Non è la solita guida
Nome sezioni: La città del Sole Il barocco Il tufo L’oro di Napoli (cinema e teatro) Leggende e misteri, i gialli di Napoli Guida pratica alla scoperta dei sapori Campani
Redazione a cura di
Roberta Ingargiola Mara Piccirillo Filomena Parisi Grazia De Micco Francesca Ferrara Progetto grafico: Elena Carrucola
P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”
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INTRODUZIONE
Da sempre Napoli è stata considerata la città delle contraddizioni, dei contrasti. Celebre è la frase dello scrittore tedesco Goethe che la definì “Paradiso abitato da diavoli”, espressione che ben riassume una realtà dalle mille sfumature in cui convivono zone di luce e zone d’ombra. Tuttavia, volendo descrivere la città attraverso un colore, il giallo è senz’altro quello che meglio le si addice. E’ il colore della luce che la inonda, d’estate e d’inverno, quella luce che alcuni scrittori nei loro diari di viaggio hanno paragonato a una “polvere d’oro” che, qui, tutto pervade e tutto incanta. E’ il colore delle colline di tufo che la circondano e sembrano abbracciarla per intero creando un anfiteatro naturale proteso verso il mare. E’, inoltre, il colore dell’oro, quello delle decorazioni delle sue chiese barocche, scrigni preziosi di maestria artistica, emblemi di una mistica esuberante e magniloquente. Ma il giallo è senz’altro simbolo di ricchezza e vitalità, prerogative della cultura partenopea. Un patrimonio immateriale proteiforme, risultato di apporti di popoli diversi che si sono succeduti in città e hanno lasciato la loro eredità negli usi, nelle tradizioni, nelle credenze ma, soprattutto, nella lingua, veicolo d’espressione di una tradizione musicale, cinematografica e drammaturgica apprezzate ovunque.
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INDICE
La cittĂ del Sole
pag. 6
Il Barocco
pag. 20
Il Tufo
pag. 36
L’oro di Napoli
pag. 46
Leggende e misteri, i gialli di Napoli
pag. 80
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« Ci sono posti in cui vai una volta sola e ti basta... e poi c'è Napoli » ( cit. John Turturro)
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La città del sole Una delle città più importanti della storia del nostro paese il cui centro storico è stato inserito nell'elenco dei patrimoni dell'Unesco già nel 1995. Già brillante come Partenope in epoca romana e come Neapolis ai tempi della Magna Grecia, il capoluogo campano raggiunge l'apice della sua grandezza in epoca contemporanea quando Napoli diventa la capitale del Regno delle Due Sicilie. Lungo la costa tirrenica, chiuso tra Capo Miseno e la Penisola Sorrentina, si apre con grande efficacia spettacolare l'ampio Golfo di Napoli, comprendente un tratto di costa straordinariamente ricco di bellezze naturali e di testimonianze storiche. Il Vesuvio, il Lago dì Averno, Cuma, Baia, Pozzuoli, Ercolano, Pompei, Sorrento e, naturalmente,
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Napoli sono solo alcuni dei luoghi che hanno eletto il Golfo a mèta prediletta del turismo internazionale sin dal secolo XVIII, quando i luoghi cittati costituivano una tappa fondamentale del "grand tour" ( vedi il capitolo iniziale di questo libro ). Rispetto ad allora, questo tratto di costa ha subito molte modifiche che non hanno certo migliorato il suo aspetto, come l'urbanizzazione eccessiva, spesso vicina ai siti archeologici, o l'industrializzazione, nei dintorni di Napoli. Ma la bellezza di questi luoghi carichi di storia è ancora sostan-
zialmente intatta e pronta a colpire qualunque turista.
importanti legami tra il Mezzogiorno e le principali realtà europee. La corte aragonese era famosa per lo splendore e per il suo amore verso la cultura e l’arte, che ebbero un notevole impulso. Erano di casa nella biblioteca reale di Castel Nuovo, straripante di volumi rari e preziosi, poeti come Sannazaro ed umanisti quali il Panormita ed il Pontano, a cui venne intitolata la celebre accademia voluta da Alfonso. Anche sotto Ferrante si espressero forti personalità in campo artistico, da Giuliano da Majano a Francesco di Giorgio Martini e durante il suo regno la città acquisisce quella suggestiva immagine impressa nella Tavola Strozzi, una prospettiva in parte vera ed in parte fantastica, di sicura valenza simbolica. Nel frattempo viene eretta Porta Capuana, concepita come un vero arco trionfale e splendide ville come quella della Duchesca o quella di Poggioreale, immortalata in una tela di Domenico Gargiulo. Nel campo dell’architettura civile sorgono superbi palazzi, come quello di
La Napoli Aragonese Napoli è stata ripetutamente capitale di regni estesi e potenti, ma il periodo aureo per la città fu, ad unanime parere degli storici, costituito dai sessanta anni di dominio della casa d’Aragona, un vero Rinascimento alla pari di quello fiorentino, niente a che vedere con la frottola messa in giro anni fa da una classe politica famelica e corrotta. I fasti di quegli anni lontani oggi sono difficili da localizzare nel tessuto urbanistico, stravolto dalle stratificazioni successive e per l’incuria degli uomini. La statua di Alfonso il Magnanimo troneggia sulla facciata di Palazzo Reale a rammentare che con la sua conquista della città il Regno di Napoli si inserì in maniera articolata nell’economia del Mediterraneo, per il contributo di mercanti italiani e stranieri, in prevalenza fiorentini e catalani, le cui attività bancarie e commerciali crearono degli
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Diomede Carafa e dei Sanseverino, ma allo spettacolare arco di trionfo marmoreo all’ingresso di Castel Nuovo è legata la testimonianza del contributo di scuole artistiche diverse, che a Napoli riuscivano a coagularsi, mentre celebri sono le sculture del Mazzoni, che nella chiesa di Monteoliveto nel commovente Compianto su Cristo morto ci ha tramandato le figure dei principi aragonesi a grandezza naturale ed i dipinti del Colantonio e di Antonello da Messina. Furono approntati sistemi difensivi per la città e le memorie più vistose si reperiscono nella mole poderosa di Porta Capuana, di Porta Nolana e nei Bastioni del Carmine, ma vi è poi una serie di torri che vanno dalla Marina a via Foria, dove alcune si sono trasformate nella caserma Garibaldi, che sono state fagocitate dallo sviluppo edilizio successivo. Queste torri aragonesi in agonia sono lo struggente ricordo di una Napoli medioevale, che l’impeto del successivo barocco ha sommerso, rendendole poco
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visibili, ma opportunamente recuperate, potrebbero costituire un interessante itinerario per i turisti e per gli stessi napoletani, dei quali ben pochi conoscono questi angoli reconditi della loro città. Procedendo verso l’interno intorno all’area di San Giovanni a Carbonara sono presenti numerosi resti di testimonianze della cintura difensiva con torrioni riutilizzati per uso abitativo o come deposito. Tra questi la torre detta di S. Anna, per la quale si è tentato di recuperarne l’antica dignità, ma che rimane ancora quasi irraggiungibile, infatti per accedervi bisogna passare per un garage e poi, uscendo da una porticina laterale, percorrere un tratto delle antiche mura. Lo scorrere inesorabile del tempo ha trasformato completamente i luoghi e là dove vigilava la ronda delle sentinelle troneggiano oggi schiere di lenzuola sbrindellate stese ad asciugare, i famosi panni gocciolanti che rappresentano il biglietto da visita di tanti vicoli della città.
diplomati, prendono tristemente la via del Nord e dell’Estero, privando la città dell’energia vitale indispensabile per arrestare una decadenza ormai irreversibile e nello stesso tempo una marea di extracomunitari, in fuga da guerre e carestia, sceglie Napoli come meta di riscatto civile, sicura almeno di trovare il minimo per sopravvivere. Percorrendo Piazza Garibaldi o Piazza Mercato siamo sommersi dai suoni ma principalmente dagli odori di una città multietnica: kebab, couscous, pizze fritte e piede di porco, pesci marinati e trippa. La sera invece è bello osservare un migliaio di ragazzi stranieri radunarsi in uno dei punti più antichi della città, teatro dei principali episodi della sua storia, pregare sotto la guida di un Imam napoletano, mentre tutt’attorno si svolge il solito caos quotidiano ha fatto affermare a più di un visitatore che Napoli è la città araba più accogliente dell’Occidente. Napoli è stata per secoli una capitale europea, alla pari di Londra e di Parigi, con il vantaggio di essere posta sul Mediterraneo, una posizione centrale favorevole per gli scambi non solo commerciali, ma anche culturali; a differenza delle altre grandi città non ha però avuto celebri
Napul’è mille colori Napoli è stata sempre giudicata una città porosa, non tanto perché poggia su di uno strato di tufo, che possiede queste caratteristiche, quanto per l’innata capacità di amalgamare i vari popoli che nei millenni l’hanno conquistata, a partire dai Greci ai Romani, fino agli Spagnoli, agli Austriaci ed ai Francesi. I risultati di questa ultra secolare stratificazione è stata la creazione dell’animus del napoletano: socievole, pronto a fare amicizia, disponibile ad aiutare il forestiero ed a favorirne l’integrazione nel tessuto sociale. Miti e tradizioni hanno subito una trasformazione che ne ha fatto dimenticare i caratteri originari. Un solo esempio fra tanti: la festa di Piedigrotta che, da rito pagano orgiastico in onore del dio Priapo, è divenuta prima una festa religiosa per scatenarsi poi, soprattutto in epoca laurina, in un’esplosione gioiosa di energie primordiali tra maestosi carri allegorici, coppoloni, mano morte, schiamazzi e trasgressioni di ogni tipo. Negli ultimi decenni il fenomeno migratorio ha assunto un andamento pluridirezionale: da un lato i giovani migliori, laureati e
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scrittori della statura di Balzac o Hugo o Dickens, che ne abbiano saputo raccontare la storia e le storie. Pochi i nomi che potremmo citare, come Mastriani o la Serao, ma parliamo sempre di narratori d’appendice che scrivevano in dialetto o si interessavano di problematiche prive di un respiro universale. Il motivo di questa carenza va ricercato, oltre che nel carattere autoreferenziale che ha sempre caratterizzato la nostra cultura, nella circostanza, comune a tutte le società povere e con molti analfabeti, di utilizzare come principale forma espressiva il teatro e la musica popolare con le sue canzoni struggenti e malinconiche, vivaci ed appassionate. Il cuore palpitante di Napoli ha trovato degni interpreti in Viviani, attento ai bisogni del sottoproletariato, che affollava i vicoli brulicanti di passioni e di umanità ed in Eduardo acuto osservatore della piccola borghesia con i suoi pregi ed i suoi difetti. Tra gli scrittori del secolo scorso in grado di portare le vicende napoletane, all’attenzione di una platea internazionale, vi è il solo Curzio Malaparte, oggi in parte dimenticato, ma all’epoca in grado di incendiare il dibattito sulla città.
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La pasta Parlare di pizza o di maccheroni nel mondo significa rievocare Napoli. Orgoglio e vanto della cucina italiana, la filante e tubulare pasta ha affascinato e continua ad attirare personaggi di ogni paese, età e condizione. Nati come metodo povero e pratico per conservare la farina di grano e renderla rapidamente commestibile, i maccheroni hanno conosciuto il destino di diventare un piatto internazionale e quasi l’emblema della gastronomia italiana all’estero. Ma chi ha inventato i maccheroni? Le loro origini sono misteriose, ma oggi sappiamo con certezza che paste alimentari, atte alla conservazione, come maccheroni e vermicelli, fossero diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo tra i secoli XIII e XVI. Ne troviamo traccia in documenti genovesi del Duecento e del Trecento ed anche in un atto notarile del 1279. Mentre ancora prima in Cina esisteva un impasto di acqua e farina molto simile agli gnocchi. Probabilmente la loro origine è araba o persiana e fu la Sicilia a farsi mediatrice tra Oriente ed Occidente in un periodo nel quale i napoletani erano famosi come mangia foglie. L’ipotesi della nascita a Napoli dei maccheroni è dunque una leggenda di cui parleremo diffusamente, propagandata da Matilde
Serao alla fine dell’Ottocento, rinforzata dal parere di un dotto come Carlo Tito Dalbono, grande conoscitore delle abitudini dei napoletani nella prima metà dell’Ottocento. Napoli cominciò ad identificarsi con i maccheroni e lo trasformarono in un cibo europeo quando vari viaggiatori cominciarono a descrivere quei folkloristici personaggi che li avviluppavano con tre dita e li mandavano giù, soprattutto quando divenne costume di cucinarli e venderli all’aperto in spacci ambulanti diffusi in ogni angolo della città. Per tutto l’Ottocento il maccaronaro divenne uno degli aspetti più salienti del colore napoletano e l’icona indiscussa di mangiarli con le dita e addirittura conservarli nelle tasche è costituita dalla memorabile interpretazione di Totò nel film “Miseria e nobiltà”. Ma la favola della Serao è talmente ben congegnata che merita di essere ricordata. Durante il regno di Federico II viveva a Napoli un certo Chico, il quale possedeva antichi libri di ricette, una serie di alambicchi e faceva comprare al domestico una serie variegata di alimenti che poi mescolava in vario modo. Accanto a lui abitava una donna
maliziosa e linguacciuta di nome Jovannella, che spiava giorno e notte il mago, finchè un giorno disse: “Ho scoperto tutto; fra poco saremo ricchi”. La perfida donna riuscì a farsi ricevere dal re al quale fece assaggiare la sua pietanza. Federico rimase entusiasta e gli diede un grosso premio. In seguito tutti i nobili ed i ricchi borghesi mandarono il loro cuoco ad imparare la ricetta e nell’arco di sei mesi tutta Napoli si cibava dei maccheroni, mentre Jovannella divenne ricca. Fu poi Pulcinella a diffonderli dappertutto con la sua abitudine di portarli in tasca già caldi e fumanti. Nascono poi i tanti tipi di pasta diversa, grazie a fabbriche specializzate localizzate tra Torre Annunziata e Gragnano, che grazie ad un’acqua leggerissima e priva di calcio e ad un’accorta tecnica di ventilazione, producono formati di gusti diversi, oltre a vermicelli e maccheroni, lasagne, paccheri e trenette, rigatoni ed orecchiette, che costituiscono il fondamento della dieta mediterranea che anni fa con una decisione votata all’unanimità dall’Unesco sono stati considerati patrimonio dell’umanità. Non si può concludere un discorso sulla pasta senza
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parlare del ragù, reso celebre dalla poesia di Eduardo e che a Napoli si prepara in un modo particolare, la quale richiede molte ore di preparazione, cuocendo per ore la carne di bovino in umido col pomodoro il cui sugo serve per condire alla grande maccheroni in grado di resuscitare i morti. Facciamo questa precisazione perché di recente una multinazionale anglo-olandese ha registrato la parola ragù negli Stati Uniti, costringendo in futuro le aziende italiane a pagare un dazio per commercializzare all’estero un prodotto tipico della nostra cucina. Il ragout di origine francese è un intingolo con retaglie di pollo finemente preparato che serve a condire riso e verdure, ben diverso da quello nostrano che solo a Napoli sanno fa’. Non si può parlare di diffusione su larga scala della pasta fino a che non si trovò il modo di conservarla a lungo. Per mettere a punto una valida tecnica di essiccazione bisognò aspettare fino al XII secolo. La pasta veniva prima esposta al sole, perché perdesse la maggior parte dell’umidità, e poi trasferita in ambienti chiusi, riscaldati debolmente da bracieri, in modo da liberarsi
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dell’umidità residua. Lo dice l’arabo Al -Idrisi, a conferma che gli arabi di pasta se ne intendevano. Dal momento che, con tutta probabilità, in Sicilia ce l’avevano portata loro. Ormai in grado di conservarsi a lungo, e quindi disponibile a viaggiare, dalla Sicilia la pasta si portò in Liguria. Spesso però ad andarci era il solo grano duro, che veniva essiccato e lavorato a regola d’arte sul posto, grazie al clima mite e ventilato delle coste liguri. Il dato è certo; nel 1316 viene registrata a Genova la presenza di tal Maria di Borgogno, “quae faciebat lasagnas.”Proprio in quegli anni la pasta si diffuse a macchia d’olio (la macchia di pomodoro sarebbe arrivata molto più tardi). Il segno di tale diffusione fu la nascita, nel 1337 a Firenze, della prima Corporazione dei Pastai, della quale facevano parte anche i Fornai.Col tempo la corporazioni prendono corpo in tutt’Italia. Nel 1571 nasce a Napoli “l’Arte dei Vermicellari”. I genovesi rispondono quasi subito (1574) con la corporazione dei Fidelari, che raggruppa i produttori di “fidei” (i fidelini, una pasta lunga e filiforme) e i Formaggiari (la pasta col formaggio c’è andata d’accordo immediatamente). Pasta così? Macchè: nel 1605 i siciliani si ricordano finalmente delle loro tradizioni pastaiole e fondano a Palermo “La Maestranza dei Vermicellari”.Le corporazioni proliferano quando i produttori di un certo bene sono molti, e perciò c’è da darsi delle regole. E i produttori sono tanti quando ci sono molti consumatori. Anche per la
pasta le cose sono andate così; già nel 1450 Maestro Martino, cuoco del Reverendissimo Monsignor Camerlengo et patriarca de Aquileia, pubblica una serie di ricette a base di maccheroni. A leggerle oggi, fanno un po’ impressione: i maccheroni sono fatti con farina e acqua, e fin qui tutto bene. Poi però vengono cotti, in acqua o in brodo, anche per due ore! Alla fine, il colpo di grazia: Maestro Martino consiglia di condirli con spezie dolci….. Venticinque anni dopo, nel 1475, viene stampato il primo libro di cucina del mondo. Si intitola “De honesta voluptate”, e ne è autore Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina.E’ anche grazie a lui che la pasta comincia a diffondersi in Francia, alla corte di Caterina dei Medici, facendo da traino per gli altri prodotti della cucina rinascimentale italiana. Nel 1548 Cristofaro da Messisburgo, “scalco” a Ferrara, alla corte del cardinale Ippolito d’Este, pubblica il “Libro Novo”, un libro di cucina con molte ricette di maccheroni. In quel periodo, alla pasta artigianale, fatta a mano, si è affiancata la pasta “industriale”. Lo stesso Messisburgo, nel “Liber de arte
coquinaria”, cita “l’ingegno”, la prima rudimentale trafila per produrre la pasta lunga, i vermicelli. In Sicilia, dove pare già esistesse da tempo, questa macchina si chiamava “ncegnu”, o “arbitriu”: l’impasto di semola di grano duro e acqua veniva pressato con un pistone in un cilindro di legno, da cui, attraverso una trafila in rame dotata di fori rotondi, uscivano i “vermicelli”. Più lunghi di quelli fatti a mano, che in genere non superavano la lunghezza di un dito (da cui “piccoli vermi”). Intanto, molto tempo è passato. Siamo ormai alla fine del settecento. In inglese, passato si dice “past”. E proprio in quegli anni, la pasta la ritroviamo pure là. Come c’è arrivata? Francia e Inghilterra sono separate da una sola Manica. Ma la pasta dovette rimboccarsene due, per raggiungere, dopo i francesi, anche gli inglesi. Può darsi che le abbiano dato una mano i piazzisti di enciclopedie porta a porta; Diderot e D’Alembert, nella loro Encyclopedie (1779) riportano il mestiere di “vermicelier” (vermicellaio), illustrando, con la pignoleria che li ha resi
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famosi, le tecniche di lavorazione del prodotto e gli attrezzi del mestiere. In Inghilterra, i “macaroni” - li chiamavano così – diventarono simbolo di raffinatezza. A Londra c’era perfino un “Macaroni Club”, che pare fosse uno dei templi del dandismo. In America si dice che la pasta ce l’abbia condotta Thomas Jefferson. Lo statista li avrebbe assaggiati durante un viaggio in Italia, e si sarebbe fatto spiegare (col tipico pragmatismo americano) come si faceva a fabbricarseli da sé. Ma è più probabile che la pasta sia arrivata negli States insieme ai nostri emigranti, la cui lontananza da casa alimentava un desiderio di vicinanza coi sapori della propria terra. E perciò si portavano appresso in America quintalate di spaghetti. Pure per gli americani, all’’inizio, i “macaroni” furono sinonimo di bizzarria e di esotismo: il protagonista della ballata “Yankee Doodle Dandy” se ne va in giro per la città con un “maccarone” sul cappello, a mo’ di piuma.Negli USA “macaroni” è ancora sinonimo di italiano. Non è precisamente un apprezzamento, ma gli italiani d’America ne vanno fieri. Perché è comunque un riconoscimento della
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nostra primogenitura nei confronti della pasta. OK, guys: prendeteci pure in giro. Tanto lo sapete anche voi che ( quando dovrete decidere quali piatti togliere dalla vostra ipercalorica dieta) gli ultimi saranno i primi. La gola è uno dei sette peccati capitali E Napoli è la capitale della pasta, che con la gola ha molto a che fare. Oggi: perché fino al secolo scorso la pasta era molto più collegata allo stomaco che al palato. Fuor di metafora, la pasta (come più tardi la pizza) ai napoletani è servita, per secoli, a cavarsi la fame. La loro compagna di strada fino ad ieri. Fin quasi al 1600, i napoletani adottavano un altro sistema per provare a riempirsi la pancia: mangiavano verdura. Lo riferisce l’Abate Galiani, che nel 1777 scriveva nel suo “Vocabolario”, alla voce verdura: “Fu tanta la passione che per la foglia cappuccia ebbero i napoletani del secolo passato, che ne acquistarono il nome di mangiafoglia. Molti celebrarono le lodi della foglia. Ora restano eclissate dai maccheroni”. Nonostante Napoli si trovasse (come oggi, del resto) sul mare, a quei tempi non si parlava certo di dieta mediterranea. Quella dei napoletani del XVI secolo era una dieta del cavolo: tale era infatti la “foglia cappuccia” di cui parla Ferdinando Galiani. Costava poco, e si coltivava facilmente nei mille orti della città e del contado. Insomma, si andava avanti a pane e ortaggi.
Di carne se ne vedeva poca. Il grano duro non si produceva, nel napoletano: la semola veniva importata dalla Sicilia e dalla Puglia. Tanto (poca) che nei periodi di magra (quindi praticamente sempre) le autorità vietavano la produzione di pasta. E’ del 1509 un editto del Vicerè di Napoli, che ordinava ai pastai “di non confezionare maccarune, trie, vermicelli, excepto in caso de necessità de’ malati”, quando “la farina saglie [aumenta di prezzo] per guerra, carestie et altra indisposizione di stagione….” Insomma, la pasta rimase a lungo un alimento costoso, e perciò destinato solo alla tavola dei ricchi. Quello che consentì ai napoletani di passare dal cavolo alla pasta: di essere promossi, con soddisfazione, da mangiafoglia a mangiamaccheroni, fu la possibilità di produrre pasta più a buon mercato. Le nuove tecnologie quali la gramola e il torchio meccanico misero un po’ per volta la pasta alla portata di molte tasche. Questo accadeva ai primi del seicento. Poco più tardi, nel 1647, il consumo di pasta sarebbe diventato una specie di marchio di appartenenza. Durante la rivolta guidata da Tomaso Aniello, meglio noto come Masaniello, la plebe napoletana: i “lazzari” ( dallo spagnolo “lazaro”, cencioso) elessero a loro cibo i maccheroni. Masaniello finì male, i maccheroni no. I lazzari, i sottoproletari urbani che affollavano le vie della città sperando di mettere insieme il pranzo con la cena, continuarono a mangiarne.
Più o meno in quegli anni sorsero a Napoli (e dintorni) i primi pastifici artigianali. Destinati a diventare sempre più grandi e numerosi, e sempre meno artigianali, per via della pasta che producevano. Molto apprezzata dal pubblico nonostante fosse fatta coi piedi. O forse proprio per questo. Un modo di dire? No. Un modo (sciagurato) di fare. Nelle altre parti d’Italia la “rimiscelazione” di acqua e semola veniva effettuata a mano, in madie di legno. Invece i napoletani, sempre speciali, si mettevano in piedi nella madia, e con le estremità inferiori “lavoravano” l’impasto. Certe volte tra piedi e pasta veniva messo un telo, ma non c’era da giurarci. Quando, nel 1833, Ferdinando II di Borbone, Re di Napoli, lo venne a sapere, gli passò l’appetito. Ma poiché presto gli tornò, diede ordine all’ingegnere Cesare Spadaccini di progettare un metodo più igienico per fare la pasta. Costui ideò un marchingegno detto “l’uomo di bronzo”, in grado di imitare
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– per quanto possibile – i movimenti dei piedi umani. Ma (forse perché costava troppo) il progetto non prese piede. Cose che succedono solo a Napoli. Insieme ad altre; come l’invenzione della gramola a coltelli, una macchina migliore della gramola a stanga usata fino ad allora. Quest’innovazione tecnologica fece sorgere dei veri pastifici industriali. Il primo di essi nacque a Torre Annunziata, a un tiro di schioppo da Napoli, per iniziativa di pastai amalfitani. Ma il progresso non si ferma. Nel 1904 arrivò la gramola a rulli conici, che relegò i coltelli della sorella maggiore in soffitta. I rulli schiacciavano l’impasto in modo uniforme, il che era m o l t o v a nt a gg i o s o. I p a s t if i c i l’impiegarono fino al 1933, anno in cui i fratelli Braibanti inventarono la pressa continua. Le tecnologie cambiavano, ma la pasta napoletana restava la migliore del mondo. Gragnano e Torre Annunziata si guadagnarono la celebrità per la perfetta essiccazione dei loro prodotti. Merito della cultura nel settore, e della natura; i venti secchi e asciutti che
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spirano lungo quelle coste facevano la loro parte. Se il clima era mite, il pastaio napoletano era mitico. Prima esponeva la pasta fresca di fabbricazione al sole, in grandi cortili, o su terrazze ventose. Poi la faceva “rinvenire” al freddo, in locali leggermente umidi (cantine), in modo che non si spaccasse. Alla fine passava all’essiccazione vera e propria, mediante correnti d’aria generate dall’apertura e dalla chiusura di grandi finestre. Di igrometri, all’epoca, non ce n’erano, per cui il capo-pastaio doveva essere un po’ meteorologo, e un po’ indovino. Quando, tra il 1903 e il 1912, arrivarono le macchine per l’essiccazione in ambienti chiusi, la poesia fece un passo indietro. Ma, a onor del vero, la qualità della pasta napoletana non ne risentì. Napoli tra cielo e mare Quando si pensa a Napoli forse la prima cosa che ci viene in mente è proprio il mare, il golfo. Napoli città d'arte, Napoli città di mare. Un connubio indissolubile, che l'ha resa unica e ambita per secoli.
In realtà già nel 1200 la città si impreziosisce di un'opera architettonica importante e da non perdere: il Maschio Angioino. Un fortino che si impone su Piazza del municipio e porta i segni della dominazione angioina e di quella successiva aragonese E allora ecco un itinerario che fonde e unisce i due aspetti di Napoli, quello storico/artistico e quello paesaggistico-balneare. Un tour dalle molteplici opzioni: Si parte dal "maschio", quel castello che generalmente dà il benvenuto ai croceristi e gli aliscafi e poi si prosegue, per la zona monumentale il teatro, la galleria, il palazzo reale, insomma si passeggia nella storia. Il tempo di una buona sfogliatella e si riprende, via mare questa volta per ammirare in il golfo di Napoli da mergellina a posilipo, in barca, quelle caratteristiche, quelle dei pescatori. Oppure Spingendoci oltre, approfittando del sole e delle belle giornate ed ecco quindi che la nostra escursione prosegue, in gommone. Un bagno, lì tra le cristalline acque di Posillipo, oppure in quel di Baia, tra un tuffo e un'altro tra antiche cisterne romane e l'aragonese castello. Il tour monumentale può proseguire con un giro in direzione di Piazza del Plebiscito. Nel tragitto, una distanza che a piedi si copre in 5 minuti, resterete colpiti dalla bellezza del Palazzo Reale, con soli 4 euro, questo il costo del ticket di ingresso, potrete apprezzare anche la bellezza delle sue sale. Imponente anche la Galleria Umberto I, un salotto per la città fatto di negozi,
uffici e anche di caffé storici, a tal proposito se volete immaginare atmosfere francesi c'è il Salone Margherita, simbolo della Belle Epoque italiana della Napoli di inizi ‘900. Procedendo verso il mare, con altri dieci minuti di cammino, la città regala uno dei suoi angoli più affascinanti: Castel dell'Ovo che protegge Borgo Marinari. Si tratta del più antico castello di Napoli, il cui nome sarebbe fatto risalire alla presenza segreta di un uovo all'interno dell'edificio capace di tenere in piedi la costruzione. Per la classica foto panorama vi consigliamo una sosta a Castel Sant'Elmo che dal Vomero domina la città. Dopo il giro in Galleria potete lasciare lo sfarzo del centro storico per qualcosa di più folk, qualcosa che vi faccia sentire parte di questa città. Percorrendo via Toledo si arriva a costeggiare
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una delle zone più caratteristiche di Napoli: i quartieri spagnoli. Così chiamati perché i soldati spagnoli vagavano in questa zona alla ricerca di divertimento, anche quello più godereccio, rappresentano ancora oggi uno spaccato di città molto verace. Altra curiosità architettonica: passeggiando per questi vicoli straordinari vi renderete conto dell'esistenza di particolari abitazioni a pian terreno, monolocali dal mood partenopeo che a Napoli si chiamano "bassi". Li riconoscerete dalla bambola sul letto e dal vaso di fiori sul tavolo. Dai "quartieri" precisamente da via Pasquale Scura inizia poi Spaccanapoli: non cercatela sulle cartine, è un nome gergale dato a un complesso di tre strade (i decumani di origine greca) che insieme formano una delle arterie che divide il centro storico cittadino esattamente in due. Cosa fare a Spaccanapoli? Visitare il mercato dei presepi in via San Gregorio Armeno. Il Vesuvio
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Il sentiero che porta in cima è il più panoramico degli itinerari del Parco nazionale con l'ascesa al Gran Cono del Vesuvio. La Strada Matrone, costruita ad opera dei fratelli Matrone, che "invece di godersi in pace la rendita dell'uva e delle albicocche, vollero misurarsi con il Vesuvio", come scrisse il Maiuri, venne tracciata intorno agli anni '20-'30 da Boscotrecase fino alle falde più alte del vulcano. Si procede in salita attraverso curve e tornanti lungo un tratto asfaltato in pineta. Si raggiunge il bivio con lo stradello della Riserva Forestale Tirone Alto Vesuvio dove è posta la meta ravvicinata. Il percorso si inerpica ancora su una serie di curve da cui si inizia a distinguere la sagoma del Vesuvio. La pineta lascia spazio alla macchia a ginestra. Lasciato il tratto asfaltato inizia il tratto più suggestivo del sentiero: la vista spazia verso valle sulla Piana Campana e sulla Riserva Tirone e verso l'alto sul Vesuvio, sulle bocche laviche del 1906 e sulle creste del Monte Somma. Uno
slargo panoramico sulla Penisola Sorrentina e il Golfo di Napoli è la meta intermedia. Si raggiunge il Piazzale da cui si possono ammirare le creste del Monte Somma con la Punta Nasone opposta ai Cognoli di Ottaviano e ai loro piedi la distesa della Valle dell'Inferno. Si riprende il percorso dell'andata in discesa verso l'ingresso dove è posta la meta dell’itinerario. Il capoluogo partenopeo può vantare un patrimonio artistico, storico e culturale che non teme confronti in tutto il Vecchio Continente. L’importanza e il prestigio plurisecolare della città rivivono quotidianamente nelle chiese, nei musei, nei palazzi storici, nei castelli, nei vicoli, nelle piazze, nei resti archeologici. Un patrimonio artistico e architettonico che l’Unesco ha deciso di tutelare, includendo il centro storico di Napoli, il più esteso d'Europa, tra i siti del patrimonio mondiale dell'umanità. Anche una semplice passeggiata, quindi,
si rivelerà per voi un’esperienza indimenticabile.
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Il barocco Il Seicento rappresenta un’epoca cruciale per la storia di Napoli. Il secolo in cui approdano in città viaggiatori di ogni nazionalità, attratti dall’immagine di un terra sospesa tra realtà e mito, che appare allo stesso tempo prosaica e poetica, viscerale ed eterea, popolare ed aristocratica. Un territorio dal cui sottosuolo spuntano tracce di antichissime civiltà e le cui botteghe artigiane, letterarie e musicali producono manufatti, opere e idee che iniziano a circolare ovunque in Europa. Le antiche leggende intrise di superstizioni e cultura popolare, le feste religiose di chiara origine pagana, la storia stratificata nell’architettura e nei costumi del suo popolo, tracciano il profilo di una città unica, contraddittoria e avvolta da un’aura di mistero e magia. Napoli, capitale del Regno dei Borboni (1734-1860) era la più bella capitale
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d’Europa. Secondo Goethe, Napoli era una sorta di paradiso dove ciascuno viveva in una specie di ebbrezza onirica. Una ventina di anni dopo, Stendhal scrisse che Via Toledo, con i suoi palazzi signorili e le carrozze, era la strada più allegra del mondo e che lui, da amante dell’opera qual era, trovava il Teatro San Carlo molto più bello della Scala di Milano. I viaggiatori del Grand Tour rimanevano incantati dalle bellezze naturali della città e si innamoravano dell’atmosfera gioiosa che la caratterizzava. Le lavandaie, sopra la collina del Vomero, cantavano “Ο sole mio!”, una delle più antiche canzoni popolari napoletane, e danzavano la tarantella, che, secondo la leggenda, fu inventata dalle Grazie per attirare Ulisse ammaliato dal canto delle Sirene. Non è mia intenzione convincervi che, ai nostri giorni, Napoli sia un posto
da favola. Tuttavia, nonostante i molti problemi, è una città che il viaggiatore attento non può omettere di appuntare in agenda. Il diciassettesimo è il secolo in cui artisti provenienti da ogni parte d’Europa giungono a Napoli per ritrarne e descriverne i maestosi paesaggi, i fastosi edifici, gli scorci suggestivi, i riti e le leggende. Un’età che, in una cornice di grandi pestilenze, rivolte popolari e violenti eruzioni del Vesuvio, vede fiorire “il Barocco”, un nuovo fenomeno artistico, di origine romana, che a Napoli trova terreno fertile e congeniale al suo sviluppo. Il barocco è l’arte della vertigine. Si è letteralmente portati via dall’immaginazione, dall’audacia, dalla bizzarria, dalla ricchezza dei decori, dal delirio permanente, dalla sensualità. Eugène Müntz Bisogna dire peraltro che il barocco, a Napoli, si vede dappertutto in quanto ne costituisce l’espressione artistica più rappresentativa. D’altro canto, è difficile scoprirlo dal momento che è nascosto dentro vicoli stretti e bui. In ogni caso non si tratta di un labirinto. Il reticolo di strade somiglia piuttosto a una scacchiera che riprende la griglia urbanistica della greca Neapolis, trasformata completamente in seguito all’arrivo degli ordini religiosi che hanno occupato interi isolati per edificarvi le loro chiese e i loro monasteri: i benedettini, i domenicani, i gesuiti, le suore carmelitane. Nel contempo i nobili spagnoli, giunti a Napoli al seguito
della Casa di Aragona, dei vicerè spagnoli e del ramo spagnolo dei Borboni, insieme all’aristocrazia locale, si fecero costruire residenze dominate dallo stile barocco quando questo divenne di moda. Napoli è piena di contraddizioni. Il disincanto dei poveri che si incontravano lungo la strada, si mutava in speranza quando si raccoglievano in preghiera all’interno di chiese cariche di opere d’arte, di marmi preziosi, di statue d’argento, di soffitti dorati, insomma, di tutto l’armamentario del barocco, come nella cappella di San Gennaro o nella Chiesa del Gesù. Del resto si tratta di una città dalla storia particolarmente tormentata, scandita da pestilenze, carestie, eruzioni vulcaniche, terremoto «Sotto il cielo più terso, il suolo più precario…» scriveva Goethe a proposito di Napoli. Il che può spiegare la diffusione delle litanie e la profonda fede in San Gennaro, il santo patrono di Napoli. Le biblioteche dei monasteri, colme di pergamene e di soffitti riccamente affrescati, come quella dei Girolamini, sono un paradiso della cultura napoletana. I cortili dei monasteri femminili, come quello di Santa Chiara, assumono un’eleganza mondana creata
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dalle colonne e dalle panche ricoperte di maioliche ornate da raffigurazioni di fiori, di grappoli d’uva, di scene di caccia, di miti antichi, di danze e musiche della tradizione napoletana, mentre all’ombra di una pergola le monache di clausura passeggiano leggendo i testi sacri. I napoletani, oltre alla musica, continuano ad amare il loro spettacolare barocco. Le eruzioni del vulcano hanno ispirato pittori e scrittori. Mi domando se il Golfo di Napoli continuerebbe a essere considerato il più bello del mondo, se non ci fosse. Il Barocco Napoletano Il barocco napoletano è una forma artistica e architettonica sviluppatasi tra il XVII secolo e la prima metà del XVIII secolo a Napoli ed è riconoscibile per le sue sgargianti decorazioni marmoree e di stucchi che caratterizzano le strutture portanti degli edifici. In particolare, il Barocco napoletano fiorisce verso la metà del Seicento con l'opera di alcuni architetti locali molto qualificati e termina a metà del secolo successivo con l'avvento di architetti di stampo neoclassico. L’artista più importante
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a cavallo tra il XVI e XVII secolo è lo svizzero Domenico Fontana, autore del Palazzo Reale e del Complesso di Gesù e Maria. Nella seconda fase del Barocco Napoletano lo scultore e architetto Cosimo Fanzago realizza meravigliose opere nella città di Napoli come la Guglia di San Gennaro e il restauro della chiesa del Gesù Nuovo. Un altro protagonista del Barocco Napoletano è stato Giovan Domenico Vinaccia, autore della facciata della chiesa del Gesù Vecchio e di decorazioni di alcune chiese napoletane. Nel Settecento il Barocco raggiunse l'apice con le architetture ricollegabili al Rococò e al Barocco austriaco, dando origine ad una combinazione dalla quale scaturirono edifici di grande valore artistico. Quest o st i le, che si sv ilu ppò in Campania e nel sud del Lazio (dove fu costruita l'Abbazia di Montecassino che rappresenta un esempio di architettura barocca napoletana al di fuori di Napoli) fu portato all'attenzione della critica internazionale solo nel XX secolo, grazie al volume Archi-
tettura barocca e rococò a Napoli di Anthony Blunt. Nell'immaginario collettivo Napoli è la città della buona cucina, con un clima incomparabile, suggestivi scenari naturali e abitanti dall'irresistibile verve. Ma Napoli non è solo questo: la città produsse una cultura e dei tesori inestimabili; il suo patrimonio artistico e tra i più preziosi al mondo. La storia della Napoli barocca inizia nel '500 quando la Spagna ebbe la meglio sulla Francia insediando a Napoli un Vicerè. Da quel momento il barocco mutò il volto della città. Il Viceregno Nel 1503, con l'entrata in Napoli di Consalvo di Cordova, iniziò il viceregno spagnolo. Napoli crebbe contro ogni divieto, nei borghi e dentro le mura: nacque il Palazzo Vicereale nei pressi di Castel Nuovo, mentre a Castel Capuano vennero riuniti i tribunali. Con la costruzione di via Toledo e la ristrutturazione di via Chiaia, a metà del '500, cambiò l'assetto urbano: sorsero palazzi aristocratici e con l'esigenza di sistemare le truppe, nacquero i q u a r t i e r i s p a g n o l i . Chiese e conventi si moltiplicarono e furono costruiti secondo i canoni dettati dalla controriforma. Gli splendori barocchi e la devozione a San Gennaro, tuttavia, non cancellarono la miseria della popolazione, le epidemie e le catastrofi. Tra le figure passate alla storia, particolare fascino conserva quella di Masaniello, il capopolo innal-
zato e poi ucciso dai suoi stessi seguaci. Masaniello In una Napoli sfinita dalle continue epidemie e affaticata dalle crisi economiche e dalla tasse, la rivolta dei poveri del luglio 1647, mentre in Europa la guerra dei Trent'anni volgeva al termine, fu certamente l'insurrezione più eclatante ma, come le altre, non comportò alcun cambiamento. La capeggiò un pescivendolo di 27 anni il cui nome sarebbe divenuto sinonimo di pazzo e agitatore: Masaniello Tomaso Aniello. Masaniello si era ritrovato quasi per caso alla testa dell'ennesimo moto popolare: fattosi nominare capo degli Alarbi (i monelli che battagliavano alla giostra in occasione della festa della Madonna del Carmine, il 16 luglio), sobillò la gente del mercato contro i gabellieri. La rivolta crebbe in brevissimo tempo e Masaniello si vide catapultare da vincitore, anche grazie ai suggerimenti del giurista Giulio Genoino, davanti al Vicerè, il quale lo nominò capitano generale del popolo. Un tale balzo, dice la leggenda, lo fece diven23
tar matto tanto che i suoi stessi amici si videro costretti a liberarsi di lui: fu ucciso il 16 luglio, nel monastero del Carmine, e la sua testa fu portata alla reggia. Il tripudio del popolo, sempre pronto a salire sul carro del vincitore, fu ripagato con un rincaro del prezzo del pane. Il popolo allora capì: corse a ricomporre i resti del suo condottiero il cui corpo fu seppellito con tutti gli onori nella chiesa del Carmine. Cosa vedere della Napoli Vicereale Meta obbligata è la facciata di Palazzo Reale che ha subito leggere modifiche rispetto all'impianto secentesco; la cappella del tesoro di San Gennaro nel Duomo è tra i monumenti più ricchi della Napoli barocca. A poca distanza dal Duomo, una piccola concentrazione di tesori secenteschi: la Guglia di San Gennaro e il Pio Monte della Misericordia all'interno del quale si trova il dipinto che ha deciso le sorti di tutta la pittura napoletana del Seicento: Le Sette opere di Misericordia di Caravaggio, che soggiornò a Napoli per un lungo periodo.
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Napoli borbonica In seguito alle vicende della guerra di Successione spagnola, Napoli venne occupata per 27 anni dagli austriaci ma nel 1734 le potenze europee assegnarono la città a Carlo di Borbone e Napoli tornò ad essere capitale. Re Carlo cercò di fare della città una metropoli promuovendo grandi industrie, bloccando l'edilizia religiosa e liberalizzando quella civile. Fece costruire La reggia di Caserta sul modello di Versailles. Natura, arte, antichità, musica e perfino i "lazzari" fecero di Napoli la meta obbligata del Grand Tour che ogni rampollo aristocratico o di buona famiglia era tenuto a fare. Furono costruiti il Teatro S. Carlo, il Reale Albergo dei Poveri, la Reggia di Capodimonte. Cosa vedere della Napoli borbonica Il gusto per le antichità, risvegliato soprattutto dagli scavi di Pompei ed Ercolano, ispirò il collezionismo, le prime campagne di scavo e la nascita del Museo archeologico. La Napoli Borbonica si trova soprattutto nei dintorni, dove i sovrani stabilirono casini e riserve di caccia.
Itinerari consigliati: Le chiese e le Basiliche Certosa di S. Martino Fondata nel 1325, la Certosa fu sottoposta a partire dall'ultimo scorcio del XVI secolo a un radicale restauro che l'hanno resa uno degli esempi più alti del barocco napoletano. Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro E’ tra i maggiori complessi monumentali di Napoli e costituisce, in assoluto, uno dei più riusciti esempi di architettura e arte barocca. Si tratta di un monumento artistico di particolare importanza per la concentrazione ed il prestigio delle opere in esso custodite, nonché per il numero di artisti di fama mondiale che hanno partecipato alla sua realizzazione. Tutta la cappella è contornata da una serie di diciannove sculture bronzee che vede nella centrale, posta al centro dell'altare maggiore San Gennaro seduto che dirige gli altri diciotto compatroni nella difesa di Napoli dalla fame, dalla crisi, dalla peste e dall'ira del Vesuvio Basilica Santa Maria della Sanità La chiesa, cuore dell'omonimo quartiere, fu eretta dai domenicani nel 16021613 sulle catacombe di S. Gaudioso. Eretta ai primi del Seicento su progetto di Fra’ Nuvolo, la basilica è conosciuta con il nome di chiesa del Monacone, in onore del santo domenicano Vincenzo Ferreri. Sorge nel bel mezzo del rione Sanità, sopra alle catacombe paleocri-
stiane di San Gaudioso, e si caratterizza per l’ampia cupola rivestita di maioliche gialle e verdi, la pianta a croce greca con presbiterio rialzato e le sedici cappelle laterali. All’interno si trovano numerose opere barocche tra cui cinque tele dipinte da Luca Giordano Basilica San Paolo Maggiore Costruita su un'antica chiesa tra il 1583 e il 1603 su progetto di Francesco Grimaldi, l'edificio, a croce latina a tre navate, è ricco di affrechi di Massimo Stanzione, purtroppo gravemente danneggiati dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. La cappella Firrao è ricca di sculture e affreschi secenteschi; gli splendidi dipinti della sagrestia sono, invece, opera di Francesco Solimena. Chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone Costruita a partire dal 1661 su progetto di Cosimo Fanzago, per volere delle monache di clausura del convento di Sant'Agostino, l'edificio è uno dei più ammirati per la sua pianta ottagonale 25
e per la volta della cupola. I dipinti delle cappelle sono di Paolo de Matteis mentre le sculture sono opera di Nicola Fumo. L'altare maggiore è di puro gusto rococò. Chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci Il nome ricorda le stazioni della Via Crucis, segnate da croci di legno oggi scomparse, che scandivano la salita alla chiesa. La chiesa fu fondata alla fine del XVI secolo dai Francescani e rimodernata nel Seicento su progetto del Fanzago. Per l'estrema semplicità della decorazione in marmo bianco e grigio la chiesa è un caso unico nella storia dell'architettura barocca napoletana. Nell'interno vi è un bellissimo pulpito marmoreo sorretto da una grande aquila, simbolo di San Giovanni Evangelista, scolpito sempre dal Fanzago. Lo straordinario Cristo morto che adorna il paliotto dell'altare maggiore è invece opera di Carlo Fanzago, figlio di Cosimo. Chiesa Ss. Apostoli
Fondata nel V secolo, fu completamente trasformata dai teatini tra il 1609 e il 1649 ed è oggi una delle principali chiese barocche di Napoli. Decorano l'interno un ciclo di affreschi inquadrati da stucchi dorati, capolavori di Lanfranco; risalenti al Seicento anche gli Angeli reggilampada e i candelabri bronzei presso il presbiterio e, nel transetto sinistro, l'altare Filomarino, del Borromini. Le cappelle costituiscono una vera e propria quadreria di opere tra il seicento e il settecento. Nella cripta divisa in cinque navate è sepolto il poeta Giovanni Battista Marino. Chiesa di San Gregorio Armeno La chiesa di San Gregorio Armeno presenta un sontuoso interno barocco; la decorazione di questa stanza di Paradiso in terra, secondo la brillante definizione di Carlo Celano, fu ideata a metà del '700 da Niccolò Tagliacozzi Canale. Notevoli i due organi e gli affreschi di Luca Giordano con L'imbarco, il viaggio e l'arrivo delle monache armene con le reliquie del santo (1671-1684). Nel chiostro spicca la scenografica fontana con le statue del Cristo e della Samaritana del 1733. La cappella fu decorata da Paolo De Matteis nel 1712. Chiesa del Gesù Nuovo Costruita tra il 1584 e il 1601 sull'area di palazzo Sanseverino la chiesa del Gesù Nuovo è, contrariamente ai dettami della Controriforma, a pianta centrale. La decorazione marmorea e pittorica richiese 40 anni e venne ultimata nel '700. Dopo l'incendio del 1639, i
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lavori di restauro, diretti da Fanzago, ne accentuarono lo stile barocco. All'interno vi sono importanti affreschi di Luca Giordano e il dipinto "la Cacciata di Eliodoro" del Solimena. Nei pennacchi e nella cupola sono raffigurati gli Evangelisti opera di Lanfranco. Chiesa di San Ferdinando Fondata nel 1622, la chiesa fu intitolata a San Francesco Saverio. Nel 1769 Ferdinando IV la dedicò al santo protettore suo omonimo. L'interno della chiesa è barocco e vi si trovano affreschi di Paolo de Matteis e sculture di Vaccaro. Chiesa dei Girolamini La chiesa fu edificata nel 1592-1619 dal fiorentino G.A. Dosio ed è compresa nel grande convento degli oratoriani. La facciata subì una grande modifica nel 1780 ad opera dell'architetto Ferdinando Fuga; eccezionale per l'omogeneità della decorazione, l'interno è opera di artisti importanti del Seicento: Pietro da Cortona, Guido Reni, Luca Giordano, Giovanni Bernardino, Giuseppe Sammartino. Notevole la biblioteca sia per
l'ambiente tipicamente settecentesco, sia per la ricca dotazione. Chiesa del Purgatorio ad Arco La chiesa di S. Maria delle Anime del Purgatorio, meglio conosciuta come la Chiesa del Purgatorio ad Arco, è opera di Cosimo Fanzago. Fondata nel 1604 è da sempre legata al culto dei morti che in epoca barocca raggiunse il suo apic e . Nella chiesa tutto rimanda ai morti: le decorazioni funerarie sulla facciata; i teschi e le tibie incrociate in bronzo all'esterno e all'interno e, dietro l'altare maggiore, il motivo con ossa e teschio attribuito a Fanzago, ornato dal dipinto "Madonna con le anime del Purgatorio" del 1630 opera di Massimo Stanzione. Basilica di San Pietro ad Aram La chiesa, di forma barocca, conserva un affresco del '500 con una delle più antiche vedute di Napoli; la porta murata di fianco è una sorta di "Porta Santa" che venne aperta nel 1526, 1551 e 1676 per celebrare, con un anno di ritardo, il Giubileo Romano. Chiesa dello Spirito Santo La fondazione della chieda dello Spirito Santo risale alla fine del '500 così come alcune opere all'interno (sculture di Naccherino e dipinti di Santafede). Settecenteschi sono invece il rifacimento dell'edificio e buona parte dei dipinti. Bellissima la guglia, una delle più eleganti di Napoli.
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Pio Monte della Misericordia Sede di una delle più importanti istituzioni benefiche di Napoli, e tuttora attiva, il Pio Monte della Misericordia sorse nel 1601 per assistere i poveri e i malati e riscattare gli schiavi cristiani dalle mani degli infedeli. Attraversato il porticato a cinque arcate l'attenzione del visitatore è presto calamitata dallo straordinario dipinto dell'altare maggiore: Le sette opere di Misericordia capolavoro del Caravaggio. Nella pinacoteca al primo piano è esposta l'importante collezione del Pio Monte. Le guglie Le Guglie di San Domenico e dell'Immacolata Tipici monumenti del barocco napoletano, queste guglie ricalcano nella struttura le macchine da festa che venivano costruite nel '600 per percorrere la città durante le ricorrenze religiose più importanti. Guglia di San Gennaro
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Questo Giglio di marmo fu eretto dopo un ex voto che i napoletani offrirono a San Gennaro che li aveva protetti durante l'eruzione del Vesuvio del 1631. Il progetto della più antica delle tre guglie napoletane fu affidato nel 1636 a Cosimo Fanzago, che successivamente lavorò anche a quella di San Domenico. La statua di bronzo è opera di Tommaso Montani. Le Fontane Uno dei primi a descrivere le acque di Napoli in epoca barocca fu Carlo Celano nelle sue Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forastieri date dal canonico Carlo Celano napoletano, divise in dieci giornate. « [...] L’acque, poi, han tutte quelle conditioni che ponno dichiararle perfettissime: e però molti e molti de’ nostri napoletani lascian di bere vino. Vi sono pozzi, che noi chiamiano formali, che danno acque così fredde nell’estate che pajono poste alla neve.
Degli acquedotti poi ne parleremo a suo tempo, essendo maravigliosi [...]» Dalle parole di Celano si comprende come Napoli fosse ricca di formali e di fonti naturali di acqua che avevano terminazione con fontane pubbliche monumentali. Le fontane erano servite dalla rete sotterranea degli acquedotti realizzati e ripristinati in più fasi storiche a causa dell'espansione demografica della città. L'acquedotto del Carmignano fu inaugurato nel 1629 e realizzato in gran parte a spese del suo committente,Cesare Carmignano; esso aveva origine dal torrente Faenza ad Airola. Attraverso l'apertura di questo nuovo acquedotto vennero realizzate nuove fontane pubbliche a beneficio della popolazione. Le fontane monumentali secentesche traevano ispirazione, analogamente a quanto avveniva con le guglie, dal tema dell'effimero ed in particolare il modello privilegiato fu quello dell'arco di trionfo, anche se non mancano composizioni a carattere piramidale. La prima fontana monumentale fu quella del conservatorio dello Spirito Santo, realizzata da Cosimo Fanzago nel 1618 ricordando l'impianto della successiva fontana del Sebeto. Farmacia nell'ospedale degli incurabili L'ospedale degli incurabili racchiude il preziosissimo ambiente della Farmacia di impronta barocca, unica nel suo genere, in cui, su scaffali di noce e radica ad intaglio, sono conservati circa 400 vasi di maiolica policroma, a costruire un vero e proprio museo dell'arte cera-
mica napoletana. I medicamenti erano conservati in vasi di maiolica realizzati da Donato Massa nel 1748 con scene bibliche e allegorie. La farmacia è visitabile solo in occasione delle manifestazioni del Maggio dei monumenti. Le Vie Via Toledo Via Toledo nacque per volere del Vicerè, il duca d'Alba, nel 1536 come asse d'espansione della città. Doveva servire ad attirare a Napoli la nobiltà baronale del regno. La via è una delle strade principali della città e da sempre ha attirato l'ammirazione dei visitatori per la vivacità, le dimensioni (circa 2 km) e la larghezza; per secoli via Toledo non ebbe eguali in Europa e si contraddistingue per la totale mancanza di chiese e per la presenza di meravigliosi palazzi nobiliari.
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Piazza Dante Un tempo questa piazza era nota come piazza del Mercatello. Definita dall'emiciclo del Foro Carolino, costruito dal Vanvitelli, sulla piazza svettano 26 statue delle virtù che fanno da cornice al monumento equestre a Carlo di Borbone. All'estremità della piazza, sulla sinistra, si apre Port'Alba, eretta nel 1625 al tempo del vicerè Pedro Alvarez de Toledo, duca d'Alba, e completamente rifatta nel 1797. Via di Posillipo Via di Posillipo è famosa per la bellezza del panorama e per le raffinate residenze, la più suggestiva delle quali è il Palazzo di Donn'Anna, costruito nel 1642 da Cosimo Fanzago per Anna Carafa, moglie del vicerè, rimasto incompiuto. Oggi il palazzo appare come un suggestivo rudere che si specchia nel mare. I Chiostri Tra i molti angoli nascosti di Napoli meritano attenzione i chiostri. Con il tempo essi hanno perso il disegno primitivo e la loro funzione ascetica per trasformarsi in fastose quinte teatrali dell'architettura barocca e rococò. I chiostri del Seicento e del Settecento
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sono decisamente "laici" e in essi diventano fondamentali alcuni elementi tipici del gusto settecentesco: il verde, come nel chiostro di S. Paolo Maggiore, e il paesaggio, come nel chiostro della chiessa dei Ss. Marcellino e Festo. Suggestivo il chiostro delle clarisse nella chiesa di S. Chiara, trasformato nel 1742 da D. A. Vaccaro. Dentro il portico gotico, l'architetto creò uno spazio privo di connotazioni religiose; i paesaggi, le scene campestri, le villanelle, i trionfi carnevaleschi e le scene mitologiche della decorazione maiolicata sono un piccolo trionfo di gialli, verdi e azzurri, i colori dei limoni, delle piante e del cielo. I Palazzi Palazzo dello Spagnolo Il Palazzo dello Spagnolo fu costruito a partire dal 1738 da Ferdinando Sanfelice per il marchese Moscati. L'edificio divenne di proprietà del nobile spagnolo Tommaso Atienza nell'800 e per questo venne ribattezzato Palazzo dello Spagnolo. L'architetto Sanfelice fu uno dei maggiori progettisti delle complesse architetture effimere del periodo; tali impianti scenografici venivano allestiti in occasione delle numerose feste
che la corte offriva al popolo per ottenerne il favore. Il palazzo dello spagnolo è celebre per la scala a giorno a doppia rampa che proprio come una scenografia separa il cortile principale da quello secondario. Palazzo Serra di Cassano L'ingresso principale di Palazzo Serra di Cassano non è quello che oggi si attraversa per ammirarlo. Il principe Aloisio Serra di Cassano, infatti, in segno di lutto per l'esecuzione del figlio Gennaro, uno dei protagonisti della rivoluzione del 1799, decretò la chiusura del portone principale. L'architettura del palazzo è opera di Ferdinando Sanfelice, uno dei maggiori architetti del settecento; suo anche il maestoso scalone a doppia rampa collocato all'interno dell'atrio aperto sul cortile, ornato da decorazioni in marmo bianco contrastanti con il grigio della pietra lavica. Il primo piano è oggi occupato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
La scala venne ribattezzata, dai contemporanei, ad ali di falco per via della somiglianza con questo grande uccello. Dalla scala è possibile vedere il giardino retrostante mentre nel secondo cortile è presente una scala architettonicamente geniale. Il Teatro San Carlo Non c'è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. Gli occhi sono abbagliati, l'anima rapita. Stendhal Stendhal quando vide il San Carlo ne rimase abbagliato e lo paragonò al "palazzo di un imperatore romano"; importante, fastoso e ricco con i suoi lampadari, i colori oro, argento e blu, e la possibilità di aprire la quinta di fondo della scena sui giardini di Palazzo Reale, il San Carlo è stato definito dal maestro Muti "il più bel teatro del mondo" e, effettivamente, esso ha mantenuto fede al volere di Carlo di Borbone che, quando lo fece costruire, desiderava un teatro in grado di rivaleggiare con quelli delle altre città italiane come Venezia e Roma. Eretto
Palazzo Sanfelice Fu costruito su progetto del Sanfelice per la sua famiglia nel 1728. L'architetto inventò l'eccezionale scala aperta che ripeterà, con variazioni, dieci anni più tardi per il Palazzo dello Spagnolo. 31
40 anni prima della Scala a tutt'oggi è il teatro più grande per capacità di pubblico (3000 spettatori). Nato da un progetto di Giovanni Antonio Medrano in sostituzione dell'antico teatro San Bartolomeo, il San Carlo fu terminato in soli 8 mesi, dal 4 marzo al 4 novembre 1737, e inaugurato lo stesso 4 novembre con l'Achille in Sciro di Domenico Sarro su libretto di Metastasio. La sala era enorme, le poltrone in platea un esempio di comodità (si poteva ribaltarle e chiuderle con un lucchetto per evitare che venissero occupate). Ma l'acustica era difettosa, il che diede subito l'avvio ad un'infinita serie di modifiche che però non risolsero il problema. Nel 1810-12 venne aggiunta la facciata ma pochi anni dopo, in seguito ad un incendio, il teatro fu ricostruito in forme neoclassiche con interno a sei ordini di palchi e volta dipinta con una raffigurazione del Parnaso. Questa volta l'acustica poteva dirsi assolutamente perfetta e straordinaria. Curiosità Pulcinella Il teatro è una componente vitale dello spirito napoletano. Uno dei suoi più emblematici protagonisti è Pulcinella, forse erede di Macco, la maschera nella quale le atellane, antiche farse di origine italica ben note a Roma, identificavano lo stupido. Secondo Benedetto Croce, Pulcinella nacque solo nel Seicento e il suo nome sarebbe la deformazione di quello di un certo Puccio d'Aniello. Dominato da una fame atavica che orienta i suoi pochi pensieri e guida ogni sua azione, Pulci32
nella, più che essere espressione dell'uomo comune, incarna il bisogno allo stato puro, assolutamente privo della meditazione e del pensiero. I Vedutisti Napoletani La veduta è un genere che nasce nel Seicento e giunge ben presto alla contrapposizione tra i fautori della veduta esatta e quelli della veduta ideale. Tra i primi vi sono quei pittori che eseguivano su commissione tempere degli scorci più noti, una sorta di cartoline ante litteram. Tra i secondi, invece, si annoverano artisti che, nell'apparente esattezza topografica dei loro lavori, accostavano edifici reali ad altri inventati o inventavano il paesaggio circostante intorno al soggetto richiesto. Ai piedi del Vesuvio si fecero conoscere Gaspar van Wittel, noto per le sue vedute prospettiche e di accurata definizione dei dettagli, e Salvator Rosa che prediligeva i toni pittoreschi. Conservatorio di San Pietro a Majella Il termine Scuola musicale napoletana o Opera napoletana identifica una specifica scuola di musica sviluppatasi nell'area della città di Napoli lungo un arco di oltre cinque secoli, dalla prima
metà del Cinquecento fino al primo Novecento. Tale scuola, probabilmente la più longeva tra quelle italiane, si consolida ed assume un ruolo di riferimento accademico in tutto il mondo in epoca barocca, nel XVIII secolo, quando la stessa ha il merito di aver fatto nascere la cosiddetta opera comica e opera buffa. La storia della scuola napoletana ruota attorno alla creazione di quattro conservatori nella capitale del Regno di Napoli, sorti tutti nella seconda metà del XVI secolo e che tutti hanno assunto un ruolo di grande miniera per la vita musicale locale. In ordine cronologico di fondazione, i conservatori sono: il conservatorio di Santa Maria di Loreto (1537); il conservatorio della Pietà dei Turchini (1573); il conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo (1589); il conservatorio di Sant'Onofrio a Porta Capuana (1598). Francesco Durante Nel 1808 avvenne l'ultima tappa della politica di accorpamento dei suddetti
conservatori e nacque così il conservatorio di San Pietro a Majella. Inizialmente questi istituti avevano lo scopo di accogliere i bambini orfani e/o poveri non solo della città di Napoli ma di tutto il regno. Successivamente, al finire del secolo XVII, tra le materie insegnate fu introdotta anche la musica e ci si accorse ben presto che grazie alla presenza straordinaria di insegnanti del calibro di Francesco Durante, si riuscirono ad ottenere risultati inaspettati e di grande qualità. Raggiunta una certa fama e prestigio, divennero delle vere e proprie scuole di musica con l'ammissione anche di studenti esterni provenienti dai ceti non poveri, dunque dietro pagamento di una retta. Tra i partenopei che più di tutti hanno dato il contributo alla scuola si annoverano il campano Domenico Cimarosa, Nicola Porpora, Domenico Scarlatti, Giovan Battista Pergolesi, Francesco Durante e tanti altri ancora. I fasti dell'epoca barocca avrebbero dato vita anche ad una lunga generazione di castrati in grado di maravigliare con l'uso della propria voce il pubblico di corte. Il Barocco a Tavola La Taverna dell’Arte Per estensione, il termine “barocco” si lega ad aggettivi quali grandioso, mirabolante o meraviglioso applicati non solo all’ architettura, pittura, musica e manifestazioni artistiche ma prendeva vita anche sulla tavola.
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Era nel banchetto, inteso come teatro per la messa in scena d'espressioni effimere che predominavano forme e colori stupefacenti. Sulle ali della fantasia, sorgevano davanti ai convitati scenari sorprendenti, si aprivano spettacoli inaspettati, si servivano pietanze trionfali. Per gli spettatori venivano costruite vere e proprie gallerie adorne di frutta e di fiori, che permettessero di assistere alla glorificazione del Signore, senza intralciare il servizio e lo svolgimento del pranzo cerimoniale. L'occuparsi e lo scrivere di cucina barocca investe una dimensione culturale legata a formidabili dinamiche sociali e spettacolari, dove si instaura il legame tra la mensa e la cultura, tra il cibo e la politica. É in questo significato che si deve interpretare l'opera di alcuni gastronomi e cuochi tra cui Latini a Napoli, per i quali il banchetto non era più solo: "affar di cucina", ma organizzazione di una festa complessa, il cui fine era il raggiungimento di un piacere estetico
percepito non solo con il palato ma anche con la vista, l'udito e lo spirito. A due passi da Spaccanapoli, salendo le Rampe di San Giovanni Maggiore, si incontra questa piccola taverna dove si possono ritrovare i piatti tipici della cucina napoletana di terra – la genovese, il baccalà in cassuola, i bucatini con ricotta e pecorino e la salsiccia ripiena alla griglia – ed alcune gustose rivisitazioni, come le polpettine al marsala e le zuppe. Da non perdere gli antipasti serviti su taglieri di legno, la granita di basilico (prima dei secondi), i dolci ed i quaresimali con il marsala. PASSEGGIATA BAROCCA Qui di seguito, un itinerario che attraversa i Decumani del centro storico dove sono rintracciabili alcuni dei monumenti più rappresentativi del Barocco napoletano. - Inizio percorso: Piazza Dante. Attraversa Port’Alba (portale barocco), alla fine della salita a sinistra c’è piazza Bellini che incrocia via Costantinopoli, dove è possibile ammirare le facciate barocche di numerose chiese e palazzi d’epoca. Dalla piazza imbocca via dei Tribunali, percorrendo la strada passerai davanti alla Chiesa di S.Pietro a Majella, di impianto gotico ma ricca di elementi barocchi. Poco più avanti imbocca a sinistra via del Sole e dopo qualche metro troverai la Chiesa della Pietrasanta, di origine paleocristiana ma interamente ristrut-
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turata in epoca barocca dal celebre architetto e scultore Cosimo Fanzago. Torna su via dei Tribunali, dopo circa 130 metri sulla sinistra troverai la Chiesa di S.Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. La chiesa, fulgido esempio di architettura barocca, custodisce al suo interno preziosissimi dipinti dell’epoca. Torna su via dei Tribunali, percorri pochi metri e gira sinistra su via S.Paolo; sulla destra, alla fine di vicoletto S.Paolo, troverai la Basilica di San Paolo Maggiore, ristrutturata nel XVII secolo e internamente rivestita di preziosi marmi policromi, fregi e intarsi marmorei in stile barocco. Sul lato opposto della strada, di fronte alla Basilica di S. Paolo, all’interno di una piazzetta troverai la Chiesa di S.Gregorio Armeno, il cui interno è fastosamente decorato in stile barocco. Torna su via dei Tribunali, dopo circa 150 metri gira a sinistra su vico Gerolomini poi svolta subito a destra per entrare in piazza Gerolomini dove troverai la Chiesa dei Girolamini, la cui facciata fu ideata dal celebre architetto Ferdinando Fuga. All’interno della chiesa sono custoditi importanti esempi di arte figurativa barocca. Torna su via dei Tribunali e prosegui fino all’incrocio con via Duomo, gira a destra e prosegui fino al Duomo che vedrai alla tua destra. Qui potrai ammi-
rare la storica Guglia e visitare la cappella di S. Gennaro, ricca di opere d’arte, una delle massime espressioni del barocco napoletano. Torna su via dei Tribunali, poi gira a sinistra, percorri un centinaio di metri e sulla sinistra troverai il Pio Monte della Pietà, edificio barocco che custodisce al suo interno importanti dipinti di celebri artisti dell’epoca come Luca Giordano e Caravaggio. Torna su via dei Tribunali e percorri la strada a ritroso per circa 4oo metri, una volta giunto all’altezza di piazza Miraglia, gira a sinistra su vicolo San Domenico Maggiore. Quasi alla fine del vicolo troverai sulla sinistra il Museo della Cappella San Severo con i suoi rinomati capolavori d’arte barocca e poco più avanti, sulla destra, piazza San Domenico Maggiore, con al centro un imponente e prezioso obelisco seicentesco, la Guglia di San Domenico, progettato da Cosimo Fanzago e rifinito da Domenico Antonio Vaccaro. Prosegui a destra su via Benedetto Croce e continua fino a giungere in piazza del Gesù. Al centro della piazza potrai ammirare la Guglia dell’Immacolata, sulla destra troverai la Chiesa del Gesù Nuovo con gli interni interamente barocchi e sulla sinistra la Basilica di S.Chiara, al cui interno potrai visitare il chiostro maiolicato, pregiata opera di Domenico Antonio Vaccaro. – Attraversa la piazza poi gira a destra e prosegui fino ad arrivare a Piazza Dante. 35
Il tufo Napoli è una città sorta sul tufo e grazie a esso si è sviluppata essendo stato il materiale da costruzione più utilizzato. E stato definito la “pietra gentile”non solo per il suo colore dorato ma soprattutto per le sue caratteristiche che lo rendono leggero, poroso ma estremamente resistente, facilmente modellabile in blocchi grandi e piccoli. Già i suoi primi abitanti, quei Greci provenienti dalla vicina Cuma avevano apprezzato la duttilità di questa pietra di origine vulcanica che è fuoriuscita dalla terra a seguito delle eruzioni dei Campi Flegrei sedimentandosi tutt’intorno. Ancora oggi, sono visibili tracce dell’antica cinta muraria in tufo che dall’antica acropoli situata nell’area dell’attuale chiesa di Sant’Aniello a
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Caponapoli seguiva un percorso verso l’attuale Piazza Bellini per giungere fino all’odierna Piazza Calenda, nel quartiere Forcella. Il materiale utilizzato era di facile reperibilità sul territorio e le cavità che puntellano le colline cittadine e tutta la costa partenopea fino a Capo Posillipo testimoniano delle intense attività di scavo condotte nei secoli per la usa estrazione. Nell’odierna Via Chiatamone sorgevano le Grotte Platamoniche, termine quest’ultimo da cui deriva il toponimo moderno. Si trattava di cavità scavate, dalla natura per effetto delle onde marine e dall’uomo, ai piedi del monte Echia. Il termine Platamon, infatti, deriva dal greco e significa “rupe scavate da grotte”. Oggi la fisionomia del luogo è cambiata. Il mare ha lasciato posto a una cortina di edifici e molte delle grotte sono state destinate a usi diversi e inglobate all’interno dei palazzi. Un tempo servivano da riparo alle imbarcazioni, sono state sfruttate come cave di pietra e in epoca pagana divennero sede dei culti di Priapo e Venere, dei della fecondità, la cui protezione era invocata attraverso rituali che davano sfogo alle abitudini più licenziose e per questo le cavità offri-
vano un opportuno riparo. Nel corso del Cinquecento ancora quei luoghi conservavano la fama di antri osceni e malfamati tanto che il viceré spagnolo Don Pedro de Toledo le fece ostruire perché li considerava alla stregua di postriboli. Sempre nel corso dello stesso secolo, però, le pietre del Monte Echia furono notevolmente sfruttate oltre che per il Palazzo Santaseverina situato alla sua sommità, per l’edificazione, nel 1576, della chiesa dedicata a Santa Maria della Catena oggi situata in Via Santa Lucia. L’anno successivo furono cavate per la costruzione del Ponte della Maddalena. Anche la collina di Posillipo presenta numerose cavità. Ai suoi piedi i Romani realizzarono nel I secolo a.C. un grande traforo noto come Crypta Neapolitana o Grotta di Cocceio dal nome del suo architetto. L’intento della sua realizzazione era quello di creare una rapida via di collegamento tra la città e la zona dei Campi Flegrei luogo prediletto per le vacanze dei patrizi. La realizzazione dell’opera a lungo è stata avvolta da connotati misteriosi tanto da divenire oggetto di una leggenda che vede protagonista Virgilio, il poeta latino tanto caro ai Napoletani che gli hanno attribuito di volta in volta doti magiche e taumaturgiche. Secondo la tradizione, infatti, il poeta l’avrebbe plasmata nell’arco di una sola notte. Ad avvolgere il sito nel mistero ha probabilmente influito una sua caratteristica molto curiosa. Durante tutto l’anno il traforo rimane avvolto nell’oscurità e la luce vi penetra solo nei giorni degli equinozi e
lo attraversa completamente in due momenti ben precisi: all’alba e al tramonto. Anche qui, come altrove, venivano praticati dei riti pagani in onore degli dei. Lo testimonia una scultura marmorea raffigurante il Mitra tauroctono trovata sulle pareti tufacee. Il luogo è uno dei rari esempi di Mitrei ritrovati in Italia. In città l’altro è stato rinvenuto nel complesso termale di Via Carminiello ai Mannesi nei pressi della centralissima Via Duomo, nel cuore del centro storico. I culti in onore degli dei della fecondità sembrano essere confluiti in epoca cristiana nel culto della figura materna della Madonna. Nelle immediate vicinanze sorge, infatti, la Chiesa di Piedigrotta tanto cara ai partenopei. Questo culto ricalcava l’eccitazione tipica dei riti pagani e fino agli anni ’30 dello scorso secolo, la sera del 7 settembre in onore della Vergine si tenevano danze di ogni genere proprio all’interno della vicina grotta che divenivano pretesto per le giovani fanciulle, venute da tutta la regio-
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ne, per incontrare il loro futuro marito. A Lucio Cocceio è attribuito un altro grande traforo sempre nella collina di Posillipo lungo più di 700 metri e noto come la grotta di Seiano dal personaggio che nel primo secolo ne commissionò l’ammodernamento. L’ingresso è situato in Via Coroglio e al termine del percorso sorge l’area archeologica di Pausylipon. Il sito comprende la villa del patrizio Vedio Pollione, i resti di un teatro all’aperto costruito sfruttando il declivio collinare, capace di contenere fino a 2mila persone e i resti di un odeion destinato alle audizioni di musica e poesia. Il tunnel serviva da collegamento per l’area residenziale con la strada che portava verso Pozzuoli fiorente cittadina in epoca romana. Il panorama di cui si gode è davvero suggestivo non a caso il nome greco Pausylipon è evocativo della bellezza del luogo poiché in greco significa tregua
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dagli affanni. Le perforazioni delle colline cittadine non sono fenomeno solo antico ma riguardano il passato anche più recente. Nell’Ottocento Ferdinando II di Borbone incaricò l’architetto Enrico Alvino di creare un passaggio attraverso la collina di Pizzofalcone che mettesse in collegamento la zona di Palazzo Reale con la Riviera di Chiaia. L’intento del progetto era duplice: da un alto si voleva garantire una facile vai di fuga verso il mare per la famiglia reale in caso di necessità; dall’altro le truppe di fanteria acquartierate vicino al mare avrebbero raggiunto più rapidamente il Largo di Palazzo in caso di sommosse popolari. Il progetto non fu mai portato a termine. Tuttavia, un grosso lavoro di scavo fu intrapreso sfruttando le preesistenti cavità fatte nel tempo sotto la collina e le antiche cisterne romane, sebbene il tunnel non abbia mai svolto l’utilizzo per cui era stato pensato. Quei vuoti però sono stati utilizzati come rifugio antiaereo e di quel periodo ancora oggi sono visibili le tracce. Suppellettili, giochi di bambini, scritte
incise sulle pareti testimoniano di una vita precaria che procedeva sotterranea mentre in superficie la morte minacciava dall’alto con centinaia di bombardamenti che si susseguirono sulla città tra il 1941 e il 1943. Oggi, però, quei vuoti sopperiscono alla mancanza di spazio in superficie e sono sfruttati come garage. Inoltre parte del percorso è stato musealizzato offrendo ai visitatori scorci di un passato custodito a lungo nel ventre della città e che oggi si rivela nella sua drammatica quotidianità. Inoltre vi sono vecchi esemplari d’automobili che facevano parte del deposito giudiziario utilizzato fino agli anni ‘70. I castelli Castel dell’Ovo In città è possibile visitare vari castelli che, sorti per scopi residenziali o difensivi, conservano intatte le loro massicce strutture in tufo e testimoniano del poliedrico utilizzo di questa pietra estremamente resistente anche agli attacchi militari. Il primo a essere costruito fu il Castel dell’Ovo che sorge sull’isolotto di Megaride, luogo ricco di suggestioni ed evocativo di miti, collegato da un ponte al lungomare cittadino. E’ qui che il mito fa giungere la sirena Partenope, fondatrice della città. E ancora una volta un pezzo della città è legato al poeta latino Virgilio. A costui, infatti, la leggenda attribuisce il nome del castello nei cui sotterranei avrebbe fatto racchiudere un uovo magico dalla cui integrità dipenderebbero le sorti della città.
Il castello è costruito interamente in tufo e a guardarlo da lontano sembra avere l’aspetto di uno sperone roccioso che fuoriesce dall’acqua. Esso può essere considerato una sorta di palinsesto perché ingloba al suo interno resti di varie strutture presistenti tra cui la villa che il patrizo romano Lucio Licino Lucullo vi fece costruire, la Chiesa del Salvatore risalente al VII secolo e varie strutture architettoniche frutto dei vari interventi che si sono succeduti. Tuttavia, furono i Normanni che fortificarono l’isola edificandovi un castello per farne la dimora reale. Col tempo è stato destinato a essere non solo residenza ma anche forte militare e prigione di stato. Il suo aspetto è cambiato nel tempo pur mantenendo sempre le caratteristiche di una fortezza. Quello che vediamo oggi è il risultato della radicale ristrutturazione avvenuta durante il periodo borbonico. Castel Nuovo Poco distante, in Piazza Municipio si
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eregge maestoso il Castel Nuovo così chiamato perché costruito successivamente al Castlel dell’ Ovo e al Castel Capuano. Fu costruito per volere del re angioino Carlo I il quale decise di trasferire la capitale del regno da Palermo a Npoli. I lavori furono naturalmente affidati ad un architetto francese: Pierre de Chaule. La sua forma attuale non corrisponde per intero alla sua fisionomia originaria ma è stato ristrutturato in epoca aragonese. Il castello ha una struttura interamente in tufo sebbene alcune parti siano ricoperte in piperno come la maggior parte delle torri. Solo in una di esse è visibile la struttura in tufo giallo ed è chiamata la Torre dell’Oro proprio per il suo colore che inondato dai raggi del sole ricorda per l’intensità delle sfumature il colore del prezioso metallo. Di notevole bellezza è il maestoso arco trionfale in marmo bianco posto tra le due torri frontali: la Torre di Mezzo e la Torre di Guardia. L’arco presenta decorazioni che celebrano l’entrata trionfale in città di Alfonso d’Aragona. E’ curioso notare che sembra incompleto in quanto in una nicchia in alto a destra manca una statua. Tale mancanza non è ascrivibile all’incuria o ai dan-
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ni del tempo. Il decoro fu volutamente incompleto poiché all’epoca della costruzione vigeva una tassa da pagare sui monumenti ultimati voluta dallo stesso Alfonso. Castel Sant’Elmo Un altro castello si impone con la sua mole sul panorama cittadino dall’alto della collina del Vomero da cui sembra tenere la guardia a tutto quanto si dispiega sotto di lui. Il castello fu edificato in posizione strategica per scopi difensivi e deve il suo nome alla chiesetta di Sant’Erasmo. La sua forma attuale è riconducibile ai lavori di ristrutturazione promossi dal vicerè Don Pedro de Toledo. Interessante è la struttura della sua pianta che ha la forma di uan stella a sei punte che ben si adatta alla morfologia del blocco tufaceo su cui poggia. Dal 1604 il castello venne usato come prigione in cui furono rinchiusi prigionieri illustri e i giacobini che promossero la nascita della Repubblica Partenopea nel 1799. Quando i patrioti risucirono a impadronirsi del castello fu qui che innalzarono il tricolore giallo, rosso e azzurro affinchè fosse visibile a tutta la città. Ma dopo la Restraurazione borbonica il
castello ritornò alla sua vecchia funzione di prigione. All’interno del castello, dalla terrazza da cui si può godere di uno splendido panorama sul golfo, si accede al Museo del Novecento a Napoli. Questa istituzione nasce con l’intento di documentare parte di quanto è stato realizzato in città nel corso del secolo scorso nel campo della produzione artistica. Qui sono esposte circa 170 opere realizzate da 90 artisti prevalentemente napoletani. Le fabbriche angioine Con la venuta a Napoli della dinastia degli Angioini la città diventa capitale e vive un intenso sviluppo urbanistico. La costruzione di Castel Nuovo comporta lo sviluppo delle zone circostanti e l’espansione, quindi, del nucleo cittadino. Viene inoltre ampliato il porto, utilizzando le cave del vicino Monte Echia, per far fronte alle crescenti esigenze commerciali. I vari sovrani avviano anche la costruzione di nuove chiese in stile gotico molto vicine all’architettura d’oltralpe, ma, con un’impronta territoriale molto forte. Infatti ancora oggi sono visibili le loro strutture tufacee.
Una rappresentazione di come doveva apparire la città all’epoca ci è fornita dalla Tavola Strozzi, un dipinto su legno oggi custodito al Museo della Certosa di San Martino. A Napoli già allora vi era un moltitudine di edifici concentrati nell’area dell’attuale centro storico. Ma quello che colpisce maggiormente osservando il dipinto è l’aspetto cromatico. Tutti gli edifici appaiono dello stesso colore, chiaro, luminoso. E’ il colore delle pietre di tufo impiegate nell’edilizia religiosa ma anche in quella civile. Questo perché il materiale da costruzione era reperito stesso in loco. A ogni palazzo nel cuore di Napoli corrisponde un vuoto sotterraneo da cui è stata estratta la materia prima per la sua realizzazione. Queste cave, per assecondare le leggi della statica hanno forma trapezoidale in modo da fungere anche da volta di sostegno per l’edificio sovrastante. Molti di questi spazi sono in collegamento tra loro e ancora oggi sono visibili i segni dei picconi degli operai di un tempo, le macchie scure lasciate dalle loro lucerne che sistemavano in apposite nicchie
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scavate nella parete. Era questo il regno sotterraneo degli abili pozzari che si muovevano con insolita abilità nei meandri della città alimentando la fantasia popolare sull’esistenza di spiritelli che sbucavano all’improvviso nelle case dei Napoletani. Sant’Eligio al Mercato La prima chiesa a essere voluta da un sovrano angioino fu la chiesa di Sant’Eligio al Mercato costruita a partire dal 1270 per volontà di Carlo I. L’edificio fu realizzato con il contributo economico dello stesso sovrano e di alcuni gentiluomini francesi venuti al suo seguito e grazie alle elargizioni dei commercianti della zona. Inizialmente era dedicata a tre santi molto venerati in Francia: San Martino, San Dionigi e Sant’Eligio. Successivamente fu consacrata solo a quest’ultimo, patrono degli orafi. Non molto distante sorge, infatti, l’antico Borgo Orefici, dove vi sono botteghe orafe artigiane in cui l’abile mestiere si tramanda di generazione in generazione. L’aspetto che presenta oggi la chiesa è il risultato di una serie di interventi avvenuti anche in epoche successive che hanno in parte ampliato e modificato l’originaria struttura. Al suo interno elemento di pregio scultoreo è la cappella dei Lanii ossia dei macellai. Fu realizzata nel 1509 e dedicata al mestiere dei mercanti che la realizzarono. Si presenta come una cornice marmorea su cui sono scolpiti vari animali e copre l’antico ingresso dell’edificio. Di notevole bellezza è anche il portale 42
gotico strombato, unico esempio in città del suo genere, fortemente aggettante e decorato con motivi floreali. Accanto all’ingresso attuale vi è un arco quattrocentesco in cui è inserito un orologio. Sulla facciata dell’arco rivolto verso Piazza Mercato si trovano delle piccole teste scolpite che secondo una leggenda popolare raffigurano Irene Malerbi e Antonello Caracciolo che nel Cinquecento sarebbero stati i protagonisti di una triste vicenda. Il giovane Antonello innamorato di Irene ne avrebbe imprigionato il padre per convincere la figlia sottostare alle sue richieste amorose in cambio della libertà del genitore. La fanciulla acconsentì ma dopo si scatenò l’ira della sua famiglia che rivolgendosi a Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II, costrinse il giovane Antonello a sposare Irene e successivamente fu condannato alla decapitazione in Piazza Mercato. San Domenico Maggiore A Carlo II si deve, invece, la costruzione di un’altra importante chiesa: San Domenico Maggiore che si trova nel cuore del centro antico. Il sovrano an-
gioino ne volle la costruzione per un voto fatto durante la sua prigionia nel periodo dei Vespri Siciliani. Anche questa chiesa presenta gli elementi tipici dello stile gotico: le tre navate, le cappelle laterali, l’ampio transetto e l’abside poligonale. L’architetto della chiesa fu Pierre de Chaule lo stesso che progettò il Maschio Angioino e non è quindi un caso che nella facciata prospiciente l’omonima piazza si possano scorgere elementi architettonici che si accostano alle fattezze di un castello come, ad esempio, la merlatura. Il destino della chiesa è comune a quello di altri edifici di culto che presentano una commistione di stili che si sovrappongono alla fisionomia originaria. Infatti, a causa di terremoti e incendi si sono resi necessari interventi di restauro che hanno lasciato impronte rinascimentali e barocche nelle decorazioni. Tuttavia, gli affreschi della Cappella Brancaccio, opera di Pietro Cavallini, rappresentano una testimonianza pittorica di notevole pregio dell’epoca angioina. Commissionati nel 1309 essi raffigurano le storie di San Giovanni
Evangelista, la Crocifissione, Storie della Maddalena e gli Apostoli Pietro, Paolo e Andrea. Dallo stesso cortile dal quale si accede alla Chiesa è possibile raggiungere il Convento che ospitò San Tommaso d’Aquino che vi teneva le sue lezioni di Teologia. Al primo piano è possibile visitare la cella che gli appartenne e in cui è custodito l’originale dipinto miracoloso del Duecento. Il convento fu anche sede dell’Università nel periodo tra Cinquecento e Seicento prima di essere trasferita nella sede dell’attuale Museo Archeologico Nazionale. Basilica di Santa Chiara Proseguendo lungo l’arteria di Spaccanapoli, prima di giungere in Piazza del Gesù, si incontra il complesso monumentale di Santa Chiara. La prima pietra fu posta nel 1310 e l’intera opera richiese 18 anni di lavoro. La chiesa fu voluta da Roberto d’Angiò e sua moglie Sancha de Majorca entrambi devoti all’ordine francescano. Il complesso racchiude due chiostri: uno destinato alle Clarisse, in cui è possibile ammirare le splendide decorazioni delle maioliche del settecento, l’altro destinato ai monaci francescani. All’epoca della sua fondazione fu il primo esempio di convento in grado di ospitare sia un ordine monastico maschile che femminile. La struttura che vediamo oggi è priva delle settecentesche decorazioni interne in quanto la notte del 4 agosto 1943 un bombardamento la distrusse quasi 43
interamente e con la ricostruzione che ne seguì si cercò di ripristinare in maniera fedele le caratterristiche primitive. L’interno è caratterizzato da una grossa aula rettangolare, lunga più di 100 metri e priva di navate laterali, che nella sua linearità e semplicità ben riflette lo stile di vita francescano. All’interno del complesso sorge una piccola area archeologica in cui è possibile visitare i resti di un antico complesso termale rislaente al I sec d. C. e scoperto nel dopoguerra. Chiesa di San Pietro a Majella Proseguendo in Via San Sebastiano, se si imbocca Via San Pietro a Majella si incontra l’omonima chiesa con annesso convento che dal 1826 ospita il Conservatorio di musica. E’ interessante fermarsi ad ammirare il caratteristico portale marmoreo decorato con bassorilievi che riproducono vari strumenti musicali, quasi si trattasse di un arco d’accesso trionfale al tempio della musica. Chiesa e Conservatorio sono dedicati a Pietro Morrone, nome secolare di Papa Celestino V e denominata “a Majella”
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in ricordo del suo romitaggio sulla Majella. Il papa ricevette la sua nomina all’interno di Castel Nuovo un tempo sede di elezione papale, ma lasciò il pontificato passando alla storia come “il Papa del gran rifiuto”. Fu così che Dante Alighieri lo defini nella sua Divina Commedia. La struttura interna è interamente gotica ma spicca il soffitto barocco cassettonato in cui sono inserite dieci tele seicentesche di Mattia Preti raffiguranti Episodi della vita di San Pietro Celestino e Santa Caterina d’Alessandria. Tuttavia, del periodo trecentesco restano eleganti affreschi nella zona accanto all’altare come la celebre Madonna del Soccorso che ricorda l’iconografia delle Madonne di Simone Martini.
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L’oro di Napoli Le prossime vacanze estive? Le prenoto al cinema! Aumenta il turismo legato ai Set di Film e Romanzi Secondo una ricerca tra i principali tour operator internazionali, dal titolo ''Campania: nuovi itinerari turistici tra sentieri letterari e location cinematografiche'', condotta dalla Klaus Davi &Co. 4 turisti stranieri su 10 scelgono la meta della propria vacanza in Italia dopo aver visto un film o una fiction ambientate nel nostro Paese o per rivivere i luoghi e le atmosfere del proprio libro preferito. La top five delle mete preferite comprende, come è prevedibile, Roma, Venezia, i paesaggi Toscani, la Sicilia e la Campania. Quest'ultima è tra le regioni italiane che più beneficia del fenomeno, location di importanti produzioni cinematografiche internazionali (Mission Impossibile, Guerre Stellari nella reggia di Caserta), romanzi di successo (Il Talento di Mr Ripley in costiera amalfitana o Pompei di Robert Harris), fiction popolari (La Squadra, Un Posto al Sole, Capri e Capri 2, Gomorra la serie) e finanche giochi da tavola (impazza Pompei prodotto in Germania). La ricerca è stata presentata a Roma dall' 46
Assessore al Turismo della Campania Marco Di Lello, dal massmediologo Klaus Davi e della produttrice cinematografica e attrice Maria Grazia Cucinotta. Nel 2006, 41 milioni e 622 mila stranieri (dati dell'Ufficio Italiano Cambi) hanno visitato l'Italia anche grazie al cinema e ai romanzi. Secondo l Osservatorio Stampa Estera Nathan il Saggio, il trend è confermato da un'indagine su oltre 100 testate internazionali, dal 2005 al 2007, per individuare il grado di visibilità e di apprezzamento della Regione Campania nel mondo. Il New York Times ha pubblicato il titolo: "Leggi il libro e poi vedi dove è ambientato", affermando che aumenta l'offerta di itinerari turistici attraverso tour letterari. Il giornale spiega: A chi ha amato il Talento di Mr Ripley piacerà
sicuramente Il Giardino, una villa che si trova in costiera amalfitana . L'inglese Guardian non è da meno: Leggendo il libro o guardando il film di Anthony Minghella si viene trasportati indietro, ai tempi in cui questa zona era relativamente sconosciuta al turismo di massa. Commenta Di Lello - Riscontriamo sempre maggiori presenze di turisti stranieri e siamo pronti a sostenere ed investire sul cineturismo, grazie anche all'attività della Film Commission e al grande progetto degli Studios di produzione cinematografica che realizzeremo a Bagnoli. Da: http://qn.quotidiano.net Passeggiare per il Centro Storico, il Rione Sanità, i dintorni di via Foria, il Rione Materdei. Esplorare la pizzeria di Sofia Loren, i vicoli attraversati dal pazzariello Totò in L'oro di Napoli (V. De Sica, 1954), la chiesa spacciata per il Duomo in Operazione San Gennaro (D. Risi, 1966). Rivivere le emozioni di pellicole che hanno fatto la storia del cinema, quali Le quattro giornate di Napoli (N. Loy, 1962), Viaggio in Italia (R. Rossellini, 1953), Matrimonio all'italiana (V. De Sica,1964), Così parlò Bellavista (L. De Crescenzo, 1984), L'amore molesto (M. Martone, 1995) e molti altri ancora per poter rivivere le stesse emozioni delle pellicole scoprendo curiosità legate ai film. A SPASSO TRA IL CINEMA E LA REALTÀ: Da: i percorsi promossi dalla Mediateca Santa Sofia. Sul set delle Quattro giornate - Nei luoghi di Nanni Loy e del cinema napo-
letano. Le Quattro giornate di Napoli, condurranno in alcune delle location dell'omonimo capolavoro di Nanni Loy, del quale si ripercorrerà la genesi produttiva. Insieme ai set delle "Quattro giornate di Napoli" si visiteranno i luoghi legati ad altri film del grande regista, e quelli immortalati dagli autori italiani che hanno girato in città, in particolare nella zona di salita Pontecorvo. L’itinerario seguirà le tracce di tanti protagonisti, da Regina Bianchi a Sofia Loren, da Margherita Buy a Giancarlo Giannini. Con l’uso di fotogrammi saranno confrontati i luoghi reali con i luoghi cinematografici, e una particolare attenzione sarà rivolta alle testimonianze storico-artistiche del quartiere e agli aneddoti di questa parte della città. Oltre ai luoghi de “Le quattro giornate di Napoli”, si conosceranno location di film come l’indimenticato Pacco, doppio pacco e contropaccotto sempre di Loy, Giudizio universale di De Sica, l’emozionante Lo spazio bianco di Francesca Comencini, Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller.
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I SITI PIÙ SIGNIFICATIVI DEI CAPOLAVORI CINEMATOGRAFICI GIRATI A NAPOLI: Salita Pontecorvo, Le quattro giornate di Napoli (N. Loy, 1962), Questi fantasmi (R. Castellani, 1967), Lo spazio bianco (F. Comencini, 2009) Vico Cappuccinelle, Pacco doppio pacco e contropaccotto (N. Loy, 1993) Largo Tarsia, Le quattro giornate di Napoli (N. Loy, 1962) Accademia delle Belle Arti, Scugnizzi (N. Loy, 1989) Vico Lungo Trinità degli Spagnoli e via S. Maria Ognibene, location di "Operazione San Gennaro" Via S. Liborio, luoghi della commedia "Filumena Marturano" di Eduardo De Filippo Via Rosario a Portamedina, location de "Le quattro giornate di Napoli" via Pignasecca, location de "Lo spazio bianco" Piazza Carità, location di L’oro di Napoli, "Napoli violenta" Vico Lungo Teatro Nuovo location di “Teatro di guerra” Via Toledo filmata dai Fratelli Lumière Via Speranzella e Largo Barracche, location di "L’oro di Napoli" e "Via Toledo di notte" UN POSTO DOVE IL CINEMA E LA CITTÀ SI MESCOLANO: LA MEDIATECA SANTA SOFIA La Mediateca Santa Sofia è una struttura pubblica del Comune di Napoli - Assessorato Politiche giovanili, Servizio 48
Giovani e Pari opportunità. Conserva un vastissimo patrimonio audiovisivo (film, documentari, cortometraggi), una biblioteca di cinema e di letteratura legata al cinema, e una fonoteca, che rende fruibili, a titolo gratuito, nella forma del prestito e/o della visione, della consultazione, dell'ascolto in sede. Organizza e promuove iniziative culturali e formative in campo cinematografico. In particolar modo molto apprezzati sono i Movietour: nella sede dell'associazione, da sempre impegnata nella diffusione di una cultura cinematografica sul territorio Campano, vengono proiettate sequenze dei film interessati dal percorso; poi si scende tutti in strada a passeggiare. I movietour sono a piedi e hanno una durata di circa 2 ore: giunti sulle location dei set si e vengono mostrate foto e fotogrammi di scena per confrontare le immagini storiche della città con la realtà contemporanea. Aperti a tutti i Movietour sono un'occasione unica per ripercorrere alcune delle più importanti tappe della storia del grande schermo: dalle origini dei film muti in bianco e nero all'avvento del sonoro, dall'epoca del neorealismo all'avvento della commedia all'italiana, dal primo cinema
"impegnato" degli anni '70 fino ai nostri giorni, sullo sfondo di una Campania che per l'occasione è divenuta set privilegiato, efficace e originale. Un progetto che punta alla valorizzazione dei luoghi del cinema campano e delle risorse culturali e paesaggistiche del nostro territorio, con un occhio puntato però anche alla didattica: gli appuntamenti "Movietour Scuola - Napoli nel cinema" infatti, sono dedicati esclusivamente alle scuole che aderiscono all'iniziativa. Ogni venerdì, del mese di novembre, partendo dalla splendida cornice di Palazzo Reale a Napoli, vengono organizzate visite guidate allo scopo di avvicinare le nuove generazioni al patrimonio cinematografico partenopeo e ai suoi luoghi. I servizi offerti dalla Mediateca: La Mediateca Santa Sofia ospita un archivio audiovisivo, una biblioteca specializzata in cinema, spettacolo e narrativa legata al cinema, e una fonoteca. Prestito di audiovisivi, libri e cd. Visione, consultazione e ascolto in sede rispettivamente di film, libri e cd. Prestito per enti, scuole, associazioni, istituzioni. Prestito interbibliotecario. Utilizzo postazione internet. Utilizzo spazio per studio. Reference su cinema e spettacoli. Orari di apertura al pubblico: dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 19.00. Durante il mese di agosto: dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 15.00
Mediateca Santa Sofia: Via Santa Sofia,7 – Napoli Tel: 081/7953183 www.mediatecasantasofia.it I FESTIVAL CINEMATOGRAFICI A NAPOLI O’ curt Tra i più importanti eventi della Mediateca c’è sicuramente il Festival di cortometraggi ‘O Curt, la cui quattordicesima edizione, organizzata insieme da Mediateca Santa Sofia e Associazione Tycho, si svolgerà dal 19 al 22 novembre 2014, a Napoli, all’Istituto Francese di Via Crispi. Il festival è nato nel 1996. L’intento era quello di indagare nel mondo nascosto della produzione audiovisiva napoletana e campana. Non solo. Coerentemente con la natura e la funzione della Mediateca – quella di conservare e diffondere le opere cinematografiche –, premeva conservare, catalogare e rendere disponibile il materiale che si
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andava via via raccogliendo, formare dunque un archivio di cortometraggi napoletani (di autori e di ambientazione napoletani). Le prime otto edizioni si sono svolte come rassegna e non come concorso, proprio perché il raggio d’azione voleva essere molto ampio, si voleva cioè dare quanto più spazio possibile al maggior numero di filmaker, che non avevano altre opportunità. Nella stessa ottica si poneva il criterio della mancanza di monotematicità. Sin dall’inizio si è pensato inoltre di concedere uno spazio espositivo anche a quelle produzioni realizzate in ambito scolastico o di carattere sociale. Nel corso del tempo, a causa del gran numero di film che vi si iscrivevano, abbiamo dovuto operare una selezione sempre più stringente, sino ad arrivare, dalla nona edizione, ad introdurre una s e z i o n e c o n c o r s o . Già da prima però il raggio d’azione era divenuto più ampio, estendendosi alle produzioni audiovisive brevi nazionali ed internazionali, al cui interno trovavano spazio le diverse forme in cui il cortometraggio si declina (fiction, do-
cumentario, animazione, videoclip, film realzzati con attrezzature leggere). Nel corso degli anni, l’attenzione verso il festival di pubblico, stampa e autori cinematografici è andata via via crescendo, al punto che sono aumentate le giornate di proiezione; si sono moltiplicati gli spazi destinati alle produzioni indipendenti, comprese quelle di formato non breve, e si sono potuti accogliere anche lavori di registi affermati e in certi casi di maestri del cinema italiano (Vittorio De Seta e Ugo Gregoretti su tutti). Oggi ’O Curt, ripensando costantemente la propria natura di festival cinematografico, vuole essere luogo di raccolta, di incontro e condivisione di esperienze molteplici e sempre più diverse. E allo stesso tempo offrirsi come spazio e laboratorio aperto, che (ac)coglie le nuove tendenze e prova a intuire gli approdi futuri. La XIV edizione, dopo due anni di interruzione, si terrà nella storica sede dell’Institut Français di Napoli, dal 19 al 22 novembre, con un ricco programma di proiezioni brevi. Cinque le sezioni competitive, che comprendono, tra l’altro, un rinnovato interesse per il corto d’animazione e un’attenzione inedita verso le possibilità fornite dalle attrezzature “leggere” di ripresa. www.ocurt.it a novembre – varie sedi Il Napoli Film Festival Il Napolifilmfestival è un festival cinematografico nato nel 1996 ad opera dell’Associazione Culturale Napolicinema. L’obiettivo primario era quello di
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promuovere la crescita culturale in una città e, più in generale, in un area del Paese, il Mezzogiorno - storicamente povera di grandi eventi culturali – attraverso la conoscenza, il confronto e l’interscambio culturale del “Cinema” internazionale. Sin dalla prima edizione il Festival ha riscontrato un crescente successo di critica e di pubblico, grazie anche all’attenzione prestata alla platea internazionale degli addetti ai lavori, come testimoniano le presenze di autori ed interpreti provenienti da tutto il mondo: Stefano Accorsi, Alejandro Amenabar, Roberto Andò, Theo Angelopoulos, Michelangelo Antonioni, Renzo Arbore, Fanny Ardant, Pupi Avati, Enzo Avitabile, Lino Banfi, Marco Bellocchio, Lucas Belvaux, Bernardo Bertolucci, Cate Blanchett, Ferid Bougheidr, Margherita Buy, Renato Carpentieri, Maurizio Casagrande, Sergio Castellitto, Valentina Cervi, Joel ed Ethan Coen, Cristina Comencini, Paola Cortellesi, Ivan Cotroneo, Alessandro D’Alatri, Willem Dafoe, Aurelio De Laurentiis, Jonathan Demme, Vincent Dieutre, Matt Dillon, Giorgio Faletti, Abel Ferrara, Isabella Ferrari, Ralph Fiennes, Mike Figgis, Milos Forman, Vincent Gallo, Alessandro Gassman, Goutham Ghose, Giancar-
lo Giannini, Gipi, Tonino Guerra, Enzo Gragnaniello, Peter Greenaway, Robert Guediguian, Roberto Herlitzka, Stefano Incerti, Harvey Keitel, Mohamed Khan, Spike Lee, Daniele Luchetti, Cecilia Mangini, Vincenzo Marra, Francesco Maselli, Paul Mazursky, Frances McDormand, Pippo Mezzapesa, Giovanna Mezzogiorno, Giovanni Minoli, Pietra Montecorvino, Laura Morante, Ennio Morricone, Italo Moscati, Ornella Muti, Francesca Neri, Maurizio Nichetti, Ferzan Ozpetek, Babak Payami, Guido Pappadà, Marisa Paredes, Michele Placido, Sally Potter, Michaela Ramazzotti, Francesco Rosi, Isabella Rossellini, Sergio Rubini, Stefania Sandrelli, Carlos Saura, Riccardo Scamarcio, Giacomo Scarpelli, Pasquale Scimeca, Mrinal Sen, Peppe Servillo, Toni Servillo, Alessandro Siani, Paolo Sorrentino, Sergio Staino, Vittorio Storaro, Unni Straume, Istvan Szabo, Paolo e Vittorio Taviani, Julien Temple, Vincenzo Terracciano, Filippo Timi, Marisa Tomei, Giuseppe Tornatore, Jan Troell, Florestano Vancini, Paul Vecchiali, Paolo Virzì, Milena Vukotic, Sigourney Weaver, Edoardo Winspeare, Zhang Yimou. www.napolifilmfestival.com
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dal 29 all’8 ottobre - varie sedi
Venezia a Napoli “Venezia a Napoli. Il cinema esteso - IV ed.” è una rassegna cinematografica che nasce dalla collaborazione diretta con la Biennale di Venezia – Mostra Internazionale di Arte Cinematografica con lo scopo di promuovere la visione di film presentati alla Mostra nelle varie Sezioni (Concorso, Orizzonti, Giornate degli Autori, settimana dela Critica, Future Reloaded, Classici) e selezionati insieme al direttore Alberto Barbera, e gli incontri con i registi e gli attori in 8 sale cinematografiche di Napoli. La rassegna è promossa ed ideata da Parallelo 41 Produzioni ed AGIS Campania con il sostegno del MiBAC – Ministero Beni ed Attività Culturali, ed è realizzata in collaborazione con Università degli Studi (Federico II, L’Orientale, Seconda Università degli Studi di Napoli, Università La Parthenope, Istituto Suor Orsola Benincasa), Istituti di cultura stranieri (British Council, Istituto Cervantes, Institut Francais Le Grenoble, Goethe Institut Neapel). I cinema che ospiteranno le proiezioni sono: America, Vittoria, A-
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stra, Filangieri, La Perla, Metropolitan, Modernissimo, Pierrot, TAN, a testimonianza che tutta la città è coinvolta in questa operazione di diffusione della cultura cinematografica. www.veneziaanapoli.it dal 23 al 28 settembre – varie sedi A corto di donne A Corto di Donne è un festival di cortometraggi al femminile che si tiene nella città di Pozzuoli dal 2005. È organizzato dall'Associazione Culturale "Quicampiflegrei" e dal Coordinamento Donne Area Flegrea. La rassegna è dedicata alle filmmaker donne e ai loro cortometraggi, a tema libero, divisi in 4 sezioni: Animazione, Documentari, Fiction e Videoarte. www.acortodidonne.it ad aprile – varie sedi Astra doc Astradoc è oramai un appuntamento fisso a Napoli. Si tratta di una rassegna cinematografica organizzata ArciMovie e Università degli Studi di Napoli Federico II presso il cinema Astra di via Mezzocannone. E da quest’anno, in collaborazione anche con Parallelo 41 e Coinor ci presentano “Viaggio nel cine-
ma del reale”, una interessante rassegna di cinema documentario. www.arcimovie.it Tutto l’anno – cinema Astra Artecinema Artecinema è un Festival internazionale di film sull'arte contemporanea nato nel 1996 con l'obiettivo di far conoscere al grande pubblico le diverse espressioni dell'arte, attraverso una selezione di documentari sui maggiori artisti, architetti e fotografi della scena internazionale. Biografie, interviste, narrazioni montate con materiali d'archivio, permettono agli spettatori di addentrarsi nel mondo dell'arte seguendo gli artisti al lavoro nei propri atelier o dietro le quinte di importanti progetti o esposizioni. Ogni anno viene presentata una selezione di circa trenta documentari ricercati direttamente presso i registi e i produttori in tutto il mondo. Il programma è diviso in tre sezion i : A r t e e d i n t o r ni, Architettura,Fotografia. Le proiezioni sono in lingua originale con traduzione simultanea in cuffia e sono intervallate da incontri-dibattito con registi, produttori e artisti. Partecipano al festival più di seimila spettatori provenienti da tutto il territorio nazionale e dall'estero. Il Festival Artecinema è stato insignito di una medaglia di riconoscimento dal Presidente della Repubblica ed è patrocinato dalla Presidenza della Repubblica, dal Senato della Repubblica, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dal Ministero per
lo Sviluppo Economico, dal Comune di Napoli, dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Napoli, dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per Napoli e Provincia, dalla Soprintendenza Archivistica per la Campania, dal Consolato Generale degli Stati Uniti d'America, dall'Università degli Studi di Napoli "Federico II", dall'Accademia di Belle Arti di Napoli, dalla Fondazione Forum Universale delle Culture 2013, dall'Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Napoli e Provincia, dalla Fondazione Internazionale per gli Studi Superiori di Architettura. www.artecinema.com a ottobre – teatro Augusteo LE SALE IN CITTÀ AMBASCIATORI Via Crispi, 33 0817613128 | 1 Sala AMERICA HALL Via T. Angelini 21 0815788982 | 2 Sale ARCOBALENO Via Carelli, 7 0815782612 | 4 Sale ASTRA Via Mezzocannone 109 | 1 sala DELLE PALME MULTISALA Via Vetriera, 12 081418134 | 3 Sale FILANGIERI MULTISALA Via Filangieri, 43 0812512408 | 3 Sale LA PERLA MULTISALA Via Nuova Agnano, 35 (Ang. V.le Kennedy) 0815701712-2301079 | www.cineteatrolaperla.it | 2 Sale MED MAXICINEMA THE SPACE CINEMA 53
Via G. del Mediterraneo, 46 - Parcheggio 892111 | www.medusacinema.it | 12 Sale METROPOLITAN Via Chiaia, 149 081415562 - 899030820 | www.cinemetropolitan.it | 7 Sale MODERNISSIMO.IT Via Cisterna dell'Olio, 59 0815800254 | www.modernissimo.it | 4 Sale PIERROT Via A. Camillo De Meis 58 0815967802 | 1 Sala PLAZA MULTISALA Via Kerbaker, 85 0815563555 | 4 Sale VITTORIA Via M. Piscicelli, 8/12 0815795796 | www.cineclubvittoria.it | 1 Sala -------------------IL TEATRO NAPOLETANO Da: http://www.webalice.it/ galletta.vincenzo/TEATRO.html Il teatro napoletano è una delle più antiche e conosciute tradizioni artistiche della citta' di Napoli, e il suo contributo al teatro italiano è fondamentale. Le prime tracce di questa tradizione risalgono all'opera poetica di Jacopo Sannazaro che tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento recitava le sue farse alla corte angioina prima, aragonese poi. A livello popolare famoso in questo periodo è il Velardiniello, cantastorie di strada. Tra la fine dell'Ottocento e l'intero Novecento, il susseguirsi di due straordinarie generazioni di drammaturghi (Scarpetta, Di Giacomo, Bracco, Viviani, Eduardo) ha posto all'attenzione della cultura e del pubblico la singolare altezza drammaturgica del teatro na54
poletano. Il teatro napoletano preNovecento fu sostanzialmente legato alla maschera di Pulcinella. Pulcinella è un personaggio che rappresenta da sempre il modo tutto napoletano di vedere il mondo, è un personaggio di umile rango sociale che grazie alla sua furbizia e alla sua arte dell'arrangiamento riesce in qualche modo ad averla sempre vinta. Come affermò Benedetto Croce, Pulcinella più che una maschera fissa è una maschera il cui carattere è stato plasmato dai numerosi attori che l'hanno interpretata, l'hanno utilizzata come strumento di satira e critica politica. Metaforicamente quindi la maschera simboleggia la plebe napoletana che stanca degli abusi e delle umiliazioni ricevute dalla cinica classe alto media borghese, si ribella a questi disumani potenti, che hanno fatto di tutto per rendere nel corso dei secoli una vita dura e avversa al popolo partenopeo. Quindi Pulcinella essendo l’anima del popolo minuto rispecchia la voglia di rivincita di quest’ultimo. Importante per il teatro napoletano è il mo do in c u i Pul c in el l a vi ene 'rielaborato' a partire dall'Ottocento. L'ultimo e forse il più grande interprete di Pulcinella fu infatti Antonio Petito (1822-1876), che trasformò il personaggio di servo sciocco nel cittadino napoletano per antonomasia, furbo e burlonesco, modernizzandolo e permettendone cosi' la sua trasformazione ad opera di Eduardo Scarpetta. Egli ebbe il compito di impersonare nella compagnia di Petito il personaggio di Felice Sciosciammocca, supporter comico di
Pulcinella. Alla morte di Petito, e con la scomparsa del personaggio di Pulcinella, Scarpetta si fece interprete del cambiamento di gusti nel pubblico napoletano. Il teatro napoletano non era più "teatro di maschera" ma teatro di "carattere". Scarpetta quindi eliminò quindi definitivamente la maschera ormai obsoleta introducendo personaggi della borghesia cittadina che mantenessero però immutati i caratteri farseschi della tradizione. Sciosciammocca indossa un cilindro in testa, un abito a quadretti, il papillon, il bastone da passeggio, le scarpe lucide e usa un linguaggio imborghesito da “cocco di mamma”. Le sue commedie su Felice Sciosciammocca ottennero un enorme successo a Napoli e aprirono la strada al successo dei fratelli De Filippo. I TEATRI IN CITTÀ Sala Teatro Ichos Teatro Acacia Teatro Area Nord Teatro Augusteo Teatro Bellini Teatro Bolivar Teatro Bracco Teatro Cilea
Teatro De Poche Teatro Diana Teatro Elicantropo Galleria Toledo Teatro Il Piccolo Il Pozzo e il Pendolo Teatro Il Primo TIN - Teatro Instabile Sala Assoli Start - Interno 5 Teatro Le Nuvole Teatro Mercadante Nuovo Teatro Nuovo Nuovo Teatro Sanità Teatro Cabaret Portalba Teatro San Carlo Teatro Sancarluccio Teatro San Ferdinando Teatro Tasso Teatro Totò Teatro Trianon SALA TEATRO ICHOS Indirizzo: via Principe di Sannicandro 32/A, San Giovanni a Teduccio (Napoli) Tel. 335 765 25 24 – 081 27 59 45 S i t o w e b : h t t p : / / www.ichoszoeteatro.it/ Il gruppo Zoe si è formato circa vent’anni fa e in questo arco di tempo i suoi componenti hanno potuto acquisire una considerevole esperienza nel campo del teatro di strada, sperimentando nuove forme di spettacolo che coinvolgessero sempre più direttamente il pubblico. Un nuovo settore costituitosi da circa sei anni si occupa di teatro, con proprie produzioni e organizza rassegne stagionali nella Sala 55
Teatro Ichos che funge anche da sala concerto per gruppi musicali. Il nostro viaggio di questi anni nel teatro ha assunto un significato profondo, stabile e non occasionale. Un viaggio non solo nostro per fortuna e non imprigionato nelle quattro mura di uno spazio comunque angusto. È questa la sintesi del nostro modo di pensare il teatro. Su un binario tentativi e proposte di ricerca teatrale…sull’altro tentativi e proposte più legato alla tradizione, che vale per se stesso, per l’immenso valore che ha, e come ponte per consentire ad un pubblico non ancora abituato, di avvicinarsi ad una drammaturgia moderna e di ricerca senza restarne sopraffatto. Siamo un teatro giovane. Di periferia. Il solo in tutta la zona Orientale di Napoli. Faticosamente radicatosi sul territorio. Conosciuto. Apprezzato. Un piccolo teatro consapevole di sé, che conosce i propri limiti, che non vuole fare concorrenza ai teatri importanti ma che anzi lavora per essi. Un teatro giovane che conosce il proprio ruolo e assolve il proprio compito: indurre nelle persone bisogno di teatro. TEATRO ACACIA Indirizzo: via Raffaele Tarantino 10, Napoli Tel: 081 556 3999 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatroacacia.com/ Negli anni ’50, nel momento in cui Napoli si allarga nella zona collinare, il quartiere Vomero si estende improvvisamente : dalla centrale Piazza Vanvitelli, si scende a Piazza Medaglie d’Oro, dove ci sono soltanto due palaz56
zotti e una campagna nella quale, durante la guerra appena terminata, i tedeschi avevano posto un campo di concentramento, diventato poi degli a m e r i c a n i . Oltre si diramano soltanto le strade che portano giù in città; niente di più facile che sfruttare una zona così raggiungibile, con tanto spazio a disposizione e aria più leggera, per rispondere alla richiesta di abitazioni diventata sempre più pressante. Uno dei più noti costruttori del periodo che si avvia al boom economico è l’ingegnere Fernandez, lungimirante imprenditore napoletano; a lui si devono le tante costruzioni di quegli anni, tra le quali il palazzo in cui si inaugura il Cinema Teatro Acacia. L’epoca d’oro del cinema rende il locale uno dei più frequentati del Vomero sin dall’apertura; l’Acacia inizia una stagione di successo, e negli anni ottanta affianca alla normale programmazione cinematografica, anche un cartellone teatrale. Ma è solo nel novembre del 2005 che l’Acacia viene trasformato definitivamente in teatro, rispondendo all’esigenza del pubblico di un nuovo punto di riferimento culturale al Vomero: l’elegante sala dell’Acacia, con 676 posti di platea e 225 di galleria, completamente restaurata per adattarla alle esigenze tecniche, risponde alle aspirazioni di svago del pubblico. La programmazione del Teatro Acacia segue quelle che sono le preferenze degli spettatori, desiderosi di distrarsi e divertirsi, mantenendo però sempre un target di alta qualità e non tralasciando di dare ampio spazio
alle novità e ai giovani. Dalla commedia musicale alla prosa, dal musical al cabaret, dall’operetta ai concerti, l’Acacia propone al suo pubblico il meglio che il panorama dello spettacolo offre. TEATRO AREA NORD Indirizzo: via Nuova Dietro la Vigna, Lotto, 14/B, Napoli Tel: 081 195 71 331 Sito web: http:// www.liberascenaensemble.it/ TEATRO AUGUSTEO Indirizzo: piazzetta Duca d’Aosta 263, Napoli Tel: 081 414 243 - 081 405 660 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatroaugusteo.it/ Negli anni dopo la prima guerra mondiale Napoli conobbe un grande sviluppo edilizio, soprattutto verso una zona sino ad allora considerata fuori centro, la collina del Vomero; si sentì dunque il bisogno di collegarla al centro cittadino, e fu studiato un grande progetto per creare una funicolare che avrebbe in pochi minuti trasportato un congruo numero di persone. Per ottenere lo spazio necessario allo stazionamento di questa funicolare, fu abbattuta una parte di Palazzo Berio, storica costruzione del ‘600, con facciata ridisegnata dal Vanvitelli nella seconda metà del ‘700. Il famoso architetto, in occasione del battesimo della Infanta Reale Carolina, vi aveva costruito un salone da ballo e un teatro di 1600 posti, conservandone la pianta a forma circola-
re. Ragioni ereditarie portarono al decadimento e alla vendita del palazzo, ma si suppone che nel creare la piazzetta antistante la Funicolare si sia conservata una parte di esso. Il teatro, prima opera in cemento armato dell'ingegnere Pier Luigi Nervi, su progetto dell'architetto Arnaldo Foschini coadiuvato dall'ingegnere Gioacchino Luigi Mellucci, è nato nella omonima piazzettacreata pochi anni prima per creare uno sbocco al traffico della neonata funicolare Centrale, che collega il Vomero a via Toledo, ed è situato proprio sopra la Funicolare, come si ipotizza fosse l'antico teatro vanvitelliano. L’Augusteo, come la Funicolare Centrale, fu dunque realizzato tra il ’26 e il ’29, ed ha una struttura circolare con diametro di 30 metri e il centro del soffitto apribile ; sia quest’ultimo che la scala mobile dell’epoca sono stati rimessi in funzione durante la ristrutturazione curata da Pippo Caccavale tra il ’90 e il ’92. Seguita dal Ministero dei Beni Culturali, questa ristrutturazione ha riportato il locale allo splendore iniziale, demolendo la controsoffittatura che 57
nascondeva la volta di Nervi e le architetture “modernizzanti” che ne avevano completamente stravolto l’aspetto, come le pareti dell’ingresso in marmo rosso tutte coperte da pittura plastificata e i palchi murati, caratteristica di Nervi che usava tecniche d’avanguardia su progettazioni di stampo tradizionale. Il teatro è simmetrico, riecheggiante i teatri a palchi del ‘700, pur essendo dotato di ogni comfort moderno per l’epoca, come scala mobile, ascensori, impianto di aria condizionata, lucernario centrale della volta scorrevole. La sala fu aperta al pubblico nel novembre ’29, con una serie di colossal (il cinematografo era allora la nuova forma d’arte...) accompagnati naturalmente da orchestra, essendo il cinema ancora muto; rivelò subito di avere una struttura destinata alla musica, secondo la studiata realizzazione architettonica, e ospitò i nomi celebri quali Tito Schipa, Beniamino Gigli, Giovanni Martinelli, oltre a tutti i grandi della canzone napoletana ; nel gennaio del ’30 fu proiettato il primo sonoro, e le “estive” presentarono concerti, balletti, music hall, fino alla Piedigrotta in cui le case editrici presentavano la nuova produzione di musica leggera, e che divennero un’abitudine storica per la città. Divenuto ormai un teatro famoso, l’Augusteo ospitò la grande Joséphine Baker con il balletto del Casino di Parigi, le riviste di Isa Bluette e Nuto Navarrini, e, dal ’34, la prosa con Sergio Tofano ed Elsa Merlini, la rivista con Totò, la canzone con la “Bottega dei quattro” (Libero Bo58
vio,Nicola Valente, Gaetano Lama ed Ernesto Tagliaferri), cui si aggiunse Ernesto Murolo. Fu la guerra a far chiudere l’Augusteo, che riaprì con gli “alleati” nel ’45 come club della Croce Rossa, e nel ’50 subì l’onta della ristrutturazione “moderna”, divenendo cinema del centro adatto a films di cassetta ; e fu chiuso definitivamente nell’80. Fu richiesto qualche anno dopo come spazio per un supermercato, e soltanto chi lo vede oggi dopo la ristrutturazione può comprendere quanto grave per la città sarebbe stata questa richiesta; il caso ha voluto che la nuova gestione di Francesco Caccavale, dopo una trattativa durata circa tre anni con la Società proprietaria, intervenisse drasticamente sulla storica sala, ponendola come primo intervento sotto l’attenzione del Ministero dei Beni Culturali, e riportandola, in un paio di anni di lavori diretti dall'arch. Pippo Caccavale, alla sua naturale funzione di sala d’arte, ormai soltanto teatro, anche se può ospitare, essendo attrezzato, serate cinematografiche d’eccezione. Sin dal primo anno la gestione ha curato particolar-
mente la qualità degli spettacoli in programmazione, creando un naturale gemellaggio con il Sistina di Roma per la capienza della sala, ma non trascurando la prosa; il pubblico segue con interesse le proposte del cartellone in abbonamento (circa 10.000 abbonati) ma anche i concerti di musica classica e leggera. L’Augusteo si pone anche come sede di congressi e meetings. TEATRO BELLINI Indirizzo: Via Conte di Ruvo, 14 Tel: 081 549 1266 Sito web: www.teatrobellini.it Dedicato al celebre compositore, è nato come teatro di prosa nel 1864 all’inizio di via Bellini. Dopo solo cinque anni un incendio lo distrusse, e il Bellini che conosciamo ancora oggi è risorto non molto distante dalle sue ceneri, in via Conte di Ruvo, nei pressi di Piazza Dante, di fronte all’Accademia delle Belle Arti. Per la sua nuova inaugurazione nel 1878 furono dati “I Puritani” e “I Cavalieri” di Vincenzo Bellini, indicando la sua destinazione nel teatro lirico. Calcarono le sue scene Sara Bernhardt, Eleonora Duse. Negli anni Sessanta del Novecento sembrò scomparire, diventando un cinema. Fino al 1988, quando con la rappresentazione dell’”Opera da tre soldi” di Brecht tornò, e ancora resta, uno dei teatri più importanti della città. TEATRO BOLIVAR Indirizzo: via Bartolomeo Caracciolo 30, Napoli
Tel.: 081 544 26 16 Sito web: www.teatrobolivar.com Su concept architettonico di Robert Wilson detto “Bob” prende vita il teatro Bolivar. Inaugurato ad Aprile 2007 da Gino Paoli il teatro ospita compagnie teatrali nazionali, locali ed amatoriali, dispone di una platea di 360 posti ed è dotato di impianto audio, luci e video. La vocazione, oltre ad essere teatrale è anche musicale, ad oggi e solo per citarne alcuni, artisti del calibro di Califano, Bobby Solo, Giacomo Rondinella, Marco Masini, Fabio Concato, Clementino, Rocco Hunt hanno calcato le tavole del palcoscenico, ma il nostro punto di forza sei TU! siamo aperti a tutto e tutti, il nostro motto è e resta: L’ARTE LIBERA….LIBERA L’ARTE. La direzione artistica della struttura è affidata al Maestro Salvatore Palumbo detto “Sasà”. TEATRO BRACCO Indirizzo: via Tarsia 38, Napoli Tel: 081 564 53 23 Sito web: http://www.teatrobracco.it Forse non tutti sanno che il Teatro Bracco sorge sui resti di un antico palazzo principesco. Una sorta di reggia, con tanto di biblioteca, pinacoteca, gabinetto delle scienze e della chimica, osservatorio astronomico e, addirittura, un serraglio. Si tratta di Palazzo Tarsia, storica dimora del principe Spinelli, Ferdinando Vincenzo, che lo desiderò fortemente per offrire una prova di 59
forza, fatta di lusso e ricchezza, alla nobiltà del tempo. Nato dall’ampliamento di una preesistente casa palaziata, che si può far risalire al XVI secolo, oggi questo magnifico monumento è un condominio ferito dal tempo e sito al numero 2 di Largo Tarsia. Per comprendere appieno i passaggi che hanno portato alla costruzione di un teatro, lì dove era previsto un enorme e sfarzoso parco con giardino, bisogna andare indietro nel tempo e, precisamente, al periodo che va dal 1737 al 1740. È di questi anni, infatti, l’incisione su rame di Antonio Domenico Vaccaro, noto architetto barocco, al quale il Principe di Tarsia volle affidare il progetto per la trasformazione della sua preesistente casa palaziata in un maestoso tempio del lusso. Un progetto ambizioso, forse troppo, che richiederà sacrifici economici enormi, tanto da prosciugare più volte le casse della nobile famiglia Spinelli e far cessare del tutto, dopo la morte dell’ispirato principe Ferdinando Vincenzo, i lavori. Oltre alla struttura principale, sulla cui facciata ancora oggi campeg-
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gia solenne lo stemma di famiglia, l’architetto Vaccaro progettò un loggiato dinanzi al Palazzo, con di fronte un enorme e fastoso giardino pensile. La vicenda che accompagna la trasformazione della “magnifica” residenza del principe è stata poco affrontata dalla storiografia artistica, a causa soprattutto delle scarse fonti storiche. Si deve, tuttavia, al saggio di Elena Manzo, La merveille dei principi Spinelli di Tarsia, la ricostruzione filologica di uno dei più importanti episodi architettonici napoletani del Settecento. Sulla scorta di un’attenta esegesi documentaria, di sopralluoghi e attenti confronti cartografici, è infatti stato dimostrato come il progetto di Vaccaro, ritenuto mai condotto a termine, fosse stato realizzato fino alla costruzione delle due grandi rampe di accesso, cioè fino al superbo giardino antistante il loggiato. Questa inedita acquisizione, ha ribaltato una consolidata opinione al punto che, oggi, sappiamo che il Teatro Bracco fu realizzato dove prima vi era il parco del Palazzo; con il palcoscenico
all’altezza dell’esedra. Conclusasi poi l’esperienza degli Spinelli a Tarsia, il Consiglio Edilizio bandì, nel 1840, un concorso per architetti napoletani con la finalità di costruire un mercato in corrispondenza della porta del maestoso parco, il varco da cui le carrozze accedevano a corte. Ecco cosa scriveva il succitato organismo nel febbraio di quello stesso anno: L’area destinata a mercato sarà quello spazio ch’è compreso dalla calata Tarsia, strada fuori Porta Medina, vico casa di D. Tortora, e casa di D. Gaetano Casalduna. Inoltre, il mercato doveva essere diviso in tre parti. La prima e più elevata da destinare alla vendita degli “erbaggi, ortaglie e frutta”, con poche botteghe. La seconda, con più locali, per le carni ed una terza da adibire a pescheria. Quest’ultima solo con “luoghi converti e non botteghe”. Previsti anche “più ingressi”, comunque “non al di là di tre” ed una forma esterna fatta “simmetricamente alle vie limitrofe, serbando a queste però la conveniente larghezza”. D’ora in avanti, dunque, si procederà alla realizzazione di un mercato. Il progetto sarà affidato a Ludovico Villani, architetto vincitore del concorso. Tuttavia, ad edificio terminato, i venditori si rifiutarono di trasferirsi all’interno dello stabile, tenuto anche conto del fatto che le massaie e i cittadini dimostravano di preferire i banchi dei vicini mercati di Monteoliveto e Pontecorvo.Lo stabile fu quindi destinato ad altro uso. Nella Biblioteca nazionale di Napoli e presso l’Archivio storico municipale, sono cu-
stoditi i documenti originali, disegni e carte (una selezione è pubblicata nella pagina successiva, N.d.A), che testimoniano come la struttura da mercato fu pr i m a ad i bi t a a s al a p er l’esposizione della “solenne” Mostra industriale del 1853 e, quindi, a sede del Reale Istituto d’Incoraggiamento. Si penserà di trasformare parte dell’edificio in un teatro soltanto agli inizi del secolo scorso. Bisognerà aspettare, infatti, il 1929 per la costruzione da parte del Dopolavoro provinciale, in piena epoca fascista, di quel teatro sorto sul luogo dell’antica “Sala Tarsia” e diventato oggi il Bracco. TEATRO CILEA Indirizzo: via San Domenico 11, Napoli Tel: 081 714 18 01 Email : info@teatrocileanapoli.it Sito web : www.teatrocileanapoli.it Il Teatro Cilea di Napoli comincia la sua fortunata carriera sul finire degli anni '70 dello scorso secolo quando il grande Mario Scarpetta decise di creare una “Compagnia stabile” di recitazione nella sala vomerese. Tra le opere rappresentate più apprezzate di quegli anni fu proprio la famosa scarpettiana e cioè alcune delle opere del grande commediografo napoletano Eduardo Scarpetta, interpretate proprio da suo nipote Mario, la conferma del grande successo è rintracciabile ancora oggi nelle teche della RAI, che volle videoriprendere tali spettacoli per poterli poi trasmetter in televisione e farne quindi successivamente videocassette 61
hometeatre-, tra l'altro vendutissime. Proprio in queste riprese è piacevole notare come sia possibile ritrovare proprio la C simbolo del Teatro Cilea sulla buca del suggeritore, quasi a suggellare il connubio tra l'artista e questo teatro che tanto l'amò. Fu solo il terremoto dell''80 ad interrompere le recite di “Miseria e nobiltà” in quel momento in scena. Dopo pochi anni si ripresero le rappresentazioni, ma questa volta al teatro fu dato un nuovo respiro e sul palco si alternarono artisti e opere del nuovo teatro napoletano, per citarne solo alcuni; Vincenzo Salemme, Biagio Izzo, Francesco Paolantoni etc. Assieme a questi recitarono sul bel palco anche alcuni degli artisti nazionali che proprio in quegli anni portarono avanti un nuovo discorso di comicità, spesso legato alla critica sul sociale e sugli avvenimenti politici, tra gli altri furono nostri ospiti Paolo Rossi, Paolo Hendel, Alessandro Bergonzoni etc. Fu invece il nuovo millennio ad ispirare nuovamente un cambio di direzione e scelte artistiche per il Teatro Cilea. si cominciò così a procedere ad un nuovo e mirato recupero della tradizione napoletana
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lasciando però sempre spazio all'interpretazione di giovani attori, si alternarono quindi sul palco attori giovani di talento e vere e proprie pietre miliari della nostra tradizione tra gli altri citiamo: Mario Merola, Peppe Barra Oscar Di Maio, Benedetto Casillo etc. È così che si diede il via anche a tutta una serie di concerti musicali promossi dal Teatro Cilea che ponevano l'attenzione oltre che sulla nostra autoctona tradizione propriamente drammaturgia e recitativa, anche sulla egualmente importante tradizione di scrittura ed interpretazione di canzoni; canzoni napoletane, che sono diventate nei secoli veri e propri simboli della città oltre che della nazione tutta. Questa direzione è stata quindi fortemente voluta e confermata anche per la stagione teatrale 2007/8. Il primario obbiettivo che il Teatro Cilea si è proposto per quest'anno è quello di recuperare alcune tappe fondamentali del nostro tessuto storico con il tentativo di recupero del teatro “popolare”. Puntando dunque al binomio, innovazione - tradizione, con la prima al servizio della seconda, accanto quindi a nuove tecniche di promozione dell'attività teatrale l'obbiettivo è quello di rilanciare la grande tradizione napoletana ed è così che il doppio binario di quest'anno ha proposto da un lato rappresentazioni che vedono coinvolti grandi attori della tradizione come: Peppe Barra, Patrizio Trampetti, Gigi Savoia, Sergio Solli, Mario Brancaccio, Maria Basile, Benedetto Casillo, Oscar Di Maio. dall'altro si affiancano a questi delle nuove leve,
pur già con ragguardevole esperienza come; Gianfranco Gallo, Massimiliano Gallo, Ciro Ceruti, Rosario Verde. Inoltre attività parallele legate ad incontri liberi su disquisizioni di carattere puramente teatrale e musicale e l'attività del progetto teatro scuola, hanno ancora una volta confermato il successo della bella platea di Via San Domenico. TEATRO DE POCHE Indirizzo: via Salvatore Tommasi 15, 80135 Napoli Tel. e Fax: 081 549 09 28 Sito web: www.theatredepoche.it TETARO DIANA Indirizzo: via Luca Giordano, 64 Tel: 081.5567527 – 081.5784978 Sito web: http://www.teatrodiana.it/ Nell'anno 2003 il Teatro Diana ha festeggiato i settanta anni, infatti fu il 16 marzo 1933 che venne inaugurata la sala vomerese dall'allora principe di Piemonte, Umberto di Savoia alla presenza dei numerosissime autorità cittadine. Fu Giovanni De Gaudio che pensò di aprire un teatro sulla collina di Napoli, dove il verde andava scomparendo per far posto al nuovo quartiere. Grandi artisti si alternarono sul palcoscenico vomerese: Ermete Zacconi, Maria Melato, Armando Falconi, Irma ed Emma Grammatica, Paola Borboni, Elsa Merlini, Vincenzo Scarpetta. Raffaele Viviani vi portò le sue commedie ricche di umanità e fu al Diana che avvenne la rottura definitiva tra Eduardo e Peppino De Filippo. Vi debuttarono le prime
scintillanti riviste di Totò, Macario, Dapporto, Rascel, Wanda Osiris, Isa Bluette, Walter Chiari. Poi ai gloriosi esponenti della vecchia leva s'integrarono altri valentissimi interpreti: Nino Taranto, Carlo e Aldo Giuffrè, Luca e Luigi De Filippo, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Lionello, Alberto Sordi, Aroldo Tieri, Giorgio Albertazzi, Giuliana Lojodice, Valeria Moriconi, Anna Proclemer, Mariano Rigillo, Leopoldo Mastelloni, Glauco Mauri, Isa Danieli, Gabriele Lavia, Giuseppe Patroni Griffi, Dario Fo e Franca Rame, Giacomo Rizzo, Giorgio Gaber. Ed è sul palcoscenico del Diana che Marcello Mastroianni ha recitato le sue "Ultime Lune" e Pupella ha dato il suo addio al teatro con la presentazione del suo libro "Poca luce in tanto spazio". Oggi ci sono i nuovi straordinari attori del teatro italiano: Vincenzo Salemme, Cristian De Sica, Silvio Orlando, Marina Confalone, Lina Sastri, Giuliana De Sio, Leonardo Pieraccioni, Mergherita Buy, Luca Zingaretti, Nancy Brilli, Massimo Dapporto, Claudia Koll, Gino Rivieccio,
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Luca Barbareschi, Giulio Scarpati. Così come è stato per gli attori, pure nell'impresariato del Diana s'è verificato il ricambio generazionale. Ed il posto che fu del suo fondatore Giovanni De Gaudio, è adesso occupato col massimo impegno dalla figlia Mariolina e da suo marito Lucio Mirra. Infatti sotto la loro guida il Teatro Diana ha vinto 8 "Biglietti d'Oro" oltre a numerosissimi premi ed attestati. Negli ultimi tempi anche la terza generazione si va affiancando ai genitori e sono Guglielmo, Gianpiero e Claudia, che continuano il lavoro con entusiasmo e competenza. Il Teatro Diana è l'unico in Italia che da settant'anni viene gestito ininterrottamente dalla stessa famiglia con grande professionalità, sempre cercando di promuovere le più interessanti stagioni teatrali. TEATRO ELICANTROPO Indirizzo: vico Gerolomini 3, Napoli Tel: 349 19 25 942 (mattina) – 081 29 66 40 (pomeriggio) Email: promozionelicantropo@libero.it Sito web: www.teatroelicantropo.com Il Teatro Elicantropo di Napoli nasce nel 1996 in Vico Gerolomini n. 3, in uno stabile del seicento che una volta era parte integrante del complesso dei Gerolomini, diretto da Carlo Cerciello, attore e regista, dall’attrice Imma Villa e da Pierpaolo Roselli e prosegue la sua attività, senza sovvenzioni ministeriali, dedicando le sue stagioni teatrali alla drammaturgia contemporanea italiana ed europea, valorizzando il lavoro di 64
autori, attori, registi, scenografi, costumisti, tecnici, recuperando un rapporto diverso, più diretto ed immediato con il pubblico, continuando a puntare, cioè, sull’intelligenza e sulla sensibilità di coloro che non hanno ancora rinunciato alla riflessione e al sentimento. In questi quindici anni di attività ha confermato con coerenza e tenacia, la sua vocazione ad un teatro politico di impegno civile e sociale, rivolto al contemporaneo, alle tragedie dei nostri tempi. GALLERIA TOLEDO Via Concezione a Montecalvario 34, Napoli Tel. 081 425037 S i t o w e b : h t t p : / / www.galleriatoledo.org/ TEATRO IL PICCOLO Indirizzo: piazzale Vincenzo Tecchio 3, Napoli Tel 081 5932381 Email: Info@teatroilpiccolonapoli.it IL POZZO E IL PENDOLO Indirizzo: Piazza San Domenico Maggiore 3, Napoli
Tel: 081 542 2088 Sito web: www.ilpozzoeilpendolo.it IL PRIMO Indirizzo: viale Privato del Capricorno 4, Napoli Tel: 081 592 18 98 Sito web: http://www.teatroilprimo.it Il Teatro Il Primo nasce nel 1998 sulle ceneri di una fabbrica di pellicce oramai in disuso come naturale conversione da una sinistra "fabbrica di morte" in una "fabbrica di idee". Inaugurato il 15 ottobre di quello stesso anno da Anna Mazzamauro, deve la sua nascita all'attuale Direttore Artistico, il poetadrammaturgo Arnolfo Petri e all'attore -regista Rosario Ferro. Nato inizialmente dall’esigenza di rispondere alle pressanti necessità culturali della vasta zona collinare della città, sprovvista di qualsiasi polo di aggregazione culturale, in pochi anni si è imposto all’attenzione per il livello degli eventi culturali e dei personaggi che ha ospitato. Sul suo piccolo palcoscenico si sono avvicendati dal 1998 ad oggi artisti del calibro di Ugo Pagliai, Paola Gassman, Angela Luce, Lucia Poli, Miranda Martino, Oreste Lionello, Marina Malfatti, Isa Danieli, Enzo Moscato, Antonio Casagrande, Mario Scarpetta, Ottavia Piccolo e molti altri. Sede di una Accademia di alta formazione per la figura dell’attore, diretta dallo stesso Petri, il Teatro Il Primo ospita due Compagnie professionistiche, la Compagnia Bianca Sollazzo, dedicata al teatro di tradizione e
diretta da Rosario Ferro, e la Compagnia Arnolfo Petri, diretta dallo stesso Petri ed incentrata sul grande teatro contemporaneo di impegno civile. Da cinque anni, Arnolfo Petri vi organizza la Rassegna di livello nazionale “Teatri di un dio minore”, dedicata al teatro di impegno civile e morale. Per anni è stata sede anche di Identitaria - Teatri dell'eros e dell'identità, la prima Rassegna di cultura omosessuale al sud. Ospita annualmente, inoltre, il premio Nike per il Teatro, assegnato dalla critica teatrale cittadina alle produzioni teatrali napoletane che si siano particolarmente distinte nella stagione teatrale in corso. TIN Indirizzo: vico Purgatorio ad Arco 38, Napoli Tel: 338 473 1271 S i t o w e b : h t t p : / / teatroinstabile.ning.com/ SALA ASSOLI Indirizzo: via Montecalvario 16 Telefono 081.19563943 S i t o w e b : h t t p : / / www.fondazionesalernocontemporanea .it/contatti/ START Indirizzo: via San Biagio dei Librai 21, Napoli Tel: 081 551 49 81 – 349 877 38 81 Sito web: interno5teatro.it L'associazione 65
cultura-
le Interno5, fondata nel 2003 da cinque giovani professionisti napoletani(tutti al di sotto dei 35 anni) impegnati a vario titolo nel campo teatrale, si occupa di organizzare, promuovere e produrre attività legate allo spettacolo dal vivo: realizzazione di laboratori e percorsi di formazione, organizzazione di rassegne, produzione esecutiva e distribuzione di spettacoli di danza, teatro e arti performative. L'attività di Interno 5, inizialmente orientata alla creazione artistica, in seguito si è concentrata su azioni innanzi tutto organizzative, con l'obiettivo primario della promozione della cultura teatrale a Napoli. Oltre a numerosi spettacoli, Interno 5 produce e organizza alcune rassegne di spettacolo dal vivo e workshops di alto perfezionamento per attori : dal 2005 dirige, produce e organizza a Napoli il Festival Internazionale dell'Attore ideato e fondato da Paolo Coccheri, mentre ha diretto, prodotto e organizzato, nel 2006, 2008, 2009 e 2011 MoviImentale, rassegna di danza e video-art.Ha curato per il Napoli Teatro Festival Italia nel 2008 la produzione esecutiva di Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo di Enrique Vargas e Vedrai andrà tutto bene di Monika Pormale; per la seconda nel 2009 la p r o g r a m m az i o n e d eg l i i n c o n t r i d’artista e l’organizzazione e produzione esecutiva dell’edizione sperimentale di E45,il primo Fringe Festival del Sud Europa. Nel 2010 ha curato e organizzato la prima edizione ufficiale di E45 Napoli Fringe Festival in collaborazione con la Fondazione Campania dei Festi66
val. Nel 2010 è stata incaricata dal Comune di Montalcino (Siena) di dirigere ed organizzare la XXXI edizione del Festival Internazionale di Montalcino “a memoria di nuovo”. Ha diretto, prodotto e realizzato le rassegne INPALCOTOUR e SPREMITOUR presso lo spazio S T A R T [SanbiagioTheaterandperformingARTs] di Napoli, che gestisce da due anni. Distribuisce e coproduce alcune giovani compagnie indipendenti. É attualmente impegnata nella coproduzione, in collaborazione con LUDWIG officina dei linguaggi contemporanei, dello spettacolo FRATEME diretto da Benedetto Sicca che ha debuttato nel mese di giugno 2011 al Festival Primavera dei Teatri in anteprima e al Festival delle Colline Torinesi e che ha replicato a settembre a Benevento nell’ambito di Benevento Città Spettacolo. Interno5 ha inoltre collaborato e collabora con alcune tra le più importanti istituzioni culturali e teatrali Italiane ed europee: Fabbrica Europa per le Arti Contemporanee,
Fondazione Teatro Vittorio Emanuele di Noto, Pontedera Teatro, Rencontres Choreographiques - Parigi, Muzeum Lubyiana, Accademia del teatro del cinema e della televisione di Kief, Teatro d’Arte di Mosca, Teatro de los Sentidos, Istituto Grenoble -Napoli, Goethe Insitut-Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, CDTM Circuito Campano della Danza, Museo MADRE, Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo, Mercadante Teatro Stabile di Napoli. L’associazione è stata partner del progetto europeo FOCUS ON ART AND SCIENCE. Nel corso degli anni sono stati ospiti, tra gli altri, dalle rassegne e dai festival organizzati da Interno5 i seguenti artisti: Ferruccio Soleri, Jerzy Suhr, Franco Scaldati, Nicolaij Bogdanov, Anton Milenin, Laura Curino, Cesar Brie, Giorgio Barberio Corsetti, Chiara Guidi, Isa Danieli, Nikolaij Skorik, Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, Enrique Vargas, Saverio La Ruina, Bruno De Franceschi, Matteo Tarasco, Acushla Bastible, Luca Scarlini, Nicole kehrberger, Michele Andrei, Gianfranco Berardi, Benedetto Sicca. Nel 2011 ha curato la seconda edizione di E45 Napoli Fringe Festival, la direzione e l’ organizzazione del XXXII Festival Internazionale del Teatro di Montalcino, e la IV edizione di Movimentale, festival di danza e video arte. Si appresta a dare il via ad una nuova stagione creativa presso lo spazio START. START vuol dire inizio, partenza. START è la casa di Interno5, un gruppo costituito da giovani professionisti nel campo del teatro, della danza contemporanea e delle arti per-
formative che dal 2003 si occupa di ideazione, realizzazione e produzione di progetti artistici e culturali. START è per Interno5 una seconda partenza, un secondo inizio, la base delle proprie attività il luogo fisico che prima non c’era. START è anche acronimo di SanbiagioTheaterandperformingARTs perché si pone l’obiettivo di ospitare creazioni teatrali e di arti performative attraverso residenze creative, e cioè ospitando artisti emergenti ed affermati, che producano utilizzando gli spazi dello START lavori site-specific, pensati nello START e per lo START, traendo così anche ispirazione dal contesto urbano in cui lo spazio si trova,il centro storico di Napoli,l’antica San Biagio dei Librai, il cinquecentesco Palazzo Diomede Carafa. START è sede di workshops, laboratori,di studio pratico e teorico su Teatro e arti performative. SAN FERDINANDO Indirizzo: piazza Eduardo De Filippo 20, Napoli Tel: 081 291 878 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatrostabilenapoli.it/ Da: Giulio Baffi, Teatri di Napoli. Origini, vicende, personaggi e curiosità dei teatri di prosa, Roma, Newton Compoton, 1997, pp. 55 – 60. Al San Ferdinando si giunge percorrendo tutta via Foria, lasciandosi alle spalle il popolare quartiere della Sanità, quello in cui nacque Totò, quello in cui 67
Eduardo fece vivere tanti suoi personaggi, quello i cui suoni ed i cui colori ispirarono la scrittura di questo grande autore ed attore. Si prosegue avanti, verso le palme dell'Orto Botanico, fiancheggiando palazzi malandati i cui cortili celano magnifici giardini segreti semiabbandonati. Si passa oltre la mole severa della Caserma Garibaldi e […] la via Fridiano Cavara […]. La traversa successiva è via Giuseppe Antonio Pasquale, in fondo vi si vede la sagoma del Teatro […]. Eduardo aveva aperto il suo teatro ricostruendone le macerie acquistate subito dopo la guerra. Voleva saggiamente far rivivere la storia di un teatro glorioso e popolarissimo, sorto nel cuore della sezione Vicaria alla fine del millesettecento. La data dell'apertura dell'antico Teatro San Ferdinando, chiaramente dedicato al Re Borbone, non trova concordi tutti gli storici. Benedetto Croce la fissò al 1790 mentre Vittorio Viviani dice della sua inaugurazione nella stagione invernale 1797-98. A Promuovere la costruzione del nuovo teatro fu secondo Benedetto Croce il notaio Gaetano Francone in società con Pasquale Pignata e Giuseppe Di Giovanni, attori del San Carlino, Vittorio Viviani l'attribuisce invece al principe Ripa Francesconi di Columbrano, mentre Giovanni Artieri sostiene che fu costruito per volontà dei principi Ripa Franconi di Colobrano, Fiorino, Santobuono e Torchiarolo. Una leggenda popolare invece vuole che il teatro sia stato fatto costruire per volontà dello stesso re Ferdinando IV, Re nasone , unitamente ad un pa68
lazzo in cui alloggiare una sua figlia malata e bisognosa dell'aria salubre di quei siti lontani dalla città, o addirittura per una sua amante. Certo è che quando il 4 agosto del 1790 fu proposto chiamare futuro edificio Teatro Ferdinando IV la Deputazione dei Teatri diede parere negativo sentenziando che "non è stato costruito per il Real comando e a spese Regie" e propose invece di imporre, come era abitudine in quegli anni, il nome di un santo. A realizzare il progetto fu chiamato l'architetto Camillo Lionti e la spesa per realizzarlo fu di circa 39000 ducati. Il San Ferdinando aveva una vasta platea ellittica, quattro ordini di palchi, cinque per ogni fila, arredati con tredici poltrone, ed un palco reale. Un secondo palco era riservato alla famiglia del sovrano che lo frequentò con assiduità. Per inaugurare il teatro fu data un'opera di Domenico Cimarosa, e per lungo tempo il teatro fu prestigiosa meta delle serate dei nobili napoletani. Il San Ferdinando fu poi sede del teatro di Adamo Alberti che invano cercò di legarlo a commedie di teatro in lingua; decadde rapidamente e nel '48 diventò un teatro per filodrammatici. Fin quan-
do vi si insediò, scritturato dagli impresari Bartolomeo e Golia, "don Federico Stella" attore popolarissimo che vi debuttò con Tenebre e amore , un dramma di Crescenzo Di Maio. Federico Stella rimase incontrastato padrone di quel palcoscenico per quasi quarant'anni, cedendo il passo soltanto per poche sere, durante il periodo natalizio alla Cantata dei pastori, durante il periodo pasquale alle Sacre Rappresentazioni della passione e morte di Cristo, e durante il carnevale alla irresistibile comicità di Antonio Petito. Durante quegli anni Federico Stella fu un vero maestro di teatro per più generazioni di attori, la sua inventiva non conosceva limiti, la sua capacità di improvvisare e risolvere le situazioni impreviste era leggendaria, così come la sua gentilezza e la sua capacità di ridere degli scherzi. Come in ogni compagnia che si rispetti infatti erano all'ordine del giorno gli scherzi che gli attori si facevano durante le recite. Una volta Crescenzo Di Majo gli fece saldare la spada al fodero ed attese che venisse il momento della "scena madre" in cui lo Stella furibondo doveva sguainarla per trafiggere il collega Giuseppe Pironi. Dopo aver tentato invano di estrarre la sua spada Federico Stella con uno sguardo furibondo gli voltò le spalle dicendogli "anche alla mia spada ripugna il tuo sangue". Il Pironi d'altra parte fu un "cattivo" odiatissimo dal suo popolarissimo pubblico che, durante gli spettacoli gli tiravano contro ogni sorta di oggetti o lo apostrofavano con terribili insulti
minacciandolo di aspettarlo 'a parte 'e fore per fargli jettà 'o sango. Qualche volta, dopo lo spettacolo, dovette intervenire addirittura lo Stella per placare la folla inferocita che assediava il San Ferdinando. Stella, che riuscì come nessun altro ad eccitare e trascinare il suo pubblico in una vertiginosa altalena di sentimenti, fu dunque il re di quel teatro fino al 20 settembre del 1926, ultima sua rappresentazione in La bella di Portacapuana . Aveva allora ottantaquattro anni, ed in quegli anni il San Ferdinando fu, come scrive Giovanni Artieri, "arena di vicende e passioni sceniche nelle quali la plebe di Napoli, attanagliata nella lotta tra il bene e il male per sette o otto atti, veniva liberata dal vindice intervento del "dito di Dio ". Il San Ferdinando continuò a mantenere il suo carattere di teatro popolare, dando spazio ad altri attori come Amedeo Girard o come Salvatore De Muto, leggendario Pulcinella che fu vicino ad Eduardo De Filippo il giorno dell' apertura del ricostruito San Ferdinando. Intanto il teatro era passato dalla sceneggiata, dove primeggiava la Compagnia Cafiero-
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Fumo, al cinematografo, perdendo il suo prestigio e il suo nome. Diventò teatro Principe vide impoverire il suo pubblico. Fino all'agosto del 1943 quando un bombardamento lo ridusse ad un cumulo di macerie. Quelle macerie cariche di storia e di passione le comprò Eduardo De Filippo, il 25 febbraio del 1948, per la somma di tre milioni. I lavori di abbattimento di quei ruderi e quelli di ricostruzione durarono fino al 22 gennaio del 1954, quando Eduardo presentò al suo pubblico Palummella zompa e vola di Antonio Petito. Fu finalmente il teatro di Eduardo: un teatro tra i più belli e moderni della città. Un accogliente ridotto, capace di ospitare mostre, dibattiti e soprattutto di accogliere un numeroso pubblico prima e dopo lo spettacolo è disposto su tre livelli raccordati da una doppia scala di marmo. Incassato nella parete sinistra del livello centrale fa bella mostra un
grande Pulcinella di marmi policromi disegnato da Titina De Filippo. Quattro scalinate portano alla sala, una platea molto accogliente, in leggero declivio verso il palcoscenico, come per un abbraccio che leghi pubblico ed attori, sopra una fila di palchetti che invece dell'abituale numerazione hanno i nomi di personaggi del teatro napoletano, Stella, Cammarano, Petito, Trinchera, più in alto la balconata. In compagnia con Eduardo e, naturalmente Titina, c'erano attori come Luisa Conte, Tina Pica, Amedeo Girard, Ugo D'Alessio, Pietro Carloni, Gennarino Palumbo, Thea Prandi, Nino Veglia. La prima "stagione" del ricostruito San Ferdinando iniziò dunque con la Palummella dell'inaugurazione, furono poi messe in scena Miseria e nobiltà di Scarpetta, Signorine e Addio mia bella Napoli! di Ernesto Murolo, Monsignor Perrelli di Starace, 'A pace d'a casa di Domenico Petriccione, Mese mariano di Di Giacomo, 'O professore di Libero Bovio, Pronti vengo di Rocco Galdieri, 'O cumitato di Costagliola e Chiurazzi, Montevergine di Domenico Romano, Don Giacinto e 'A figliata di Viviani, Sarà stato Giovannino di Paola Riccora e Natale in casa Cupiello. Un panorama a tutto tondo insomma, a cui si aggiunsero negli anni i titoli meravigliosi di tanti autori italiani e stranieri ma soprattutto quelli che hanno formato il teatro di Eduardo amatissimo dal pubblico napoletano. LE NUVOLE Indirizzo: via Coroglio, 104, Napoli
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Telefono: 081 239 5653 Sito web: http://www.lenuvole.com Le Nuvole è un’impresa culturale cooperativa e senza scopo di lucro. Dal 1985 e per i successivi 26 anni la Stagione di Teatro Ragazzi è stata ospitata presso un vecchio autoscontro del Parco Edenlandia riconvertito in teatro. Da un creativo lavoro di recupero e rifunzionalizzazione del più antico padiglione industriale dell’ex Italsider di Bagnoli -già convertito in Museo nel 1998 da Città della Scienza- nasce un nuovo teatro, si chiama Galilei 104, un esplicito richiamo alcentquatre di Parigi, centro culturale analogo con cui è già in corso un gemellaggio. Secondo i dati AGIS, con i suoi 40.000 spettatori l’anno, il Teatro Le Nuvole detiene, ininterrottamente dal 2007, il primato nazionale per numero di spettatori nel settore, nonostante tra gli Stabili d’Innovazione Ragazzi sia il meno finanziato tra i circa venti riconosciuti dallo Stato, solo due dei quali attivi nel Mezzogiorno. TEATRO STABILE MERCADANTE Indirizzo:piazza Municipio 1, Napoli Tel. 081 551 33 96 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatrostabilenapoli.it/
dandone la progettazione al colonello siciliano Francesco Securo. Aperto al pubblico nel 1779 con l’opera di Giovambattista Lorenzi, L’infedele fedele, musicata da Domenico Cimarosa, fu consacrato prevalentemente al genere operistico (“Opera buffa” e “Opera seria”). Attivamente partecipe dei cambiamenti politici e culturali avviati dalla Repubblica Partenopea nel 1799, fu rinominato “Teatro Patriottico” e inaugurato con la rappresentazione dell’Aristodemo di Monti alla presenza del generale Championnet, acclamatissimo dal pubblico. Successivamente continuò ad ospitare drammi politici, tra cui quello che costò a Cimarosa la possibilità di rimanere a Napoli una volta ripristinata la monarchia. Con la Restaurazione il Mercadante recuperò la propria vocazione operistica e - specialmente nel periodo in cui fu diretto dall’impresario Domenico Barbaja accolse musicisti come Rossini, Bellini, Donizetti, Mozart e Verdi. Nel 1870 il teatro cambiò nome in onore di Francesco Saverio Mercadante, musicista pugliese formatosi a Napoli, e fu oggetto di diversi restauri (al 1893 risale
Il Teatro Mercadante nasce come Teatro del Fondo, dal nome d’una società militare (Fondo di separazione dei lucri) che, con i proventi confiscati al Disciolto Ordine dei Gesuiti, mise in opera la struttura nel 1777-’78, affi71
la facciata dell’ing. Pietro Pulli). Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento diede accoglienza alla grande prosa italiana e internazionale: Adelaide Ristori, Fanny Sadowski, Ermete Zacconi, Eleonora Duse, Sarah Bernardt e Coquelin furono gli acclamati protagonisti di quella fertile stagione, insieme con gli esponenti di punta del teatro napoletano (Antonio Petito, Eduardo Scarpetta, Roberto Bracco), amatissimi dal pubblico. Con un occhio sempre rivolto alle novità, il Mercadante ospitò nel 1914 una discussa “Serata Futurista” organizzata da Marinetti. Qualche tempo dopo suoi prestigiosi ospiti furono Marta Abba e Luigi Pirandello. Nel corso dei restauri effettuati tra il 1920 ed il 1938 il soffitto si arricchì d’un pregevole dipinto a tempera raffigurante Napoli marinara di Francesco Galante. Dopo ulteriori opere di restauro, dal 1959 al 1963, il Mercadante, sotto la direzione di Franco Enriquez sperimentò un breve periodo da Teatro Stabile. Nel 1973, dopo un decennio di chiusura per inagibilità, il Teatro passò dal controllo demaniale a quello comunale e fu oggetto dell’ultimo restauro durante il quale furono creati nuovi servizi (il ridotto, una sala di scenografia con uno spazio espositivo sottostante, camerini per gli attori, spazi per il pubblico su tre livelli). Dalla metà degli anni Ottanta vi furono allestiti mostre e diverse rappresentazioni, ma solo dal 1995 in poi il Mercadante ha dato il via a stagioni teatrali regolari ospitando spettacoli, progetti di teatro contemporaneo, vi72
deorassegne, teatro scuola, e diventando una realtà culturalmente operativa sul territorio cittadino. Dalla stagione teatrale 2003-2004 il Mercadante è gestito dall'Associazione Teatro Stabile della città di Napoli. TEATRO NUOVO Indirizzo: via Montecalvario 16, Napoli Tel: 081 497 6267 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatronuovonapoli.it/ NUOVO TEATRO SANITÀ Indirizzo: piazzetta San Vincenzo 1, Napoli Tel: 339 666 64 26 S i t o w e b : h t t p : / / www.nuovoteatrosanita.it Nel cuore di Napoli, nel ventre più profondo della città, c’è il Rione Sanità.Negli occhi di molti il Rione Sanità è identificato con quel filmato che ha fatto il giro del mondo in cui un pregiudicato veniva ucciso fuori da un bar. Ma questo luogo è anche altro ed è da questo che vogliamo partire. Vogliamo costruire una nuova immagine di questo rione e farlo partendo da un’idea concreta di cultura. In particolare, il teatro a Napoli deve ritornare ad essere l’identità di un popolo. Non un teatro auto referenziato in cui gli operatori si avvicendano di volta in volta tra palcoscenico e platea, ma uno spazio aperto allo scambio tra artisti e pubblico, puntando sulla sensibilità degli operatori teatrali di farsi portavoce delle istanze che nascono dalla società civile.
L’associazione “sott’ o ponte” insieme ad un gruppo di privati, ha creato proprio nella Sanità un teatro dedicato a Sissy Liguori. Un teatro di 100 posti attrezzato a regola d’arte, pronto per essere inaugurato. A partire da settembre e con la direzione artistica di Mario Gelardi e di un collettivo fatto da giovani operatori teatrali, partirà la prima stagione teatrale del “Nuovo Teatro Sanità”.Nel cuore della Sanità c’è un nuovo teatro!L’intento della direzione artistica è quello di fornire alla città un palcoscenico aperto e ricettivo alle istanze teatrali e culturali che negli ultimi anni sono diventate vera e propria emergenza. Una casa – comune, tecnicamente e strutturalmente adeguata in modo da offrire agli artisti uno spazio dignitoso e professionale.Una sfida, quella di aprire un nuovo teatro e di farlo nella Sanità, che in questo momento più che mai, sembra assolutamente da accettare. Una sfida che vuole vedere uniti artisti e professionisti della cultura che potranno trovare nel NUOVO TEATRO SANITA’ un luogo lontano da logiche di schieramento.
Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, abbiamo bisogno di completare al meglio la struttura a livello tecnico, abbiamo bisogno della sensibilità dei grandi artisti teatrali napoletani e dell’entusiasmo delle giovani compagnie. Vogliamo recuperare quelle realtà teatrali e quegli artisti che hanno costruito il teatro napoletano contemporaneo e che si trovano spesso orfani di spazi dove potersi esprimere. Vogliamo partire dai drammaturghi che sono sempre stati l’ossatura del teatro napoletano conosciuto e rappresentato in tutto il mondo. Vogliamo avere una particolare attenzione verso una generazione di giovani attrici ed attori di grande talento che questa città esprime. Esserci in questa prima stagione è un atto di fiducia, un vero atto di speranza per un quartiere per una città che ha bisogno della cultura e del teatro più di quanto le istituzioni vogliano ammettere e soprattutto più di quanto siano in grado di capire. Iniziamo con un budget pari a zero, iniziamo come volontari, abbiamo solo il nostro entusiasmo e la nostra professionalità. CABARET PORT’ALBA Indirizzo: via Port’Alba 30, Napoli Tel: 338 810 53 70 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatrocabaretportalba.it/ Il locale di Port'Alba ripercorre la strada dei ve cc hi c ab ar e t rom ani proponendo, negli intervalli degli spettacoli, anche un intermezzo gastronomico così come la tradizione cabarettistica impone. L'idea alla base della sua nascita è 73
quella di creare a Napoli un teatro cabaret stabile sulle orme di quelli nati agli inizi degli anni Sessanta. trasformando un piccolo locale di Port'Alba, meno di cento posti, in teatro. Fu chiamato Bruttini quasi a fare il verso al più famoso e vicino Bellini. E’ stato e continua ad essere il punto di riferimento del cabaret a Napoli dove hanno calcato il palco il meglio della scena umoristica napoletana ( un nome su tutti quello di Massimo Troisi). Rilevato poi da due attori napoletani, Biagio Izzo e Mimmo Esposito, fu rinominato Teatro club Cabaret, nel quale Izzo continuò la tradizione di "palestra" per i giovani cabarettisti. Dal 1984 rinominato Cabaret Port’alba rappresenta ancora oggi la fucina dell'arte comica napoletana e del cabaret, in cui si esibiscono i comici più famosi (tra cui quelli di Colorado e Made in Sud) ed in cui apprendono il mestiere della "gag" gli attori più giovani. Un programma ricco di appuntamenti, che coinvolgerà il pubblico partenopeo nell'arte della risata, condividendone la stessa passione, la stessa filosofia di vita, quella che contraddistingue il popolo partenopeo da generazioni. SANCARLUCCIO Indirizzo: via San Pasquale a Chiaia 49, Napoli Tel. 081 410 44 67 – 081 544 88 91 S i t o : h t t p : / / www.nuovoteatrosancarluccio.it/ Il Sancarluccio è lo storico teatro di via San Pasquale a Chiaia dove hanno debuttato nomi illustri del panorama ita74
liano come Roberto Benigni e La Smorfia di Arena Troisi Decaro, e dove sono nati artisticamente Martone, Servillo, Mastelloni e tanti altri importanti rappresentanti dell’avanguardia partenopea. Oggi il Nuovo Teatro Sancarluccio torna ad essere fucina di talenti e casa di artisti affermati, con un prestigioso cartellone improntato sul teatro comico d’autore e tante iniziative collaterali. TEATRO SAN CARLO Indirizzo: via San Carlo 98/F, Napoli Tel: 081 797 21 11 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatrosancarlo.it/ Il “principe” dei teatri napoletani, teatro d’opera e balletto più antico del mondo a due passi da Piazza Plebiscito, tra il cuore della città e il mare. Sorto nel 1737 a suggellare i progetti di rivitalizzazione della città voluti dal reBorbone Carlo III, fu inaugurato con il dramma per musica “Achille in Sciro” di Piero Metastasio, il 4 novembre, giorno del compleanno del re. Gioacchino Rossini vi rappresentò la sua prima opera, “Elis abetta, regina
d’Inghilterra”, nel 1815. Con i fervidi esiti dellaScuola Napoletana di Cimarosa il teatro San Carlo affascinò un gran numero di artisti europei e ancora, dopo ricostruzioni, spostamenti e una storia plurisecolare, resta la rappresentazione di una Napoli reale e rigogliosa. Ancora vi sarebbero altri teatri di cui parlare: Teatro Nuovo, San Ferdinando, Augusteo, Sannazzaro, Galleria Toledo…. TEATRO TASSO Indirizzo: via Tasso 169, Napoli Tel: 081 669 480 – 081 661 835 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatrotassonapoli.it/ La Stabile del Teatro Tasso produce spettacoli di grande impegno culturale senza trascurare il divertimento e la comicità. Proponendosi di portare in scena i più grandi autori cassici e i più interessanti autori contemporanei, per offrire al pubblico un Teatro di emozioni, divertimento e Arte. Dal 1985 Giampiero Notarangelo in scena più di sessanta testi, curando anche le traduzioni e gli adattamenti di autori come Shakespeare, Moliere, Feydeau, Girodoux, Neil Simon, Oscar Wilde, Gautier, Genet. Arthur Miller, mettendo in scena anche testi di Karl Valentin, Sartre, Marivaux, Tennessee Williams, Pirandello, De Filippo, Ibsen, Samy Fayad, Shnitzler, e suoi testi originali quali: “Bravi!”, ” ‘A Villeggiatura”, “Tango guappo“, e nuovi autori come Marco Cipriano con “Napoleone l’ Imperatore dei Re“.
TEATRO TOTÒ Indirizzo: via Frediano Cavara 12/E, Napoli Tel: 081 564 75 25 Sito web: http://www.teatrototo.it/ Il Teatro Totò nasce nel maggio 1996 con una precisa ambizione: diventare tempio della comicità di nuova tendenza, senza tralasciare la consolidata tradizione. Così il 5 maggio del 1996 , il vecchio cinema – teatro Ausonia prende un nuovo nome, quello del principe della risata Antonio De Curtis, a pochi passi dal quartiere che gli ha dato i natali. A pochi metri dal Teatro San Ferdinando, nel cuore del quartiere S. Lorenzo, i soci che lo hanno rilevato, Gaetano Liguori e Davide Ferri, ai quali poi si affiancheranno Enzo Liguori e Salvatore Liguori , giungono dall'esperienza decennale del piccolo teatro Bruttini di Via Port'Alba, divenuto negli anni 90 vero e proprio tempio del cabaret napoletano e non solo. Il Teatro Totò, con una sala di 600 posti, viene presentato al pubblico con una sei giorni dedicata al grande comico intitolata “A Prescindere“: mostre, film, concerti e dibattiti con un unico tema: Totò. Per dissolvere ogni dubbio sull'orientamento artistico della sala, due grandi artisti: Isa Danieli e Rino Marcelli aprono ufficialmente la prima stagione teatrale con "Avanspettacolo", lavoro fatto di ricordi e frammenti di un'epoca dorata, quella degli scketches di Trottolino (Umberto D'Ambrosio) e tanto altro 75
ancora ricordasse il glorioso periodo del Teatro Duemila, regno dell'avanspettacolo. A questo lavoro sono successi, nella prima stagione di attività del Teatro, grandi eventi della comicità: da Paolo Rossi ad Angela Finocchiaro , Paolo Hendel, Alessandro Bergonzoni, da Benedetto Casillo ad Aldo e Carlo Giuffrè , Carlo Croccolo , Mario Scarpetta, Peppe Barra e tanti altri. Il 1997 è l'anno della rivelazione , infatti grazie ad una geniale intuizione del Direttore Artistico Gaetano Liguori , Alan De Luca e Lino D'Angiò proprio al Teatro Totò mietono i successi di "Telegaribaldi", fortunata trasmissione televisiva di Teleoggi: è il tutto esaurito ad ogni replica in due mesi di programmazione. Contemporaneamente il cartellone accoglie due decani della tradizione comica napoletana, Mario Scarpetta e Carlo Giuffrè, rappresentanti della memoria storica. Chiudono il quadro Jacopo Fo, Alessandro Bergonzoni, Francesco Paolantoni. Nella stagione 98/99, il Teatro Totò, che ormai vanta al suo attivo oltre settecento abbonati, offre un cartellone vario alternando la tradizione di Giacomo Rizzo e Mario Scarpetta, all'eversione di Peppe Lanzetta al teatro di ricerca di Renato Carpentieri. E’ importante ricordare inoltre, come il teatro Totò da subito si sia rivelato spazio unico e fondamentale per la ricerca e il lancio artistico di nuovi talenti, basti solo ricordare che personaggi come Biagio Izzo, Rosalia Porcaro e addirittura l’oggi popolarissimo Alessandro Siani abbiano avuto il loro battesimo, tra 76
le stagioni 2001 e 2005 proprio sul palcoscenico del Totò. Nel 2013 il Teatro Totò, grazie al proficuo lavoro svolto, riceve dal Presidente della Repubblica Italiana la medaglia d'oro per le meritorie finalità culturali e sociali perseguite. Ed inoltre negli ultimi anni assurge a spazio consacrato alla comicità nazionale e di tradizione, divenendo in poco tempo, con i suoi tremila abbonati, 3° teatro cittadino. È da ricordare inoltre che oggi il Teatro Totò è un vero e proprio Centro di Produzione teatrale, infatti dal 1995 sono quasi ottanta le produzioni messe in piedi e fatte circuitare sul territorio nazionale con attori di provata esperienza quali: Enzo Cannavale, Aldo Giuffrè, Isa Danieli , Carlo Croccolo, Rino Marcelli, Giacomo Rizzo, Gino Rivieccio, Mario Scarpetta, Peppe Lanzetta, Tullio Del Matto, Antonio Allocca, Peppe Barra, Pippo Franco, Lando Buzzanca, Nino Castelnuovo , Tony Sperandeo e tanti altri. È infine interessante sottolineare il costante impegno che la nostra azienda ormai da sedici anni profonde nella formazione di giovani attori, ne è palpabile testimonianza l'indiscusso successo ottenuto dalla nostra “ Accademia di Formazione Teatrale “ frequentata da oltre 250 allievi distribuiti nei tre anni di corso , attività che in sintesi ha saputo fondere insieme due realtà fondamentali del nostro lavoro come la produzione e la formazione , formula vincente che ci vede oggi leader del settore. TRIANON
Indirizzo: piazza Vincenzo Calenda 9, Napoli Tel. 081 225 82 85 S i t o w e b : h t t p : / / www.teatrotrianon.org/ «Trianon» è il nome del villaggio acquistato e poi distrutto da Louis XIV di Francia per annetterlo al parco della reggia di Versailles. In questo luogo lussureggiante il re Sole incarica Louis Le Vau di costruire «una casa per farvi merenda», dove fuggire con la famiglia, lontano dall'etichetta e dalle fatiche del potere. è solo l'inizio dello sviluppo dell'area come buen retiro regale, dove nel tempo vengono costruiti il Grande il Petit Trianon, nonché le Hameau de la Reine, il «borgo della Regina», dove la sovrana gioca a fare la pastorella, un complesso che fa esclamare al duca di Croÿ: «Non hanno mai cambiato tanto forma, né costato tanto denaro due iugeri di terra». Arriviamo nel secolo scorso e il toponimo, che richiama delizie regali, è adoperato per intitolare il teatro che nasce come incentivo allo sviluppo immobiliare nella nuovainsula del Risanamento, prossima al "boulevard" del Rettifilo (il
corso Umberto I), che si protende verso l'area greco-romana del quartiere di Forcella. Con il sistema tettonico in cemento armato, uno dei primi esempi in Italia, che precorre a Napoli il teatro Augusteo di Pier Luigi Nervi e Arnaldo Foschini (1926-29), questa struttura è destinata alla fruizione della buona borghesia. Non a caso viene inaugurata dal fortunato Miseria e nobiltà, con Vincenzo Scarpetta per la prima volta nei panni del protagonista Felice Sciosciammocca, dopo l'abbandono delle scene del padre Eduardo al termine della lunga querelle giudiziaria contro Gabriele d'Annunzio per la messa in scena del Figlio di Iorio, parodia irriverente della Figlia di Iorio del Vate. L'8 novembre 1911 si apre, dunque, il teatro di piazza Vincenzo Calenda. Scrive Ettore De Mura nella sua Enciclopedia della canzone napoletana: «Fu la compagnia di Eduardo Scarpetta, di cui facevano parte il figlio Vincenzo, Bianchina De Crescenzo, Della Rossa e la Perrella, ad inaugurare il teatro. [...] Sin dal gennaio successivo all'inaugurazione diede vita a spettacoli di varietà, nei quali programmi, figuravano spesso oltre a cantanti di primo piano, addirittura tre, ed anche quattro, vedette per volta. In una sola sera, il pubblico si godeva, oltre ai numeri, che s'affollavano abitualmente nel manifesto, Pasquariello, Donnarumma, Gill, Fulvia Musette e, a distanza di qualche settimana, Maldacea, Tecla Scarano, Diego Giannini, Gina De Chamery. Prima con l'impresa di Amodio Salsi, che era anche il proprietario del teatro, e poi con 77
quella di Giuseppe De Simone e Gennaro De Falco, il Trianon registrò un'attività ricca di avvenimenti artistici e di soddisfazioni finanziarie. [...] Non pochi attori, e non pochi cantanti, si forgiarono sul suo palcoscenico, raggiungendo persistente notorietà. E non pochi attori e cantanti conclusero qui la loro meravigliosa carriera artistica, come i già citati Armando Gill ed Elvira Donnarumma». Nella ricca storia centenaria del Trianon, aperta alla programmazione più ampia (dall'opera all'operetta, dal dramma al varietà), si segnala anche lo sviluppo della sceneggiata negli anni Trenta, con la compagnia residente di Salvatore Cafiero e di Eugenio Fumo, con una ripresa revivalistica negli anni Settanta (e proprio in questo teatro debutta, tra gli altri, il giovane Mario Merola). Nel 1940, Gustavo Cuccurullo acquista il Trianon e nel 1947 lo trasforma in sala cinematografica: il cinema «Splendore». Un altro cambio del nome c'era stato nel ventennio fascista, col teatro ribattezzato «Trionfale», in ossequio all'autarchia linguistica. Cinquanta anni dopo, un pronipote, omonimo del precedente, riporta la sala,
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divenuta un cinema a luci rosse, all'antica funzione. La ristrutturazione è firmata dall'architetto Massimo Esposito. Il nuovo Trianon, che ha la mission di «teatro della canzone napoletana», è inaugurato il 7 dicembre 2002 con Eden teatro di Raffaele Viviani, nella «riscrittura melodrammatica» e regia di Roberto De Simone. Viene scissa la proprietà del teatro dalla gestione delle attività, rispettivamente con le società Trianon e Trianon scena. Nella prima di queste entra la Provincia di Napoli (con la quota del 40,43%). Sul piano artistico, dopo De Simone, il teatro si avvale della consulenza artistica di Peppe Vessicchio. Nell'aprile del 2006 la Regione Campania rileva il pacchetto di maggioranza della proprietà del teatro (59,57%) e inizia così la nuova storia del Trianon come struttura pubblica. La nuova società cambia il nome, come il teatro, in «Trianon Viviani» e assume anche la gestione delle attività. La direzione artistica è affidata a Nino D'Angelo, che rimane in carica fino al 2010. Nel 2012, un piano di riconversione, che fa sèguito a un difficile periodo di crisi finanziaria, stabilisce la nuova mission di «teatro della musica a Napoli», con la presidenza di Maurizio D'Angelo e la direzione artistica di Giorgio Verdelli.
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Leggende e misteri, i gialli di Napoli Napoli città delle cinquecento cupole. Napoli città dei musei e dei castelli. Napoli città del sole e del mare, della pizza, del caffè e del babà. Napoli città della musica e del teatro. Ma Napoli è anche la città di leggende e miti, misteri e magie. Racconti vecchi di secoli, figli della storia millenaria di questa città e della cultura eterogenea formatasi grazie al susseguirsi delle varie dominazioni straniere. Sin dal primo approdo greco a oggi, ogni angolo del nostro territorio ha qualcosa da raccontare: divinità, spiriti, esoterismo e magia si intrecciano per arricchire la cultura popolare napoletana. Il primo mito – in realtà da sfatare – è proprio legato alla “invenzione” della pasta secca. La maggior parte delle persone, pensando alle origini della pasta, punta subito la sua attenzione verso la Cina. Sbagliando però obiettivo in quanto si tende a confondere la nostra pasta di grano duro con quella di grano tenero, nonostante i due processi produttivi completamente differenti: la prima si basa sula capacità aggregante del glutine, la seconda su quella dell'amido. La confusione nacque negli Stati Uniti principalmente per uno scopo commer80
ciale. In un articolo della rivista The Macaroni Journal del 1929 vennero riportate, in modo errato, le parole di Marco Polo circa le sue esperienze in Oriente. L'interesse nel diffondere una nuova abitudine alimentare nel proprio paese, spinse gli americani a creare ad arte un'origine leggendaria del prodotto contribuendo all'alterazione della storia. In realtà, la pasta di grano duro è un'intuizione napoletana. A portare la pasta secca in Italia furono gli arabi nel XII secolo e già un secolo dopo, Federico II di Svevia la mangiava abitualmente condita da un sugo dolce. Nel 1700, con la rivoluzione agricola di Ferdinando IV, a Napoli iniziò la produzione della pasta su larga scala. Per necessità soprattutto di crescita demo-
grafica, si puntò tutto sulla produzione della pasta sia per le sue maggiori capacità nutritive sia perché le provviste duravano più a lungo dei normali ortaggi, portata principale del popolo. Alla fine del Settecento arrivò anche il pomodoro, il quale venne subito abbinato alla pasta: presto la salsa di pomodoro soppiantò il formaggio grattugiato che fino a quel momento era l'unico condimento della pasta. Nel 1776, nella cucina reale fu installata la maccaroneria, macchinario per la produzione di maccheroni, lasagne, vermicelli e tagliolini. La produzione industriale arrivò nell'Ottocento grazie anche ad una qualità pregiata di grano russo, purtroppo oggi estinta. Il termine spaghetti fa la sua comparsa intorno al 1824 insieme alle lasagne larghe e lunghe. Nel 1833 nacque il primo pastificio industriale e Napoli iniziò a esportare pasta in tutto il mondo. E l'introduzione della pasta a corte portò anche a un'altra rivoluzione. Quando Ferdinando decise di imporre la pasta nel menù reale, ancora era uso mangiare con le mani – tipico è l'esempio di Pulcinella nella sua classica posa del mangiare gli spaghetti con le dita. Pare che la regina Maria Carolina male sopportasse l'idea di vedere il re e i cortigiani mangiare pasta al sugo con le mani, così ordinò al ciambellano addetto al protocollo, Gennaro Spadaccini, di trovare una soluzione idonea. Spadaccini partì dallo strumento che aveva a disposizione ovvero una specie di piccolo forcone a due rebbi, utilizzato
per la carne. Decise di accorciare e smussare le punte, per evitare che ci si potesse ferire mangiando la pasta e da due, le fece diventare quattro in modo che gli spaghetti potessero essere attorcigliati meglio. Così, oltre a soddisfare le esigenze della propria regina, Spadaccini divenne l'inventore della forchetta napoletana, cioè la forchetta moderna. Capodimonte In un percorso che va da Capodimonte al lungomare, attraversando gli antichi decumani, si possono conoscere alcune tra le leggende più note della cultura popolare napoletana. E' nel bosco di Capodimonte che Matilde Serao, scrittrice napoletana di inizio Novecento, ambienta una delle sue leggende. Il bosco, in quegli anni, è ancora isola-
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to dal resto della città. E' un luogo dove la natura regna incontrastata. La Serao lo descrive così: “E' la forte e possente natura che irrompe dalla terra vera, e allaga, e inonda la campagna, come oceano di verdura; è la natura pudica e grande del bosco, che si ammanta di foglie, che vela il volto divino, che molce la passione della sue nozze nell'ombre discrete, nei placidi silenzi, nei recessi ignoti. È nell'immenso bosco che si sogna”. Protagonista della storia è un giovane che, stanco della città, vagava per i viali del bosco solo e triste. Niente riusciva a scuoterlo e ad attirare il suo interesse, né la natura con i suoi colori né un capolavoro d'arte né una bellissima donna. In città erano diverse le giovani che soffrivano d'amore per lui. Amore che non ricambiava credendo che l'avrebbe trovato in luoghi più remoti, dal cielo stellato al freddo polo. Amava una creatura misteriosa e lontana che lui stesso aveva creato, abbandonando però i suoi doveri, senza curarsi del suo palazzo e della sua famiglia. Passava la sua vita dimentico di tutto e consumandosi nell'amore. Una mattina vide in lontananza una figura evanescente, qualcosa di bianco e lucido. Ogni giorno cercava di raggiungerla prima che sparisse e ogni volta la creatura si rendeva più distinta e avvicinabile. Il giovane capì che quella figura era il suo amore che finalmente l'aveva raggiunto. Prese a seguirla per il bosco, accontentandosi dei suoi soli sorrisi, senza par82
larle mai. Fino all'arrivo al castello, dove lei si incupiva salutandolo un'ultima volta e scomparendo nell'androne. Nonostante lui le dichiarò il suo amore chiedendo di non essere più abbandonato, la ragazza continuava a non rispondergli, limitandosi ad ascoltarlo e a scomparire ogni volta. In un pomeriggio autunnale, la sofferenza del giovane era ormai tale che mostrò alla fanciulla la sua disperazione urlando e piangendo solo per ottenere una sua risposta. E lei finalmente gli disse che l'amava. Il giovane in un impeto di passione l'abbracciò forte, ma la divina fanciulla, enormemente delicata, si frantumò in mille cocci di porcellana. Quando i custodi del castello si addormentarono, nella sala delle porcellane si creò grande agitazione. Tutti erano adirati per la morte della fanciulla e decisero di vendicarsi. La prima a intervenire fu l'Aurora bianca che avvicinatasi al giovane svenuto maledisse per sempre le sue albe. Le ventiquattro Ore lo ricoprirono di petali di rose avvelenate. Gli Amorini gli conficcarono darci acuti nel cuore. Le
statuine dei re di Francia lo colpirono ripetutamente ricoprendolo d'insulti. Ogni tazza, vassoio e coppa fu riempita di cicuta, cenere e fiori velenosi. Infine si mosse il gruppo dei Titani: Giove lo fulminò e i Titani lo seppellirono sotto un sepolcro di massi. Poi ognuno di loro fece ritorno nella propria scansia al castello. Questa fu la vendetta della porcellana su chi aveva frantumato la fanciulla immortale. L'arte che si vendica sulla vita. Culto dei morti Napoli ha una doppia faccia. Oltre la città che tutti vediamo alla luce del sole, ce n'è un'altra parallela nel sottosuolo: pozzi, cisterne, gallerie romane, catacombe, ipogei greci, passaggi segreti. Lo scopo di molte aree scavate nel periodo più antico è ancora avvolte dal mistero.
La Napoli sotterranea può essere considerata un luogo di passaggio, un confine tra il mondo della vita e quello della morte. Da sempre il silenzio delle gallerie è rotto solo da preghiere e rituali, inizialmente legati ai culti di Mithra fino ai giorni nostri con il culto delle anime “pezzentelle” o anime del purgatorio. Nel sottosuolo del quartiere della Sanità non è difficile trovare i resti di quella che fu l'area cimiteriale della prima era cristiana. I sepolcri più antichi sono gli ipogei di origine greca. Nel corso dei secoli, poi, grazie a un territorio composto principalmente da tufo, i primi cristiani scavarono nella terra per costruire i loro cimiteri. La costruzione più nota è quella delle catacombe di San Gennaro. L'ingresso delle catacombe è situato affianco alla Basilica dell'Incoronata madre del Buon Consiglio di capodimonte. Il nucleo originario delle catacombe si sviluppò attorno alla tomba di una ricca famiglia romana, datata II secolo d.C.; a differenza delle aree romane, queste sono distribuite su più piani e collegate da ampi corridoi. Dopo la sepoltura del vescovo Agrippino, divennero cimitero e polo religioso. Nel V secolo vi furono traslate le spoglie di San Gennaro. I ritrovamenti e l'architettura della struttura permettono di seguire il susseguirsi di popolazioni e culture diverse. Il piano superiore sembra avere avuto origine da un sepolcro primitivo, prima di subire varie forme di sviluppo. Le 83
sue dimensioni sono ridotte rispetto al vestibolo inferiore, forse perché appartenevano a famiglie meno ricche. Nonostante i ritrovamenti di nomi scritti in greco, le decorazioni delle pareti e delle volte fanno pensare a un simbolismo cristiano, risalente probabilmente ala prima comunità cristiana a Napoli. La cripta invece è ornata da numerosi e splendidi mosaici. Qui è stata scoperta la più antica immagine di San Gennaro, datata intorno al V secolo. I ritratti sono molto interessanti perché testimoniano un alto livello di caratterizzazione fisionomica, avvicinando la produzione napoletana del IV/VI secolo a quella africana dello stesso periodo. Elemento che crea un alone di mistero è stata la scoperta di rappresentazioni pagane all'interno delle catacombe, come ad esempio un Priapo e altri simboli della fecondità. Alle catacombe di San Gaudioso si accede tramite la Basilica di Santa Maria della Sanità. Secondo la tradizione, Settimio Celio Gaudioso, vescovo in Africa, fu abbandonato in mare dal suo re. Grazie alla sua barca approdò a
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Napoli e vi fondò un monastero, dove rimase fino alla sua morte nel 450 d.C. circa. Quello che colpisce di questa struttura sono sicuramente le decorazioni: oltre i numerosi antichi mosaici, i “decori” principali sono la conseguenza di un particolare sistema di sepoltura. Nel Seicento, furono i frati domenicani a occuparsi principalmente delle catacombe. In quest'epoca era ancora diffuso l'uso degli scolatoi o cantarelle: queste sono cavità di pietra in cui si appoggiava il cadavere in posizione fetale per fargli perdere i fluidi corporei. Dopo l'essiccazione, le teste venivano conservate mentre il resto del corpo veniva ammassato negli ossari. In seguito, le teste dei cadaveri essiccati si incastravano nei muri dipingendo al di sotto un corpo che desse qualche indicazione sul mestiere del defunto. Questo tipo di sepoltura era riservato ai ceti più abbienti e fu in seguito abbandonato per motivi igienici. Il cimitero delle Fontanelle si trova nel quartiere Materdei, in via Fontanelle. È detto così perché in quelle zona, in tempi remoti, erano presenti numerosi fonti d'acqua. Ospita circa 40000 resti di persone. Data la sua natura, il cimitero è una struttura che ha dato luogo a numerose storie e leggende. L'ossario si sviluppa per circa 3000 m2. Si trova appena fuori dalla città grecoromana, nella zona scelta per la necropoli pagana e più tardi per i cimiteri cristiani. Il sito conserva, da almeno quattro secoli, i resti di chi non poteva permettersi una degna sepoltura e del-
le vittime delle grandi epidemie che hanno più volte colpito la città. Secondo una credenza popolare, uno studioso avrebbe contato circa otto milioni di ossa di cadaveri rigorosamente anonimi. Oggi si possono contare 40.000 resti, ma si dice che sotto l'attuale piano di calpestio vi siano compresse ossa per almeno quattro metri di profondità. Altra leggenda riguarda Giacomo Leopardi. Si vuole che nel cimitero riposino anche i suoi resti. In realtà il poeta fu inumato fino a quando fu spostato al Parco Vergiliano. Anche se sui resti di Leopardi esiste tuttora un caso. Nel cimitero furono collocate le ossa ritrovate nel corso della sistemazione di via Toledo a metà ottocento, risalenti alla peste del 1656. Nel 1934, vi furono collocate le ossa ritrovate ai piedi del Maschio Angioino durante dei lavori di ristrutturazione. Legata al cimitero è una spontanea e significativa devozione popolare per
questi defunti. Le ossa anonime sono diventate per la gente della città le anime abbandonate, cosiddette anime pezzentelle un mezzo di comunicazione tra i mondi dei morti e quello dei vivi. Spesso il napoletano, più che altro donne, adottava un teschio, o capuzzella, particolare che l'anima le aveva indicato nel sogno. Da questo punto in poi il cranio diventava parte della famiglia del devoto. Il comportamento rituale si esprimeva con un preciso cerimoniale: il cranio veniva pulito e lucidato e, poggiato su dei fazzoletti ricamati, lo si adornava con lumini e dei fiori. Al fazzoletto si aggiungeva il rosario, messo al collo del teschio per formare un cerchio; in seguito il fazzoletto veniva sostituito da un cuscino, spesso ornato di ricami e merletti. A ciò seguiva l'apparizione in sogno dell'anima prescelta, la quale richiedeva preghiere e suffragi. La richiesta delle anime è principalmente sempre la stessa: tutte hanno bisogno di refrisco, cioè di refrigerio. Si pregava l'anima per alleviare le sue sofferenze in purgatorio, creando un vero e proprio rapporto di reciprocità, in cambio di una grazia o dei numeri da giocare al lotto. Se le grazie venivano concesse, il teschio veniva onorato con un tipo di sepoltura più degno: una scatola, una cassetta, una specie di tabernacolo, secondo le possibilità dell'adottante. Ma se il sabato i numeri non uscivano o se le richieste non erano esaudite, il teschio veniva abbandonato a se stesso e sostituito con un 85
altro. Se il teschio era particolarmente generoso si ricorreva addirittura a metterlo in sicurezza, chiudendo la cassetta con un lucchetto. Utili erano tutti i tipi di segni che potevano venire alle anime. Un primissimo segno era il sudore, cioè la condensa da umidità: se ciò si verificava era segno di grazia ricevuta. Se il teschio non sudava, questo veniva interpretato come una sofferenza dell'anima abbandonata e cattivo presagio. In questo caso si chiedeva soccorso a Gesù e, soprattutto, alla Madonna. Al teschio, spesso, erano associati un nome e una storia. Fino agli anni settanta c'era l'abitudine di sostare di notte ai cancelli del cimitero per aspettare le ombre mandate dal teschio di don Francesco, un cabalista spagnolo, a rivelare i numeri da giocare al lotto. Tra i teschi più noti ci sono Donna Concetta e il Capitano. La prima è più nota come 'a capa che suda. La particolarità di questa capuzzella, posta all'interno di una teca, è la sua lucidatura: mentre gli altri crani sono ricoperti di polvere, quest'ultimo è infatti sempre ben lucidato, forse perché raccoglie meglio l'umidità del
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luogo sotterraneo che è stata sempre interpretata dai devoti come il sudore delle anime del Purgatorio. Secondo la tradizione, anche donna Concetta si presta a esaudire delle grazie; per verificare se ciò avverrà, basta toccarla e verificare se la propria mano si bagna. Alla capuzzella del Capitano sono legate più versioni di una stessa leggenda. Nella prima versione si racconta che una giovane promessa sposa era molto devota al teschio del capitano e si recava spesso a pregarlo e a chiedergli grazie. Una volta il fidanzato di lei, scettico e forse un po' geloso delle attenzioni che la sua futura moglie dedicava a quel teschio, volle accompagnarla e portandosi dietro un bastone di bambù, lo usò per conficcarlo nell'occhio del teschio mentre, deridendolo, lo invitava a partecipare al loro prossimo matrimonio. Il giorno delle nozze apparve tra gli ospiti un uomo vestito da carabiniere. Incuriosito da tale presenza, lo sposo chiese chi fosse e questi gli rispose che proprio lui lo aveva invitato, accecandogli un occhio; detto ciò si spogliò mostrandosi per quel che era, uno scheletro. I due sposi e altri invitati morirono sul colpo. Un'altra versione vede come protagonista un giovane camorrista che profanò il cimitero delle Fontanelle facendo l'amore con una ragazza. A un tratto sentì la voce del capitano che lo rimproverava ed egli, ridendosene, rispose di non aver paura di un morto. Alle nuove imprecazioni del capitano, il temerario giovane lo sfidò a presentarsi
di persona, giurando ironicamente di aspettarlo il giorno del suo matrimonio. Al banchetto di nozze si presentò tra gli invitati un personaggio vestito di nero che nessuno conosceva e che spiccava per la sua figura severa e taciturna. Alla fine del pranzo disse di avere un dono per gli sposi, ma di volerlo mostrare solo a loro. Gli sposi lo ricevettero nella camera attigua, ma quando il giovane riconobbe il capitano fu solo questione di un attimo: il capitano tese loro le mani e dal suo contatto infuocato gli sposi caddero morti all'istante. Decumani I Decumani sono il cuore del centro storico di Napoli. Sono tre strade create nel VI secolo a.C., in epoca greca. Il decumano centrale era il più ampio – oggi via Tribunali – ed era la via principale della città; al suo centro si trovava l'agorà greca e poi il foro romano. Oggi, è possibile visitare i resti dell'antica città inglobati nel centro moderno. I Decumani delimitano un'area ricca di misteri, divisa tra fantasmi storici, esoterismo e tradizioni. Munaciello e Bella 'mbriana
La Bella 'mbriana e il munaciello sono due spiriti che abitano le case, una è benefica l'altro negativo. La leggenda vuole che una principessa, persa la ragione a causa di un amore infelice, vagava per i vicoli della città come un'ombra. A volte veniva accolta nelle case delle persone del popolo e il padre, per proteggerla, ringraziava queste famiglie con doni anonimi. Per questo la figura della 'mbriana è legata alla casa. I napoletani la immaginano come una giovane dal volto sereno e piacente, ma è difficile riuscire a vederla perchè è molto sfuggente: si può cogliere tra le tende moss edla vento o nel riflesso su una finestra. Alla sua figura è associato il geco, per questo si dice porti fortuna e nessuno penserebbe di scacciarlo o disturbarlo. La 'mbriana controlla e consiglia gli abitanti. Viene invocata in tutte le situazioni difficili che compromettono la serenità familiare. In genere si tratta di uno spirito buono, ma mai offendere la bella 'mbriana perché può addirittura provocare la morte di uno dei familiari o di chi ha in odio la famiglia che lei protegge. In passato, si metteva a tavola un posto in più per lei per-
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ché si riposasse. Alla bella 'mbriana piace l'ordine e la pulizia e per questo una casa trascurata la rende irascibile. Quando si decideva un trasloco, si cercava di parlarne fuori casa, in modo da non farle sapere nulla, per non attirarsi le sue ire. A testimonianza dell'affetto che si ha per questa figura, uno dei cognomi più diffusi a Napoli è Imbriani. Il munaciello è il personaggio esoterico più noto e temuto della cultura popolare napoletana. Spirito di natura sia benefica che dispettosa, è di solito rappresentato come un ragazzino deforme o una persona di bassa statura abbigliato con un saio e fibbie argentate sulle scarpe. La leggenda del munaciello ha origini plurisecolari, e le teorie che lo riguardano sono varie. Una prima, riportata tra gli altri da Matilde Serao nel suo Leggende napoletane (1881), parlerebbe di un personaggio realmente esistito. L'origine andrebbe fatta risalire al 1445, quando vi fu uno dei tanti amori impossibili descritti dalla tradizione poetica e musicale napoletana, tra Caterinella Frezza, figlia di un ricco
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mercante di panni, e il garzone Stefano Mariconda. Fortemente contrastata soprattutto dalla famiglia di lei, la coppia ricorreva ad incontri clandestini durante la notte, cui il giovane garzone si recava percorrendo un pericoloso sentiero sui tetti di Napoli. Fu proprio nel corso di una di queste camminate che Stefano fu assalito e gettato nel vuoto, sotto gli occhi della fidanzata. Dopo che la salma del giovane fu inumata, Caterinella, in stato interessante, chiese ed ottenne di rinchiudersi in un convento della zona, dove diede alla luce un bambino piccolo e deforme. La madre prese a vestirlo con un abito bianco e nero da monaco, sempre speranzosa in un miracolo, e questo fatto fu all'origine del nomignolo munaciello attribuitogli dal popolo. La sua figura dalla testa troppo grande e dal corpo troppo piccolo, che si aggirava per le strade del Porto, destava disgusto e sospetto, che presto si tradusse in continui insulti e sgarbi nei suoi confronti. Da questo, all'attribuirgli poteri soprannaturali benevoli o malevoli il passo fu breve. In particolare, se il cappuccio dell'abito era di colore rosso, se ne traevano auspici di buon augurio, mentre la malasorte veniva associata al cappuccio nero. Dopo la morte della madre, la situazione peggiorò ulteriormente, e gli vennero attribuite ogni sorta di avvenimenti sfavorevoli, dalle malattie alle nuove tasse, e gli assalti anche fisici alla sua persona peggiorarono. Infine, il munaciello scomparve misteriosamente, e la voce popolare fu che fosse stato porta-
to via dal diavolo. La Serao riporta però che qualche tempo dopo furono ritrovate in una cloaca delle ossa che avrebbero potuto essere quelle del nano, ed avanza l'ipotesi che i parenti Frezza avessero alla fine deciso di assassinarlo. Un'altra ipotesi lega il munaciello alle figure dei pozzari che, attraverso i cunicoli dei pozzi, entravano facilmente nelle case facendo dei piccoli dispetti a chi non pagava per i loro servizi. La tradizione popolare vuole che il munaciello tenda a esprimersi con tipiche manifestazioni: di simpatia, lasciando monete e soldi nascosti dentro l'abitazione, oppure facendo scherzi innocui che possono essere trasformati in numeri da giocare al lotto; di antipatia, nascondendo oggetti, rompendo piatti e altre stoviglie, soffiando nelle orecchie dei dormienti; di apprezzamento, sfiorando con palpeggiamenti le belle donne. In nessuno caso bisogna però rivelarne la presenza: secondo il folklore napoletano, possono capitare disgrazie e sfortuna a chi rivela una visita del
munaciello. Quando il munaciello si manifesta di persona, pare che appaia alle persone sempre nel cuore della notte, ma solo a coloro che sono nel più estremo bisogno, dopo che abbiano fatto tutto ciò che è umanamente possibile fare per alleviare l'angoscia. Lui farebbe cenno di seguirlo. Chi ha il coraggio di farlo verrebbe portato in qualche posto dove è nascosto un tesoro. Il munaciello non porrebbe nessuna condizione per il suo utilizzo, non richiederebbe alcuna promessa di rimborso, non esigerebbe né dazio né servizio in cambio. Non si sa se questi tesori siano i frutti di guadagni illeciti o i frutti del lavoro industrioso. Nel linguaggio popolare, si dice che in molti abbiano fatto improvvisamente fortuna grazie al suo intervento e quindi, quando qualcuno ha avuto un arricchimento improvviso, si dice "Forse avrà il munaciello in casa". Si dice anche che il tesoro portato in dono dal munaciello sia appropriato per le esigenze di chi l'ha ricevuto. Cappella San Severo Nel centro storico, vicino piazza San Domenico Maggiore, si trova la Cappella San Severo, voluta dal Principe Raimondo di Sangro. Raimondo era un personaggio dalla mente eccelsa e dalla enorme curiosità: studiava araldica e geografia, logica, filosofia, retorica, matematica e geometria, fisica, scienza, latino e greco, ebraico e tedesco. Era un appassionato di riti alchemici e, nel suo palazzo, portava avanti numerosi espe89
rimenti guadagnandosi l'appellativo di stregone. Era legato all'Accademia della Crusca e divenne anche scrittore ed editore, avvicinandosi agli scritti massonici. Nel 1744 fece restaurare la Cappella, nota oggi soprattutto per le statue dalla manifattura così particolare che ancora non se ne è compresa la tecnica di realizzazione. Il Cristo Velato è sicuramente le statua più rappresentativa: opera dello scultore Sammartino, il Cristo è ricoperto da un velo trasparente di marmo che però è omogeneo con la statua sottostante. Si dice che lo stesso Raimondo abbia inventato una tecnica per marmorizzare i tessuti, ma questa teoria finora non è stata ancora testata e non ci sono altre ipotesi convincenti. Oltre le statue, la Cappella conserva le invenzioni del Principe. Le più importanti sono le macchine anatomiche: si tratta di due modelli anatomici di grandezza naturale costituiti da due scheletri umani (una donna e un uomo) su cui è incastellato il solo albero sanguigno di colore differenziato blu e rosso. Leggenda vuole che il Principe avesse
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ottenuto tale "metallizzazione" del circuito sanguigno "iniettando" un composto di sua invenzione e, poiché l'unica "pompa" in grado di spingere il liquido fin nei capillari più sottili è il cuore, che i due malcapitati fossero ancora vivi quando tale esperimento venne eseguito. La donna al momento dell'iniezione era incinta, infatti è possibile vedere anche le vene del feto. Non si conosce la natura del liquido che ha “metallizzato” le vene, probabilmente ha una base mercuriale. Recentemente un gruppo di studiosi ha fatto delle importanti scoperte. Secondo questo studio, pare che lo scheletro delle macchine sia vero mentre il sistema cardiovascolare sia una riproduzione. Riproduzione decisamente fedele e che anticipa di un secolo le tecniche riproduttive cardiovascolari ufficiali. Questo però apre la porta a nuovi interrogativi: come è stato possibile riprodurre parti del corpo umano che dal punto di vista medico-scientifico sono state scoperte tanto tempo dopo? Le sue attività scientifiche hanno ovviamente alimentato numerosi racconti e leggende intorno alla figura del Prin-
cipe, alcune legate alle sue invenzioni come il lume eterno che si dice fosse stato realizzato triturando le ossa di un teschio. Si racconta che avesse ucciso sette cardinali usando le loro ossa e la pelle per farne altrettante sedie o che riuscisse a riprodurre la liquefazione del sangue come avviene per quello di San Gennaro. Nell'Ottocento si diffuse la storia che lo spirito senza testa del Principe si aggirasse per le strade del centro della città e che nelle notti di luna piena fosse possibile sentire il rumore della sua carrozza nei pressi della Cappella. Maria d'Avalos Nel 1586, nella chiesa di San Domenico Maggiore, fu celebrato il matrimonio tra Carlo Gesualdo e sua cugina Maria d'Avalos d'Aragona. Non fu ovviamente un matrimonio d'amore, ma un mezzo per ottenere presto un erede ed evitare che il patrimonio tornasse nelle mani pontificie.
Ottenuto il suo erede, Carlo si riavvicinò alla sua passione: era un eccellente compositore di madrigali e musica sacra. Nella vita matrimoniale invece era ossessivo e prepotente verso la moglie. Delusa da quest'uomo, Maria accettò il corteggiamento di Fabrizio Carafa conosciuto a una festa. Innamoratisi, per due anni ebbero una relazione prima di essere scoperti. Carlo tese loro una trappola annunciando la sua partenza, rimanendo invece in città e cogliere gli amanti sul fatto. Ordinò ai suoi sicari di ucciderli e il giorno dopo espose i due corpi nudi sulle scale del palazzo affinché il popolo vedesse che aveva lavato con il sangue l'onta del tradimento. Piccola nota storica, la famiglia di Carlo Gesualdo era l'antica proprietaria del palazzo nel quale dopo due secoli visse il Principe Raimondo di Sangro. Pare che ancora oggi, in piazza S.Domenico, sia possibile sentire l'urlo terribile che Maria lanciò prima di morire e solo il crollo dell'ala del Palazzo dove c'era lo scalone si dice che la sua anima abbia trovato un po' di pace. Anche se c'è chi giura di aver visto il suo spirito vagare nelle notti di luna piena alla ricerca di Fabrizio. 'O cuorpo 'e Napule Nella centralissima piazzetta Nilo, la storia di Napoli si intreccia con quella dell'antico egitto. In questa zona, sin dalla prima età imperiale, si stabilì una comunità di mercanti provenienti dal Alessandria d'Egitto. Questi dedicarono una statua 91
al dio fluviale del Nilo – posta in quello che era a tutti gli effetti il quartiere egiziato, chiamato infatti Regio Nilensis - ma dopo la loro definitiva partenza, la statua fu sepolta e dimenticata. Riemerse nel Cinquecento in seguito a lavori di ristrutturazione. La divinità è raffigurata come un vecchio sdraiato e appoggiato a una roccia dalla quale sgorga dell'acqua; coperto da un mantello nella parte inferiore, è affiancato da putti e da una sfinge. Inizialmente si credeva che il corpo appartenesse a una donna che allattava per questo tra il popolo si formò la credenza che rappresentasse Napoli che allattava i suoi figli. Negli antichi scritti si possono leggere, invece, i dialoghi che il dio teneva con il fiume Sebeto che secoli fa scorreva in quell'area. Piazza del Gesù Nuovo La chiesa del Gesù Nuovo si trova nell'omonima piazza, alla fine del decumano inferiore, l'odierna San Biagio dei Librai o Spaccanapoli. In origine, il Palazzo apparteneva ad una famiglia aristocratica. Il principe di Salerno, Roberto Sanseverino, fece
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costruire il suo Palazzo Nel Quattrocento; i lavori terminarono nel 1470. Nel 1584 il possesso del Palazzo Sanseverino passò ai gesuiti. Questi ne stravolsero l'architettura eliminando le sale e i giardini, risparmiando solo la facciata e il portale marmoreo. Riadattarono tutta la struttura per farne una chiesa. La facciata è una delle parti più misteriose della chiesa. E' ricoperta da bugne, ovvero delle piccole piramidi di piperno: una costruzione tipica del Veneto Rinascimentale, ma poco conosciuta nel Meridione. Il bugnato della Chiesa del Gesù Nuovo presenta una particolarità: i simboli sulle piramidi. Di dieci centimetri circa di lunghezza, sembrano lettere, somigliano ad antichi simboli alchemici. Ancora oggi il loro significato non è del tutto chiaro e intorno la loro natura sono sono state sviluppate numerose ipotesi. Una teoria poco accreditata afferma che ogni pietra del bugnato sia stata marchiata per ricordare da quale cava di tufo fosse stata raccolta e trasportata. Rimane poco credibile perché, a contare ogni simbolo differente, risulterebbe che a Napoli ci fosse un numero spropositato di cave. Ancora, si dice che i simboli fossero stati impressi per ricordare le squadre di lavoro dei pipernieri, ma pare improbabile che un nobile avrebbe permesso uno scempio del genere su una costruzione così importante. La leggenda più insistente vuole che i simboli incisi sulle pietre siano canali di flusso per incamerare energie positive e ricacciare quelle negative. Ma la sto-
ria a questo punto si divide in due parti: la prima punta sull’ignoranza dei maestri pipernieri, i quali avrebbero costruito il bugnato impilando le rocce al contrario. In tal modo gli influssi negativi sarebbero entrati nell’edificio e quelli positivi sarebbero sfociati all’esterno. La seconda pare sia quella più accreditata: si è parlato di maestri pipernieri, coloro che ricevevano la conoscenza dell’antica arte del taglio della pietra campana da una potente, quanto segreta, corporazione che li obbligava al giuramento degli apprendisti. Molti di essi erano anche abili conoscitori dell’alchimia e dell’esoterismo. Quindi avrebbero compreso come disporre le pietre magiche. Si pensa che lo stesso Roberto Sanseverino li avesse chiamati a corte perché anch’egli conoscitore della magia. Quindi non si sarebbe trattato di un errore così grossolano, probabilmente questi furono corrotti dai nemici del nobile. Nei secoli il Gesù Nuovo sarebbe stato afflitto da numerosi malefici: i problemi di proprietà, le numerose confische dei beni ai Sanseverino, la completa distruzione di un’ala del palazzo, gli
innumerevoli crolli della cupola e il successivo incendio della chiesa. Alla fine del 2010, Vincenzo De Pasquale – appassionato di rinascimento napoletano e musicofilo - pare abbia decifrato il significato dei segni: ha riconosciuto uno spertito musicale scritto in aramaico da leggersi dal basso verso l'alto e da destra verso sinistra. La partitura che è scaturita da questo studio è stata chiamata Enigma ed è per un concerto per strumenti a plettro di tre quarti d'ora circa. Pare che lo spartito si possa leggere in nove modi diversi e che lo abbia assonanze con l’ “Herr Jesu Christ, dich zu uns wend, BWV 655” di Johann Sebastian Bach, che fu un massone e che fu a Napoli. Questa nuova interpretazione però è stata messa in discussione dallo studioso di ermetismo e simbologia esoterica Stanislao Scognamiglio, che ha sostenuto che i segni sulle bugne non siano caratteri dell'alfabeto aramaico, ma che invece possano essere sovrapponibili ai simboli operativi dei laboratori alchemici in uso fino al Settecento. Al centro di piazza del Gesù si erge l'obelisco della Madonna Immacolata. La statua in rame poggia su una guglia marmorea e fu innalzata nel XIII secolo. Secondo la diceria popolare, sul marmo dell'obelisco pare ci siano simboli blasfemi e una faccia di scheletro: nei secoli, ogni volta che si rende omaggio alla Madonna l'8 dicembre, si è stati attenti alla presenza di queste immagini malvagie che però non sono mai state trovate. 93
Il mistero che resta da spiegarsi è l’effetto ottico che si può notare in alcune ore della giornata, soprattutto verso sera all’imbrunire, che rendono la statua grottesca: osservando la statua da dietro si noterà che la Madonna avrà il velo increspato. Con un gioco di prospettiva, la statua sembrerà del tutto diversa: il velo coprirà, come un cappuccio, una figura simile alla Morte che brandisce la classica falce. Questo strano aspetto ha fatto pensare al culto messicano della Santa Muerte, la cui statua rappresentativa è uno scheletro in un velo di vario colore a seconda dei mali da debellare. Difficile però pensare che questo culto così lontano sia arrivato anche a Napoli. Le Donne di Napoli Un'altra leggenda d'amore ci è stata tramandata nel corso degli anni, anche
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attraverso gli scritti di Matilde Serao. La storia ha per protagoniste tre sorelle: Donna Regina, Donna Romita e Donn'Albina, figlie del barone Toraldo. Prima della sua morte (avvenuta nel 1320), il barone ottenne che la figlia maggiore, Donna Regina, sposandosi potesse conservare il nome di famiglia in modo che non andasse perduto. Donna Regina era molto bella: capelli lunghi e neri, come gli occhi, aveva 19 anni e un carattere inflessibile con forte senso del dovere. La secondogenita era Donn'Albina, chiamata così per il colore chiarissimo della sua pelle, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri ed era sempre sorridente; si occupava dell'elemosina ai poveri. Donna Romita era esile, con capelli biondi e ricci e gli occhi verdi. Aveva un carattere mutevole e preferiva la solitudine. Un giorno il re Roberto d'Angiò scrisse a Donna Regina comunicandole che l'aveva data in sposa a don Filippo Capece, cavaliere di corte. Purtroppo però, presto Donna Regina scoprì che la sua sorella più piccola soffriva d'amore proprio a causa di Filippo. Quando la secondogenita ne prese le difese, Regina capì che anche lei era innamorata di Filippo. Dopo un lungo periodo di sofferenza e lontananza le une dalle altre, le sorelle più piccole si presentarono da Donna Regina chiedendo il suo perdono e il permesso di avviarsi alla vita monacale. Donna Regina però comunicò loro che, avendo capito che Filippo non l'amava, aveva già deciso anch'ella da tempo di trasferirsi in un convento che
aveva fondato. Così si alzò, prese uno scettro d'ebano borchiato d'oro, lo spezzò in due e lo rivolse verso il ritratto del padre dicendogli “Salutate, Padre mio, la vostra nobile casata è morta”. In omaggio a questa triste storia d'amore, alle tre sorelle sono state dedicate altrettante strade: via Donnaromita e largo Donnaregina vicino al Duomo, e via Donnalbina in prossimità di piazza Matteotti. La chiesa Santa Maria Donnaregina oggi è sede del Museo Diocesano. Piazza Municipio Piazza Municipio deve la sua attrattiva principalmente alla presenta dominatrice del Castel Nuovo, conosciuto anche come Maschio Angioino. I lavori di costruzione del castello iniziarono nel 1279 per volere di Carlo d'Angiò, capostipite della dinastia fran-
cese a Napoli, il quale non era soddisfatto della sua residenza a Castel Capuano. Una gran parte della storia napoletana si intreccia con il Maschio Angioino. Nel 1294,ad esempio, il Papa Clemente V abdicò lasciando il suo posto a Papa Bonifacio VIII. Ha accolto anche grandi letterati come Boccaccio e Petrarca, o artisti come Giotto, che fu incaricato di decorare gli ambienti più importanti. Purtroppo le sue opere sono andate tutte perse. Ovviamente, data la sua storia rilevante, neanche il castello è sfuggito al destino di diventare luogo circondato da leggende e misteri. Uno di questi racconti coinvolge le regine Giovanna I e Giovanna II che regnarono fra il XIV e il XV secolo. Molte di queste leggende nacquero da dicerie legate alla vita privata delle due donne. Giovanna I era nota per i suoi quattro matrimoni, il primo dei quali contratto a sette anni. Si diceva che uccidesse i suoi numerosi amanti. Di lei non resta ricordo a Napoli, non c'è nemmeno la sua tomba. Di Giovanna II si riporta la grande influenza che veniva concessa ai suoi favoriti. Proprio a causa dei suoi amanti iniziarono a girare voci malevole circa i vizi della regina: pare che cercasse i suoi numerosi amanti senza distinzione di classe sociale e, che per non rovinare la propria reputazione, li uccidesse gettandoli in una botola segreta all'interno del Maschio Angioino. Qui gli uomini veniva mangiati da animali marini. E a questa storia si rifà anche la 95
leggenda del coccodrillo che dall'Africa giunse nel Mediterraneo, trovando negli amanti della regina Giovanna degli ottimi pasti. Anche intorno ai sotterranei del castello ci sono diverse leggende. I sotterranei sono formati da due ambienti: la fossa del coccodrillo e la prigione della congiura dei baroni. La prima in origine era detta fossa del miglio in quanto vi erano conservate le scorte di grano. In seguito divenne una prigione. Da qui, i prigionieri sparivano in modo misterioso. Si scoprì poi che da un buco nel muro entrava un coccodrillo che trascinava le sue prede in mare. Catturato con uno stratagemma, l'animale fu ucciso, impagliato e appeso alla porta dell'ingresso del castello. Nella prigione dei baroni, invece, furono rinchiusi i baroni che volevano organizzare una congiura contro il re Ferrante d'Aragona nel 1486. Il re, invitò i baroni a cena per proporre un accordo e riportare la pace. I baroni accettarono, ma caddero in una trappola: appena entrarono nella sala del banchetto furono chiusi dentro e arrestati. Molti furono chiusi nelle prigioni e morirono dopo atroci torture.
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Qui si trovano quattro bare senza iscrizione e delle quali, ancora oggi, non si sa nulla. Forse conservano i resti di alcuni dei baroni protagonisti della congiura. Piazza Municipio ospita anche, tra gli altri, Palazzo S.Giacomo, sede principale del Comune di Napoli. In questo Palazzo è conservata la testa della Marianna, conosciuta come 'a capa 'e Napule. Questa testa apparteneva a una scultura antica di epoca classica, ritrovata nel Seicento nei pressi di piazza Mercato. Secondo un'antica tradizione, la testa raffigurava la sirena Parthenope. Nel quotidiano la testa di Napoli non godeva di buona fama: chiunque avesse la testa grande veniva preso in giro e paragonato alla Marianna. Non si sa quando il popolo iniziò a chiamarla Donna Marianna, forse nell'Ottocento quando la statua fu posta di fronte la chiesa di Santa Maria dell'Avvocata. Qui era conservata anche un busto della santa che veniva commemorata durante la festa di Sant'Anna. Forse per assonanza con il busto e la santa, 'a capa 'e Napule fu battezzata Marianna. Per la festa di Sant'Anna, le ragazze avevano il compito di adornare la Marianna con fiori e nastri e di ballarle intorno. Dopo il 1960 la statua è stata trasferita a Palazzo San Giacomo. Vista mare Nell'immaginario collettivo, Napoli è identificata con il suo panorama particolare. Il Lungomare napoletano può
essere considerato tra i più belli al mondo. Qui nell'VIII secolo a.C. approdarono i primi coloni greci, che poi si spinsero nell'entroterra per gettare le basi della futura Napoli. Al mare e alla sua spiaggia sono legati tanti miti, alcuni più popolani altri di origine antica. Virgilio Mago Importante figura del panorama napoletano fu il poeta latino Publio Virgilio Marone. Virgilio visse a lungo a Napoli, trovandovi il rifugio ideale dalla vita e dalla società a cui era abituato e di cui non aveva una buona opinione. Qui scrisse alcune delle sue opere più famose, come le Bucoliche, le Georgiche e l'Eneide. Ma è intorno al periodo medievale che la sua figura si ammanta di mistero: gli vennero infatti attribuiti poteri magici ed esoterici. Anche Matilde Serao gli
dedica attenzione nel suo libro. “Virgilio veniva di lontano, dal nord forse, dal cielo certamente; egli era giovane, bello, alto nella persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del mare, per la riva Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia.” Numerose sono le magie a lui attribuite. La prima riguarda una mosca d'oro. Parthenope (antico nome di Napoli) era invasa da mosche estremamente fastidiose. Virgilio allora, per difendere la sua città, modellò una mosca d'oro e con parole magiche le diede la vita. La mosca d'oro uccise tutte le mosche vere. Grazie ai suoi poteri prosciugò e purificò una zona paludosa, creando al suo posto case e giardini; ordinò al vento caldo che stava distruggendo le piante di cambiare direzione, permettendo alla flora di crescere più rigogliosa. Riuscì a domare e uccidere le creature che abitava nel sottosuolo, in particolare un serpente che divorava i bambini e le ragazze del quartiere Pendino. 97
Con una testa di cavallo fatta in bronzo, alla quale infuse il suo potere, riuscì a guarire i cavalli affetti da un morbo che li stava sterminando: agli animali bastava girare per tre volte intorno alla testa per stare bene. In una sola notte aprì un lungo tunnel che collegava Piedigrotta e Pozzuoli, la Crypta Neapolitana. La tradizione vuole che qui vi fosse la porta che conduceva ai Campi Flegrei. Sempre la tradizione attribuisce a Virgilio anche la creazione dei bagni termali di Baia. Anche la sua morte è avvolta da mistero. Quelli che sono considerati i suoi resti giacciono nel Parco Vergiliano, sito dietro la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta. Megaride L'isolotto di Megaride – oggi collegato alla terra ferma – fu il primo approdo dei coloni greci. Con l'arrivo dei romani, l'area divenne parte della villa del famoso patrizio romano Lucinio Lucullo. A Lucullo si deve anche l'importazione degli alberi di ciliege e pesche dalle terre orientali di Cerasunto e dalla Persia – da cui i termini napoletani di cerase e perseche per indicare i frutti.
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Negli anni successivi, divenuta una fortezza, ospitò fino alla morte l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augustolo. Con Santa Patrizia il luogo assunse un'aura sacrale: la leggenda vuole che la ragazza, scappata da un matrimonio combinato e non voluto, approdasse su Megaride e che qui venisse accolta dai monaci basiliani. Anche il suo sangue sembra che si sciolga come quello di San Gennaro. Nel 1139 Ruggero il Normanno diede ordine di ingrandire la fortezza, iniziando a darle la forma che noi oggi conosciamo come Castel dell'Ovo. Il nome di questo castello deriva da una leggenda che vede coinvolto nuovamente Virgilio Mago. Pare che Virgilio abbia posto, sotto al castello, un uovo d'oro – simbolo alchemico della creazione - chiuso dentro una caraffa di vetro, protetta da una gabbia in ferro: è proprio sull'uovo che si basa l'equilibrio non solo del castello, ma di tutta la città. L'isolotto di Megarine, oltre a essere stata teatro dell'origine storica della città, conserva anche quella leggendaria.
Il primo nucleo cittadino venne chiamato Parthenope in onore alla sirena morta sulle spiagge dell'isola. Questa leggenda identifica Parthenope come una delle tre sirene che abitavano nella zona sorrentina e che ammaliavano con i loro canti i navigatori, i quali, soggiogati, sbattevano contro gli scogli perdendo la vita. L'unico che scampò a questo destino grazie alla sua astuzia fu Ulisse. Parthenope, sofferente per non essere riuscita a conquistarlo, si lasciò cadere in acqua morendo – le antiche sirene erano raffigurate come metà donne e metà uccelli. Il suo corpo fu trasportato dalle onde fino a Megaride. Nei secoli successivi molti scrittori parlarono dell'avvenuta scoperta o meno della tomba della sirena. Nell'epoca medievale, quando l'iconografia cambiò trasformando le sirene in esseri metà donne e metà pesci, nacquero altri miti. Uno fu attribuito a Giovanni Boccaccio e parla dell'amore tra il fiume
Sebeto, che in epoca antica attraversava al città gettandosi nel mare, e la dolce e bella sirena Parthenope. Nell'Ottocento, invece, si diffuse la storia del centauro Vesuvio innamorato della sirena Parthenope. Zeus, accecato dalla gelosia, si vendicò di loro trasformandoli uno in un vulcano, l'altra nella città di Napoli. Ma forse la leggenda più bella e romantica è riportata da Matilde Serao. La storia narra l'amore tra Cimone e la bellissima fanciulla greca Parthenope. Non potendosi sposare, per il parere contrario del padre di lei, decidono di abbandonare tutto e tutti e partire, attraverso il mare, diretti verso la terra ignota, che tanto lei aveva immaginato. Dal loro paese, giungono sulle nostre spiagge. Qui la terra è ricca, ma ha bisogno dell'amore per non morire. E Parthenope e Cimone si amano in ogni luogo, da Posillipo a Poggioreale, nelle caverne oscure della spiaggia di Platamonia, dalle colline sino alla riva rendendo tutta l'area eternamente rigogliosa e immortale. Dalla Grecia, per amor suo, giunsero anche la famiglia e gli amici di Parthenope che fondarono una comunità felice e beata, la cui fama giunse sino al lontano Egitto. Da ogni luogo giungono nuovi popoli che portano con loro averi e saperi. La comunità cresce, si arricchisce con l'agricoltura e nuove arti. I vari villaggi, che occupavano tutto il territorio, si unirono in un'unica città e Parthenope ne diviene simbolo e guida. 99
È seduta sul monte Echia che Parthenope guarda verso il mare permettendo alla sua anima di abbandonarsi al pensiero di come sia finalmente riuscita a soddisfare quei bisogni che sentiva da giovane e rendere reale, nella sua terra ignota, ciò che sembrava impossibile. Matilde Serao conclude la leggenda di Parthenope e Cimone con queste eterne parole: “Se interrogate uno storico, o buoni ed amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull’altura di Sant’Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate d’aprile un’aura calda c’inonda di benessere è il suo alito soave: quando nelle lontananze verdine del bosco di Capodimonte vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante; quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate, è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci, indistinto, sommesso, ci 100
fa trasalire, sono i suoi baci; quando un fruscìo di abiti ci fa fremere al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull’arena, è il suo piede leggiero che sorvola; quando di lontano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione spaventosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore.”
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Napoli, 22/07/2014 Grazia De Micco
Francesca Ferrara
Roberta Ingargiola
Filomena Parisi
Mara Piccirillo
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