

napoletano

palazzo

di

21


Venezia». La sua storia è possibile ricostruirla dal 1412, anno in cui re Ladislao d’Angiò Durazzo lo dona alla Serenissima Repubblica veneziana dopo averlo confiscato ai Sanseverino di Matera, ma è accertata una sua origine quanto meno trecentesca. Diviene così una stabile sede diplomatica di Venezia e la residenza del suo rappresentante. Da elemento nascosto, il giardino diviene nel Seicento il visibile fondale della prospettiva dalla strada. L’equilibrio ideale tra utile e diletto qui presente è uno dei “valori permanenti” del sistema di giardini del centro antico. Nel centro antico non v’è giardino esclusivamente ornamentale, ma è costante la commistione con l’albero da frutto e spesso con le essenze ortive, si direbbe quasi trascurata, tipica della campagna. La ruralità appare non solo il retaggio della cronica necessità di sopravvivenza di una città per secoli obbligata a risolvere entro le mura le esigenze alimentari primarie, ma anche l’espressione dello storico dissidio tra la vita urbana e la vita agreste. Nella città antica, questi contrasti sembrano risolti grazie alla presenza di verde nelle insule e negli spazi che le separavano dalle mura; in età ducale, il paesaggio urbano assume un carattere prevalentemente agrario, determinando addirittura una continuità visiva tra la città e la campagna (De Seta 1981, p. 31); le successive, intense urbanizzazioni inaugurate già in età angioina e intensificate in età vicereale corrodono inesorabilmente il cuore della città esaurendo le sue vitali riserve verdi. E tuttavia, ancora alla fine dell’Ottocento le cartografie mostrano residui consistenti di giardini privati ridisegnati “all’inglese”, anche se di piccole dimensioni. Il disegno legato ad una temperie romantica non deve però ingannare: si tratta comunque di giardini che continuano a mostrare una prevalenza di agrumi, alberi da frutto, aiuole curvilinee ordinatamente coltivate ad orto, sicché l’unica novità di questi giardini ottocenteschi è rappresentata dall’introduzione di pochi esemplari di essenze decorative come la magnolia, la palma o la camelia. >>. Secondo diversi studiosi di storia dell’architettura,

il termine giardino sembra derivare da “paradiso”, luogo dei beati e

simboleggia la purezza. Nel mondo greco, romano e medievale i giardini erano chiusi verso l'esterno da un muro, da ciò vennero detti “chiostri”, chiostri medievali a forma di croce racchiudevano giardini quale riproduzione del paradiso perduto. Molti elementi sia naturali che architettonici dei giardini avevano un valore simbolico: l'acqua, quale elemento primordiale, rappresentava la creazione del mondo, la sorgente e l’eternità della vita; la porta poteva indicare un percorso iniziatico, da raggiungere e valicare solo dopo aver superato diversi ostacoli Nelle descrizioni più antiche il giardino è un frutteto o un verziere

perché

aveva

funzioni

pratiche

e

utilitarie.

In

il

greco,

termine giardino è definito dalla

parola

kopos,

che

indica

il

recinto

di

protezione

di

un’area

coltivata, cosi come nelle pitture era rappresentato come spazio pianeggiante, dalle forme geometriche, cinto da mura.

I giardini

romani, horti, si ispiravano al modello greco, erano situati all'interno

nel

peristilio delle

ville

romane, davano importanza anche all’elemento decorativo con porticati per collegare la casa con l'aria aperta, creando che spazi esterni abitabili. Lo xystus era una terrazza-salotto, collegata alla casa tramite un portico coperto. Lo xystus sormontava il giardino

22


inferiore chiamato ambulation, giardino ornato da fiori e alberi, ambiente utilizzato per passeggiare dopo i pasti o conversare all’aria aperta. Il gestation era un viale ombreggiato. Il modello di giardino romano fu adottato anche negli insediamenti romani in Africa, Gallia e Britannia e vennero ripresi nel Rinascimento, Barocco e nel Classicismo e da architetti paesaggisti del XX secolo. Le miniature dei codici medievali descrivono il giardino merdievale come un luogo fantastico senza tempo, un universo simbolico dove reale e immaginario si fondono. Secondo la regola di San Benedetto il giardino dei monasteri, hortus conclusus, doveva strutturarsi in base a quattro tipologie di spazi coltivati: orti, frutteti (pomaria), giardini con alberi (viridaria), erbari (herbaria). Al centro del chiostro c’era un albero, l’arbor vitae della genesi con quattro sentieri d’acqua, reminiscenza dei quattro fiumi di biblica memoria. Lo spazio era diviso geometricamente da aiuole separate e da vialetti coperti da pergole ed è costituito da varie parti, ognuna delle con una destinazione precisa. Si presentavano con aiuole quadrate o rettangolare, all’interno coltivate a verdure e fiori sistematiti a scacchiera. Nella città medievale, sul retro delle case, c’erano piccoli orti in cui si coltivavano, in ordinati riquadri, erbe aromatiche, generi di prima necessità, a volte anche vigneti e frutteti. In principio il modello dei giardini medievali si ispiravano ai giardini della Genesi, del Vangelo, modelli di riferimento di alto medievali. Si aggiunse poi l’ archetipo

l’Hortus conclusus del Cantico dei Cantici. La forma quadrata rifletteva i quattro angoli dell’universo, la Gerusalemme celeste, il suo centro era costituito da un albero (albero della vita) o dal pozzo o da una fontana (fonte di sapienza, simbolo del Cristo e dei quattro fiumi del paradiso). Nella visione bernardiana c’erano tre tipologie allegoriche di giardino: il noceto di Susanna (Hortus nucum) espressione delle sofferenze della vita terrena, l’Hortus deliciarum dimora primordiale di Adamo, e la divina visione dell’hortus conclusus. L'Hortus conclusus e l'Hortus deliciarum sono le tipologie più frequenti nei documenti. L'Hortus conclusus è un giardino segreto e fantastico, all'interno del chiostro offre riparo e preclude il male. I primi esempi di giardino quattrocentesco si ispirarono all’Hortus conclusus monastico. A Napoli solo dal medioevo, con la nascita dell' hortus conclusus, si possono trovare esempi di giardini slegati dalla tradizione agricola. Si afferma un giardino ricco di specie arboree, con alte mura e dotato di un accesso indipendente. Fino al Rinascimento e in epoca barocca, il giardino è cinto da mura e diviso in settori. Progressivamente nel Rinascimento inizia a diffondersi la concezione del giardino italiano, in linea con la nuova visione del mondo, con il desiderio di trovare un giusto equilibrio fra rigore razionale e fantasia creativa. Il cosiddetto “giardino all’italiana” nasce a Firenze nel quindicesimo secolo. Diversamente dalla concezione classica e medioevale, il giardino italiano “aperto”, è parte integrante della casa, finalmente dopo secoli di chiusura si apre fiducioso verso il mondo esterno. La concezione del giardino italiano rinascimentale nasce dal desiderio, tipico di quel periodo storico, di trovare il giusto equilibrio fra rigore razionale e fantasia creativa. Il cosiddetto “giardino all’italiana” nasce a Firenze nel quindicesimo secolo. Diversamente dalla concezione classica e medioevale, il giardino italiano rinascimentale è “aperto”, pensato come parte integrante ed estensione della casa, che finalmente dopo secoli di chiusura si apre fiducioso verso il mondo esterno. Le caratteristiche dei giardini del ‘400 e ‘500 sono: la geometria delle aiuole, l’uso di sempreverdi, le siepi potate in forme regolari, le architetture, la presenza di statue e fontane. Nel ‘600, secolo del barocco, i giardini sono realizzati con l’intento di stupire e meravigliare. Dal 1734 al 1799 a Napoli si instaura la monarchia borbonica, con Carlo, cui succede nel 1759 Ferdinando IV. Si gettano le basi per

23


un nuovo paesaggio e un nuovo rapporto tra scena urbana e scena rurale. Re Carlo è consapevole del valore dei parchi in termini di prestigio e di stimolo all'economia, da qui anche la decisione di costruire il Bosco di Capodimonte (1734) che, insieme alla Reggia di Caserta i cui lavori cominciarono nel 1752, diventano il segno di una rinnovata strategia di sviluppo urbano. Il programma che porta alla realizzazione dei siti reali prende spunto da una mutata visione del rapporto tra la città e i suoi dintorni. La presenza nei dintorni della città di ampie riserve boschive, di laghi e di zone palustri che ospitano una fauna numerosa e varia, dà luogo alla formazione di un sistema di aree riservate alla caccia per il sovrano e per la sua corte. Carlo, animato da spirito illuministico, comprese subito la situazione di arretratezza del suo Regno e che bisognava incidere su una città etremamentente popolosa ma parassitaria. Egli tentò un duplice programma di ristrutturazione della città e di trasformazione dell’economia e amministrazione. Per l’aspetto urbanistico i suoi interventi furono episodici, senza alcun collegamento alle strutture precedenti, ma volti a dare magnificenza e lustro. Nel ‘700 la città così iniziò il suo ampliamento, allontanandosi dall’antico nucleo urbano. Bisogna tener presente che sia l’edificazione secentesca che settecentesca non seguirono un razionale piano di sviluppo. Infatti nella prima, i nuovi borghi a ridosso del perimetro urbano furono espressione di una esigenza venuta dal basso, la fame di abitazioni, dopo l’abolizione delle Prammatiche sanzioni. La seconda era caratterizzata da grandi interventi della monarchia o dai nobili per dare un nuovo volto alla capitale. Ecco che vennero costruiti nuovi edifici che pur fondendosi con l’ambiente naturale costituivano degli elementi isolati rispetto alla struttura cittadina. Iniziò a diffondersi quella tendenza , che resterà costante nei secoli successivi di non continuità tra gli interventi edilizi con il già costruito. Per questo motivo non è possibile individuare zone o quartieri tipicamente settecenteschi, l’omogeneità è presente solo in alcune chiese o palazzi commissionati da nobili o dal clero, che si sono avvalsi di artigiani locali o architetti stranieri (Carlo scelse l’architetto siciliano Medrano e il romano Canevari sia per la reggia di Portici sia per Capodimonte). Il fascino che esercitava sui visitatori stranieri era proprio costituita nella fusione delle singole costruzioni in dialogo con il panorama naturale. La presenza della corte richiamò i nobili , che fecero costruire lussuose dimore nei dintorni, La costruzione del palazzo reale di Capodimonte , iniziata e ripresa più volte per le difficoltà di collegamento e trasporto del materiale dalla valle, avviò quel processo di edificazione lungo le pendici della collina. In questo periodo fu ampliata e selciata via Foria, che rappresentò l’ingresso ufficiale della città. Su di essa si affacciava l’Albergo dei Poveri, la più grande opera pubblica voluta da Carlo e affidata a Ferdinando Fuga, con la funzione di offrire servizi e qualificazione professionale ai poveri della città. Nella veduta del Duca di Noja del 1775 appaiono l’albergo dei Poveri e la Reggia di Capodimonte. Altra importante realizzazione è la Villa Reale di Chiaia attorno al 1780 come giardino per il "real passeggio" dei nobili e nella quale inizialmente risulta vietato l'accesso al popolo; la Villa sarà "aperta al pubblico" solo nel 1860, istituendo così il primo vero "giardino pubblico" di Napoli. Nell'Ottocento si definiscono i caratteri della villa. La nobiltà si trasferisce sulle colline e nei luoghi tanto celebrati dai vedutisti. Nel ventennio fascista viene istituito il Parco Virgiliano per il bimillenario della nascita del poeta.

2. MENU’ IN CINQUE TAPPE: TESORI VERDI IN CITTA’

24


1° TAPPA-TESORO VERDE: PARCO ARCHEOLOGICO PAUSILYPON - VILLA DI VEDIO POLLIONE Il complesso archeologico nella zona di Posillipo è costituito da una villa romana che si affaccia sulla collina di Trentaremi alla Gaiola. Il complesso architettonico, risalente al I secolo a.C. con successivi interventi edilizi eseguiti in età imperiale, apparteneva al cavaliere

romano Publius

Vedius Pollio (Publio Vedio Pollione), ricco personaggio di origine libertina, consigliere economico di Augusto nella riorganizzazione della provincia dell’Asia, il quale alla sua morte lasciò all’imperatore tutte le sue proprietà, compresa appunto la villa sul Golfo di

Napoli

(dall’etimo

da

lui

greco

chiamata “che

Pausylipon

libera

dalle

preoccupazioni”). Da Posillipo una galleria, la cosiddetta Grotta di Seiano perché attribuita a Lucius Aelius Seiano, generale amico di Tiberio, scavata nel tufo per una lunghezza di ca. m 800 attraversava il promontorio collegando il versante napoletano del litorale con quello di Coroglio verso i Campi Flegrei. Qui, nell'incanto di uno dei paesaggi più affascinanti del Golfo, è possibile ammirare i resti del Teatro, dell' Odeion e di alcune sale di rappresentanza della villa, le cui strutture marittime fanno oggi parte del vicino Parco Sommerso di Gaiola, su cui si affacciano i belvedere a picco sul mare. L’amenità dei luoghi, il clima mite, la natura lussureggiante, furono i fattori che a partire dal I Sec. a.C. resero noti tali luoghi, inducendo senatori e ricchi cavalieri a collocare qui le loro dimore, come la villa del Pausilypon.

2° TAPPA- TESORO VERDE: CHIOSTRO

della CERTOSA DI SAN MARTINO

Per

una

prospettiva dall’alto della città, accanto al Castel Sant’Elmo che domina la collina del Vomero, c’è il monumentale complesso della Certosa di San Martino. Il Castello e la Certosa sono visibili da tutta Napoli. La massiccia fortezza fu costruita nel ‘300 da Roberto D’Angiò e rifatta sotto il governo di Pedro de Toledo (1537-1546), con forma a stella a sei punte; in parte è scavata nella massa tufacea ed è circondata da bastioni e fossati. Anche la Certosa di San Martino era di origine angioina: iniziata da Tino di Camaino nel 1325, fu trasformata tra gli ultimi anni del ‘500 e la metà del 600 dai più noti architetti ed artisti dell’epoca (Dosio, Fanzago), diventando un esemplare espressione del barocco napoletano e uno dei più grandiosi monumenti della città. L’interno della chiesa è ricca di affreschi, sculture, marmi policromi, dipinti. Gli affreschi furono eseguiti, tra gli altri, da Giovanni Lanfranco e Battistello Caracciolo. Il presbiterio e la sagrestia sono ricchissimi di decorazioni: tele di Ribera, Massimo Stanzione, Guido Reni, armadi e stalli lignei intarsiati. La volta della cappella del Tesoro è affrescata con il luminoso Trionfo di Giuditta di Luca Giordano. Nelle sale intorno al Chiostro Grande ha sede il Museo Nazionale di San Martino. Il percorso espositivo comprende sezioni dedicate a scultura e pittura, arti minori, teatro. Importante la sezione dedicata alle immagini della città, con opere dal ‘400 in poi, tra cui la famosa Tavola Strozzi. Molto interessante la sezione presepiale dei celebri artisti del ‘700 e da due eccezionali insiemi: le statue lignee del presepe quattrocentesco di San Giovanni a Carbonara e l’ottocentesco

25


Presepe Cuciniello (dal nome del donatore). In posizione panoramica il Quarto del Priore e il bellissimo chiostro del convento, illustre esempio di hortus-conclusus in cittĂ .

3° TAPPA - TESORO VERDE:

26


ORTO BOTANICO. Due rampe di scale della facciata monumentale conducono all’interno del Real Orto Botanico, fondato da Giuseppe Buonaparte nel 1807. Le 10.000 specie vegetali che l’orto colleziona nei suoi 12 ettari ne fanno uno dei più importanti in Italia. È una struttura universitaria della Federico II che ospita al suo interno l’Istituto di Botanica, la sezione sperimentale per le piante officinali Le aree sono organizzate secondo i criteri sistematico, ecologico e etnobotanico. Del primo fanno parte il palmeto e l'area delle Magnoliophyta; il deserto e la spiaggia del secondo, la sezione delle piante officinali del terzo. Da non perdere la Camelia japonica e la Chicas revoluta donata all’orto da Maria Carolina Buonaparte, moglie di Gioacchino Murat. Nel periodo estivo l'Orto Botanico diventa location d’eccezione per spettacoli ed eventi. L’Orto botanico di Napoli è uno dei maggiori orti botanici italiani per consistenza delle collezioni e per estensione. Fu fondato come istituto autonomo “Real giardino delle piante” a finalità scientifiche educative e tecniche con decreto di Giuseppe Bonaparte nel 1807, preceduto da due secoli di tentativi. L’impianto di un Orto Botanico statale a Napoli fu previsto per la prima volta dalla riforma vicereale del Conte di Lemos (1615) ma non fu mai realizzato, tuttavia tra fine 500 e gli inizi dell’800, vi fu una fioritura di piccoli orti botanici di cittadini, studiosi di alto livello (Vincenzo Pinelli con “Il giardino della Montagnuola” con collezioni nostrane e pianti provenienti da regioni tropicali; oppure Domenico Cirilo, Giovan Battista della Porta) frequentati da esperti botanici anche stranieri. Il decreto di fondazione dell’orto botanico ebbe un iter molto tormentato non solo per vicende politiche, ma anche per la complessità dell’impianto che questo tipo di istituzione prevedeva. I lavori per la realizzazione durarono alcuni decenni e si avvalsero delle migliori competenze scientifiche dell’epoca. Tra i vari architetti che concorsero alla progettazione si distinse Giuliano De Fazio, che realizzo la facciata monumentale su via Foria con l’ingresso principale, contraddistinto da due scaloni in pietra lavica che mettono in comunicazione la strada

e il giardino, superando un dislivello di circa 7 metri, inoltre tracciò i vialoni principali e realizzò la serra monumentale detta “Serra Temperata” dedicata al prof. Aldo Merola, illustre botanico per anni direttore della struttura. La Serra temperata è un’armoniosa costruzione, recentemente restaurata, con una lunga facciata con

27


semicolonne doriche scanalate che si alternano a grandi aperture ad arco chiuse da vetrate. In prossimità dell’ingresso vi è il dipartimento di Biologia Vegetale dell’Università di Napoli e al confine con l’Albergo dei Poveri si trova “il Castello” , un casale rurale inglobano nella struttura, così chiamato per due torri circolari che caratterizzano la facciata, probabilmente del XVII secolo. Il primo Direttore fu Michele Tenore, che resto in carica fino al 1860. In questo periodo, oltre che per la ricchezza delle collezioni si distinse per le attività svolte: ricerca scientifica, la raccolta, la moltiplicazione, la diffusione di piante esotiche. La coltivazione di specie utili, la didattica. Si distinse come “giardino pubblico” dal 1814. La Creazione di un orto botanico pubblico era finalizzato soprattutto alla conoscenza delle piante utili per lo sviluppo dell’agricoltura e della medicina, a tal fine ne venne incentivata lo sviluppo. Nell’Orto botanico di Napoli oggi sono coltivate, all’esterno o in ambienti condizionati migliaia di specie erbacee, arbustive ed arboree appartenenti a numerose famiglie vegetali; quasi tutti i tipi di fiore delle diverse parti del mondo. Gli esemplari più rari sono catalogati in repertori internazionali. Le serre (calde, temperate e fredde) occupano una superficie di 5000 metri quadri. Notevoli le raccolte di piante di deserti africani, americani, asiatici e australiani; la collezione di cicadee è tra le più ricche del mondo, quella delle felci rappresenta un gruppo unico in Europa. Va segnalata la sezione dedicata alle piante medicinali e da essenza. Oltre al grande interesse scientifico e all’importante funzione didattica, è un luogo di notevole bellezza, un’oasi verde nel cuore della città.

4° TAPPA- TESORO VERDE: VILLA REALE DI NAPOLI (VILLA COMUNALE) – ACQUARIO La realizzazione della Villa Reale di Napoli, oggi detta “Villa Comunale”, avvenuta nella seconda metà del XVIII secolo sul lungomare di Chiaia, fu preceduta da alcuni interventi per migliorare questa zona della città partenopea. Negli ultimi anni del ‘600, Napoli si presentava come una città caratterizzata da uno sviluppo edilizio estremamente disordinato. Tale situazione era accompagnata inoltre da un generale stato di incuria e di abbandono che determinò l’insorgenza di gravi problemi in molti settori

cittadini.

Chiaia,

oltre

a

verificarsi una preoccupante situazione igienico-sanitaria, c’erano problemi di viabilità,

com’è

dimostrato

dalle

difficoltà che incontravano le carrozze dirette a Piedigrotta e a Posillipo. Per porre rimedio a tale situazione, il viceré don

Luis

de

Medinacoeli,

la

Cerda,

ordinò

nel

Duca 1697

di una

pavimentazione parziale dell’arenile. L’opera del vicerè spagnolo non ebbe seguito e nei successivi decenni l’area Chiaia cadde in uno stato di abbandono. Rimasero in vita solo alcuni degli esemplari arborei e scamparono al degrado e alla distruzione solo poche fontane. La situazione migliorò solo nella seconda metà del XVIII secolo. Nel 1768, quattro anni dopo

28


l’epidemia che causò la morte di circa 25.000 Napoletani, fu creato un organismo deputato alla sorveglianza del decoro e dell’igiene nelle strade di Napoli. La completa rivalutazione di quest’area si verificò grazie alla volontà del re Ferdinando IV di Borbone di realizzare lungo la Riviera di Chiaia un giardino pubblico che costituisse un luogo d’incontro per nobili ed aristocratici e che potesse competere con gli analoghi spazi verdi presenti nelle altre capitali europee; a tal scopo, l’8 giugno del 1778 il sovrano firmò un dispaccio i cui si ordinava la realizzazione di un “Real Passeggio”. Il progetto dell’opera fu affidato a Carlo Vanvitelli. Nella progettazione della Villa, il Vanvitelli si ispirò ai più famosi giardini di Francia. L’architetto pianificò la realizzazione di cinque viali paralleli: quello centrale era scoperto e ornato nella parte mediana da una fontana costruita su un modello del Sammartino e avente come motivo ornamentale uno scoglio sul quale la Sirena Partenope ed il Sebeto, circondati da puttini, versavano acqua. Gli altri quattro viali erano abbelliti con piante di vite. Ogni viale era decorato con fontane, statue e sedili. Assai particolare fu la soluzione adottata dal Vanvitelli in corrispondenza del lato estremo del viale più prossimo al mare, ove furono previste due file di gradini su cui era possibile sedersi per osservare il panorama del golfo. L’ingresso principale della Villa Reale, aperto come oggi su Piazza Vittoria, era delimitato da inferriate e presentava due

29


garitte per le sentinelle. Ai lati delle inferriate erano stati realizzati due casini quadrati in stile neoclassico. L’inaugurazione del “Real Passeggio” avvenne l’11 luglio del 1781. In pochi anni, la Villa Reale divenne

il

luogo

prediletto

dall’aristocrazia

partenopea

per

effettuare passeggiate ed incontrare amici e conoscenti. L’assetto della Villa cominciò a mutare sensibilmente nel 1807, anno in cui per espresso desiderio di Giuseppe Bonaparte iniziarono lavori per trasformazione del sito. Stefano Gasse fu nominato architetto della Villa; già due anni prima ad Antonio Cardone era stata affidata la cura della componente vegetale, si arricchì di numerose essenze legnose, tra cui platani, lecci, acacie, mirti, salici piangenti ed agrumi. Pochi anni dopo, il “Real Passeggio” fu prolungato e la nuova area fu organizzata secondo i criteri del giardino paesistico, che si stavano all’epoca affermando in Italia. La nuova maniera di realizzare giardini si diffuse grazie all’opera di Federico Dehnhardt, capogiardiniere dell’Orto Botanico di Napoli ed esperto conoscitore dei criteri paesistici e della flora esotica, che apportò sostanziali mutamenti alla componente vegetale della Villa e di altri Siti Reali partenopei Il Dehnhardt, che operò nel Sito dal 1813 al 1856 inserì nella componente vegetale della Villa Reale numerose specie, in maggioranza originarie di regioni extraeuropee. Il “Real Passeggio” fu caratterizzato da una vegetazione sempre più rigogliosa. Oltre a sensibili mutamenti della

30


componente vegetale, la prima metà del XIX secolo vide anche la realizzazione dell’ultimo prolungamento della Villa. Infatti, nel 1834 Stefano Gasse sistemò l’ultimo tratto, detto “villanova”, che giungeva fino alla piazza Principe di

Napoli, l’attuale piazza della Repubblica. Con

l’Unità d’Italia, la Villa fu aperta a tutto il popolo, compreso quello “indecentemente vestito” cui negli anni precedenti era precluso l’accesso; inoltre, essa cambiò denominazione in Villa Nazionale. All’incirca in quel periodo, vennero eliminato gli edifici posti in prossimità dell’ingresso principale, alla realizzazione di nuove aiuole e alla costruzione del “Giardino d’inverno”, una struttura in stile moresco destinata tra l’altro ad ospitare varie attività ricreative. La seconda metà del XIX secolo vide anche l’introduzione nella componente vegetale di alcune palme esotiche e la realizzazione di due nuove strutture: la Stazione Zoologica e la Cassa Armonica. La prima, voluta dal naturalista tedesco Anton Dohrn e a lui attualmente intitolata, fu costruita a partire dal 1872; due anni dopo, in una parte dell’edificio fu realizzato uno dei primi Acquari d’Europa. La Cassa Armonica, un chiosco per la musica realizzato

nel 1877 e

caratterizzato da una struttura in ferro e ghisa e da una cupola in vetri bicromi. Quando furono costruite queste due strutture, il sito aveva già nuovamente

cambiato

nome,

avendo

assunto

nel

1869

la

sua

denominazione definitiva di Villa Comunale. ACQUARIO. La stazione geologica Anton Dohrn di Napoli è un ente pubblico di ricerca tra i più importanti al mondo nella biologia marina e ed ecologia. Fondata con la missione di promuovere la ricerca di base, ospitando scienziati, è ora basata sulla ricerca del proprio personale. La missione della stazione geologica è la ricerca sui processi fondamentali della biologia in riferimento agli organismi marini e alla loro biodiversità, con lo studio dell’evoluzione e dinamica degli ecosistemi marini.

5. TAPPA-TESORO VERDE: TOMBA DI VIRGILIO E LEOPARDI - IL PARCO VIRGILIANO TOMBA DI VIRGILIO E LEOPARDI La tomba di Virgilio si trova all'interno del parco istituito negli anni 30 del '900. Nei pressi di Piedigrotta, dall'ingresso del parco parte un sentiero che percorre le pendici della collina. Lungo il viale si trova una nicchia scavata nella parete, contenente la scultura a mezzo busto di Virgilio. La presenza della tomba del poeta è ricordata anche da un'iscrizione di una seicentesca edicola. Un luogo, poco conosciuto dai napoletani, ricco di storia e poesia. Il Parco deve il suo nome al mausoleo-tomba del sommo poeta Virgilio, un monumento funebre romano chiamato colombario per le nicchie scavate all'interno. La tomba fu un luogo di culto raggiungibile, nonostante la posizione impervia, attraverso una stretta scalinata scavata nel tufo che si trova all'imboccatura della Crypta Neapolitana, una galleria costruita in epoca romana che collegava Neapolis con la zona flegrea. Decorata con affreschi medievali la crypta è oggi caduta in disuso a causa dei frequenti crolli. A poca distanza dall'ingresso, c'è invece la tomba di un altro grande poeta, Giacomo Leopardi, in principio sepolto nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta e trasferito in questi luoghi quando nel 1934 furono completati i lavori del Parco Vergiliano. Un percorso alternativo a quello storico-artistico è quello botanico-letterario che offre la possibilità di osservare piante e arbusti citati da Virgilio nelle sue principali opere, corredati da didascalie dipinte a mano su piastrelle maiolicate.

31


La Leggenda di Virgilio Mago – Matilde Serao << Virgilio veniva da lontano, dal nord forse, dal cielo certamente; egli era giovane, bello, alto nella persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva, e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. (…) Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia. In allora Parthenope era molestata da una grande quantità di mosche, mosche che si moltiplicavano in così grande numero e davano tanto fastidio, da farne fuggire i tranquilli e felici abitatori. Virgilio, per rimediare a così grave sconcio, fece fare una mosca d’oro, qualmente prescrisse – e dopo fatta, le insufflò, con parole, la vita: la quale mosca d’oro se ne andava volando, di qui e di là, ed ogni mosca vera che incontrava, faceva morire. (…) Quando un morbo fierissimo invase la razza dei cavalli, Virgilio fece fondere un grande cavallo di bronzo, gli trasfuse il suo magico potere e ogni cavallo condotto a fare tre giri, intorno a quello di bronzo, era immancabilmente guarito (…). Certi pescatori della spiaggia napoletana e propriamente quelli che dimoravano sulla strada, chiamata in seguito Porta di Massa, andarono da Virgilio, lagnandosi della scarsa pesca che vi facevano e chiedendo a lui un miracolo. Virgilio li volle contentare e in una grossa pietra fece scolpire un piccolo pesce, disse le sue incantagioni e piantata la pietra in un punto, il mare fruttificò mai sempre di pesci innumerevoli. Virgilio fece mettere sulle porte di Parthenope, verso le vie della Campania, due teste augurali ed incantate, una che rideva e l’altra che piangeva: onde colui che capitava a passare sotto la porta dove la testa rideva, ne traeva buon augurio per i suoi affari che sempre riuscivano a bene ed il contrario, a colui che passava sotto la testa piangente. Fu Virgilio che in poche notti fece eseguire da esseri sovrannaturali la grotta di Pozzuoli, per facilitare il viaggio agli abitanti di quei villaggi che venivano in città; (…) fu Virgilio che, di notte incantò le acque sorgive della spiaggia Platamonia e della spiaggia di Pozzuoli, dando loro

32


singolare potenza per guarire ogni specie di malattia (…). La cronaca soggiunge che Virgilio Mago fu amato, rispettato, idolatrato quasi come un Dio, poiché giammai rivolse la sua magia a scopo malvagio, sibbene sempre a vantaggio della città e dell’uomo. >> Matilde Serao, “Leggende napoletane”.

IL PARCO VIRGILIANO Il panorama più spettacolare di Posillipo si gode dal Parco Virgiliano, sulla sommità della collina. Tra alberi, giardini e strutture sportive, lo sguardo spazia su tutto il golfo di Napoli e sui Campi Flegrei, sul tratto di mare da cui emerge l’isola di Nisida. Questa vista eccezionale influenzò una generazione di pittori dell’800, conosciuti come “Scuola di Posillipo”. I loro dipinti di questo scenario incantato contribuirono a diffondere il mito delle bellezze di Napoli. Negli anni del ventennio fascista nacque il Parco delle Rimembranze, per commemorare i caduti della Grande Guerra. Oggi è noto con il nome di Parco Virgiliano, così ribattezzato per celebrare il bimillenario della nascita del sommo poeta. Una grande distesa verde, costruita secondo un sistema di terrazze, che offre una vista mozzafiato sul Golfo di Napoli.

In

un

solo

colpo

d'occhio si può spaziare dal Vesuvio a Sorrento, dall'isola di Capri fino all'area e alle isole dei Campi Flegrei, una posizione che domina l'intera città. Il Parco Virgiliano si estende su un'area di 92.000 mq sulla punta estrema della collina di Posillipo. Dal 1997 fu ed approvato un progetto di riqualificazione del sito per la creazione di un parco pubblico, una vasta area con centinaia di alberi, arbusti di diverse specie: lecci, olivi, roveri ed un fitto sottobosco con

piante

di

mirto,

rosmarino... basilico!

33


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.