Non è la solita guida

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Non è la solita guida

Il Ragù, il Sangue di San Gennaro, Rosso Pompeiano, Pizza, il Vesuvio ed i Campi Flegrei Fatte 'na pizza c'a pummarola 'ncoppa Vedrai che il mondo poi ti sorriderà Fatte 'na pizza e crescerai più forte nessuno Nessuno più ti fermerà

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NOTE ————————————————————————————— ————————————————————————————— ————————————————————————————— ————————————————————————————— Redazione a cura di

Claudia Albrizio, Bruna Caiazzo, Imma Lancia, Immacolata Mormile, Maria Parisi, Martina Vezzi

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Progetto grafico: Elena Carrucola

————————————————————————————— ————————————————————————————— ————————————————————————————— ————————————————————————————— ————————————————————————————— P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”

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PRESENTAZIONE

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La chiesa di Sant'Angelo a Nilo si trova nel centro storico di Napoli in piazzetta Nilo, all'angolo sud-est di piazza San Domenico, con una facciata (che è la principale) rivolta su via Mezzocannone. La chiesa conserva al suo interno diverse opere tra cui il monumentale sepolcro del cardinale Rainaldo Brancacci scolpito da Donatello, Michelozzo ed aiuti.

dello scioglimento del sangue di san Gennaro.

La nostra passeggiata si conclude uscendo di nuovo su via Duomo dove troneggia la sontuosa cattedrale. La Cattedrale di Napoli (o Duomo di Napoli), dedicata a Santa Maria Assunta, è la sede dell'arcidiocesi di Napoli, nonché una delle più importanti e grandi chiese della città. Il Duomo sorge lungo il lato est della via omonima, in una piazzetta contornata da portici. Essa ospita il battistero più antico d'Occidente (il battistero di San Giovanni in Fonte) e tre volte l'anno accoglie il rito

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della famiglia di accedere privatamente al luogo di culto.[3] La cappella ospita capolavori come il Cristo velato, conosciuto in tutto il mondo per il suo velo marmoreo che quasi si adagia sul Cristo morto, la Pudicizia e il Disinganno, ed è nel suo insieme un complesso singolare e carico di significati.[3][4] Essa ospita anche numerose altre opere di pregiata fattura o inusuali,[3] come le macchine anatomiche, due corpi totalmente scarnificati dove è possibile osservare, in modo molto dettagliato, l'intero sistema circolatorio.[5] Oltre ad essere stato concepito come luogo di culto, il mausoleo è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma diRaimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell'apparato artistico settecentesco della cappella. L'opera più suggestiva della "Cappella di Sansevero" è sicuramente il Cristo Velato. Scolpita da Giuseppe Sanmartino, l'opera colpisce per la minuziosità

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del particolare e la delicatezza del velo che ricopre il Cristo morto, adagiato su dei cuscini. Sul viso e sul corpo di Gesù sono visibili i segni del supplizio, le mani e i piedi forati dai chiodi, la ferita del costato e il dolore rimasto nei lineamenti del cadavere. Di fianco al corpo, sempre scolpiti nel marmo, sono posti i chiodi e la corona di spine. Il velo che ricopre il soggetto, offusca ma non copre la scultura e questo ha fatto nascere la leggenda del velo marmorizzato dal Principe di Sansevero. La bellezza dell'opera è tale che addirittura Antonio Canova, il grande scultore, dopo aver cercato in tutti i modi di entrarne in possesso, dichiarò che per avere la scultura, sarebbe stato disposto a privarsi di dieci anni della sua vita. Il velo che ricopre il Cristo lascia comunque aperto l'antico dibattito: l'innaturale "morbidezza" che lo caratterizza è figlia dell'ineguagliabile arte di Giuseppe Sanmartino, o dei poteri esoterici del Principe Raimondo di Sangro? Sant’ Angelo a Nilo

INTRODUZIONE Famosissimo come alimento dalle grandi proprietà nutrienti, il Pomodoro non è soltanto questo, e Napoli più di ogni altro posto al mondo dà a questo prodotto della terra una grande importanza. Chiamato dal popolo ‘a pummarola’ esso accompagna famosissimi piatti della tradizione napoletana come il ragù e la pizza. Nelle domus pompeiane ritroviamo quel colore rosso caratteristico, diventato quasi un simbolo territoriale.Il colore di quel fuoco che qui è stato elemento fertile e distruttore, un elemento con cui i partenopei convivono da sempre. La città, infatti, è distesa tra due aree vulcaniche, le pendici del Vesuvio e i Campi Flegrei, i campi "ardenti" dei Greci, che fin dai tempi antichi, con sapienza sono stati sfruttati per la produzione di vini pregiati. Infatti, Napoli è anche famosa per il Vesuvio, un vulcano ancora attivo, ai cui piedi natura e arte si incontrano per offrire un perfettoconnubio di bellezza. Oltre alle varie e affascinanti storia legate a questa montagna di fuoco, come quella di Pucinella o dei miracoli di San Gennaro, si possono ammirare le bellezze dell’omonimo Parco Nazionale. Il Vesuvio è legato al pomodoro, in quanto sulle sue pendici è coltivata il famosissimo ‘Piennolo’, ovvero il grappolo di pomodori, oppure “ a pecchetella”, e cioè la conserva in vetro. Il pomodoro del Vesuvio è una qualità che si trova esclusivamente nel territorio partenopeo grazie al terreno che presenta una stratificazione di lava dovuta alle eruzioni vulcaniche. Al rosso del pomodoro è legato San Gennaro, il santo patrono della città di Napoli, festeggiato il 19 settembre, nel cui Duomo sono custodite due ampolle contenenti una sostanza allo stato solido, che la tradizione afferma essere sangue del santo, e che si liquefà tre volte all'anno. Ciò è conosciuto come il Miracolo di San Gennaro, e considerato dai napoletani un segno d’auspicio per la città.

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(UNESCO) La piazza, fulcro di alcuni dei più importanti monumenti di Napoli, ruota attorno al monumentale obelisco dell'Immacolata, maestosa guglia di marmo bianco e bardiglio posta al centro dello spiazzale. La guglia fu eretta nel XVIII secolo per volere del gesuita padre Francesco Pepe su progetto di Giuseppe Genoino grazie ad una colletta pubblica. L'opera si ispira alle innumerevoli macchine da festa presenti in quei secoli ed è rivestita da sculture marmoree di Matteo Bottiglieri e di Francesco Pagano. Sulla sommità è posta la statua di rame dell'Immacolata. Complesso monumentale Santa Chiara Adiacente alla Piazza troviao una delle più antiche chiese di Napoli ,la basilica di Santa Chiara. La basilica di Santa Chiara, con l'adiacente complesso monastico, entrambi conosciuti anche come monastero di Santa Chiara, è un edificio di culto d iNapoli. Edificato tra il 1310 e il 1340 su un complesso termale romano del I secolo

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d.C., per volere di Roberto d'Angiò e della regina Sancha d'Aragona, nei pressi dell'allora cinta muraria occidentale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al convento faceva parte anche il complesso delle Clarisse, oggi luogo di culto a sé. Si tratta della più grande basilica gotica della città. L’ultimo Decumano che percorriamo in questa nostra visita tra le emozioni e le suggestioni che Napoli ci elargisce a grandi mani, senza parsimonia, con grande e superba generosità,è il decumano superiore. Qui incontriamo la cappella San Severo,altro luogo incantevole e misterioso. La cappella Sansevero (detta anche chiesa di Santa Maria della Pietà oPietatella) è tra i più importanti musei di Napoli. Situata nelle vicinanze dellapiazza San Domenico Maggiore, questa chiesa, oggi sconsacrata, è attigua alpalazzo di famiglia dei principi di Sansevero, da questo separata da un vicolo una volta sormontato da un ponte sospeso che consentiva ai membri

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il Chiostro di San Lorenzo Maggiore. Importante testimonianza di epoca settecentesca è quella del pregevole pozzo di marmo epiperno scolpito da Cosimo Fanzago e, sulla lunetta del portale che immette in chiesa, l'affresco Madonna con bambino e devoto di Montano d'Arezzo.

sù. All'interno vi è inoltre custodito il corpo di san Giuseppe Moscati e le sue stanze private dentro le quali soggiornava.

….allontanandoci dal Decumano maggiore la passeggiata prosegue incontrando ,lungo il decumano superiore la chiesa di San Pietro a Majella è una chiesa gotica di Napoli, situata nelcentro antico della città, adiacente all'omonimo conservatorio musicale. Giungiamo finalmente nella Piazza del Gesù dove si affaccia l’omonima chiesa di origine barocca. La chiesa del Gesù Nuovo o Trinità Maggiore è una delle più importanti chiese basilicali di Napoli; si erge in piazza del Gesù Nuovo ed è situata ad ovest dell'antico decumano inferiore. La chiesa venne così chiamata per distinguerla dalla vecchia chiesa del Ge-

La piazza La piazza, data la sua complessità architettonica e strutturale, non è raggiungibile tramite alcun mezzo di locomozione, né pubblico, né privato, e costituisce un'area interamente pedonale. Inoltre, sulla facciata della chiesa del Gesù Nuovo, è affissa la targa UNESCO con incisa la motivazione per la quale il centro storico di Napoli è divenuto patrimonio dell'umanità: « Si tratta di una delle più antiche città d'Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell'Europa e al di là dei confini di questa. »

INDICE

1. Le vie del Gusto

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Le vie della Pizza Il Decumano Maggiore Il Decumano Inferiore Il Decumano Superiore

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2. Rosso Pompeiano

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Villa Pignatelli Museo Archeologico Palazzo Venezia

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3. Il Sangue di San Gennaro

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Duomo e Processione

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4. Il Vesuvio

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Origine del nome Le Storie del Vesuvio Il Parco Naturale del Vesuvio La produzione agricola Vesuviana Lacryma Christi Il Piennolo Area di produzione Dati economici produttivi Itinerari

5. I Campi Flegrei

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Il Lago d’Averno Il Lago di Lucrino Il Monte Nuovo Il Percorso

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6. Il Ragù

62 Caratteristiche Itinerario

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sta cappella era originariamente allocato il celebre dipinto di Simone Martini San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d'Angiò, ora al Museo di Capodimonte. Nel transetto sono conservate anche diverse testimonianze pittoriche risalenti alle origini della chiesa. Cicli di affreschi trecenteschi di Montano d'Arezzo sono infatti visibili nel transetto destro; altri di ignoti giotteschi sono presenti sul lato destro del deaumbulatorio absidale, mentre diverse sono le sculture risalenti a questo secolo. Ancora, vi è il Monumento funerario di Carlo di Durazzo, fatto giustiziare nel 1348 dal re Luigi d'Ungheria (l'iscrizione posta di fronte al sarcofago riporta per errore la data 1347). Di rilievo, infine, anche la pala di Colantonio, Consegna della regola francescana, iniziata per la chiesa nel 1444, anch'essa confluita a Capodimonte. La magnifica abside è un esempio chiaro della profonda impronta che lascia il gotico francese sulla basilica. Notevole ildeambulatorio con cappelle radiali ed un alto presbiterio a pilastri polistili, costoloni e volte a crociera. Non c'è unanimità fra i vari studiosi circa l'attribuzione di questa parte importante della basilica ad un costruttore. Secondo ilVasari l'autore sarebbe Nicola Pisano, per Gaetano Filangieri invece Arnolfo di Cambio, secondo altri, per alcune analogie costruttive stilistiche con la chiesa di Santa Maria Donnaregina l'attribuzione sarebbe da ascriversi proprio all'architetto france8

se che edificò quest'ultima. Nel deambulatorio, all'altezza della prima arcata, sul lato destro, si trova ilmonumento sepolcrale di Caterina d'Austria (prima moglie del duca Carlo di Calabria, figlio di re Roberto d'Angiò). L'opera scultorea è di fatto la prima opera napoletana di Tino di Camaino. L'altare maggiore, opera di epoca rinascimentale tra le più belle presenti a Napoli, è dello scultore napoletano Giovanni da Nola. Sono visibili nella parte superiore le statue dei santi Lorenzo, Antonio e Francesco, mentre sulla parete inferiore lo scultore raffigurò Il Martirio di San Lorenzo, San Francesco con il lupo di Gubbio eSant'Antonio che parla ai pesci, in uno sfondo in cui è rappresentata la città all'epoca rinascimentale che rende l'opera di grande valore documentario oltre che artistico. In origine vi era un'altra sezione posta in alto rispetto alle statue dei santi con rilievi raffiguranti la Madonna, gli Angeli ed il Bambino. Oggi questa parte è conservata nel transetto destro. Adiacente alla Sala Capitolare, vi è

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Di notevole interesse è il campanile, del secolo XV, eretto a più riprese, in sostituzione di quello preesistente. La torre, di forma quasi quadrata, è a quattro piani e, per la sua posizione nel centro della città è stata al centro di svariati fatti storici. Il chiostro fu deposito di armi dei Viceré spagnoli e nel 1547 il campanile fu posto sotto assedio dal popolo nella rivolta contro Pedro de Toledo; nel 1647 i seguaci di Masaniello lo presero d'assalto utilizzandolo come avamposto di artiglieria contro gli spagnoli Interno La basilica ha una pianta a crociera con cappelle laterali aperte da archi acuti che si aprono sull'unica navata coperta (così come il transetto) da capriate. Tra le cappelle laterali vanno ricordate: I-II cappella a destra: vi domina il monumento sepolcrale di Ludovico Aldomorisco(1421), consigliere del re Ladislao di Durazzo. L'opera di gusto tardo-gotico appartiene allo scultore Antonio Baboccio da Piperno e fu questo l'ultimo suo lavoro documenta-

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to; III cappella a destra: è in stile barocco decorata da Cosimo Fanzago nella cancellata in ottone d'ingresso e contenente le tombe della famiglia Cacace con busti e statue eseguite da Andrea Bolgi intorno al 1653. Sulla parete frontale vi è una Madonna del Rosario, dipinto di Massimo Stanzione, mentre la volta è affrescata da Niccolò de Simone; IV cappella a destra: contiene un pregevole polittico rinascimentale in terracotta; IV cappella a sinistra: ospita un'Adorazione dei Magi di Marco dal Pino eseguita tra il 1551 e 1568 per la chiesa del Gesù Vecchio trovando solo di recente stabile collocazione all'interno della basilica di San Lorenzo.

Fatte 'na pizza c'a pummarola 'ncoppa Vedrai che il mondo poi ti sorriderà Fatte 'na pizza e crescerai più forte nessuno Nessuno più ti fermerà

Cappellone di Sant'Antonio Nel lato sinistro vi è il cappellone di Sant'Antonio, maestosamente barocco nell'esecuzione diCosimo Fanzago del1638 in cui trovano alloggio dipinti diFrancesco Di Maria e due tele di Mattia Preti: Santa Chiara e Crocifisso di San Francesco. In que-

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Le vie del gusto La pizza è un prodotto gastronomico che ha per base un impasto di acqua, farina, sale e lievito, che dopo una lievitazione di almeno ventiquattro ore viene lavorato fino a ottenere una forma piatta, cotto al forno e variamente condito. L'etimologia del nome "pizza" deriverebbe secondo alcuni, da pinsa (dalla lingua napoletana), participio passato del verbo latino pinsere oppure del verbo "pansere", cioè pestare, schiacciare, pigiare che deriverebbe da pita mediterranea e balcanica, di origine greca pita o pitta, dal greco peptòs ossia "infornato”; secondo quest'ultima ipotesi la parola deriverebbe dall'ebraico, dall'arabo e dal greco, da cui anche pita che appartiene alla stessa categoria di pane o focacce. Tuttavia l’ipotesi più accreditata induce a pensare che derivi semplicemente dalla “pita” greca per incrocio con la parola “pezzo” oppure “pazzo”. La pizza ha una storia lunga, complessa e incerta. Le prime attestazioni scritte della parola "pizza" risalgono al latino volgare di Gaeta nel 997. Già comunque nell'antichità focacce 10

schiacciate, lievitate e non, erano diffuse presso gli Egizi, i Greci e i Romani. Benché si tratti ormai di un prodotto diffuso in quasi tutto il mondo, la pizza è un piatto originario della cucina italiana. Nel sentire comune, spesso, ci si riferisce con questo termine alla pizza tonda condita con pomodoro e mozzarella, ossia la variante più conosciuta della cosiddetta pizza napoletana, la pizza Margherita. La vera e propria origine della pizza è tuttavia argomento controverso: oltre a Napoli, altre città ne rivendicano la paternità. Esiste, del resto, anche un significato più ampio del termine "pizza" con innumerevoli varianti, cambiando nome e caratteristiche a seconda delle diverse tradizioni locali. L’unico tipo di pizza, però, riconosciuto in ambito nazionale ed europeo è la Pizza Napoletana. Nel 2004, infatti, è

giornò nel convento nel 1343, come egli stesso documentò in una lettera all'amico Giovanni Colonna, descrivendogli il maremoto che il 25 novembre colpì la città, mentre Giovanni Boccaccio pare che qui si innamorò di Fiammetta, la bellissima Maria d'Aquino, figlia del re Roberto d'Angiò, sua musa ispiratrice, dopo averla vista nella basilica durante la messa del sabato santo del 1334. Nei secoli seguenti, la basilica è stata poi oggetto di numerosi rimaneggiamenti, dovuti anche ai danni dei terremoti che colpirono la città e a partire dal XVI secolo. Vi si aggiunsero, ad opera di architetti locali, pesanti sovrastrutture barocche. A partire dal 1882 i restauri, più volte interrotti e ripresi, sino all'ultimo, terminato nella secondà metà del XX secolo, cancellarono progressivamente le aggiunte barocche, ad eccezione della facciata e della controfacciata, opera di Ferdinando Sanfelice, della cappella Cacace

e del cappellone di Sant'Antonio, opera di Cosimo Fanzago. Tra gli anni cinquanta e anni sessanta del Novecento furono eseguite opere di consolidamento da Rusconi per bloccare il crollo delle mura attraverso un contrafforte e opere di cemento armato. Infine, nel corso del tempo hanno trovato, nella basilica, degna sepoltura diverse illustri personalità della storia napoletana, come il filosofo e commediografo Giovanni Battista Della Porta, il letterato amico del Petrarca Giovanni Barile, il marchese Giovanni Battista Manso e l'insigne musicista Francesco Durante. Esterno La facciata presenta un portale gotico, probabilmente eseguito con la collaborazione di maestri toscani, che ancora offre alla vista gli originari battenti lignei trecenteschi, ciascuno suddiviso in 48 riquadri in un discreto stato di conservazione. La facciata invece risale al 1742 in piena epoca barocca ed è opera del Sanfelice.

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a e il forno (convertito poi a refettorio per le orfanelle, nel XVIII secolo). I lavori che furono effettuati dopo il 1664, sotto direzione di Francesco Antonio Picchiatti, modificarono sensibilmente la struttura del chiostro, riducendo sensibilmente le sue dimensioni; infatti, fu costruito il refettorio al piano terra, mentre le celle occuparono il piano sovrastante. Nel cortile di servizio vi si trovavano diciassette cucine, il che ha fatto intuire quanto le religiose tenessero ad ogni comodità: come ben spiega Enrichetta Caracciolo che visse, per ben sette anni, all'interno del complesso, non come donna religiosa, ma come laica; ella pubblicò le sue memorie intitolate I misteri del chiostro napoletano. San Lorenzo Maggiore La basilica di San Lorenzo Maggiore è una delle più antiche chiese diNapoli. Si trova nel centro antico della città, presso piazza San Gaetano. Giovanni Boccaccio la definì "grazioso e bel tempio" e si dice che qui egli incontrò Fiammetta nel 1334, mentre nel 1346 Francesco Petrarca dimorò nel

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convento annesso. Nel 1235 il papa Gregorio IX ratificò la concessione di una chiesa dedicata asan Lorenzo da erigere in città. All'epoca, è documentata la presenza di almeno altre cinque chiese dedicate al santo, e la chiesa del Foro (di epoca paleocristiana) fu assegnata ai frati francescani come edificio su cui sarebbe stata costruito il nuovo tempio. Carlo I d'Angiò a partire dal1270, quindi non molto tempo dopo la sua vittoria su Manfredi, iniziò a sovvenzionare la ricostruzione della basilica e del convento, in una mescolanza di stile gotico francese e francescano. Ad architetti francesi si deve l'abside, ritenuta unica nel suo genere in Italia ed esempio classico di gotico francese. Nel passaggio dall'abside alla zona del transetto e della navata si andò affermando invece uno stile maggiormente improntato al gotico italiano, segno del mutamento dei progettisti e delle maestranze con il passare degli anni. Negli anni successivi, la basilica fu protagonista di importanti eventi per la città ed il regno più in generale. San Ludovico da Tolosa, rinunziatario al trono del padreCarlo II d'Angiò, fu infatti consacrato sacerdote in questa basilica (celebre è il dipinto, oggi al Museo di Capodimonte di Simone Martini che rappresenta San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d'Angiò). Altra consacrazione celebre fu quella di Felice Peretti, vescovo di Sant'Agata de' Goti, il futuro papa Sisto V. Francesco Petrarca invece sog-

ufficialmente riconosciuta come Specialità Tradizionale Garantita (STG) della Comunità Europea. Essa si presenta come una pizza tonda dalla pasta morbida e dai bordi alti (cornicione). Tale rigonfiamento del cornicione è dovuto all'aria, che durante la fase di manipolazione del panetto si sposta dal centro verso l'esterno. Nell'impasto classico napoletano non è ammesso nessun tipo di grasso. Soltanto acqua, farina, lievito (di birra o naturale) e sale. Nella più stretta tradizione prevede solo due varianti per quanto riguarda il condimento: P i z z a m a r i n a r a : con pomodoro, aglio, origano e olio extravergine di oliva. P i z z a M a r g h e r i t a : con pomodoro, mozzarella STG a listelli, mozzarella di bufala campana DOP a cubetti o Fior di latte, basilico e olio extravergine di oliva. La cottura della pizza napoletana, infine, avviene sempre ed esclusivamente tramite l'utilizzo del forno a legna. Oggi la pizza napoletana è uno dei piatti più diffusi al mondo ed è presente in quasi tutti i ristoranti e locali di cucina italiana all'estero con il nome pizza napoletana o pizza Napoli.

La Pizza Margherita fu creata da Raffaele Esposito nel 1889 per onorare la Regina d’Italia Margherita di Savoia, una pizza condita con pomodori, mozzarella e basilico, per rappresentare i colori della bandiera italiana. La prima vera unione tra la pasta e il pomodoro avvenne a metà del Settecento nel Regno di Napoli. Per alcuni anni dopo che il pomodoro fu portato in Europa dalle Americhe nel XVI secolo, molti europei credevano che fosse velenoso. Dal tardo XVIII secolo tuttavia era comune per i poveri della zona intorno a Napoli aggiungere il pomodoro alle loro focacce, e così nacque la pizza. Il piatto guadagnò in popolarità e presto la Pizza divenne un'attrazione turistica quando i visitatori a Napoli si avventuravano nelle zone più povere della città per provare le specialità locali. Fino al 1830 circa la pizza era venduta in bancarelle ambulanti e da venditori di strada fuori dai forni. Alcune pizzerie mantengono viva questa antica tradizione ancora oggi. Quella che oggi è chiamata pizza Margherita era tuttavia già stata preparata prima della dedica alla regina di Savoia. Francesco De Bourcard nel 1866 riporta la descrizione dei principali tipi di pizza, ossia quelli che oggi prendono nome di pizza marinara, pizza margherita e calzone: « Le pizze più ordinarie, dette coll'aglio e l'oglio, han per condimento l'olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l'origano e spicchi d'aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e 11


allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, ec. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone. » Sino al principio del Novecento la pizza e le pizzerie rimangono un fenomeno prettamente napoletano, e gradualmente italiano (nell'Italia settentrionale iniziò a diffondersi solo nel secondo dopoguerra), poi, sull'onda dell'emigrazione, iniziano a diffondersi all'estero ma soltanto dopo la seconda guerra mondiale, adeguandosi ai gusti dei vari paesi, diventano un fenomeno mondiale. Oggi il giro di affari legato alla pizza (pizzerie, consegne a domicilio, surgelati, catene di fast food) è molto rilevante nel mondo, al punto che alcuni abili imprenditori hanno costruito intorno alla pizza grandi fortune.

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I puristi sostengono che esistono solo due vere pizze: la “Marinara” e la “Margherita”, ed è tutto ciò che servono. La Marinara è la più antica e ha un condimento di pomodoro, origano, aglio, olio extra-vergine d'oliva e solitamente basilico. Era chiamata “Marinara” non, come molti credono, perché contiene pesce ma perché era il cibo che i pescatori mangiavano quando tornavano a casa dalle lunghe giornate di pesca nella Baia di Napoli. L'"Associazione Verace Pizza Napoletana", fondata nel 1984, riconosce solo la Marinara e la Margherita verace ed ha stabilito le regole molto specifiche che devono essere seguite per un'autentica pizza Napoletana. Queste includono che la pizza deve essere cucinata in un forno a legno, alla temperatura di 485 °C per non più di 60-90 secondi; che la base deve essere fatta a mano e non deve essere utilizzato il mattarello o comunque non è consentito l'utilizzo di mezzi meccanici per la sua preparazione (i pizzaioli fanno la forma della pizza con le loro mani facendola "girare" con le loro dita) e che la pizza non deve superare i

La fontana La scelta della badessa, non fu però basata solo su un mero giudizio estetico, ma soprattutto funzionale, poiché il chiostro dei Santi Marcellino e Festo possedeva una rara qualità, ossia quella di rispondere alle esigenze delle suore di dominare, anche solo con lo sguardo, il paesaggio urbano e quello naturale. Cinque belvedere resero meno faticosa la clausura: i due più bassi, ad esempio, sono accanto alla cupola e sull'angolo orientale che fa da sfondo la cupola di San Lorenzo. Il terremoto del 1930, provocò danni ingenti all'intero monastero e i restauri successivi si rivelarono alquanto deludenti. Il fattore che ha sconvolto gli esperti dei beni culturali, è notare che fu demolita la splendida scala settecentesca che fece posto ai bagni dell'orfanotrofio, a cui era stata destinata parte del complesso religioso. Il chiostro è caratterizzato da una splendida fontana di controversia attri-

buzione[1]realizzata per richiesta della badessa Violante Pignatelli e la stessa è affiancata da due statue raffiguranti il Cristo e laSamaritana, opere scultoree di Matteo Bottiglieri. Inoltre, sono ivi presenti decorazioni originali ed aranci. Il creatore della struttura idrica, rimasto sconosciuto, sempre sotto richiesta della nobildonna, introdusse anche delfini ed altri animali marini, maschere, ecc. tutte figure intrecciate, elemento degno delbarocco napoletano, avido di forme e di spazio. Accanto alla fontana, invece, troviamo il pozzo che, assunse tale struttura, solo per coprire il foro dal quale fu estratto il materiale tufaceo per le ricostruzioni. Altra principale caratteristica del chiostro, sono le reti idriche ideate per usufruire delle acque provenienti dal condotto del Carmignano e quelle piovane, dunque in maniera completamente indipendente. I canali che facevano sopraggiungere l'acqua alle cisterne, vennero collocati su due archi rampanti sollevati tra l'orto e il portico adiacente alla chiesa. Le cisterne furono rivestite da volte a padiglione in lapillobattuto e rese accessibili attraverso una piccola finestra, dalla quale poteva passarci tranquillamente un uomo. Il pozzo che raccoglieva le acque piovane, invece, fu posizionato lungo l'asse orientale. Ben 135 scalini conducevano ai cunicoli dell'acquedotto e a numerosi depositi ricavati negli ambienti sottostanti. Il chiostro è formato da numerosi altri ambienti, come ad esempio la farmaci73


L'altare maggiore, appoggiato alla parete fondale dell'abside, è opera di Dionisio Lazzari; l'ancona, ospitante l'Ascensione di Giovan Bernardo Lama, è sormontata da una grata che costituisce l'affaccio del Cappellone, o Coro dell'abside, sulla chiesa. Sulla sinistra del presbiterio, il comunichino del 1610: da qui la badessa del convento soleva ascoltare la messa e consentiva alle monache di ricevere la comunione. L'ambiente interno conserva ancora oggi la Scala santa che, fino al secolo scorso le monache erano obbligate a salire in ginocchio tutti i venerdì del mese di marzo come forma di penitenza. Il chiostro I l chiostro, per secoli negato alla cittadinanza comune, fu aperto a tutti nel 1922 circa, quando la clausura fu abolita. La precisa data di fondazione della

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struttura è alquanto sconosciuta, ma, alcune fonti scritte, hanno fatto intuire che il chiostro esistesse già in un periodo anteriore all'XI secolo. In una documento politico, infatti, viene menzionata l'allora piccola chiesetta di San Gregorio Armeno, affiancata da altre tre chiesette. Tutte insieme, collocate a poca distanza le une dalle altre, furono unite per costituire un unico complesso dedicato a San Gregorio Armeno: le cui reliquie furono portate a Napoli grazie alle monache basiliane che sfuggirono alla guerra iconoclasta. Ai primordi, il chiostro era stato concepito con uno spazio verde rettangolare ed adibito parzialmente ad orto e delimitato da undici archi per dodici. Con i dettami del Concilio di Trento, le suore furono costrette a rimaneggiare l'intero complesso monastico. La prima modifica, riguardò la chiesa stessa, cuore del complesso religioso che, sempre secondo le disposizioni tridentine, doveva essere esterna al convento. Il rimaneggiamento più accurato fu quello che riguardò la struttura in oggetto, poiché il chiostro, costituiva l'unico spazio esterno delle suore, il loro giardino personale che avrebbe dovuto essere, secondo il loro gusto, il più accogliente possibile. Sotto richiesta della badessa Lucrezia Caracciolo, le opere vennero affidate a Giovanni Vincenzo Della Monica. Sotto consiglio della nobile, per l'edificio in questione, l'architetto ed ingegnere riprese il disegno del chiostro dei Santi Marcellino e Festo: anch'essa sua pregevole opera.

35 cm di diametro o essere spessa più di un terzo di centimetro al centro. L'associazione seleziona anche le pizzerie nel mondo per produrre e diffondere la filosofia e il metodo della pizza verace napoletana. Ci sono molte pizzerie famose a Napoli dove si possono trovare queste pizze tradizionali, la maggior parte di esse sono nell'antico centro storico di Napoli. Talvolta tali pizzerie andranno anche oltre le regole specificate, ad esempio, usando solo pomodori della varietà "San Marzano" cresciuti sulle pendici del Vesuvio e utilizzando solamente l'olio di oliva e aggiungendo fette di pomodoro in senso orario. Un'altra aggiunta alle regole è l'uso di foglie di basilico fresco sulla pizza marinara: non è nella ricetta "ufficiale", ma è aggiunto dalla maggior parte delle pizzerie napoletane per guarnirla. Simbolo della città di Napoli e dell’Italia nel mondo, la pizza e entrata nella cultura come elemento distintivo di un popolo e di una cultura. Nelle canzoni, i riferimenti alla pizza si spre-

cano: da "E tu vuliv'a pizza" di un festival della canzone napoletana degli anni 60, cantata da Aurelio Fierro insieme a un improbabile Giorgio Gaber; a Pino D a n i e l e , e c c . La sua storia è strettamente intrecciata con la storia di Napoli, e della sua atavica fame. Il segreto dell'invenzione della pizza napoletana, e del suo successo nella stessa città che le ha dato i natali, sta nella sua economicità; nell'eccellenza dei suoi ingredienti, prodotti in zona; nella facilità della sua confezione; nel suo potere saziante (la pasta della pizza continua a lievitare nello stomaco); nel suo apporto calorico (la pasta per i carboidrati, la mozzarella per le proteine, il pomodoro per le vitamine, i sali minerali e il licopene, sostanza anti-ossidante). Gli ingredienti di base della pizza napoletana sono due: la mozzarella ('a mozzarella)e il pomodoro ('a pummarola), ingredienti ad alto tasso di "napoletanità": sapientemente lavorati e impiegati, hanno fatto della "pizza napulitana" qualcosa di unico. L e v i e d e l l a p i z z a L’unione dei suoi ingredienti, unita alla vivacità del popolo napoletano e all’atmosfera che si respira per le vie del centro storico di Napoli, fanno del suo assaggio un momento memorabile sia per il napoletano stesso, che per il turista. Venire nella città partenopea per molti, infatti, significa anche fare un viaggio nella gastronomia del posto e come si può non assaggiarne il simbol o p e r e c c e l l e n z a ? 13


E’ nei decumani della città che si trovano le principali pizzerie napoletane, le più storiche e le più autentiche. La via primaria quando si parla di pizza resta sempre Via dei Tribunali ma il centro storico pullula di pizzerie sia nelle strade principali che secondarie. Il percorso che vi viene proposto è infatti tra i decumani della città, quindi del centro storico con le sue chiese e le sue piazze più importanti. Partendo dal Decumano Maggiore (quello centrale) in cui si trova Via dei Tribunali andremo a quello Inferiore (detto anche Spaccanapoli, più in basso) in cui c’è molto da visitare e a quello Superiore (più in alto) meno ricordato ma sempre pieno d i f ascino e st oria. Queste tre strade scorrono parallelamente l'una dall'altra attraversando da est a ovest la città, parallelamente rispetto alla costa. Il termine decumano utilizzato in via ufficiale risulta in realtà un termine improprio in quanto esso caratterizza un sistema di urbanizzazione di epoca romana mentre la nuova zona urbana di Neapolis, venne fondata come colonia greca, dunque ben prima dell'avvento dei romani. Il sistema greco prevedeva uno schema

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stradale ortogonale in cui tre strade, le più larghe e grandi, parallele l'una all'altra, chiamate plateiai (singolare: plateia), attraversavano l'antico centro urbano suddividendolo in quattro parti. Inoltre, tali vie principali vengono tagliate perpendicolarmente, da nord a sud, da altre strade più piccole chiamate stenopoi (singolare: stenopos) o più impropriamente "cardini", le quali strade oggi costituiscono i vicoli del centro s t o r i c o c i t t a d i n o . Oggi tutte e tre le vie principali del nucleo antico fanno parte della porzione di centro storico di Napoli protetto dall'Unesco e contengono al loro interno un elevato numero di palazzi nobiliari, chiese monumentali e siti archeologici della città. Il Decumano Maggiore Oggi il decumano maggiore è una delle strade più importanti del centro storico di Napoli (dichiarato nel 1995 patrimonio dell'umanità) e corrisponde all'odierna via dei Tribunali. Il decumano maggiore inizia grosso

Il prodigio, a differenza di quello di San Gennaro, avrebbe avuto luogo negli anni in modi e tempi diversi, ma secondo la tradizione, i martedì e il giorno della festa di Santa Patrizia, il 25 agosto. Nella chiesa avverrebbero o sarebbero avvenute anche altre liquefazioni di santi celebri: San Giovanni Battista (il 29 agosto e talvolta il 24 giugno) e San Pantaleone (l'ultimo sarebbe avvenuto il 27 giugno del 1950).

linee di ispirazione classica ed eseguiti nel 1792. In ciascuno degli scomparti dei tre battenti figurano rispettivamente, intagliati a rilievo, San Lorenzo, Santo Stefano e gli Evangelisti. Superando l'atrio, si notano ai lati della porta le iscrizioni che ricordano l'anno di consacrazione della chiesa nel 1579 e la dedicazione al santo armeno. In una terza lapide è menzionata la visita di Pio IX del 1849. Interno

Esterno La facciata, seppur leggermente sproporzionata, presenta quattro lesene toscane che le conferiscono armonia di forma e struttura, con tre finestroni in arcate in un primo tempo sormontate da un timpano e successivamente da un terzo ordine architettonico. L'atrio, severo e scuro, regge il piano del coro con quattro pilastri e le relative piccole volte ad essi collegati. Il portale principale presenta dei bellissimi battenti disegnati con originali

Navata L'interno presenta una navata unica, con quattro cappelle laterali e cinque arcate per ciascun lato, che termina con un'abside a pianta rettangolare, sormontata da una semicupola decorata con La gloria di San Gregorio di Luca Giordano. Cupola Di straordinaria fattura è il soffitto a cassettoni, realizzato nel 1580 dal pittore fiammingo Teodoro d'Errico su commissione della badessa del convento Beatrice Carafa, i cui scomparti con intagli dorati allocano tavole con la raffigurazione della vita dei santi le cui reliquie sono custodite nel complesso conventuale. Nelle quattro cappelle laterali destre vi sono, tra l'altro, L'Annunciazione di Pacecco De Rosa, la Vergine del Rosario di Nicola Malinconico e notevoli affreschi diFrancesco Di Maria. Sul lato sinistro si può ammirare invece un superbo San Benedetto attribuito allo Spagnoletto. 71


pinacoteca con opere del Caravaggio e di altri maestri. S Gregorio Armeno: la chiesa ed il chiostro La storia Sorge sull'omonima via, l'antica Strada Nostriana che prende il nome dal vescovo Nostriano che nel V secolo fondò il primo ospedale per i poveri ammalati. La chiesa sarebbe stata edificata sulle rovine del tempio di Cerere attorno al930, nel luogo che secondo la leggenda avrebbe ospitato il monastero fondato da Sant'Elena Imperatrice, madre dell'imperatore Costantino. Altra leggenda vuole la presenza nel luogo di un monastero di monache basiliane, seguaci di santa Patrizia che vi si sarebbero stabilite dopo la morte della santa, conservando le reliquie di san Gregorio Armeno (che fu patriarca di Armenia dal 257 al 331). Nel 1009, in epoca normanna, il monastero fu unificato a a quello dedicato

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a San Pantaleone, assumendo la regola benedettina. Dopo il Concilio di Trento, a partire dal1572, il complesso subì un profondo rifacimento ad opera di Giovanni Vincenzo Della Monica e Giovan Battista Cavagna, con la chiesa collocata al centro del convento. Ulteriori rifacimenti ad opera di Dionisio Lazzari furono del 1682. Il miracolo di Santa Patrizia Dal 1864 le spoglie della Santa furono traslate nella chiesa, a suggello della devozione dei napoletani per la vergine, discendente dell'imperatore Costantino che nel IV secolo naufragò sulle coste della città, prendendo alloggio nell'antico convento basiliano, dove sarebbe morta il 13 agosto del 365. Nella quinta cappella a destra della navata, vi sono le reliquie della Santa, contenute in un pregevole reliquiario in oro e argento. Le doti miracolose di Santa Patrizia, già note nel secolo XII, per il trasudamento dellamanna che sarebbe avvenuto dalle pareti sepolcrali che custodivano il corpo della Santa, ed in seguito per la liquefazione del sangue, hanno trovato a Napoli nei secoli ed ancora oggi, eco minore rispetto a quelle del più celebre patrono della cittàSan Gennaro. Tuttavia, capitando di imbattersi per caso nella chiesa, un martedì mattina, si può assistere, in un'atmosfera di rarefatto misticismo, al prodigio che avverrebbe in seguito alle impetrazioni delle monache.

modo da Port'Alba e piazza Bellini (dove sono presenti le prime mura greche del centro storico di Napoli) continuando per via San Pietro a Majella e per via dei Tribunali, la quale incrocia con via Duomo per poi terminare al Castel Capuano (nella foto accanto). Quest'ultimo è il motivo per il quale, la strada, è stata chiamata sin dal Cinquecento strada dei Tribunali. Infatti, il castel Capuano, sin dagli inizi del XVI secolo, per volontà di Don Pedro di Toledo, assunse il ruolo di tribunale della città. In posizione centrale di via dei Tribunali si può incontrare piazza San Gaetano, la quale sorge sull'area in cui insisteva in epoca greca l'agorà della città, divenuta poi in epoca romana foro. Sempre sulla piazza, a testimonianza di ciò, ci sono gli ingressi per la Napoli sotterranea e per gli scavi di San Lorenzo, i quali offrono importanti resti della Neapolis greca. Inoltre dalla piazza si accede verso sud a via San Gregorio Armeno, cardine (o stenopos) che unisce il decumano maggiore al d e c u m a n o i n f e r i o r e . Le altre piazze attraversate dal decu-

mano sono: piazzetta Miraglia, il largo dei Girolamini e piazza Riario Sforza. Su via dei Tribunali si affacciano numerosi edifici di culto di significativa importanza. Tra i principali vi sono la Basilica di San Paolo Maggiore (nella foto accanto), quella di San Lorenzo Maggiore e la chiesa dei Girolamini. Andando da ovest verso est, la prima chiesa che si incontra è la basilica di San Paolo Maggiore. Edificata alla fine del VII secolo, la basilica è a tre navate e ospita opere di Stanzione, Vaccaro e Solimena. Di fronte alla basilica di San Paolo Maggiore giace la Basilica di San Lorenzo Maggiore, una delle più antiche chiese napoletane (è stata infatti eretta nel XII secolo). La chiesa fu definita «grazioso e bel tempio» da Boccaccio, essendo progettata in chiaro stile gotico francese. Più avanti vi è invece la chiesa dei Girolamini che per motivi storici, artistici e culturali, è tra i più importanti luoghi di culto della città. Il complesso arriva fino a fronteggiare il duomo di Napoli che custodisce la più antica biblioteca della città (seconda in Italia) ed una importante quadreria che

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espone dipinti di giovani artisti del Seicento napoletano. Tra gli altri siti storici situati lungo il decumano maggiore abbiamo: Conservatorio di San Pietro a Majella; Chiesa di San Pietro a Majella; Cappella dei Pontano; Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco (nella foto accanto); Duomo di Napoli; Pio Monte della Misericordia. Il Decumano Inferiore Il decumano inferiore, volgarmente chiamato Spaccanapoli, in quanto divide nettamente, con la sua perfetta linearità, la città antica tra il nord e il sud, è un'arteria viaria del centro antico di Napoli ed è una delle vie più importanti della città. Il decumano inferiore divenne tra il Medioevo e l'Ottocento importante sia per i conventi degli ordini religiosi sia per le abitazioni di uomini potenti che vi abitarono. In origine il tracciato sorgeva dalla piazza San Domenico Maggiore (nella foto sopra) e proseguiva

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fino a via Duomo. In epoca romana, la via si allungò e inglobò anche la zona dell'attuale piazza del Gesù Nuovo come testimoniano i resti delle terme romane ritrovate sotto il chiostro della basilica di Santa Chiara. Il decumano si suddivide in tre spezzoni: Il tratto iniziava da piazza del Gesù Nuovo (nella foto a destra) per proseguire per l'attuale via Benedetto Croce, passando per piazza San Domenico Maggiore, piazzetta Nilo e largo Corpo di Napoli; La parte centrale è via San Biagio dei Librai; Invece, via Giudecca Vecchia, una parte di Forcella, superato l'incrocio con via Duomo, costituisce il tratto finale del decumano. La moderna concezione di "Spaccanapoli" invece include anche le espansioni che si sono avute nel corso del XVI secolo le quali hanno visto allungare il tratto iniziale fino ai Quartieri Spagnoli.

più chiostri, arrecando danni al patrimonio artistico-architettonico che caratterizzava la via. Tra i numerosi monumenti presenti nel Decumano maggiore vale la pena soffermarsi sulla Chiesa dei Girolamini. La chiesa dei Girolamini fa parte di un vasto complesso monumentale al quale si accede da Via Duomo. Nell'omonima piazza, su Via Tribunali, si affaccia la Chiesa, fondata nel 1592, fu eretta a spese dei padri dell'ordine di San Filippo Neri, dell'Oratorio, venuti la prima volta a Napoli nel 1586. Il progetto della Chiesa è di Giovanni Antonio Dosio nelle forme classiche toscane. Dopo la sua morte l'opera fu continuata da Dionisio Nencioni di Bartolomeo che la ultimò nel 1619. La cupola ed il frontespizio sono opera di Dionigi Lazzari. La facciata fu rifatta da Ferdinando Fuga nel 1780 in marmi pregiati. Sul portale si vedono le Tavole della Legge scritte in caratteri ebraici. Ai lati due campanili gemelli dotati di orologi. La parte superiore della facciata è alleggerita da un finestrone rettangolare sormontato da un timpano sul quale svetta un coronamento costituito da un timpano arcuato spezzato al centro del quale si inalza un setto decorato con l'immagine della Maternità. Nelle nicchie del prospetto sono collocate delle statue iniziate da Cosimo Fanzagoe ultimate da Giuseppe Sammartino, altre statue dello stesso autore sono collocate sul portale. Interno della chiesa

L'interno è molto vasto e presenta una pianta a croce latina suddivisa in tre navate per mezzo di 24 colonne di granito (12 per lato). Le cappelle sono 12 tutte decorate da artisti di estrazione toscana, romana ed emiliana. Sulla controfacciata c'è un affresco di Luca Giordano. Le sculture sono del Bernini, mentre il soffitto a cassettoni fu realizzato nel 1627. La "Domus Aurea" Per la sua decorazione barocca in oro, la chiesa fu detta "la Domus Aurea" e custodisce i resti mortali di Giambattista Vico che nell'Oratorio lavorò a lungo per ordinare ed ampliare la famosa biblioteca ricca di oltre 60.000 fra libri e incunabili. Il Complesso monumentale dei Padri Girolamini, comprende, oltre la Chiesa omonima, il convento e due chiostri; quello maiolicato e quello "segreto" degli aranci. Segreto perché tutti sanno dell'esistenza di un chiostro degli aranci, ma pochi ne conoscono l'ubicazione. - Pio monte della misericordia: con una

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quella Medioevale, Rinascimentale fino all'unificazione d'Italia. Essi costituiscono, nella pianta di Ippodamo da Mileto, tre assi viari di Neapolis, città nuova (470 a.C.) che vanno da est ad ovest, intersecati da venti stradine denominate "cardini". Dove si intersecano i decumani ed i cardini sorgono le insule con la contemporanea presenza di palazzi pubblici sacri e palazzi nobiliari privati. L'elemento religioso e l'elemento nobiliare, fortemente uniti, hanno determinato la privatizzazione degli spazi. Di particolare interesse è il decumano maggiore. Il decumano maggiore è un'arteria viaria del centro antico di Napoli e, insieme al decumano inferiore e aldecumano superiore, una delle tre strade principali dell'antico impianto urbano greco. La strada, urbanisticamente la più importante delle tre, costituisce il cuore dei decumani di Napoli. Oggi il decumano maggiore è una delle strade più importanti del centro storico

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di Napoli (dichiarato nel1995 patrimonio dell'umanità) e corrisponde all'odierna via dei Tribunali seguendo ancora interamente l'antico asse viario greco. Proprio perché si tratta di una struttura stradale originaria dell'antica Grecia, sarebbe più opportuno parlare di plateia e non di "decumano", denominazione di epoca romana che per convenzione ha sostituito l'originaria. Il decumano maggiore inizia grosso modo da port'Alba e piazza Bellini (dove sono presenti le prime mura greche del centro storico di Napoli) continuando per via San Pietro a Majella e per via dei Tribunali, la quale incrocia con via Duomo per poi terminare al Castel Capuano. Quest'ultimo è il motivo per il quale, la strada, è stata chiamata sin dal Cinquecento strada dei Tribunali. Infatti, il castel Capuano, sin dagli inizi del XVI secolo, per volontà di Don Pedro di Toledo, assunse il ruolo di tribunale della città. In posizione centrale di via dei Tribunali si può incontrare piazza San Gaetano, la quale sorge sull'area in cui insisteva in epoca greca l'agorà della città, divenuta poi in epoca romana foro. Sempre sulla piazza, a testimonianza di ciò, ci sono gli ingressi per la Napoli sotterranea e per gli scavi di San Lorenzo, i quali offrono importanti resti della Neapolisgreca. Il percorso fu duramente deturpato all'altezza di piazza Miraglia con la costruzione del vecchio Policlinico alla fine del XIX secolo, distruggendo un'enorme quantità di edifici storici, per lo

Lungo via San Biagio dei Librai, uno dei cardini (o stenopos) che sale verso nord, collegando il decumano inferiore a quello maggiore, è via San Gregorio Armeno. Su Spaccanapoli si affacciano numerosi edifici di culto di significativa importanza, centri della cristianità napoletana. Tra i principali vi sono la chiesa del Gesù Nuovo con l’obelisco dell’Immacolata, quella di Santa Chiara e quella di San Domenico Maggiore con l’obelisco di San Domenico. Il primo che si incontra partendo da piazza del Gesù è la chiesa del Gesù Nuovo, o della Trinità Maggiore. Di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo è la basilica di Santa Chiara, con l'annesso complesso monastico. Voluta da Roberto d'Angiò nel XIV secolo, la chiesa si presenta subito con una sobria e imponente facciata, con un grande rosone centrale. Gli interni, ospitano anche la tomba della dinastia dei Borbone. Più avanti vi è invece il complesso di San Domenico Maggiore, tra i più antichi, grandi e storicamente e culturalmente rilevanti della città.

Tra gli altri luoghi di interesse storico, lungo il decumano inferiore, abbiamo: Chiesa di Sant'Angelo a Nilo; Palazzo Pignatelli di Toritto; Chiesa di Santa Maria Assunta dei Pignatelli; Chiesa di Sant'Angelo a Nilo. Il Decumano Superiore E’ il "decumano" più alto e corrisponde alle attuali vie della Sapienza, via dell'Anticaglia e via Santi Apostoli. A causa dei numerosi rifacimenti subiti nel corso dei secoli, il tracciato non risulta essere "lineare" in diversi punti essendosi perso, dunque, l'originario aspetto. Lungo il tracciato del Decumano superiore si conservano importanti strutture e mura di epoca greca o romana imperiale, nonché diversi edifici religiosi e civili di primaria importanza tra i quali ricordiamo: Chiesa di Santa Maria della Sapienza; Complesso degli Incurabili; Teatro romano di Neapolis; 17


Rosso pompeiano Il rosso pompeiano è un'ocra rossa di origine inorganica naturale (ematite), composto da ossido di ferro. Nell'antica Roma era conosciuto con il nome di sinopsis, dovuto alla città di Sinope dove secondo Plinio fu rinvenuto la prima volta. A Pompei, da cui il nome, così come in altre città dell'antica Roma, ci sono vari esempi di pitture murali in cui è usato questo pigmento inorganico. È’ conosciuto anche con i nomi di rosso Ercolano, terra di Pozzuoli, rosso inglese, ematite e terra rossa di Verona. Inizialmente veniva preparato con degli scarti di lavorazione del cinabro, da cui l'elevato costo di produzione che ne limitava l'utilizzo ai casi di estrema necessità. Dato che il cinabro contiene notevoli quantità di mercurio, ed è quindi nocivo per la salute, il colore è stato gradualmente sostituito dal vermiglione

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(più sull'arancione), dall'ocra rossa, dal rosso di Marte e dal Rosso di Pozzuoli; questi ultimi due sono miscele di ossidi e idrossidi di ferro (tra cui l'ematite). In realtà il rosso pompeiano era un giallo, modificato dai gas dell'eruzione vesuviana. Gran parte del colore che caratterizza le pareti delle ville di Ercolano e di Pompei in origine era un giallo ocra. Ciò è stato dedotto grazie ad alcune indagini che hanno accertato che il colore simbolo dei siti archeologici campani, in realtà, è frutto dell'azione del gas ad alta temperatura la cui fuoriuscita precedette l'eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 dopo Cristo. Pompei è una delle piu’ significative testimonianze della civiltà romana e si presenta come un libro aperto sull’arte, i costumi,sui mestieri,sulla vita quotidiana del passato.La città è riemersa così come era al momento in

serbava rancore e vendetta, ed un giorno la sua donna, per intenerirlo gli preparò un piatto di maccheroni. La provvidenza riempì il piatto di una salsa piena di sangue. Finalmente, commosso dal prodigio, l'ostinato signore, si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Sua moglie in seguito all'inaspettata decisione, preparò di nuovo i maccheroni, che anche quella volta, come per magia, divennero rossi. Ma quel misterioso intingolo aveva uno strano ed invitante profumo, molto buono ed il Signore nell'assaggiarla trovò che era veramente buona e saporita. La chiamo' cosi' "raù" lo stesso nome del suo bambino. Caratteristiche Originariamente costituiva il piatto unico della domenica, in quanto il sugo veniva utilizzato per condire la pasta, e la carne consumata come seconda portata. I tipi di carne impiegati nella preparazione del ragù sono numerosi, e possono variare anche da quartiere a quartiere, ed inoltre, questa non è macinata ma è cotta a pezzi grossi, da

500 g fino a un kg, tagliati a mo' di grossa bistecca, farcita con ingredienti vari (uvetta, pinoli, formaggio, salame o lardo, noce moscata, prezzemolo) e legata con uno spago. Generalmente viene utilizzato un misto di carne di manzo (tagli anteriori e poco pregiati, che necessitano di lunga cottura) e di maiale. Troviamo il muscolo di manzo (gamboncello o piccione), le spuntature di maiale (tracchie), l'involtino di cotenna (cotica), la polpetta e la braciola, termine che viene usato però per indicare un involtino di carne di manzo ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli, uva passa e dadini di formaggio. Tradizionalmente, la preparazione del ragù inizia di buon mattino, in quanto la salsa deve addensarsi molto, cuocendo a fuoco lento, fino a diventare di una consistenza molto cremosa, prima di poter condire degnamente una buona pastasciutta. In molte varianti del ragù napoletano viene impiegato anche un cucchiaio di concentrato di pomodoro. Itinerario proposto E’ il centro storico di Napoli ad essere la cornice perfetta per una non solo degustazione del ragù, ma anche di una esperienza sensoriale e culturale di inestimabile valore. IL CENTRO STORICO Aristotele, uno dei più grandi filosofi Greci disse "l'armonia è nel contrasto" e Napoli ben rappresenta questo concetto attraverso i suoi Decumani, superiore, maggiore ed inferiore, che portano dalla Napoli Greco-Romana a 67


dialetto napoletano di questi termini derivati dal francese, avviene proprio nel periodo a cavallo fra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo quando, sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone vi fu una grande influenza della cultura e delle mode francesi nella corte Borbonica. Ferdinando IV di Borbone era diventato contemporaneamente re di Napoli, col titolo di Ferdinando IV, e re di Sicilia, con il nome di Ferdinando III, alla giovane età di otto anni, a seguito della nomina del padre Carlo come re di Spagna. Aveva poi sposato Maria Carolina di Asburgo Lorena figlia di Maria Teresa d'Asburgo Imperatrice d'Austria. Ferdinando fu spodestato dal regno di Napoli nel 1805 da Napoleone che lo sostituì prima con il fratello Giuseppe e poi con il cognato Gioacchino Murat. Ferdinando fu poi restaurato dal Congresso di Vienna nel 1816, ma per motivi di carattere politico, i due regni di Napoli e di Sicila furono riunificati nel Regno delle due Sicilie e pertanto Ferdinando assunse il titolo di Ferdinando I Re delle Due Sicile. A proposito di queste vicende storiche riporto un gustoso epigramma contro il Re scritto da un anonimo siciliano che mal sopportava questa riunificazione che sanciva una subalternità della Sicilia rispetto a Napoli. Fosti quarto ed insieme terzo, Ferdinando, or sei primiero: e, se seguita lo scherzo, finirai per esser zero. Durante il periodo fascista, il regime tentò di "italianizzare" il termine, visto 66

come non puramente italiano e quindi non consono al vocabolario fascista, trasformandolo in ragutto. La leggenda del ragù A Napoli alla fine del 1300 esisteva la Compagnia dei Bianchi di giustizia che percorreva la città a piedi invocando "misericordia e pace". La compagnia giunse presso il "Palazzo dell'Imperatore" tuttora esistente in via Tribunali, che fu dimora di Carlo, imperatore di Costantinopoli e di Maria di Valois figlia di re Carlo d'Angiò. All'epoca il palazzo era abitato da un signore nemico di tutti, tanto scortese quanto crudele, e che tutti cercavano di evitare. La predicazione della compagnia convinse la popolazione a rappacificarsi con i propri nemici, ma solo il nobile che risiedeva nel "Palazzo dell'Imperatore" decise di non accettare l'invito dei bianchi nutrendo da sempre antichi e tenaci rancori. Non cedette neanche quando il figliolo di tre mesi, in braccio alla balia sfilò le manine dalle fasce ed incrociandole gridò tre volte: "Misericordia e pace". Il nobile era accecato dall'ira,

cui venne sommersa dall’eruzione vulcanica del 79 d.c. Lo spesso strato di cenere e lapilli che hanno ricoperto la città ha permesso che arrivasse integra fino alla scoperta nel 700,in ogni suo minimo dettaglio.Notevole scoperta si ha anche per quanto riguarda la pittura romana che senza i ritrovamente di Pompei sarebbe del tutto sconosciuta. Il fascino dei siti archeologici vesuviani è stato tale, nel corso dei secoli, che nel gusto europeo si è posta l’attenzione non solo dal punto di vista cromatico ma verso tutta l’estetica che pervase soprattutto a inizio 800 e si impose in Europa sia nel gusto dell’arredamento delle case borghesi sia nel modo di vestirsi e acconciarsi delle donne europee. Questo stile è definito neoclassico. I lavori di scavo dei siti vesuviani furono promossi da Re Carlo III di Borbone, il quale realizzò un Museo che custodisse tutti i reperti rinvenuti, ma fu durante il regno di Gioacchino Murat e sua moglie Carolina Bonaparte che lo stile neoclassico ebbe la sua diffusione a Napoli.Il colore è stato enormemente utilizzato a Napoli, e non solo, per la costruzione di molti edifici importanti,dai quali possiamo creare un itinerario che porterà il turista ad addentrarsi tra le zone più belle della città. Partiamo da uno degli edifici più importanti e significativi della nostra Napoli,Palazzo Reale che si eregge maestoso nella famosa piazza Plebiscito,ricco di storia e testimonianza del susseguirsi delle varie dominazioni napoletane, il palazzo ospita anche delle sale interne che con il loro

colore rosso pompeiano ricordano e richiamano le sale delle ville di Ercolano e Pompei. Nel corso della sua storia, il palazzo divenne la residenza dei vari sovrani spagnoli, austriaci e, in seguito, dei re di casa Borbone. Dopo l'Unità d'Italia fu nominata residenza napoletana dei sovrani di casa Savoia. Il palazzo fu costruito nel Seicento da Domenico Fontana. Esso avrebbe dovuto ospitare il re Filippo III di Spagna, atteso a Napoli con la sua consorte per una visita ufficiale che non avvenne mai. Il palazzo doveva essere degno di altre residenze europee, dato il suo compito di essere stato costruito nella seconda città dell'Impero spagnolo dopo la capitale amministrativa a Madrid. Esso fu costruito nello stesso posto in cui esisteva un'altra residenza vicereale, voluta cinquant'anni prima dal viceré don Pedro de Toledo. La scelta di costruire la nuova reggia nella stessa zona in cui sorgeva la "vecchia" testimonia dunque l'importanza che aveva quella zona della città, che assicurava una certa vicinanza al porto e quindi una certa facilità di fuga in caso di invasioni nemiche.

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I lavori Di costruzione del palazzo andarono a rilento fino al 1610, , pochi anni dopo erano completate la facciata principale, su "largo di Palazzo", ed il cortile. Intorno al 1620 furono completati anche alcuni ambienti interni del palazzo, affrescati da Battistello Caracciolo, Giovanni Balducci e Belisario Corenzio, nonché la cappella reale dell'Assunta, nella quale lavorò ventiquattro anni dopo Antonio Picchiatti eseguendo alcuni elementi decorativi. Nel 1734, con il dominio di Carlo di Borbone, il palazzo divenne dimora reale borbonica. Il nuovo re di Napoli, in occasione delle nozze con Maria Amalia di Sassonia avvenute nel 1738, fece rinnovare alcuni ambienti interni chiamando artisti come Francesco De Mura e Domenico Antonio Vaccaro. In contemporanea a questi lavori, Carlo si impegnò anche per l'edificazione di altre tre importanti regge: quella di Capodimonte, di Portici e quella di Caserta. Le opere di ammodernamento iniziate in quegli anni furono poi riprese più intensamente dal figlio Ferdinando IV di Borbone, che, in occasione

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delle nozze con Maria Carolina d'Austria, trasformò la gran sala del periodo vicereale in teatrino di corte. A compiere tali lavori fu ancora una volta Ferdinando Fuga. Infine, durante la prima metà del Settecento, fu realizzata e conclusa la parte che da sul mare. Alla fine del Settecento fu costruita l'ala del palazzo che dà verso il Maschio Angioino, divenuta poi nel 1927 la Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III. Durante l’inizio dell’ 800 fu arricchito da Gioacchino Murat e Carolina Bonaparte con decorazioni e arredamenti neoclassici; fu danneggiato da un incendio nel 1837 e successivamente restaurato per mano di Gaetano Genovese che ampliò e regolarizzò, senza stravolgerla, l'antica fabbrica. In quel periodo furono aggiunte alla struttura l'"Ala delle feste" e una nuova facciata prospiciente il mare, caratterizzata da un basamento di bugnato e da una torretta-belvedere. Con Genovese, il palazzo si poté dire definitivamente completato.

http://www.taccuinistorici.it/ Il ragù napoletano è una salsa che ha una lunga storia e che ha subito notevoli evoluzioni nel corso del tempo. L'antenato del ragù napoletano è un piatto molto antico e di tradizione popolare. Esso deriva da un piatto della cucina popolare medioevale provenzale che aveva nome "Daube de boeuf" e che era uno stufato di carne di bue, parti molto coriacee, mescolate a verdure e cotto lungamente in un recipiente di creta. Questo piatto pare risalga al tredicesimo/quattordicesimo secolo. Il "ragout", invece, che è un piatto francese posteriore, è sempre uno stufato con verdure, ma, generalmente, di carne di montone. Il termine francese ragout deriva dall'aggettivo "ragoutant" che significa allettante, appetitoso o stuzzicante. Questo tipo di preparazione francese inizia a comparire nella cucina napoletana dal diciottesimo secolo, però come piatto di mense ricche realizzato con carni di manzo o di vitello qualità e ancora senza pomodoro. Di esso parla già Vincenzo Corrado nel suo libro "Il cuoco galante" che risale alla prima metà del settecento. Dello stufato parla anche Ippolito Cavalcanti nelle prime edizioni della sua "Cucina teorica pratica" che risalgono alla prima metà dell'ottocento e cita anche per la prima volta dei maccheroni conditi con sugo di stufato e formaggio grattuggiato. Nelle edizioni sucessive qualche volta il Cavalcanti parla del sugo di stufato con il nome di "brodo rosso", senza però

citare esplicitamente il pomodoro fra gli ingredienti di cottura dello stufato. In una delle ultime edizioni infine cita per la prima volta la parola "ragù" riferendosi ai maccheroni nel seguente contesto: "...li frammezzerai in zuppiera con once 12 di parmigiano grattuggiato e sugo di carne ovvero brodo di ragù". Ma anche in questo caso non specifica se vi entri o meno il pomodoro. Dell'uso del pomodoro nel ragù, invece, parla, forse per la prima volta, Carlo Dal Bono che nella sua opera "Usi costmi di Napoli" risalente al 1857, cosi descrive la distribuzione dei maccheroni da parte dei tavernai. "Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio". La parola ragù, ovviamente, è una deformazione del termine francese "ragout" che rispecchia la sua effettiva pronuncia. Questa è un deformazione tipica del dialetto napoletano che ritroviamo anche nei termini: sartù, gattò, crocchè, purè. L'acquisizione nel

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re puntuale e,invece… Intanto il mio pensiero corre,grazie all’intenso odore di ragù che permane nelle narici nonostante abbia messo una certa distanza da me e la casa da cui l’odore fuoriusciva consistente e tenace,alle tante domeniche della mia infanzia in cui si andava a pranzo dalla nonna. Non importava quale delle due,era la nonna, quella persona calda ed accogliente che sapeva con un sorriso e un abbraccio arrivare al mio cuore. Il pranzo domenicale,nella mia famiglia, ha sempre occupato un ruolo cerimoniale ben preciso e il bello era che sia che si trattasse della nonna paterna che di quella materna , noi non potevamo esimerci dall’esserci, a turno, una domenica dall’una e una dall’altra. Il ragù ,sebbene talvolta sostituito da altre prelibatezze, restava il must della tavola domenicale e per noi tutti era sempre una festa. Personalmente trovavo quel rituale confortante e rassicurante, mi faceva sentire amata e protetta . Anche mia madre cucina bene e sa fare tante cose diverse da quelle che cucinavano le mie nonne. Ma, come diceva mio padre e ,a dire il

vero sosteneva anche lei stessa, non c’era paragone,proprio come nella celeberrima poesia di Eduardo 'O 'rraù 'O rraù ca me piace a me m' 'o ffaceva sulo mammà. A che m'aggio spusato a te, ne parlammo pè ne parlà. Io nun songo difficultuso; ma luvàmmel' 'a miezo st'uso Sì,va buono: cumme vuò tu. Mò ce avéssem' appiccecà? Tu che dice? Chest' 'è rraù? E io m' 'o mmagno pè m' 'o mangià... M' ' a faja dicere na parola?... Chesta è carne c' ' a pummarola Sono arrivata in piazza, finalmente! E Martina? Non la vedo…va bene,ho fatto un po’ tardi ma ,dov’è? Mi guardo in giro e la individuo che sta chiedendo informazioni ad un vigile: cosa vorrà mai? Siamo entrambi a piedi…eccola che si dirige verso me -Ciao,cosa chiedevi? -Mi hanno detto di un posto qui a Napoli dove servono il ragù e puoi pagarlo a minuti,ne sai qualcosa? -Certo,ne ho già fatto una scorpacciata…ora ti porto io. Assaggerai qualcosa di divino,credimi. Adesso è davvero domenica!-penso mentre seguo, “ a naso” il percorso per raggiungere questo luogo del gusto e del ricordo.

A fine 800, per volere di Umberto I, le nicchie esterne furono occupate da gigantesche statue dei re di Napoli: Ruggero il Normanno, Federico II di Svevia, Carlo I d'Angiò, Alfonso I d'Aragona, Carlo V d'Asburgo, Carlo III di Borbone, Gioacchino Murat e Vittorio Emanuele II di Savoia. Le statue sono esposte in ordine cronologico rispetto alla dinastia di appartenenza che ha regnato in città e queste iniziano con il primo re di Sicilia, Ruggero il Normanno, il primo re a regnare sulla città, e finiscono con Vittorio Emanuele II, la più grande in altezza e la più discussa scultura presente nella facciata della residenza reale, aggiunta per ultima sotto la volontà dello stesso re che però non fu mai sovrano di Napoli, bensì d'Italia. Da notare inoltre la presunta volontà dei Savoia di occultare la dinastia dei Borbone, una delle più influenti della città partenopea, dalla storia della città. Infatti, nessuna delle statue volute sulla facciata del palazzo, rappresenta un re borbonico e, l'unica che apparen-

temente sembrerebbe appartenere a tale dinastia, Carlo di Borbone, viene in realtà incisa col nome di Carlo III, lasciando quindi alludere alla dinastia spagnola e non napoletana, nella quale invece assumeva il titolo di Carlo VII di Borbone. I bombardamenti subiti durante la Seconda guerra mondiale e le successive occupazioni militari causarono al palazzo gravissimi danni che resero necessario un restauro condotto dalla Soprintendenza ai Monumenti. Entrati nel Palazzo si accede al Cortile d'Onore che conserva l'impronta architettonica di Domenico Fontana. Di fronte allo stesso cortile, vi è una fontana ottocentesca con la statua della Fortuna. Da sinistra del lato orientale del cortile d'Onore, si giunge al cortile delle carrozze, adibito proprio al passaggio delle stesse. Un altro cortile è situato all'ingresso laterale del palazzo posto di fronte alla Galleria Umberto I. Il suddetto spazio ospita la scultura l'Italia turrita e stellata di Francesco Liberti ed il giardinetto circostante è il giardino d'Italia, realizzato da Gaetano

Il ragù tra storia e leggenda abstract dal testo a cura del QUESTORE AIGS Messina Lorenzo Fabrizio Guarnera 64

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Genovese .Altri giardini, i giardini pensili, sono posti al primo piano dell'edificio e offrono una splendida vista sul porto di Napoli e sul Vesuvio. L'area dei Giardini è stata adibita al verde già dal XIII secolo al tempo della dinastia angioina. Nel periodo dei viceré è stata invece sistemata a parco e arricchita con statue, viali e "giardini segreti". Nella metà del XIX secolo l'architetto Gaetano Genovese condusse i lavori di ampliamento e restauro del palazzo, e affidò i giardini alle cure del botanico Federico Corrado Denhart, il quale inserì numerose magnolie, lecci e piante rare. Fu così che il Giardino acquistò un nuovo aspetto "all'inglese" e divenne meta ambita dei visitatori. In fondo ai Giardini vi sono le Scuderie Ottocentesche, fiancheggiate dal maneggio e adibite attualmente ad uso espositivo. Si accede all'appartamento storico per il monumentale e luminoso Scalone d'onore che fu progettato da Francesco Antonio Picchiatti e successivamente sistemato e decorato da Gaetano. Lo Scalone è decorato da marmi bianchi e rosati, da trofei militari e

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bassorilievi allegorici. Notevole la ricca balaustra di marmo traforato. All'interno delle sale del palazzo sono presenti dipinti di importanti artisti che hanno operato nella Napoli borbonica. Si distinguono le opere eseguite dal Guercino, da Andrea Vaccaro, da Mattia Preti, dallo Spagnoletto, dal Tiziano da Massimo Stanzione, da Francesco De Mura, da Battistello Caracciolo e da Luca Giordano. Infine, sono presenti tele paesaggistiche di Filippo e Nicola Palizzi e di Consalvo Carelli. Le stanze e gli arredi usati più quotidianamente non sono sopravvissuti alla devastazione del palazzo causata durante l'ultima guerra. Essa ha danneggiato anche i parati borbonici, rifatti nella metà del XX secolo sugli stessi telai antichi delle Seterie Borboniche della Fabbrica di San Leucio presso Caserta. Le testimonianze più importanti della decorazione seicentesca d'origine sono gli affreschi di soggetto storico di gusto tardo-manierista che abbelliscono le sale più antiche con cicli di pitture destinate ad esaltare gloria e fortuna degli spagnoli vincitori.

vicolo sta cucinando il ragù. Che delizia! L’olfatto si rallegra ed io adesso sono certa che è domenica! Che il sapore e l’odore di una pietanza o di un alimento possa portare alla mente immagini latenti del tempo perduto non è una scoperta. Anzi. E ‘ un’asserzione comune anche grazie a Marcel Proust che narra in modo minuzioso l’effetto dell’odore di una madeleine inzuppata nel tiglio. Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè.[…] portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. [...] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il

buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…." M. Proust, Dalla parte di Swann Come una scintilla,quindi, un certo profumo casualmente risentito a distanza di tempo può immediatamente ridestare in noi un’ondata di ricordi sopiti, lasciando riaffiorare, con dovizia di particolari, esperienze della nostra esistenza passata che ci sembravano definitivamente rimosse. L’odore è infatti il più grande alleato dei ricordi: ci permette di viaggiare nel tempo e perciò fa sì che l’olfatto venga eletto a senso privilegiato dalla memoria. Un odore o un profumo già sentiti hanno l’impareggiabile potere di rimaterializzare anche i nostri ricordi intimi, di renderci presenti eventi lontani, riportandoci improvvisamente a una scena dell’infanzia, a un paesaggio o a un episodio della nostra vita passata – rievocato con ricchezza di particolari attraverso una semplice zaffata – e innescando, a seconda dei casi, la nostra nostalgia, la nostra malinconia, la nostra gioia o la nostra tristezza. Nessun altro dato sensoriale è altrettanto memorabile di un odore, altrettanto resistente al logorio del tempo, altrettanto evocatore del passato e altrettanto capace di sollecitare tutti gli altri sensi. Continuo a camminare a passo svelto mentre qualche commerciante mi osserva dall’uscio del suo negozio ancora vuoto e si chiede dove vada così di corsa in un pigro giorno di festa. Martina mi aspetta ,le avevo promesso di esse63


Il ragù E’ domenica mattina, si è svegliato già il mercato….così cantava Claudio Baglioni in una sua nota canzone; ma il suo mercato era quello di Roma ed io,invece,vivo a Napoli! A dirla tutta Baglioni non è proprio il mio cantautore preferito ma è quello amato da mia madre in epoca adolescenziale e ,quindi, anche io di tanto in tanto ho ascoltato qualche strofa canticchiata in modo distratto da lei intenta a fare altro. Sono uscita presto per raggiungere Martina con la quale ho appuntamento in piazza. Attraverso a piedi,come sempre, strade e vicoli intrecciati in un silenzio, quasi irreale per questa città ,il silenzio delle prime ore del mattino di un giorno di festa. La domenica,si sa, ci si alza con comodo ,non si lavora o,almeno,la maggioranza delle persone non lavora. Imbocco l’ennesimo vicolo che in modo reticolare disegna, come un ricamo, l’identità urbanistica di buona parte della mia città. Tra sguardi distratti e paesaggi confusi dalla fretta degli occhi mobili ,mi torna alla mente un verso del poeta Quasimodo sul Vicolo: 62

Vicolo: una croce di case Che si chiamano piano, e non sanno ch’ è paura di restare sole nel buio. Le case dei vicoli, infatti,come dice il poeta,disposte a forma di croce, sembra che si parlino di notte e di giorno per vincere la paura di restare sole. Il buio qui non c’è solo la notte e,qualche volta è un buio che racconta di una solitudine interiore. Con questa stessa vena malinconica accelero il passo,sono in ritardo,come al solito! La piazza è ancora distante quando,ad un tratto, mi assale un odore intenso ,inconfondibile:qualcuno in questo

Da Palazzo Reale possiamo proseguire il nostro percorso per arrivare a Villa Pignatelli, passando per il bellissimo lungomare dal quale si scorge la caratteristica veduta partenopea simbolo della nostra città nel mondo. Poetica ed ammaliante la visuale proposta porta chi la guarda a perdersi, immaginando la storia e la nascita di questo meraviglioso capoluogo partenopeo. Arriviamo cosi a : Villa Pignatelli La residenza, pensata come una domus pompeiana venne realizzata da Pietro Valente nel 1826, a cui successe nel 1830 Guglielmo Bechi,per volere di Sir Ferdinando Acton. I lavori del Valente non furono semplici, dovendo di volta in volta adeguarsi alle precise richieste del proprietario inglese. Non a caso diverse furono le controversie tra le due parti circa i lavori di costruzione e proprio per questo la decorazione interna e il giardino esterno furono affidati al toscano Guglielmo Bechi.

Qualche anno dopo la morte di sir Acton,la villa venne acquistata dalla famiglia di banchieri tedeschi Carlo von Rothschild, che la abitarono fino al 1860. Il nobile di Francoforte, incaricò i successivi lavori di abbellimento prima ad un architetto parigino e poi, insoddisfatto del lavoro, a Gaetano Genovese. In questo periodo, all'estremità settentrionale del parco, fu costruita una palazzina di tre piani nota come palazzina Rotschild. Nel 1867, la famiglia tedesca fu allontanata dalla città a seguito dell'unità nazionale. Così la villa fu ceduta a principi Pignatelli Cortes d'Aragona, che ne furono proprietari fino a quando la principessa Rosina Pignatelli decise di donarla allo Stato Italiano perché fosse trasformata in un museo destinato a onorare il nome del marito, il principe Diego Aragona Pìgnatelli Cortes, duca di Monteleone.Insieme alla villa, la famiglia Pignatelli, che era molto raffinata, donò tutto quello che era contenuto al suo interno: argenti, bronzi, porcellane, smalti, cristalli, un'importante biblioteca, circa quat-

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tromila microsolchi di musica classica e lirica. Tutti questi reperti, sono oggi esposti negli ambienti del museo.Nel 1960 la villa venne aperta al pubblico col nome di "Museo Diego Aragona Cortes" e nel 1998 fu allestita la pinacoteca a cura del Banco di Napoli. La villa dispone di due piani: quello terra, che conserva l'aspetto di dimora principesca, ed il primo, nel quale viene esposta la raccolta di dipinti del Banco di Napoli. Le varie sale all’interno della villa possiedono decorazioni a stucco, i dipinti e gli arredi originali eseguiti tra il 1870 ed il 1880 dal pittore romano Vincenzo Paliotti. Ad oggi la struttura è utilizzata per ospitare eventi di vario genere. Altro edificio significativo al quale possiamo collegarci per proseguire il nostro itinerario cromatico è il : Museo Archeologico di Napoli Il Museo archeologico di Napoli vanta il più ricco e pregevole patrimonio di opere d'arte e manufatti di interesse archeologico in Italia, è considerato uno dei più importanti musei archeologici al mondo se non il più importante per quanto riguarda la storia dell'epoca

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romana. La costruzione dell'edificio fu iniziata nel 1586 come caserma di cavalleria; questa era situata subito al di fuori della cinta muraria di Napoli .La Cavallerizza era molto più piccola dell'attuale palazzo museale ed il suo ingresso principale si apriva sul lato occidentale, sull'attuale via Santa Teresa degli Scalzi, dove tuttora è visibile, seppure murato, caratterizzato da due tozze colonne in basalto a rocchi distanziati sovrapposti. Il palazzo rappresenta una certa rilevanza architettonica essendo infatti uno dei più imponenti palazzi monumentali di Napoli.Il museo è formato da tre sezioni principali: la collezione Farnese (costituita da reperti provenienti da Roma e dintorni), le collezioni pompeiane (con reperti provenienti dall'area vesuviana, facenti parte soprattutto delle collezioni borboniche) e la collezione egizia . Sia questi tre settori che altri del museo sono costituiti da collezioni private acquisite o donate alla città nel corso della storia.Gli importanti lavori di restauro e di ristrutturazione dell'edificio avviati nel 2012 consentiranno la realizzazione di una riorganizzazione globale delle collezioni secondo criteri espositivi nuovi, permettendo inoltre che alcune raccolte rimaste escluse dalla visita per decenni, possano trovare definitiva sistemazione dentro l'edificio. I reperti mai esposti al pubblico riguardano la sezione Magna Grecia, quella Cumana (costituita da vasi greci), l'epigrafica ed una ricca parte della statuaria pompeiana. Si stima che i pezzi in deposito siano in quantità tre

prevede che le viti siano sostenute da un palo detto in latino Phalanx ( da cui deriverebbe il nome falangina); i tipi rossi si ottengono dai migliori vitigni campani, come il Per ‘e palummo e l’Aglianico. La creazione di questi itinerari ha visto già un possibile percorso che congiunge le aziende associate che dovrebbero redigere una serie di mini tour capaci di attrarre l’interesse anche del turista di passaggio.

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scontra ancora oggi nel vino resinato greco. Dopo sei mesi, il vino era filtrato e travasato in otri o anfore di terracotta appuntite che permettevano la decantazione del deposito eventuale, prima dello smercio. Oggi le varietà coltivate sono cambiate, ma i vini godono ancora di un vasto e meritato prestigio. cantine per la vinificazione. Alcuni di questi locali sono sopravvissuti anche nell’uso: vi si applicano ancora i metodi tradizionali della vinificazione, tramandati da generazioni e mai dispersi, anche se rinnovati nella tecnologia. Nel tufo si scavavano anche le palmente, le antiche vasche per la pigiatura. Una grande e pesante pietra di tufo verde è stata utilizzata per secoli dai contadini come peso nella spremitura delle uve: è la “pietra torcia”. Nel territorio flegreo la denominazione di origine controllata “ Campi Flegrei” e la zona di produzione di queste uve, comprende l’intero territorio dei comuni di Procida, Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida e Quarto; un’ area tra le più ricche per storia e bellezze naturalistiche.

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Plinio il Vecchio gli concede una menzione d'onore nella Naturalis Historia ed è stato servito anche alla corte aragonese. La Falanghina e il Piedirosso, localmente denominato Per 'e Palummo, hanno avuto in quest'area la prima diffusione e le prime affermazioni. Il disciplinare ammette le tipologie Bianco, Rosso, Pér e' Palummo, Pér e' Palummo Passito, Falanghina, eccellente in abbinamento con la ricciòla all'acqua pazza, e Falanghina Spumante. Tale rinomanza perdurò anche nel Medioevo, infatti il vino de Putheolo era tra quelli prescelti dalla regia mensa al tempo di Carlo II d’ Aangiò come si desume dal suo liber espensarum. Nasce così, nei secoli, una straordinaria costellazione di varietà di uve che trovano favorevoli le fortunate condizioni pedolimatiche di un suolo in gran parte di origine vulcanica. Dopo tanti secoli oggi le ricchezze di questo territorio sono promosse dalla rete di itinerari delle Strade del Vino Campi Flegrei. I luoghi del vino attraversano un panorama unico che include sette comuni situati al confine tra i quartieri napoletani di Fuorigrotta,Soccavo, Pianura e Agnano. Parliamo di vini dunque dalla grande storia e tradizione, derivanti da uno dei più apprezzati prodotti enologici dell’antichità, Il Falerno Gaurano lodato anche da Plinio il Vecchio. E mentre per i bianchi la Falanghina risulta essere ad oggi il vino più diffuso e viene allevato ancora con l’antica tecnica del sistema alla puteolana che

volte superiore rispetto a quelli esposti e che gli stessi occupino allo stato attuale tre livelli dei sotterranei del palazzo ed un piano del sottotetto. Dal 2005 nella sottostante stazione "Museo" della linea metropolitana è stata aperta la stazione Neapolis, in cui piccoli ambienti che si succedono tra loro espongono i reperti archeologici rinvenuti durante gli scavi della metro ed entrati a far parte del patrimonio museale. Nel 1612 il viceré don Pedro Fernández de Castro, conte di Lemos .decise di trasferire nell'edificio incompiuto l'università di Napoli ("palazzo dei Regi Studi"), precedentemente situato nel convento di San Domenico Maggiore.La ristrutturazione dell’edificio fu affiadata a Giulio Cesare Fontana, nel 1615 l’edificio incompleto fu inagurato.Lo stesso anno i lavori vennero interrotti per la partenza del Fontana da Napoli.Nel corso degli anni molti furono gli architetti incaricati di apportare modifiche alla pianta e alla facciata del museo.Ma fu nella prima metà dell’800 che tornando il re Ferdinando IV sul trono di Napoli (ora come "Ferdinando I Re delle Due Sicilie"), il 22 febbraio 1816 egli decretava ufficialmente l'istituzione del "real museo Borbonico". E nel 1852 con il successivo abbattimento delle mura cinquecentesche della città e della porta di Costantinopoli, il museo entrava a pieno titolo a far parte del tessuto urbano della città. Dopo l'unità d'Italia,il museo diventava proprietà dello Stato ed assumeva il nome di "museo nazionale”.

Alla fine di questo itinerario cromatico arriviamo,nel cuore del centro storico, Spaccanapoli, dove troviamo Palazzo Venezia edificio importante sul piano storico-politico in quanto testimonianza privilegiata ed esclusiva dei passati rapporti intercorsi tra il Regno Napoli e la Repubblica di Venezia in periodo rinascimentale. Palazzo Venezia Il Palazzo si trova nel cuore del centro antico,esso visse il momento di maggiore splendore tra il XV secolo e il XVI secolo, fino a quando a metà del cinquecento cadde in completa rovina e fu restaurato da Geronimo Zono.Successivamente molte furono le restaurazioni tanto che nel XIX secolo fu eretta una casina pompeiana. La struttura non presenta elementi di grande rilevanza architettonica, se non il giardino pensile, la scala interna, tipica dell’architettura nobiliare seicentesca, ma costituisce comunque un’importantissima testimonianza storica dei rapporti che, nei secoli passati, esistevano tra Napoli e Venezia.

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Si conclude così il breve viaggio attraverso un itinerario legato ad un colore simbolo della città Partenopea,che porta l’attenzione non solo sull’estetica ma ci coinvolge e ci porta ad esplorare la storia e l’unicità di una tonalità che può essere considerata “viva” ed intrinseca di avvenimenti.

del mancato invito alla festa, incise sul pomo la frase "Alla più bella", causando così una lite furibonda fra Era, regina degli dei, Afrodite, dea della bellezza, e Atena, figlia di Zeus. Tornando all’ aspetto enogastronomico,il pomodoro cannellino è coltivato da generazioni nei Campi Flegrei, dove grazie ai terreni di origine vulcanica la qualità del pomodoro raggiunge punte di eccellenza. Il rosso rievoca anche la colorazione del vino. “Qui è il Vesuvio finora ombroso di verdi vigneti. Ora tutto giace sommerso nel fuoco e nel tristo lapillo”. Così Marziale, con sintesi fulminea, fotografa la distruzione operata dal vulcano con l’eruzione del 79 d.C., e contemporaneamente richiama l’antica vocazione della zona alla coltivazione d e l l a v i t e . Testimonianze storiche e letterarie lo confermano, e le ville di Pompei e degli altri centri distrutti dal Vesuvio ne hanno conservato prove nella campagna, nelle case e nelle cantine. Dalle ceneri dell’antica Oplontis, nei pressi di Torre Annunziata, sono emersi i resti di un’azienda agricola produttrice di vino accanto a quelli di una ricca villa appartenuta a Poppea Sabina, moglie di Nerone. Gran parte della ricchezza dell’antica Pompei derivava, infatti, dalla produzione e dal commercio del vino. E un vino pompeiano è stato prodotto recentemente da cinque vigne piantate negli

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scavi della città, uno dei quali in corrispondenza dell’antico vigneto presso la Casa dell’oste Eusino. A Pozzuoli, invece, è il grande anfiteatro a conservare ancora le strutture interne che svelano la struttura dell’antico mercato. Unico e per molto tempo misterioso, il Serapeo è stato finalmente riconosciuto come ”Macellum”, l’ampio mercato di Puteolis, a ridosso del porto, con le botteghe, le nicchie e le colonne, che i frequenti bradisismi hanno istoriato dei resti di molluschi marini. La vite qui approda in tempi remoti dall’Eubea e trova eccellente dimora, conoscendo con il tempo quella importante diffusione che sappiamo. Ed è proprio lì che maturavano le uve per i numerosi vini dei Campi Flegrei. I pithoi, alti tre metri e mezzo e con un’imboccatura di un metro, erano i vasi da trasporto per eccellenza, sia per l’olio d’oliva, sia per la frutta. Nella Grecia antica, però erano usati anche per la fermentazione del mosto: per ridurre la traspirazione, venivano interrati e cosparsi all’esterno di resina o di pece. Questa tecnica conferiva al vino un aroma particolare, che si ri-

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se non vi sono indizi cronologici più precisi su questo palmento, con buona approssimazione l'edificio si può collocare nel XVII-XVIII secolo, epoca in cui il Monte Nuovo era parzialmente coltivato a vigneto, come testimoniano ancora i resti di opere di terrazzamento riconoscibili lungo le pendici del vulcano, soprattutto quelle interne della cima più alta. Sulla cima più alta del cratere, infine, fra la vegetazione si riconoscono i resti in muratura di una costruzione circolare, seminterrata, costruita con blocchetti di tufo quadrati. Data la sua posizione strategica, e data la tecnica muraria non dissimile da altre esistenti in cima al Capo Miseno, con ogni probabilità si tratta di una postazione destinata alla difesa antiaerea, approntata durante l'ultimo conflitto mondiale. Il monte è caratterizzato da una folta vegetazione. Sul vulcano crescono piante tipiche della macchia mediterranea. Le piante maggiormente presenti sono il pino, la ginestra, l'erica. Il vulcano, ora inattivo, è diventato un'oasi naturalistica. Ad oggi i campi flegrei costutiscono un area ad alto rischio sismico e per questo nel 2003, in attuazione della Legge Regionale della Campania n. 33 del 1.9.1993, è stato istituito il Parco regionale dei Campi Flegrei monitorato dall'Osservatorio Vesuviano. Il colore rosso nei Campi Flegrei non rimanda solo al mito degli inferi e al fenomeno del vulcanesimo ma lo si può accostare anche ai sapori di questa meravigliosa terra se si fa riferimento 58

ad alcuni prodotti tipici come il pomodoro cannellino e il vino. II percorso: “L’ oro rosso flegreo: Vino e cannellino” Splendida terra, quella flegrea,passata alla storia non solo per un ventaglio di reperti archeologici - presenti un po’ su tutto il territorio - che ci raccontano lo splendore vissuto su queste terre, splendore testimoniato dal fatto che qui ha dimora uno dei più importanti santuari dell’età classica, quello in cui sono state ambientate l’Odissea e l’Eneide; ma anche per una radicata cultura enologica ed enogastronomica. Tra i prodotti tipici di questo territorio che rievocano il colore rosso vi sono il pomodoro cannellino e il vino. Facendo riferimento al pomodoro e restando in tema di mito e leggenda mi viene in mente quella legata al pomo d’oro. Il pomo della discordia o mela della discordia è, secondo il mito, la mela lanciata da Eris, dea della discordia, sul tavolo dove si stava svolgendo il banchetto in onore del matrimonio di Peleo e Teti. La dea, per vendicarsi

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Il sangue di San Gennaro Il pomodoro , per la sua bontà e per le proprietà benefiche, ha scalato le classifiche degli ortaggi “migliori”. Guardato dapprima con occhio sospettoso per i suoi frutti idealmente pericolosi, il pomodoro, negli anni a seguire, è stato ammirato negli orti botanici come pianta tipicamente esotica: attualmente, il pomodoro viene apprezzato per la malleabilità in cucina e per le proprietà in fitoterapia. Come abbiamo visto, il pomodoro, seppur entrato relativamente tardi rispetto agli altri ortaggi importati dalle Americhe - nella cucina italiana, è divenuto un alimento base della dieta m e d i t e r r a n e a . I pomodori sono ricchi d'acqua, e discreti quantitativi vitaminici: si ricordano Vitamine del gruppo B r acido ascorbico, vitamina D e soprattut-

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to, vitamina E che assicurano al pomodoro le note proprietà antiossidanti e vitaminizzanti. Divenuto uno dei prodotti più usati della città di Napoli, infatti i prodotti tipici, come la pizza ha proprio il pomodoro come ingrediente principale. Una della principale Il coltivazione di pomodoro è quella dei pomodori in barattolo il miracolo di san Gennaro, basata su varietà ed ecotipi autoctoni ed è ecosostenibile. Per la produzione utilizzano particolarmente interventi manuali. Per la concimazione e la difesa adottano i sistemi di coltivazione propri dell'agricoltura integrata. Il Miracolo di San Gennaro sono Pomod o r i n i d i G r a g n a n o . rigorosamente coltivati secondo la tradizione, senza ricorrere a prodotti chimici. Coltivato sui Monti Lattari, è particolarmente adatto per le conserve. Il sangue di San Gennaro Itinerario di San Gennaro: Un interessante itinerario da poter intraprendere durante la permanenza nella città di Napoli, potrebbe essere quello di San Gennaro ed i suoi tesori.

dall’antichità di turisti che arrivavano lì per godere delle sue acquee sulfuree, nell’800 è stata metà del Grand Tour e dagli inizi del 900 anche sede di un’intensa attività estrattiva di allume e bianchetto. Proprio sulla bocca del cratere si narra che fu decapitato San Gennaro, dopo che le belve aizzate contro il vescovo beneventano nell’attiguo anfiteatro Flavio, si erano prostrate dinanzi al santo anzichè sbranarlo. Comincerete a chiedervi se sono tutte storie figlie del folklore popolare quelle che raccontano di sinistri rumore che si avvertono all’interno del cratere ed esattamente nella zona cosiddetta della “cava rossa”, rossa come il cinabro che colora le rocce circostanti, rossa come il sangue. Lamenti, grida, rotolar di teste….proprio lì dove fu raccolto il sangue gelosamente custodito nell’ampolla del miracolo, e la cui pietra su cui fu decapitato il santo è oggi custodita nel santuario costruito a ridosso del vulcano. La solfatara è stato anche location di alcuni famosi film di Totò, tra cui Totò all'inferno e 47 morto che parla, nonché le sequenze nel film dei Pink Floyd Live in Pompeii. Poco distante da Pozzuoli, verso occidente, in riva al Lago Lucrino, nel 1538 è sorto il Monte Nuovo, il vulcano più recente d'Europa, oggi oasi naturalistica.

forma circolare, che fa parte dei Campi Flegrei. Si trova nel comune di Pozzuoli presso il Lago Lucrino. Si formò tra il 29 settembre e il 6 ottobre 1538 a seguito di un'eruzione che distrusse il villaggio medievale di Tripergole e mise in fuga la popolazione locale. Percorrendo il sentiero principale sull'orlo del cratere, a metà strada circa, presso degli alti pini, si incontrano i modesti ruderi di un piccolo palmento: Attraverso una soglia si accede ad un semplice ambiente quadrangolare, con un banco in muratura (probabilmente una cucina ) posto a destra dell'ingresso, seguito da una nicchia rettangolare, quasi certamente un armadietto a muro, mentre nella parte bassa della parete stuccata di bianco figura murato un grosso versatoio cilindrico in pietra lavica; alle sue spalle (lungo l'attuale sentiero) vi sono i resti affiancati di due tini in muratura, simili a piccole cisterne, di cui uno rettangolare e l'altro circolare, dove venivano pigiate le uve, il cui mosto, defluendo attraverso il versatoio in pietra, veniva raccolto nel vicino ambiente quadrato. Anche

Il monte nuovo Il monte Nuovo è un piccolo vulcano di 57


Anche questo lago come quello d’Averno conserva in se qualcosa del mito. Infatti,chiamato in antichità anche "Acherusio" perché si credette di identificarvi la Acherusia palus ovvero la palude infernale formata dal fiume Acheronte (nome attribuito più spesso al lago Fusaro), da sempre viene associato ad una fonte infernale come quella del Cocito o Piriflegetonte Cunicoli di genere simile a quelli descritti in precedenza, si trovavano anche nei pressi del lago Fusaro che in età molto antica si presentava come un ampio golfo sul mare che le popolazioni locali, anche prima dell’arrivo dei greci, sfruttavano per la coltivazione dei mitili e soprattutto delle ostriche. Altro luogo ricco di fascino mistico, già famosa durante l'epoca imperiale romana,è la Solfatara. La solfatara Strabone, nel suo Strabonis geographica, la descrive come la dimora del Dio Vulcano, ingresso per gli Inferi, chiamandola “Forum Vulcani”; viene inoltre menzionata anche da Plinio il Vecchio come “Fontes Leucogei” per le

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acque alluminose e biancastre che sgorgano ancora tutt'oggi. A monte di Pozzuoli, la Solfatara, è un cratere è uno dei 40 vulcani che costituiscono i Campi Flegrei ed è ubicata a circa tre chilometri dal centro della città di Pozzuoli. Si tratta di un antico cratere vulcanico ancora attivo ma in stato quiescente che da circa due millenni conserva un'attività difumarole d'anidride solforosa, getti di fango bollente ed elevata temperatura del suolo: altre attività simili si riscontrano anche in altre parti del mondo e vengono indicate con il nome di solfatare proprio per la similitudine con quella puteolana. La Solfatara, nome col quale viene indicato il cratere piuttosto che l'intero edificio vulcanico ha una forma ellittica con diametri di 770 e 580 metri, mentre il perimetro è di 2 chilometri e trecento metri; la parte più alta della cintura craterica è posta a 199 metri ed è chiamata monte Olibano mentre il fondo del cratere è posto a 92 metri sul livello del mare. La Solfatara è stata meta sin

San Gennaro è considerato il patrono di Napoli,infatti il nome Gennaro è molto diffuso in Campania e risale al latino Ianuarius che significava «consacrato al dio Giano». Il percorso turistico potrebbe iniziare dalla chiesa del Duomo, sita in via Duomo; considerata una delle chiese più antiche ed emblematiche della città, contiene le reliquie di San Gennaro e tre volte l’anno ospita il rito dello scioglimento del sangue: si ritiene che una pia donna avesse raccolto in due ampolle il sangue di San Gennaro per consegnare poi la preziosa reliquia al ves c o v o d i N a p o l i . I grumi rappresi scuri e solidi spontaneamente si sciolgono. Il sangue ribolle ed assume il colore rosso vivo. la liquefazione avviene di solito accompagnata dalle fervide preghiere ed insistenti invocazioni al Santo. Le modalità con le quali avviene lo scioglimento: tempo, intensità del sangue sono considerate di buon auspicio per la città se avvengono senza indugi, nel caso contrario sono di segno sfavorevole. Il miracolo si ripete regolarmente altre due volte nell’anno: a maggio ed a dicembre ed in circostanze particolarmente rilevanti per Napoli come ad esempio la visita di qualche personaggio importante, la minaccia di sciagure n a t u r a l i e t c . Per la prima volta fu annotata la liquefazione del sangue di San Gennaro nel 1389 sulle pagine del "Chronicon Siculum". Da quel momento in poi studiosi, scienziati e ricercatori si sono sbizzarriti nello scrivere su questo insolito fat-

t o . Fino ad oggi nessuno è riuscito a trovare la soluzione del mistero. Di conseguenza attorno al sangue di San Gennaro sono cresciute numerose leggende e superstizioni. Alcuni scienziati dopo tanti studi approfonditi, hanno ipotizzato che all’interno delle ampolle si trova una proprieta' fisica non diffusamente conosciuta: la tissotropia. I materiali tissotropici diventano piu' fluidi se sottoposti a una sollecitazione meccanica, come piccole scosse o vibrazioni, tornando allo stato precedente se lasciati indisturbati. Un esempio consueto di questa proprieta' e' la salsa ketchup, che se ne sta rappresa senza scendere dalla bottiglia fino a quando delle scosse non la fanno diventare d'un tratto molto piu' liquida, e ne viene fuori troppa. La tissotropia e' impiegata in moltissimi prodotti, come gli inchiostri e le vernici, dove il colore diventa abbastanza fluido quando e' sottoposto a sollecitazione mentre abbandona lo strumento di applicazione e viene steso sul supporto, ma deve scorrere il meno possibile una volta lasciato a riposo. Pur essendo nota da sempre in certi campi, la tissotropia non e' molto conosciuta, nemmeno presso chi si occupa

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di fisica o di chimica. Un esempio di come sia poco conosciuta e' che due fra i maggiori esperti cattolici sul miracolo di San Gennaro hanno dei passi, nei loro libri, in cui descrivono quanto dovrebbe essere strana una sostanza che imitasse la reliquia: coll'intenzione di dimostrare che sono richieste delle caratteristiche "che la scienza non puo' spiegare", danno in realta', senza saperlo, una definizione della tissotropia. D'altra parte molti che avranno conosciuto sia la tissotropia sia il miracolo di San Gennaro devono aver pensato, piu' o meno vagamente, ad un possibile collegamento fra i due fenomeni. Ma e'merito proprio di questa rivista l'aver fatto convergere l'interesse, le cognizioni e lo scetticismo dai quali e' nata una formulazione sufficientemente accurata dell'ipotesi tissotropica, contemporaneamente ad una sostanza che la esemplifica: questa sostanza (una sospensione colloidale di idrossido di ferro in acqua con ioni sodio e cloro) e' stata studiata espressamente per esibire la tissotropia in forma cosi' accentuata da passare, se agitata lievemente, addirittura dallo stato solido a quello liquido, ma, al contempo, per essere realizzabile con i soli mezzi disponibili nel 1300. Nel Museo del tesoro di San Gennaro,ci sono straordinari capolavori raccolti in sette secoli di donazioni di papi, re, imperatori, regnanti, uomini illustri, gente comune e facente parte di collezioni uniche e intatte grazie alla Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, antica istituzione laica 30

ancora esistente nata per un voto della città di Napoli. Invece la seconda destinazione da poter raggiungere, inerente all’itinerario intrapreso, è la Porta San Gennaro, che si trova tra Caponapoli e il Vallone di via Foria. La Porta San Gennaro è la più antica porta della città di Napoli, ed era l'unico punto di accesso per chi proveniva dalla parte settentrionale della città. Il nome di Porta San Gennaro deriva dal fatto che di qui partiva anche l'unica strada che portava alle catacombe dell’omonimo santo. La terza destinazione da non dover assolutamente dimenticare, sono la Catacomba di San Gennaro, che si trovano nel rione Sanità di Napoli. La catacomba di San Gennaro si compone di due livelli non sovrapposti. Il nu-

neo regno delle ombre. Tale culto per Ulisse seguirebbe un itinerario ben preciso : l’eroe scava una fossa e compie una libagione dei morti con miele e latte, vino e acque; poi cosparge di farina bianca dopo aver sgozzato un ariete e una pecora e fa scorrere il sangue nella fossa. Le anime escono fuori: Ulisse scorge l’anima di Elponore, poi quella della madre e infine Tiresia. Quest’ultima anima lo riconosce, beve il sangue e dice ad Ulisse che, a chiunque lascerà bere il sangue, questi gli predirà cose vere. Allora Ulisse lascerà bere il sangue alla madre che, solo allora lo riconosce e gli parla. Ulisse, dal canto suo, cercherà di abbracciarla, ma per tre volte essa gli sfuggirà. Questo perché, come dice Omero, quando uno muore il fuoco distrugge il corpo e solo l’anima vaga, ma come tale sfugge come un sogno. Tornado a tempi più recenti abbiamo la testimonianza di Giovanni Pontano, che nel "De bello Neapolitano" ci dice che a Napoli esisteva un quartiere dei Cimmeri, e che una delle uscite dei loro cunicoli sotterranei erano vicino alla chiesa di Sant'Agostino della Zecca nei cui pressi vi è oggi una via dei Cimbri, e ancora nel 1623 scriveva Don Cesare d'Eugenio Caracciolo in Napoli Sacra , "una delle chiese più antiche della città, quella di santa Maria di Portanova, era chiamata -a Cimmino- per la presenza nella zona di -tal nazione Cimmeria-.” Vicino al lago si trovano il tempio di Apollo, la grotta della Sibilla Cumana

(una grotta scavata nel tufo, lunga 200m e probabilmente creata per collegare il lago al mare e che per la suggestione dell’ambiente veniva associato alla Stige infernale e ai luoghi dell’Acheronte) e la grotta del Cocceio ( un cunicolo scavato dai romani per scopi militari, che collegava il lago a Cuma, oggi non più visitabile a causa di danni provocati durante la guerra mondiale).In prossimità del lago d’Averno, vi è un altro lago: quello di Lucrino. Lago di Lucrino Esso è un bacino naturale che si è formato in epoca antica in seguito al moto ondoso del mare che, apportando progressivamente della sabbia, ha col tempo chiuso un’insenatura naturale con un istmo. Il sottile istmo , secondo il mito, venne attribuito ad Eracle che l’avrebbe creato quando dal remoto occidente condusse in Grecia i buoi che aveva rubato al mostruoso Gerione; lì poi vi fu costruita una strada che , in ricordo dell’eroe, fu chiamata Via Heraclea. Attualmente è letteralmente sommersa dal mare ma è riconoscibile su fotografie aeree o grazie ad immersioni.

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l’ingresso agli inferi, dal quale Cristo discese per liberare le anime dei giusti. Connessa all'idea che la zona avesse a che fare con il regno dei morti, abbiamo la testimonianza di alcune leggende che attribuiscono la realizzazione di cavità del sottosuolo napoletano e flegreo a degli esseri di dimensioni straordinarie, che popolavono il sottosuolo di Napoli fino a Cuma. Ancor oggi un intricato groviglio di grotte, tunnel, catacombe, pozzi, luoghi di culto; il sottosuolo comincia ad essere abitato con la venuta a Napoli di un popolo nomade proveniente dalla Scizia, l'attuale Russia meridionale. Già descritti da Omero nell' XI libro dell'Odissea; questo popolo migrò dall'altipiano Iranico verso il Caucaso e poi scacciati dagli Sciti, verso la Crimea. In realtà non si conosce bene la datazione della loro probabile venuta nel golfo Campano, ma i Cimmeri, così venivano chiamati, hanno fatto alimentare molte fantasie su di loro creando così nel tempo un certo alone di mistero. Citando Strabone: “i Cimmeri vivevano

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tra il lago d'Averno e Baia le loro case erano spaventevoli ed infernali per il loro offuscamento e folte caligini, per le pallidi ombre, per la profonda ed eterna notte che vi regnava. Molti erano gli stranieri che si recavano a visitarli, essi venivano accolti nelle loro abitazioni per poi essere accompagnati ad interrogare l'oracolo dei morti situato sotto terra (nekyomanteìon chthònion), e che proprio grazie all'oracolo traevano parte del loro sostentamento (pare con una tariffa per le consultazioni fissata dal loro re; ma - come è facile intuire - molto probabilmente anche nutrendosi di parte delle carni degli animali sacrificati agli inferi)”. Essi si erano rifugiati nel sottosuolo per riparasi dalla forza distruttrice del Vesuvio, che temevano in modo reverenziale. Erano infatti considerati i custodi dell'oltretomba, guardiani e detentori di antichissime conoscenze di origine divina dei culti della Terra. Diodoro Siculo affermava che dal loro villaggio si poteva raggiungere l'oracolo dei morti. Ci conferma anche lo storico Nevio, che in una grotta simile a quella della Sibilla di Cuma, sul lago d'Averno viveva la Sibilla Cimmeria. Di questi Cimmeri se ne trova traccia anche nell’Odissea, quando Ulisse seguendo le istruzioni della maga Circe, giunge ai boschi sacri di Persefone. In proposito Strabone sostiene che Ulisse era venuto qui a consultare l’Oracolo dei morti dell’Averno; sinonimo dell’Acheronte per indicare l’accesso all’Ade, appunto il sotterra-

cleo originario è da individuare nell'utilizzo e nell'ampliamento, avvenuto tra la fine del II e gli inizi del III secolo, di un ambiente cosiddetto "vestibolo inferiore". Da esso si sono sviluppati, nei periodi successivi al III secolo, gli ambulacri della catacomba inferiore secondo uno schema di scavo ampio ed o r i z z o n t a l e . La catacomba superiore ebbe varie fasi di sviluppo: anch'essa ebbe origine da un antico sepolcro che oggi chiamiamo "vestibolo superiore", noto essenzialmente per gli affreschi della volta della fine del II secolo. Gli elementi che caratterizzano maggiormente la catacomba superiore, sono la piccola "cripta dei vescovi" e la maestosa "basilica maior" (una vera e propria basilica sotterranea); la prima, ubicata presso la tomba di San Gennaro dove vennero sepolti alcuni dei primi Vescovi napoletani, la seconda è il frutto di un'ampia trasformazione dei vicini ambienti realizzata quando, nel sec. V, fu traslato

San Gennaro. La "basilica maior" è a tre navate, conserva numerosi affreschi (V-VI sec.) ed è scavata interamente nel tufo. Successivamente nel rione Sanità, come quarta destinazione, troviamo l’ospedale San Gennaro dei poveri, considerata una struttura ospedaliera di interesse storico-artistico di Napoli. La storia dell’ospedale è strettamente intrecciata a quella della basilica che sorge al suo interno, quella di San Gennaro fuori le mura. La chiesa, dopo la traslazione delle reliquie di San Gennaro a Benevento, cadde in rovina. Successivamente anche l'intero monastero cadde in abbandono, ma successivamente venne riutilizzato dal cardinale Oliviero Carafa, che lo trasformò in ospedale per gli appestati. Dopo la peste l'ospedale fu ulteriormente ampliato e fu dotato anche di uno ospizio dedicato ai Santi Pietro e Gennaro.

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Il complesso è preceduto da una scala a doppia rampa che precede un vestibolo con affreschi cinquecenteschi di Agostino Tesauro, stemmi della città di Napoli, ed altre particolarità artistichearchitettoniche. Ultima chiesa da visitare per questo itinerario, è la chiesa di San Gennaro, che si trova nel bosco di Capodimonte. Opera dell’architetto scenografo Sanfelice, fu eretta per volere di Carlo III di Borbone, come conferma una vecchia iscrizione di marmo che campeggia sulla semplice facciata d’ingresso. la chiesa ha un piccolo campanile, i cui archi ad ogiva sono frutto di un successivo rimaneggiamento. L’interno della chiesa, che ha conservato nel complesso l’impianto originario, si sviluppa su di un invaso ovale; le decorazioni risultano alquanto. Sull’altare maggiore è esposto un olio su tela, raffigurante il santo protettore, attribuito tradizionalmente al famoso pittore Francesco Solimena maestro ed amico del Sanfelice. Fin dal Settecento la chiesa era ornata, oltre che dalla grande tela di San Gen-

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naro, anche da quattro statue dedicate ai santi protettori della famiglia regnante. Restano in loco quelle in gesso di San Carlo Borromeo e Sant’Amalia, in nicchie ai lati dell’abside; le altre due, rappresentanti San Filippo e Santa Elisabetta, erano negli angoli opposti della chiesa. Gli arredi di legno provengono probabilmente dalla chiesa di San Clemente dell’Eremo dei Cappuccini, essendo documentato il trasferimento di suppellettile ed arredi sacri nella parrocchia di San Gennaro, alla soppressione del convento. Dalla chiesa si entrava negli spazi della sagrestia, oggi adibiti ad esposizioni temporanee, e si accedeva al piano superiore, dove era l’abitazione del parroco. …Duomo, e processione: all’interno del Duomo, in prima fila sulle panche di legno della cappella dedicata al santo patrono, fin dalle prime luci del mattino sono sedute le Parenti, donne che da secoli hanno vissuto la funzione di sacerdotesse di carie del culto di San Gennaro, tramandandosi di generazione in generazione un corpus di preghiere e litanie. Mentre le Parenti vanno avanti con i loro rituali arrivano gli alti prelati, vescovo in testa, e le autorità cittadine il cardinale prende l’ampolla con il sangue del santo, e dalla cappella si dirige lentamente verso l’altre maggiore del Duomo. Nel mare di folla che il cardinale attraversa, accompagnato dagli applausi e

Da sempre l’intensa attività vulcanica e il ben noto fenomeno del bradisismo ha suscitato un’immagine mito del territorio, conferendo al vulcanesimo stesso tale coloritura. E allora ecco che i Campi Flegrei sono lo scontro tra Dei e Giganti, figli della Terra. Secondo Apollodoro Gea (la Terra), arrabbiata contro Giove e gli Dei per la sorte inflitta ai Titani aveva partorito i Giganti, esseri mostruosi che avrebbero assalito gli Dei. Questi, trovatisi in difficoltà, avrebbero ricevuto l’aiuto di Ercole riuscendoli così a sconfiggere. E’ da qui che mi piace partire per questo breve viaggio. Un viaggio tra mito storia e leggenda che ha come file rouge il rosso, colore che da sempre rievoca calore, passione e che nel caso specifico dei campi flegrei può ricondurre al rosso degli inferi. Itinerario uno : “Sulle sponde degli inferi. Il tour dei laghi”. Il lago d’Averno Recuperando il mito partiamo dal più

grande lago flegreo di origine vulcanica: Il lago d’ Averno. Questo lago vulcanico si trova nel comune di Pozzuoli, tra la frazione di lucrino e Cuma. La parola Averno in greco significa “senza uccelli” proprio perché gli uccelli che volavano sopra questa voragine morivano a causa delle sue esalazioni. Questa oscura e profonda voragine emanante vapori sulfurei, secondo la religione greca e poi romana era un accesso all’oltretomba, regno del dio Plutone, ed è per tal motivo che gli inferi si chiamano anche averno. Anche il poeta Virgilio nel sesto libro dell’ Eneide colloca vicino ad esso l’ingresso mistico agli inferi dove l’eroe Enea deve recarsi. L’Averno, luogo ancora oggi ammantato di misteri: un luogo selvaggio e tenebroso, “un antro irto di scogli, cupo, circondato da nero lago e tenebre boschi” (Virgilio, Eneide VI Libro), dove gli antichi immaginarono la Sibilla e dove la leggenda vuole che qui vi fosse

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I campi Flegrei “La memoria come processo di mutazione della materia che diventa soggetto in grado di rimandare alla realtà”. “Intanto continuavano le scosse di terremoto e molti, fuori di senno, con le loro malaugurate predizioni si burlavano del proprio e del male altrui. Noi, però, benché salvi dai pericoli ed in attesa di nuovi, neppure allora pensammo di partire, finchè non si avesse notizia dello zio. Queste cose, non degne certamente di storia, le leggerai senza servirtene per i tuoi scritti; né imputerai che a te stesso, che me le hai chieste, se non ti parranno degne neppure di una lettera. Addio” ( Lettere, VI Naturalis Historia, Plinio il Giovane). Originariamente, secondo Diodoro Siculo la definizione “Flegrea” si attribuiva all’area fra il Monte Massico e i

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monti del casertano fino ai Lattari. Attualmente invece con il termine Campi Flegrei s’intende la zona ad ovest di Napoli compresa fra Posillipo fino a Quarto e di lì verso nord lungo la via Domiziana, poco oltre Capo Miseno fino a Cuma ,così come già in epoca romana l’intendeva Plinio in “Storia Naturale”. In ogni caso, il termine “Campi Flegrei”, deriva dal greco phlegraios che significa ardente grazie all’abbondanza di sorgenti calde e acque termali. Infatti geologicamente la terra di fuoco, declamata da Omero e Virgilio, si presenta come un'enorme area vulcanica formata da numerosi crateri, di cui l’unico ancora attivo è la Solfatara. Gli altri, invece, vivono oggi di una nuova vita: l’Averno è un lago, gli Astroni e il Monte Nuovo sono delle oasi naturali, altri giacciono in fondo al mare. Questa grande caldera con un diametro di 12–15 km nella parte principale e’oggi in stato di quiescenza, ma continua ad esercitare la sua attività magmatica, ne sono testimonianza le intense fumarole e le acque termali che da Agnano a Baia permettono di goderne i benefici effetti.

dall’organo, spiccano i pennacchi dei due carabinieri che lo scortano. Dietro l’altare sono scherate due file di sacerdoti vestiti di bianco. Ai lati, i gonfaloni del comune e della provincia di Napoli il vescovo sale sull’altare la musica si ferma:”Fratelli e Sorelle, vi do il grande annunzio”. Ai lati del vescovo l’Abate della Cappella, che poco prima gli avevano ufficialmente consegnato l’ampolla; il vicepresidente della deputazione , che custodisce il tesoro e le relique del santo. E quest’ultimo è colui che sventola il fazzoletto bianco non appena termina la fase del vescovo, partono gli applausi e altri fazzoletti iniziano a sventolare, quando l’ampolla esce dalla chiesa viene salutata da fuochi d’artificio che disegnano linee di fumo bianco nel cielo limpido del mattino. Il miracolo viene visto come un culto e non dandogli quella forma folcroristica; non si tratta solo del cosiddetto “San Gennà fammi la grazia”.

L’unico re di Napoli è stato San Gennaro e l’unico napoletano che ha regnato su questa città e a questo è dovuto l’amore la dedizione al santo. Il napoletano ha avuto sempre un po’ di timore e diffidenza nelle autorità invece san Gennaro è un intermediario, il trait d’unione tra l’autorità il Padre Eterno e la gente comune.

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18.000 abitanti, malgrado le ripetute eruzioni vulcaniche che, anche nel XIX secolo, avvenivano quasi ogni due anni.

Il Vesuvio Il Vesuvio è particolarmente interessante per la sua storia e per la frequenza delle sue eruzioni. Fa parte del sistema montuoso Somma-Vesuviano, è situato leggermente all'interno della costa del golfo di Napoli, ad una decina di chilometri ad est del capoluogo campano. È’ un vulcano esplosivo o effusivo in stato di quiescenza dal 1944, situato nel territorio dell'omonimo parco nazionale istituito nel 1995. La sua altezza, al 2010, è di 1.281 m, sorge all'interno di una caldera di 4 km di diametro. Quest'ultima rappresenta ciò che è rimasto dell'ex edificio vulcanico, ovvero il Monte Somma, dopo la grande eruzione del 79 d.C., che determinò il crollo del fianco sud-orientale in corrispondenza del quale si è successivamente formato il cratere attuale. Esso costituisce un colpo d'occhio di

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inconsueta bellezza nel panorama del golfo, una celebre immagine da cartolina ripresa dalla collina di Posillipo lo ha fatto entrare di diritto nell'immaginario collettivo della città di Napoli. Oggigiorno è l'unico vulcano di questo tipo attivo di tutta l'Europa continentale, che nel 1997 il Vesuvio è stato eletto dall'Unesco tra le riserve mondiali della biosfera, ed inoltre nel 2007 il Vesuvio è stato proposto alla selezione per eleggere le sette meraviglie del mondo naturale come “Bellezza naturale italiana”, non riuscendo però ad essere eletto dopo essere arrivato in finale. Il Vesuvio detiene un primato a livello mondiale, cioè quello di essere stato il primo vulcano ad essere studiato sistematicamente (per volontà della casa regnante dei Borbone), studi che conti-

Bosco Reale: Nel territorio di Boscoreale (Vuoscoriàlë in napoletano) erano sorte già a partire dall'epoca sannitica numerose ville rustiche che sfruttavano la fertilità del suolo. Con il tempo molte di esse si trasformarono in residenze lussuose e in età augustea il sito, insieme all'attuale Boscotrecase, era divenuto un sobborgo della vicina Pompei con il probabile nome di Pagus Augustus Felix Suburbanus. Le ville del territorio vennero distrutte dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ma in seguito il territorio venne probabilmente rioccupato, come sembra testimoniare il ritrovamento di lucerne con simboli cristiani del IV secolo. Nell'Ottocento Boscoreale assurse all'onore della cronaca per la scoperta nel suo territorio di numerose ville rustiche di età romana (I secolo d.C.), portate alla luce da scavi di privati cittadini, sotto la sorveglianza della Soprintendenza Archeologica. Tali ville diedero splendidi reperti archeologici, un tesoro di argenterie, affreschi, bronzi, pavimenti a mosaico, sistematicamente asportati dallo scavo e messi in vendita al miglior offerente dai proprietari dei fondi, poiché le leggi del tempo lo permettevano. I maggiori Musei del mondo (Archeologico Nazionale di Napoli, Louvre di Parigi, Metropolitan Museum di New York, British Museum di Londra,

Musee Royal di Mariemont in Belgio, Field Museum di Chicago, Getty Museum di Malibu, Walters Art Museum di Baltimora, Altes Museum di Berlino etc.) acquisirono nelle loro collezioni oggetti provenienti dagli scavi archeologici di Boscoreale. In epoca moderna il comune è stato un importante centro agricolo, famoso per la sua frutta e soprattutto per vini tra cui il più celebre è senz'altro il Lacryma Christi del Vesuvio. Oggi Boscoreale è uno dei comuni che fanno parte del territorio del Parco Nazionale del Vesuvio e dal paese si può raggiungere, grazie al collegamento della Via Matrone, il percorso naturalistico che porta al cratere del Vesuvio.

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I Saraceni si insediarono nel territorio nell'880, con il permesso del vescovo di Napoli Atanasio, dal quale furono successivamente trasferiti ad Agropoli due anni dopo. La città in seguito fu presa dagli Svevi e, a partire dal Quattrocento, subì le vicende del Regno di Napoli, divenendo parte del demanio reale, il re Alfonso I ne cedette poi il possesso alla famiglia Carafa, senza diritti feudali. Nel 1631 un'eruzione di proporzioni ingenti distrusse tutto il versante a mare del Vesuvio: Torre del Greco venne invasa da torrenti fangosi e da grandissimi flussi lavici, dei quali uno in particolare generò le scogliere della Scala. Il 18 maggio 1699 la città riacquistò il diritto di possesso del suo territorio con un atto di compravendita dall'ultimo dei proprietari, il marchese di Monforte, per 106.000 ducati e dopo questa data si ebbe una fioritura del commercio marittimo, mentre la flottiglia peschereccia dell'epoca contava 214 imbarcazioni, dedite alla raccolta delle spugne, del corallo e delle conchiglie. In quest'epoca si cominciò la lavorazio-

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ne del corallo, divenuta poi tradizionale. Tra il XVII e il XVIII secolo, in epoca borbonica, vi furono edificate diverse ville signorili dell'area vesuviana: le ville del Miglio d'oro, che conservano ancora oggi splendidi esempi di architettura settecentesca. Il Comune di Torre del Greco è stato poi travolto nel 1707 dalla caduta abbondante di piroclasti del Vesuvio, insieme ai comuni di Scafati, Striano e Boscotrecase, con danni alle coltivazioni e centinaia di feriti. L'eruzione del Vesuvio del 1794 seppellì il centro storico sotto uno spessore lavico di circa 10 metri, e numerose altre eruzioni avevano provocato nei secoli ingenti danni alla città: ed infatti sullo stemma municipale, che comprende una torre, è riportato il motto della fenice: Post fata resurgo. La città divenne municipio sotto la dominazione di Giuseppe Bonaparte nel 1809 con l'elezione del primo sindaco Giovanni Scognamiglio. Sotto la dominazione di Murat diventò, insieme alla vicina Portici, la terza città del Regno di Napoli, dopo Napoli e Foggia, con

nuano tuttora ad opera dell'Osservatorio Vesuviano. Risale infatti al 1841 (per volontà del re Ferdinando II delle Due Sicilie) la costruzione di un Osservatorio (tuttora funzionante, anche se solo come filiale di più moderne strutture ubicate a Napoli) e si può dire che la vulcanologia, come vera e propria disciplina scientifica, nasca in quegli anni. Ciò che cattura l’attenzione è il favoloso panorama che offre la vista del vulcano; dalla sua altura, guardando verso il basso, è possibile ammirare di fronte a sé il mare di Torre Annunziata, tutto il Golfo di Napoli, la Penisola Sorrentina, Castellammare di Stabia, Torre del Greco, Capri, Procida e Ischia. Di sera la vista è ancora più suggestiva poiché il tutto è illuminato dalle luci dei lampioni, dai colori delle varie casette collocate lungo il bordo del cratere e dallo scintillio delle stelle e dalla luminosità della luna che si riflette in tutta la sua bellezza, nelle acque del mare che bagna i diversi Paesi Vesuviani. Origini del nome Il nome Vesuvio presumibilmente deve le sue origine alla radice indoeuropea *aues, "illuminare" o *eus, "bruciare". Esistono tuttavia alcune etimologie popolari: dato che nell'antichità si riteneva che il Vesuvio fosse consacrato all'eroe semidio Ercole, e la città di Ercolano, alla sua base, prendeva da questi il nome, si credeva che anche il vulcano, seppur indirettamente traesse origine dal nome dell'eroe greco. Ercole

infatti era il figlio che il dio Giove aveva avuto da Alcmena, regina di Tebe. Una tradizione popolare della fine del Seicento vorrebbe invece che la parola derivi dalla locuzione latina Vae suis! ("Guai ai suoi!"), giacché la maggior parte delle eruzioni sino ad allora accadute, avevano sempre preceduto o posticipato avvenimenti storici importanti, e quasi sempre carichi di disgrazie per Napoli o la Campania. Un esempio su tutti: l'eruzione del 1631 sarebbe stato il "preavviso" naturale dei moti di Masaniello del 1647. Il nome del Vulcano è associato al termine “cas” che significa “risplendere, bruciare” o ancora lo si ricollega al nome della Dea greca Vesta, divinità del fuoco e del focolare. Il monte era amato per le sue fertili terre, per le sue magnifiche tenute di campagna, per i suoi fenomeni geologici e soprattutto perché zona residenziale di lusso dei patrizi romani. Secondo gli studiosi le popolazioni che vivevano alle falde del Vesuvio prima del I secolo a. C., erano del tutto inconsapevoli che tale vulcano fosse attivo e pericoloso a causa delle possibili violente eruzioni di lava, anche se alcuni letterati greci, primo tra tutti lo scrittore Strabone e poi Diodoro Siculo,

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nel I secolo a. C., avevano ben individuato il profondo nesso tra “il fiume di fuoco (lava) e Vesuvio”. I successivi intellettuali latini, Seneca, Sisenna, Plinio il Vecchio, Vitruvio, Virgilio, Columella, ecc, ignari che il gigantesco monte avesse un passato di sconvolgenti eruzioni lo stimarono come locus amoenus, ossia inizialmente lo apprezzarono per i suoi giardini, per la sua coltivazione orticola e per la sua notevole attività vinicola. Il noto poeta recanatese Giacomo Leopardi, definisce così il “nostro” Vulcano, <<Sterminator Vesevo>> e ricorda che <<questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; [ ] fur liete ville e colti, e biondeggiar di spiche, e risonaro di muggito d’armenti; fur giardini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio; e fur città famose che coi torrenti suoi l’altero monte dall’ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme [ ] >> - (La ginestra o il fiore del deserto, 1836). Le storie del Vesuvio

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Al Vesuvio sono legate alcune storie o leggende, il racconto più suggestivo scorre dalla china di Matilde Serao nel suo "libro d'immaginazione e di sogno": Vesuvio era un giovane nobile di Napoli, follemente innamorato di una giovane di una "casa nemica", la famiglia Capri. Ma il loro amore era così avversato dalle proprie famiglie, che la fanciulla, fatta imbarcare su una nave diretta verso una terra straniera, sentendosi "strappar l'anima", si gettò in mare, «donde uscì isola azzurra e verdeggiante». Il cavaliere, «quando seppe della nuova crudele, cominciò a gittar caldi sospiri e lacrime di fuoco, segno della interna passione che l'agitava: e tanto si agitò che divenne un monte nelle cui viscere arde un fuoco eterno di amore. […] Così egli è dirimpetto alla sua bella Capri e non può raggiungerla e freme di amore e lampeggia e s'incorona di fumo e il fuoco trabocca in lava corruscante…» . Nelle Egloghe Piscatorie, Bernardino Rota racconta di Leucopetra, ninfa marina contesa da due giovani, Vesevo e Sebeto. Per sfuggir al loro inseguimento, si gettò in mare e si trasformò in pietra. Allora, Vesevo, disperato, si trasformò in una montagna che rovesciava fuoco, fino a raggiungere la sua amata ninfa nel mare; e Sebeto pianse così tanto da trasformarsi in un rivolo che si versava in mare. Vesuvio, fumaiolo dell'inferno, il misterioso vulcano ha da sempre suscitato, nell'immaginario collettivo, timore e terrore. Gli antichi lo associarono all'Ade e interpretarono la sua eruzione come manifestazione dell'ira divina.

Secondo itinerario – azione “creatrice” del Vesuvio - Castellamare di Stabia: Castellammare di Stabia (in napoletano Castiellammare, talvolta anche Castllammare) il 25 agosto del 79 d.C. fu travolta da un'inaspettata e violenta eruzione del Vesuvio, che fece scomparire la città, stabie, sotto una fitta coltre di cenere, lapilli e pomici, insieme a Pompei ed Ercolano. A causa dei frequenti terremoti che avevano preceduto l'eruzione, molte ville mostravano segni di cedimento o crepe e quindi si trovavano in fase di ristrutturazione: fu questo il motivo per cui a Stabiae ci fu un numero limitato di vittime[. Tra le vittime illustri fu anche Plinio il Vecchio, che giunto a Stabiae per osservare più da vicino l'eruzione, morì molto probabilmente avvelenato dai gas tossici sulla spiaggia. Dopo la distruzione di Stabiae ad opera del Vesuvio, alcuni abitanti del luogo scampati all'eruzione, tornarono alle loro vecchie abitazioni, ormai distrutte, per recuperare oggetti e denaro: furono questi che costituirono un villaggio lungo la costa, la quale grazie all'eruzione era diventata molto più protesa nel mare rispetto

al passato. Questo nuovo villaggio, che viveva soprattutto di pesca ed agricoltura, entrò a far parte del Ducato di Sorrento, e nel XX accolse l'apertura della linea tranviaria che collegava la stazione di Castellammare di Stabia direttamente con Sorrento, attraversando tutta la penisola sorrentina. Sempre in questo periodo la vocazione turistica di Castellammare di Stabia, soprattutto per le sue acque e le loro proprietà curative, raggiunge l'apice. Torre del Greco: Torre del Greco (Torre 'o Grieco in napoletano[2] e Torre 'u Grieco o semplicemente 'a Torre in torrese) in epoca romana, come testimoniano numerosi reperti archeologici, era probabilmente un sobborgo residenziale di Ercolano, dove erano sorte numerose ville che godevano dall'amenità dei luoghi e dalla posizione centrale all'interno del golfo di Napoli. Proprio come accadde con Ercolano, Pompei, Stabia e Oplonti, la devastante eruzione del Vesuvio del 79 d.C. sconvolse anche questi luoghi, fino a rimodellarne l'intero suolo e respingere il mare per oltre 500 metri.

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za di quello che ricoprì Ercolano e che si solidifica in pietra durissima – ha consentito che la Città giungesse integra fino ai nostri giorni non solo nelle sue architetture, ma anche in tutto ciò che era dentro le abitazioni o dentro i negozi, offrendo un quadro del quotidiano’ incredibilmente affascinante. La città dissepolta costituisce dunque una eccezionale testimonianza storica della civiltà romana: le memorie del passato, così vive e tangibili nei resti riportati alla luce, costituiscono il fascino di oggi. Quello che è emerso dal riempimento di calchi, fatti con il gesso. Possiamo scorgere la tremenda tragedia che si è consumata e di come la grande eruzione abbia sterminato e ucciso. Crudele ma allo stesso tempo affascinante, sembra di rivivere quelle sensazioni di paura e di orrore. Dalla posizione dei calchi, possiamo dedurre che la morte sia venuta ad opera dei gas nocivi che l’eruzione ha disperso nell’aria, successivamente tutto è stato coperto da cenere e lapilli incandescenti. Di questi reperti ne sono stati trovati tantissimi e ciò fa pensare che gli antichi non

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abbiano nemmeno avuto il tempo di scappare, senza quasi rendersene conto. Ercolano Gli scavi archeologici di Ercolano hanno restituito i resti dell'antica città di Ercolano, seppellita sotto una coltre di ceneri, lapilli e fango durante l'eruzione del Vesuvio del 79, insieme a Pompei, Stabiae ed Oplonti. Ritrovata casualmente a seguito degli scavi per la realizzazione di un pozzo nel 1709, le indagini archeologiche ad Ercolano cominciarono nel 1738 per protrarsi fino al 1765; riprese nel 1823, si interruppero nuovamente nel 1875, fino ad uno scavo sistematico promosso da Amedeo Maiuri a partire dal 1927: la maggior parte dei reperti rinvenuti sono ospitati al museo archeologico nazionale di Napoli, nel 1997, insieme alle rovine di Pompei ed Oplonti, è entrato a far parte della lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, mentre nel 2008 si è avuta la nascita del museo archeologico virtuale che mostra la città prima dell'eruzione del Vesuvio.

Intorno al II–III sec. d. C. il monte divenne l'abitazione del demonio o il "fumaiolo dell'inferno", come lo definì Tertulliano. Gli stessi San Gregorio Magno e San Pier Damiani lo paragonarono all'inferno. Nell'XI secolo, l'abate Desiderio da Montecassino, in seguito Papa Vittore III, raccontò un particolare episodio: una notte, un monaco napoletano vide molti uomini neri, che trasportavano "some cariche di paglia" lungo la strada. Nonostante fosse fortemente spaventato, chiese loro come intendevano utilizzare quelle grandi scorte. Una voce che pareva giungere dall'oltretomba rispose: "Noi siamo spiriti maligni e prepariamo […] l'esca per alimentare il fuoco che dovrà bruciare gli uomini cattivi". Precisò anche che presto sarebbero stati bruciati tali Pandolfo principe di Capua e Giovanni duca di Napoli. Orbene, i due morirono proprio poco tempo dopo, mentre sul Vesuvio divampavano lingue di fuoco altissime. L. A. Villari riferisce un aneddoto sul pittore napoletano Luca Giordano, che

avrebbe incontrato un diavolo sul Vesuvio, dopo aver rappresentato l'inferno in un dipinto, spaventato dai complimenti che questi gli fece per averlo raffigurato magnificamente, ritornò a casa per distruggere il quadro e chiedere aiuto alla misericordia divina. Ancora oggi, il vulcano è chiamato monte dei diavoli e, com'è noto, sul Vesuvio c'è una valle denominata Valle dell'Inferno, che costituisce la parte orientale della Valle del Gigante (l'avvallamento che separa il Monte Somma dal Vesuvio) e si oppone all'Atrio del Cavallo, vicino alla Fossa del Monaco, in cui – si racconta – fu inghiottito un monaco che sul monte aveva osato invocare "l'aiuto delle potenze magiche per esaudire un desiderio inconfessabile". Il vulcano, sdegnatosi, vomitò un cavallo con occhi di fuoco e una criniera di serpi che raggiunse il monaco in fuga e fece aprire una voragine sotto i suoi piedi. Curiosa la seguente composizione, una sorta di formula di scongiuro contro l'eruzione del Vesuvio, segno dell'ira divina suscitata dai peccati di Napoli. Fu scritta da Padre Grimaldi per una lapide che non fu mai realizzata. Inoltre si racconta che contro le minacce delle potenze infernali, il popolo napoletano si affidò ai propri santi protettori, e, di questi, solo uno era capace di placare la forza del Vesuvio: San Gennaro. Il binomio San Gennaro– Vesuvio risale almeno al V secolo, periodo cui viene fatto risalire un affresco, ritrovato nelle cosiddette catacombe di San Gennaro, che raffigura il patro37


no di Napoli accanto al Vesuvio. Nel 471, Papa Silverio I implorò l'aiuto di San Gennaro. Da allora, seguirono numerosi miracoli del Santo. "Presagio fausto è", ancora oggi, "la liquefazione del sangue di San Gennaro, da cui il popolo deduce che non vi saranno durante i mesi futuri né eruzioni né terremoti". Ma i documenti più numerosi risalgono al Seicento. In Napoli nell'anno 1656, il medico Salvatore Renzi racconta che il 2 luglio del 1658 veniva posta sull'obelisco, eretto in onore di San Gennaro – domatore del Vesuvio – una statua del Santo, tra l'entusiasmo generale del popolo, fiducioso che il vulcano non avrebbe più eruttato. Ebbene, la sera del 3 luglio, accadde l'inimmaginabile: il Vesuvio cominciò a vomitare cenere e lapilli. Immediatamente, furono esposte le ampolle del sangue del Santo e proclamata l'indulgenza plenaria, così che furono tutti assolti dai peccati: farabutti, briganti e meretrici. "San Gennaro, contento di tanta pubblica prova di devozione del buon popolo", ordinò alla lava di arrestarsi. Seguirono feste e processioni in suo onore. Si trattava di processioni molto pittoresche, cui partecipava una fiumana di gente: i penitenti si flagellavano, mostrando le ferite sanguinanti; i monaci cospargevano il capo di cenere del Vesuvio, recitando i salmi; e talvolta le donne si legavano alle spalle enormi croci di legno. Così, si giungeva al Duomo per la benedizione dell'arcivescovo. Ma la bizzarria del popolo napoletano è tale che non sempre si richiedeva al Santo Patrono di rabboni38

re il vulcano. Qualche volta – incredibile a dirsi – si richiese persino di ridar vigore alla sua potenza. È il caso del 1952, quando si fece notare che, scomparso il pennacchio del Vesuvio, erano scomparse anche le mance dei turisti, e si giunse a supplicare tale Padre Alfano: "Aiutateci voi. Dite una preghiera a San Gennaro. Scongiuratelo di far comparire almeno un po' di fumo, sulla cima del Vesuvio Secondo una leggenda, fiorita dopo l'eruzione del 1631, il simbolo della napoletanità, Pulcinella, sarebbe proprio nato dalle viscere del Vesuvio, "uscendo dal guscio di un uovo comparso per volere di Plutone sulla sommità del vulcano, grazie ad un impasto fatto da due fattucchiere, che avevano chiesto un soccorritore per sanare situazioni di ingiustizia e di oppressioni". Il parco naturale del Vesuvio Un altro componente del Vulcano attualmente noto è il Parco Nazionale del Vesuvio, nato il 5 giugno 1995 per il grande interesse geologico, biologico e storico che il suo territorio rappresen-

zioni e per la distribuzione non uniforme lungo tutto il complesso montano del Somma-Vesuvio. La superficie stimata è di circa 480 ettari (10% circa della Sau seminativi dell’area), con produzioni annuali di circa 4 mila tonnellate di prodotto fresco, e rese oscillanti fra i 60 e i 150 quintali per ettaro. Il riconoscimento della DOP e il rinnovato interesse commerciale verso tale prodotto ha rivitalizzato l’intero comparto tanto che tutte le produzioni, fresche e conservate, sono smaltite rapidamente e senza alcuna difficoltà soprattutto sul mercato locale, ma in alcuni casi anche presso la moderna distribuzione. L’offerta di pomodorini in conserva o in piennoli confezionati è ancora limitata, ma in ogni caso, anche senza un’adeguata politica di valorizzazione del prodotto, rimane alto il livello di qualità percepita dai consumatori e quindi elevata è la richiesta del prodotto stesso. Il Pomodorino del Vesuvio viene apprezzato sul mercato sia allo stato fre-

sco, venduto appena raccolto sui mercati locali, che nella tipica forma conservata in appesa -“al piennolo”-, oppure anche come conserva in vetro, secondo un’antica ricetta familiare dell’area, denominata “a pacchetelle”, anch’essa contemplata nel disciplinare di produzione della DOP. Itinerari Il Vesuvio con le sue mille immagini rapisce la vista di qualsiasi individuo, anche perché oltre alle bellezze naturali che offre si possono ammirare la sua azione dì “distruttrice” e “creatrice”, rispettivamente visitando Pompei ed Ercolano, e la zona di Castellamare di Stabia, Torre del Greco e Boscoreale. Primo itinerario – azione distruttiva del Vesuvio - Pompei: Pompei è una delle più significative testimonianze della civiltà romana e si presenta come un eccezionale libro aperto sull’arte, sui costumi, sui mestieri, sulla vita quotidiana del passato. La città è riemersa dal buio dei secoli così come era al momento in cui venne all’improvviso coperta da uno spesso strato di ceneri fuoriuscite, insieme alla lava, con la devastante eruzione del Vesuvio. Era il 79 dc. La tragedia fu immane: in quello che era stato uno dei più attivi e dei più splendidi centri romani la vita si fermò per sempre. Lo spesso strato di materiale eruttivo che lo sommerse, costituito in gran parte da ceneri e lapilli – materiale non duro a differen47


una grande versatilità in cucina. Accanto ai tradizionali spaghetti alle vongole e agli altri frutti di mare, gli chef locali si impegnano ad utilizzarlo in tanti altri piatti, tra cui una variante alla prelibata pizza napoletana. Si utilizzano per le cotture veloci, come il pesce all’acquapazza, ed eccellenti anche con la carne alla pizzaiola, ovvero fettine cotte in un semplice sughetto di pomodorini preparato all’istante, che poi, una volta estratta la carne, serve per condire i maccheroni. Così, per molti mesi, si possono condire i piatti di pesce, le pizze e le paste della tradizione campana con una “pummarola” straordinariamente saporita. Da sempre questi pomodori hanno costituito il veloce spuntino di mezza mattina dei contadini nei campi, un pomodoro “schiattato” sul pane, un filo d’olio, sale e basilico. Area di produzione L’area tipica di produzione e conservazione del pomodorino del piennolo coincide con l’intera estensione del complesso vulcanico del Somma-

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Vesuvio, includendo le sue pendici degradanti sino quasi al livello del mare. In particolare, la zona di produzione e condizionamento prevista dal disciplinare del “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” comprende: • l’intero territorio dei seguenti comuni della provincia di Napoli: Boscoreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa Di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a Cremano, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco, Trecase; • la parte del territorio del comune di Nola delimitata perimetralmente: dalla strada provinciale Piazzola di Nola – Rione Trieste (per il tratto che va sotto il nome di “Costantinopoli”), dal “Lagno Rosario”, dal limite del comune di Ottaviano e dal limite del comune di Somma Vesuviana. Dati economici e produttivi La diffusione del “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” nell’area vesuviana è piuttosto frammentata, per l’elevata parcellizzazione delle coltiva-

ta. La sua sede è collocata nel comune di Ottaviano. È stato istituito principalmente per conservare i valori del territorio e dell'ambiente, e la loro integrazione con l'uomo; salvaguardare le specie animali e vegetali, nonché le singolarità geologiche; promuovere attività di educazione ambientale, di formazione e di ricerca scientifica. Il versante vesuviano e quello sommano differiscono notevolmente dal punto di vista naturalistico, il primo è più arido, è stato in gran parte riforestato per impedire fenomeni franosi e presenta le caratteristiche successioni vegetazionali della macchia mediterranea; il versante del Somma, più umido, è caratterizzato dalla presenza di boschi misti. La flora presente nel territorio della Riserva è comunque di tipo essenzialmente mediterraneo; da numerosi studi riportati in letteratura risulta che il complesso vulcanico è stato colonizzato da più di 900 specie, considerando quelle estinte e quelle la cui colonizzazione è recente. Oggi molte delle specie presenti in passato non sono più state rinvenute; l’impoverimento del patrimonio floristico vesuviano va certamente ricondotto all’accentuarsi della antropizzazione, soprattutto negli ultimi decenni. Da studi recenti si è appurata la presenza attualmente di 610 entità, delle quali oltre il 40% è costituito da specie mediterranee, il 20% è rappresentato da specie cosmopolite, mentre sono poco rappresentate le specie endemiche, con solo 18 entità, probabilmente

a causa delle numerose ricolonizzazioni che hanno seguito le cicliche manifestazioni eruttive del vulcano. Tra queste ultime, quella che può considerarsi veramente rara è la Silene giraldi, presente, oltre che sul Vesuvio, anche a Capri ed a Ischia; degna di nota è la ginestra dell’Etna (Genista aetnensis), un endemita etneo introdotto sul Vesuvio dopo l’eruzione del 1906, che in alcune zone,come nell’Atrio del Cavallo e nella Valle dell’Inferno, forma delle boscaglie impenetrabili. Sui suoli lavici vesuviani si osserva la colonizzazione vegetale che parte ad opera dello Stereocaulon vesuvianum, un lichene coralliforme tipico di quest’area, dominante incontrastato soprattutto sulle colate laviche più recenti, dal tipico aspetto grigio e filamentoso. Il lichene ricopre interamente le lave vesuviane e le colora di grigio, facendo assumere alla lava riflessi argentati nelle notti di luna piena. Sulle colate più antiche allo Stereocaulon vesuvianum si affiancano le altre specie pioniere, tra cui la valeriana

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rossa (Centranthus ruber), l'elicriso (Helichrysum litoreum), l'artemisia (Artemisia campestris). Le associazioni pioniere preparano il terreno per l'instaurarsi di estesi ginestreti, che imprimono un aspetto caratteristico ai versanti del Vesuvio, soprattutto in periodo primaverile durante le fioriture; sono presenti tre specie di ginestra: la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius), la ginestra odorosa (Spartium junceum) e la già citata ginestra dell'Etna (Genista aetnensis). Sul versante meridionale del vulcano, l’originale vegetazione mediterranea del Vesuvio è stata in buona parte sostituita dal pino domestico (Pinus pinea); a partire degli anni ’90 è iniziata un’opera di sfoltimento delle pinete per lasciare il posto alle essenze mediterranee della zona, e in particolare al leccio (Quercus ilex). Tra lecci e pini, il rigoglioso sottobosco include il biancospino (Crataegus monogyna), la fusaggine (Euonymus europaeus) e lo smilace (Smilax aspera). La vegetazione mediterranea si compone di lentisco (Pistacia lentiscus), mirto (Myrtus communis), alloro (Laurus nobi-

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lis), fillirea (Philllirea latifolia), origano (Origanum vulgare) e rosmarino (Rosmarinus officinalis). Tra la primavera e l’state fioriscono, come già evidenziato, ben 23 specie di orchidee selvatiche; le più visibili sono la Orchis papillonacea e la Orphys sphegodes. Le pendici settentrionali del monte Somma, che, come già detto, sono più umide, sono invece coperte da ampi castagneti fino a quota 900 mt; a quote superiori prevalgono, invece, i boschi misti di latifoglie, ricchi di sottobosco e costituiti, oltre che dal castagno (Castanea sativa), da roverella (Quercus pubescens), carpino nero (Ostrya carpinifolia), orniello (Fraxinus ornus), ontano napoletano (Alnus glutinosa), varie specie di acero (Acer spp.), e resi ancora più interessanti per la presenza di alcuni nuclei sparsi di betulla (Betula pendula), relitto di boschi mesofili presenti nell'area in passato; esemplari di betulla sono presenti anche nella Valle del Gigante. Dove l'umidità è maggiore, alle specie arboree citate si affiancano anche i pioppi (Populus spp.) e varie specie di salici (Salix spp.). Il sottobosco è particolarmente ricco; tra le specie maggiormente diffuse citiamo il pungitopo (Ruscus aculeatus), lo smilace (Smilax aspera), il biancospino (Crataegus monogyna), il ligustro (Ligustrum vulgaris), e numerose famiglie di felci. La caratterizzazione climatica, l’attività eruttiva, che a più riprese ha cancellato la vegetazione, ed il profondo rimaneggiamento dovuto alla co-

nianze storiche più illustri, notizie sul prodotto sono riportate dal Bruni, nel 1858, nel suo “Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli”, ove parla di pomodori a ciliegia, molto saporiti, che “si mantengono ottimi fino in primavera, purché legati in serti e sospesi alle soffitte”. Altra fonte letteraria attendibile è quella di Palmieri, che sull’Annuario della Reale Scuola Superiore d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà di Agraria), del 1885, parla della pratica nell’area vesuviana di conservare le bacche della varietà p’appennere in luoghi ombrati e ventilati. Francesco De Rosa, altro professore della Scuola di Portici, su “Italia Orticola” del novembre 1902, precisava che la vecchia “cerasella” vesuviana era stata via via sostituita dal tipo “a fiaschetto”, più indicato per la conservazione al piennolo. Il De Rosa è anche il primo ricercatore che riporta in modo esaustivo l’intera tecnica di coltivazione dei pomodorini vesuviani, facendo intendere così che si stava sviluppando nell’area un’intera economia intorno a questo prodotto, dalla produzione delle piantine da seme alla vendita del prodotto conservato. Anche il prof. Marzio Cozzolino, della Facoltà di Agraria di Portici, nel suo testo del 1916, concorda con le fonti precedenti, sia sulla descrizione varietale che sui metodi di produzione, dedicando intere parti del testo a descrivere minuziosamente la tecnica colturale e soprattutto fornendo dati, anche economici, che aiutano a capire la la-

boriosità e la complessità di questa tipologia di prodotto. Coltura Il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio si coltiva con un metodo tradizionale, che prevede l’ausilio di sostegni con paletti di legno e filo di ferro, che evitano che le bacche tocchino terra e fanno sì che ricevano uniformemente i raggi solari. I pomodori, del peso di circa 25-30 grammi, sono rotondi e presentano un piccolo pizzo all’estremità inferiore. La tecnica di conservazione tradizionale vuole che si formino dei “Piennoli”, cioè pendoli: grappoli interi, raccolti tra luglio e agosto, sistemati su un filo di canapa legato a cerchio, per comporre un unico grande grappolo, conservato sospeso in luoghi asciutti e ventilati. Questo sistema favorisce una lenta maturazione e consente di avere “oro rosso fresco” fino alla primavera seguente all’anno della coltivazione. In cucina Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” per le sue qualità è un ingrediente fondamentale della cucina napoletana e campana in generale, ed ha 45


Il piennolo Arrivato dalla lontana America, il pomodoro ha trovato nel Napoletano il suo habitat ideale, prosperando ed evolvendosi verso specie domestiche sempre più pregiate. La sua coltivazione è divenuta una vera e propria arte e la tradizionalità di questa produzione sin dal XVIII secolo è documentata da numerose fonti bibliografiche nonché dall'abitudine di riprodurre i pomodorini fra gli ortaggi del presepe. Una delle produzioni più caratteristiche dell’area del Vesuvio sono i pomodorini da serbo “col pizzo”, detti anche spongilli o piénnoli (“pendoli”) per l’abitudine di appenderli alle pareti o ai soffitti, riuniti in grappoli (schiocche) e legati con cordicelle di canapa. Sono piccoli pomodori (20-25 grammi) dalla forma a ciliegia, che si distinguono dagli ormai famosi pomodorini di Pachino per la presenza di due solchi laterali (detti coste) che partono dal picciolo e danno origine a delle squadrature, e di una punta, un “pizzo”, all’estremità. La buccia è spessa e resistente, la polpa soda e compatta, povera di succo,

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prosciugata dal sole che splende sui terreni aridi del vulcano. Si seminano in marzo-aprile e maturano tra luglio e agosto, ma l’antico procedimento di conservazione prevede che li si raccolga a grappoli interi all’inizio dell’estate per conservarli, appesi in locali con adeguata temperatura e umidità, fino all’inverno o addirittura alla primavera successiva. Sapore e profumo diventano più intensi con il passare del tempo: man mano che i pomodori asciugano e la concentrazione aumenta. Il Pomodorino è ricco di Vitamina A e C, di cui sono noti da tempo gli effetti anticancerogeni, di sali minerali quali Calcio, Fosforo e Potassio, indispensabili per il corretto funzionamento del cuore e dei muscoli, e di Licopene, che esercita nell’organismo un’azione antiossidante, stimolando la produzione di enzimi che bloccano l’azione cancerogena dei radicali liberi. Cenni storici La coltivazione del Pomodorino del Piennolo sulle falde del Vesuvio ha senza dubbio radici antiche e ben documentate. Per limitarci alle testimo-

stante presenza dell'uomo, sono alla base della coesistenza, in un territorio relativamente poco ampio, di così tanti ambienti, diversi fra loro ed in varie fasi di evoluzione. Nonostante l’area del Parco sia completamente inserita in un contesto estremamente antropizzato, ed abbia assunto le caratteristiche tipiche di un'isola biogeografica, il suo popolamento faunistico è notevolmente interessante. Anche la fauna è stata protagonista, come le specie vegetali, di ripetute colonizzazioni a seguito delle cicliche eruzioni del Vesuvio, ma la vicinanza alla fascia costiera, il fatto di essere l'unico complesso montuoso situato al centro della pianura nolana, unitamente alle favorevoli condizioni climatiche ed alla grande diversità ambientale, hanno contribuito a consentire il mantenimento, in un territorio di modesta estensione, di una interessante comunità faunistica. Soprattutto le fasce ecotonali a confine tra i numerosi agrosistemi hanno creato le condizioni favorevoli all'instaurarsi di una comunità animale ricca e diversificata. Tra i vertebrati sono state recentemente

accertate 2 specie di anfibi, 8 specie di rettili, 138 specie di uccelli, 29 specie di mammiferi, mentre tra gli invertebrati si contano 44 specie di lepidotteri diurni, 8 famiglie di apoidei e formicidi, tutte rappresentate da numerose specie, e molti altri taxa, in parte ancora da studiare e catalogare, in parte descritti in una recente pubblicazione sulla biodiversità del Parco del Vesuvio (Picariello, Di Fusco e Fraissinet, 2000). Gli anfibi presenti sono il rospo smeraldino (Bufo viridis) e la rana verde (Rana esculenta); il primo è piuttosto diffuso nel territorio del Parco alle quote medio-basse, e per favorirne la riproduzione l'Ente ha predisposto la costruzione di stagni artificiali temporanei, la seconda è invece molto localizzata, laddove sono presenti pozze o vasche artificiali. Tra i rettili sono degni di nota il cervone (Elaphe quatorlineata) ed il saettone (Elaphe longissima), entrambi molto rari. Per quanto riguarda i mammiferi, sono da segnalare il ghiro (Glis glis), il topo quercino (Eliomys quercinus), il mustiolo (Suncus etruscus), la crocidura minore (Crocidura suaveolens), il topo selvatico (Apodemus sylvaticus) ed il moscardino (Muscardinus avellanarius), soprattutto negli ambienti boscati, oltre al riccio (Erinaceus europaeus), presente il tutto il territorio protetto. Due le specie di lagomorfi accertate: il coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus), protagonista di una notevole espansione demografica, e la lepre europea (Lepus europaeus), presente 41


soprattutto alle quote medio-alte con una discreta densità di popolazione. I predatori sono rappresentati dalla volpe (Vulpes vulpes), diffusa in tutti gli habitat del territorio vesuviano, compresi quelli densamente antropizzati, la faina (Martes foina), anch'essa presente in tutto il territorio, prediligendo però gli ambienti forestali, e la donnola (mustela nivalis), comune soprattutto nel versante sommano. La classe degli uccelli rappresenta sicuramente il taxon più ricco del Parco nazionale del Vesuvio; a parte le specie nidificanti e svernanti, il complesso del Somma-Vesuvio, essendo posto lungo le rotte migratorie dell'avifauna del Paleartico occidentale, ed essendo l’unico rilievo montuoso isolato di una certa importanza in una vasta area pianeggiante, riveste una fondamentale importanza ed un sicuro riferimento per numerosi migratori che vi sostano durante i passi; tra questi vale la pena citare il falco di palude (Circus aeruginosus), il gruccione (Merops apiaster), l'averla capirossa (Lanius senator). Le specie nidificanti sono 62, un numero di tutto rispetto considerata la limitata

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estensione del territorio, costituito tra l’altro in gran parte di roccia lavica. Tra le nidificazioni più interessanti si citano tre-quattro coppie di poiana (buteo buteo), una-due coppie di falco pecchiaiolo (Pernis apivorus), due coppie di sparviere (Accipiter nisus), tornato a nidificare in seguito all’istituzione del Parco nazionale del Vesuvio, cinque coppie di gheppio (Falco tinnunculus) e due di pellegrino (Falco peregrinus). Inoltre il territorio, ricco di bellezze storiche e naturalistiche, vanta una produzione agricola unica per varietà e originalità di sapori. La produzione agricola vesuviana. Per quanto riguarda la produzione agricola verso le basse e fertili pendici, ricche di silicio e potassio, (materiali preziosi per la vegetazione), permane la zona orticola, dove è intensamente ricoperta di frutta, legumi, agrumi (albicocche, ciliege, mandarini, noci, noccioline, fichi, arance, pomodori, fave, piselli, zucchine, cavolfiori, carciofi, broccoli, finocchi, ecc). Nei campi vesuviani è rimasto vivo soprattutto l’antico culto latino per il vino. Infatti fino ai 400-500 m di altura domina la vite e, il buon vino che si consiglia di gustare è il cosiddetto “caprettone”, il cui vero nome è la Coda di Volpe. Tra i vini pregiati del Vesuvio ricordiamo anche quello ricavato dall’uva Falanghina e Lacryma Christi, quest’ultimo lo si ottiene dai grappoli d’uva del Piedirosso del Vesuvio. La coltivazione della vite sul Vesuvio

risale ad epoca antichissima. Da Aristotele viene citato che i Tessali, antico popolo della Magna Grecia, piantarono le prime viti nella zona vesuviana quando nel V secolo a.C. si stabilirono in Campania. Tanti poeti latini, inoltre, tra cui Sallustio, Plinio e Marziale, hanno lasciato qualche testimonianza. Nella cultura romana si ignorava che il Vesuvio fosse un vulcano attivo, ma era ben nota la fertilità delle sue pendici che erano ammantate quasi interamente da vigneti, per cui le falde del monte erano tutto un susseguirsi di ville rustiche, preposte alla coltivazione della vite ed alla produzione del vino. Alcune di queste ville sono state rinvenute ed in esse è ancora visibile la struttura modellata in funzione della produzione del vino a riprova dell'importanza della viticoltura nella vita del circondario pompeiano. Lacryma Christi Esistono vari miti e leggende sul nome del vino: "Dio riconoscendo nel Golfo di Napoli un lembo di cielo strappato da Lucifero durante la caduta verso gl'inferi, pianse e laddove caddero le lacri-

me divine sorse la vite del Lacrima Christi". Un'altra versione narra invece di Cristo in visita ad un eremita redento che prima del commiato gli trasforma la sua bevanda poco potabile in vino eccellente. Versioni cristiane ereditate dalla mitologia pagana ben radicata sin dai primi insediamenti umani come dimostrano l'affresco di Bacco sul Vesuvio conservato nella Casa del Centenario a Pompei e le sue infinite presenze nei resti romani scampati all'eruzione del 79 d.C., la più antica di cui si abbia testimonianza scritta. Sulla leggenda ritornò Curzio Malaparte che ne "La pelle", invita a bere "questo sacro, antico vino". Il Lacryma Christi veniva prodotto negli antichi tempi da certi monaci, il cui convento sorgeva sulle pendici del Vesuvio. Sembra che più tardi i Padri Gesuiti, padroni di vaste terre in quelle località, fossero quasi esclusivi produttori e detentori di questo prezioso vino.Per quanto siano radicate le tradizioni del Lacryma Christi, l'istituzione della DOC è piuttosto recente e risale al 1983.

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