prima cordonatura obbligata sul margine del disegno
Giovanni Verga
Novelle Il mondo dei vinti e le promesse mancate del Risorgimento
www.cosmoiannone.it
Dentro la storia Analisi dei personaggi Luoghi della scrittura Grandangolo
VERGA novelle
LIBERTÀ! gridano le masse popolari del Sud all’arrivo dei garibaldini. Ma quale libertà? quella dallo straniero, come proclamano i rivoluzionari? o la libertà dai galantuomini, come sperano i contadini meridionali? Le novelle di Giovanni Verga proposte in questo volume consentono di disegnare un percorso di conoscenza del mondo dei vinti siciliani e di rappresentarne il legittimo desiderio di riscatto sociale, purtroppo disatteso dalle nuove autorità governative nate dal Risorgimento. Al contempo, esse forniscono una possibile chiave di lettura di quel tema antico che oggi sembra riproporsi con accenti aspri e pericolosi per la tenuta dell’Italia. È il tema dell’unità incompiuta o, secondo alcuni, dell’unità impossibile per le distanze ancora esistenti tra il Nord e il Sud dell’Italia.
iannone
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E 8-8 LL 11 VE 6-0 NO 1 ONE 5 N N
97 IA
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Cosmo Iannone Editore
Sommario
Il mondo dei vinti e le promesse mancate del Risorgimento 7 Novelle Nedda Jeli il pastore Rosso malpelo L’amante di Gramigna Cavalleria rusticana Cos’è il Re La roba Storia dell’asino di San Giuseppe Libertà Fantasticheria
19 51 87 105 113 121 129 137 151 159
Schede didattiche Letture antologiche La Giovine Italia Giuseppe Mazzini e l’idea di Nazione Le mie prigioni, Silvio Pellico I fatti di Bronte Il Gattopardo, G. Tomasi di Lampedusa Il brigantaggio La Relazione Massari ’Ndrangheta e briganti. Storie separate in casa
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La roba Scheda p. 228
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: − Qui di chi sè? − sentiva rispondersi: − Di Mazzarò. − E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: − E qui? − Di Mazzarò. − E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: − Di Mazzarò. − Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che
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tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. − Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. − Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga − dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua
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terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della messe. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano a novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla
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mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: − Curviamoci, ragazzi! − Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule − egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte
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quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. − Costui vuol essere rubato per forza! diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia a casa», − «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone, e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: − Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te. − Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. − Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario
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Schede didattiche
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Le schede didattiche sono divise in quattro sezioni: DENTRO LA STORIA. Contiene esercizi e questionari relativi alla comprensione del testo. ANALISI DEI PERSONAGGI. Propone esercizi di approfondimento circa la psicologia dei personaggi, anche attraverso analisi comparative tra i diversi protagonisti delle storie narrate. LUOGHI DELLA SCRITTURA. Riguarda le tecniche di scrittura e di narratologia, per un approccio consapevole all’arte della scrittura narrativa. GRANDANGOLO. Approfondimento delle tematiche evidenziate, attraverso l’utilizzo di materiale letterario, giornalistico e documentale vario. Segue in appendice una sezione intitolata Letture Antologiche, nella quale ti propongo brani di genere letterario o giornalistico sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia.
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FANTASTICHERIA Vita dei campi
Una signora dell’alta borghesia visita un villaggio di pescatori, Aci Trezza, insieme a un suo amico. La dama è conquistata dalla bellezza aspra del paesaggio e dalla vita semplice dei pescatori. Tuttavia si annoia e per questo decide di ripartire anzitempo. Il narratore, appunto l’amico, con una lettera alla donna ormai lontana cerca di spiegare il senso di quella vita di uomini e donne così poveri ma così ostinatamente attaccati al loro nido.
DENTRO LA STORIA Rispondi alle seguenti domande: In quale regione italiana si svolge la vicenda? La dama non capisce la vita dei pescatori. Quale frase della donna esprime chiaramente questa sua estraneità al mondo dei poveri? Sottolinea nel testo e riporta nello spazio vuoto.
La frase della donna offre l’opportunità al narratore di spiegare la vita dei pescatori così povera ma al contempo così dignitosa. Egli utilizza delle metafore ispirate al mondo animale. Rintraccia le metafore e spiegane il significato.
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Condividi questo modo di pensare? Motiva la tua risposta.
ANALISI DEI PERSONAGGI Il narratore fa una specie di carrellata di personaggi muti e solitari, dei quali non si dice nulla, se non la sofferenza. Essi non hanno neanche un nome. Vengono genericamente indicati così: 99 Il povero diavolo 99 Quella ragazza 99 Quelli che morirono a Lissa 99 Il ragazzo dell’ostessa 99 Quei monellucci Ricerca nel testo i riferimenti a questi personaggi e indica qual è la loro condizione di vita
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GRANDANGOLO La famiglia, le tradizioni, l’attaccamento al luogo in cui si è nati garantiscono la sopravvivenza. Al di fuori di questo mondo, c’è il male. Chi tenta di sottrarsi al proprio destino, chi si mette in testa di cambiare per migliorare, va inesorabilmente incontro alla catastrofe. Leggi questo dialogo tratto dal romanzo di G. Verga I Malavoglia: – Sì, sì qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c’era prima. «Chi va coi zoppi, all’anno zoppica». – C’è che sono un povero diavolo? Ecco cosa c’è! – Bé! che novità! E non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel che è stato tuo nonno! «Più ricco è in terra chi meno desidera». «Meglio contentarsi che lamentarsi». – Bella consolazione! Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra: – Almeno non lo dire davanti a tua madre. – Mia madre …era meglio che non mi avesse partorito! – Sì, accennava padron ’Ntoni, sì! Meglio che non ti avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo. ’Ntoni per un po’ non seppe che dire: Ebbene! Esclamò poi, lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! Ecco cosa voglio …non voglio più farla questa vita. Voglio cambiar stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti. – […] Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove sono nato …tu sei un ragazzo, e non lo sai! …non lo sai! Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra …Lo vedrai! Te lo dico io che sono vecchio!
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Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo e dimenava tristemente il capo: «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi quelle passere? Le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene. – Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! rispondeva ’Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girare la ruota; io non voglio morire di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescecani. – Ringrazia dio piuttosto, che t’ha fatto nascere qui; e guardati dell’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova». Leggendo questo brano, hai potuto conoscere il punto di vista di un nonno, padron ’Ntoni, e di un giovane, il nipote ’Ntoni. Chi dei due ha ragione? Individua il pensiero e le motivazioni di: padron ’Ntoni
di ’Ntoni
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Confronta le parole del narratore della novella Fantasticheria con le parole di padron ’Ntoni del dialogo appena letto. Il modo di pensare di padron ’Ntoni è simile alla filosofia dell’ostrica? Motiva la tua risposta.
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Letture antologiche
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In questa sezione del libro sono raccolti brani che si riferiscono al tema del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, di cui ricorre il 150° anniversario il 17 marzo 2011. L’entusiasmo dei patrioti, il sacrificio di molti ragazzi per l’ideale della Patria, la delusione postunitaria fino al dibattito odierno sulla reale tenuta dell’unità del Paese ci fanno domandare se possiamo dirci ancora italiani e quale sia oggi il sentimento dell’italianità. Possiamo considerare completata e realizzata a pieno l’unità? come possiamo rispondere alle spinte disgregatrici che attraversano l’Italia? quali sono stati i vizi di fondo sui quali è stato costruito il processo di unificazione italiana? Questo spazio ti offre l’opportunità di saperne di più su queste tematiche lontane, ma allo stesso tempo così vicine alla nostra vita attuale.
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La giovine Italia
La Giovine Italia è un’associazione insurrezionale fondata da Giuseppe Mazzini nel 1831 a Marsiglia, in Francia, dove si trovava in esilio dopo essere stato processato per affiliazione alla Carboneria. Il programma della Giovine Italia prevedeva la lotta armata allo scopo di formare un’Italia repubblicana, democratica e unitaria.
Il giuramento della Giovine Italia Nel nome di Dio e dell’Italia; nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana caduti sotto i colpi della tirannide straniera e domestica, per i doveri che mi legano alla terra ove Dio mi ha posto e ai fratelli che mi ha dati; per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli; per l’odio, innato in ogni uomo, al male, all’usurpazione, all’ingiustizia, all’arbitrio; per il rossore che io sento, in faccia ai cittadini delle altre nazioni, del non aver nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria; per il fremito dell’anima mia, creata alla libertà e impotente ad esercitarla, creata all’attività del bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù; per la memoria dell’antica potenza; per la coscienza della presente abiezione; per le lagrime delle madri italiane per i figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio; io… creden-
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te nella missione commessa da Dio all’Italia, e nel dovere che ogni uomo, nato Italiano, ha di contribuire al suo adempimento; convinto che dove Dio ha voluto fosse nazione esistono le forze necessarie a crearla; che il popolo è depositario di quelle forze, che nel dirigerle per il popolo e col popolo sta il segreto della vittoria; convinto che la virtù sta nell’azione e nel sacrificio; che la potenza sta nell’unione e nella costanza della volontà; do il mio nome alla Giovine Italia, associazione di uomini credenti nella stessa fede; giuro di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in nazione una, indipendente, libera e repubblicana. Di promuovere con tutti i mezzi di parola, di scritto, di azione, l’educazione de’ miei fratelli all’intento della Giovine Italia, all’Associazione che solo può rendere la conquista durevole. Di non appartenere da questo giorno in poi ad altre associazioni. Di uniformarmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse nello spirito della Giovine Italia da chi rappresenta con me l’unione de’ miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita, inviolati i segreti. Di soccorrere coll’opera e col consiglio a’ miei fratelli nell’associazione. ORA e SEMPRE. Così giuro, invocando sulla mia testa l’ira di Dio, l’abominio degli uomini e l’infamia dello spergiuro, s’io tradissi in tutto o in parte il mio giuramento. Note lessicali Usurpazione Arbitrio Abiezione Commessa
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prendere possesso con violenza atto illegale l’essere spregevoli, ignobili affidata
Il Gattopardo Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Il funzionario piemontese Aimone Chevallay di Monterzuolo, a nome del Governo, offre la carica di senatore del Regno d’Italia al Principe di Salina, don Fabrizio, di Donnafugata. Con il Plebiscito del 1860 la Sicilia è infatti annessa allo Stato sabaudo. Il Principe è scettico circa l’unificazione dell’Italia che egli considera come una delle tante dominazioni subite dai siciliani nel corso della sua storia millenaria. Ecco il colloquio tra il Principe di Salina e il funzionario del governo sabaudo. Chi parla è il Principe che rifiuta la proposta offertagli dal governo italiano. […] noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli […] In questi sei ultimi sei mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci, perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno da noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi
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siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna cui abbiamo dato il la; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevallay, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso. Adesso Chevallay era turbato. Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista, ma libera parte di un libero stato […] Chevalley volle dire qualcosa, ma don Fabrizio era troppo eccitato per ascoltarlo. Ma mi scusi, Chevalley, mi sono lasciato trascinare […] Ritorniamo al nostro vero argomento: sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo a una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare se stesso, requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a questo ornatissimo catafalco. Voi avete adesso appunto bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, e che siano abili a
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mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealitĂ pubbliche.
Note lessicali Spaccare i capelli in quattro
distinguere
Esattori
funzionari addetti alla riscossione delle tasse
Eterogenee
di diversa natura
Abbiamo dato il la
abbiamo iniziato
Avvezzi
abituati
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prima cordonatura obbligata sul margine del disegno
Giovanni Verga
Novelle Il mondo dei vinti e le promesse mancate del Risorgimento
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LIBERTÀ! gridano le masse popolari del Sud all’arrivo dei garibaldini. Ma quale libertà? quella dallo straniero, come proclamano i rivoluzionari? o la libertà dai galantuomini, come sperano i contadini meridionali? Le novelle di Giovanni Verga proposte in questo volume consentono di disegnare un percorso di conoscenza del mondo dei vinti siciliani e di rappresentarne il legittimo desiderio di riscatto sociale, purtroppo disatteso dalle nuove autorità governative nate dal Risorgimento. Al contempo, esse forniscono una possibile chiave di lettura di quel tema antico che oggi sembra riproporsi con accenti aspri e pericolosi per la tenuta dell’Italia. È il tema dell’unità incompiuta o, secondo alcuni, dell’unità impossibile per le distanze ancora esistenti tra il Nord e il Sud dell’Italia.
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