Non è la solita guida

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Non è la solita guida Redazione a cura di

Stefania Landieri Ludovica Trasi Linda Visconti

Progetto grafico: Elena Carrucola

P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”

-I monumenti -Le isole -Le chiese e le guglie

“Napoli, si nun c’ stesse L’ avessena inventà” 2


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Il centro antico di ogni città custodisce preziose memorie storiche sulle origini, l’arte, le tradizioni di un popolo. Ciò vale in maniera particolare per Napoli, che può vantare un patrimonio culturale e morale di straordinaria entità; un patrimonio che si snoda spesso attraverso itinerari legati alla fede, come ben sa chiunque abbia ammirato, almeno una volta le chiese, i campanili, le cappelle che adornano le più caratteristiche strade del cuore della città. Partendo dalle meravigliose isole che insistono nel golfo di Napoli e che sono dei veri e propri simboli della bellezza , del carattere e dello stile partenopeo , è possibile intraprendere un viaggio meraviglioso nell’ immenso patrimonio artistico e culturale che il centro storico di Napoli ha da offrire .

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I monumenti pag.10

Le isole pag.32 Ischia p.32 Capri p.56 Procida p.70

Le chiese e le guglie pag.78 Chiesa di S.Caterina a Formiello p. 78 Basilica santuario del Carmine Maggiore p.79 Duomo di Napoli p. 83 Chiesa di S.Lorenzo Maggiore p.85 Chiesa di S.Gregorio Armeno p.86 Basilica di S.Paolo Maggiore p. 89 Chiesa di S.Pietro a Majella p. 92 Cappella S.Severo p. 94 Chiesa di S.Domenico Maggiore p. 95 Chiesa del GesÚ nuovo p. 96 Basilica di S.Chiara p. 99 Chiesa di S.Anna dei Lombardi p. 102 Basilica reale pontificia di S.Francesco di Paola p.104 Chiesa di S.Antonio a Posillipo p. 106 Certosa di S.Martino p. 107 Basilica dell’ incoronata madre del buon consiglio p.109 Chiesa di S.Maria donnaregina p. 111 Basilica di S.Maria della sanità p.113

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I monumenti

Siete pronti ad esplorare le piazze, i vicoli, le Chiese, le trattorie e la cucina tipica della “Bella Napoli”? All'ombra del Vesuvio, la città partenopea è da sempre fonte di ispirazione per i comici, ma anche per gli scrittori, i poeti e gli artisti, che nella pazzia e nella straordinarietà del capoluogo della Campania hanno trovato un motivo per esprimere la propria genialità, e tutta la cultura di questa fantastica città. La città di Napoli, ricca di storia e di tradizione, domina l'omonimo golfo, ed è circondata da luoghi meravigliosi quali il sopracitato Vesuvio, la penisola Sorrentina, le isole di Capri, Ischia e Procida e i Campi Flegrei. Posta al centro del Mediterraneo, ha sempre svolto un ruolo fondamentale di collegamento tra culture diverse, ed ha visto nei secoli il succedersi di fasi storiche diverse e che hanno lasciato il segno sia nella architettura della città che nelle tradizioni e nell'indole del popolo napoletano. Capoluogo della Regione Campania e "capitale" del Mezzogiorno d'Italia, Napoli oggi copre una superficie di 117 Km quadrati, con una popolazione,

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nella sola città, di oltre un milione di abitanti. Le antichissime origini di Napoli affondano nella leggenda, o meglio, in una serie di leggende. Al centro di tutte, c'è la sirena Partenope, che, affranta per l'astuzia di Ulisse sfuggito al potere del canto delle sirene, si sarebbe suicidata, e il suo corpo sarebbe andato alla deriva fino ad incagliarsi sugli scogli dell'isoletta di Megaride, dove oggi sorge il famosissimo Castel dell'Ovo. Secondo una versione meno leggendaria, Partenope sarebbe stata invece una bellissima fanciulla, figlia del condottiero greco Eumelo Falevo partito alla volta della costa campana, per fondarvi una colonia; ma una tem-


pesta colpì la nave, provocando la morte di Partenope, in tributo alla quale fu dato il nome alla nascente città. Incamminiamoci insieme alla scoperta della “città di Totò”, ed iniziamo il nostro percorso partendo dal centro storico, , attraversando una parte dei Decumani in cui si concentrano alcuni dei monumenti più importanti di Napoli. Partendo dalla Cattedrale di Napoli, il Duomo di Santa Maria Assunta, si giunge alla Chiesa di San Paolo Maggiore, situata in corrispondenza dell'agorà greca, in piazza San Gaetano, costruita sui resti del Tempio dei Dioscuri. Si prosegue poi con la visita ai suggestivi sotterranei del complesso di San Lorenzo Maggiore, il più importante sito archeologico della città, dove è possibile visitare alcuni edifici pubblici della Neapolis greco-romana. In alternativa è possibile visitare il sito di Napoli sotterranea, percorrendo a 40 metri di profondità antiche cisterne, acquedotti per concludere la visita con il teatro romano.

Percorrendo un tratto di Via dei Tribunali, ricca di testimonianze storiche e artistiche, si raggiunge la Cappella Sansevero, esempio mirabile del barocco napoletano e famosissima per i numerosi riferimenti alla simbologia massonica. All’importanza artistica delle opere presenti, come il celebre Cristo velato, si affianca il fascino della leggenda del Principe Raimondo Di Sangro e dei significati allegorici che egli volle rappresentare attraverso le sculture e le decorazioni della Chiesa, in cui può leggersi un percorso iniziatico e spirituale. Prendiamoci una pausa e assaporiamo la pietanza più famosa della cucina napoletana: la pizza. La pizza ha una storia lunga, complessa ed incerta. Secondo la tradizione nel giugno 1889, per onorare la Regina d'Italia Margherita di Savoia, il cuoco Raffaele Esposito creò la "Pizza Margherita", una pizza condita con pomodori, mozzarella e basilico, per rappresentare i colori della bandiera italiana. Possiamo scegliere tra le tante pizzerie antiche e rinomate del centro storico, tra cui Gino Sorbillo, La Figlia del Presidente, di Matteo, Michele, Trianon, Starita…e successivamente proseguiamo con un’immancabile passeggiata nella via dei presepi, San Gregorio Armeno, celebre in tutto il mondo per le innumerevoli botteghe artigiane dedicate all’arte presepiale. Il culto del presepe a Napoli è uno di quelli più antico e soprattutto celeberrimi. Il presepe napoletano ha due tradizioni: quella colta del presepe artisti11

co del Settecento e quella popolare degli artigiani e dei figurinai. A Napoli si ha notizia del presepe già dal 1025, come dimostra un documento che parla della chiesa di Santa Maria del Presepe ma il massimo sviluppo del presepe si ebbe alla fine del XVII secolo, per opera di re Carlo III, che per il presepe era grande appassionato. Il presepe, che veniva edificato in alcuni saloni di Palazzo Reale di Napoli, erano di dimens i o n i e n o r m i . Tra i personaggi che seppero apprezzare e diffondere il culto del presepe napoletano notiamo il frate domenicano, padre Rocco, il quale diffuse l'arte del presepe al popolo, quello più povero ed umile. Lo produsse quindi nelle strade, nelle piazze e nelle case ne costruì anche uno nella grota verso Capodimonte, dove il re Carlo III amava r e c a r s i . Il Settecento e l'Ottocento è il periodo più ricco per quanto riguarda la nascita di presepi a Napoli e tra questi va annoverato il Presepe di Antonio Cinque, commerciante, il quale costruva il

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suo presepe nella sua abitazione in Via Marinella. Ricordiamo anche il bellissimo presepe del Cucinello alla certosa di San Martino, e conservato in quel Museo con dei pastori di grandissima fattura artistica, con abiti di seta ed in velluto ricamati in oro. Il presepe artistico napoletano presenta una ricchezza di scenari e di personaggi ad iniziare dalla Grotta posto al centro e collocato nel luogo più basso del presepe. Altri scenari quali il fiume, il pozzo, la fontana, il ponte, vi è inoltre l'Osteria, posta generalmente accanto alla grotta, sempre piena di cibarie, salsicce, prosciutti, carni macellate, fiaschi di vino, piatti colmi di maccheroni, pani e con tanti tavoli i m b a n d i t e . Accanto all'osteria si trova il forno e il mulino, su cui si notano sacchi di farina e cesti colmi di pane. Il pane è simbolo di Gesù, appunto definito nelle scritture il pane della vita. Altri personaggi rincorrenti sono la donna con il bambino, la zingara, la lavan-


daia, gli ambulanti, gli offerenti, il pastorello dormiente. I Re Magi, Gaspare, re d'Arabia, Melquon, poi Melchiorre, re della Persia e Baldassarre, re dell'India, partiti da Oriente, lì dove nasce il Sole, ricordando la nascita del Sole Bambino, cavalcando i loro cavalli, bianco per l'aurore, rosso baio per il mezzogiorno e nero per la notte, figure queste rappresentati come astrologi o come re. Poi la figura del bue de l'asinello che, la leggenda vuole, che alla nascita di Gesù, con il loro fiato riscaldassero il Bambinello infreddolito. Con il culto del presepe termina così la prima parte dedicata alla bellezza di Napoli.

Parco Archeologico delle Terme Di Baia Passando dal centro storico di Napoli ad una delle sue periferie più ricche di culture, quale Baia a Bacoli, dove si possiamo imbattere nel Parco Archeologico delle Terme Di Baia.

L’antica Baiae, famosa per la presenza di acque termali e per la bellezza dei luoghi, fu luogo di villeggiatura e di riposo dell’aristocrazia romana. Il suo parco archeologico, esteso su di una superficie di 40.000 mq e diviso convenzionalmente in cinque settori (Villa dell’Ambulatio, Settore di Mercurio, Settore della Sosandra, Settore di Venere), racchiude i resti di residenze patrizie e di impianti termali. La Villa dell’Ambulatio si estende su due terrazze: quella superiore ospita il quartiere domestico e quella inferiore un grande porticato coperto che dà nome alla struttura. Il Settore di Mercurio è costituito da due nuclei distinti con funzione prevalentemente termale. Il Settore della Sosandra, in cui sono state individuate quattro fasi edilizie, si sviluppa su quattro livelli: i primi due con funzione abitativa, mentre i due livelli inferiori ospitano un complesso architettonico scenografico interpretato come un teatro-ninfeo. Il Settore di Venere, chiamato così dagli studiosi del ‘700 che definivano “stanze di Venere” alcuni ambienti del livello inferiore, si articola su tre livelli sovrapposti con ambienti di servizio o con funzione termale. Da qui si passa poi alla visita del Museo Archeologico dei Campi Flegrei, situato presso i Castello Aragonese di Baia, giungendo anche alla visita della grande cisterna romana detta Piscina Mirabilis. La piscina mirabilis è un monumento archeologico romano sito nel comune di Bacoli, in provincia di Napoli. Costruita 13

in età augustea a Miseno, sul lato nordovest del Golfo di Napoli, originariamente era una cisterna di acqua potabile. Il nome attuale le fu attribuito nel tardo Seicento.[1] Si tratta della più grande cisterna nota mai costruita dagli antichi romani, ed aveva la funzione di approvvigionare di acqua le numerose navi della Classis Misenensis, poi divenuta Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex, che trovava ormeggio e ricovero nel porto di Miseno. La cisterna venne interamente scavata nel tufo della collina prospiciente il porto, ad 8 metri sul livello del mare. A pianta rettangolare, è alta 15 metri, lunga 72 e larga 25, con una capacità di 12.600 metri cubi. È sormontata da un soffitto con volte a botte, sorretto da 48 pilastri a sezione cruciforme, disposti su quattro file da 12. L'acqua veniva prelevata attraverso i pozzetti realizzati sulla terrazza che sovrasta le volte con macchine idrauliche, e da qui canalizzata verso il porto. La struttura muraria è realizzata in opus reticulatum e, così come i pilastri, è rivestita di materiale impermeabilizzante. Una serie di finestre lungo

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le pareti laterali e gli stessi pozzetti superiori provvedevano all'illuminazione e all'aerazione dell'ambiente. Sul fondo, nella navata centrale, si trova una piscina limaria di 20 metri per 5, profonda 1,10 metri, che veniva utilizzata come vasca di decantazione e di scarico per la pulizia e lo svuotamento periodico della cisterna. La piscina mirabilis costituiva il serbatoio terminale di uno dei principali acquedotti romani, l'acquedotto augusteo, che portava l'acqua dalle sorgenti del fiume Serino, a 100 chilometri di distanza, fino a Napoli e ai Campi Flegrei. Parte dell'antica cisterna è aperta ai visitatori. Il ragù Prendiamoci una seconda pausa, assaporando un’altra prelibatezza della Campania, pietanza famosa perché è la più comune cucinata nel giorno festivo della Domenica: il ragù. Il ragù napoletano ('O rraù in napoletano) è probabilmente il condimento più


conosciuto della cucina napoletana nonostante la sua poca diffusione nell'uso quotidiano, ciò dovuto all'elevata complessità di preparazione a causa anche dei tempi di preparazione eccessivamente lunghi. Per questi ed altri motivi, il ragù napoletano risulta essere un piatto tipicamente festivo consistendo nella unione (senza tritatura) di diversi tipi di carne, bovina e suina, cotti in una salsa di pomodoro a fuoco molto lento. ll ragù napoletano è decantato anche da Eduardo De Filippo in una sua poesia dal titolo, appunto: 'O rrau. La storia del ragù ha origine antica: A Napoli alla fine del Trecento esisteva la Compagnia dei Bianchi di giustizia che percorreva la città a piedi invocando "misericordia e pace". La compagnia giunse presso il "Palazzo dell'Imperatore" tuttora esistente in via Tribunali, che fu dimora di Carlo, imperatore di Costantinopoli e di Maria di Valois figlia di re Carlo d'Angiò. All'epoca il palazzo era abitato da un signore nemico di tutti, tanto scortese quanto crudele, e che tutti cercavano di evitare. La predicazione della compagnia convinse la popolazione a rappacificarsi con i propri nemici, ma solo il nobile che risiedeva nel "Palazzo dell'Imperatore" decise di non accettare l'invito dei bianchi nutrendo da sempre antichi e tenaci rancori. Non cedette neanche quando il figliolo di tre mesi, in braccio alla balia sfilò le manine dalle fasce ed incrociandole gridò tre volte: "Misericordia e pace". Il nobile era accecato dall'ira, serbava rancore e vendetta, ed un gior-

no la sua donna, per intenerirlo gli preparò un piatto di maccheroni. La provvidenza riempì il piatto di una salsa piena di sangue. Finalmente, commosso dal prodigio, l'ostinato signore, si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Sua moglie in seguito all'inaspettata decisione, preparò di nuovo i maccheroni, che anche quella volta, come per magia, divennero rossi. Ma quel misterioso intingolo aveva uno strano ed invitante profumo, molto buono ed il Signore nell'assaggiarla trovò che era veramente buona e saporita. La chiamo' così "raù" lo stesso nome del suo bambino. In realtà il termine Ragù deriva dal francese Ragout, che indica un tipo di cottura di carne e verdure, simile allo spezzatino. Originariamente costituiva il piatto unico della domenica, in quanto il sugo veniva utilizzato per condire la pasta, e la carne consumata come seconda portata. I tipi di carne impiegati nella preparazione del ragù sono numerosi, e possono variare anche da quartiere a quartiere, ed inoltre, questa non è macinata ma è cotta a pezzi

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grossi, da 500 g fino a un kg, tagliati a mo' di grossa bistecca, farcita con ingredienti vari (uvett, pinoli, formaggio, salame o lardo, noce moscata, prezzemolo) e legata con uno spago. Generalmente viene utilizzato un misto di carne di manzo (tagli anteriori e poco pregiati, che necessitano di lunga cottura) e di maiale. Troviamo il muscolo di manzo (gamboncello o piccione), le spuntature di maiale (tracchie), l'involtino di cotenna (cotica), la polpetta e la braciola, termine che viene usato però per indicare un involtino di carne di manzo ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli, uva passa e dadini di formaggio. Tradizionalmente, la preparazione del ragù inizia di buon mattino, se non il sabato sera, in quanto la salsa deve addensarsi molto, cuocendo a fuoco lento, fino a diventare di una consistenza molto cremosa, prima di poter condire degnamente una buona pastasciutta. In molte varianti del ragù napoletano viene impiegato anche un cucchiaio di concentrato di pomodoro. Pozzuoli

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Dopo questo pranzo all’insegna della buona cucina, ci spostiamo in un’altra area della periferia di Napoli, la bella Pozzuoli. Situata sull'omonimo golfo, Pozzuoli si trova in un'area vulcanica, i Campi Flegrei (cioè campi ardenti), che comprende un vulcano ancora in attività, la Solfatara. Fenomeno geosismico tipico di questa città e dell'intera area dei Campi Flegrei è il bradisismo, ossia il sollevamento e l'abbassamento della crosta terrestre a seguito dell'aumento della pressione sotterranea. Il rapido innalzamento del livello del mare coinvolse negli anni ottanta il porto, che fu riposizionato circa 50 metri più avanti rispetto alla collocazione precedente. Pozzuoli, anticamente Puteoli (o Puteolos), cioè pozzo, secondo altri che manda cattivo odore, a causa delle numerose sorgenti di acque termominerali e sulfuree, era in origine solo uno scalo commerciale della colonia ellenica di Cuma, o almeno così narra Strabone, mentre la città venne fondata nel 528 a.c. da un gruppo di esuli sami fuggiti dalla tirannide di Policrte, con il nome di Dicearchia, o "Dikaiarchia", vale a dire "giusto governo". La storia di Pozzuoli però è più antica, perchè ci sono prove della sua frequentazione fin dal VII sec. a.c. Inoltre nel 421 a.c. passò in mano ai Sanniti. Miseno era stata distrutta nel 214 a.c. da Annibale per rappresaglia contro Cuma, che aveva funzionato da roccaforte della legione di Sempronio Gracco, bloccando l'attacco dei Cartaginesi, ingannati poi dalla Prima Legio-


ne di Fabio Massimo, che conquistò l'altura dominante, cioè il Rione Terra, della futura Puteoli, fortificandola e rendendola inespugnabile. Divenuta colonia romana nel 194 a.c., fu un importante centro portuale per il commercio del grano destinato all'Urbe. Alla caduta dell'Impero, a causa della mancanza di valide fortificazioni e dei fenomeni di bradisismo lungo la costa, la città si restrinse sul promontorio del rione Terra, che divenne una rocca fortificata. Dopo la conquista romana della Campania nel 228 a.c., divenne luogo di villeggiatura per i patrizi romani e il suo porto divenne fondamentale per gli scambi commerciali di Rom a . I Romani infatti le crearono un ottimo collegamento stradale con l'Urbe e le città della Campania, con centri commerciali che vi stabilirono le città marittime d'Oriente ed Occidente. In quest'epoca fiorirono splendidi monumenti come l'Anfiteatro Flavio, il Tempio di Serapide, lo Stadio di Antonino Pio, l'Anfiteatro Minore e il Tempio di Augus t o . Il declino della città iniziò nel 70 d.c. circa, con l'apertura del porto di Ostia, voluto da Claudio e terminato da Nerone. Inoltre il graduale sprofondamento del litorale spopolò, verso la fine del V sec., la parte bassa della città che andò a vivere nel Rione Terra, fortificandola e facendone il castro puteolano. Agli inizi del XVI sec, Pozzuoli subì pesanti fenomeni tellurici e di bradisismo, per cui i cittadini si stabilirono fuori delle mura, fondando presso il mare un

piccolo borgo di pescatori. La storia recente di Pozzuoli è segnata profondamente dalle due crisi del bradisismo, 1970 e 1983, che hanno costretto la città ad un ulteriore esodo forzato. Da ormai molti anni è in fase di restauro, per cui sono ora visitabili possibile visitare gran parte dei sotterranei e una parte in superficie. I più importanti monumenti sono: il Tempio di Serapide (Macellum), il Tempio di Augusto, l'Anfiteatro Flavio, l'Anfieatro Minore, il Circo Massimo, le Terme di Nettuno e il Rione Terra, uno dei centri storici meglio conservati della Campania, sviluppato sull'area della primitiva colonia romana. Risalente all'epoca romana (I - II secolo d.c.), Il Macellum, impropriamente chiamato "Tempio di Serapide" (per il rinvenimento di una statua del dio egizio) era il mercato pubblico della città romana. Il centro della colonia romana del 194 a.c. sorse sul promontorio dell'insediamento samio, o sannita secondo altri, del quale però non si hanno ancora tracce, a meno che non si considerino alcuni resti di grossi blocchi di tufo reimpiegati sul fianco nord della collin a . Probabilmente l'acropoli scendeva a 17

valle tramite una scalinata a gradoni e il suo decumanus maximus, che iniziava presso la porta della colonia repubblicana, corrisponde al tracciato dell'odierna via del Duomo, sotto cui, a circa m. 3 sotto è stata rinvenuta parte del basolato antico. Questo tratto del decumano, oggi ancora percorribile, era fiancheggiato da una serie di tabernae; presso l'incrocio col cardo maximus (attualmente murato), si trova una fontana marmorea ornata da due maschere di sileno. Il cardo maximus è invece individuato nel tracciato di via d e l V e s c o v a d o . In piazza San Liborio è ancora parzialmente visibile il basolato di un altro cardine che probabilmente si collegava con la via che correva tra l'acropoli e la città bassa, nell'area dell'Emporium, la parte riferita alle strutture marittime di Puteoli. Vediamo da più vicino i vari monumenti di questa città, incominciando dal T e m p i o A u g u s t e o . Tutti sapevano che la cattedrale di Pozzuoli sorgesse sull’area del Tempio di Augusto, quel che si ignorava era che il tempio esistesse ancora, inglobato

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nelle spesse mura seicentesche, anche se alcuni capitelli di ordine corinzio al di sopra della porta secondaria dell’edificio ed altri frammenti marmorei dell’architrave opposto potevano farlo sospettare. Fu un incendio che nel 1964 che, distrutta la navata centrale, costrinse a dei saggi che scoprirono sotto la muratura moderna le colonne, l’architrave, le pareti della cella dell’antico tempio. Già nel 1634, per volere del vescovo Martino de Léon alcune colonne furono assottigliate o tolte per permettere la costruzione di cappelle laterali, mentre la parete posteriore della cella fu abbattuta per permettere il passaggio tra la navata e l’abside della basilica. Forse parte delle colonne servirono alla chiesa sovrastante, visto che appaiono diverse tra loro e di epoca molto antica. Il tempio di Augusto, sorto sull’area di un tempio più antico di età greca o sannitica, ed eretto in seguito all'istituzione della colonia, fu ricostruito dal ricco mercante Calpurnio in onore dell’imperatore Augusto, come riferisce un’iscrizione con dedica: L. Calpurnius L.f. templum Augusto cumornamentis d.s.f. (Lucio Calpurnio, figlio di Lucio, dedicò a sue spese questo tempio ed il suo arredo ad Augusto). Un’altra iscrizione, più piccola, su una tavola di marmo a destra dell’ingresso secondario, fornisce il nome dell’architetto: Lucio Cocceio Aucvto, liberto di Caio Postumio, che si crede lo stesso architetto della Crypta Neapolitana e


della galleria tra il lago d'Averno e Cum a . Il tempio di Augusto fu costruito interamente in marmo bianco, con blocchi a secco, cioè perfettamente connessi tra loro senza malta, con scala laterale e con le pareti in finta opera quadrata. Presentava nove colonne corinzie sui lati lunghi e sei sulle fronti, di cui circa la metà incassate nella cella di forma quadrata. Ne fanno testimonianza i disegni che l’architetto Giuliano da Sangallo eseguìti prima che il tempio fosse restaurato nel 1538 per i danni di un terremoto e dell’eruzione del Monte N u o v o . L’edificio pagano fu quindi trasformato in tempio cristiano e dedicato al martire S. Procolo quando i cittadini di Puteoli si asserragliarono sulla rocca per difendersi dai barbari; col decadimento dell'impero, i romani anzichè combattere si raccomandavano a Dio. Attualmente il Tempio di Augusto è in fase di scavo e di restauro e si attende la pubblicazione dell’eccezionale mon u m e n t o . Secondo alcuni però l'attribuzione al culto di Augusto sarebbe un’errata interpretazione dell’iscrizione, esistente fino al XVI sec. sulla fronte dell’edificio. La parola Aug. sarebbe riferita a Lucio Calpurnio, il magistrato della colonia finanziatore dell’opera, col significato di Augustale e non di Augusto, e l’edificio potrebbe essere il Capitolium anzichè il tempio. Ora l'augustale era l'addetto al culto dell'imperatore Augusto, come venerazione dei lares Augusti e del genius dell'imperatore.

Nulla di strano dunque che un augustale faccia costruire un tempio ad Augusto, che faccia costruire il Capitolium sembra meno inerente, ma secondo altri ancora il tempio avrebbe riguardato Apollo. Stazio riferisce che Apollo fosse il nume tutelare della città e alcuni frammenti marmorei potrebbero essere riferibili a una sua statua. Da qui passiamo alla città sotterranea, che, a dieci /quindici metri al di sotto delle strutture seicentesche, stupisce e affascina con nuove scoperte. Gli ambienti scavati pongono in evidenza le varie e successive trasformazioni, nelle varie epoche sia in età imperiale e sia in età neroniana. Lungo il percorso di un secondo decumano, dietro il tempio di Augusto, sono infatti venuti alla luce numerosi edifici, fra cui diversi horrea (depositi di grano) e tabernae (magazzini), percorsi da un imponente porticato con pilastri in opera laterizia, su dadi con base in piperno, realizzato in epoca neroniana su di una precedente e analoga struttura in opera reticolata di età a u g u s t e a . 19

Notevole il pistrinum (panificio), con più ambienti destinati alla lavorazione del grano e alla produzione del pane; qui sono state rinvenute cinque macine in pietra lavica, perfetta, per resistenza e porosità, a macinare il grano. Ad un livello più basso si aprono gli "ergastula", gli alloggi per gli schiavi, una serie di celle distribuite lungo un corridoio a quattro bracci, arieggiati solo da un canale di terracotta e caratterizzati dalla presenza di banconi in muratura utilizzati come giaciglio. Negli scavi è emersa una cucina di età tardo repubblicana dotata di camino e di due banconi, statue di finissima fattura ellenistica, materiale ceramico ed l'arredo completo di una taberna, composto da lucerne, anfore, statuette di terracotta e vasellame vario. Il complesso dei cinque criptoportici: a pianta rettangolare coperti con volte a botte, venne restaurato in età agustea e raccordato al decumanus maximus; in età imperiale tutti gli ambienti o cambiano destinazione o vengono sottoposti a trasformazione. Tutto il complesso dei criptoportici è stato liberato, nel 20

corso degli scavi, dal materiale di risulta che copriva letteralmente l'area, frutto principalmente dei lavori eseguiti, nel XVII secolo, per la costruzione del Vescovado e di altri edifici dell'epoca. Di grande importanza è anche anche l’Anfiteatro Flavio, essendo una delle maggiori attrazioni turistiche di tutti i Campi Flegrei e fu edificato proprio a Pozzuoli, sotto Tito Flavio Vespasiano, sostituire l’anfiteatro costruito in precedenza, per riconoscenza agli abitanti di Pozzuoli che nella guerra civile si erano schierati a favore dell’imperatore- insieme agli uomini della base navale di Miseno, dove stazionava la potente “classis Misenensis”. Vespasiano non riuscì probabilmente a vederne la conclusione, in quanto pare sia stato inaugurato dal figlio Tito.Il luogo su cui venne edificato fu strategico, all’incrocio delle strade provenienti da Napoli, Capua e Cuma. Attraverso le numerose iscrizioni ritrovate nelle sue gallerie sotto l’ambulacro esterno, si sa che l’Anfiteatro ospitava anche molte tabernae con commercianti ed artigiani, nonchè luoghi di culto.


Secondo la leggenda, qui si compirono i primi martirii dei cristiani e si decise il supplizio, poi inflitto alla Solfatara, di San Gennaro e dei suoi compagni nel 305 d.c.Successivamente l'anfiteatro fu abbandonato e semisepolto dal terreno alluvionale e dall’eruzione della Solfatara. Nel Medioevo, quando ogni luogo pagano era divenuto indegno di rispetto, nè si aveva più il concetto di ciò che fosse arte, il monumento fu spogliato, privato di tutte le decorazioni marmoree e dei blocchi delle gradinate, utilizzandolo per giunta come magazzino agricolo. Questa semisepoltura ha però salvato dalla totale distruzione e dal saccheggio i sotterranei dell’edificio, che sono arrivati intatti non solo nell’architettura ma nella foggia e nel funzionamento dei meccanismi degli spettacoli, soprattutto per ciò che riguarda il sollevamento al piano dell’arena delle gabbie delle fiere d a c o m b a t t i m e n t o . Della sua struttura, colpisce anzitutto l'eleganza e la leggerezza del susseguirsi incessante di arcate, che ingentilendone l'aspetto massiccio ne snellivano soprattutto il peso della pietra. Scavando sono emersi anche snelle colonne scanalate, capitelli corinzi e alcuni fregi in marmo, scampati grazie ai cataclismi. Gli spettacoli che vi si svolgevano erano principalmente lotte di gladiatori, per i quali, nei sotterranei della struttura, sono tuttora visibili gli ingranaggi per sollevare le gabbie con l e b e l v e s u l l ’ a r e n a . Non mancavano però le parate militari, gli eventi politici, militari e celebrativi.

Due delle strutture più antiche e affascinanti di Pozzuoli sono il Tempio si Serapide e le terme di Nettuno. Per ciò che riguarda il primo possiamo dire che è uno dei più noti monumenti di tutto il mondo antico, impropriamente ritenuto tempio di Serapide, essendo in realtà un macellum, cioè un m e r c a t o . Invaso e sommerso dalle acque termominerali che scaturiscono dal sottosuolo presso il litorale, poi utilizzate in epoca medievale a fini terapeutici, e chiamate Balneum Cantarellus', ha costituto per alcuni secoli l'indice metrico più preciso che si aveva a disposizione per misurare il fenomeno del b r a d i s i s m o . Tre delle quattro grandi colonne di marmo cipollino che ancora fronteggiano, ancora erette sulle loro basi, la sala absidata al centro della parete di fondo, servivano come strumento di misurazione a causa di un particolare fenomeno. Sul loro fusto, i fori dei litodomi, piccoli molluschi che vivono a 21

pelo d'acqua, detti volgarmente "datteri di mare", segnano il livello più alto a cui è giunta in passato l'acqua del mare. Grazie al fenomeno si sa che la sua massima sommersione marina avvenne in epoca medievale, quando, nel X sec., il monumento era superiormente sommerso dalle acque solo parzialmente. Dalla seconda crisi bradisismica e dell'intensa attività sismica del 1983, attualmente esso risulta ad una quota superiore rispetto al livello del mare, per cui non è più sommerso e non più utilizzabile per misurare il bradisismo. Ovviamente oggi vi sono metodi più innovativi per questo. L' edificio è stato ritenuto impropriamente un "TeAl centro del cortile vi sono i resti di una costruzione circolare sopraelevata, completamente circondata all'epoca da colonne, e sicuramente coperta da una cupola o da un tetto conico. Le colonne rimaste in piedi testimoniano che l'edificio doveva avere una notevole altezza. S podio si poteva salire con quattro scalinate disposte a croce. Al centro del podio sono stati rinvenuti resti di condutture per una fontana, e si ipotizza che fosse destinato al mercato del pesce. L'edificio è simile ad altri mercati di epoca romana che ancora si conservano in tutta l'area mediterranea (Pompei, Morgantina, ecc.), ma quello di Pozzuoli è il più ricco e monumentale. Tutto l'edificio ricorda nella pianta altri mercati di città antiche, come quelli di Roma, Timgrad, Djemila, Perge e Cremna, ma il Macellum di Pozzuoli resta uno dei più grandiosi ed integri, 22

grazie appunto alla sommersione bradisismica che nei secoli passati lo ha preservato dal saccheggio. La presenza della statua di Serapide al suo interno, fa pensare che il Macellum gli fosse stato dedicato, magari anche ad Iside, con cui il dio era solitamente connesso. Per ciò che concerne invece le Terme di Nettuno possiamo dire che erano conosciute erroneamente come "Tempio di Nettuno". In realtà i magnifici resti riguardano un grandioso complesso termale, il più grande e monumentale dell'antica Puteoli. Disposte su più livelli lungo il pendìo piuttosto ripido della collina, le terme hanno il fronte rivolto al porto, in modo che il viaggiatore che veniva dal mare veniva quasi accecato da questa smagliante e abbagliante snodarsi di marmi lungo la collina. L'impianto, eretto nella prima metà del II sec. d.c., come dimostrano i bolli adrianei rinvenuti in loco, in epoche successivevenne ripetutamente restaurato fino al IV sec. d.c., il che ne dimostra l'uso continuato. La pianta delle terme era la consueta, con la successione calidarium-tepidarium-


frigidarium-natatio. Attualmente sono per la maggior parte interrate; i resti, in proprietà Lubrano, riguardano i livelli superiori e la parte posteriore dell'edificio, relativa all'area del frigidarium. Le due massicce cortine murarie, lunghe m. 60 e alte m. 16 ca., appartengono alla parete di fondo di ques t o . La sala era chiusa al centro da una grande abside, con ai lati numerose nicchie, che sicuramente accoglievano statue e vasi, oltre a fregi e archi di passaggio. Entrati nell'area del frigidarium, si scorgono i resti di una serie di ambienti disposti sui due lati dell'abside, con volte alternate a botte e a crociera e con preziose decorazioni musive. Dall'attuale livello di calpestio, lungo i muri, sporgono le sommità di arcate e volte degli ambienti sottostanti. Le strutture a valle, relative agli ambienti caldi, non sono visitabili in quanto coperte da strutture moderne o danneggiate da crolli. L'ignoranza e spesso l'ingordigia distruggono molto più dei millenni. All'interno del civico 102 di via Pergolesi si possono ancora osservare, in discreto stato

di conservazione, ma difficili da visitare, i praefurnia. Il forte dislivello tra questi resti e quelli di via Terracciano fa comprendere l'estensione delle terme e dei salti di quota esistenti fra le terrazze su cui si snodavano. La pianta e i percorsi interni si ispirano al modello romano dele terme di Tito e anche alle Terme di Traiano, rispettandone i canoni dell'architettura termale di II-III secolo, ma pure l'impatto scenografico. Come sopra citato, Pozzuoli sorge su un'area vulcanica, i Campi Flegrei (cioè campi ardenti), che comprende un vulcano ancora in attività, la Solfatara. Essa era molto conosciuta durante l'epoca imperiale romana, come misteriosa porta degli inferi, è descritta da Strabone, come la dimora del Dio Vulcano, appunto ingresso per gli Inferi, o Forum Vulcani. Ne parla anche Plinio il Vecchio come Fontes Leucogei per le acque alluminose e biancastre che sgorgano ancora tutt'oggi. All'epoca era utilizzata per l'estrazione del prezioso bianchetto, utilizzato come stucco, che poteva essere estratto dietro un pagamento di 20.000 sesterzi. Recenti scavi hanno riportato alla luce una strada basolata romana a valle della Solfatara, la via PuteolisNeapolim, che hanno messo in luce una necropoli del I sec. Con la visita della grotta all’interno della Solfatara, con il percorso che si svolge all’interno del cratere illuminato dalle fiaccole, viene illustrata l’attività vulcanica attraverso spiegazioni ed esperimenti. Con ciò ultimiamo così questo excursus sulla ricca città di Pozzuoli, e ci spostiamo 23

verso un’altra città in provincia di Napoli ricca di storia, grazie agli scavi ritrovati in seguito all’eruzione del Vesuvio del 79 D.C., e stiamo parlando di Ercolano. Ercolano (fino al 1969 Resina - leggasi Resìna -) è famosa nel mondo per gli scavi archeologici della città romana fondata, secondo la leggenda, da Ercole e distrutta dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; insieme a quelli di Pompei e Oplontis, fanno parte del Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO. Il tratto del Corso Resina che dagli Scavi archeologici arriva fino a Torre del Greco è chiamato Miglio d'Oro per le splendide ville del XVIII secolo allineate ai suoi lati. Da Ercolano parte la strada che conduce al Gran Cono del Vesuvio per la visita al cratere. La leggenda narra che Ercole, tornato dall'uccisione del mostro Gerione (la decima delle sue dodici fatiche), si fosse fermato a Roma, dove chiese alla dea Fauna di dissetarlo, ma questa rifiutò, poiché la sua acqua sacra era riservata alle sole donne. In preda alla rabbia, Ercole costruì un tempio in ono24

re di se stesso, e vietò alle donne di partecipare alle sue cerimonie. Intanto, un figlio di Vulcano, il demone Caco, rubò una parte della mandria di buoi che Ercole aveva a sua volta preso al mostro Gerione, e che erano destinati alla città di Argo. L'eroe si adirò molto e si mise alla ricerca dei buoi, che però si rivelò molto ardua perché il demone Caco aveva portato le bestie nella sua grotta sul Vesuvio, trascinandole per la coda, in modo che le orme rovesciate indicassero la direzione opposta. Proprio quando stava per rinunciare, uno dei bovini rispose al richiamo di Ercole, che così scoprì dove si fosse nascosto il ladro: una volta raggiunto, scoprì che i suoni provenivano da una caverna sul Vesuvio, che era stata però chiusa dall'interno con un enorme masso. Ercole allora prese una rupe appuntita e riuscì ad aprirsi un varco all'interno della spelonca. Caco cercò di difendersi vomitando dalle fauci un'immensa nuvola di fumo che avvolse la grotta, ma Ercole balzò attraverso il fumo, afferrò Caco e lo strinse tanto da fargli uscire gli occhi dalle orbite, uccidendolo. Poi, recuperato il bestiame, decise di tornare ad Argo, e continuare le ultime due fati-


che rimaste, ma prima volle edificare una città nel luogo dove aveva costruito il tempio; fondò così una cittadina e le diede il suo nome: Herculaneum. Già gravemente danneggiata dal terremoto del 62, la città venne poi distrutta dall'eruzione del Vesuvio nel 79: a causa di una colata piroclastica un'ingente massa di fango coprì Ercolano, penetrando in ogni apertura, e si solidificò in uno strato compatto e duro di 15-20 metri. L'eruzione del Vesuvio a Ercolano si articolò in due fasi: la prima fu della durata complessiva di 11 ore, con caduta di pomici soprattutto grigie; la seconda, della durata di sette ore, costituita dall'alternarsi di nubi ardenti e di colate piroclastiche; come citato prima, fu quest'ultima che colpì principalmente Ercolano, seppellendola sotto una coltre di oltre 18 metri di materiali. A seguito di analisi termogravimetriche si è sostenuto che la temperatura fosse di circa 300-320 °C. Questo avrebbe permesso la conservazione dei papiri, ritrovati nella villa conosciuta per l'appunto come Villa dei Papiri, a seguito di un processo di carbonizzazione e combustione. In alcuni edifici però, ad esempio nelle Terme suburbane, il legno si è conservato nel colore naturale (una porta gira ancora sui cardini originali). Si può supporre che un'elevata temperatura abbia coinvolto solo alcune zone della città. Dopo la terribile eruzione del 79 d.C. la vita riprese lentamente sull'area colpita e già nel 121 d.C. si ha notizia della riattivazione dell’antica via litoranea che da Napoli conduceva a Nocera.

Nella basilica di Santa Maria a Pugliano sono custoditi due sarcofagi paleocristiani risalenti al II e al IV-V secolo d.C., a testimonianza dell’esistenza di comunità abitate sul sito dell’antica Ercolano. Purtroppo non si hanno notizie certe del periodo tra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e l’anno Mille. Sicuramente l’area vesuviana fu esposta alle numerose guerre tra i popoli che invasero l’impero a cominciare dalla guerra greco-gotica e a quella tra il Ducato di Napoli, formalmente dipendente da Bisanzio e il Ducato di Capua, istituito dai Longobardi. Addirittura è certa una presenza saracena sul finire del IX secolo. Nel X secolo si hanno i primi riferimenti a un casale di Resina o Risina (… de alio latere est ribum de Risina… ; … de alio capite parte meridiana est resina …, ecc.). L’origine del nome è alquanto controversa: alcuni studiosi la attribuiscono alla corruzione del nome Rectina, patrizia romana che possedeva una villa ad Ercolano e che chiese soccorso a Plinio il Vecchio; altri fanno discendere 25

il nome da “retincula”, ossia le reti utilizzate dai pescatori di Ercolano, o dalla resina degli alberi dei boschi cresciuti sulle antiche lave, o dal nome del fiume che scorreva ai margini di Ercolano. Infine c’è che vede in Resìna l’anagramma di sirena visto che una sirena è stato il simbolo del casale e del Comune fino al 1969. Nell’XI secolo è attestata la presenza di un oratorio dedicato alla Vergine sulla collina denominata Pugliano il cui nome deriva probabilmente da praedium pollianum, un podere suburbano di Ercolano appartenuto ad un tale Pollio. Nel 1709 Emanuele Maurizio di Lorena Principe D’Elbeuf, mentre stava costruendo il suo palazzo presso il litorale di Portici venne a sapere che un tale Nocerino, detto Enzechetta, nello scavare un pozzo in un podere alle spalle del convento degli agostiniani di Resina si imbatté in marmi e colonne antiche. Decise di comprare il fondo e nel 1711 avviò degli scavi attraverso pozzi e cunicoli che raggiunsero l'antico Teatro di Ercolano da cui estrasse statue, marmi e colonne che tenne per sé o inviò in dono presso amici, parenti e regnan-

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ti europei. Grazie a lui il re Carlo III di Borbone decise di acquistare il fondo e avviare scavi sistematici mentre in Europa si diffuse a macchia d’olio la fama dell’antica Ercolano che influenzò enormemente la cultura dell’epoca dando impulso al movimento culturale che fu chiamato Neoclassicismo e alla moda dell’aristocrazia inglese di svolgere il Grand Tour attraverso l'Europa, fino all'Italia e alla Grecia. Il successo dei ritrovamenti spinse il re a costruire nel 1740 un palazzo reale nelle vicinanze degli scavi di Resina entro i confini del casale di Portici che da quel momento assunse il titolo di Real villa di Portici. Nella nuova reggia estiva raccolse i ritrovamenti ercolanesi realizzando in un'ala del palazzo l’Herculanense Museum che apriva per lo stupore e la meraviglia dei suoi ospiti. Le collezioni si arricchirono ancora di più a partire dal 1750 quando cominciò l'esplorazione della grandiosa villa suburbana appartenuta alla famiglia dei Pisoni, nella quale fu rinvenuta una gran quantità di bellissime statue in bronzo e in marmo, come i due Lottatori (o Corridori) e il Mercurio Dormiente. Ma ancora più straordinario fu il ritrovamento, nel 1752, dei papiri carbonizzati della biblioteca della villa che da quel momento divenne nota in tutto il mondo come Villa dei Papiri. Essi furono meticolosamente srotolati grazie ad una macchina appositamente inventata in quegli anni da Padre Antonio Piaggio e rivelarono opere del filosofo epicureo Filodemo da Gadara.


Con l’arrivo dei reali a Portici tutta l’aristocrazia della capitale scelse di realizzare sontuose dimore estive lungo la Via Regia delle Calabrie e nelle campagne circostanti, tra Barra, oggi quartiere orientale di Napoli, e Torre del Greco. Ma soprattutto tra Villa de Bisogno a Resina e Palazzo Vallelonga a Torre del Greco la quantità e la qualità degli edifici era tale che quel tratto di strada fu denominato il Miglio d’Oro. Tra le più prestigiose si annoverano Villa Campolieto, progettata da Luigi Vanvitelli, Villa Riario Sforza, nota anche come Villa Aprile, e Villa Favorita, di Ferdinando Fuga, chiamata così perché preferita dalla regina Maria Carolina d’Asburgo al punto che Ferdinando IV la acquistò nel 1792 conferendole la denominazione di Real villa della Favorita. Nel 1788 il sacerdote Benedetto Cozzolino fondò in via Trentola, presso la sua abitazione, la prima scuola per sordomuti del Regno di Napoli, seconda in Italia solo a quella di Roma. Nel 1709 Emanuele Maurizio di Lorena Principe D’Elbeuf, mentre stava costruendo il

suo palazzo presso il litorale di Portici venne a sapere che un tale Nocerino, detto Enzechetta, nello scavare un pozzo in un podere alle spalle del convento degli agostiniani di Resina si imbatté in marmi e colonne antiche. Decise di comprare il fondo e nel 1711 avviò degli scavi attraverso pozzi e cunicoli che raggiunsero l'antico Teatro di Ercolano da cui estrasse statue, marmi e colonne che tenne per sé o inviò in dono presso amici, parenti e regnanti europei. Grazie a lui il re Carlo III di Borbone decise di acquistare il fondo e avviare scavi sistematici mentre in Europa si diffuse a macchia d’olio la fama dell’antica Ercolano che influenzò enormemente la cultura dell’epoca dando impulso al movimento culturale che fu chiamato Neoclassicismo e alla moda dell’aristocrazia inglese di svolgere il Grand Tour attraverso l'Europa, fino all'Italia e alla Grecia. Il successo dei ritrovamenti spinse il re a costruire nel 1740 un palazzo reale nelle vicinanze degli scavi di Resina entro i confini del casale di Portici che 27

da quel momento assunse il titolo di Real villa di Portici. Nella nuova reggia estiva raccolse i ritrovamenti ercolanesi realizzando in un'ala del palazzo l’Herculanense Museum che apriva per lo stupore e la meraviglia dei suoi ospiti. Le collezioni si arricchirono ancora di più a partire dal 1750 quando cominciò l'esplorazione della grandiosa villa suburbana appartenuta alla famiglia dei Pisoni, nella quale fu rinvenuta una gran quantità di bellissime statue in bronzo e in marmo, come i due Lottatori (o Corridori) e il Mercurio Dormiente. Ma ancora più straordinario fu il ritrovamento, nel 1752, dei papiri carbonizzati della biblioteca della villa che da quel momento divenne nota in tutto il mondo come Villa dei Papiri. Essi furono meticolosamente srotolati grazie ad una macchina appositamente inventata in quegli anni da Padre Antonio Piaggio e rivelarono opere del filosofo epicureo Filodemo da Gadara. Con l’arrivo dei reali a Portici tutta l’aristocrazia della capitale scelse di realizzare sontuose dimore estive lungo la Via Regia delle Calabrie e nelle campagne 28

circostanti, tra Barra, oggi quartiere orientale di Napoli, e Torre del Greco. Ma soprattutto tra Villa de Bisogno a Resina e Palazzo Vallelonga a Torre del Greco la quantità e la qualità degli edifici era tale che quel tratto di strada fu denominato il Miglio d’Oro. Tra le più prestigiose si annoverano Villa Campolieto, progettata da Luigi Vanvitelli, Villa Riario Sforza, nota anche come Villa Aprile, e Villa Favorita, di Ferdinando Fuga, chiamata così perché preferita dalla regina Maria Carolina d’Asburgo al punto che Ferdinando IV la acquistò nel 1792 conferendole la denominazione di Real villa della Favorita. Nel 1788 il sacerdote Benedetto Cozzolino fondò in via Trentola, presso la sua abitazione, la prima scuola per sordomuti del Regno di Napoli, seconda in Italia solo a quella di Roma. Di grandissima importanza sono gli Scavi Archeologici di Ercolano, dal momento che sono meta fissa di circa 300.000 di turisti l'anno: nel 2012 hanno registrato 288.536 presenze risultando il 16° monumento più visitato d'Italia. Da pochi anni è stato realizzato il nuovo


accesso agli scavi, con un'ampia area adiacente che comprende un parcheggio a raso e interrato, un'area a verde attrezzato e punti di ristoro e vendita di souvenirs. Oltre all'area archeologica, in alcune occasioni opportunamente pubblicizzate sul sito della Soprintendenza Archeologica di Pompei è visitabile il padiglione della barca di Ercolano, ritrovata sull'antico litorale della città. Corso Resina, il corso principale della città che collega Ercolano a Napoli, possiede un tratto denominato Miglio d'Oro, per la presenza di alcune tra le più belle e sfarzose ville vesuviane del XVIII secolo, costruite o abbellite da famosi scultori o architetti come Luigi Vanvitelli o Ferdinando Fuga. Tra le più fastose vi sono Villa Aprile (oggi sede del lussuoso Miglio d'Oro Park Hotel), Villa Favorita, Villa Campolieto, Villa Ruggiero sedi di eventi culturali, spettacoli e concerti. Villa Campolieto, Villa Ruggiero e il Parco sul mare della Villa Favorita, di proprietà della Fondazione Ente per le Ville Vesuviane, sono aperte al pubblico. Nel 1997 l'area del Miglio d'Oro, insieme al complesso Somma-Vesuvio, è stata inserita nella rete mondiale di riserve della biosfera nell'ambito del programma Unesco MAB (Man and Biosphere). Negli ultimi anni la definizione precisa di Miglio d'Oro è sfumata, in quanto per finalità di promozione turistica e di sviluppo territoriale dei paesi vicini, il concetto di Miglio d'Oro, che originariamente indicava il tratto ercolanese della via Regia delle Calabrie e il primo tratto nel co-

bellezze mozzafiato, della storia e della cultura.

mune di Torre del Greco, è stato esteso anche ai comuni di Portici e di San Giorgio a Cremano. Sul territorio dei quattro Comuni cosiddetti "del Miglio d'Oro", oltre che su quello dei quartieri napoletani di Barra e San Giovanni a Teduccio, insistono le 121 ville vesuviane del XVIII secolo censite dall'Ente Ville Vesuviane. Riprendendo una nota canzone di Pino D a n i e l e , ”Napule è mille culure Napule è mille paure Napule è a voce de' criature che saglie chianu chianu e tu sai ca nun si sulo. [ . . . ] [ . . . ] Napule è nu sole amaro Napule è addore 'e mare [ . . . ] [ . . . ] Napule è tutto 'nu suonno e 'a sape tutti o' munno ma nun sanno a verità. [ . . . ]“ Questo itinerario nasce nella speranza di riuscire a raccontare almeno una parte di tutte le sfaccettature di cui si colora la mia città, “città del Sole”, della speranza, della benevolenza, dell’accoglienza, della risata, delle

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Le isole

Ischia Le prime testimonianze del nome attuale dell'isola risalgono all'anno 812, in una lettera di Papa Leone III nella quale informa l'imperatore Carlo Magno di devastazioni occorse nell'area, chiamando l'isola Iscla maior . Nella quale il pontefice denunciava le condizioni di saccheggio e di abbandono in cui versava l’isola a seguito di un violento attacco, protrattosi per tre giorni, dei Saraceni, senza che nessuno dalla vicina Napoli fosse occorso in aiuto dei locali. Interessante come la denominazione Insula - Iscla Maior, serva a distinguere l’abitato del Castello (Castrum Gironis) dal resto dei villaggi presenti sull’isola, evidenziando come il primo avesse vita e rappresentanza altre dai restanti casali dell’isola.Da qui si sarebbe poi approdati, per successiva contrazione del topos Insula (Insula - Iscla) all’odierno Ischia Alcuni studiosi ricollegano il termine alla parola di origine semitica I-schra, "isola nera" che in sé potrebbe anche essere accettabile se non fosse che dal punto di vista geolo31

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gico l'isola per i suoi prodotti vulcanici appare soprattutto bianca. L’espressione “insula visca”, fornisce una probabile origine del moderno “Isola d’Ischia”. Isola nell’antichità L'isola d'Ischia era abitata fin dal Neolitico, sulle alture di punta Chiarito, a Panza. La Baia di Sorgeto, offre un riparo ideale per le navi, soprattutto dai venti di scirocco, un requisito importante per i Greci, nella scelta di un approdo. A vent'anni circa dall'originario sbarco, colonizzata buona parte dell'isola, viene fondata la colonia di Pithecusa, il cui centro principale sarà, nella zona nord dell’isola,in modo da


avere un più rapido scambio con la terraferma. Con il suo porto la colonia fece fortuna grazie al commercio del ferro con il resto dell'Italia. Epoca Romana Dopo le guerre sannitiche, l'isola passò con Napoli sotto il dominio romano, e divenne centro di attività commerciali e manifatturiere. E’stato infatti individuato un insediamento industriale comprendente una fonderia di piombo e stagno (da cui il nome di Aenaria) e una fabbrica di vasellame e taluni sono attualmente esposti nel Museo archeologico di Pithecusae a Lacco Ameno. Nell'immaginario latino l'isola era associata anche alla figura di Enea, che qui avrebbe fatto scalo. Virgilio la identificò con Arime, isola citata nell'Iliade. Qui trovò rifugio Gaio Mario inseguito da Silla. Per punire i napoletani di ciò, Silla sottrasse l'isola al loro dominio assoggettandola direttamente al Senato di Roma. Qualche decennio dopo, tuttavia, Augusto la restituì alla città di Napoli, tenendo per sé la prediletta Capri. Con la decadenza dell'impero, Ischia venne minacciata dai saccheggi barbarici da parte di Visigoti e Vandali. Nel 476, con la caduta dell'Impero d'Occidente, Ischia entrò a far parte del dominio di Odoacre, successivamente entrò a far parte, con l'intera penisola, del regno ostrogoto di Teodorico il Grande. Fu conquistata dagli eserciti bizantini capitanati da Belisario. In seguito alla riorganizzazione dell'Italia bizantina conseguente all'invasione longobarda, Ischia entrò a far parte del

ducato di Napoli, ducato bizantino dipendente dall'Esarcato d'Italia. Tra il IX e il X secolo l'isola è esposta alle scorrerie del saraceni, per nulla interessati a conquiste permanenti: le loro scorrerie erano infatti finalizzate al saccheggio e non all'occupazione. Così gli ischitani svilupparono varie tecniche di resistenza: all'avvistamento delle imbarcazioni saracene gli abitanti dei casali di campagna venivano avvisati dal suono della "tofa", usata a mo' di corno, che si diffondeva da un casale all'altro, e si mettevano in salvo come potevano, rifugiandosi nel castello, se abbastanza vicini, in grotte scavate nel tufo o disperdendosi per le campagne. I Normanni Ischia segue le sorti di Napoli sotto i duchi, finché Ruggero il Normanno saccheggia l'isola nel 1135 occupando il Castello Aragonese. I Svevi La dinastia sveva prende il governo dell'isola nel 1214. Gli Angioini Prima che Carlo I, duca d'Angiò, fosse incoronato re di Napoli, Ischia, tenuta dai conti di Ventimiglia dopo la caduta di Manfredi, è invasa dalla galee pisane con lo scopo di provocare una sommossa contro Carlo I d'Angiò a favore di Corradino. Non riuscendo nell'intento, i pisani si abbandonano a massacri e ruberie. Re Carlo I, vittorioso ordina un'inchiesta per confermare la fedeltà al nuovo re. Alla morte di Carlo I d'An33

giò, l'isola passa sotto il governo di Carlo D’ Angiò detto "lo Zoppo". Nel gennaio del 1301 una terribile eruzione squassa l'isola che, abbandonata da molti isolani, si ripopola solo nel 1305. Succede a Carlo II, Roberto D’Angiò detto Il Saggio. Gli Aragonesi Alfonso V di Aragona approda a Ischia nel 1423 occupando il Castello Aragonese, lo ristruttura e vi si stabilisce in attesa di poter conquistare anche Napoli, assedia la città di Napoli. Per ricompensare gli isolani dell'appoggio fornito, il sovrano concede ampi favori all'isola. Re Ferrante o Ferdinando, desideroso di difendere i privilegi degli aragonesi, ordina ad Alessandro Sforza di occupare l'isola e di cacciare il Toriglia. Alessandro Sforza entra trionfando nel Castello Aragonese. Infine Alfonso d'Aragona si impadronì definitivamente dell'isola e si insediò nel castello che sorgeva su di un isolotto fortificato che da lui prese il nome di "Castello Aragonese" e che per secoli segnò il rifugio di tutta la popolazione del borgo per sfuggire agli assalti dei nemici Barbari e Saraceni. Un po’ di geografia L'isola d'Ischia è la più grande delle isole dell’Italia appartenente all’arcipelago delle Isole Flegree del Golfo di Napoli. Ischia è di origine vulcanica. Grazie alle numerose sorgenti termali è da sempre una delle mete più ambite del mediterraneo.Il rilievo più elevato 34

è rappresentato dal monte Epomeo, alto 788 metri e situato nel centro dell'isola. Quest'ultimo è un vulcano sottomarino sprofondato negli ultimi 100.000 anni. Infatti, l'intera isola, altri non è che il picco del Monte Epomeo, ultimo punto del vulcano ancora in s u p e r f i c i e . L'attività vulcanica ad Ischia è stata generalmente caratterizzata da eruzioni non molto consistenti e a grande distanza di tempo. Dopo le eruzioni in epoca greca e romana, l'ultima è avvenuta nel 1301 nel settore orientale dell'isola con una breve colata giunta fino al mare. Il Clima La particolare formazione a cono dell'isola d'Ischia con il Monte Epomeo al centro e la posizione geografica dell'isola nel Mar Tirreno centrale favoriscono un clima mite anche nei periodi invernali con frequenti cambi climatici, a volte anche nella stessa giornata. I venti predominanti variano in base alla stagione: in inverno sono il libeccio, il ponente-libeccio e lo scirocco. I venti


predominanti in estate e primavera sono la tramontana ed il grecale. Come i venti anche l'umidità varia in base alla stagione: in inverno, in presenza di libeccio e scirocco e quindi con piogge frequenti l'umidità media è del 63%, tuttavia nelle giornate con venti dei quadranti settentrionali l'umidità si riduce sensibilmente come anche in primavera. Divisioni Amministrative L'isola d'Ischia con i suoi 46 km² di superficie e i circa 61 000 abitanti è la terza isola più popolosa d'Italia. Dal punto di vista amministrativo si divide in sei comuni: Barano d'Ischia, Casamicciola Terme, Forio, Ischia, Lacco Ameno, Serrara Fontana, anche se è stata presentata una proposta di legge regionale di iniziativa popolare per poter giungere ad un Comune Unico dell'Isola d'Ischia, da realizzarsi attraverso un referendum popolare. Attualmente si è in attesa della sua indizione da parte della Regione Campania. Trasporti Per giungere all'isola d'Ischia si arriva in auto, treno o aereo nella città di Napoli e da qui ci si imbarca su nave traghetto o aliscafo da uno dei tre porti (Napoli, Mergellina, Pozzuoli). I collegamenti marittimi tra Ischia ed il continente avvengono tra i tre porti dell'isola (porto d'Ischia, porto di Casamicciola e porto di Forio) Mediamente il tratto di mare da coprire è di 14 miglia con la punta massima di 18 miglia per la tratta Ischia-Napoli; il tempo medio di na-

vigazione è di 90 minuti con nave traghetto e di 70 minuti con aliscafo o nave veloce. Per disciplinare il traffico dei veicoli durante i mesi estivi è in vigore una specifica ordinanza del Prefetto che vieta lo sbarco sull'isola di moto ed autoveicoli ai residenti in Campania. Il porto d'Ischia è uno dei più protetti, grazie alla sua insenatura di lago vulcanico, ed opera principalmente come porto commerciale. Il Porto di Ischia Il porto di Ischia è costituito da un bacino naturale circondato di colline, formato dall'antico cratere di un vulcano. Nell'antichità era utilizzato per l'allevamento di pesci, ma fu con i Borbone, che divenne un porto: Ferdinando II, innamoratosi del lago che poteva ammirare dall'alto della sua villa costruita sul pendio, fece scavare un canale fra due colline e creò un molo curvilineo protetto, senza banchi35

Merito di Augusto e Tiberio fu la costruzione di numerose ville imperiali. Le tre più importanti furono villa Jovis, Damecuta e Palazzo a Mare. Quest'ultima,fu residenza ufficiale di Augusto, preferita al nucleo residenziale di Torre per la sua vicinanza all'approdo e la sua collocazione all'ombra e in luogo poco ventilato. Le notevoli dimensioni delle nuove ville e l'aumento della popolazione comportarono la realizzazione di cisterne per l'approvvigionamento idrico mediante la raccolta di acqua piovana. Diverse soluzioni interessarono le ville capresi, come quella di villa Jovis, dove più cisterne vennero riunite nel corpo centrale della villa. Il Medioevo Con la fine dell'epoca imperiale, Capri ritornò a far parte dello Stato napoletano e iniziò a diventare il centro di scorrerie e di saccheggi da parte di pirati, ben motivati dalla posizione dell'isola sulla rotta fra Agropoli ed il Garigliano.Successivamente passa sotto il dominio di Amalfi, per decisione dell'imperatore Ludovico II, che desiderava premiare gli amalfitani per i servigi offertigli nella lotta contro i saraceni nella liberazione del vescovo di Napoli

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Attanasio, imprigionato da Sergio duca di Napoli nell'isola di Megaride, attuale Castel dell'Ovo. La dipendenza di Capri ad Amalfi, che aveva rapporti frequenti con l'Oriente, è particolarmente evidente nell'arte e nell'architettura, nelle quali furono introdotti, sui saldi stilemi classici, moduli bizantini ed islamica. Dominio Spagnolo Federico I di Napoli stabilì la parità tra Capri ed Anacapri, riconoscendo a questa le stesse franchigie ed immunità dell'altra, separandone le amministrazioni e le rendite, atto confermato poi dal Generale Consalvo di Cordova,, primo viceré della dinastia spagnola di Ferdinando il Cattolico. Come tutta la penisola Sorrentino-amalfitana, l'isola di Capri farà parte dell'antico e prestigioso Principato di Salerno. Solo la conquista da parte della Francia degli stati barbareschi pose fine alla pirateria. francesi qui rimasero fino alla fine della potenza napoleonica e alla restaurazione borbonica, quando Ferdinando IV di Napoli rientrò a Napoli e con il nome di Ferdinando I, secondo le disposizioni del congresso di Vienna, divenne sovrano del Regno delle Due Sicilie. Meta di poeti, pittori e scrittori, Capri cominciò a conoscere un nuovo sviluppo economico, che poté ovviare al decadimento dell'agricoltura, frutto anche della cacciata dei monaci dall'isola. Parallelamente, diminuì la produzione del vino e quella della seta, poi scomparsa completamente insieme alla produzione del corallo.


Un po’ di geografia L'isola è, a differenza delle vicine Ischia e Procida, di origine carsica. Inizialmente era unita alla Penisola Sorrentina, salvo essere successivamente sommersa in parte dal mare e separata quindi dalla terraferma, dove oggi si trova lo stretto di Bocca Piccola. Capri presenta una struttura morfologica complessa, con cime di media altezza (Monte Solaro 589 m e Monte Tiberio 334 m) e vasti altopiani interni, tra cui il principale è quello detto di "Anacapri".La costa è frastagliata con numerose grotte e cale che si alternano a ripide scogliere. Le grotte, nascoste sotto le scogliere, furono utilizzate in epoca romana come ninfei delle sontuose ville che vennero costruite qui durante l'Impero. La più famosa è senza dubbio la Grotta Azzurra, in cui magici effetti luminosi furono descritti da moltissimi scrittori e poeti. Caratteristici di Capri sono i celebri Faraglioni, tre piccoli isolotti rocciosi a poca distanza dalla riva che creano un effetto scenografico e paesaggistico; ad essi sono stati attribuiti anche dei nomi per distinguerli: Stella per quello attaccato alla terraferma, Faraglione di

Mezzo per quello frapposto agli altri due e Faraglione di Fuori (o Scopolo) per quello più lontano dall'isola[1].A Capri non sono più presenti sorgenti d'acqua potabile ed il rifornimento idrico è garantito da condotte sottomarine provenienti dalla penisola sorrentina. L'energia elettrica viene fornita da una società privata in loco. Il Clima Il periodo in cui c'è il maggior afflusso di turisti sull'Isola di Capri è in estate, da giugno ad agosto. Ad agosto si registra il maggior numero di sbarchi giornalieri: in media 20mila persone al giorno. Un afflusso enorme per un'isola piccola che a volte rende complicato anche il solo passeggiare per le strette stradine. La sera, quando i turisti giornalieri ripartono, la situazione però ritorna decisamente più tranquilla. I mesi di aprile maggio, settembre e ottobre sono sicuramente la scelta migliore: il clima è più fresco, ci si può comunque fare il bagno in mare e i prezzi degli hotel calano. Durante i mesi invernali l'isola ritorna ad essere un tranquillo paese di mare: i turisti sono pochissimi e ci si può godere un'isola quasi deserta, dal fascino austero e selvaggio. A parte il freddo (mai comunque eccessivo) e la probabilità di trovare pioggia, l'inconveniente è che la maggior parte degli hotel e dei ristoranti sono chiusi. È possibile comunque sempre trovare ospitalità nei molti b&b dell'isola. Un ridotto numero di ristoranti e bar, sia a Capri che ad Anacapri, è in ogni caso sempre 37

na.Qui costruirono la chiesa di Santa Maria di Portosalvo e ristrutturarono la villa e il palazzo delle terme, ora sede del municipio. Oggi è il primo approdo con una breve banchina che offre una vista sulle due lingue di terra che cingono il mare rendendolo un lago dallo splendido paesaggio ed un approdo sicuro. Turismo Le isole dell'Arcipelago Campano sono meta di migliaia di turisti all'anno. Specificatamente, l'Isola di Ischia, insieme a quella di Capri, sono molto gettonate da turisti non solo italiani, ma anche da stranieri provenienti da ogni parte del globo. L'isola è famosa per il suo mare cristallino, per le note località balneari e per i famosi negozi sul lungomare nel comune di Ischia. I Visitatori e ospiti sono sempre venuti sull’Isola d'Ischia per godere i benefici della sua ricchezza di acque termali. Piacevole è anche la bellezza della natura di quest'isola sempre verde e l’ospitalità degli abitanti. Nel corso degli anni l’Isola d’Ischia si è adattata in maniera eccellente ai suoi ospiti ed è turisticamente molto aperta. Sull'Isola c'è un’ampia offerta di

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possibilità di pernottamento in uno dei numerosi hotel, in un residence, o in un appartamento, con offerte vacanza molto interessanti esono diverse sono le proposte per il rilasso sia del corpo (passeggiate, impianti sportivi, sport acquatici, ecc.) che dello spirito (gite culturali, gite geologiche, musei, concerti, nonché una molteplice offerta di ristoranti, bar, cantine che viziano il vostro palato. Inoltre c'è una ben estesa rete di trasporti pubblici che rende possibile raggiungere tutti i punti dell'Isola anche senza auto,ma per chi è disposto,vi è la possibilità di visitare le isole vicine grazie ai frequenti collegam e n t i m a r i t t i m i . L’antico mestiere della Pesca L’isola è giustamente descritta come un’ “isola di terra”, dove l’agricoltura, molto più della pesca, ha rappresentato per secoli la prima fonte di sostentamento dei locali. Merito della fertilità del suolo vulcanico che ha permesso a tanti ischitani di sottrarsi alle insidie ricorrenti dell’andar per mare. Quest’appunto però non autorizza a dire che Ischia è priva di una propria tradizione marinara. Anzi, le tracce del rapporto tra l’uomo e il mare, risalgono qui addirittura al neolitico superiore, quindi a circa 3500 anni fa. I pescatori di Ischia sono ancora tanti. Molti quelli della nuova generazione, giovanissimi o adulti, energici ma anche confortati dai nuovi ritrovati meccanici e tecnologici per pescare con minore difficoltà. Poi ci sono i vecchi - i grandi vecchi come verrebbe la tentazione di dire – loro


sono quelli che hanno lavorato per decenni in maniera eroica senza comodità, né stregonerie moderne. Ora non escono più in mare, il mare lo conservano negli occhi sempre pieni di luce e nelle mani disastrate. Rimangono in spiaggia o sui moli a riparare le reti, o a creare arnesi per la pesca nelle loro piccole botteghe di Ischia ponte, la Mandra, Forio. La formazione del pescatore è dunque un processo molto lento che avviene con l’esperienza e la guida di chi già possiede l’arte del mestiere. Un’attività, quella del pescatore, ricca di contenuti antropologici in cui si fondono l’uomo, la sua storia ed il suo rapporto con l’ambiente. L’apprendimento del lavoro peschereccio è dunque molto complesso, proprio per la diversità in cui si esprime da luogo a luogo; bisogna conoscere i fondali, le specie, la loro biologia, l’oceanografia, la meteorologia. È un lavoro che si svolge nelle ore notturne, spesso all’aperto, esposti alle intemperie o al sole cocente; insomma condizioni avverse, che comportano uno sforzo fisico molto elevato. È un mestiere usurante e ciò appare evidente dallo stesso aspetto

fisico di chi esercita tale mestiere. La formazione professionale di tali figure è altresì legata alla conoscenza del mare in cui operano gli equipaggi: nella pesca non s’improvvisa nulla. Tutto va costruito lentamente, con pazienza, perché questa professione è anche un "arte", e come tale è legata alla genialità e all’intuizione di chi la esercita. Le Spiagge L’Isola d’Ischia è caratterizzata da paesaggi di straordinaria bellezza e nasconde un patrimonio naturalistico immenso: 29 bacini, centinaia di sorgenti di acqua termale e fumarole, valli e colline, boschi e montagne, scogliere e spiagge in sabbia fine e facile da raggiungere alle calette in ciottoli raggiungibili grazie a sentieri a picco sul mare, quelle per la famiglia e quelle più giovanili. La Spiaggia di Citara Posizionata sul versante ovest dell’isola, nel comune di Forio. Protetta a sinistra dal grande promontorio di Punta Imperatore, è caratterizzata da una bellissima flora mediterranea, da piante balsamiche e da vegetazione tropicale e sub-tropicale. La sabbia chiara e morbida viene bagnata da un mare cristallino di color turchese, ideale per le famiglie e i bambini. Sono presenti alcuni stabilimenti balneari oltre al famosissimo Giardino termale “Poseidon”, incastonato nella baia dove sgorgano sorgenti di acqua termale. Citara fu posta dai romani sotto la protezione di Venere Citarea, di cui fu 39

trovata una statua di marmo bianco (poi distrutta). Un panorama unico sulle isole pontine, soprattutto con Ventotene, e al tramonto i colori fanno della baia un luogo paradisiaco. La Spiaggia dei Maroniti La baia dei Maronti è l’arenile più grande dell’isola, lunga 3 km, riparata da imponenti colline e dal promontorio di Capo Grosso. È raggiungibile via mare dal borgo di Sant’Angelo con dei caratteristici taxi boat o, volendo, dal versante opposto. Da Barano si percorre la serie di tornanti disegnati a picco sul mare fino ad arrivare sul livello del mare dove ci sono parcheggi, ristoranti e bar. La spiaggia si sabbia fine presenta vari tratti, alcuni con stabilimenti privati, altri liberi. Particolarità della Baia dei Maronti sono queste aperture nel costone roccioso dove si può risalire fino alle cave. Queste insenature presentano sorgenti di acqua termale e fumarole. La sorgente di Cava Scura è stata ricavata dal tufo grazie al lavoro dei romani, che venivano fin qui per beneficiare delle cure termali. Verso il

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borgo di Sant’Angelo troviamo la zona chiamata delle “Fumarole”, dove ci si diverte a cuocere pietanze sotto la sabbia, oltre che beneficiare del culto del benessere naturale con aerosol termali. La Spiaggia di Sant’Angelo Antico borgo di pescatori ed oggi meta charme del turismo ischitano. Un vero gioiello con i suoi vicoli, la sua piazzetta, le case arroccate e addossate le une alle altre i loro balconi affacciati sul porticciolo e su quella striscia di terra che lega il borgo al particolare isolotto, punta estrema di due baie: quella dei Maronti e quella di Cava Grado. Nei suoi dintorni e nel cuore del borgo sono racchiuse abbondanti fonti termali, che fanno della località uno dei poli del termalismo ischitano. Posto incantevole per una giornata al mare sulla piccola spiaggia o sugli scogli dell’isolotto. La Baia di Sorgeto Nel comune di Forio troviamo una baia selvaggia ricca di benessere, unica al mondo nel suo genere, dove è possibile fare il bagno tutto l’anno: è Sorgeto, dove madre natura ha donato un vero e proprio parco termale all’aperto. Grazie alle sorgenti di acqua termale che sgorgano in mare tra le rocce e gli scogli è possibile immergersi in una delle conchette disegnate con i ciottoli, lasciandosi accarezzare dalla brezza marina e dal profumo della vegetazione. La baia presenta un clima mite ed offre uno spettacolo magico al tramonto. Tra


le varie esperienze gratuite che offe la baia, vi consigliamo di provare il caratteristico bagno di notte: lasciatevi coccolare dal calore delle acque, dal riflesso della luna sul mare e le stelle che fanno di Sorgeto un luogo selvaggio ma allo stesso tempo romantico. La Spiaggia di San Montano La spiaggia di San Montano è posizionata nell’omonima baia tra il comune di Forio e quello di Lacco Ameno. Ha un fascino tropicale, circondata dalla vegetazione di Monte Vico e Zaro, con la sua forma a mezzaluna e i fondali bassi. Bisogna allontanarsi oltre i 40 metri dalla riva per non toccare il fondale con i piedi, a differenza delle altre spiagge dove basta allontanarsi giusto 10 metri. Incastonato in questa baia c’è il Parco Termale Negombo, con varie piscine d’acqua termale, ristoranti, bar e aree relax. Una vera e propria oasi di benessere. La baia veniva utilizzata, in passato, come porto naturale. In questa zona i Greci, primi colonizzatori, vi costruirono la loro necropoli, dove fu trovata in seguito la famosa Coppa di Nestore.

unico che solo Ischia, con calette simile alla Scarrupata, può regalarvi. Una magia di colori dove la vegetazione e il mare cristallino si fondono e creano un angolo magico che difficilmente dimenticherete.

La Spiaggia di Cava Dell’Isola A pochi passi dalla Baia di Citara troviamo la Spiaggia più amata dai giovani ischitani e dai vacanzieri dallo spirito libero. Baciata anche’essa dal sole della costa occidentale dell’isola, si raggiunge grazie ad una scalinata. E’ l’unico arenile libero, senza stabilimenti, dell’intera isola. Un ambiente informale e anche un po’ selvaggio, forse per questo meta preferita dai giovani. C’è uno spazio per il beach volley, ma a riva si è praticamente liberi di giocare a racchettoni e pallavolo. Assolutamente poco adatta alle famiglie con bambini proprio perché molto affollata e caotica. Ci sono due ristoranti-bar per qualche dolce sosta o una bella mangiata in compagnia. Una ripida discesa e qualche scalino per accedervi, ma ne vale la pena. Anche qui al tramonto, verso sera, potete godere di uno spettacolo indescrivibile. La Baia di Cartaromana L’acqua termale che risale in superficie, piscine naturali dove rilassarsi

nell’acqua calda e un panorama unico al mondo con vista sul Castello Aragonese. Cartaromana è la baia che vide nascere Aenaria, cittadina romana, di cui rimangono solo poche mura antiche. A circa 7-8 metri sul fondale del mare furono ritrovate tracce di quell’antica cittadina sommersa dal mare. La Baia si trova ad est dell’isola, nel comune di Ischia, borgo di Ischia Ponte. Il sole la mattina sorge proprio qui, facendo luce sul Castello e sugli scogli di Sant’Anna dalle forme bizzarre. C’è qualche stabilimento e noi la consigliamo alle coppie in cerca di un luogo magico che riesca a rendere indimenticabile il loro viaggio. La Scarrupata La Scarrupata è la fascia costiera compresa da Punta San Pancrazio e Capo Grosso, sul versante sud-est dell’isola. La costa qui è molto alta e troviamo questa lingua di spiaggia in ciottoli, isolata e riservata. Un panorama indimenticabile, raggiungibile via mare o tramite un sentiero per i più avventurieri. Qui il tempo sembra si sia fermato. Lasciate da parte i ritmi frenetici della vita moderna e calatevi nel relax

La Spiaggia dei Pescatori La Spiaggia dei Pescatori si trova stretta tra Ischia Porto e il borgo di Ischia Ponte. Si trova incastonata in un paesaggio d’altri tempi, con le case dei pescatori a ridosso della spiaggia e il Castello Aragonese con Procida e Vivara alle spalle. Dalla parte opposta troviamo una vecchia abitazione patrizia. In alcuni periodi dell’anno ci si trova a passeggiare tra le colorate barche dei pescatori, con la brezza marina e il profumo del pesce cucinato dai ristoranti. Una piccola spiaggia caratteristica che si distingue dalle altre anche grazie alla sua posizione privilegiata. La Spiaggia di San Francesco La spiaggia di San Francesco si trova a pochi chilometri dal porto di Forio; facilmente raggiungibile sia in auto sia con mezzi pubblici.Sul lato destro è sormontata dallo spettacolare promon-

Macellum, San Lorenzo Maggiore

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torio di Punta Caruso, meta per chi ama gli scogli e un po’ di tranquillità.Questa spiaggia è adatta per chi ama gli sport acquatici, gli impianti turistici a mare e magari cenare in un tipico ristorante isolano, illuminati solo dalla luce del tramonto prima e dalla luna dopo. Le bellezze culturali La Cattedrale dell’Assunta Sotto la cattedrale dell'Assunta, sul Castello Aragonese di Ischia, si sviluppa una piccola cripta ipogea dedicata a San Pietro. Essa è interessata da due momenti di intervento: il primo coincide con la sua fondazione, un ambiente con una navata con due campate; il secondo con la costruzione della nuova Cattedrale sovrastante, la quale inglobò un piccolo edificio duecentesco, come si nota dallo sgretolamento di un pilastro che mostra al suo interno una colonna. Probabilmente, quando si edificò la nuova Cattedrale, la chiesa sottostante, divenutane succorpo, non era in grado di sostenere parte di questo nuovo edificio e per questo si resero necessari degli interventi di consolidamento. La cripta presenta al suo interno due elementi che mostrano come le sue strutture architettoniche siano state piegate alle necessità dell'edificio superiore: mi riferisco in particolare all'introduzione di un pilastro sul lato sinistro, che crea una sporgenza spezzando l'andamento simmetrico dell'ambiente, inserito poichè si trova proprio in corrispondenza del pilastro superiore; ed il riempimento

della volta della cappella di fondo, che ne ha abbassato l'altezza (da una crepa che si è aperta sul fronte di questo riempimento rileviamo che l'andamento originario dell'arco scende all'indietro, quasi si trattasse di un catino absidale). Le Campane di Santa Restituta- Museo e Scavi Un particolare fascino ha sempre suscitato la vicenda delle campane di S. Restituta, su cui molto ha lavorato la fantasia popolare. dalla torre di Monte Vico di Lacco partiva l'allarme e le campane di S. Restituta fuse in quel tempo suonavano a distesa".Allora infatti questo era il più grande flagello per gli isolani; molto probabilmente gli assalti erano effettuati a partire dalla primavera: di ciò abbiamo conservato il ricordo in alcuni stornelli popolari che vogliono indicare la fine delle invasioni. Dopo aver assistito allo scempio dei rapinatori e al trasporto delle campane sulle navi, i coloni dispersi sulle colline vedono i pirati apprestarsi a partire col prezioso carico. Il capitano della galea dà ordine di salpare le ancore; ma ecco che comincia a soffiare un vento impetuoso, il mare si increspa 43

sempre di più, le onde diventano sempre più alte e spumeggianti, la nave ora si inabissa nei gorghi, ora è sospinta in elevazione sull'acqua. Le campane sono gettate in mare per alleggerire il carico. Un solo pensiero in quanti erano sulle colline, le andremo a ripescare. E quando tornò il sereno, i lacchesi andarono per ripescare le campane. Durante la notte quelle campane in fondo al mare dondolano a festa; e le anime belle che si recano sulla riva e restano in ascolto dicono che quei concerti sono paradisiaci: sono le armonie della verginità e del martirio. Il complesso "Scavi e Museo Santa Restituta" in Lacco Ameno rappresenta il tipico esempio di aree di scavo o di zone archeologiche trasformate in entità museali autonome. Un museo, quindi, sotterraneo - zona archeologica rinvenuta sotto la chiesa di S. Restituta - dove il processo di musealizzazione è avvenuto nel luogo stesso di rinvenimento. L'insieme, come si presenta oggi, comprende due sezioni: una se-

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zione Scavi e una sezione Museo. Gli Scavi permettono al visitatore di ammirare le tracce lasciate sul terreno dall'uomo nell'intrecciato e stratificato succedersi delle culture del passato. Il Museo, essendo un museo archeologico e, come tale, composto per lo più di cocci, non di opere capaci di stupire a prima vista, offre un panorama efficace delle diverse culture e stabilisce un rapporto stimolante con l'area scavi. Torre di Guevara La Torre di Michelangelo, conosciuta anche con il nome di "Torre di Sant'Anna" (per la presenza della chiesetta dedicata alla santa), è una casa turrita edificata nella Baia di Cartaromana. La struttura è posta di fronte al Castello Aragonese, a poca distanza dagli scogli di Sant'Anna, importante sito archeologico che ricollega la storia della baia all'antica colonia (oggi sommersa) di Aenaria, florido insediamento romano risalente ad un'epoca compresa tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C., caratterizzato, come provano i numerosi rinvenimenti, dalla presenza di fabbriche di terrecotte e botteghe per la lavorazione dei metalli. Una leggenda racconta che nel 1500 vi abbia soggiornato a più riprese l'artista Michelangelo Buonarroti, legato da una segreta relazione amorosa alla castellana Vittoria Colonna, moglie di Francesco Ferrante d'Avalos. Tali informazioni, così come quelle che attribuiscono all'artista alcune delle pitture presenti all'interno dell'edificio, non sono però suffragate da alcun documento storico.


Il Castello Aragonese Il Castello Aragonese è una fortificazione che sorge su un'isola tidale di roccia trachitica posto sul versante orientale dell'isola d'Ischia, collegato per mezzo di un ponte in muratura lungo 220 m all'antico Borgo di Celsa, oggi conosciuto come Ischia Ponte. L'isolotto su cui è stato edificato il castello deriva da un'eruzione sinattica avvenuta oltre 300.000 anni fa. Raggiunge un'altezza di 113 metri sul livello del mare e ricopre una superficie di circa 56 000 m². Geologicamente è una bolla di magma che si è andata consolidando nel corso di fenomeni eruttivi e viene definita "cupola di ristagno".Al castello si accede attraverso un traforo, scavato nella roccia e voluto verso la metà del Quattrocento da Alfonso V d'Aragona. Prima di allora l'accesso era possibile solo via mare attraverso una scala situata sul lato nord dell'isolotto. Il traforo è lungo 400 metri e il percorso è illuminato da alti lucernari che al tempo fungevano anche da "piombatoi" attraverso i quali si lasciava cadere olio bollente, pietre e altri materiali sugli eventuali nemici.

Il tratto successivo è una mulattiera che si snoda in salita all'aperto e conduce fino alla sommità dell'isola. Da questa strada si diramano sentieri minori che portano ai vari edifici e giardini. Dagli anni settanta del novecento è anche in funzione un ascensore, il cui percorso è ricavato nella roccia e che raggiunge i 60 metri sul livello del mare. La Chiesa dell'Immacolata La sua cupola domina l'intero castello e offre una magnifica vista del borgo di Ischia Ponte, anticamente chiamato borgo di Celsa per la presenza di una piantagione di gelsi nei terreni dei frati Agostiniani. Essi avevano importato sull'isola l'allevamento intensivo del baco da seta (il cui nutrimento, il gelso, è appunto chiamato morus celsa). L'attività s'interruppe di colpo nel 1809, quando Gioacchino Murat emanò un decreto di soppressione degli ordini religiosi per impossessarsi delle enormi ricchezze che i religiosi avevano accumulato nei secoli nel regno di Napoli. La chiesa fu costruita al posto di una precedente cappella dedicata a san Francesco, per volere della badessa 45

Lanfreschi del convento delle Clarisse. L'enorme impegno economico impedì alle suore di portare a termine la costruzione e, nonostante fosse stata venduta persino l'argenteria del convento per far fronte alle spese, la facciata e gli interni della chiesa non sono rifiniti e le pareti sono completamente bianche. La pianta della chiesa è a croce greca con l'aggiunta di un presbiterio e di un pronao d'ingresso. Su un tamburo circolare con 8 finestroni, insiste l'imponente cupola che domina l'intero complesso di edifici. Dopo il restauro eseguito, la chiesa viene utilizzata per mostre temporanee di pittura e scultura. Il Convento delle Clarissa Fu fondato nel 1575 da Beatrice Quadra, vedova D'Avalos, che si insediò con quaranta suore provenienti dal convento di San Nicola che si trovava sul monte Epomeo. Le suore provenivano da famiglie nobili che le destinavano in genere alla vita claustrale già dall'infanzia per evitare la frammentazione delle eredità. Il convento fu chiuso nel 1810 in seguito alla già citata legge di secolarizzazione emanata da Murat. Un'ala del convento oggi ospita un albergo, le cui stanze sono le celle di un tempo. La Chiesa del Soccorso La chiesa del Soccorso fu costruita nel 1791, rifatta nel 1864, ma il primo edificio risalirebbe al 1350, come riportato in una relazione presentata dal priore, datata 2 aprile 1650, conservata 46

nell'Archivio generale degli Agostiniani Eremitani a Roma , dove si legge che il convento fu eretto circa 300 anni prima. Infatti, la chiesa era un tempo un convento di frati Eremitani, successivamente abolito in virtù della bolla d'Innocenzo X. L'architettura è molto semplice ma nello stesso tempo elegante. La facciata è di colore bianco. Sul lato sinistro si erge il piccolo campanile con cuspide piramidale in stile gotico. Nella chiesa sono visibili: -Un antico crocifisso probabilmente del 1500 trovato in mare oggetto di particolare devozione. Una leggenda popolare (cfr. Vuoso, 2002, p. 107) racconta che il Crocifisso ligneo fu portato nella chiesa del Soccorso da marinai costretti da una forte tempesta ad ancorare nella baia sottostante la loro nave diretta in Sardegna. Quando il mare si calmò, i marinai tornarono a riprendere la scultura, ma non riuscirono ad uscire dalla chiesa perché la porta scompariva. Dopo tre tentativi si arresero e la lasciarono lì. -Il Crocifisso del Soccorso si rivelò mir a c o l o s o ;


- Un dipinto del 600 "S. Agostino con S. Monica e S. Nicola da Tolentino" del pittore Cesare Calise; - Alcuni dipinti del 1700; - Un'acquasantiera in marmo con iscrizioni latine, greche e arabe; - Pavimento decorato con fiori e stelle d e l 1 7 0 0 ; - Mattonelle maiolicate con motivi floreali e soggetti religiosi del 1700 che rivestono il parapetto del pianerottolo e i muretti laterali della gradinata di a c c e s s o a l l a c h i e s a ; - Modellini di barche da pesca e velieri di legno sistemati sull’architrave e sui cornicioni della chiesa. Il Palazzo Reale L'edificio fu eretto nel 1735 per volere del primo proprietario, il protomedico Onofrio Buonocore, e diventò presto la meta preferita di villeggiatura dei nobili.Dopo la rivoluzione del 1799 il palazzo venne acquistato dalla famiglia reale Borbone. In particolare, Ferdinando IV re di Napoli e delle Due Sicilie lo utilizzò principalmente come base per cacciare e pescare nell’antico Lago del bagno. Sempre per volere di Ferdinando II, il botanico di corte Giovanni Gussone fece ricoprire la distesa di lava lasciata dall’eruzione del cratere dell’Arso con una bellissima e rigogliosa pineta. Nell’ambito di questa operazione, Gussone incrementò inoltre il giardino della casina reale, piantando esemplari di platani, querce, lauri, eucalipti, provenienti dall’Orto botanico di Napoli. L’architettura del giardino, infine fu completata ed abbellita

da false grotte rivestite con schiuma vulcanica e da un sapiente uso decorativo degli agrumi. Con la caduta dei Borbone la casina attraversò una fase di declino, quando si pensò di trasformarla in stabilimento termale riservato al personale militare. Per un breve periodo, dopo il terremoto che colpì duramente il comune di Casamicciola Terme sul versante nord dell’isola, ospitò l’Osservatorio meteorologico e geodinamico. Oggi è sede dello stabilimento balneotermale militare. Il Fungo Nella piccola e graziosa baia, antistante il viale principale di Lacco Ameno, uno dei più caratteristici Comuni dell'isola d'Ischia, non si può fare a meno di notare uno scoglio, cui l'acqua ed il vento hanno conferito nel tempo la forma di fungo. Staccatosi dal monte Epomeo, questo enorme masso di tufo verde, alto circa 10 metri, è ormai divenuto uno dei simboli più conosciuti dell' Isola. Secondo tradizione la roccia indicherebbe il luogo dell'anneganemto di due infelici innamorati, costretti alla fuga da parenti e genitori contrari al loro amore, oppure sarebbe un macigno scagliato in acqua da Mercurio 47

subito dopo che Giove aveva precipitato il titano Tifeo sotto il peso dell'Isola. Tuttavia negli ultimi anni le condizioni di questo monumento a cielo aperto destano non poche preoccupazioni: la continua erosione degli agenti atmosferici e i movimenti sismici hanno determinato nel blocco una profonda frattura che favorisce la penetrazione dell'acqua per assorbimento. Il masso rischia quindi di frantumarsi e sparire sul fondo, lasciando di sé solo le innumerevoli foto o riproduzioni di vario genere che lo hanno ormai consegnato all'eternità. Il Museo del Mare Il Museo del Mare dell'isola d'Ischia, inaugurato alla fine del 1996, rappresenta il forte legame dell’isola con l’ambiente marino. Esso è allestito nell'antico palazzo dell'Orologio e conserva una raccolta di fotografie e cartoline, tra le quali l’immagine della prima automobile sbarcata sull’isola. Vi sono conservate attrezzature nautiche e antichi utensili da pesca: un in clino-

metro, un solcometro , un fanale di via, cesti, retini, nasse di canna costruite dai pescatori negli anni '30 e una tuta da palombaro del 1935. A questi oggetti si aggiungono dei modellini di nave, ex voto dei marinai ed urne antiche. Caratteristica è la collezione di francobolli provenienti da tutto il mondo e raffiguranti elementi e materiali legati al mare, come conchiglie, pesci, coralli, dei modellini di nave, ex voto dei marinai ed urne antiche. 5. Flora & Fauna Una panoramica completa dei luoghi più belli da visitare sull'isola d'Ischia, i Parchi Termali come i giardini Poseidon o il Negombo dove è possibile passare dei momenti di tranquillità e relax. I Giardini Botanici come La Mortella o I Giardini Ravino che con la loro miriade di piante e con gli eventi a tema rappresentano una tappa davvero imperdibile. I Giardini Poseidon Il Parco Termale Giardini Poseidon sorge nella baia di Citara, ed è composto da 22 piscine termali curative già nota

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ai Romani per le sue straordinarie acque curative con temperatura costante da 20° a 40°. Queste acque sono particolarmente indicate per la cura di malattie ostioarticolari (come artriti, artrosi, sciatalgie, sindrome cervicale, ecc.), malattie reumatiche croniche, postumi di traumi, paresi e malattie dell'apparato respiratorio. Oltre ai bagni termali all'interno del parco vi sono una sauna naturale scavata nel tufo ed il bagno giapponese, un percorso alternato caldo (40°) - freddo (15°) disseminato di ciottoli sui quali camminare per riattivare la circolazione degli arti inferiori e per donare al corpo un senso di benessere generale. I Giardini termali Poiseidon sono situati nel comune di Forio, in località Citara, facilmente raggiungibili sia in autobus che in automobile. Un'oasi di pace in un ambiente con 60.000 mq di giardini ecologicamente intatto attende gli ospiti per una ideale combinazione di cure e vacanze di sogno al mare. Il Parco Termale Negombo In questo splendido scenario che copre una superficie di circa 9 ettari di terreno, si snoda un percorso di 12 piscine termali, a differenti temperature, particolarmente indicate nella cura delle affezioni osteo-articolari. Il Negombo si trova a Lacco Ameno, nella baia più suggestiva dell'isola, la baia di San Montano. Questa insenatura che è simile ad un'ostrica, ha una sabbia finissima ed in fondali molto bassi. Il parco, ideato dal duca Camerini alla fine degli anni '40 si caratterizza per la enorme varietà di

piante tropicali presenti che fanno da contorno alle piscine ed alle attrezzat u r e t e r m a l i . Oltre alle piante tropicali...ammirando le rocce del promontorio si nota una ricca vegetazione formata da lentischi, ulivi, agavi e aloe, ginestre, tantissime palme con un fusto altissimo, ficus... davvero uno spettacolo favoloso. All'interno è possibile ammirare uno splendido monumento di Arnaldo Pomodoro che rappresenta un'arco verde nel cielo. Il Negombo, offre piscine termali a diverse temperature, alcune con idromassaggio, una sauna, una vasca per massaggio plantare, una spiaggia privata, un centro estetico ed un centro benessere dove poter fare tutta una serie di cure termali come massaggi, fanghi, inalazioni, e tanto altro ancora per il vostro benessere. Completano la gamma dei servizi, un ampio parcheggio esterno, un ristorante, un self service, e dei bar sparsi in tutto il parco.

di pescatori ed oggi celebre per la sua piazzetta e le sue stradine, il Parco Termale Aphrodite Apollon è uno dei gioielli più preziosi dell'isola d'Ischia. Con le sue 12 piscine termali (con temperature tra i 20° e i 40°), di cui una coperta con idromassaggio, e due di acqua di mare, a differenti temperature e continuamente alimentate per preservarne gli effetti terpeutici, la struttura offre agli ospiti un'oasi di tranquillità e riposo, circondata da una meravigliosa cornice di piante e fiori. Un importante reparto termale accoglie un'originale sauna in una grotta naturale, oltre che uno splendido Beauty-center, in cui è possibile beneficiare dei più innovativi trattamenti estetici. Anche ai bambini è riservato un posto speciale: sono a loro disposizione una piscina eclusiva ed un angolo-giochi completamente attrezzato per il loro divertimento. In questo contesto così speciale, non potevano di certo mancare un punto Snack e soprattutto un BarRistorante, dotato di una splendida terrazza sul mare, in cui continuare a rilassarsi, gustando squisite specialità e

Parco Termale Aphrodite Apollon Incastonato nella deliziosa cittadina di Sant'Angelo, un tempo pittoresco borgo 49

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sorseggiando bicchieri di ottimo vino. Infine una spiaggetta privata, attrezzata con angolo fitness e beach-volley, completa questo angolo di paradiso. Vi si può giungere a piedi, con una piacevole passeggiata di circa 10 minuti, oppure con il servizio Taxi-Boat dal delizioso porticciolo di Sant'Angelo, in soli 5 minuti. I Giardini La Mortella Il Museo-giardino fu creato da Lady Walton, comunemente conosciuto come La Mortella. Il termine “mortella” indica, nel dialetto napoletano, il "mirto divino, una pianta che spunta con grande abbondanza tra le rocce della collina su cui si sviluppa il giardino e che rivestiva notevole importanza nella mitologia greco-romana, a volte rappresentando la bellezza o la verginità, altre volte l'amore o la fortuna pagana. La Mortella è composta da due parti profondamente diverse: La Valle caratterizzata da un clima subtropicale, umida e protetta dal vento, e la Collina o giardino superiore, interamente ideato e sviluppato da Lady Walton, con zone assolate e battute dal vento e caratterizzate da vegetazione proveniente dalle aree mediterranee. Nel giardino superiore sono presenti la sala Thai, circondata da fiori di loto, bambù e aceri giapponesi, il tempio del Sole, arricchito da bassorilievi di; la cascata del Coccodrillo; il Ninfeo; il Teatro greco e la roccia di William, un masso trachitico posto su di un promontorio a circa 120 metri dal livello del mare, dove sono custodite le ceneri


dell'artista. Il giardino si sviluppa su un'area di circa 2 ettari e raccoglie più di 3000 specie di piante esotiche e rare. È inoltre arricchito da ruscelli e laghetti, fontane, piscine, corsi d'acqua che permettono la coltivazione di piante acquatiche come papiro, fior di loto e ninfee tropicali, mentre dai terrazzamenti delineati sui muri a secco mediterranei è possibile godere di una delle più suggestive viste della baia di Forio. Sulla collina, poco distante dalla Serra delle orchidee, è situato il museo, che raccoglie i cimeli e i ricordi di Walton. Sia il giardino che la casa-museo dove il maestro componeva le sue opere sono aperti al pubblico.

capitano D’Ambra hanno favorito l’attecchimento, lo sviluppo e la riproduzione di questa flora esotica, che, negli anni, ha costituito una collezione unica per numero, varietà e dimensione degli esemplari botanici. Un patrimonio enorme che, con grande dedizione e sacrificio, la famiglia D'Ambra ha voluto rendere fruibile a tutti. I fratelli Christoph e Luca D’Ambra, infatti, forti di una passione ereditaria, sotto la supervisione del loro padre, e dopo attente valutazioni di sostenibilità economica e ambientale, hanno creato un parco botanico tropicalmediterraneo. Estesa su di una superficie di 6000m2. L'offerta è costituita dalla possibilità di passeggiare lungo un percorso di 500 metri – fruibile anche dai diversamente abili - che si snoda in uno spazio costellato da piante esotiche. La collezione di succulente e cactacee unica in Europa , frutto della passione e di 40 anni di attenzioni di Giuseppe D'Ambra, preserva rarità botaniche d'eccezione ed è arricchita da originali esposizioni di bonsai, d'arte e di artigianato. Una realtà speciale per appassionati ed intenditori, perfetta

I Giardini Ravino I “Giardini Ravino” sono sorti nel 2005 dal sogno di Giuseppe D'Ambra, marittimo di lungo corso e grande appassionato di piante succulente e palme, il quale ritornava a Forio dai suoi lunghi viaggi intorno al mondo con borse piene di talee e semi di piante rare. Il clima mite e la fertilità del suolo dell'isola d'Ischia, nonché l'esposizione sul versante occidentale della residenza del 51

per famiglie – pavoni, pony, caprette passeggiano indisturbati - ed ideale per chi sia alla ricerca di un luogo a dimensione d'uomo che soddisfi curiosità intellettuali ed esigenza di relax e svago. Il Regno di Nettuno "Pochi metri sotto la superficie del mare sorge una foresta bianco-rosata. Rami e tronchi, immobili come marmoree merlature gotiche, si intersecano, si confondono nel mobile silenzio turchese. Grandi fiori bianchi palpitano al passaggio di sciami lucciacanti di pesci iridescenti, di pallide meduse, che scivolano come sogni nell'arboreo arabesco di ombre e riflessi": così un anonimo enciclopedista del secolo passato celebrava con accenti inconsueti di poeta l'affascinante spettacolo della vita nei più segreti recessi del mare. il già ricco mosaico sottomarino sulle pareti delle grotte (a Punta Caruso,Punta S.Angelo e Punta S. Pancrazio) e -nel caso dei coralli- oltre i 40 metri di profondità, senza dimenticare lei, stelle di mare dai processi riproduttivi prodigiosi e spettacolari. 52

I Giardini Eden La magica atmosfera beach club del Giardino Eden nasce dall’armoniosa fusione dei rinomati punti cardine caratteristici dell’Isola d’Ischia: natura, storia e mare. Ai piedi della Torre di Guevara (oggi museo e struttura polivalente) ed al centro dell’antica baia colonia di Aenaria (oggi sommersa), florido insediamento romano del quale si stima maggiore attività tra il I secolo a.C. ed il IV secolo d.C. Il parco è circondato da una lussureggiante vegetazione tipicamente mediterranea, dispone di quattro piscine (26°, 28°, 32° 35°) due di acque oligominerali e due di acqua salata. Dotato di tutti i comfort: spogliatoi e toilettes, lettini prendisole, sdraio, ombrelloni e un efficiente pool bar al servizio degli ospiti. Oasi di benessere naturale, dai profumi delicati e ammalianti, un vero e proprio angolo di paradiso dove godere della vera essenza del relax. Il lato fronte mare del Giardino Eden gode della vista panoramica più suggestiva di Ischia: l’isolotto su cui si staglia il Castello Aragonese ed il suo ponte di collegamento con l’antico borgo di


Ischia Ponte, gli scogli di Sant’Anna (importante sito archeologico) e l’isola di Capri. Caratteristica unica ed irripetibile è il grande scoglio battente bandiera Eden attorno al quale sorge il solarium sospeso sul mare, meta particolarmente ambita per gli amanti della tintarella e dotato di comode e sicure discese in acqua per gli amanti dello snorkeling. Degustazioni tipiche dell’Isola I Vini L'isola d'Ischia è la patria di numerosi vini D.O.C. ed è molto conosciuta da appassionati e professionisti del settore vinicolo.La produzione locale comprende sia vino bianco che rosso. Tra i bianchi evidenziamo la Forastera, il Biancolella e l' Ischia Bianco doc, da abbinare ai piatti a base di pesce. I Liquori Il Limoncello è uno speciale prodotto ottenuto da limoni particolari appena raccolti. Estratto dalla scorza di questi limoni freschi ne conserva le qualità organolettiche con un gusto agrodolce

e un armonia di aromi che lo rendono un liquore dal sapore unico. Potrete scegliere ffa vari gusti sia di liquori che di creme, particolarmenti ricercarti sono il famoso Rucolino, e alla Liquirizia, da non trascurare il nuovo gusto al cioccolata davvero unico nel suo genere. Inoltre avrete una vasta scelta di liquori e vini dei migliori produttori del posto. Gli Spaghetti con le Vongole E' questo un altro dei piatti classici di Napoli. La ricetta classica napoletana non prevede l'uso del pomodoro (le cosiddette "vongole in bianco") e diventa molto più gustosa utilizzando le "vongole veraci", riconoscibili dalle maggiori dimensioni e dalle caratteristiche "corna". Sono in ogni caso ottimi anche con le vongole comuni e perfino con le "telline", le vongole piccolissime. Al posto delle vongole si possono usare le cozze. Pasta e fagioli con le cozze Anche la pasta e fagioli è uno dei piatti tipici della cucina napoletana. Questa variante ischitana prevede l'aggiunta delle cozze, che danno un sapore particolare alla ricetta. Fondamentale (e chiaramente derivato dalla cucina popolare di un tempo, che tendeva ad evitare sprechi) e' l'uso della "pasta 53

mischiata", cioè di vari tipi di pasta che potrà essere acquistata già pronta, oppure utilizzando piccole quantità di paste diverse (penne, rigatoni, bucatini, fusilli ecc.) La ricetta classica napoletana prevede che la pasta cuocia nell'acqua che si aggiungerà direttamente nella pentola del sugo, in quantità tale da poter essere completamente assorbita al termine della cottura (la minestra va mangiata asciutta e non liquida). Gli Gnocchi alla Sorrentina Gli gnocchi possono essere conditi anche con del sugo di ragù (fatto con la carne macinata), ma la ricetta classica è questa. Si chiamano alla Sorrentina perché l'ideale sarebbe utilizzare la mozzarella di Sorrento (il "fiordilatte"), fatta a treccia, che e' considerata la migliore. La Zingara Il panino veloce tipico dell’isola di Ischia è la zingara ischitana. Si tratta di un panino che può essere consumato specialmente d’estate, visto che non richiede molto tempo per la sua preparazione. Il segreto consiste nello scegliere prodotti tipici del luogo: mozzarella campana, pomodori, prosciutto

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crudo. A questi ingredienti ne possono essere aggiunti altri, come la lattuga o la maionese. La zingara ischitana è ideale da consumare anche in spiaggia. La Pizza La pizza napoletana, dalla pasta morbida e sottile ma dai bordi alti (detti "cornicione"), è la versione partenopea della pizza tonda ed inoltre, su scala mondiale, è anche intesa come la pizza italiana per antonomasia. Secondo la tradizione nel giugno 1889, per onorare la Regina d'Italia Margherita di Savoia, il cuoco Raffaele Esposito creò la "Pizza Margherita", una pizza condita con pomodori, mozzarella e basilico, per rappresentare i colori della bandiera italiana. Babà Il dolce celebre è il babà, un dolce di pan di Spagna leggerissimo a forma di fungo bagnato nel rhum e decorato secondo i vostri gusti. Divertimento Svago e Tempo Libero La Festa di Sant’ Anna La festa di S.Anna è sicuramente l'evento da non perdere se siete sull'isola per le vostre vacanze. La Festa si svolge di sera nella baia antistante il Castello Aragonese ad Ischia Ponte e consiste in una sfilata in mare di barche allegoriche, in competizione tra di loro. Oltre alla sfilata tanta musica, i fuochi pirotecnici e sopratutto, a mezzanotte l'incendio del Castello Aragonese.


La Festa di San Vito La Festa di san Vito dura una settimana e si celebra a Forioe e vengono celebrate Cerimonie religiose, luminarie e fuochi d'artificio, che attirano gli abitanti dell’isola e i turisti in vacanza sull’isola. il Santo è portato in processione via mare con la commemorazione dei caduti Ischia Film Festival Ischia Film Festival è un importante evento cinematografico di livello internazionale che premia un film, cortometraggi, documentari, che hanno maggiormente valorizzato location italiane ed internazionali. All'evento ogni anno partecipano illustri personaggi del mondo del cinema e dello spettacolo, italiani ed internazionali. L’isola infine offre tante opportunità per chi ama divertirsi. Il centro della movida ischitana è sicuramente Ischia Porto, mentre nelle altre zone potete trascorrere serate più tranquille. Tanto per cominciare per chi vuole stare in mezzo a tanta gente, bisogna frequentare la Zona della Riva Destra del Porto di ischia. Qui ci sono tantissimi ristoranti, pub e bar e piccoli locali dove poter ballare e bere qualcosa. Spostandoci dalla Riva Destra, potete percorre

Corso Vittoria Colonna, la zona dello shopping dell’ isola, dove potete trovare anche alcuni pub e bar. Per gli amanti della discoteca, da non perdere una serata al Valentino, una delle discoteche più alla moda dell’isola. Per chi invece vuole fare una passeggiata più tranquilla potete fare una passeggiata nella zona di Ischia Ponte ed arrivare al Castello Aragonese. Ioltre, per concludere in bellezza la serata da non perdere il famoso cornetto del Bar Calise a Piazza degli Eroi, uno dei bar più famosi e frequentati dell’isola per I suoi gustosi cornetti.

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Capri Il nome deriverebbe dal greco kàpros ossia “cinghiale” collegato al latino capreae, “capre” (in antichità l'isola era nota come Caprae. Lo storico e geografo greco Strabone, nella sua Geografia, riteneva che Capri fosse stata un tempo unita alla terraferma. Questa sua ipotesi è stata poi confermata, recentemente, sia dall'analogia geologica che lega l'isola alla penisola sorrentina sia da alcune scoperte archeologiche. Coesistono sull'isola due realtà urbane, diverse tanto per la naturale separazione geografica quanto per tradizioni e origine etnica: Capri e Anacapri. Tale differenziazione si spiega con la naturale vicinanza di Capri al mare: la presenza del porto ha infatti agevolato gli scambi commerciali e culturali con il Regno di Napoli e determinato, di conseguenza, un suo maggiore benessere economico.Le due comunità erano in eterno conflitto, impegnate a difendere ognuna i propri diritti, esasperate dalla mancanza di vera autonomia che le costrinse ad accettare, nel corso dei secoli, le pressanti pretese degli ammi-

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nistratori inviati dal continente come controllori dell'economia locale. Cenni storici Epoca Preistorica Le prime scoperte di epoca preistorica si ebbero più di duemila anni fa, quando, in epoca romana, dagli scavi per la costruzione delle prime fabbriche imperiali vennero alla luce resti di animali scomparsi decine di migliaia di anni prima e tracce di vita di uomini primitivi dell'età della pietra. La vicenda è documentata dallo storico Svetonio che descrive l'interesse mostrato dall'imperatore Augusto nel custodire resti di vita primordiale ritrovati a Capri nella sua casa, adibita quasi a primo museo della storia di paleontologia e paletnologia. I racconti di Svetonio vennero confermati dai lavori di scavo quando, per un ampliamento dell'Hotel Quisisana, all'inizio della Valle di Tragara, sotto uno strato di materiale eruttivo e un banco di argilla rossa del Quaternario, affondate in limo essiccato, derivato da un antico bacino lacustre, vennero alla luce ossa gigantesche di mammiferi estinti come i mammut. Fu il medico e naturalista Ignazio Cerio a ricono-


scere e a conservare questi fossili insieme ad armi in pietra, quali quarzite scheggiate e appuntite, triangolari o amigdaloidi (a forma, cioè, di mandorla). Altre importanti scoperte sono state fatte nella grotta delle Felci, situata sopra Marina Piccola, in località Le Parate, a Petrara, in via Tiberio e via Krupp, a Campitello e alla Grotta del Pisco, tutti ritrovamenti che hanno sottolineato la presenza di vita dalla fine dell'età neolitica all’età del bronzo. Epoca Greca La colonizzazione greca di Capri e dell'intera Campania affonda le sue origini nella leggenda. Non fu un processo omogeneo, come ben testimoniato dalla differenziazione dei culti e dei racconti leggendari delle varie colonie: Capri, Sorrento e, in generale, il versante orientale del Golfo di Napoli, erano legati al culto delle sirene, mentre il versante occidentale, con Ischia, dipendeva storicamente e religiosamente da Cuma ed era fedele al culto di Apollo oracolo. È Ulisse, l'eroe leggendario dell'Odissea, l'emblema dei coraggiosi marinai che, attraverso rischiosi e lunghi viaggi, giunsero in Sicilia e nell’Italia meridionale, creando così le prime comunità greche. L'opera omerica non sembra pura invenzione poetica, dal momento che pare essere confermata anche dalla toponomastica.I Greci cominciarono a percorrere tutto il Golfo di Napoli esi insediarono inizialmente sull'isola di Ischia e, sulla

aperto. Il clima a Capri è mite ed è temperato dal mare. I mesi più caldi sono giugno, luglio e agosto (22 °-26 ° C) e coincidono con l'estate, mentre i mesi invernali più freddi sono dicembre, gennaio e febbraio (9 °-13 ° C). Spesso in estate possono esserci veloci temporali soprattutto in agosto. Divisioni Amministrative Il territorio dell'isola di Capri è suddiviso in due comuni: Capri abitata da 6684 abitanti e Anacapri abitata da 7052 abitanti. terraferma, a Cuma; solo più tardi giunsero a Capri. Epoca Romana Il ruolo rivestito da Capri in epoca romana fu notevole. La svolta che segnò la storia dell'isola fu nel 29 a.C., quando Cesare Ottaviano, tornando dall'Oriente, sbarcò a Capri dove, secondo il racconto di Svetonio, una quercia vecchissima cominciò a dar segni di vita. Il futuro Augusto, interpretando questo come un segno favorevole, tolse Capri dalla dipendenza di Napoli, dando in cambio la più grande e fertile isola di Ischia e facendola diventare dominio di Roma. Fu così che la comunità greca presente a Capri venne a contatto con quella romana e l'isola iniziò la sua vita imperiale, diventando il soggiorno prediletto di Augusto e dimora di Tiberio per dieci anni, centro quindi della vita mediterranea di Roma. Oltre all'interesse per la raccolta di fossili ed armi preistoriche, ad Augusto si devono la nuova costituzione giuridico amministrativa dell'isola. 57

Trasporti A Napoli ci sono due moli da cui partono i collegamenti per Capri: Molo Beverello, da dove partono gli aliscafi e Calata di Massa da dove partono i traghetti e le navi veloci che trasportono anche i mezzi a motore. Aliscafi e traghetti per Capri partono anche dal porto di Sorrento, durante tutto l'anno. D'estate sono attivi dei collegamenti da e per Positano e Ischia. La traversata da Napoli per Capri è di circa un'ora. Come muoversi sull’isola: -Funicolare: collega il centro di Capri con il porto di Marina Grande. Le corse partono ogni 15 minuti -Autobus: Capri – Anacapri ;Capri - Marina Piccola;Capri - San Costanzo (Marina Grande); Anacapri - Grotta Azzurra; Anacapri - Faro Il Porto di Capri Il porto è il principale scalo marittimo dell'isola di Capri ed è situato nella frazione di Marina Grande, appartenente al comune di Capri. Il porto è stato 58

costruito all'interno di un'insenatura naturale, nella parte dell'isola che si affaccia all'interno del golfo di Napoli, riparata dai venti e dalle grosse onde. Inoltre due banchine artificiali proteggono l'interno del porto, che si divide in due parti: da un lato la zona riservata ad imbarcazioni turistiche e ai pescherecci, dall'altra invece quella dedicata allo scalo passeggeri ed alla zona commerciale. Il porto si trova nella zona nord dell'isola, a una certa distanza sia dal centro di Capri che da quello di Anacapri: vi è un'ottima rete di collegamenti tramite autobus e taxi, anche se la maggior parte dei turisti utilizza la storica funicolare. Essendo Capri un'isola, tutte le principali attività di collegamento si svolgono grazie al porto e per questo risulta essere uno dei più attivi sia dal lato commerciale, soprattutto per l'importazione di viveri, sia dal lato passeggeri con un'utenza formata da numerosi pendolari e turisti: Capri è collegata con numerose località della Campania come Napoli, Sorrento, Castellammare di Stabia, Positano, Amalfi, Salerno ed Ischia.


La vocazione turistica dell'isola azzurra porta numerose navi da crociera a fare scalo a Capri, ma solitamente, essendo il porto di dimensioni ridotte, queste attraccano al largo e viene fatto un servizio di navette con la terraferma tramite scialuppe. Turismo La fama turistica di Capri iniziò alla metà dell'800, con la riscoperta dell'affascinante Grotta Azzurra; divenne così una meta immancabile nel Grand Tour di scrittori ed artisti di fama internazionale che descrissero gli effetti luminosi ed i giochi di luce cangianti all'interno della grotta. La grotta marina più famosa, legata all’Isola Azzurra da un inscindibile binomio blu. Vi sono complessi giochi di rifrazione della luce velano di un riflesso azzurro irreale le pareti e la volta; il fondale di sabbia bianca riveste d’argento i corpi immersi per un’opalescenza dell’acqua. Forse era luogo sacro nell’antichità, sicuramente ninfeo romano: ha restituito due statue conservate oggi al Museo Nazionale di Napoli. I pescatori la temevano come Grotta Gradola infestata di spiri-

ti. La riscoperta nel 1826 con il nuovo nome grazie agli artisti A. Kopisch ed E. Fries e al pescatore “o Riccio” ha iniziato l’era turistica. La Grotta Azzurra una è una piccola cavità naturale accessibile solo via mare, attraverso delle piccole barche a remi, dove l’acqua è di un azzurro così unico da sembrare irreale. La luce esterna penetra all’interno della grotta creando dei particolari giochi di colore che variano a seconda delle diverse ore del giorno e delle condizioni atmosferiche. L’Antico Mestiere della Pesca del Corallo La pesca del corallo a Capri fu praticata fin dall'antichità anche se le cronache ne segnalano la sua intensità estrattiva agli inizi del 1800. Esistevano molti giacimenti intorno all'isola. Il più importante si trovava nelle “Bocche”, cioè in quel tratto di mare compreso tra la punta di Tiberio e quella della Campanella, a Vitareta a poco più di 200 metri dalla costa, a Gradola vicino la Grotta Azzurra, tra Matermania e Punta del Secco, a 400 metri dai Faraglioni, a Punta Carena vicino al Faro e alle Grotte a varie profondità. La regina Giovanna I d'Angiò manifestò sempre grande simpatia per i corallini, perché indossò gioie di corallo per tutta la vita e fin da bambina le sue piccole vesti erano decorate con il prezioso elemento. Con la costruzione della Certosa di S.Giacomo voluta dal conte Giacomo Arcucci, la regina Giovanna II d'Angiò dotò il monastero di molte rendite ed oltre all'esazione 59

della decima sul pesce pescato nel mare pertinente la Certosa, concesse anche la decima sul corallo suscitando, nel tempo, una sequela di rancori e controversie tra il Clero, il Vescovado e l'Università per il fatto che in alcune annate i corallini versavano ai monaci, sui diritti della pesca del corallo, mig l i a i a d i d u c a t i . I “banchi” presso la Maddalena in Sardegna e quelli nelle Bocche di Bonifacio, furono un'altra grande risorsa per i pescatori capresi alcuni dei quali, col tempo, si stabilirono definitivamente su quell'isola. L’antico Mestiere della Ceramica La grande tradizione delle ceramiche artigianali. Un grande assortimento di ceramiche artistiche tutte fatte a mano. I colori e la varietà delle nostre creazioni artigianali cattureranno il vostro sguardo, piccoli oggetti che raccontano una grande storia. Le Spiagge La Spiaggia di Marina Piccola Una delle spiagge di Capri più conosciute è quella di Marina Piccola, raggiungibile dalla Piazzetta di Capri in taxi, con

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gli autobus e a piedi, attraverso la panoramica Via Krupp. Dal centro storico di Capri si possono raggiungere anche le località balneari dei Faraglioni, grazie a una piacevole passeggiata che parte dal belvedere di Tragara e si snoda lungo il sentiero del Pizzolungo.La baia di Marina Piccola è il posto giusto dove dirigersi se cercate una spiaggia con vista sui Faraglioni. Marina Piccola si trova sul versante sud dell'isola, protetta alle spalle da una ripida parete di roccia: per questo è un posto sempre caldo e poco ventilato. E' un luogo dove anche nelle giornate d'inverno più fredde è sempre piacevole stendersi a prendere il sole, tant'è che molti capresi hanno l'abitudine di fare il bagno a Marina Piccola tutto l'anno. La Spiaggia di Marina Grande La Spiaggia Marina Grande è la spiaggia più estesa dell'isola di Capri, arenile pubblico della pittoresca Marina Grande e d'estate anche punto d'imbarco per il motoscafo che porta alla zona di Palazzo a Mare. Si tratta di una bellissima spiaggia di sabbia chiara con della ghiaia in piccoli tratti, caratterizzata da un magnifico litorale ampio e lungo centinaia di metri, circondato da alti promontori rocciosi ricoperti di verdi boschi. Il mare è bellissimo, di un turchese brillante, cristallino e straordinariamente trasparente, ideale per nuotare e fare il bagno. La spiaggia è ben attrezzata con lettini, ombrelloni, pedalò; nelle vicinanze ed alle spalle si trovano bar, ristorantini e qualsivoglia servizio.


La Spiaggia di Gradola La Spiaggia di Gradola si trova nel comune di Anacapri e deve il suo nome alla vicina località omonima, sede di fabbriche edilizie. E' situata non lontano dal faro, incastonata in una delle punte più estreme a nord ovest di Capri. Nelle sue vicinanze sono ancora visibili le vestigia di punti di attracco risalenti all'Impero Romano. La spiaggia è divenuta famosa soprattutto perchè si trova proprio a fianco della magnifica Grotta Azzurra. Si tratta di una spiaggetta dalle dimensioni ridotte che altri non è che una piccola piattaforma circondata da rocce ed alte scogliere rocciose. Lo spazio per sdraiarsi e prendere il sole è molto ridotto, soprattutto in alta stagione. Il mare è bellissimo, di un blu intenso, cristallino e trasparente, con fondali tra i più profondi della costa. La spiaggia offre un caratteristico baretto affacciato sul mare. E'raggiungibile facilmente da Anacapri in autobus. Lido Il Faro Il Faro di Punta Carena troneggia all'estremità sud-occidentale dell'isola di Capri, sulla penisola del Limmo, nome che deriva dal latino limen e significa

confine. Oltre c'è solo mare e mare fino alla Sicilia. Alle sue spalle si alza il dirupo della Migliera percorso dai muri di difesa costruiti dagli inglesi all'inizio dell'800 a protezione di Capri. Il faro, costruito nel 1866, è tra i più importanti del Mar Tirreno e il secondo in Italia per portata luminosa dopo quello di Genova. A Punta Carena il fondale declina molto rapidamente: a soli 500 metri dalla costa ne segna circa 600 di profondità. Acqua sempre pulita e sole per tutta la giornata: per questo il Faro è una delle località balneari più gettonate dell'isola. Ci sono diverse strutture balneari, disposte su comode terrazze, con scalette in ferro per scendere in acqua. È una località alla moda, ideale per godersi una giornata al mare e gustare una sfiziosa caponata sulle terrazze degli snack bar, ma anche per cenare a lume di candela sul mare, perché alcuni locali restano aperti anche nelle serate estive.

che si trova nella parte orientale dell'isola di Capri. Dalla sua villa, Tiberio Claudio Nerone governò l'Impero per oltre undici anni. Alcuni frammenti storici riferiti alla personalità di Tiberio citano questi come una persona molto introversa e di poche parole. Pare che trascorresse intere giornate nella più profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della scorta imperiale e abbandonandosi a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa che affaccia sui due golfi di Napoli e Salerno. In base ad alcune informazioni non ancora confermate, pare che Tiberio, anche a causa dell'età avanzata, soffrisse di crisi esistenziali e che avesse un carattere isterico che lo spingeva a comportarsi in modo del tutto anomalo. Altri storici riportano che soffrisse di tubercolosi, ragione forse del suo esilio a Capri. Per altri, l'esilio a Capri aveva ragioni politiche, come riporta Svetonio. Durante la sua permanenza sull'isola di Capri, nonostante il suo precario stato di salute, Tiberio ordinò la costruzione di altri undici palazzi intorno ad essa. Nella stagione estiva si trasferiva sulla costa, tra le costruzioni oggi note come "bagni di

Le bellezze culturali Villa Iovis Villa Iovis (dal latino Villa di Giove), è situata sulla vetta del monte Tiberio, 61

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Tiberio" o "palazzo a mare". In questo suo quartiere marittimo, l'imperatore amava fare il bagno. Gli architetti che progettarono la sua villa per rendere il soggiorno dell'imperatore confortevole, si trovarono di fronte ad un grosso problema, ossia l'approvvigionamento idrico. L'acqua, se abbondava nei bassi rilievi dell'isola, scarseggiava nei livelli superiori. Pochi anni prima che l'imperatore lasciasse la capitale dell'impero, con un progetto del tutto ardito, fecero costruire due o più cisterne di enorme portata disposte nelle fondamenta della Villa stessa. Con la raccolta di acqua piovana nelle cisterne della villa, fu resa possibile l'erogazione di acqua pura e potabile anche nei secoli successivi fino all'attuale centro storico. Villa San Michele Villa San Michele è un'abitazione sita nel comune di Anacapri, nell'isola di Capri. La villa prende il nome da una piccola cappella che sorgeva in epoca medioevale alla fine della Scala Fenicia nel territorio appunto di Anacapri. Nel 1895 il medico svedese Axel Munthe si innamorò delle rovine di un'antica cappella, costituite da una volta sfondata ed alcuni muri diroccati, e volle acqui-


starla a tutti i costi. Mentre eseguiva i lavori di restauro rinvenne nel vigneto adiacente il rudere la presenza dei resti di un'antica villa romana; da questi attinse per adornare la nuova villa con numerosi reperti archeologici che tuttora si possono osservare nella costruzione originale di Munte. Il medico svedese tuttavia non abitò per molto tempo Villa San Michele, poiché una malattia agli occhi lo costrinse a ritirarsi nella meno luminosa Torre Materita, che pure fece restaurare. La villa quindi venne affittata alla marchesa Luisa Casati Stampa che vi condusse per molti anni una vita stravagante e a volte eccessiva. Alla sua morte, avvenuta a Stoccolma, Munthe lasciò la villa in eredità allo stato svedese. Oggi essa è di proprietà di una fondazione svedese che l'ha trasformata in museo dove tra l'altro si svolgono, nel periodo estivo, suggestivi concerti di musica classica da camera. La Certosa di San Giacomo La certosa di San Giacomo è il monastero più antico di Capri. Edificato nel 1371 per volere del conte Giacomo Arcucci su un terreno donato dalla Regina Giovanna I D'Angiò, la certosa ospita il museo dedicato al pittore tedesco Karl Diefenbach. La struttura della Certosa fu edificata nel terzo quarto del Trecento grazie agli auspici del conte Giacomo Arcucci. L'impianto iniziale, poi soggetto nei secoli a profondi cambiamenti, presentava la classica partizione funzionale alla vita cenobitica: un'area destinata alla clausura e l'altra

ai servizi, nel caratteristico stile tardo romanico che accomuna gli edifici isolani del periodo. i beni della certosa furono confiscati, e di essa venne fatta una caserma, poi un ospizio e poi un soggiorno punitivo per militari e anarchici. Nella prima metà del Novecento la certosa attraversò brevi momenti di attività (ad esempio i canonici lateranensi vi avevano istituito un ginnasio) per declinare durante la seconda guerra mondiale verso un deplorevole disfacimento con il conseguente allontanamento dei canonici. Diventò sede del museo dedicato al pittore tedesco Karl Wilhelm Diefenbach. Infine nel 2000 iniziarono le opere di restauro all'intera struttura a cura della Soprintendenza napoletana. La Scala Fenicia La scala Fenicia di Capri è una lunga e ripida scalinata in pietra che unisce il centro abitato di Capri con quello di Anacapri. Fu probabilmente realizzata dai coloni greci, mentre gli studiosi ritengono ormai inverosimile l'ipotesi fenicia.La strada ha rappresentato per molti secoli, fino all'inaugurazione della carrozzabile nel 1877, l'unica via di accesso ad Anacapri, che si trova a circa 300 metri sul livello del mare ed 63

è tuttora servita solo da un paio di approdi, entrambi assai disagevoli. La scala consentiva di raggiungere Anacapri a coloro che sbarcavano sull'isola in prossimità del porto caprese della Marina Grande. Essa veniva utilizzata anche per il trasporto dei materiali edili utilizzati per la costruzione delle abitazioni anacapresi. La scala Fenicia ha potuto godere in tempi recenti di un eccellente restauro ed è oggi inserita in tutti gli itinerari paesaggistici dell'isola, anche perché termina in prossimità della villa San Michele di Axel Munthe ad Anacapri, anch'essa una tappa obbligata di tutti i tour organizzati sull'isola azzurra. È composta attualmente da 921 scalini, per una lunghezza totale di 1,7 km. La Chiesa della Croce Chi percorre la strada per raggiungere gli scavi archeologici di Villa Jovis non può fare a meno di ammirare il profilo della piccola Chiesa di San Michele alla Croce (conosciuta come Chiesa della Croce) circondata da un alto muro di cinta e dalla flora mediterranea del suo giardinetto. La chiesa si trova a pochi passi dall'incrocio tra Via Tiberio e Via Matermania, la strada che si percorre

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per raggiungere l'Arco Naturale, e rimane aperta solo in occasione delle funzioni religiose. La Chiesa della Croce, adibita anche a deposito di polvere da sparo durante l'occupazione inglese dell'Ottocento, risalente agli inizi del XII secolo e presenta un portale decorato con lunetta tardo-gotica sormontato da un campanile a vela. L'edificio non può essere ricondotto ad un unico stile architettonico a causa dei numerosi interventi di restauro e ampliamento che si sono susseguiti nel corso dei secoli.

La Chiesa di Sant’ Andrea Uno delle costruzioni sacre più belle e suggestive dell'isola di Capri può essere ammirata vicino alla spiaggia di Marina Piccola dove si trova la Chiesa di Sant'Andrea, proprio dove un tempo sorgeva un'antica torre di guardia. La chiesa, realizzata su disegni del pittore parmese Riccardo Fainardi, è stata costruita nel 1900 per volere del banchiere tedesco Hugo Andreas (già finanziatore della Chiesa Evangelica) e di sua moglie Emma che desideravano donare ai marinai di Marina Piccola un


luogo di culto per il loro santo protettore.Il pronao della Chiesa di Sant'Andrea è sorretto da due colonne e la sala è di forma rettangolare; l'absinte centrale nasce proprio nel luogo in cui un tempo si trovava la vecchia torre di guardia contro le numerose incursuoni saracene che terrorizzavano la popolazione locale. L'altare centrale è arricchito da un trittico di Riccardo Fainardi che rappresenta il martirio sulla croce di Sant'Andrea. In una delle due absinti laterali, invece, si trova un altare dedicato alla Madonna di Pompei e una scala a chiocciola conduce nello spazio dedicato all'organo. La Chiesa di Santo Stefano L’edificio, situato nelle immediate vicinanze della famosa piazzetta, fu progettato dall’architetto F.A. Picchiatti e fu realizzata tra il 1688 e il 1697 dall’amalfitano Marziale Desiderio, esperto costruttore di cupole e volte. La chiesa fu poi consacrata soltanto nel 1723, sotto il vescovo Michele Vandenejnde. Essa si sovrappose alla chiesa vescovile,

edificata su una precedente struttura religiosa nel 1596, quando il vescovado era stato trasferito lì dalla sede di S.Costanzo, a causa del pericolo costituito dalle frequenti incursioni dei turchi. In quell’occasione furono portate alla chiesa anche le reliquie di S.Costanzo, patrono dell’isola. Già dalla piazza, grazie alla buona angolazione prospettica della chiesa, è possibile cogliere il riuscito collegamento strutturale e architettonico tra la facciata seicentesca, la cupola centrale e la scansione delle volte estradossate delle cappelle laterali. La facciata è barocca e i pinnacoli, le volute e gli spicchi non si discostano dalla tradizione seicentesca, mentre le coperture rappresentano un esemplare unico, distaccandosi dalla ripetizione degli schemi coevi. La pianta della chiesa è a croce latina e all’interno l’edificio si articola in 3 navate, con una cupola all’incrocio della navata centrale col transetto. Le due navate laterali presentano quattro cappelle quadrangolari per lato. L’ingresso principale è caratterizzato da un portale ligneo risalente al diciottesimo secolo. La vetrata sopra il portale, riproducente Cristo Risorto ,e le vetrate sopra la navata centrale, che raffigurano i simboli dei sette sacramenti, sono moderne e più precisamente risalgono al 1973. L’altare in marmi policromi, al centro del presbiterio, fu eseguito nel diciassettesimo secolo. La pavimentazione di esso e del coro fu realizzata con marmi romani, mettendo in opera tarsie di marmo africano, giallo antico e saravezza, 65

recuperate durante gli scavi dei borboni. I gradini dell’altare, invece, sono rivestiti da lastre di marmo, ricavate dal fusto di antiche colonne romane. Vi è poi un grande organo dorato, risalente agli inizi del diciannovesimo secolo, in alto dietro l’altare, mentre ai piedi di esso vi sono tre pietre tombali, con decorazioni in marmi policromi, dedicate una al vescovo di Capri Francesco Antonio Boccus, una a monsignor Serafino Cimmino, un’altra al parroco di Capri Giuseppe De Nardis. Su entrambi i lati del presbiterio vi sono i corridoi che conducono alla sagrestia. In quello di sinistra, dove si trova la statua di S.Costanzo, realizzata in argento e ornata di zaffiri, granati e berilli, c’è una scaletta a chiocciola che porta sui tetti. L’altare al centro del transetto sinistro, inoltre, contiene le reliquie del patrono, raffigurato sulla tela soprastante di G. Farelli nell’atto di cacciare i corsari. Infine, fra gli arredi della chiesa, vi sono due antiche consolle dorate su cui è appoggiata una rappresentazione del presepe e una crocifissione entro teche in vetro.

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I Faraglioni I faraglioni di Capri, sono tre picchi rocciosi posizionati a sud-est dell’isola omonima, famosi in tutto il mondo grazie alla suggestiva e storica panoramica offerta dai giardini di Augusto. I faraglioni sono: -Faraglione di Terra (o Saetta), che è l’unico ancora unito alla terraferma, è il più elevato con i suoi 109 metri. -Faraglione di Mezzo (o Stella), è quello in cui è presente la cavità al centro, una galleria naturale lunga 60 metri che lo attraversa per intero, raggiunge un’altezza di 81 metri. -Faraglione di Fuori (o Scopolo), cioè promontorio sul mare, che raggiunge un’altezza di 104 metri. In realtà esiste anche un quarto faraglione, chiamato scoglio del Monacone in quanto fino al secolo scorso nelle acque antistanti si poteva ammirare la foca monaca. Sui faraglioni possiamo trovare la lucertola azzurra (Podarcis siculus coeruleus), presente solo sul faraglione di Mezzo e sul faraglione di Fuori. Ha le squame del dorso di colore blu, anziché verde, mentre il ventre è di colore azzurro. I faraglioni furono citati anche da Virgilio nell'Eneide narrando il mito delle Sirene. Il nome deriva dal greco pharos, che vuol dire faro. Infatti, anticamente sui monti e sulle rocce vicino alle coste, venivano accesi dei grandi fuochi durante le ore notturne, in modo da segnalare ai navigatori sia la rotta che eventuali ostacoli pericolosi per la navigazione stessa. Molto probabilmente i faraglioni ebbero


la stessa funzione. La galleria naturale, che si apre nel faraglione di Mezzo, è quella che identifica in modo inconfondibile i faraglioni capresi, anche grazie alle numerose pellicole cinematografiche qui realizzate. 5. Flora & Fauna L'isola conserva numerose specie animali e vegetali, alcune endemiche e rarissime, come la lucertola azzurra, che vive su uno dei tre Faraglioni. La vegetazione è tipicamente mediterranea, con prevalenza di agavi, fichi d'India e ginestre.

I Giardini di Augusto I giardini di Augusto, inizialmente noti col nome di giardini di Krupp, furono iniziati da Friedrich Alfred Krupp, l'industriale tedesco dell'acciaio che agli inizi del XX secolo acquistò alcune proprietà sull'isola, con l'intenzione , che poi non si realizzò ,di costruirvi una villa. Noti come giardini di Krupp, dopo la prima guerra mondiale,furono rinominati giardini d'Augusto dall'amministrazione comunale, in onore del primo imperatore romano.Costituiscono un vero giardino botanico che ospita vari esemplari della flora dell'isola, con piante ornamentali e non. Alle bellezze botaniche, si associa un panorama molto ampio sulle principali bellezze paesaggistiche dell'isola; da essi, infatti, to si può ottenere una panoramica a 180 gradi dell'isola di Capri: infatti dagli stessi è possibile vedere il monte Solaro, la baia di Marina Piccola, via Krupp ed i celebri faraglioni. Nei giardini è

inoltre presente un monumento in onore di Lenin, vissuto a Capri. Il monumento si compone di diversi blocchi di marmo sovrapposti, che raggiungono un'altezza di 5 metri; sul maggiore di essi è scolpito il volto di Lenin. Il monumento è stato realizzato dallo scultore Giacomo Manzù, cui l'opera fu commissionata dall'ambasciata sovietica a Roma dopo essere stata approvata dal consiglio comunale. La Grotta Verde La grotta Verde, conosciuta anticamente come grotta dei Turchi, è una cavità ubicata nel versante meridionale dell'isola di Capri, in Campania, nota soprattutto per il colore dell'acqua nel suo interno che, a causa di particolari giochi di luce, assume il colore verde. La grotta Verde è conosciuta sin dal XVI secolo, durante il quale l'isola fu ripetutamente sottoposta ad attacchi nemici; sono tristemente noti per aver

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attaccato l'isola, per esempio, il pirata Barbarossa, che distrusse l'omonimo castello. Nel Cinquecento, molto probabilmente, all'interno della cavità si appostavano i corsari nemici con i loro bastimenti per saccheggiare di sorpresa le imbarcazioni che passavano. A causa di questi eventi che ebbero luogo in loco la cavità assunse inizialmente il toponimo di grotta dei Turchi, poi sostituito da quello odierno. La grotta divenne famosa soprattutto a partire dal XIX secolo, durante il quale si diffuse l'abitudine di fare il giro in barca dell'isola. La grotta Verde, insieme alla grotta Azzurra e ai celebri Faraglioni, diventò quindi un'attrazione dell'isola. Degustazioni tipiche dell’Isola Insalata Caprese La caprese è un'insalata usata come antipasto che talvolta può essere servita anche come secondo piatto. Tradizionalmente rientra nei piatti della cucina napoletana ed il nome di questo fresco piatto deriva dall'isola di Capri. È costituita da pomodoro, della varietà detta fiascone originaria della penisola sorrentina e treccia di fiordilatte, tagliate a fette oppure, molto più raramente, in una sorta di insalata a cubetti, inoltre condita con olio, sale e basi-

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lico. E’ un piatto tipico della tradizione mediterranea, apprezzato e molto gustoso è particolarmente adatto durante la stagione estiva in quanto alimento leggero e fresco. I Ravioli I ravioli, ripieni di caciotta e parmigiano e aromatizzati con la maggiorana, sono il piatto tipico caprese per eccellenza. Preparati in tutte le case seguono antiche ricette tramandate da generazioni. Ghiotto primo piatto per adulti e bambini, i ravioli si possono condire con sugo di pomodoro fresco o con bur-

ro fuso e salvia, o friggerli e servirli come antipasto. Totani e Patate Il totano è un mollusco simile al calamaro ma con un gusto più forte, molto


comune nelle cucine capresi. Viene pescato la notte nel mare di Capri, nei mesi estivi infatti non si può fare a meno di notare in lontananza le lampare dei pescatori di totani La Torta Caprese La torta caprese uno dei simboli della cucina isolana. Il nome infatti ne richiama inevitabilmente le radici una torta di cioccolata e mandorle, croccante fuori e morbida dentro, bassa e

shopping, vi è una vasta scelta di negozi di alta moda, Via Camerelle, conosciuta per essere la via locale degli acquisti. Cari Turisti avete bisogno di assoluto relax, la scelta migliore è alloggiare nel famosissimo Hotel Quisisana, comfort e eleganza sono la via giusta per trascorrere una fantastica vacanza in quest’isola da sogno.

Procida Isola nell’Antichità Durante la dominazione romana, Procida divenne sede di ville e di insediamenti sparsi sul territorio; sembra comunque che in questa epoca non esistesse un vero e proprio centro abitato: l'isola fu più probabilmente luogo di villeggiatura dei patrizi romani e di coltura della vite.

molto carica di cioccolato fondente. Divertimento Svago e Tempo Libero Capri è un'isola da vivere anche di notte, quando il mare viene illuminato dalla luce argentea della luna e le strade si animano di colori, luci, musica e danze. Anche di notte il centro della vita mondana è la Piazzetta di Capri, il salotto buono del mondo, dove tutti vogliono sedersi tra i tavolini dei raffinati bar per gustare un aperitivo con gli amici. Antico e moderno si incontrano e le note della classiche canzoni napoletane si mescolano con il ritmo degli esclusivi night club e delle discoteche più trendy come la rinomata “Anema e Core”. Inoltre per gli amanti dello

Medioevo Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'isola subì le devastazioni dei Vandali e dei Goti; non cadde invece mai in mano longobarda, rimanendo sempre sotto la giurisdizione del duca bizantino di Napoli, nel territorio della Contea di Misero. In quest'epoca l'isola cominciava intanto a mutare radicalmente la sua composizione demografica, divenendo luogo di rifugio per le popolazioni in fuga dalle devastazioni dovute all'invasione longobarda prima e, in seguito, alle scorrerie dei pirati 69

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saraceni. Con la conquista normanna del meridione d'Italia, Procida sperimentò anche il dominio feudale; l'isola, con annessa una parte di terraferma (il Monte di Miseno, poi detto Monte di Procida), venne assoggettata alla famiglia di origine salernitana dei Da Procida. Epoca Moderna Con l’avvento dei Borbone nel Regno di Napoli, si aveva intanto un ulteriore miglioramento delle condizioni socioeconomiche dell'isola, dovuto anche all'estinzione della feudalità per opera di Carlo III, che inserì Procida tra i beni allodiali della corona, facendone una sua riserva di caccia. In questo periodo la marineria procidana si avvia verso il suo periodo di massimo splendore, accostando a questa anche una fiorente attività cantieristica. Un po’ di geografia L'isola di Procida ha una superficie di


3,7 km², è un comune italiano di 10.614 abitanti. Il perimetro, estremamente frastagliato, misura circa 16 km ,isola del golfo di Napoli appartenente al gruppo delle isole Flegree. L' isola è completamente di origine vulcanica, nata dalle eruzioni di almeno quattro diversi vulcani. Il Clima Il clima è mite; la temperatura media invernale si mantiene sui 10°, quella estiva intorno ai 25°. L’umidità relativa è piuttosto alta durante tutto l'anno. In generale si può affermare che il clima dell’isola di Procida rispecchia nei suoi aspetti quello di tipo mediterraneo, caratterizzato da aridità estiva, piogge concentrate in autunno-inverno e in pochi temporali con precipitazioni torrenziali, mitezza delle temperature invernali. Turismo L'isola si trova attualmente in un periodo di forti trasformazioni nella sua struttura economica. La marineria, sebbene in forte calo, rimane ancora uno dei maggiori settori di occupazione, con persone di tutte le fasce di età impiegate come ufficiali di coperta o di macchine su navi mercantili delle maggiori compagnie marittime di tutto il mondo, continuatori di una tradizione secolare. Tuttavia negli ultimi anni, la sempre maggiore automazione presente in ambito meccanico, unita ad un sempre maggiore utilizzo di lavoratori di paesi emergenti nell'ambito del trasporto marittimo, ha fatto sì che que-

sta fonte di reddito perdesse importanza relativa nell'isola. Accanto alla marineria, negli ultimi anni si è cercato di favorire lo sviluppo dell'industria turistica, sebbene in questo settore i risultati, pure incoraggianti, siano stati inferiori alle attese, soprattutto se guardati sullo sfondo di vicine mete turistiche quali Ischia, Capri o Sorrento. Ciò sicuramente non per la mancanza di attrattive (in particolare storiche o naturalistiche), ma più probabilmente per l'assenza di una solida tradizione imprenditoriale in tal senso, nonché per la forte carenza di strutture ricettive. Il Porto Sotto la maestosa cittadella della Terra Murata si estende il porto principale di Procida – la Marina Grande detto anche la Marina di Sancio Cattolico (Sent’Co in dialetto) - mostra a prima vista, quando ci si è ancora sul traghetto, i gioielli dell’architettura procidana che il visitatore potrà ammirare poi in numerose variazioni nelle altre Marine e nel centro storico: le case in pastello che si fiancheggiano, il vefio (la tipica 71

loggia), le scale esterne, i terrazzi. La Marina Grande è il centro sociale ed economico di Procida - qui si trovano la maggior parte dei negozietti, sedi di associazioni, ristoranti e bar,ma non ha perso il suo carattere di villaggio da pescatori. Infatti, le imbarcazioni da pesca, piccole e di commercio, fanno da cornice coloratissima per la vivace Via Roma, è qui anche dove si vende ogni pomeriggio il pesce fresco direttamente dalle barche. Le Spiaggie La Spiaggia di Chiaia La Spiaggia della Chiaia, che in dialetto napoletano significa "spiaggia", è situata sulla costa orientale dell'isola di Procida, dopo la Marina della Corricella. Si tratta di una suggestiva spiaggia di sabbia dorata, circondata e sovrastata da pareti di tufo a picco sul mare e dominata dal famoso castello di Procida. Prospicente all'arenile si trova, arrampicato sulle rocce, il borgo marinaro di Corricelle, da cui si scende alla spiaggia grazie ad una lunga scalinata in pietra. Il mare è molto bello, di un azzurro brillante, cristallino e trasparente, con fondali sabbiosi e digradanti, ideale per fare il bagno. Sulla spiag-

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gia affacciano anche le terrazze panoramiche e i giardini dei palazzi signorili lungo la Strada Maestra, che univa la Terra Murata con la Chiaiolella, che oggi fanno da impareggiabile sfondo a questo incontaminato arenile. La Spiaggia di Corricella La Spiaggia di Corricella è situata sulla costa nord orientale dell'isola di Procida, accanto al pittoresco borgo marinaro omonimo, prima marina dell'isola. Si tratta di una suggestiva spiaggetta di sabbia dorata cui si accede tramite una bella rampa di scale scavata nel tufo. Alcune scogliere proteggono il litorale sabbioso, permettendo il preservarsi di questo incantevole angolo da cui si gode di un grande scorcio sul promontorio di Terra Murata. Il mare è molto bello, azzurro, cristallino e trasparente, ideale per fare il bagno e nuotare. Alle spalle della Corricella è possibile individuare un alto costone circolare in tufo, in origine il cratere di un vulcano spentosi in epoca preistorica. La Spiaggia della Chiaiolella La Spiaggia di Chiaiolella è situata sulla costa occidentale dell'isola di Procida, a ridosso dell'antico borgo marinaro


omonimo, oggi terza marina dell'isola nonchè principale centro turistico dell'isola, attrezzato con stabilimenti balneari, hotel, ristoranti ed un incantevole porticciolo turistico. Si tratta di una bellissima spiaggia di sabbia dorata quasi rossiccia, dal grande fascino incontaminato e selvaggio, caratterizzata da un lungo litorale orlato da aspre scogliere rocciose verticali. Di fronte alla riva si innalzano alcuni faraglioni dalle forme acuminate, a rendere il paesaggio ancor più primitivo ed unico. Il mare è molto limpido, cristallino, trasparente e con fondali sabbiosi, ideale per fare il bagno. Parallelo alla spiaggia corre il lungomare Cristoforo Colombo, che offre qualsivoglia struttura turistica e comodità. La Spiaggia del Pozzo Vecchio Piccola ed accogliente, la spiaggia del “Pozzo Vecchio”, una baietta a forma di ferro di cavallo, palcoscenico per le famose scene del film “Il postino” (infatti viene chiamata anche la “spiaggia del postino”). Su tutte le spiagge si alternano tratti liberi con zone completamente attrezzate. Durante la bella stagione si organizzano – sempre nei ritmi lenti dell’isola, chi si aspetta la freneticità di uno stabilimento mondano o animazione non stop sarà deluso – feste e tornei sportivi per i grandi e dei laboratori e corsi nuoto per bambini. Le bellezze culturali L’Abbazia di San Michele Arcangelo L’Abbazia di San Michele, a picco sul

mare, domina il promontorio di Terra Murata. Fu fondata dai benedettini è il frutto di una stratificazione architettonica che ne ha determinato l’asimmetrica struttura attuale. Un portale, tre cappelle e un soffitto a cassettoni in legno e oro zecchino. Al centro del soffitto una tela di Luigi Garzi, San Michele Arcangelo scaccia Lucifero. Nell’Abside una tela raffigurante San Michele che protegge l’isola dai Saraceni. Di grande pregio l’antico battistero in marmo testimonianza di antichi culti, forse pagani. Interessanti le segrete dove ha sede il complesso museale e la biblioteca, le aree di sepoltura e il luogo di riunione delle confraternite dell’isola.

Il Palazzo D’Avalos

difenderla dalle incursioni dei pirati saraceni. Così la Terra Casata divenne Terra murata. Nel 1744 il palazzo divenne bene allodiale della Corona e fu trasformato da Castello in Palazzo Reale da Carlo III di Borbone. Dopo il Palazzo Reale divenne Collegio Militare e fu adibito a Bagno Penale da Ferdinando II. Fu poi modificato per soddisfare esigenze di miglioramento della vita dei carcerati, costruendovi anche un opificio. Nel dopoguerra fu adeguato a carcere di massima sicurezza. E’ stato chiuso definitivamente nel1988. Il Casale Vascello Il borgo Casale Vascello prende il nome dalla tipica costruzione abitativa secentesca. E’ uno degli insediamenti rurali fortificati meglio conservati dell'isola, vi si accede soltanto attraverso stretti passaggi ed è contraddistinto da un agglomerato di case addossate le une alle altre per meglio difendersi dalle incursioni saracene. Le cellule abitative erano aperte verso la corte interna, di solito a tre livelli con coperture a volta dei vani, mentre all'esterno vi erano poche aperture, piccole e poste il alto.

Il castello, voluto da Innico D'Avalos, ha il doppio carattere di palazzo signorile e di fortezza: infatti la facciata rivolta verso il mare conserva la natura principale di fortificazione, mentre il lato a sud, aperto sulla nuova piazza d'armi, risponde ad esigenze di rappresentanza e rivela un aspetto armonioso e composto. Egli fece inoltre costruire intorno alla cittadella mura bastionate per 73

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Terra Murata Il centro storico di Procida, è rappresentato da Terra Murata, antica cittadella medievale arroccata su un ripido costone tufaceo all'altezza di circa 90 m e t r i s u l m a r e . Terra Murata è raggiungibile solo attraverso un'irta salita, percorrendo la quale, è possibile ammirare il suggestivo borgo marinaro di Marina Corricella. Per accedere alla cittadella medievale di Terra Murata - terra cinta di mura vi sono degli antichi portali, rappresentanti gli antichi punti d'ingresso: la porta di Ferro e, salendo e oltrepassando piazza delle Armi, la Porta di M e z z ' O m o . Strade, viottoli caratteristici, abitazioni denotano la vita che un tempo ivi si svolgeva: Terra Murata, infatti, fu il primo nucleo abitativo dell'isola. Degustazioni tipiche dell’Isola I prodotti locali a base di limone Il limone è un agrume originario dell'India settentrionale e, probabilmente, fu introdotto in Italia durante l'epoca delle invasioni arabe (secolo IX-XI). E' un frutto ricco di vitamine e sali minerali ed ha proprietà depurative e b a t t e r i c i d e . Il limone di Procida è molto particolare rispetto agli altri: si presenta molto più g r a n d e e d o l c e . Questo fattore è sicuramente dovuto all'ottimo clima dell'isola ed alla sapiente cura dei contadini. Le caratteristiche del limone procidano rendono possibile la preparazione di diverse pietanze che utilizzano le di-


verse parti del limone. Il limone procidano si presta molto bene alla produzione di deliziose e divertenti idee culinarie Il limoncello, liquore ai limoni di Procida, preparato con le scorse dei limoni infuse nell'alcool, nell'acqua e nello zucchero; La Crema al limone liquore al limone pretarato con latte, alcol e zucchero; Le Granite semplici e fresche bevande, sono preparate con il succo dei limoni di Procida e sono ideali per dissetarsi;

Insalata di Limoni specialità dei ristoranti procidani abbinata al pesce fresco: viene preparata con l'albedo e la polpa dei grossi limoni di Procida, conditi con olio, aglio, peperoncino e foglioline di menta.

Si racconta che questo nome venne dato da un procidano quando vide questo "lunghissimo" dolce: "È lungo come la lingua di mia suocera!" Tutti gli astanti risero divertiti e da allora il nome venne così assegnato: lingue di suocera. Molti pasticcieri si divertono a produrne di diversa lunghezza,a seconda delle richeste dei clienti. La Lingua procidana La lingua di bue è un dolce tipico dell'isola di Procida, nell'arcipelago Campano, situata tra Ischia e i Campi Flegrei. il dolce fu recuperato negli anni 60 dal giornalista Domenico Ambrosino, quando Procida era frequentata da Elsa Morante e Alberto Moravia, che erano soliti assaggiare questa delizia nei bar della Marina Sent'Cò.

e le rocce costiere. La natura dei luoghi ha fatto di lei una location ideale per il film capolavoro di Massimo Troisi “Il Postino“, con Philippe Noiret nei panni del poeta Pablo Neruda. Ma Procida è ricordata anche in ambito letterario per avere dato i natali ad Arturo Gerace, protagonista de L’isola di Arturo, romanzo con cui di Elsa Morante vinse il Premio Strega nel 1957. Procida è collegata alla vicina isola di Vivara, un isolotto disabitato il cui territorio è ricoperta completamente da macchia mediterranea, grazie ad un sottile ponte.

Divertimento Svago e Tempo Libero Procida è un’isola di pescatori, un luogo tranquillo lontano dal frastuono del turismo di massa, l’ideale per una vacanza all’insegna del benessere. Occorre trascorrere qualche giorno in loco per apprezzare le bellezze di questa terra, per ammirare le meravigliose case policrome, la ricca vegetazione, l’architettura mediterranea spontanea

La “Lingua di Suocera” Perché il tipico dolce procidano è chiamato Lingua di Suocera? 75

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Le chiese e le guglie Napoli è la città più ricca al mondo di chiese, conventi ed edifici di culto. Stiamo parlando di un patrimonio immenso accumulato nel corso di 17 secoli, un patrimonio che nel XVIII secolo valse al capoluogo campano l’appellativo di “città dalle 500 cupole”. Visitare tutte le chiese della città vi sarà praticamente impossibile, ma sappiate che ve ne sono alcune che non potete assolutamente lasciarvi sfuggire. Eccone un elenco di alcune delle più belle strutture religiose presenti nel capoluogo partenopeo , recensite e catalogate secondo la loro posizione geografica:

attraverso il quale passava l'acqua proveniente dalla sorgente della Bolla. La chiesa fu fondata dalle famiglie Zurlo e Aprano. Nel 1451 la struttura ospitò i frati dell'ordine dei Celestini (fondato da Celestino V). L'edificio di culto è una delle più importanti chiese napoletane del rinascimento. I lavori, iniziati nel 1505 su progetto dell'architetto Romolo Balsimelli, di Settignano, presentano influenze stilistiche toscane legate alle esperienze di Brunelleschi e di Giuliano da Sangallo. Il portale del secolo XVII è opera di Francesco Antonio Picchiatti. Dal 1514 è il grande chiostro realizzato da Fiorentino Della Cava. Ulteriori interventi Chiesa di Santa Caterina a furono realizzati in seguito secondo il Formiello gusto barocco classicheggiante. Il nome deriva dalla vicinanza degli La volta, a botte, presenta tre riquadri antichi "formali d'acqua"; l'acquedotto in cui sono raffigurati episodi della vita di Santa Caterina, di mano di Luigi Garzi che realizzò anche i peducci della cupola terminata poi da Paolo De Matt e i s n e l 1 7 1 2 . La volta e le lunette del transetto furono affrescate dal fiammingo Guglielmo Borremans tra il 1708 ed il 1709 e raffigurano San Domenico e la Vergine che placano l'ira del Redentore. Ai lati figurano la Madonna che appare a San Gio77

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vanni Evangelista e San Domenico che allontana gli infedeli. Il sottostante Cappellone a destra dell'altare è dedicato alla Vergine del Rosario alla quale si attribuì la vittoria della battaglia navale di Lepanto del 1571. L'altro Cappellone è dedicato a San Domenico. La volta dell'abside presenta il trionfo di Giuditta del Borremans. Sull'acquasantiera, il tondo in altorilievo, raffigurante la Vergine con il Bambino è attribuita ad un allievo di Annibale Caccavello (1540 circa). Le Cappelle furono decorate, nel Settecento, dal marmoraro Francesco Anton i o G a n d o l f i . Alle pareti si ammirano tele di Paolo De Matteis, Santolo Cirillo, Paolo Tenaglia, Giacomo Del Po e Luigi Garzi. Lo spazio della crociera e del presbiterio è caratterizzato da lapidi e sepolcri della famiglia Spinelli, eseguiti, nell'ultimo quarto del Cinquecento, dagli scultori napoletani Giovan Domenico e Girolamo D'Auria, Annibale e Salvatore Caccavello e dal lombardo Silla Longo. Gli stalli lignei del coro, intagliati con ricchi ornamenti manieristici, sono del bresciano Benvenuto Tortelli (1566). Sotto l'altare della quinta Cappella a sinistra sono conservate le reliquie dei

beati martiri d'Otranto massacrati dai turchi nel 1489. Basilica santuario di Santa Maria del Carmine maggiore La basilica santuario del Carmine Maggiore è una delle più grandi basiliche di Napoli. Risalente al XIII secolo, è oggi un esempio unico del Barocco napoletano; si erge in piazza Carmine a Napoli, in quella che un tempo formava un tutt'uno con la piazza del Mercato, teatro dei più importanti avvenimenti della storia napoletana. Il popolo napoletano ha l'abitudine di usare l'esclamazione "Mamma d'o Carmene", proprio per indicare lo stretto legame con la Madonna Bruna. La tradizione racconta che alcuni monaci, fuggendo la persecuzione dei saraceni in Palestina, venendo in Napoli, portarono un'immagine della Madonna da essi venerata sul monte Carmelo, culla del loro ordine. Vi era in Napoli, presso la marina fuori la città, una piccola cappella dedicata a san Nicola che fu concessa ai monaci, che da allora vi si insediarono e collocarono l'immagine della Madonna in un luogo detto "la grotticella".

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Ma il primo documento storico della presenza dei carmelitani a Napoli si ha nel 1268, quando i cronisti del tempo descrivono il luogo del supplizio diCorradino di Svevia nella piazza antistante la chiesa di Santa Maria del Carmine. In realtà, l'Icona della Vergine Bruna (per il colore della pelle) sembra opera di scuola toscana del XIII secolo. È una tavola rettangolare, alta un metro e larga 80 centimetri. L'immagine è del tipo detto "della tenerezza", in cui i volti della Madre e del Figlio sono accostati in espressione di dolce intimità (modello bizantino della Madonna Glykophilousa). Come in ogni icona ne possiamo leggere un messaggio: Il miracolo del crocifisso è legato alla lotta, nel secolo XV, tra gli Angioini e gli Aragonesi, per il dominio di Napoli. Già dominava in Napoli Renato d'Angiò, il quale aveva collocato le sue artiglierie sul campanile del Carmine, trasformandolo in vera fortezza, quan-

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do Alfonso V d'Aragona assediò la città, ponendo l'accampamento sulle rive del Sebeto, nelle vicinanze dell'attuale borgo Loreto. Secondo la tradizione il 17 ottobre 1439, l'infante Pietro di Castiglia fece dar fuoco a una grossa Bombarda detta la Messinese, la cui grossissima palla, (ancora conservata nella cripta della chiesa), sfondò l'abside della chiesa e andò in direzione del capo del crocifisso che, per evitare il colpo, abbassò la testa sulla spalla destra, senza subire alcuna frattura. Il giorno seguente, mentre l'infante Pietro dava di nuovo ordine di azionare la Messinese, un colpo partito dal campanile, dalla bombarda chiamata la Pazza, gli troncò il capo. Re Alfonso tolse allora l'assedio, ma quando, ritornato all'assalto nel 1442, il 2 giugno entrò trionfalmente in città, il suo primo pensiero fu di recarsi al Carmine per venerare il crocifisso e, per riparare l'atto insano del defunto fratello, fece costruire un sontuoso tabernacolo. Questo però, compiuto dopo la morte del re, accolse la miracolosa immagine il 26 dicembre del 1459. Da allora, l'immagine viene svelata il 26 dicembre di ogni anno e resta visibile al gran concorso di fedeli per otto giorni, fino al 2 gennaio. La stessa cerimonia si ripete nel primo sabato di quaresima per ricordare l'avvenimento del 1676, in cui Napoli fu risparmiata da una terribile tempesta, sedata secondo la leggenda popolare dall'intercessione del crocifisso svelato in via eccezionale per l'occasione nefasta.


Nel 1766 fu alquanto modificato e innalzato così come ancora oggi lo si ammira. Nel 1500 in occasione dell'Anno Santo la confraternita dei Cuoiai portò a Roma in processione il crocifisso (che si trova ancora nel transetto laterale) e la Madonna Bruna. Numerosi miracoli si verificarono nel corso del pellegrinaggio; l'immagine rimase per tre giorni nella basilica di San Pietro in Vaticano, durante i quali, sparsasi la fama dei suoi prodigi in Roma, tutti i fedeli furono attirati ad essa, tanto che il papa Alessandro VI, temendo che il fervore dei fedeli si attenuasse nella visita delle basiliche, ne ordinò il rientro a Napoli. L'icona della Madonna che prima del pellegrinaggio era in un luogo detto "la grotticella" fu spostata sull'altare maggiore e successivamente posta in una cona di marmo, con figure di profeti, opera attribuita ai fratelli Malvito

che operarono a Napoli tra il 1498 ed il 1524. Dopo eventi così sorprendenti, Federico d'Aragona, il quale reggeva la città di Napoli, ordinò che per il 24 giugno, giorno di mercoledì, tutti i malati del regno si portassero al Carmine per implorare dal cielo, la sospirata salute. Infatti, nel giorno stabilito, alla presenza dei sovrani e del popolo, durante la consacrazione, un raggio di vivissima luce si posava contemporaneamente sull'Icona della Bruna e sopra gli infermi, i quali in un istante furono guariti o videro alleviati i loro mali. Da allora si scelse il mercoledì come giorno da dedicare tutto alla Madonna Bruna, e ancora oggi, dopo 500 anni, numerosi fedeli vengono in pellegrinaggio da ogni parte della città e della provincia, per deporre ai piedi della Mamma d'o Carmene un fiore, una preghiera, un ringraziamento. Filippo IV di Spagna, mandò come viceré a Napoli il Duca d'Arcos, il quale volendo trarre sempre più somme di denaro per la Spagna, imponeva alla città tra le altre gabelle, quella sulla frutta. Il 7 luglio 1647, mentre si preparavano i festeggiamenti per la Madonna del Carmine, il popolo napoletano, capeggiato da Masaniello (che a sua volta era politicamente manovrato da Don Giulio Genoino), insorse contro il viceré chiedendo l'abolizione delle gabelle, incendiando case, facendo vittime e distruggendo ogni cosa che appartenesse ai nobili, nemici del popolo. Gl i sto ri ci del l' Ottocen-

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to dipingono questa rivoluzione come antispagnola e antimonarchica, ma studi recenti ne dimostrano l'incongruenza, a partire dal grido con cui fu sollevato il popolo: «Viva il re di Spagna, mora il malgoverno». Intanto la chiesa e il convento divennero luogo di comizi popolari, per cui si stipulavano negoziati tra popolo e viceré. Giovedì 11 luglio, Masaniello cavalcò con il Cardinale Filomarino ed il nuovo eletto del popolo Francesco Antonio Arpaia, tra le acclamazioni ed i festeggiamenti dei popolani fino a Palazzo Reale, per incontrare il viceré. Alla presenza del duca d'Arcos, a causa di un improvviso malore, perse i sensi e svenne iniziando a manifestare i primi sintomi di quell'instabilità mentale che gli procurò poi l'accusa di pazzia. Durante l'incontro, dopo un infruttuoso tentativo di corruzione, il pescatore fu nominato "capitano generale del fedelissimo popolo napoletano". Il 16 luglio, giorno della festa della Madonna del Carmine, dalla finestra di casa sua, cercò inutilmente di difendersi dalle accuse di pazzia e tradimento che provenivano dalla strada. Sentendosi braccato cercò rifugio nella chiesa del Carmine, e qui, interrompendo la celebrazione della messa, si spogliò nudo e iniziò il suo ultimo discorso al popolo napoletano. I frati lo invitarono a porre fine a quel gesto poco edificante, ed egli obbedì, mettendosi a passeggiare nel corridoio principale del convento. Là lo raggiunsero alcune persone armate, che prima gli tirarono quattro colpi di archibugio, 82

togliendogli la vita, e poi lo decapitarono. La testa mostrata al viceré fu portata in giro per la città mentre il corpo fu buttato in un fosso fuori la porta del Carmine. Non erano passate ventiquattr'ore che subito si videro i frutti dell'uccisione di Masaniello: il peso del pane diminuito e le gabelle rimesse in vigore. Il popolo si rese subito conto dell'errore e così ne raccolse il cadavere lavandolo nelle acque del Sebeto, la testa fu ricongiunta al corpo e subito portato in processione, il corpo fu sepolto all'interno della chiesa del Carmine. Alle tre del mattino, finita la processione, fu data sepoltura al feretro nella chiesa del Carmine, dove i resti di Masaniello rimasero fino al 1799. In quell'anno, dopo aver represso la congiura giacobina per la Repubblica Napoletana, Ferdinando IV di Borbone ne ordinò la rimozione al fine di evitarne l'idolatria popolare. Fino agli anni sessanta del secolo scor-


so, nemmeno una parola ricordava i luoghi che videro l'uccisione e la sepoltura di Masaniello: fu così che i carmelitani decisero di tramandare ai posteri il ricordo di quegli eventi con due lapidi, una nel convento dei frati, l'altra in chiesa nel luogo della sepoltura. Duomo di Napoli La Cattedrale di Napoli (o Duomo di Napoli), dedicata a Santa Maria Assunta, è la sede dell'arcidiocesi di Napoli, nonché una delle più importanti e grandi chiese della città. Il Duomo sorge lungo il lato est della via omonima, in una piazzetta contornata da portici. Essa ospita il battistero più antico d'Occidente (il battistero di San Giovanni in Fonte[1]) e tre volte l'anno accoglie il rito dello scioglimento del sangue di san Gennaro. Secondo la Cronaca di Partenope, risalente al XIV secolo, qui sorse l'oratorio di Santa Maria del Principio, dove Aspreno, il primo vescovo della città, decise di insediare l'episcopato di Napoli. A partire dal IV secolo nacquero diversi edifici di culto nell'insula episcopale e tra queste si ricordano la basilica di Santa Restituta, il battistero di San Giovanni in Fonte e diverse cappelle annesse come quelle di San Lorenzo, Sant'Andrea e Santo Stefano. Nel XIII secolo fu iniziata la costruzione dell'edificio sacro inglobando le precedenti strutture paleocristiane del battistero e della primitiva basilica. La costruzione della cattedrale comportò

anche la demolizione di altre strutture, come la basilica Stefania, voluta dall'arcivescovo Stefano I (fine del V secolo - inizi del VI) e rimaneggiata dopo un incendio dall'arcivescovo Stefano II (seconda metà dell'VIII secolo), il cui quadriportico è visibile nel Palazzo arcivescovile. La struttura era stata decorata con mosaici e panni dipinti, collocati negli intercolumini delle navate dall'arcivescovo Attanasio I (849-872). Per la progettazione e la costruzione della nuova chiesa, per volontà del re Carlo II di Napoli e d'intesa con l'arcivescovo Giacomo da Viterbo, che aveva sollecitato al sovrano tale opera, vennero chiamati architetti di estrazione francese. La seconda parte del cantiere fu eseguita da maestranze locali o italiane: le fonti indicano Masuccio I, Giovanni Pisano e Nicola Pisano. La cattedrale fu completata nel 1313 e nel 1314 fu solennemente dedicata all’Assunta, ad opera dell’allora arcivescovo Umberto d’Ormonte. Durante il terremoto del 1349 crollarono

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il campanilee la facciata, che venne ricostruita agli inizi del XV secolo in stile gotico. A metà del secolo, un altro terremoto danneggiò gravemente la cattedrale, facendo crollare alcune parti della navata, che in seguito fu però ricostruita. Tra il 1497 e il 1508 fu realizzata come cripta la cappella del Succorpo, con decorazioni di Tommaso Malvito. In seguito al voto fatto dai partenopei al santo durante la pestilenza del 1526, Francesco Grimaldi innalzò, di fronte alla basilica di Santa Restituta, la Reale cappella del tesoro di San Gennaro. Nel 1621 il tetto a c a p r i at e ve nn e c o pe r t o d a un cassettonato in legno. Il 28 aprile 1644 la dedica all'Assunta fu confermata nella consacrazione della chiesa avvenuta ad opera del Cardinale Ascanio Filomarino, arcivescovo dell'epoca. Nel 1688 e nel 1732 furono ricostruite le parti più danneggiate dai terremoti e nella seconda metà delSeicento, si ebbero gli interventi barocchi nelle cappelle, arricchite da decorazioni marmoree e in stucco. Nel 1732 vennero ricostruiti l'abside e i transetti. Nel 1788, un ulteriore restauro apportò modifiche alla navata, trasformata secondo un revival gotico con influssi settecenteschi. Per esigenze estetiche fu quindi bandito un concorso per la facciata, che fu innalzata nell'Ottocento in stile neogotico da Errico Alvino. Durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti alleati danneggiarono le strutture e pertanto, tra il 1969 e 84

il 1972, vennero effettuati restauri e consolidamenti strutturali all'intero edificio. Durante i lavori vennero portati alla luce resti archeologici romani, greci e alto-medievali oggi opportunamente fruibili e con reperti raccolti e organizzati. Uno dei più recenti restauri è stato apportato alla cappella del Succorpo e ha permesso il recupero del cassettonato marmoreo del Cinquecento. La facciata della cattedrale fu ricostruita più volte nel corso dei secoli: quella attuale fu rifatta in stile neogotico da Errico Alvino alla fine dell'Ottocento ed inaugurata solo nel 1905. Il progetto dell'Alvino è peraltro incompleto in quanto mancano le torri campanarie ai lati del corpo centrale della struttura, i cui lavori furono interrotti all'altezza del basamento. Al decoro della facciata, che aveva il compito di raccordare le preesistenti strutture gotiche dei portali, furono chiamati importanti scultori del panorama artistico di fine XIX secolo: Salvatore Cepparulo, Domenico Jollo, Alberto Ferrer, Giuseppe Lettieri, Raffaele Belliazzi, Salvatore Irdi,Michele Busciolano, Stanislao Li-


sta e Tommaso Solari. Ai lati del finestrone centrale ci sono sculture di Francesco Jerace e Domenico Pellegrino. Nel progetto di Alvino fu previsto l'inserimento delle opere di Tino di Camaino per ornare il portale principale sostenuto da leoni stilofori consumati dal tempo. I portali laterali, risalenti al principio del XV secolo, in stile gotico internazionale erano stati eseguiti dallo scultore Antonio Baboccio da Piperno. La facciata fu danneggiata durante la seconda guerra mondiale e restaurata nel 1951, ma un restauro integrale fu eseguito nel 1999; nell'occasione l'architetto Atanasio Pizzi ha realizzato il rilievo della facciata principale, del cassettonato ligneo, della navata centrale e del transetto in scala 1/1. Presenta una struttura a salienti, con ai due lati i basamenti delle due torri campanarie, mai realizzate. In corrispondenza di ognuna delle tre navate si trovano i tre portali gotici e le tre cuspidi, ornate da sculture in marmo; in quella centrale, entro un rosone cieco, si trova lastatua del Cristo Benedicente. Nella facciata si aprono cinque finestre, anch'esse in stile gotico: due bifore nei due basamenti dei campanili, due trifore, una per ognuna delle due navate laterali, e la quadrifora della navata centrale. Dei tre portali, per tradizione, quello di destra viene aperto solo in occasioni particolari, come durante le festività per san Gennaro oppure un matrimonio di un membro della famiglia Capece Minutolo.

L'interno, con pianta a croce latina, è costituito da un'aula suddivisa in tre navate con cappelle laterali; le tre navate sono separate da una sequenza di otto pilastri per lato, in cui sono incorporati fusti di antiche colonne romane, sulle quali poggiano gli archi ogivali, decorati a stucco e marmo.

Chiesa di San Lorenzo Maggiore Il complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore, il cui accesso principale è in pieno centro storico (piazza San Gaetano), rappresenta un incredibile esempio di stratificazione di testimonianze architettoniche di epoche diverse: greca, romana e medievale. Nell'area del foro, che rappresentava il cuore dell'antica città greco-romana, tra il Decumano maggiore e il Decumano inferiore, fu edificata dapprima una chiesa paleocristiana (VI secolo d.C.),

abbattuta nel XII secolo, e successivamente l'attuale basilica, realizzata per volontà di Carlo I d'Angiò a partire dal 1270. La chiesa, caratterizzata da una struttura a navata unica e croce latina, fu eretta ad opera dei Francescani, inizialmente con l'utilizzo di architetti e maestranze francesi, poi sostituiti da maestranze locali; tra il XVII e il XVIII secolo, fu poi interessata da un radicale rinnovamento in stile barocco. Il restauro effettuato tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento ha cancellato la forte connotazione barocca, eccezion fatta per la facciata settecentesca del Sanfelice. Nella chiesa, Boccaccio incontrò la sua Fiammetta, mentre nell'attiguo convento -che ospitava nel '300 le riunioni del parlamento del regno- soggiornò anche Petrarca. Al disotto della Chiesa, del convento e del chiostro, sono oggi visitabili in ipogeo gli ambienti riscoperti grazie al lavoro degli archeologi: accedendo all'area, ci si immette in un cardine

romano (cioè una strada ortogonale ai decumani), largo tre metri e lungo circa sessanta, su cui si affacciano numerose botteghe: un forno, una lavanderia, osterie, negozi e l'Aerarium, dove erano conservate le finanze cittadine provenienti dalle tasse. Al termine della strada, si incontra invece uno dei quattro lati di un criptoportico, costituito da ambienti intercomunicanti, con volta a botte e lucernari per l'ingresso dell'aria e della luce solare. Gli ambienti erano botteghe del mercato romano (macellum), sui cui banchi di pietra erano commercializzate cibarie e merce di vario genere. Al termine del criptoportico, è inoltre conservata una vasca di età greca, testimonianza dell'ulteriore livello di stratificazione presente, e dell'incredibile numero di storie che questo luogo p u ò r a c c o n t a r e . Alla fine del V secolo d.C., l'area fu invasa e ricoperta da una colata di fango di origine alluvionale, per cui fu abbandonata, e costituì la base per la costruzione della basilica paleocristiana. Risalendo ai livelli superiori, nei locali del convento si trova il Museo dell'Opera di San Lorenzo Maggiore, che ospita i reperti archeologici del sito, una raccolta di oggetti, abiti, e arredi dell'epoca angioina ed una collezione di pastori settecenteschi della tradizione presepiale napoletana. Chiesa di San Gregorio Armeno La chiesa di San Gregorio Armeno o San Biagio Maggiore, con il relativo com-

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plesso conventuale, è ubicata nell'omonima strada del centro storico di Napoli (si veda la foto a lato), resa caratteristica dalle famose botteghe di pastori e artigianato sacro. È anche conosciuta volgarmente con il nome di chiesa di santa Patrizia. Sorge sull'omonima via, l'antica Strada Nostriana che prende il nome dal vescovo Nostriano che nel V secolo fondò il primo ospedale per i poveri ammalati. La chiesa sarebbe stata edificata sulle rovine del tempio di Cerere attorno al 930, nel luogo che secondo la leggenda avrebbe ospitato il monastero fondato da Sant'Elena Imperatrice, madre dell'imperatore Costantino. Altra leggenda vuole la presenza nel luogo di un monastero di monache basiliane, seguaci di santa Patrizia che vi si sarebbero stabilite dopo la morte della santa, conservando le reliquie di san Gregorio Armeno (che fu patriarca di Armenia dal 257 al 331). Nel 1009, in epoca normanna, il monastero fu unificato a a quello dedicato a San Pantaleone, assumendo la regola benedettina. Dopo il Concilio di Trento, a partire dal 1572, il complesso subì un profondo rifacimento ad opera di Giovanni Vincenzo Della Monica e Giovan Battista Cavagna, con la chiesa collocata al centro del convento. Ulteriori rifacimenti ad opera di Dionisio Lazzari furono del 1682. Il miracolo di Santa Patrizia Dal 1864 le spoglie della Santa furono traslate nella chiesa, a suggello della

devozione dei napoletani per la vergine, di sc ende nte de ll' i mpe rat ore Costantino che nel IV secolo naufragò sulle coste della città, prendendo alloggio nell'antico convento basiliano, dove sarebbe morta il 13 agosto del 365. Nella quinta cappella a destra della navata, vi sono le reliquie della Santa, contenute in un pregevole reliquiario in oro e argento. Le doti miracolose di Santa Patrizia, già note nel secolo XII, per il trasudamento della manna che sarebbe avvenuto dalle pareti sepolcrali che custodivano il corpo della Santa, ed in seguito per la liquefazione del sangue, hanno trovato a Napoli nei secoli ed ancora oggi, eco minore rispetto a quelle del più celebre patrono della città San Gennaro. Tuttavia, capitando di imbattersi per caso nella chiesa, un martedì mattina, si può assistere, in un'atmosfera di rarefatto misticismo, al prodigio che avverrebbe in seguito alle impetrazioni delle monache. Il prodigio, a differenza di quello di San

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Gennaro, avrebbe avuto luogo negli anni in modi e tempi diversi, ma secondo la tradizione, i martedì e il giorno della festa di Santa Patrizia, il 25 agosto. Nella chiesa avverrebbero o sarebbero avvenute anche altre liquefazioni di santi celebri: San Giovanni Battista (il 29 agosto e talvolta il 24 giugno) e San Pantaleone (l'ultimo sarebbe avvenuto il 27 giugno del 1950). La facciata, seppur leggermente sproporzionata, presenta quattro lesene toscane che le conferiscono armonia di forma e struttura, con tre finestroni in arcate in un primo tempo sormontate da un timpano e successivamente da un terzo ordine architettonico. L'atrio, severo e scuro, regge il piano del coro con quattro pilastri e le relative piccole volte ad essi collegati. Il portale principale presenta dei bellissimi battenti disegnati con originali linee di ispirazione classica ed eseguiti nel 1792. In ciascuno degli scomparti dei tre battenti figurano rispettivamente, intagliati a rilievo, San Lorenzo, Santo Stefano e gli Evangelisti. Superando l'atrio, si notano ai lati della porta le iscrizioni che ricordano l'anno d i c o n s a c r a z i on e de l l a c h i e s a nel 1579 e la dedicazione al santo armeno. In una terza lapide è menzionata la visita di Pio IX del 1849. L'interno presenta una navata unica, con quattro cappelle laterali e cinque arcate per ciascun lato, che termina con un'abside a pianta rettangolare, s o r m o n t a t a d a 88

una semicupola decorata con La gloria di San Gregorio di Luca Giordano. Di straordinaria fattura è il soffitto a cassettoni, realizzato nel 1580 dal pittore fiammingo Teodoro d'Errico su commissione della badessa del convento Beatrice Carafa, i cui scomparti con intagli dorati allocano tavole con la raffigurazione della vita dei santi le cui reliquie sono custodite nel complesso conventuale. Nelle quattro cappelle laterali destre vi s o n o , t r a l ' a l tro, L'Annunciazione di Pacecco De Rosa, laVergine del Rosario di Nicola Malinconico e notevoli affreschi di Francesco Di Maria. Sul lato sinistro si può ammirare invece un superbo San Benedetto attribuito allo Spagnoletto. L'altare maggiore, appoggiato alla parete fondale dell'abside, è opera di Dionisio Lazzari; l'ancona, ospitante l'Ascensione di Giovan Bernardo Lama, è sormontata da una grata che costituisce l'affaccio del Cappellone, o Coro dell'abside, sulla chiesa.


S u l la s i n is tr a d e l pr es b i te r io , il comunichino del 1610: da qui la badessa del convento soleva ascoltare la messa e consentiva alle monache di ricevere la comunione. L'ambiente interno conserva ancora oggi la Scala santa che, fino al secolo scorso le monache erano obbligate a salire in ginocchio tutti i venerdì del mese di marzo come forma di penitenza. Uscendo dalla chiesa, dal lato dell'omonima via resa caratteristica per le botteghe di pastori e sormontata dal cavalcavia di connessione tra i due conventi poi trasformato incampanile, si accede al chiostro ed al convento, opera dell'architetto Giovanni Vincenzo Della Monica. Il complesso, importante anche per la presenza di un ricco archivio, presenta un chiostro, tra i più belli e suggestivi della città, nel quale si affacciano gli alloggi a terrazza delle monache (le Suore Crocifisse o di Santa Patrizia, che ivi attendono alla confezione delle ostie ed alla preparazione del vino bianco per la messa). Al centro, una grande fontana marmorea barocca, affiancata da due statue settecentesche che raffigurano Cristo e la Samaritana (opera di Matteo Bottiglieri).

Il tempio dei Dioscuri (I secolo d.C.) è l'area sulla quale insiste la chiesa. Il suo fronte, con sei colonne e timpano triangolare completo di sculture, rimase in piedi sino al 1688, quando crollò a causa di un terremoto. La prima chiesa dedicata a san Paolo in quell'area venne eretta tra l'VIII e il IX secolo per celebrare la vittoria riportata dai napoletani sui Saraceni, alle spalle del pronao del tempio pagano. Nel 1538 vi si insediarono i chierici regolari teatini, che solo molti anni, nei primi anni ottanta del Cinquecento, avviarono una vasta campagna di ricostruzione, affidata al progettista Francesco Grimaldi. Intorno alla prima metà del Cinquecento, la chiesa incontrò Andrea Avellino il quale entrò in San Paolo come postulante. Nel 1567, padre don Andrea Avellino venne nominato preposito di San Paolo Maggiore e ricoprì questo ruolo nei successivi dieci anni. Nel maggio del 1585, dopo i tumulti scoppiati a Napoli a seguito dell'uccisione del capo popolo G.B. Starace da parte

Basilica di San Paolo Maggiore La basilica fu costruita sui resti del tempio dei Dioscuri di cui restano due colonne di ordine corinzio con i relativi architravi che caratterizzano la facciata principale. 89

della folla inferocita, il santo si operò come mediatore e mise a disposizione dei bisognosi le risorse del suo ordine. Oggi, le spoglie del santo sono presenti all'interno della basilica. Nel corso del Seicento vi furono importanti lavori di decorazione e abbellimento. Nel 1642 Massimo Stanzione affrescò il soffitto della navata centrale. Nel 1671 Dionisio Lazzari, in occasione delle celebrazioni per la canonizzazione di Gaetano Thiene, realizzò una volta in muratura che collegava la facciata della chiesa e le colonne del vecchio tempio pagano. Fu probabilmente a causa dell'intervento operato da Lazzari che la struttura antica, notevolmente appesantita, non resistette al terremoto del 1688. Nel Settecento i lavori di abbellimento proseguirono, soprattutto a opera di Domenico Antonio Vaccaro e Francesco Solimena, che riutilizzarono i marmi antichi crollati col terremoto, rilavorandoli e mettendoli in opera all'interno, per rivestire il pavimento e le paraste della navata centrale. Ulteriori lavori vennero intrapresi da Giuseppe Astarita verso gli anni settanta del Settecento, in occasione della proclamazione a beato di Paolo Burali d'Arezzo La prima parte ad essere edificata fu il grande transetto con la profondaabside poligonale. Dopo una interruzione, i lavori ripresero sotto la guida di Giovan Battista Cavagna, responsabile della costruzione della navatacentrale. A partire dal 1625 vennero costruite le navate laterali, ad opera di Giovan 90

Giacomo di Conforto La basilica presenta una facciata progettata da Arcangelo Guglielmelli, che riuscì ad inglobare nel nuovo progetto le uniche due colonne corinzie, risalenti all'antico tempio dei Dioscuri, rimaste in piedi a seguito del terremoto del 1688. Le stesse vengono così lasciate ai lati dell'ingresso principale. Ancora più ai margini della facciata principale, vi sono collocate due nicchie con statue raffiguranti i santi Pietro e Paolo. Nel 1943 nel corso di un bombardamento aereo degli alleati, la chiesa venne gravemente danneggiata. Nel 1962, durante i lavori di ristrutturazione, furono rinvenuti resti del primitivo tempio e anche un cimitero, oggi visitabili tramite l'accesso da una porta posta sotto le scalinate principali della basilica. La basilica incorpora inoltre altri due edifici religiosi di modeste dimensioni. Uno, il santuario di San Gaetano Thiene, vede l'ingresso posto sulla base


destra della scalinata principale, accessibile direttamente da piazza San Gaetano. L'altro, la chiesa del Santissimo Crocifisso detta la Sciabica, vede l'ingresso posto direttamente sotto la base dell'antico tempio romano. Sul lato destro destro del complesso (rispetto a chi guarda frontalmente la facciata), vi è un accesso laterale tramite una scalinata collegata ad una porta che conduce subito dopo la seconda cappella della navata di destra della chiesa. La pianta è a croce latina, a tre navate: la navata centrale e il transetto hanno una copertura ribassata a padiglione, mentre le navate minori sono voltate con una successione di cupolette ellittiche. Il soffitto della navata centrale, gravemente danneggiato dai bombardamenti dellaseconda guerra mondiale, conserva resti degli affreschi di Massimo Stanzione raffiguranti le Storie dei santi Pietro e Paolo, di San Gaetano e La Vittoria dei napoletani sui Saraceni, tutti eseguiti tra il1643-44. Nella navata centrale è esposta la statua dell'Angelo custode, opera di Domenico Antonio Vaccaro, scolpita nel 1724 per la cappella omonima (la terza della navata sinistra), ricostruita in quegli anni su progetto di Francesco Solimena, e sostituita nel XIX secolo con una statua di Cristo. Il soffitto del transetto e dell'abside sono andati interamente perduti (esclusi alcuni stucchi dell'abside). La storiografia ufficiale racconta che essi erano caratterizzati da affreschi sul-

la Vita ePassione di Cristo, sui Santi Apostoli, sui Santi protettori della città e sui Dottori della chiesa greca e della chiesa latina, ciclo interamente eseguito da Belisario Corenzio. Le navate laterali sono costituite da sette cappelle l'una, alle quali si alternano altre piccole cappelle contenenti cicli di affreschi, stucchi, sculture, storici presepi o lapidi marmorei. Delle sette cappelle, tre sono poste nel transetto, e di queste tre, due sono poste ai lati dell'abside. Su progetto di Francesco Solimena, dopo la seconda cappella della navata di destra, si accede al succorpo, dedicato a San Gaetano. Merita citazione il pregevole pavimento maiolicato, opera del1724 di Donato Massa. L'altare maggiore, infine, è stato realizzato nel 1775-6 dal marmoraro Antonio di Lucca su disegno di Ferdinando Fuga, mentre sulla controfacciata vi è un affresco di Giovanni Battista Natali.

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Chiesa di San Pietro a Majella La chiesa di San Pietro a Majella è una chiesa gotica di Napoli, situata nel centro antico della città, adiacente all'omonimo conservatorio musicale. La chiesa fu costruita alla fine del Duecento sul luogo dove sorgevano due monasteri femminili, intitolati a sant'Eufemia e asant'Agata, ad opera dell'architetto Pipino da Barletta, per volere del re Carlo II d'Angiò. Fu dedicata, sotto la tutela dell'ordine dei Celestini, al santo pontefice Celestino V, al secolo Pietro Angeleri da Morrone, e fu comunemente detta di "San Pietro a Majella", in ricordo del romitaggio del santo sulla Maiella. Nel corso del XIV secolo interventi sulla chiesa vennero decisi dal re Roberto d'Angiò e da Andrea di Ungheria. Un radicale restauro, voluto dal re Alfonso I e terminato nel 1508, spostò in avanti la facciata, originariamente allineata col campanile. Nel XVI secolol'interno ricevette una decorazione barocca in

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stucco e marmo, il presbiterio venne rialzato e si sostituì il vecchio soffitto a capriate. L'ordine dei Celestini fu cacciato nel corso della Repubblica di Napoli del 1799. I restauri novecenteschi, terminati nel 1933 rimossero le decorazioni barocche per restituire alla chiesa l'originario aspetto gotico. Alla riapertura il culto venne affidato all'ordine dei Servi di Maria. L'interno si presenta a tre navate, separate da pilastri sorreggenti archi gotici, con nove cappelle laterali, più quattro ai lati del presbiterio, e dal transetto. Sulla controfacciata è visibile un notevole Crocifisso ligneo seicentesco, di autore ignoto. La tomba di Pipino da Barletta, architetto della chiesa, è posta sulla parete di fondo ed è databile attorno alla prima metà del XIV secolo, opera di Giovanni Barrile, mentre i monumenti sepolcrali di alcuni membri della


famiglia Petra sono opera dello scultore napoletanoLorenzo Vaccaro. Nell'abside è collocato il seicentesco altare maggiore, realizzato da Cosimo Fanzago e Pietro e Bartolomeo Ghetti, è decorato con candelieri e grandi vasi in argento e preceduto da un balaustra rivestita di marmi colorati. Si innalza su di esso un quattrocentesco crocefisso ligneo, mentre alle spalle vi sono affreschi del Seicento ed opere scultoree del Cinquecento. I soffitti della navata mediana, con cassettoni, e del transetto presentano dipinti di Mattia Preti come Episodi della vita di san Pietro Celestino e di Santa Caterina d'Alessandria, eseguite tra il 1657 ed il 1659, durante il soggiorno napoletano dell'artista. Il campanile si trova sul fianco sinistro della chiesa ed è suddiviso in tre parti con relativa cuspide, secondo uno schema tipico nell'architettura campana dell'epoca. Di attribuzione incerta (forse eseguito dall'architetto Giovanni Pipino), fu edificato all'inizio del XIV secolo all'interno della prima arcata della navata sinistra, con uno schema molto

simile a quello seguito nella cattedrale di Lucera, in stile gotico provenzale. È alto 42 metri ed è in tufo con angoli in piperno, con quattro piani, l'ultimo esagonale e sormontato da una cuspide, sopra il basamento nel quale si apre una porta. Tra il secondo e il terzo piano furono collocati tavole marmoree con gli stemmi del papa Celestino V. Il convento dei Celestini annesso alla chiesa, cessò di funzionare nel 1799 e dal 1826 vi ha sede il conservatorio di San Pietro a Majella, nato dalla fusione di altri quattro conservatori storici della città (Santa Maria di Loreto, Pietà dei Turchini, Sant'Onofrio a Capuana e Poveri di Gesù Cristo). I chiostri del complesso sono due: il primo risale al 1660 circa e da esso, tramite un corridoio sulla destra, si giunge al secondo minore, che dà accesso alla biblioteca ed al museo del conservatorio di San Pietro a Majella, che conserva una sezione dedicata agli strumenti storici, dei manoscritti rari e ritratti e busti di musicisti celebri. La cappella Sansevero

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(detta

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che chiesa di Santa Maria della Pietà o Pietatella) è tra i più importanti musei di Napoli. Situata nelle vicinanze della piazza San Domenico Maggiore, questa chiesa, oggi sconsacrata, è attigua al palazzo di famiglia dei principi di Sansevero, da questo separata da un vicolo una volta sormontato da un ponte sospeso che consentiva ai membri della famiglia di accedere privatamente al luogo di culto velo marmoreo che quasi si adagia sul Cristo morto, la Pudicizia e il Disinganno, ed è nel suo insieme un complesso singolare e carico di significati. Essa ospita anche numerose altre opere di pregiata fattura o inusuali, come le macchine anatomiche, due corpi totalmente scarnificati dove è possibile osservare, in modo molto dettagliato, l'intero sistema circolatorio. Oltre ad essere stato concepito come luogo di culto, il mausoleo è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell'apparato artistico settecentesco della cappella. La Cappella Sansevero è un concentrato di opere scultoree e pittoriche, e la prima che si nota appena entrati nell'edificio è l'affresco che ne orna il soffitto, noto come Gloria del Paradiso o il Paradiso dei Sangro, opera del poco conosciuto pittoreFrancesco Maria Russo che, come riportato nell'affresco stesso, lo realizzò nel 1749. Di esso colpisce, a distanza di due secoli e 94

mezzo dalla realizzazione, la brillantezza dei colori, anche in questo caso dovuti all'inventiva di Raimondo di Sangro ed alla sua pittura definita «oloidrica» L'affresco del soffitto termina, in corrispondenza delle finestre, con sei medaglioni monocromi, in verde, con i Santi protettori del Casato: San Berardo di Teramo, San Berardo cardinale dei Marsi, Santa Filippa Mareri, San Oderisio, San Randisio eSanta Rosalia.[45] Al di sotto di questi, in corrispondenza degli archi delle sei cappelle più vicine all'altare, sono presenti sei medaglioni marmorei, opera di Francesco Queirolo, con le effigi di sei cardinali originari della famiglia di Sangro.[46] Per l'impianto statuario, il Principe chiamò l'ottantaquattrenne Antonio Corradini, veneto e massone, che riuscì però ad ultimare solo le statue della Pudicizia (dedicata alla madre prematuramente scomparsa del principe Raimondo),[22] delDecoro e il monumento dedicato a Paolo di Sangro sesto principe di Sansevero, oltre a lasciare alcuni bozzetti per altre opere. Tra queste figura il Cristo velato, la cui realizzazione passò poi a Giuseppe San


Martino. Chiesa San Domenico Maggiore La chiesa di San Domenico Maggiore si trova in Piazza San Domenico Maggiore. Fu costruita per volere di Re Carlo d’Angiò, a partire dal 1283, anno in cui fu posta la prima pietra, mentre i lavori proseguirono fino al 1324 sotto la direzione degli architetti Francesi Pierre de Chaul e Pierre d’Angicourt. La consacrazione a San Domenico era già avvenuta nel 1255 per volere di Papa Alessandro IV, visto che sin dal 1231 i Domenicani, non disponendo di una sede in città, si stabilirono nel monastero della preesistente struttura dedicata a San Michele Arcangelo a Morfisa. Lo stile con cui fu eretta la chiesa rispecchia i canoni gotici (tre navate, cappelle laterali, abside poligonale e ampio transetto), con la particolarità di essere rivolta in senso opposto alla piazza. Infatti, da essa si può vedere il retro dell’abside, nel quale, in periodo aragonese, fu aperta un’entrata second a r i a . Nei secoli successivi la struttura originaria è stata alterata anche a causa di restauri resisi necessari a seguito di

terremoti o incendi. Nel periodo rinascimentale (XVI secolo) furono avviati i primi lavori, ma fu nel Seicento che si ebbero le trasformazioni più significative: in questo periodo, infatti, venne sostituito il pavimento con quello progettato da Domenico Antonio Vaccaro, i cui lavori proseguirono fino al XVIII s e c o l o . All’inizio del XIX secolo, tra il 1806 e il 1815, Gioacchino Murat decise di rimuovere i Domenicani dalla tutela del complesso monumentale per farne un’opera pubblica. Questo provocò danni alla biblioteca e al patrimonio artistico, accentuati ancor di più dall’ennesimo restauro affidato a Federico Travaglini. La struttura subì altri danni pochi anni dopo quando, con la soppressione degli ordini religiosi (1865 -1885), i frati dovettero abbandonare di nuovo la città e gli edifici religiosi restaurati per adattarsi ad alcuni canoni imposti all’epoca. Infine, in epoca moderna, i restauri del 1953 furono eseguiti per eliminare i segni del bombardamento avvenuto dieci anni prima. In questa occasione vennero ricostruiti il soffitto a cassettoni, i tetti, le parti di alcune cappelle, il pavimento, l’organo settecentesco e vennero riportati alla luce anche alcuni affreschi di Pietro Cavallini. In seguito, nel 1991, venne restaurata la scala che conduce all’abside e la porta marmor e a . Oltre alle opere in essa conservata, la chiesa custodiva anche la Flagellazione del Caravaggio e l’Annunciazione di

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Tiziano (Traslate al museo di Capodimonte), la Madonna del Pesce di Raffaello (portata in spagna dal vicerè duca di Medina ed esposta al Museo del Prado di Madrid), due Santi di Guido Reni (scomparsi) e la Madonna col Bambino e San Tommaso D’Aquino di Luca Giordano (rubata). Chiesa del Gesù nuovo La chiesa del Gesù Nuovo o Trinità Maggiore è una delle più importanti chiese basilicali di Napoli; si erge in piazza del Gesù Nuovo ed è situata ad ovest dell'antico decumano inferiore. La chiesa venne così chiamata per distinguerla dalla vecchia chiesa del Gesù. All'interno vi è inoltre custodito il corpo di san Giuseppe Moscati e le sue stanze private dentro le quali soggiornava. Successivamente, suo figlio Roberto ottenne il perdono dal re di Spagna e la famiglia poté tornare nel palazzo dove tenne in seguito le celebri “accademie” che ne furono vanto. Ospite del palazzo fu l'Aretino, che vi incontrò i letterati napoletani Scipione Capece ed Antonio Mariconda.

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Ai tempi di Ferrante Sanseverino ed Isabella il palazzo era celebre per la bellezza dei suoi interni, le sale affrescate, lo splendido giardino. Era inoltre un punto di riferimento per la c u l t u r a n a p o l e t a na rinascimentale e barocca nella persona di Bernardo Tasso, segretario di don Ferrante. Quando nel 1536 Carlo V venne a Napoli, reduce dalle sue imprese d'Africa (conquista di Tunisi), Ferrante lo accolse nel suo palazzo, organizzando in suo onore una festa sfarzosissima rimasta celebre nelle cronache dell'epoca. Sotto il viceregno di don Pedro di Toledo, nel 1547 fu tentato di introdurre a Napoli l'inquisizione spagnola; il popolo si ribellò e Ferrante Sanseverino sostenne l'opposizione popolare[1]. Pur riuscendo ad impedire questa grave iattura per Napoli, tuttavia egli non poté evitare la vendetta degli spagnoli che gli confiscarono tutti i suoi beni e lo obbligarono nel 1552 ad andare in esilio. Passati i beni dei Sanseverino al fisco e messi in vendita per volontà di Filippo II, nel 1584 il palazzo con i suoi giardini fu venduto ai gesuiti. Entrati in possesso del palazzo, i Gesuiti incaricarono della ristrutturazione di tutto il complesso i loro confratelli Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi sventrarono completamente il sontuoso palazzo, non risparmiando né le splendide sale né i giardini; le uniche parti che si salvarono furono la facciata a bugne[2] (riadattata alla chiesa) ed il portale marmoreo rinasci-


mentale. La consacrazione avvenne il 7 ottobre 1601. Tra il 1693 e il 1695 si procedette ai lavori di ricostruzione e completamento della chiesa: la cupola fu ricostruita da Arcangelo Guglielmellie l'originale portale marmoreo rinascimentale fu arricchito con due colonne, due angeli e lo stemma dei Gesuiti "IHS". Nel 1717 tutto il complesso fu rinforzato, su progetto di Ferdinando Fuga, con l'erezione di contropilastri e sottarchi. Paolo De Matteis inoltre dipinse nella cupola ricostruita una Gloria della Vergine, affresco che tuttavia fece rimpiangere il perduto Paradiso del Lanfranco. Nel 1725 il cantiere del Gesù Nuovo si può dire concluso. Nel 1767, dopo che i Gesuiti furono banditi dal regno di Napoli, la chiesa passò ai francescani riformati, che però rimasero poco per l'incerta statica dell'edificio. Nel 1774 a causa di un secondo parziale crollo della cupola, questa venne totalmente abbattuta, mentre la chiesa rimase chiusa per c i r c a t r e n t ' a n n i .

Nel 1786 l'ingegnere Ignazio di Nardo si dedicò alla copertura della chiesa: la cupola venne sostituita con una falsa cupola a calotta schiacciata ("scodella") che oggi si presenta dipinta con un cassettonato prospettico; la copertura della chiesa invece venne provvista con un tetto a capriate. Nel 1804 i Gesuiti furono riammessi nel regno, ma nuovamente espulsi durante il periodo francese dal 1806 al 1814. Rientrati i Borboni, nel 1821 la chiesa tornò in possesso della Compagnia di Gesù. Tuttavia, nel 1848 e 1860 i Gesuiti furono nuovamente allontanati. L'8 dicembre del 1857, l'altare maggiore ideato dal gesuita Giuseppe Grossi fu ultimato e la chiesa dedicata all'Immacolata Concezione. Nel1900 l'ordine dei Gesuiti poté rientrare definitivamente. La chiesa subì gravi danni durante la seconda guerra mondiale a causa di alcuni attacchi aerei. Durante uno di questi bombardamenti, una bomba che cadde proprio sul soffitto della navata centrale rimase miracolosamente inesplosa. Oggi la bomba è esposta all'interno della chiesa. Nel 1975 la chiesa è stata nuovamente restaurata sotto la direzione di Paolo Martuscelli; i lavori furono seguiti anche dal padre gesuita Antonio Volino che ha provveduto tra l'altro all'ennesima riparazione della pseudocupola. Dal 1976 al 1984, infine, il complesso fu utilizzato per rappresentare il rovescio della 10.000 lire, in cui figurava appunto parte della facciata a bugne della chiesa e la parte inferiore della

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barocca guglia dell'Immacolata che caratterizza l'omonima piazza. La facciata di palazzo Sanseverino divenne la facciata della chiesa. Essa è caratterizzata da particolari bugne, una sorta di piccole piramidi aggettanti verso l'esterno, normalmente usate dal Rinascimento veneto e del tutto sconosciute nel Meridione. Queste presentano degli strani segni incisi dai “taglia pietra” napoletani che avevano sagomato la durissima pietra di piperno, segni che tradizionalmente erano interpretati come caratterizzanti le diverse squadre di lavoro in cui essi erano suddivisi. Anche il portale marmoreo è di Palazzo Sanseverino e risale agli inizi del XIV s e c o l o . P e r ò nel 1685 i Gesuiti apportarono alcune modifiche ai fini bassorilievi alle mensole su cui poggia il fregio superiore e al cornicione: aggiunsero lateralmente due colonne prolungando la cornice ed il frontone fu spezzato per inserirvi uno scudo ovale che ricorda la generosità della principessa di Bisignano, Isabella Feltria della Rovere. Alla sommità laterale furono apposti gli stemmi dei San-

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severino e dei della Rovere e sull'architrave un altro fregio con cinque testine che sorreggono dei festoni di frutta. I finestroni e le porte minori furono disegnati da un altro architetto gesuita, il Proveda. Il Valeriani, del palazzo patrizio, riuscì a preservare solo la facciata a bugne, sacrificando il cortile porticato, le ricche sale affrescate e i giardini. In effetti, anche se il bugnato della chiesa è bellissimo, non armonizza con il portale classico e i due elementi insieme danno un risultato architettonicamente privo di omogeneità. I portali minori sono cinquecenteschi: la decorazione dei battenti con lamina metallica fu eseguita a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. L'interno barocco, a croce greca con braccio longitudinale lievemente allungato, presenta una ricca decorazione marmorea realizzata dal Fanzago nel 1630. Sulle controfacciate sono presenti affreschi di Francesco Solimena (navata centrale) e della sua scuola (laterali), mentre le volte a botte sono dipinte da Belisario Corenzio e da Paolo De Matteis. La tribuna è affrescata da Massimo


Stanzione; nel transetto si osservano affreschi di Sant'Ignazio di Loyola e San Francesco Saverio, opera di Belisario Corenzio e ridipinti da Paolo De Matteis. La cupola, ricostruita da Ignazio di Nardo e consolidata da una struttura in calcestruzzo armato, presenta una calotta sferica scandita dalle finestre lunettate; le decorazioni in stucco riprendono il motivo del cassettonato e nei pennacchi della falsa cupola ci sono resti affrescati nel primo Seicento da Giovanni Lanfranco. La basilica di Santa Chiara, con l'adiacente complesso monastico, entrambi conosciuti anche come monastero di Santa Chiara, è un edificio di culto di Napoli. Edificato tra il 1310 e il 1340 su un complesso termale romano del I secolo d.C., per volere di Roberto d'Angiò e della regina Sancha d'Aragona, nei pressi dell'allora cinta muraria occidentale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al convento faceva parte anche il complesso delle Clarisse, oggi luogo di culto a sé.[2] Si tratta della più grande basilica gotica della città. Voluta da Roberto d'Angiò e sua moglie Sancia di Maiorca, fu chiamato all'edificazione della chiesa l'architetto Gagliardo Primario che avviò i lavori nel 1310 e li terminò nel 1328, per aprire al culto definitivamente nel 1330. La chiesa, costruita in forme gotiche provenzali, assurse ben presto a una delle più importanti di Napoli.[2] Nella basilica di Santa Chiara, il 14

agosto 1571, vennero solennemente consegnate a don Giovanni d'Austria, il vessillo pontificio di Papa Pio V ed il bastone del comando della coalizione cristiana prima della partenza della flotta della Lega Santa per la battaglia di Lepantocontro i Turchi Ottomani. Lepanto, una delle più grandi battaglie navali della storia, fu un momento fondamentale per la salvezza della Cristianità e del mondo occidentale. Nel 1590 fu a lungo custode del regio monastero di S. Chiara, Antonino da Patti, autore di varie grazie e miracoli sui malati, diverrà Venerabile. Tra il 1742 e il 1796 venne ampiamente rist ru tt u rat a in f orme barocche da Domenico Antonio Vaccaro e Gaetano Buonocore. Gli interni furono abbelliti con opere di Francesco de Mura,Sebastiano Conca e Giuseppe Bonito; mentre Ferdinando Fuga eseguì il pavimento decorato.[3] Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento degli Alleati del 4 agosto 1943 provocò un incendio durato quasi due giorni che distrusse l'interno della chiesa quasi interamente, perdendo così tutti gli affreschi eseguiti

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n e l X V I I I s e c o l o . [2] Nell’ottobre 1944 Padre Gaudenzio Dell'Aja fu nominato "rappresentante dell'Ordine dei Frati Minori per i lavori di ricostruzione della basilica", alla cui ricostruzione partecipò in prima persona. In seguito, i massicci e discussi lavori di ristrutturazione riportarono la basilica all'aspetto originario trecentesco omettendo in questo modo il ripristino delle aggiunte settecentesche. I lavori terminarono definitivamente nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pubblico. La basilica di Santa Chiara sorge sul lato nord-orientale di piazza del Gesù Nuovo, di fronte alla chiesa omonima, ed ha il suo ingresso suvia Benedetto Croce. Questo è costituito da un grande portale gotico del XIV secolo, con arco ribassato e lunetta priva di decorazioni, sormontata da un'unghia aggettante di lastre di piperno. Il sagrato antistante la chiesa è recintato da un alto muro.

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La facciata presenta una struttura a capanna ed è preceduta da un pronao a tre arcate ogivali, di cui quella centrale inquadra il portale di marmi rossi e gialli con lo stemma di Sancha. In alto, al centro, si apre il rosone, il quale è stato in gran parte reintegrato durante la ricostruzione. Alla sinistra della chiesa, si eleva la torre campanaria trecentesco, in seguito restaurata in stile barocco. Il campanile è a pianta quadrata e si articola su tre ordini separati da cornicioni marmorei. Mentre l'ordine inferiore ha un paramento in blocchi di pietra, i due superiori sono in mattoncini con lesene marmoree, tuscaniche in quello inferiore e ioniche in quello superiore. Tra il 1742 e il 1762 l'aspetto gotico fu celat o da decoraz ioni barocche progettate da Domenico Antonio Vaccaro, Gaetano Buonocore e da Giovanni del Gaizo. La volta fu dec o r a t a d a s t u c c h i e affreschi di Francesco De Mura, Giuseppe Bonito, Sebastiano Conca e Paolo de Maio. Il bombardamento alleato del 1943 distrusse il tetto e la decorazione barocca, mentre le opere scultoree furono totalmente o parzialmente danneggiate; quelle sopravvissute, dopo la ricostruzione, furono spostate in un altro luogo, tranne il pavimento disegnato da Ferdinando Fuga. L'interno risulta attualmente formato da un'unica navata rettangolare, disadorna e senza transetti, con dieci cappelle per lato. Nella zona presbiteriale


sono posti sulla parete di fondo il sepolcro di Roberto d'Angiò, opera dei fiorentini Giovanni e Pacio Bertini. Ai lati del sepolcro del re ci sono quelli di Maria di Durazzo (a sinistra) e del primogenito Carlo, Duca di Calabria (a destra), databili 1311-1341 con il primo attribuito ad ignoto maestro durazzesco, mentre il secondo a Tino di Camaino. Sulla parete sinistra del presbiterio invece vi è il Sepolcro di Maria di Valois, databile 1331 ed anch'esso del Camaino. Di fronte ai monumenti funebri invece vi è il trecentesco altare maggiore di autore ignoto, con un crocifisso ligneo del XIV secolo, di ignoto autore probabilmente senese. A destra del presbiterio vi è l'accesso alla barocca sagrestia con affreschi e arredi mobiliari risalenti al 1692; in una sala adiacente si può ammirare un panno ricamato del XVII secolo. Altri due ambienti di passaggio, il primo decorato da maioliche del XVIII secolo e il secondo con affreschi di un pittore fiammingo del XVI secolo, si passa di fronte ad una scalinata chiusa al pubblico che

sale al convento e quindi, per un portale gotico, si accede al "Coro delle monache". Sulla controfacciata si trova al lato sinistro il Sepolcro di Agnese e Clemenza di Durazzo, opera di Antonio Baboccio da Piperno, sulla destra invece resti di un affresco vicino a Giotto. Nelle venti cappelle ci sono principalmente sepolcri monumentali realizzati tra il XIV e il XVII secolo, appartenenti ai personaggi di nobili famiglie napoletane. A sinistra, nella prima cappella c'è la tomba di Salvo D'Acquisto. Nella quinta cappella, di san Francesco d'Assisi, si trovano alle pareti laterali due sarcofagi della famiglia Del Balzo, con a sinistra Raimondo ed a destra la moglie Isabella. Sulla parete frontale invece vi è una scultura raffigurante San Francesco d'Assisi, opera seicentesca attribuita ad un seguace di Annibale Caccavello circondata da medaglioni marmorei raffiguranti altri componenti della famiglia Del Balzo. La volta presenta de-

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corazioni barocche tipiche del XVII secolo. La sesta cappella, dedicata a Santa Maria degli Angeli, presenta sepolcri della famiglia De Vivo Piscicelli e due bassorilievi trecenteschi con il Martirio della moglie di Massenzio. La prima cappella a destra ospita sulle pareti laterali monumenti funebri trecenteschi del Cavaliere del Nodo e Antonio Penna, quest'ultima opera di Antonio Baboccio da Piperno. Sulla parete frontale invece tracce di affreschi di scuola giottesca. La seconda cappella ospita un affresco di ignoto pittore locale post giottesco e monumenti sepolcrali della famiglia Del Balzo. La terza e la quarta cappella sono congiunte ed ospitano, la prima, un dipinto settecentesco di San Pietro d'Alcantara (a cui è dedicata la cappella) ed un sepolcro monumentale di ignota nobildonna di pregevole fattura attribuito al Maestro durazzesco, la seconda, dedicata invece a Sant'Antonio da Padova, un dipinto sul santo di ignoto autore seguace di Luca Giordano, decorazioni marmoree sepolcrali sulla famiglia Carbonelli di Letino. La settima cappella ospitava sulla parete

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di sinistra, fino ai rifacimenti barocchi, il sepolcro di Ludovico di Durazzo, figlio di Carlo di Calabria e Maria di Durazzo, morto in tenera età. Dai lavori settecenteschi, del monumento trecentesco di Pacio Bertini rimane superstite solo l'altorilievo raffigurante un bambino in fasce portato in cielo da angeli. Sulla parete frontale invece vi è una pala d'altare, da cui prende il nome la cappella, di Marco da Siena raffigurante l'Adorazione di Gesù Bambino. Fa storia a sé la nona cappella a destra che ha conservato la struttura barocca ed è attualmente il sepolcreto ufficiale dei Borbone, dove riposano i Sovrani delle Due Sicilie, da Ferdinando I a Francesco II. Chiesa di Sant’ Anna dei Lombardi La chiesa di Sant'Anna dei Lombardi (detta anche Santa Maria di Monteoliveto) si trova a Napoli, in piazza Monteoliveto. La chiesa venne fondata nel 1411 da Gurello Aurilia, Protonotario del re Ladislao di Durazzo, che patrocinò la costruzione di una piccola chiesa detta di Santa Maria di Monteoliveto, affidata ai padri Olivetani. La fabbrica fu sottoposta a radicali lavori di ampliamento da parte di Alfonso I di Napoli e ben presto divenne tra le favorite della corte Aragonese. Nel XVII secolo la c h ie s a f u tr a sf o rm a t a i n st ile barocco da Gaetano Sacco. Nel 1798 Ferdinando I delle Due Sicilie dispose l'allontanamento degli olivetani. Il 26 luglio 1805 la chiesa di Sant'Anna


dei Lombardi, progettata nel 1582 dal lombardo Domenico Fontana, situata nell'omonima via tra il palazzo Ventapane e il palazzo Carafa di Maddaloni, già ferita dalla caduta del tetto nel 1798, crollò in gran parte a causa di un terremoto ed in quest'occasione andarono dispersi tre dipinti del Caravaggio, che erano stati eseguiti appositamente per Alfonso Fenaroli (nobile bresciano) per ornare la sua cappella: il San Francesco in meditazione, il San Francesco che riceve le stimmate ed una Resurrezione;[1] di quest'ultima, il pittore fiammingo Louis Finson (o Finsonius) realizzò una copia oggi ad Aix-en-Provence.[1] L'arciconfraternita dei Lombardi si spostò allora nella chiesa di Monteoliveto che in questa occasione fu ridenominata in Sant'Anna dei Lombardi. La chiesa è ricordata in genere perché testimonia l'interesse che in Napoli suscitarono fermenti artistici sviluppatisi nel rinascimento fiorentino, soprattutto dal punto di vista architettonico. Le grandi cappelle a pianta centrale rimandano chiaramente alle analoghe costruzioni fiorentine e l'in-

tervento di Benedetto da Maiano è da mettere in relazione alle cappelle Piccolomini e Correale. La navata verso la controfacciata Il resto dell'edificio si presenta invece nella veste che le fu data nel XVII secolo, sacrificando l'originaria in stile gotico, di cui rimangono alcune finestre tamponate visibili all'esterno, sui lati, e l'atrio, in piperno caratterizzato dall'arco a sesto ribassato tipico del tardogotico napoletano, ricostruito, comunque, dopo i bombardamenti nel 1943. Da ricordare inoltre che il presbiterio fu aggiunto nel XVI secolo e che all'interno vi è una vera e propria antologia della scultura del Quattrocento e del Cinquecento. Sono infatti presenti opere di Guido Mazzoni, Antonio Rossellino, Benedetto da Maiano, Giovanni da Nola, Pedro Rubiales e molti altri. Nell'atrio gotico è invece conservata l'edicola sepolcrale di Domenico Fontana, costruita nel 1627 dai figli Sebastiano e Giulio Cesare Fontana e proveniente dalla distrutta chiesa di Sant'Anna, mentre l'altare maggiore fu eseguito su disegno di Giovan Domenico Vinaccia da Bartolomeo e Pietro Ghetti. La controfacciata ospita nella parte superiore l'organo "F.lli Lingiardi di Pavia" (1904) e nella parte inferiore gli altari Ligorio e Del Pezzo. La facciata della chiesa è composta da un arco in piperno; l'interno è a navata centrale con copertura a botte e cupola e cinque cappelle a

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lato, più altre due laterali all'abside. Appena entrati nell'edificio, si ammirano ai lati l'altare gentilizio della famiglia de Liguoro (1532) e l'altare della famiglia del Pezzo (1524). Tra le cappelle, tutte rinascimentali, spiccano la cappella Correale (con architettura ispirata alla maniera di Giuliano da Maiano in cui trovano alloggio sculture di Benedetto da Maiano), la cappella Tolosa (di Giuliano da Maiano con sculture dei Della Robbia e affreschi diCristoforo Scacco di Verona) e la cappella Piccolomini; nelle altre invece ci sono tombe della nobiltà napoletana del XV secolo e tutte sono decorate da affreschi di Giuseppe Simonelli, di Baldassarre Aloisi, Nicola Malinconico, Annibale Caccavello, Francesco Solimena e altri. Basilica Reale pontificia di San Francesco di Paola La basilica reale pontificia di San Francesco di Paola è una chiesa basilicale tra le più caratteristiche e celebri di Napoli. L'edificio è situato al centro del lato curvo di piazza del Plebiscito, davanti al palazzo Reale. Si tratta della più

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importante chiesa italiana del periodo neoclassico. Nel 1809 Gioacchino Murat ordinò la demolizione degli antichi conventi del "Largo di Palazzo", attuale piazza del Plebiscito, e bandì un pubblico concorso per la realizzazione di una nuova piazza. In un primo tempo fu affidata all'architetto Leopoldo Laperuta, ma questi non andò oltre alla costruzione delle fondamenta. Nel 1815 il re Ferdinando I delle Due Sicilie decise l'edificazione della basilica come ringraziamento a san Francesco di Paola per la riconquista del regno. Nel 1817 l'incarico fu affidato all'Accademia di San Luca nella persona dell'architetto svizzero Pietro Bianchi di Lugano, il quale mostrò nella realizzazione della nuova chiesa grandi qualità ingegneristiche, attestate dalla solidità dell'opera e dall'intelligenza delle soluzioni tecniche[2]. Al Bianchi si deve anche la costruzione dell'ampio portico a emiciclo sorretto da 38 colonne giganti di ordine dorico[3], che fronteggiano Palazzo Reale e si rifanno alla tradizione antica delle piazze porticate, luogo delle attività politiche, economiche, sociali e culturali della città.


I lavori furono ultimati nel 1824, ma solo nel 1836 la chiesa venne inaugurata da papa Gregorio XVI, che le conferì il titolo di basilica, la rese indipendente dalla curia arcivescovile di Napoli e concesse il privilegio ai suoi ministri di officiare con l'altare rivolto verso i fedeli. La chiesa, per la sua forma circolare, ricorda il Pantheon di Roma. La facciata è preceduta da un pronao formato da sei colonne e due pilastri di ordine ionico, che reggono un architrave sul quale è scolpita la dedica: Il pronao è sormontato da un timpano classicheggiante ai cui vertici sono collocate le statue raffiguranti la Religione, tra San Francesco di Paola a sinistra, titolare della chiesa, e San Ferdinando, a destra, in onore del re Ferdinando. Il pronao è accessibile sia dal porticato, che dalla scalinata che sale dalla piazza. Nel porticato si trovano le statue delle quattro virtù cardinali e delle tre virtù teologali, mentre ai lati della scalinata avrebbero dovuto essere collocate due statue raffiguranti la Pietà e la Costanza, che simboleggiavano le virtù manifestate dal re e da Ferrante d'Aragona: al loro posto si

decise invece di collocare le due statue equestri nella piazza, raffiguranti il re Ferdinando (opera di Antonio Canova) e il padre, Carlo III di Spagna (opera di Antonio Calì). La chiesa è sormontata da tre cupole: quella centrale, alta 53 metri, è stata costruita su un alto ed ampio tamburo. Si entra in un atrio, fiancheggiato da due cappelle; in quella a destra vi è un'opera giovanile di Luca Giordano, con Sant'Onofrio Orante. Al centro la rotonda, dal diametro di 34 m, è coperta dalla cupola sorretta da 34 colonne di ordine corinzio alte 11 m e con fusti in marmo di Mondragone, alternate ad altrettanti pilastri. Lungo le pareti, da destra, vi sono otto statue: San Giovanni Crisostomo opera di Gennaro Calì, Sant'Ambrogio di Tito Angelini, San Lucadi Antonio Calì, San Matteo, di Carlo Finelli, San Giovanni Evangelista, di Pietro Tenerani, San Marco di Giuseppe de Fabris,Sant'Agostino di Tommaso Arnaud e Sant'Attanasio di Angelo Solani. Sopra il colonnato invece vi sono poste le tribune di corte. Agli altari delle cappelle si trovano, da destra, i seguenti dipinti: San Nicola da Tolentino e San Francesco di Paola che riceve da un angelo lo stemma della carità, di Nicola Carta, l'Ultima comunione di San Ferdinando di Castiglia di Pietro Benvenuti, il Transito di San Giuseppe diCamillo Guerra, l'Immacolata e morte di Sant'Andrea Avellino di Tommaso de Vivo. L'altare maggiore, ricco di lapislazzuli e

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di pietre preziose, opera di Anselmo Cangiano del 1641, fu qui trasferito nel 1835 dalla chiesa dei Santi Apostoli. Ai lati due Angeli Teofori in cartapesta dorata. Nell'abside San Francesco di Paola resuscita un morto, tela di Vincenzo Camuccini. Nella sagrestia, l'Immacolata di Gaspare Landi e laCirconcisione di Antonio Campi. L'ipogeo della basilica riproduce in maniera più ridotta le caratteristiche della basilica di superficie. La basilica sotterranea, dalla quale sono partiti i lavori di restauro dell'intero complesso monumentale da parte del Provveditoriato alle Opere pubbliche (2013), costituisce una precoce soluzione volta a reggere l'impostazione della struttura in oggetto.

Chiesa di Sant’ Antonio a Posillipo La chiesa di Sant'Antonio a Posillipo è una chiesa santuario di Napoli; ubicata nel quartiere omonimo, è raggiungibile sia dalle rampe di Sant'Antonio (dette anche Tredici discese di Sant'Antonio), sia dalla via Minucio Felice. Si può raggiungere la chiesa anche con la funico-

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lare da Mergellina, scendendo alla prima fermata Sant'Antonio. La fondazione della chiesa risale al 1642 ed avvenne in un sito all'epoca scarsamente urbanizzato della città, costituito da quattro villaggi rurali collegati con la zona di Mergellina da un'antica strada greco-romana. I frati conventuali del terz'ordine vi fondarono una chiesetta ed un piccolo convento che ebbe nei primi anni la funzione di sanatorio. Sulla lapide di fondazione di leggeva: Le mura dell'antica cappella sono oggi individuabili in corrispondenza dell'attuale sacrestia, così come i locali del convento originario sono riscontrabili nei locali denominati dell'"ex monastero". Nel 1603 fu iniziato l'ampliamento della strada che portava al convento, mantenendo lungo il suo percorso parte delle antiche vestigia romane (pavimentazione romana) [1] e venendo così a costituire un mezzo più agevole per i pellegrini che dalla città intendevano raggiungere l'edificio; la strada, già salita di Santa Maria delle Grazie, venne così indicata come rampe di Sant'Antonio a Posillipo.


La chiesa nel frattempo assurse al titolo di santuario antoniano, prendendo negli anni una forma a navata unica con tre cappelle laterali per ciascun lato ed il convento fu allargato. La fabbrica della sacrestia fu avviata nel 1750, mentre quattro anni dopo fu la volta dell'edificazione del campanile a pianta rettangolare con cella campanaria ottagonale e bella cuspide in stile barocco; il chiostro del convento fu ultimato nel 1775. La successiva soppressione degli ordini religiosi, in epoca napoleonica, fece sì che la chiesa passasse al demanio e fosse destinata ad usi civili, sebbene affidata ad un rettore, ex-domenicano scampato ai fatti del 1799. Nel 1824 il complesso fu affidato ai domenicani di San Domenico Maggiore, anche grazie all'intervento di re Ferdinando II di Borbone che era in ottimi rapporti con l'ordine religioso. Nel 1883 vi furono dei lavori di restauro che interessarono le cisterne dell'acqua e l'impianto originario che collegava il complesso all'antico acquedotto greco,

oltre alla risistemazione delle celle dei frati. Nel 1944 l'arcivescovo Alessio Ascalesi stabilisce nella chiesa, posta al di fuori delle mura conventuali, la costituzione di una parrocchia che andrà assumendo sempre maggior importanza negli anni anche grazie al nuovo assetto urbanistico della zona (la costruzione del piazzale antistante la chiesa da cui si gode uno spettacolare panorama sul golfo di Napoli è degli anni sessanta). Nel 1975-76 vennero eseguiti importanti lavori di restauro e consolidamento e nel 2000 venne ripresa, in occasione del periodo giubilare, l'antica tradizione della processione di sant'Antonio di Padova, a cui la chiesa è dedicata. Nella prima cappella a destra è collocato un crocifisso ligneo del XVII secolo; nella seconda si trova una raffigurazione di san Nicola di Bari di autore ignoto della metà del XVII secolo, mentre l'ultima cappella a destra è ornata con la Vergine della Purità, derivazione dell'originale conservato in San Paolo Maggiore di Luis de Morales. Nell'abside vi è l'altare maggiore policromo con la statua del santo. Tra le decorazioni a stucco sono conservate due tele del pittore napoletan o G i a c i n t o D i a no rappresentanti L'estasi di sant'Antonio, san Raffaele e san Tobiolo.

costituisce, in assoluto, uno dei più riusciti esempi di architettura e arte barocca insieme alla Reale cappella del tesoro di San Gennaro. Essa è situata sulla collina del Vomero, accanto a castel Sant'Elmo. Nel dicembre 2010 il decreto n. 851 del Ministero per i Beni Culturali emesso su proposta della Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici di Napoli e provincia, ha dichiarato la collina su cui sorge la certosa “monumento nazionale”[1]. Dal 1866 la certosa ospita il Museo nazionale di San Martino. Nel 1325, sulla sommità del colle, Carlo duca di Calabria, primogenito di Roberto d'Angiò, fece erigere il monastero. Della primitiva soluzione architettonica della fabbrica, voluta accanto al castello di Belforte (1325), rimangono pochissimi elementi: sono riconoscibili alcune aperture con archetti in stile catalano che si trovano nell’ex refettorio, usate probabilmente come passavivande, venute alla luce in un recente restauro. Gli architetti che iniziarono la costruzione della Certosa furono i medesimi

Certosa San Martino La certosa di San Martino è tra i maggiori complessi monumentali di Napoli;

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che lavoravano negli stessi anni al castello: Tino di Camaino e Francesco di Vivo, cui successero nel tempo ad Attanasio Primario e Giovanni de Bozza. La certosa fu inaugurata nel 1368, sotto il regno della regina Giovanna I, ma i certosini avevano preso possesso del monastero già dal 1337. Il complesso fu dedicato a Martino di Tours, probabilmente per la presenza nel luogo di un'antica cappella preesistente a lui dedicata verso la seconda metà del secolo XVI, sotto la spinta della Controriforma la Certosa fu modificata secondo criteri più moderni e grandiosi. I certosini entrarono nel monastero nel 1337 e la chiesa, nel 1368, fu consacrata sotto il regno di Giovanna d'Angiò. Alla fine del XVI secolo la certosa subì rimaneggiamenti e ampliamenti in stile tardo manierista e barocco. I lavor i v e n n e r o a f f i d a t i dal 1589 al 1609 al Dosio che fu di fatto il primo artefice di gran parte delle trasformazioni ricevute dal complesso. Dal 1618 al 1625 la direzione del cantiere passò a Giovan Giacomo di Conforto, mentre dal 1623 al 1656 lasciò la sua impronta artistica Cosimo Fanzago. Nella prima metà del XVIII secolo i lavori passarono al Tagliacozzi Canale e a Domenico Antonio Vaccaro. Nel 1799 i certosini vennero cacciati per giacobinismo, ritornarono nel 1804 e dopo un po' (nel 1807) vennero di nuovo espulsi; nel 1836vennero di nuovo riammessi e infine espulsi definitivamente nel 1866, quando la certosa divenne bene monumentale


proprietà dello Stato. Sul piazzale c'è la chiesa delle donne opera del Dosio, e ornata da stucchi nel XVII secolo. A destra è l'ingresso, nell'androne è situato uno stemma angioino. Dall'ingresso si accede al cortile d'onore realizzato sempre dal Dosio. Sulla sinistra prospetta la chiesa trecentesca rimaneggiata dal Dosio (che riadattò il pronao da cinque arcate a tre arcate ricavandone due cappelle) e da Cosimo Fanzago (che costrui una serliana per mascherare la facciata precedente); la parte superiore e le pareti sono del Tagliacozzi Canale. Nello spazio tra la serliana e la facciata ci sono gli affreschi di Micco Spadaro, Giovanni Baglione e Belisario Corenzio. La chiesa, a navata unica con sei cappelle (due di esse sono comunicanti con le prime di destra e di sinistra), presenta un alto livello di decorazione a cavallo tra il XVI secolo e il XVIII secolo. Cosimo Fanzago è l'autore delle transenne delle cappelle e della decorazione delle cappelle di San Bruno e

del Battista; sempre del Fanzago sono i festoni di frutta sui pilastri e quattro putti marmorei sulle arcate delle cappelle. Il pavimento marmoreo della navata è di frà Bonaventura Presti che riutilizzò alcuni marmi intarsiati dal Fanzago. Ai lati del portale d'ingresso ci sono due statue del medesimo Fanzago, che tuttavia furono terminate da Alessandro Rondone; sempre nei pressi del portale sono collocate due tele di Jusepe de Ribera e sopra il portale una Deposizione di Massimo Stanzione. La volta è arricchita da un ciclo pittorico di Giovanni Lanfranco che maschera le strutture a crociera della copertura. Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio La basilica dell'Incoronata Madre del Buon Consiglio e Regina della Cattolica Chiesa è la più recente basilica di Napoli. È stata infatti voluta e costruita nel XX secolo. Accanto alla basilica è presente l'ingresso alle catacombe di San Gennaro, antiche aree cimiteriali sotterranee

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risalenti al II secolo le quali rappresentano il più importante monumento del cristianesimo a Napoli. È stata realizzata ad imitazione della basilica di San Pietro a Roma sia negli esterni (compresa la cupola) che negli interni, tanto da essere anche chiamata "La piccola San Pietro". La chiesa fu fortemente voluta da Maria di Gesù Landi. Nata a Napoli il 21 gennaio 1861, già da bambina dimostrava fervide vocazioni spirituali. Ella si distinse per la sua grande devozione alla Madonna del Buon Consiglio di cui, nel 1884, si fece dipingere un quadro. Fu molto amata dal popolo napoletano a seguito di due miracoli: secondo la leggenda nel 1884 mostrò al popolo l'immagine della Madonna del Buon Consiglio e l'epidemia di colera che attanagliava Napoli in quel periodo, cessò immediatamente; nel 1906, a seguito di un'eruzione del Vesuvio, la città era sotto una densa coltre di cenere e numerosi tetti e solai crollarono; di conseguenza Maria espose il quadro fuori al balcone di casa e un raggio di sole lo illuminò.

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Qualche giorno dopo l'eruzione cessò e suNapoli la cenere cominciò a scemare. Più tardi, ottenne il riconoscimento del culto, l'incoronazione del quadro e l'aggiunta del titolo Regina della Cattolica Chiesa. Nel frattempo, i pellegrinaggi si susseguirono numerosi e, ben presto, sopra le catacombe, venne eretto questo tempio; fatto erigere esattamente dove le aveva chiesto la Vergine Maria durante le sue contemplazioni. La costruzione della basilica è durata quarant'anni (1920-1960); fu edificata su progetto dell'architetto Vincenzo Veccia. Maria di Gesù Landi morì il 26 marzo 1931, ma la costruzione della basilica proseguì. Il tempio ha custodito momentaneamente dipinti provenienti da altre chiese della città dopo il terremoto dell'Irpinia del 1980. Inoltre possiede opere provenienti da chiese in passato demolite o pericolanti. Il più chiaro esempio è dato dalle otto statue raffiguranti gli Apostoli poste sul settecentesco altare maggiore, sei delle quali sono opera di Michelangelo Naccherino, mentre le rimanenti due sono opere diPietro Ber-


nini e Francesco Cassano. Sono tutte provenienti dalla demolita chiesa di San Giovanni dei Fiorentini al rione Carità. Sulla controfacciata sono presenti l'Incoronazione della Vergine di Giovanni Battista Beinaschi, proveniente dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, al centro, a sinistra la Natività di Giovanni Balducci, a destra la Deposizione di Marco Pino. Nelle cappelle e nelle navate laterali sono visibili importanti quadri come Sant'Antonio di Carlo Sellitto, proveniente dalla demolita chiesa di San Nicola alla Dogana, Santa Maria Maddalena della scuola di Andrea Vaccaro, l'Estasi di san Nicola di Giuseppe Simonelli, proveniente dalla chiesa di San Nicola dei Caserti, una Vergine attorniata da apostoli della scuola di Fabrizio Santafede. Anche molti elementi architettonici quali altari e paliotti sono provenienti da altre chiese. La cultura popolare vuole che durante il sisma del 1980 il busto marmoreo raffigurante la Madonna posto sulla sommità della facciata si staccò, cadendo in piedi e senza subire danni. In

realtà la statua, a figura intera, si divise in due parti e la parte superiore, il busto, cadde dal frontone della chiesa sulla scalinata senza ferire nessun passante e si spezzò a sua volta in due parti, il torso (con il Bambino in braccio) e la testa. Una lastra di pietra posta all'ingresso della basilica ricorda l'evento e le vicende successive: Into rn o al c om ple s so vi s ono le catacombe di San Gennaro e il parco di Capodimonte con l'omonima reggia. Nel piazzale della basilica vi è una nuova entrata monumentale alle catacombe di San Gennaro, rappresentata da un grande busto del santo alto più di 4 metri, per quindici quintali di peso; l'opera, la più grande del suo genere presente in città, è stata realizzata da Lello Esposito. Chiesa di Santa Maria Donnaregina di Napoli costruita agli inizi del XIV secolo in stile gotico per il convento omonimo di monache clarisse. Si trova nel centro storico della città, nei pressi del Palazzo arcivescovile e

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del duomo di Napoli. È anche chiamata Donnaregina Vecchia per distinguerla dalla omonima chiesa del XVII secolo, denominata, infatti, Donnaregina Nuova. Il complesso originario occupava un'insula doppia della città greco-romana ed è attestato a partire dal 780 come "convento di San Pietro del Monte di Donna Regina"[1], appartenente alle monache basiliane. Il convento era dotato di una porta difesa da una torre. Nel IX secolopassò alle monache benedettine, che lo intitolarono a Santa Maria. Nel corso del XIII secolopassò alla regola delle clarisse. Sotto Carlo I d'Angiò, il monastero fu adibito a prigione per i nobili avversari della casa regnante. Il convento fu danneggiato da un terremoto del 1293, e venne ricostruito dalle fondazioni grazie alle donazioni della regina di Napoli Maria d'Ungheria. La nuova chiesa, aperta al culto nel 1316 venne consacrata nel 1320 e la regina vi venne sepolta in una tomba monumentale, opera di Tino di Camaino completata nel 1326. Nel 1390 il tetto della chiesa fu dan-

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neggiato da un violento incendio e i lavori di restauro furono commissionati dalla regina Giovanna II d'Angiò, come gli ulteriori restauri dovuti ai terremoti che si susseguirono nel XV secolo. Nel XVI secolo fu aggiunto al complesso un nuovo chiostro e nel XVII secolo venne costruita una seconda chiesa, (Donnaregina Nuova), in origine direttamente accessibile da quella più antica, che fu riservata alle monache. L'ampliamento di via Duomo decretato nel 1860 richiese l'abbattimento di una parte del complesso conventuale. Il convento venne soppresso nel febbraio del 1861 e la chiesa vecchia passò al comune di Napoli. Suddivisa in vari ambienti, divenne sede di uffici delle guardie municipali (1864), di una scuola froebeliana (1865), di abitazioni provvisorie per i poveri (1866-1872). Ospitò in seguito la Corte d'assise e dal 1878 la commissione municipale per la conservazione dei monumenti. In seguito a una decisione del consiglio municipale vi fu aperto tra il 1892 e il 1902 il "Museo della città" e dal 1899 ospitò la sede dell'Accademia Pontaniana. Le due chiese, originariamente collegate, furono separate nel 1928-1934, in occasione dei lavori di Gino Chierici che eliminarono le suddivisioni interne della chiesa vecchia per rendere visibili le strutture gotiche dell'abside della chiesa più antica, che si poté ricostruire grazie all'accorciamento e la parziale demolizione del coro di quella più recente. Il sepolcro di Maria d'Ungheria, che era stato spostato nella


nuova chiesa in una posizione scenografica nel 1727, fu di nuovo trasferito nella chiesa vecchia, in corrispondenza della navata sinistra. Attualmente il convento è sede della "Scuola di perfezionamento di restauro" dell'università di Napoli. La chiesa ha un'unica navata di cinque campate e termina con un'abside poligonale (composta dai cinque lati di un ottagono), preceduta da uno spazio rettangolare. Il coro delle monache è costituito da una struttura sopraelevata su sei pilastri ottagonali che sorreggono volte a crociera, posto presso l'ingresso; mentre, la sua altezza e quella del pronao, si conclude in uno slancio unico con l'altezza dell'abside stesso, avviando una particolarità architettonica che sarà in seguito osservata anche in alcune chiese tedesche. Dall'esterno lo spazio sottostante il coro, una sorta di sala a tre navate, è illuminato da piccole finestre, mentre la parte a tutta altezza prima dell'abside presenta grandi finestremonofore. La zona absidale conserva resti della pavimentazione, in cotto maiolicato, esempio di arte ceramica napoletana in

età angioina, databili tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo. Sia l'abside che lo spazio antistante sono coperti da volte a crociera, mentre il tetto della navata è invece a capriate, nascoste da un soffitto cassettonato, decorato al centro da un rilievo con Incoronazione della Vergine, opera cinquecentesca di Pietro Belverte. Sulla parete di sinistra della navata della chiesa, invece, è collocato il monumento sepolcrale di Maria d'Ungheria, opera trecentesca di Tino di Camaino. La facciata della chiesa si apriva su una corte interna e presentava due monofore con un oculo soprastante ed è decorata dallo stemma della regina. Tra le altre opere va annoverato un Martirio di Sant'Orsola e d e l l e s u e c o m p a gne del 1520 probabilmente eseguito da Francesco da Tolentino. L'accesso attuale alla chiesa è situato su vico Donnaregina, attraversato un cancello, ci si trova in prossimità dell'abside. Basilica della Santa Maria della Sanità La basilica di Santa Maria della Sanità (o popolarmente San Vincenzo alla S a n i t à ) è u n a c h i e sa basilicale di Napoli. Sorge nel popolare rione Sanità ed è nota ai suoi abitanti con il nome di San Vincenzo detto 'o Munacone, in quanto in essa è custodita la statua del santo domenicano Vincenzo Ferreri, il cui culto è molto radicato e sentito nel rione[1]; fu eretta su disegno del do-

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menicano fra' Giuseppe Nuvolo nel 1602 -1613, sul sito delle catacombe di San Gaudioso. Il complesso di Santa Maria della Sanità fu costruito da Fra’ Giuseppe Nuvolo tra il 1602 e il1610, mentre nel 1613 fu terminata la cupola maggiore. La facciata, con decorazioni in stucco degli inizi del Settecento, è affiancata da un alto campanile costruito tra 1612 e 1614 (l’orologio in maiolica è settecentesco). Esternamente colpisce la bella cupola rivestita di maioliche gialle e verdi, particolare anche per il suo disegno e tipica dell'artista che la progettò. La pianta circolare della chiesa rappresenta una delle prime affermazioni monumentali dell'architettura controriformata; essa è costituita da una croce greca e presbiterio rialzato, espediente questo ideato dal frate architetto per inglobare la preesitente basilica paleocristiana, permettendo quindi l‘ingresso diretto alla catacomba. L'interno è vasto e semplice nelle modanature e nell'assenza di decorazioni policrome, ma complesso nell'articolazione

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dei volumi: la croce greca infatti è inscritta in un quadrato. Numerose poi sono le opere d'arte, anche del periodo contemporaneo, presenti lungo la navata e nelle cappelle laterali. Ai lati dell’ingresso ci sono due acquasantiere a muro, in marmi policromi, databili alla metà del Seicento, con lo stemma dell'Ordine domenicano. La prima cappella a destra è dedicata a san Nicola, raffigurato nella pala d’altare in gloria tra il beato Ceslao di Cracovia e san Luigi Bertrando. Sulla parete destra della cappella è stato collocato, l’affresco con la Madonna della Sanità, proveniente dalla cripta. Il dipinto, datato tra il Ve il VI secolo, è la più antica immagine mariana conosciuta a Napoli. La seconda cappella, intitolata a San Pietro martire, conserva una tavola databile intorno al 1610, raffigurante il Martirio di san Pietro da Verona, martire domenicano, opera del fiorentino Giovanni Balducci. La terza a destra, è dedicata a san Vincenzo Ferreri, sacerdote domenicano spagnolo, rappresentato nel dipinto diLuca Giordano mentre predica alla folla. Negli ovali laterali, di Vincenzo Siola, il santo è raffigurato nell'atto di compiere miracoli. Nella quarta cappella a destra, dedicata alla Madonna del Rosario, troviamo la grande pala di Giovanni Bernardino Azzolino (1612), racchiusa in una cona di legno intagliato e dorato della prima metà del XVII secolo: il dipinto, nella parte centrale, raffigura la Madonna del Rosario e santi. Nella predella è rappresentato l’Episodio della condan-


na degli Albigesi ed in alto, nella cimasa, l’Eterno Padre. Nella quinta a destra, consacrata a Santa Caterina d'Alessandria, il dipinto con lo Sposalizio mistico di santa Caterina è opera di Andrea Vaccaro. Ancora del Vaccaro nella cappella successiva è la Santa Caterina da Siena che riceve le stimmate, realizzata nel 1659 come la precedente tela. La settima cappella a destra è dedicata alla Madonna del Buonconsiglio, raffigurata in un dipinto ottocentesco. Da poco vi è stata ricollocata la tela di Luca Giordano con i Santi Pio V e Alberto Magno, databile al 1672. Una bella scala a tenaglia, conduce alla parte presbiteriale dominata dall’altare maggiore, in marmi policromi, della seconda metà del Settecento. Sull’altare fu collocato il ciborio opera di oreficeria del converso domenicano frate Azaria, datato 1628. Nell'abside, all'interno di una decorazione in stucco e cartapesta, è posta la Madonna della Sanità del fiorentino Michelangelo Naccherino, del primo decennio del Seicento. Nel presbiterio, il bel coro ligneo fu realizzato tra il 1618 e

il 1620 da Leonardo Bozzaotra e Michelangelo Cecere. Il catino absidale fu decorato con l’Eterno Padre in gloria di Crescenzio Gamba alla metà del XVIII secolo. Sulla sinistra troviamo lo scenograficopulpito in commesso marmoreo di Dionisio Lazzari (1678 circa). Al di sotto del presbiterio si apre l’ingresso alla basilica paleocristiana. La decorazione in stucco è opera di Arcangelo Guglielmelli eCristoforo Schor (1708). Gli affreschi sui dieci altari laterali con storie di martiri sono del pittore solimenesco Bernardino Fera. Sul pavimento e lungo le pareti sono disposte varie lastre tombali ed epigrafi con datazioni che vanno dal V al XIX secolo. La cappella successiva, dedicata al SS. Crocifisso, ha sull’altare di sinistra il dipinto di Luca Giordano con L’estasi della Maddalena (1671-72) e ai lati Santa Marta e San Lazzaro. Nella cappella vicina, intitolata a San Tommaso d'Aquino, c'è il dipinto raffigurante San Tommaso che riceve il cingono della castità datato 1652, di Pacecco De Rosa. Qui si conserva anche un'antica cattedra episcopale databile tra VI eIX secolo. Da qui si passa all’antisacrestia, decorata a “graffiti” da Giovan Battista Di Pino (1625 circa) con la raffigurazione della Discesa dello Spirito Santo sui f r a t i p r e d i c a t o r i e grotteschenella volta. Nell’antisacrestia sono conservati gli ex voto di San Vincenzo Ferreri, affettuosamente

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chiamato dagli abitanti del quartiere “il Monacone”, e delle interessanti foto d’epoca della sua festa. In sacrestia, l’altare in marmi policromi risale al 1728. Attualmente sull’altare è collocata una tela di Giovanni Pisani raffigurante la Madonna della Sanità (2003). Dalla sacrestia si passa nel vicino chiostro ellittico, nelle cui lunette il Di Pino rappresentò scene della storia dell'Ordine domenicano. Di nuovo in chiesa, nel cappellone della Circoncisione, troviamo l'enorme tela con la Circoncisione realizzata intorno al 1612 da Giovan Vincenzo D'Onofrio da Forli del Sannio. Sull’altare di sinistra la Santa Lucia, firmata da Girolamo De Magistro. Il dipinto su tavola, temporaneamente sistemato sulla destra dell’altare, proviene dalla sacrestia: raffigura San Domenico che dispensa il Rosario ed è opera di Giovanni Balducci (1623). La terza cappella a sinistra, è consacra-

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ta all’Annunciazione, raffigurata nel dipinto di Giovan Bernardo Azzolino del 1629. Alle pareti laterali vi sono due tele ovali del XVIII secolo con Santa Margherita da Città di Castello sulla destra e Santa Margherita d’Ungheria sulla sinistra. Nella quarta cappella a sinistra, dedicata a San Giacinto, si trova la tela di Luca Giordano con Lo Sposalizio mistico di Santa Rosa da Lima, databile intorno 1671. Nella quinta cappella a sinistra troviamo il dipinto di Agostino Beltrano (1654 circa) raffigurante San Biagio tra i Santi Antonino e Raimondo.


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