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OMAR DI FELICE

Omar Di Felice Rapito dal freddo

INTERVIEW BY GIANLUCA GASCA PHOTOS LUIGI SESTILI

Ama pedalare al freddo, mettersi alla prova con temperature limite esplorando territori nuovi e insoliti. Dall’Alaska all’Islanda, da Capo Nord al deserto del Gobi. Se le temperature scendono sotto lo zero siamo in “zona Omar”.

Dopo un breve accenno di carriera professionistica, Omar Di Felice ha scelto di lasciare il mondo dei watt e delle tabelle per dedicarsi a qualcosa di ancora più estremo, l’ultraciclismo.

Gare di oltre 300 chilometri che durano dalle 12 ore a interi giorni. Ci si dimentica l’avversario quando si pedala in queste condizioni, diventa una sfida contro sé stessi, una gara di resistenza per andare contro la mente e la stanchezza, contro quella voce che ti ripete con insistenza “fermati”. Race Across France (2600km non-stop unsupported), Race Across Italy (700km non-stop), Trans Dolomitics Way (1300km e 28000 metri di dislivello non-stop unsupported), Ultracycling Dolomitica (616km). Queste e molte altre le gare che hanno visto Di Felice primeggiare consacrandolo come indiscusso rappresentante dell’ultracycling in Italia. Mentre leggete questa intervista Omar si trova in Himalaya, impegnato in una lunga traversata invernale attraverso il versante nepalese della catena montuosa più alta al mondo. Un’esperienza in autonomia di settimane attraverso villaggi e passi montani dove il freddo è pungente e l’aria inizia a farsi rarefatta. Una pedalata dopo l’altra l’atleta si sta portando fino ai piedi dell’Everest. Non potevano trovare momento migliore per ascoltare le sue parole condividere la passione per la bici, ma soprattutto per l’inverno. Omar, come nasce la tua passione per la bici? Ho scoperto il mondo del ciclismo grazie alle imprese di Pantani, così all’età di 13 anni ho iniziato con l’agonismo. Un percorso tutto sommato normale, anche se ho sempre sognato le grandi distanze e spesso mi spingevo oltre le tabelle che mi imponevano gli allenatori.

Non eri abbastanza inquadrato per diventare il classico pro. Per me la bici ha sempre significato scalare montagne, visitare luoghi dove non ero ancora stato e scoprire nuovi angoli di mondo. Al mondo professionistico preferivo viaggiare senza pormi una meta precisa e delle tabelle da rispettare.

La bici in fondo è il nostro primo mezzo di trasporto quando siamo bambini, giusto? Esatto, direi che questa cosa ci accomuna tutti. Con lei ci possiamo allontanare da casa, esplorare il paese. Nel mio caso c’è stata una vera e propria scintilla verso il mondo del ciclismo che mi ha portato prima attraverso lo sport e dopo alla riscoperta di un mezzo con cui vivere avventure, è come se avesse riacquistato il suo valore simbolico.

Oggi sei famoso, oltre che per le tue avventure, per la tua predilezione verso la stagione invernale. Come mai questa scelta? Potrei dire di essere innamorato dell’inverno e del freddo da quando, ormai oltre dieci anni fa, andai per una vacanza in Islanda e rimasi letteralmente rapito dalle forme e dai colori. La sensazione del freddo sulla pelle, sulla faccia. Quasi subito iniziai a progettare nuove avventure, questa volta in bicicletta, con cui esplorare il mondo nella sua stagione più severa.

Torni spesso in Islanda, è un paese a cui sei particolarmente legato? Come ho detto è qui che è nato tutto. Negli anni ho poi vissuto delle esperienze uniche. La prima volta ho compiuto il periplo invernale della Ring Road, la strada che gira ad anello intorno all’intera isola, con un mezzo a supporto; la seconda volta sono partito in solitaria con l’idea di compiere il giro passando da nord, poi a causa di un tratto impercorribile sono dovuto tornare indietro completando il giro da sud. A fine 2019 ho deciso di muovermi in solitaria e in completa autonomia, dormendo in tenda. Sono così riuscito a esplorare le aree interne dove corrono piste e sentieri non asfaltati.

Nel tuo percorso hai avuto una continua evoluzione stilistica. Dalle gare, alle esperienze estreme con supporto, a quelle in solitaria e ora in autosufficienza. Credo faccia parte del naturale processo esplorativo la ricerca di un limite sempre maggiore. Quando ho iniziato con queste esperienze mi sono focalizzato sulla sicurezza di un mezzo a supporto che potesse aiutarmi in caso di bisogno, oggi voglio capire fin dove posso arrivare solo con la mia bici.

Sei arrivato nel deserto del Gobi in pieno inverno. Il primo ad attraversarlo in questa stagione, che esperienza è stata? È stato un susseguirsi di difficoltà ed emozioni. Da un lato ho vissuto un’esperienza umana incredibile che mi ha permesso di entrare a contatto con i popoli che vivono il deserto, dall’altra parte è stato complesso pedalare mentre dall’Italia mi arrivavano notizie tragiche. Sono volato in Mongolia il 24 febbraio 2020, poche settimane prima che il mondo si fermasse a causa della pandemia da Coronavirus. Quando è scoppiato il caos mi trovavo nel cuore del deserto e ho subito compreso quanto sarebbe stato difficile rientrare in Italia, così dopo un primo momento di incertezza ho deciso di continuare a pedalare per portare a termine la traversata.

Dalle foto sembra un ambiente caldo, è così? L’assenza di neve potrebbe ingannare, nella realtà il freddo era penetrante. Anche io all’inizio sono stato disorientato dalla vista del sole e della sabbia che donavano all’ambiente il classico aspetto dei deserti africani. Durante la prima parte della traversata il termometro è sceso a -30 gradi mentre nella zona centrale faceva più caldo con -10 o -15 gradi.

Durante le tue esperienze hai mai avuto paura del freddo? Una volta sì, mentre pedalavo in solitaria verso Capo Nord. Faceva veramente freddo, con il termometro fisso a -35 gradi e vento continuo. Ero nella zona di Alta, attorno a me non c’era nulla dove potermi riparare, l’unica traccia umana era quella striscia di asfalto su cui pedalavo. Dopo cinque ore e mezza ho iniziato ad avere paura perché ero completamente esposto e sapevo che sarebbe bastato un piccolo guasto alla bici per rendere davvero tragica la situazione. A quella temperatura non credo che sarei mai riuscito ad aggiustarla senza subire conseguenze. Temevo per il rischio di congelamenti e ho compreso come basti veramente poco per andare troppo oltre.

Quest’anno, per i tuoi 40 anni, l’avventura più alta di tutte: l’Himalaya. Una scelta simbolica? Per la cifra tonda volevo qualcosa da ricordare! Ho vissuto molte esperienze, ma se dovessi allocarle temporalmente pensando alla mia età mi risulta difficile farlo. Se mi dovessero chiedere cosa ho fatto a 40 anni sono sicuro che l’Everest mi verrà subito in mente.

Di Himalaya ed Everest avremo certamente occasione di parlare al tuo ritorno. Prima di lasciarti andare agli ultimi preparativi vogliamo però farti un’ultima domanda: stai già immaginando il dopo Everest? Cosa vedi nel tuo futuro? Penso che le passioni restino ma che cambi il modo in cui le viviamo. Questo perché cambiano le nostre esigenze, cambia il fisico, il ragionamento. Con l’età diventiamo maggiormente consapevoli. Io vedo la vita come un percorso che semplicemente sono pronto a vivere. Venendo alla risposta, posso solo dire che bici e avventura continueranno a far parte della mia vita per lungo tempo.

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