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PAOLO MARAZZI

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OMAR DI FELICE

OMAR DI FELICE

Paolo Marazzi: quando la passione diventa ossessione

TEXT MARTA MANZONI PHOTOS MICHELE CAMINATI LOCATION SAN MARTINO DI MENAGGIO - COMO - ITALY

Com’è nata l’idea della nuova via che avete aperto? Ho sempre guardato questa parete: si nota facendo l’autostrada del Lago. Si trova nel Paese di Griante, sul monte San Martino, appena prima di Menaggio, l’avvicinamento parte da una chiesetta. Di recente ho avuto modo di vederla con più calma dopo aver fatto il giro del lago in bicicletta e mi ha incuriosito ma non avevo altre informazioni. Così ho proposto alla ragazza con la quale mi frequento di fare una passeggiata e casualmente siamo finiti proprio lì sotto. Una pala gialla molto strapiombante, una roccia a cubetti. Allora ne ho parlato a Simone Pedeferri con il quale ho già fatto diverse scalate e so che è una garanzia: è davvero molto esperto. Lui all’inizio non era convinto, anche se si vedeva che era rimasto colpito, pensava non si potesse chiodare partendo dal basso mentre io non volevo aprirla dall’alto. Dopo esserci tornati di nuovo insieme e aver fatto passare qualche giorno, mi ha detto che Mirko Masè sarebbe potuto venire ad aprirla con noi.

Punti critici che avete incontrato? Era dicembre, quel breve periodo in cui la Lombardia è stata gialla, e abbiamo trovato giornate davvero fredde: scalavamo con calzini, scarpette, pantacollant, pantaloni, due pile e il piumino. Abbiamo chiodato la via in sei/ sette giorni: è stato quasi tutto un lavoro in artificiale, progredivamo un pezzettino, mettevamo il cliff e provavamo a chiodare. Io sono caduto almeno dieci volte con il trapano in mano. Abbiamo scalato ognuno in base alle parti che ci erano meno sfavorevoli, è stato un vero gioco di squadra. Simone partiva sempre a chiodare dalle soste, la speranza è sempre che il più forte come grado non ti cada in testa con il trapano in mano. Poi al penultimo tiro abbiamo trovato un blocco gigante di roccia accanto alla sosta e non sapevamo cosa fare. Non si poteva lanciare giù perché avrebbe potuto finire sulla strada e ancorarlo alla roccia non ci piaceva come idea. Alla fine abbiamo messo uno spit su questo sasso enorme, l’abbiamo imbragato e calato per centocinquanta metri, fino ad appoggiarlo a terra. Nei giorni seguenti siamo tornati per liberarla abbiamo visto che dietro questa via c’è un’altra parete che non è ancora stata scalata.

Come si chiama la via? Drink, cliff, fuck, repeat. Richiama il nome di una canzone dei Fat Boy Slim che stavamo ascoltando in automobile, e che si intitola Eat, Sleep, Rave, Repeat. Il cliff è stato fondamentale in tutta la via. Poi per personalizzare un po’ il nome abbiamo pensato alle altre attività che stavamo compiendo durante i giorni di lockdown, e abbiamo inserito le parole della quotidianità di quel periodo.

Quale grado proponi? 7c, 7a obbligato.

C’è una relazione della via? La via è già diventata un quadro di Simone Pedeferri (che oltre a essere un Ragno di Lecco è anche un’artista), ma la relazione non è ancora uscita. Ce l’hanno già chiesta diverse persone, proprio perché è una via che si può scalare in inverno, essendo esposta a sud pieno, ma per ora l’abbiamo tenuta in standby. L’aspetto più interessante di questo progetto è che mette in luce come ancora oggi sia possibile trovare un sacco di pareti e iniziative interessanti. A volte mi capita di buttare lì un’idea che poi, unita all’esperienza e alla determinazione di Simone Pedeferri, diventa un bel progetto.

Se ci fosse stata la possibilità di viaggiare avresti aperto lo stesso questa via? Sono stato diverse volte in Patagonia e avrei dovuto tornarci quest’anno: abbiamo un obiettivo e probabilmente potrebbero essercene altri cento in quel posto. Però anche qui sulle montagne di casa ci sono un sacco di belle idee e negli ultimi anni mi sono preso un sacco di soddisfazioni rimanendo vicino. Si può viaggiare solo alcuni mesi all’anno, per il resto hai tutto il tempo per scoprire le opportunità local che esistono. Ho bisogno di entrambe le cose, di stimoli all’estero e di ritrovarli anche in zona. Devo essere onesto però, senza la pandemia non credo che avrei aperto questa via.

Ogni generazione di scalatori vuole essere rivoluzionaria rispetto alla precedente. Quale pensi sarà la traccia che lascerà la tua generazione? Di sicuro si sta alzando ancora di più l’asticella. Ma il vero alpinismo esplorativo l’hanno realizzato gli scalatori che sono saliti per la prima volta sul Cerro Torre dal lato del ghiacciaio, per esempio. Mi sembra dura riuscire a superare le generazioni passate: gli scalatori degli anni ’30 erano dei pionieri, così come i sassisti del Masino, che seguivano solo una linea, fregandosene della cima. Penso a nomi un po’ provocatori come Il Risveglio di Kundalini, Luna Nascente, Oceano Irrazionale, Polimagò. Essere rivoluzionari come loro è impossibile. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di essere degli scalatori veloci. Siamo esploratori un po’ più comodi, abbiamo addirittura scoperto l’esistenza di una parete grazie a Google Earth: abbiamo intravisto un’ombra e abbiamo pensato di andare a dare un’occhiata.

Tutta questa tecnologia non va ad intaccare l’autenticità dell’avventura? Tutto è cambiato: prima quando scalavano il Fitz Roy si mettevano sotto la parete sul limite del ghiacciaio e stavano lì magari un mese e mezzo. Ora gli alpinisti aspettano la finestra di bel tempo al comodo in paese. È un alpinismo diverso.

In futuro come ti vedi? Hai mai pensato all’alpinismo himalayano? Considerando quello che mi piace fare ora direi di no, però non si sa mai. Non sono mai arrivato in cima neanche al Monte Bianco e per il momento non mi interessa, preferisco scalare sulle sue pareti. Non mi piace soffrire per la quota. Bisogna fare troppa fatica! In futuro vorrei avere un po’ più di visione su nuovi progetti e riuscire a realizzare meglio anche la parte logistica. Anche nel caso di quest’ultima nuova via che abbiamo aperto sono stato io a vedere il muro giallo ma la vera linea l’ha vista Simone, che continua a insegnarmi moltissimo.

Nel 2020 sono morti due tuoi amici, gli alpinisti Matteo Bernasconi e Matteo Pasquetto. Come stai? Mi hanno colpito tantissimo le loro morti e anche adesso continuano a ferirmi in modo diverso. Come mi hanno sempre stupito, nel bene, quando c’erano, anche ora continuano a darmi tanto. Con Matteo Bernasconi avevamo iniziato a creare un nostro gruppo di Guide Alpine, Milano Adventure, e ora che è partito il progetto e sta andando bene vorrei farglielo vedere, probabilmente lo vede. Con Matteo Pasquetto abbiamo fatto il primo esame del corso guide salendo tutte le vie legati insieme. Siamo andati molto bene, anche come voti, perché ci trovavamo proprio bene noi due. Mi mancano molto. Forse è un modo per convincere me stesso, ma il mantra che mi ripeto quando muore un mio amico in montagna, facendo ciò che gli piace, è che lui, in pochi anni, ha di sicuro vissuto più di molti anziani che muoiono a ottant’anni per vecchiaia. È chiaro che per un genitore è diverso, però io penso che ogni giornata dei miei amici che non ci sono più durasse cinquanta ore, per la passione con la quale veniva vissuta, e quindi in realtà non sono morti a venticinque anni, come Matteo Pasquetto, ma a settanta.

Il video della conquista del K2 in inverno mostra i dieci nepalesi che si aspettano, si tengono per mano e raggiungono insieme la vetta cantando l’inno nazionale. Una solidarietà che sembra lontana anni luce dall’individualismo di certi alpinisti occidentali. Era solo un alpinista senza ossigeno: l’exploit è stato di un singolo anche in questo caso, non del gruppo. Chi è il primo ad aver salito Silence? Adam Ondra, primo 9c al mondo. Chi è il primo ad aver scalato l’Everest senza ossigeno? Reinhold Messner, insieme a Peter Habeler. È sempre uno il nome che viene ricordato. Solo a volte pensi ai primi due della cordata e alla loro condivisione.

Andare in montagna è condivisione o narcisismo? Tutti vogliono tenere i propri progetti per sé. È ovvio che in un’intervista farei più bella figura se dicessi che la condivisione è più importante ma rileggendo queste parole mi sentirei ipocrita. Nell’alpinismo siamo tutti delle prime donne. Esiste un grado e quando scali cosa vuoi fare? Superare il tuo grado. È il tuo ego che ti porta ad andare oltre il tuo livello. Tutti vogliamo essere i primi a realizzare un’impresa: una competizione non scritta, che però esiste. Bisogna però stare attenti perché a volte porta a conseguenze fatali.

Qual è il confine tra passione e ossessione? È una differenza sottile e difficile da capire, per questo bisogna stare attenti. Credo però che l’alpinismo sia uno stile di vita, non uno sport. E quindi la tua passione diventa inevitabilmente la tua ossessione. Tu vivi per quello.

"Credo però che l’alpinismo sia uno stile di vita, non uno sport. E quindi la tua passione diventa inevitabilmente la tua ossessione. Tu vivi per quello."

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