Museo della Civiltà Romana / RICERCA

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PARTE PRIMA RIFLESSIONI SULLA COSTRUZIONE DELLO SPAZIO, ELEMENTI PRIMARI E MODI DI ANTROPIZZAZIONE. La formazione dello spazio abitato ed il suo carattere precario, l’allestimento come modo insediativo

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1-La ricerca sull’abitazione minima ( micro tipologie e costruzioni reversibili) a-Archetipi costruttivi africani ed eurasiatici: nomadismo e stanzialità b- L’architettura minore e la formazione del paesaggio italiano c- L’evoluzione della casa minima nel secondo novecento, le principali esperienze 2-Strutture e sequenze di spazi (l’estetica del telaio strutturale come spazi primario) a- Forma della struttura e struttura della forma (Musmeci, Morandi, Moretti) b- Il telaio strutturale come elemento generatore dello spazio c- Atlante 3_ Radicalismi ( modelli ideologici e ricerche architettoniche) a- La west Coast e le comunità hippie: l’architettura della frontiera b- Il decennio d’oro:1968- 1977 l’architettura radicale europea c- Papanek, Price e Fuller, esperienze ecologiche a confronto   PARTE SECONDA INDAGINE SULL’ARCHITETTURA ROMANA: Unicità dello sviluppo di Roma, l’invasione della campagna 1- La messa in scena ( il ruolo del cinema nello sviluppo della cultura architettonica a Roma) a- Il cinema e lo sviluppo urbano: ricostruzioni e dilatazioni spaziali b- La nuova frontiera della città e la crisi della borghesia c- L’EUR come teatro di posa 3


2- Architetti romani tra fascismo e boom economico ( Il ruolo di Aschieri e Pascoletti nella vicenda architettonica romana del periodo) a- Elementi di continuità tra l’architettura del fascismo e quella del dopoguerra b- Alfabeto astratto e avanguardie nella figurazione urbana c- Aschieri, Pascoletti e il Museo della Civiltà Romana 3- Cicli sociali e sviluppo urbano : l’ EUR e l’idea di modernità ( il quartiere come paradigma della renovatio urbis di Roma) a- Fondazione e crisi di un modello urbano b- Un quartiere emblematico c- Lo sviluppo ciclico e la renovatio urbis 4- Avanguardie artistiche ed effimero architettonico ( influenze e contaminazioni nel paesaggio dell’architettura romana ) a- b- c-

L’estate romana di Renato Nicolini Mario Schifano e la cultura popolare Rivoluzione, effimero ed edonismo nella parabola degli anni settanta

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PARTE TERZA GEOGRAFIA DEL MUSEO Origine e significato della parola museo 1-Il museo italiano nel 900 (riuso allestimento , addizione) a- BBPR ed il Castello Sforzesco, storia di un allestimento b-Scarpa alla Querini Stampalia: il riuso e la città c-Albini a Genova: l’addizione del museo del Tesoro di San Lorenzo 2-I musei di New York ( elite e masse a confronto) a-libertà sociale e diffusione dell’arte a New York: una riflessione b- Il Whitney Museum: storia di una sperimentazione c-Arte e identità dei luoghi: Il caso del New Museum a Bovery 3-Il sistema museale di Berlino ( l’arcipelago dei musei) a- I musei e la città: riappropriazioni postunitarie b- il Neue Museum di Chipperfield: storia di una ricostruzione c- Neue National Gallerie di Mies : lo spazio generalista per l’arte. 4-I nuovi musei di Cina e Giappone (capitalismo e architettura di inizio millennio in Oriente) A L’Oriente visto dagli Occidentali a- Oriente e cultura architettonica contemporanea: Sigeru Ban e Kengo Kuma b- Sviluppo della architettura museale orientale nel secondo novecento 4


Flaminia Rosa_Francesca Mazzuca 1-La ricerca sull’abitazione minima ( micro tipologie e costruzioni reversibili) a1- Archetipi costruttivi eurasiatici: nomadismo e stanzialità Tradizionalmente si distinguono due differenti forme di insediamento: una temporanea, la più antica, che è tipica delle popolazioni nomadi e affonda le sue radici nell'organizzazione sociale e produttiva delle comunità; l'altra permanente che si sviluppa quando l'uomo, divenuto agricoltore, si stanzia in un luogo e inizia ad organizzarsi in strutture socio-politiche complesse. La costruzione a carattere temporaneo ha origini remote e segue un percorso parallelo all'evoluzione del genere umano ed al suo modo di vivere ed interagire con l'ambiente. Il concetto di transitorietà abitativa si pone in antitesi con quello di permanenza che invece definisce, generalmente, la naturale tendenza di ogni individuo a fissare la propria dimora e la sede delle proprie attività lavorative, culturali, religiose, di svago, in insediamenti stabili ed organizzati. La transitorietà di un'opera contrasta anche con il tradizionale concetto di architettura, vincolata ai canoni classici dell'oggetto ed espressione della durevolezza e della permanenza, nel tempo e nel luogo, del costruito, inteso sia nella sua essenza materiale, sia in quella storica, culturale e simbolica. La casa, in genere, rappresenta un bene prezioso, ma spesso realtà culturali e antropologiche, caratterizzanti particolari situazioni locali, privilegiano valori che vanno oltre l'attaccamento o l'esigenza di possedere un'abitazione, come nel caso di molti Paesi emergenti, in via di sviluppo, o di popoli nomadi per i quali l'abitazione rappresenta un bene temporaneo, mutevole e legato ai cicli stagionali, agli spostamenti o al ripetersi di calamità che si possono manifestare periodicamente in alcuni territori del nostro paese. Per culture come queste la casa può essere anche una tenda, una capanna, una baracca costruita con i materiali reperibili sul luogo. Queste abitazioni traggono le loro origini dalle prime forme di riparo costruite sin dall'età paleolitica, quando l'uomo era costretto a spostarsi continuamente da un territorio all'altro, per procurarsi il sostentamento. A questo periodo risalgono alcuni rifugi temporanei, come la cosiddetta capanna aurignaciana a pianta circolare, in Francia, formata da un'intelaiatura a cupola autoportante costituita da rami saldamente infissi nel terreno e poi ricoperti con pelli cucite. A queste segue la capanna maddaleniana, sempre in Francia, la prima vera costruzione leggera di capanna abitata temporaneamente durante il periodo estivo. Le culture nomadi, ancora oggi presenti in tutti i continenti e spesso mal tollerate degli attuali governi, sono in continuo movimento, alla ricerca di nuove risorse per far fronte ai più elementari bisogni. Queste comunità, ognuna con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie pratiche di vita quotidiana, sono tutte testimonianza di una perfetta armonia tra uomo e ambiente e portatrici di un immenso patrimonio culturale. I pastori nomadi Kinghisi si spostano da un punto all'altro del territorio mongolo dell'Asia Centrale, trasportando sui loro commelli gli elementi che compongono il loro tradizionale riparo, utilizzato da migliaia di anni e la cui tecnica costruttiva è stata tramandata sino ai nostri giorni. Parlando ora di forme di insediamento permanente, non possiamo fare a meno di citare diverse tipologie di abitazione che nel vasto territorio dell'eurasia si affermano per il loro carattere estremamente rappresentativo dei vari popoli che le abitano. I Sami sono una popolazione indigena disseminata lungo i territori settentrionali di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Le case tradizionali dei Sami sono le Gamme e cioè abitazioni costituite da una struttura di travetti lignei ricoperti da zolle d’erba, generalmente circolari e a forma di cupola. Alcuni Sami, lasciando


il loro stato di nomadismo, costruirono delle Gamme rettangolari più grandi, dove uomini e animali convivevano nella stessa struttura e nel Novecento le Gamme divennero stalle e rifugi per gli animali domestici.

Tipiche delle isole Ebridi, un arcipelago al largo della Scozia, sono invece le Black Houses, il cui nome deriva dal fatto che tali strutture non erano dotate di comignoli e quindi i muri interni erano anneriti dalla fuliggine. Si tratta di edifici oblunghi, ad un solo piano con tetto in paglia. Hanno una forma bassa ed arrotondata per offrire minor resistenza ai venti atlantici. La costruzione cominciava erigendo due muri che si assottigliavano in sommità con un’intercapedine riempita di ciottoli, pietrisco e sabbia coperta poi con zolle di erba in modo da formare una sorta di sentiero su cui potevano arrampicarsi le pecore. Poiché sulle Ebridi non crescono alberi, il legname utilizzato per sostenere il tetto di paglia era quello che veniva trasportato dalle correnti oceaniche. I tronchi venivano fissati ai muri interni, coperti da due strati di zolle, poi da paglia (di cereali) ed infine coperti da vecchie reti da pesca legate con funi di erica e fermate con grosse pietre. Dentro la Black House, a un capo dell’edificio viveva la famiglia e dall’altro gli animali.

La Struttura lignea a Cruck è tipica della zona del Regno Unito, se ne potevano trovare esempi anche in Francia, Irlanda del nord e Scandinavia. Si tratta di una struttura completamente costituita da pali di legno ed ha come punto di partenza un tronco d’albero, o il ramo principale, che viene diviso a metà verticalmente e successivamente le due metà vengono legate in cima con un collare a formare una “A”. Queste strutture, messe in serie, vengono collegate mediante una trave di colmo e due traverse nei cornicioni. Vengono poi


posti dei paletti più piccoli disposti a triangolo in modo da irrigidire tutta la struttura. Il tetto è composto da travicelli che corrono dalla trave di colmo fino alla traversa che sosteneva il tetto di paglia. Le pareti hanno la sola funzione di tamponamento e possono essere in zolle d’erba, argilla o pietra. Per evitare che il legno della struttura marcisca, l’intero edificio è appoggiato su pietre tonde. In seguito ad una insufficienza di legname venne introdotta la tecnica del “box framing”, tecnica che usa travi più piccole e meno legname permettondo la costruzione di un secondo o terzo piano.

La Casa in Cob è, appunto, un'abitazione costituita da un materiale composto da terriccio, argilla, sabbia e ghiaia mescolati a paglia e acqua per ottenere una massa malleabile utilizzata sia per la costruzione dell’edificio, che per gli oggetti interni e il mobilio. Gli edifici in Cob si possono trovare in molte zone del mondo ma specialmente in Inghilterra sudorientale. Questo tipo di costruzione ha molti vantaggi: le pareti, una volta asciutte, diventano molto resistenti, si possono adattare a qualsiasi forma, modellare (con vanga e piccone) e non necessitano di alcuna struttura portante, in quanto il Cob è esso stesso un materiale portante. L’unico svantaggio è la lunga costruzione, che può durare fino a quindici mesi. I muri vengono poi rivestiti di intonaco e rinzaffi permeabili a base di calce, per consentire al muro di far evaporare l’umidità. Il tetto è solitamente di paglia con cornicioni sporgenti.


Un tempo diffusa nei Paesi Bassi orientali e in Germania settentrionale, la Casa-granaio Hallenhaus, è un edificio che riunisce abitazione, stalla e magazzino per i cereali. Si tratta di un edificio con struttura lignea in cui la navata centrale è sostenuta da un sistema di capriate in cui lunghe travi corrono perpendicolarmente sopra a file parallele di pilastri; si viene così a formare una lunga sala pavimentata con grandi tavole di legno utilizzata per tutte le attività importanti. Sui lati sono presenti le stalle. Le Hallenhaus si distinguono in base al numero di alloggi per animali presenti all’interno: le più piccole ne avevano due, le più grandi almeno dieci. Sul lato opposto vi è l’alloggio vero e proprio, dove vivono la famiglia ed i collaboratori, con i locali disposti attorno ad un focolare centrale aperto. Il tetto è grande e inclinato, coperto di paglia, e le mura esterne presentavano incorniciature di legno e pannelli di cannicciata o mattoni.

Le Chiese lignee dell’Europa centrorientale sorgono in una regione che dalla Russia settentrionale copre Finlandia, Polonia, Romania, Ungheria e Balcani. Hanno la stessa tecnica di costruzione delle case in legno e hanno forme diverse a seconda del popolo che le ha costruite: i Bojko, che vivevano in vaste zone dei Carpazi in Ucraina, i Lemko, allevatori nomadi venuti dall’est e gli Hutsul, seminomadi del sudest ucraino. Le chiese Bojko hanno tre vani con tre cupole; la sala centrale, che è la più grande, è sormontata dalla cupola più alta. Verso est c’è il santuario, verso ovest il nartece, dove sedevano le donne; queste sale e le relative cupole sono più piccole. Le chiese sono circondate da un portico coperto da tegole e sostenuto da pilastri. La chiesa Lemko è formata da un piccolo presbiterio sul lato orientale, una grande navata quadrata al centro e il nartece ad ovest. Il presbiterio è sormontato da una serie di tetti via via sempre più piccoli che culminano con una cupola e una croce. Sopra la navata c’è una versione più grande del tetto del presbiterio, mentre il nartece aveva una torre campanaria che conteneva un magazzino al secondo piano. Le chiese Hutsul sono formate da cinque sale sormontate da tetti spioventi con una piccola cupola in cima. La sala centrale è rastremata e di forma ì ottagonale coperta da un tetto conico a otto lati. Queste chiese avevano due ingressi: uno sul lato ovest per le donne, e uno sul lato est per gli uomini.


Due strutture popolari sono i simboli della cultura slovena: l’essiccatoio per il fieno e l’arnia. L’essiccatoio per il fieno è una semplice rastrelliera di legno autonoma, dotata di tetto su cui si fanno seccare paglia e cereali. Venivano anche utilizzate in pendii scoscesi ancorate da sostegni mentre nelle zone più piovose tali strutture avevano una tettoia protettiva su un lato, a protezione dalla pioggia. Le arnie sono invece costruite interamente in legno con un tetto rivestito di tegole lignee; sul lato anteriore sono presenti i cassetti degli alveari, spesso riccamente decorati; molte di queste casette erano mobili, per spostare le colonie di api da un pascolo all’altro.

Minka è un termine generico che letteralmente significa case del popolo, e comprende una grande varietà di strutture residenziali: dalle grandi dimore dei capovillaggio , fino alle case più modeste dei contadini. Lo scheletro della struttura della Minka giapponese era in legno, con fondazioni di pietra, mentre i muri esterni erano in bambù e argilla. Lo spazio interno è suddiviso da porte scorrevoli in legno e pannelli di carta o da grate di legno. Il tetto veniva ricoperto da paglia ed erba, con l’aggiunta di tegole se si voleva indicare una condizione sociale elevata.

Il nome toda deriva dalla tribù Toda, che vive sull’altopiano Nilgiri nell’India meridionale. Le case toda tradizionali sono capanne rettangolari con volta a botte il cui elemento strutturale principale è il tetto ricurvo composto da spesse canne di bambù sostenute ai lati da blocchi di granito liscio o tavole di legno fissate con funi di rattan. Il tetto è formato da un denso strato di canne di bambù più sottili che corrono in orizzontale lungo la capanna, anch’esse fissate con funi di rattan. Il tetto, una volta completato, viene poi ricoperto da


uno strato fitto di erba di palude mentre le facciate vengono dipinte. L’intera abitazione non presenta finestre ma ha un piccolo ingresso sul davanti. Inoltre la struttura è completamente circondata da un muro di pietre.


a2- Archetipi costruttivi africani: nomadismo e stanzialità Dal momento in cui il territorio sahariano ha cominciato a diventare un deserto, la vita dell’uomo vi si è organizzata in maniera nomade: interi gruppi di popolazioni si sono incaricati di garantire i trasporti e i commerci tra le “rive” sud e nord della grande distesa “vuota”, tra le steppe del l’altipiano bordato dai monti dell’Atlante e le altre steppe che si trovano nel Sudan. Si usa distinguere la popolazione nomade in due categorie: i “grandi nomadi”, che si spostano con le loro famiglie per lunghi periodi e i “transumanti stagionali”, che seguono il ritmo delle stagioni coi loro spostamenti tra due zone. Altre distinzioni possono essere fatte riguardo ai diversi tipi di bestiame allevato (camelidi, ovini o bovini) o al tipo di abitazione (tende, capanne smontabili, capanne fisse). I tre grandi bisogni da soddisfare per vivere sono l’acqua, l’erba e il sale. Poi la famiglia nomade diviene autosufficiente, perché può vivere del latte e della carne degli animali che essa stessa alleva. Il traffico del sale ha tracciato, sin dall’antichità, le prime rotte di comunicazione, nei deserti africani come pure in Europa o in altri continenti. Il nomade sahariano ha sempre amato l’accampamento, così come ha sempre amato la vita libera e disprezzato il lavoro dei contadini. Ha sempre considerato i sedentari come suoi vassalli o suoi servi. In realtà, popolazioni nomadi e sedentarie vivono, o vivevano sino a qualche tempo fa, in simbiosi, come certe specie animali o vegetali: pur conducendo vite completamente diverse, erano in un certo senso indispensabili gli uni agli altri e integravano così le reciproche produzioni con i bisogni: latte in cambio di cereali, pascolo per gli animali in cambio del concime fornito dai loro escrementi, generi di commercio provenienti da lontano in cambio di acqua, frutta, riposo e di donne da sposare per mescolare le razze. I nomadi guerrieri, dotati di forza e di mobilità, potevano spadroneggiare sulle popolazioni sedentarie, sempre esposte al ricatto della distruzione delle case o dei campi. Quest’equilibrio, questa simbiosi, ha dato luogo a complessi rapporti sociali che si riflettono nelle stratificazioni di potere dei moderni Stati del Sahel. I nomadi preferiscono le tende e pensano che potrebbero ammalarsi se trascorressero troppo tempo in una casa fissa. Nel Mali e nella Repubblica del Niger si trovano le tende tuareg che possono essere coperte da stuoie (nella zona sud) o da pelli. Le pelli di pecora sono trattate con burro e ocra rossa, dopo la concia, per impermeabilizzarle; ciò dà alle tende un colore rosso cupo. La tenda araba detta khaima o anche “tenda nera”, è diffusa tra gli altri gruppi di nomadi berberi che vivono nella fascia settentrionale del deserto, dal Mediterraneo alla Mauritania. Essa è tessuta col pelo di ovini neri, misto a pelo di cammello. Un telo completo è fatto di 7 o 9 bande parallele, cucite insieme. Per sostegno si usano normalmente due pali disposti a V capovolta con le basi ingrossate a bulbo, perché non affondino nella sabbia le estremità superiori appuntite, tenute insieme alla sommità da un blocco di legno. Corde e picchetti assicurano alla tenda la necessaria tensione. In alto, sul vertice, un’applicazione bianca di forma geometrica costituisce lo stemma della tribù. Il tessuto della tenda è arioso nella stagione secca e diventa quasi impermeabile, con il rigonfiamento delle fibre, alle prime piogge. In Mauritania esiste anche un secondo tipo di tenda, più piccola, fatta con strisce di cotonata bianca importata dal Mali o di stoffa blu: si chiama bénié e serve o da riparo secondario contro il sole oppure per coloro che si spostano frequentemente, i cammellieri. Diversi sono i modi per sostenere una tenda e la loro conoscenza può aiutare a distinguere i gruppi etnici e le tribù. I Masai, allevatori di stirpe nilotica che vivono sugli altipiani tra il Kenya e la Tanzania, hanno due tipi di villaggi: il manyatta, o recinto dei guerrieri, costruito per i giovani dalle loro madri; essi vi si ritirano dopo l’iniziazione a vivere in comune, come in un collegio o in una caserma, e possono portare con sé delle ragazze come compagne di notte, nelle loro capanne da scapoli. I giovani guerrieri (moràn) possono sposarsi solo dopo essere divenuti anziani.


Il secondo tipo d’insediamento è quello delle abitazioni familiari: il capofamiglia e tre o quattro mogli, con i propri figli sposati, secondo la tipica struttura patriarcale. Nel recinto si trovano una trentina di basse capanne ovali, con la porta in posizione eccentrica. Esse appartengono alle donne, che sono incaricate di costruirle e di curarne la manutenzione quasi quotidiana, durante la stagione delle piogge, che consiste nello spalmare sterco di vacca sui buchi del tetto. L’armatura è fatta di rami flessibili arcuati, appoggiati a un palo a forma di volta. Un tramezzo separa la zona dei letti: quello della donna si trova a sinistra di quello del marito, il quale visita a rotazione le proprie mogli. Il suo letto è sempre pronto in tutte le capanne. Nel centro dell’area “di soggiorno” vi è sempre un fuoco per illuminare l’interno, privo di finestre, dove si riuniscono le donne. Verso il Sud, tra i nomadi africani sono molto diffuse le capanne a forma emisferica, sorrette da intelaiature di rami arcuati, che possono essere smontate e trasportate. I pastori che si muovono più frequentemente smontano le loro case o tende e le trasportano da un luogo all’altro. Quelli che compiono un grande spostamento, una volta all’anno, hanno case permanenti in uno o nell’altro degli accampamenti stagionali. Quanto maggiore è la distanza da percorrere, tanto più grande, di solito, è il raggruppamento di popolazione che intraprende la migrazione.


Iniziando a parlare di villaggio ci si rende conto che la parola stessa è in un certo modo fuorviante quando si riferisce alla realtà africana. In molti luoghi i villaggi sono comunità di gente, più che gruppi di abitazioni. Alcuni di questi non sembrano esistere fisicamente. Talvolta si può vedere un’unica grande casa, nella quale vive un intero clan o gruppo parentale. Di solito i villaggi africani esprimono, nel proprio aspetto spaziale, la struttura sociale della popolazione che li abita. Le relazioni variano nel tempo con le nascite, i matrimoni, i divorzi o le morti, ma la struttura generale rimane costante. La natura non duratura delle costruzioni permette un rapido adattamento al mutamento delle situazioni familiari. Un uomo che sposa una nuova donna può costruire una casa per lei nel proprio lotto familiare. Un villaggio in cui muore il capo può avere l’esigenza di orientare di nuovo tutte le abitazioni verso la casa del nuovo capo. Villaggi e case sono costruiti “indosso” alla gente e ai gruppi sociali, non esiste il concetto opposto, che la gente possa adattarsi a vivere in case, in villaggi, in spazi precostituiti e non adeguati alla realtà sociale. Secondo la tradizione, l’ambiente costruito è pianificato con grande attenzione, secondo principi pratici, direttive di natura religiosa e tabù. Certi villaggi, nel cuore del continente, sono suddivisi in due parti: una metà per gli abitanti di una generazione e l’altra per la generazione successiva; la terza generazione alloggia nella stessa sezione della prima e così via, in modo alterno. Tutto il villaggio rimane, comunque, sotto l’autorità di un unico capo. È difficile studiare la disposizione in pianta d’un villaggio senza conoscerne le regole invisibili di disposizione. Alcune volte la disposizione ideale di certi villaggi deriva da significati simbolici. Spesso le loro piante hanno una disposizione simmetrica. La più comune è un cerchio di case rotonde, intorno a uno spazio centrale, in uso nell’Africa meridionale. In Africa centrale si trovano disposizioni assiali, a ferro di cavallo, a forma di quadrato. In certi casi, la disposizione fisica del villaggio non esprime in modo rigido l’organizzazione sociale. Nelle società che rispettano la divisione tra i gruppi d’età, anche la forma fisica del villaggio può esserne influenzata. Le culture pastorali dell’Africa centro-meridionale hanno sviluppato un tipo di insediamento, il kraal circolare, che ha nel centro il recinto per il bestiame e all’esterno le abitazioni, ampiamente omogeneo. Gli accampamenti dei gruppi mobili non differiscono sostanzialmente da quelli che abbiamo appena descritto; anch'essi hanno una difesa circolare con un solo ingresso, un anello di abitazioni, un recinto circolare per il bestiame nel centro.



b- L’architettura minore e la formazione del paesaggio italiano Terminato questo breve viaggio alla scoperta degli archetipi costruttivi eurasiatici ed africani, cerchiamo di capire quali siano le premesse all'attuale variegata offerta di considerazioni specialistiche e regionalistiche sul patrimonio rurale e dove siano da ricercarsi i primi studi di carattere generale che hanno tentato una prima organica sistemazione analitica della materia. Assumendo un rigido criterio cronologico, tali studi sono stati suddivisi per fasce temporali, allo scopo di dare una misura della crescita delle ricerche specifiche, in quantità e qualità, ricostruendo le radici storiche dell'interesse per l'architettura rurale a partire dagli ambienti culturali in cui tale interesse matura. I vari studi sono compresi in ambito urbanistico e geografico, storico-critico ed architettonico, senza trascurare quelli che affrontano il tema da un'angolatura anche tecnica e pratica, puntando all'indagine di aspetti igienico-funzionali, o solo formali, linguistici e tipologici delle abitazioni rurali. Dagli anni 1910-1930, il tema dell'architettura rurale è stato diffusamente affrontato da parte degli architetti e dei geografi, allorché cominciano a delinearsi nuove moderne metodologie d'indagine, focalizzate sul rapporto tra l'uomo ed il suo contesto ambientale, sia naturale che artificiale. Tra queste ha un grande riscontro l'Antropogeografia, scienza che lega i fenomeni della geografia fisica a quella umana, ed attribuisce alla casa rurale un ruolo fondamentale nella ricerca geografica, in quanto espressione dell'adattamento dell'uomo alle condizioni geo-climatiche. Il dibattito sull'architettura rurale in Italia negli anni tra le due guerre nasce come riflesso delle tendenze europee che, nella seconda metà dell'Ottocento, avevano portato alla nascita della geografia umana come disciplina finalizzata allo studio delle relazioni tra uomo e ambiente. I primi ad occuparsene sono infatti i geografi, che dalla tribuna offerta dalla Rivista geografica italiana, volgono l'attenzione al dibattito internazionale e all'esperienza francese delle Annales de geographie di Vidal de la Blache. La casa rurale, intesa come elemento di mediazione tra uomo e ambiente, acquista centralità a partire dai primi anni '20, sulla scia delle indagini avviate in Francia da Albert Demangeon che propone una classificazione "strutturale" delle dimore rurali sulla base dei rapporti tra abitazione e rustico. Per lui, infatti, la casa è soprattutto uno "strumento di lavoro" e deve essere classificata a seconda delle funzioni che ospita e delle operazioni che rende possibili. Il lavoro di Demangeon costituisce il punto di partenza di Renato Biasutti, membro della Commissione di studio sull'abitazione rurale nata dal Congresso internazionale di geografia del 1925, che si farà promotore di una strumentazione metodologica calibrata sul caso italiano e dell'avvio di un'indagine sistematica sulle diverse regioni del Paese. Renato Biasutti, pur confermando la classificazione strutturale proposta dal geografo francese, decide sin da subito di impostare una metodologia di studio che accoglie come categorie conoscitive anche i fattori di natura economica ed etnologica. Dagli studi di Biasutti si evince infatti l'impossibilità di considerare la casa rurale esclusivamente come una risposta a problemi ambientali e funzionali. Adottando pertanto un'analisi di carattere etnografico, con l'inclusione degli aspetti linguistici e formali, questi crea un ponte fra diversi ambiti disciplinari attuando un processo osmotico fra l'impostazione metodologica dei geografi e quella degli architetti. Parallelamente si sviluppano in campo architettonico le prime ricerche di carattere tecnologico-costruttivo, mentre altri filoni non meno rilevanti riguardano il rapporto architettura colta-architettura minore e la relazione casa ruralepaesaggio. Le ricerche in questo ambito presentano un sostanziale dualismo: da un lato gli esponenti del Razionalismo tendono a riconoscere nell'architettura rurale i parametri essenziali del moderno linguaggio architettonico (rapporto immediato forma-funzione, assenza di decorazione, sincerità costruttiva), dall'altro i tradizionalisti considerano l'architettura rurale come un serbatoio di forme cui ispirarsi nella ricerca di un nuovo stile basato sulla tradizione costruttiva italiana.


Queste tendenze generali, quali che siano gli scopi, un recupero di impronta nazionalistica delle tecniche tradizionali, o la ricerca di una ulteriore giustificazione ideale a supporto di una architettura a volte esasperatamente spinta verso l'essenzialità delle forme, denotano un'attenzione costante verso l'architettura rurale. Non a caso anche gli architetti considerati i più accaniti fautori del movimento moderno non mancarono di guardare con interesse alle tecniche costruttive più antiche spesso reinterpretandole, come le Corbusier nel suo impiego della volta catalana. Non sorprende perciò questo interesse verso l'archetipo dell'architettura rurale o spontanea, anche nel corso dei primi anni venti, quando diviene forte e tenace la tensione verso il nuovo ed il moderno a dispetto di tutto quanto era ritenuto appartenente a modelli ormai superati. In questo quadro, l'esperienza della Mostra sull'architettura rurale promossa da Giuseppe Pagano per la VI Triennale del 1936 si è confermata come uno snodo cruciale, e non solo per il contesto culturale italiano. Giuseppe Pagano, dal 1930 coodirettore con Edoardo Persico di Casabella, inizia le prime indagini tecnologiche sul patrimonio edilizio "minore", definito come "un immenso dizionario della logica costruttiva dell'uomo" sulla scorta di un analogo interesse dimostrato da altri esponenti del Movimento Moderno. Nel testo scritto insieme a Guarniero Daniel nel 1936, Pagano individua in presupposti di natura meramente funzionale le cause che hanno originato le forme e i sistemi costruttivi dell'architettura rurale. Si tratta questo del primo tentativo, in campo architettonico, di analizzare le tipologie delle abitazioni rurali in base a fattori quali il clima, il suolo, le tecniche costruttive e l'economia. Un'indagine meticolosa, quindi, che diede origine ad una appassionata posizione critica di Pagano nei confronti dell'architettura rurale, in quanto non solo le veniva attribuito valore estetico autonomo, ma le veniva assegnata una posizione preminente rispetto all'architettura ufficiale. Al paesaggio, invece, sono legate le memorie ma anche le sorti di una possibile rinascita civile. Nel dibattito dell'immediato dopoguerra, l'istanza morale posta alla base della ricostruzione riconosce nella lunga durata dei caratteri originali del paesaggio italiano un campo di leggittimazione dell'operare alternativo ai modelli formali e alle convenzioni culturali compromesse con la guerra. Il paesaggio italiano si presenta agli occhi degli architetti in figure tipiche, consolidate da una rappresentazione letteraria che insiste su una sua dimensione arcaica e mitologica. La suggestione dell'origine primordiale è forte e la realtà sociale sembra essere lì per confermarla: l'Italia è una nazione in cui, nel 1951, la popolazione attiva è occupata per il 42% nell'agricoltura, e la produzione industriale è ancora relegata in ben definite aree geografiche. Il carattere e l'estensione della dimensione rurale della nazione si riflette nelle condizioni materiali di vita dei suoi abitanti. Nel 1953 sono pubblicati gli esiti della Inchiesta sulla miseria, che mostra come, a Roma, quasi centomila persone abitino ancora in capanne o nelle malfamate borgate. Non si tratta esclusivamente di un problema quantitativo: il conflitto possibile tra il diritto a una casa sana e il rispetto verso culture abitative che sono il riflesso di costumi sociali, emerge con evidenza letteraria nel caso dei Sassi di Matera. Le case scavate nel tufo che compongono il tessuto urbano millenario della città, sono, a partire dal dopoguerra, oggetto di un laboratorio di analisi sociologiche e urbane finalizzate alla traduzione delle unità di vicinato troglodite in razionali forme insediative moderne. La tensione verso l'ambiente naturale muta così in curiosità antropologica: attenzione alla presunta naturalità dei modi di vita dei suoi abitanti. Un atteggiamento che assume legittimità anche disciplinare attraverso la commemorazione dell'eredità morale di Guseppe Pagano, cioè di chi, in nome del Moderno, aveva percorso con più determinazione una strada alternativa alla retorica degli "archi e colonne" celebrata dall'architettura di regime. Il tentativo di Pagano di costruire una genealogia dell'architettura moderna italiana tutta giocata in chiave antimonumentale


è utilizzata come punto di partenza strumentale a un processo di modernizzazione in grado di riconfigurare il significato di modernità secondo caratteri propri di un'identità nazionale e popolare. La ricerca di Pagano di una "tradizione segreta" in quegli esempi costanti di edilizia che riproponessero sempre uguale e semplice l'idea della vita e della convivenza (case rustiche, anonime, d'ogni tempo e d'ogni regione, dalle cascine lombarde alle fattorie toscane, ai trulli pugliesi), permette di definire un modello formale che priva il locale della propria storia, in cerca di una razionalità senza tempo, una razionalità oggettiva dettata da povertà e funzione. Con impostazione immutata prosegue il dibattito del dopoguerra sull'architettura spontanea, che esplicitamente sviluppa i temi della casa rurale. L'attenzione all'architettura spontanea permette di introdurre nel dibattito architettonico anche il tema dei tessuti ordinari e dell'edilizia minore, sottolineando quelle costanti che sono frutto di relazioni tecniche, sociali e culturali esistenti tra architettura e contesto. A un concetto di paesaggio inteso come spazio naturale si viene così ad affiancare quello del paesaggio come ambiente costruito. All'ambiente è richiesta la costanza delle leggi costruttive, capaci di superare gli stili del momento per seguire, con implicito determinismo, i "principi dell'accordo" dell'innesto del nuovo con l'antico. Un concetto di ambiente direttamente riferibile al dibattito sviluppato nell'ambito del restauro e dei centri storici dei primi anni del secolo, i cui esiti formali sono riconoscibili in alcune prove dell'edilizia popolare fascista, come le diverse declinazioni "regionali" delle case cantoniere o i quartieri suburbani Montesacro e Garbatella realizzati a Roma negli anni venti. Qui l'attenzione all'ambiente si traduce, a scala urbana, in una morfologia di "borgata giardino", dove il verde riconnette e unifica le parti; e, a scala edilizia, nel recupero di un decoro borghese giocato sulla riproposizione di valenze formali di tradizione aulica in contesti ordinari, secondo un linguaggio, il cosiddetto "barocchetto", fatto di timpani spezzati, conchiglie e nicchie, che allude esplicitamente alla Roma storica. Questo tentativo di dare forma alle aspettative di rappresentazione del ceto piccolo borghese comporta una lettura dei caratteri minori del costruito certamente più attenta a certe ibridazioni ambientali di quanto non fosse la purezza oggettiva di opere di linguaggio moderno d'anteguerra, collocate con intenti scenografici in paesaggi naturali. Slegata dalle forme primordiali cui Pagano l'aveva incardinata, l'architettura moderna italiana deve cercare altre strade per soddisfare l'imperativo politico e morale dell'incontro con la realtà. La catarsi invocata dagli architetti consente una possibile ricomposizione del fronte della cultura davanti alla scoperta del significato di un modello di solidarietà umana da contrapporre agli orrori della guerra. Insieme alla verginità morale del paesaggio è così riscoperta l'umiltà dei suoi abitanti, le masse popolari, genericamente intese come "povera gente"; insieme alla naturalità del mondo contadino è rinvenuto il feticcio dell'autentico della cultura preindustriale italiana. La tensione morale si tramuta in aspirazione a un nuovo rapporto tra architettura e società. Rapporto con un mondo popolare, inteso come luogo di valori originari, da esprimere attraverso una "lingua comune" che nella capacità comunicativa raggiunge il proprio significato sociale. La volontà di partecipazione al dato reale della vita degli abitanti, sia nei termini di qualità della tradizione da valorizzare, sia di miseria da esorcizzare, produce uno straordinario incremento dei processi empirici di conoscenza posti alla base della progettazione. Concluso questo breve quadro generale di carattere europeo, cerchiamo ora di individuare, in alcune forme della dimora contadina, la funzione e il significato storico e sociale della casa rurale. E’ possibile eseguire una classificazione tipologica degli insediamenti rurali in Italia solo a grandi linee. Essi, generalmente, si sono evoluti in modo spontaneo e, sia nella distribuzione spaziale, sia nella struttura urbanistica, presentano una grande varietà di soluzioni dettate dall’ambiente fisico e dalla topografia del sito, dalla struttura fondiaria, dal tipo di conduzione aziendale e dagli ordinamenti produttivi del territorio.


L’individuazione di base dei tipi dovrebbe più utilmente basarsi sull’ordinamento distributivo, planimetrico e ortografico, degli elementi dell’edificio, che nasce da un’esigenza funzionale, che a sua volta deriva dall’attività economica. Per questa via è possibile giungere alla individuazione di alcuni tipi fondamentali di abitazione: I tipi di dimora nelle Alpi Vanno distinte due diversi tipi di dimore: le dimore unitarie e le dimore complesse. Con la prima di intende indicare le dimore che sotto il medesimo tetto comprendono l’abitazione e il rustico e con la seconda espressione le dimore costituite da costruzioni diverse e pertanto con abitazione e rustico separati. Le dimore unitarie, normalmente a pianta rettangolare o quadrata, sono ri-suddivisibili in tre gruppi: 1)la dimora con i vani dell’abitazione e del rustico disposti in piani l’uno all’altro sovrapposti; 2)la dimora con i vani dell’abitazione e del rustico disposti rispettivamente in sezioni verticali; 3)la dimora con abitazione e rustico giustapposti in costruzioni unite. In ogni caso la stalla è sempre al piano terreno. Il tipo di dimora unitaria con i vani dell’abitazione e del rustico a piani sovrapposti presenta di frequente questa disposizione: il pianterreno è occupato dalla stalla; il primo piano è occupato dalla cucina o suddiviso tra la cucina e un ripostiglio; il secondo piano è occupato dalla camera o dalle camere da letto; nel sottotetto trovo posto il fienile, che può servire in parte anche da legnaia e da deposito delle castagne. Le eventuali scale di questa dimora sono generalmente esterne, almeno negli esempi più antichi, e raramente manca un ballatoio. Le finestre dell’abitazione sono di piccole dimensioni, soprattutto alle maggiori altitudini, a difesa dal freddo. Il tetto è normalmente a due spioventi, con copertura in lastre di pietra o di scaglie di legno o anche di paglia.


Il tipo di dimora unitaria con i vani dell’abitazione e del rustico disposti in sezioni verticali nasce da una concezione per certi aspetti più funzionale della precedente. La pianta è quadrilatera e la disposizione è la seguente: al pianterreno, a fianco della stalla, vi è la cucina; sopra questa, al piano superiore, vi sono le stanze da letto, mentre sopra la stalla vi è il fienile, che in qualche esemplare si eleva sino al sottotetto anche nel caso che vi sia un altro piano. Di frequente la stalla e la cucina hanno entrate separate e queste, se la casa è in pendio, sono entrambe sul lato della costruzione rivolto a valle. Gli elementi esterni sono i medesimi del precedente tipo descritto.

Il terzo tipo tra quelli elencati in precedenza, e cioè la dimora con abitazione e rustico giustapposti in costruzioni unite, nasce da una concezione funzionale, ma più razionale della precedente, in quanto le due parti sono indipendenti l’una dall’altra pur avendo un muro comune intermedio, ciò che attenua, ma non elimina però, la minaccia costituita dagli incendi. La pianta d’assieme delle parti non sempre si inscrive in una forma geometrica quadrilatera. Ugualmente il tetto dei due edifici, pur avendo gli spioventi di pari pendenza, non è sempre di pari livello e uno sovrasta talvolta l’altro. Nel suo complesso questo tipo di dimora ha discrete dimensioni e disponibilità di spazio; per questo motivo le scale sono di frequente all’interno.


La struttura di questo tipo di dimora prelude alla separazione completa dal rustico, ossia alle dimore complesse. Queste non sono molto frequenti o comunque la loro frequenza sembra accentuarsi in corrispondenza di aree dove si è manifestata un penetrazione o un’influenza esterna, come nelle alte valli atesine e alla testata di altre valli minori. Riguardo alla posizione reciproca dell’abitazione e del rustico si possono distinguere due casi: nel primo, che sembra essere il più frequente, i due edifici sorgono separati ma vicini; nel secondo caso i due edifici sorgono distanziati tra loro, ossia il rustico sorge alla periferia dell’abitato, con una disposizione che nell’insieme può presentarsi sparsa attorno al villaggio e raramente formare densi aggregati distinti dal villaggio. In ogni caso la diversa disposizione di abitazione e rustico presenta vantaggi e svantaggi. La vicinanza dell’una all’latro favorisce la continua e attenta sorveglianza del bestiame rinchiuso nella stalla e agevole i relativi lavori; per contro la lontananza rispondi a elementari requisiti di igiene e a norme di prudenza contro gli incendi.


Un tipo di dimora complessa che merita di essere segnalata, è quella dove i diversi edifici, separati tra loro o anche giustapposti, si dipingono in modo da recingere un’area chiusa, generalmente non molto ampia, alla quale si accede attraverso un unico portale o portico, ampio a sufficienza perché possano passarvi i carri agricoli e sulla quale si aprono gli ingressi dell’abitazione e del rustico. Alcune di queste dimore sono monofamiliari, altre plurifamiliari. L’ordinamento planimetrico di questa dimora ricalca, in maniera semplificata e in dimensioni ridotte, i tipi della “corte” della collina pedemontana e della pianura padanoveneta e per questo venne chiamato della “piccola corte”. La presenza di questo tipo di dimora nelle valli prealpine si deve attribuire a una imitazione o a una diffusione dei tipi di dimora propri della pianura e della collina padano-veneta nell’ambito montano. È un tipo inconfondibile, originato da una concezione diversa da quella dalla quale derivano le dimore alpine precedentemente ricordate. La presenza del cortiletto non deriva da influssi esterni, ma da un’esigenza formatasi in autonomia e lo proverebbe il fatto che in alcuni villaggi di media e alta montagna, in mancanza di un recinto esterno, si trova un vano al pianterreno, che può essere un portico con accesso immediato dal portale d’ingresso (come nella valle di Susa e nel bacino della Noce) o un portico a volta (come nella montagna lombarda) o addirittura un locale chiuso (come nel Levignasco e nel Bormiese). La dimora Appenninica Il tipo di abitazione predominante nell’Appennino Settentrionale è sicuramente quello dell’abitazione sovrapposta al rustico, presente soprattutto nella bassa e media montagna, e chiamata generalmente “italica”. Buona parte delle zone collinari e del fondovalle pianeggiante è invece caratterizzata da abitazioni giustapposte o separate dal rustico.


La casa cosiddetta di tipo “italico”, è una dimora costruita da una costruzione in muratura a due piani, a pianta rettangolare con tetto a due pioventi inclinati; l’accesso al piano superiore avviene per mezzo di una scala esterna e fornita di una loggetta o balcone sporgente. Il rustico è incorporato all’abitazione e quindi si tratta di una dimora unitaria. Di questa dimora di tipo italico numerose sono le varianti. Tra esse una delle più importanti è indubbiamente quella di pendio, che si può considerare come una forma di adattamento a particolari condizioni ambientali e che in modo particolare in Liguria assume aspetti caratteristici. Nel settore ligure dell’Appennino è generalmente diffusa la casa “su fasce” ossia su due o tre ripiani. Si tratta di una casa sostanzialmente unitaria con abitazione sovrapposta al rustico; questo ha una ampiezza inferiore all’abitazione, che si estende anche sulla fascia sovrastante. È caratterizzata dall’assenza di scale interne e anche di quelle esterne in quanto ogni piano è dotato di accesso proprio, cioè di una rampa di scale in pietra appoggiata alla dimora. Il piano terra accoglie la stalla e il magazzino, mentre è frequente che all’abitazione si acceda direttamente dalla fascia superiore; la porta esterna immette infatti nella cucina-soggiorno da cui si passa nelle varie camere. La casa ha un tetto a due pioventi coperti con lastre di ardesia o tegole di piatte. Un’altra variante tipica dell’alta Lunigiana, è quella a “terrazza-aia”. Essa è caratterizzata dalla presenza appunto, di un ampia terrazza-aia situata all’altezza del primo piano e sostenuta da un portico che serve da accesso alla stalla o da legnaia. Strutturalmente si hanno al piano terreno la stalla, i ripostigli e il portico, al primo piano la terrazza-aia, la cucina, la saletta, le camere e il fienile; al secondo piano si hanno le camere. Le forme cosiddette di “montagna” sono tipiche delle Alpi Apuane, di vasti tratti dell’Appennino toscano e di diverse aree appenniniche emiliane, romagnole e marchigiane: presentano tra loro sensibili differenze strutturali. Hanno in comune l’irregolarità della planimetria, la copertura con lastre di pietra, la mancanza di intonaco, il notevole spessore dei muri maestri, l’accurata sagomatura in pietra di porte e finestre e le loro piccole dimensioni. La caratteristica principale è quella di avere la cucina al pianterreno e le scale di accesso al secondo, interne e in legno e pietra. Di solito il rustico occupa una postazione a parte che può essere anche situato nella campagna circostante. Lo stesso tipo di dimore con abitazione giustapposta e abitazione separata al rustico, si possono trovare in pianura con il nome di “corti”. Si tratta di aggregati semplici e plurimi che poco hanno a che fare con le tipiche corti rurali padane e che sono caratterizzate dall’unione di più abitazioni di piccoli proprietari. A quest’ultime assomigliano i “castelli” del Pistoiese, che sono però abitati più da mezzadri che da piccoli proprietari. In tutta la fascia appenninica settentrionale la dimora rurale delle piccole aziende risulta di dimensioni non grandi e di configurazione differente da regione a regione. Notevole importanza per la sua qualificazione, oltre al rustico, hanno le scale (ora esterne, ora interne, ora in posizione intermedia a seconda della maggiore o minore altimetria) e il deposito. Anche nell’Appennino centro-meridionale il tipo dominante è quello italico, e cioè con l’abitazione sovrapposta al rustico; ad esso si affiancano forme con il rustico giustapposto o separato. Le maggiori differenze rispetto ai tipi dell’Appennino settentrionale sono da ricondurre da un lato al prevalere delle forme di insediamento accentrate e dall’altro al basso livello economico della maggior parte della popolazione. Il tipo di abitazione sovrapposta e scale esterne si può riscontrare sia nella variante in laterizi del Subappennino, caratteristica di zone ad insediamento disperso, sia in quella in pietra delle aree montane, propria soprattutto dei centri, piccoli e grandi, e variamente adattata al pendio. Gli edifici risultano sviluppati in altezza e si snodano, addossati gli uni agli altri e anche ad abitazioni non rurali, lungo le stradicciole tortuose e ripide che salgono verso la parte più alta del paese. Nelle isole campane, dove dominano le forme unitarie ad uno o due piano sovrapposti, accanto a quelle di pendio con scala interna, le note caratteristiche


sono determinate dal materiale adoperato (il tufo o la roccia lavica), dalla forma del tetto (a terrazza o a volta estradossata) e dagli archi di varia foggia sottostanti ai terrazzi delle scale esterne. Il tipo di abitazione separata dal rustico è proprio di aree ben definite e non ha una grande diffusione. Nella forma più comune l’edificio destinato all’abitazione vera e propria comprende al piano terreno la cucina e un vano per i servizi vari e al primo piano, cui si accede con scala esterna, due camere; il tetto è a due o quattro pioventi. Il rustico comprende il fienile al piano superiore e spesso vi sono addossati altri rustici. Si tratta di un abitazione tipica collinare, legata a piccole aziende in cui domina la viticoltura e l’olivicoltura. Il tipo ad abitazione giustapposta ha invece un numero maggiore di esemplari. Si ha qui tutta una seria di varianti legate in genere alla maggiore o minore ampiezza dell’azienda e quindi alla maggiore o minore disponibilità dei mezzi del proprietario. Nelle forme più complesse i rustici sono addossati in vario modo all’abitazione e la dimora assume un aspetto molto irregolare. Nelle forme più semplici si ha una forte riduzione delle dimensioni dei vari elementi della dimora. Una notevole importanza hanno le dimore ad un solo piano, sia di origine recente, sia di origine remota, che sono unicellulari o bicellulari. Le costruzioni ad un solo piano con più vani corrispondono alla piccola proprietà coltivatrice legate quindi ad aziende di modeste dimensioni, con forme di coltivazione piuttosto arcaiche. Le stalle figurano giustapposte, mentre i rustici sono invece distaccati. La parte dell’abitazione è costituita di solito dalla cucina e da una camera. Nel Lazio sono presenti dimore di questo tipo, situate negli immediati dintorni dei centri, abitate da proprietari di piccolissimi appezzamenti che esercitano qualche mestiere artigiano. Le dimore unicellulari sono molto diffuse in Campania, Basilicata e Calabria. Si tratta di dimore di un solo vano terreno che hanno come unica apertura la porta d’ingresso, dove al di sopra o a lato della quale appare talvolta una piccola finestra. Spesso la stanza viene utilizzata anche come rustico, per gli animali da lavoro o domestici. Dalla trasformazioni di ripari diurni unicellulari con tetto in lastre di pietre disposte a cono, deriva il trullo. Questa è una costruzione unitaria a un solo piano su pianta rettangolare e con tante guglie coniche quanti sono gli ambienti. Una variante è costituita dal tipo caratterizzato dalla separazione del complesso destinato ai rustici da quello dell’abitazione vera. Si tratta nel complesso di un tipo di dimora elementare che palesa evidenti rapporti con l’ambiente naturale. Nella fascia appenninica meridionale, infine, la povertà insieme alla opportunità di occultare le dimore in luoghi sicuri e alla presenza di cavità naturali, ha diffuso le abitazioni trogloditiche. Molte di esse sono state negli ultimi anni abbandonate, come ad esempio quelle semi-rurali di Matera, oppure trasformate in rustici, come quelle presso l’Isola di Ischia, o in locali rurali. Ne rimangono parecchie ancora abitate, soprattutto in alcune valli della Basilicata, e si tratta per lo più di abitazioni pluricellulari, costituite da vani stretti e profondi, con la facciata in muratura fornita di porta e di qualche finestra per il passaggio della luce e dell’aria. Talvolta delle grotte minori laterali accolgono rustici secondari. La piccola proprietà Padana La pianura piemontese, chiusa tra la cerchia alpina e le molli ondulazioni del Monferrato e della Collina di Torino, presenta o un raggruppamento, in piccoli nuclei, di case rurali che prendono il nome di ruate o abitazioni sparse per la campagna, di preferenza lungo vie secondarie o al termine si strade private. Non mancano qua e là cascine a corte chiusa, che attestano il permanere di alcune vaste proprietà terriere, ma di gran lunga più diffuse sono le cascine del tipo razionale piemontese, articolate in due parti giustapposte: la casa d’abitazione col granaio nel sottotetto e quella che più propriamente è detta cascina ed è costituita dalla stalla col sovrapposto ampio fienile. Al piano superiore della casa si accede per una scala esterna che termina in un ballatoio coperto dal tetto molto sporgente. Davanti alla casa si distende poi l’aia.


La cantina (crotta), che è spesso presente nella cascina della pianura, diventa parte essenziale della casa sulle colline delle Langhe e del Monferrato, dove la vite rappresenta la coltura prevalente. Cantina e tinaia sono spaziosi vani interrati, generalmente sotto la cucina. In mezzo ai vigneti si possono trovare invece delle piccole costruzioni, chiamate casot, per la custodia dei prodotti. Ampie grotte scavate nelle arenarie o nelle marne sono usate in parecchie località come cantine o come ricovero per carri e attrezzi.

La media pianura veneta di antico popolamento, si trovano modeste dimore rurali, di regola ad elementi giustapposti che si susseguono ai lati delle vie che corrono lungo i canali e i fossati di scolo. Leggermente arretrate all’interno del piccolo fondo coltivato, esse risultano spesso mascherate dalla verde macchia del brolo, il folto giardino-frutteto che le circonda; ma è anche frequente il caso di vederle ravvicinare, a formare contrade. L’inconfondibile peculiarità edilizia delle case, oltre al tradizionale camino sporgente all’esterno, è dovuta al portego nel corpo dell’edificio, che si sviluppa in una serie di arcate a pieno sesto, sotto cui si aprono gli ingressi ai locali d’abitazione e ai rustici. Dove manca il portico, compare una tettoia che forma un corpo a sé. Nella fisionomia di queste dimore si conserva traccia di un tipo molto povero di casa ormai quasi del tutto scomparso: il “casone”.


Le case degli agglomerati compatti nell'Italia Meridionale Tipica corte plurifamiliare salentina circondata da abitazioni elementari del tipo a volta. Abitata attualmente da 14 famiglie quasi tutte di condizione rurale.

Grossa abitazione a corte centrale di agricoltore benestante nell'agglomerato di Santa Maria la Fossa (Piana del Volturno).


c- L’evoluzione della casa minima nel secondo novecento, le principali esperienze L'architettura ha basato la definizione dei propri obiettivi, contenuti e strategie di intervento, su una costante attenzione allo studio storico di sé stessa. E' una condizione quasi scontata che, per desumere strategie di progettazione utili a operare nella realtà contemporanea, sia necessario costruire una comprensione estesa dell'architettura del passato. E' interessante quando le operazioni di lettura e di rivisitazione critica della storia dell’architettura non si riferiscono solamente agli esempi consacrati, congelati in un momento specifico della loro esistenza, ma che riescano a leggere la vita delle singole architetture nella durata del tempo. Soffermandoci su diverse esperienze architettoniche, possiamo tentare di capire come la vita si sia sviluppata e abbia modificato le premesse originali del progetto. Accanto alle esigenze di natura emergenziale, vi è anche una tendenza, sempre più forte, di dare all'abitazione un'interpretazione dinamica e in divenire. La casa viene allora intesa come una "macchina dell'abitare", uno spazio indipendente dalla struttura e regolabile in pianta e in alzato, in base alle necessità dell'utenza, al trascorrere del tempo ed alle modificazioni del nucleo famigliare. Uno spazio che, al di là della flessibilità interna, può essere ampliato in più direzioni, crescendo anche verso l'esterno, attraverso l'aggregazione di ulteriori moduli strutturali o elementi estensibili già presenti nel nucleo originario. Alla luce di quanto fin qui esposto, costruire secondo il paradigma della transitorietà è dunque quasi una necessità, a causa del crescente bisogno di soluzioni edilizie flessibili, a carattere temporaneo, atte a rispondere a tutte le esigenze dettate dalle nuove forme e dai nuovi modi di abitare. La produzione di case mobili che agli inizi non rientrava certo in un preciso e consapevole filone di ricerca, si è da subito dovuta confrontare con problematiche che rimarranno costanti fino alle ricerche più recenti; essa infatti dipenderà in gran parte dallo sviluppo dell’industria automobilistica da un lato, per il suo carattere di trasportabilità, non a caso i primi esempi vengono annoverati come case-veicolo, e dal continuo sviluppo dell’industrializzazione dei sistemi architettonici dall'altro per il raggiungimento della qualità ambientale della cellula stessa. Altro aspetto che influenzerà la ricerca è il “tipo” di utenza a cui è destinata la casa mobile. Da subito la produzione di alloggi mobili si rivolse ad un tipo di utenza più popolare, si pensi alla baracche minime per operai che avrebbero dovuto consentire di risolvere il problema dell’improvvisa richiesta di alloggi nelle vicinanze delle grandi città industrializzate. Contingenze di emergenza, dovute a guerre, a migrazioni forzate o a calamità naturali: questo il primo campo di sperimentazione per il settore. I primi esempi di case veicolo non si discostano dall’iconografia classica dell’abitazione e la loro natura di trasferibilità in realtà si riduceva ai singoli pezzi che avrebbero costituito l’alloggio. L’organismo complessivo veniva sezionato in più parti dalle dimensioni compatibili con le necessità di trasporto appunto; una volta in loco queste parti ricomponevano l’immagine unitaria della casa tradizionale, che paradossalmente riacquistava il suo carattere stanziale. Il problema, quindi, che iniziava a prospettarsi era quello di dover condurre uno studio sull’aspetto distributivo dell’abitazione che non fosse solo funzionale alle esigenze minime dell’utente ma che fosse anche funzionale alla suddivisione per parti dell’alloggio stesso per la fase di trasporto. E’ nel secondo dopoguerra che la ricerca nel campo dell’abitazione mobile inizia a rientrare in un programma più ampio di ricostruzione di parti di città, di precise destinazione d’uso di cellule abitative, rispetto a riflessioni sui possibili utenti. Dai primi prototipi alla base dei quali vi era una attenzione circoscritta agli aspetti distributivi e tecnologici di montaggio e smontaggio di queste cellule si inizia a riflettere sulla loro potenzialità aggregativa e sulla conseguente possibilità di dar vita a vere e proprie città provvisorie. La teorizzazione di tale problema avviene con Le Corbusier con la proposta dei suoi alloggi di emergenza che sebbene non fossero trasferibili contemplavano la mobilità rispetto ad un ordine temporale, quello della permanenza “di breve durata” in tali alloggi. L’alloggio transitorio assume i caratteri ed il valore di questione architettonica, si inizia a riflettere sulla particolare condizione esistenziale, dei sinistrati, da


dover soddisfare attraverso spazi architettonici che nella loro natura enunciassero con chiarezza la temporalità dell’utilizzo. Le Corbusier non ha mai associato temporaneità a precarietà tanto che il punto di partenza delle sue ricerche lo si può rintracciare nella volontà di considerare l’emergenza, sì come condizione limite dell’esistenza umana, ma anche come possibilità di far rinascere gli istinti primigeni dell’uomo all’associazione e alla solidarietà. È con questi progetti che Le Corbusier apre una strada di ricerca inedita che si “insinua” nella “continua sconnessione” tra la condizione del precario e quella del definitivo attribuendole un valore sperimentale dalle profonde potenzialità teoriche e progettuali. L’aspetto da mettere subito in evidenza è quello di aver considerato l’alloggio inserito in un più vasto sistema insediativo che teneva conto anche delle preesistenze soprattutto infrastrutturali. Il suo approccio parte da una definizione specifica dei termini provvisorio e transitorio a cui fa corrispondere differenti livelli di definizione anche dell’organizzazione spaziale. Se con il progetto per Les Murondins si limita a considerare l’alloggio solo come spazio per il sonno e a trasferire all’esterno tutti i servizi senza però scendere nel dettaglio, perché contemplato solo per l’immediata urgenza, già con il progetto degli alloggi provvisori il rapporto tra questi ed i servizi comuni è definito con maggiore consapevolezza. Il passaggio dalla casa provvisoria transitoria ad interi insediamenti provvisori transitori, è breve. Il rapporto tra le unità di alloggio ed i servizi comuni dovevano, però, anche favorire lo sviluppo di nuove consuetudini di vita a partire da una situazione, come quella di emergenza, che predisponeva psicologicamente l’uomo alla socialità ed alla solidarietà. Se negli anni successivi, al termine provvisorio ed a quello di transitorio, corrisponderanno due fasi precise di intervento in casi di emergenze, per Le Corbusier essi erano da attribuire alla stessa fase in quanto, l’alloggio è provvisorio perché lo si occupa solo temporaneamente. E’ invece transitorio, perché di passaggio da un modo di abitare arcaico ad un modo attuale. La natura sperimentale di questa particolare città è capace di continue trasformazioni attraverso l’aggregazione di moduli di base residenziali anche essi provvisori. Ma l’aspetto interessante che subito si evidenzia è la necessità di una ricerca per così dire parallela circa le possibili modalità di ampliamento ed accrescimento e la conseguente necessità di una riflessione sulla struttura di supporto alla quale questi moduli si dovranno “agganciare”. Queste proposte di Le Corbusier, in realtà, contengono già la “misura” dei problemi che di li a poco, con differenti approcci metodologici, sarebbero stati analizzati; il dimensionamento minimo delle cellule attraverso una precisa aderenza all’arredo al fine di ottimizzare gli spazi e ridurre al minimo gli sprechi. Ma il risvolto più evidente, anche rispetto alle sperimentazioni successive, è stato quello derivante dall’azione progettuale di “esplodere” l’ordine distributivo dell’alloggio per poter considerare come zona fondativa dell’alloggio la zona notte, da dover dimensionare rispetto ad esigenze di trasporto e di vivibilità. La “sconnessione” con i servizi e con la zona cucina già faceva intravedere ampie possibilità di sviluppo in questo senso consentendo un aumento di superficie per l’alloggio stesso e agevolando la risoluzione dei problemi impiantistici indipendentemente da questo nucleo principale. Un esempio significativo dell'impegno di progettisti e costruttori europei del dopoguerra in merito al problema delle abitazioni è, senza dubbio, l'opera del francese Jean Prouvè. In seguito a ricerche progettuali e sperimentazioni produttive, iniziate già negli anni trenta su costruzioni industrializzate con prevalente impiego di lamiere di acciaio, Prouvè era in grado di seguire tutte le fasi relative al processo edilizio: progetto, produzione, trasporto, montaggio e smontaggio. Jean Prouvè è uno di quei personaggi che hanno basato le loro elaborazioni progettuali su un approccio spiccatamente tecnologico, imperniando il loro lavoro sulla ricerca dei sistemi e dei processi più idonei a soddisfare le richieste e le esigenze di un'utenza proiettata verso modelli di vita e di comportamento non statici e cristallizzati, ma dinamici e flessibili. Gran parte dell'esperienza di Jean Prouvè ruota attorno al concetto di temporaneità; in particolare, egli propone soluzioni progettuali innovative progettando e sperimentando l'impiego di componenti e di semilavorati industriali per la produzione di costruzioni per l'emergenza. Il modulo abitativo, conosciuto come il Pavillon 6x6, è realizzato con una struttura in lamiera d'acciaio piegata, composta di due mezzi portali collegati ad una trave reticolare di colmo. La copertura metallica si appoggia su puntoni in lamiera


piegata ed è completata con una controsoffittatura. Il pavimento in legno, sollevato da terra, è sostenuto da una intelaiatura metallica. Gli elementi di chiusura verticale sono costituiti da pannelli in legno con anima in alluminio. Anche se in alcune soluzioni sono proposti anche pennelli metallici.

L'unità abitativa è stata concepita per rispondere alla richiesta di 450 abitazioni provvisorie, avanzata dal Ministero della Ricostruzione francese.


Il Pavillon, oggi restaurato, viene presentato come mostra itinerante con lo scopo di offrire un'occasione di confronto con un manufatto edilizio concepito per essere reimpiegabile ed adattabile a situazioni diverse e con i conseguenti aspetti progettuali, produttivi e costruttivi ad esso connessi.

Transitorio-durevole, montabile-smontabile, adattabilità abitativa: sono i parametri guida della sua attività progettuale, volta al soddisfacimento delle esigenze che ancora oggi costituiscono i temi fondamentali dell'abitabilità transitoria contemporanea. Nel 1937 la Maison du Peuple di Clichy, in Francia, segna una data storica: l'edificio, progettato con gli architetti Beaudouin e Lods, è un meccano tecnologico ad assetto variabile, interamente realizzato in officina, con lamiera d'acciaio pressopiegata e montato a secco in cantiere. Una Casa del Popolo ed un mercato coperto in cui un sistema di pareti e solai mobili possono scorrere, traslare, comporsi, per mezzo di un raffinatissimo ma economico apparato tecnico, trasformando la disposizione spaziale e funzionale. Al 1939 risale la Casa 3x3 m, progettata per l'esercito, montabile da tre uomini e con componenti trasportabili da un solo uomo. Fu prodotta in serie in ottocento unità, su commessa del Ministro della Ricostruzione Dautry. Nel 1945 progetta, insieme a P. Jeanneret, un alloggio di emergenza semovente. Nel 1947 De Gaulle bandisce un concorso per nuove soluzioni abitative per colonie francesi. Prouvè propone la Casa Tropicale: un sistema interamente prefabbricato, con componenti in alluminio, facilmente realizzabili, trasportabili e montabili. Il padiglione poggia su quindici plinti in calcestruzzo che lo sollevano da terra di circa un metro. Le pareti sono realizzate in alluminio forato, delle dimensioni di un metro di larghezza per tre di altezza. I fori, del diametro di 15 cm, sono in parte protetti da vetri colorati, per attenuare la luce del sole equatoriale. L'abitazione fu aviotrasportata in Africa a scopo dimostrativo.


La Casa Sahariana risale, invece, al 1958: è un prototipo di abitazione per i climi caldi che inaugura la tipologia dell'edificio-involucro, facilmente trasportabile e montabile. Pensata per i lavoratori addetti ai campi petroliferi del Sahara, l'alloggio si può considerare come una trasposizione in metallo delle tradizionali tende tuareg.


Nel ventennio compreso tra la prima metà degli anni sessanta ed i primi anni ottanta si manifesta, sia in Europa sia negli Stati Uniti, una notevole fioritura di idee, progetti e prototipi sperimentali elaborati sotto la spinta di un particolare entusiasmo che coinvolge i progettisti del periodo, sempre più interessati ad una architettura svincolata dai canoni classici dell'oggetto di architettura solido, immutato ed immutabile. Alla base di questa nuova tendenza non vi è soltanto una motivazione di tipo funzionale, legata al problema delle emergenze abitative, ma una vera e propria rivoluzione ideologica che coinvolge la società occidentale agli inizi degli anni sessanta. Si fa sempre più forte l'esigenza di un nuovo stile di vita, svincolato dai tradizionali canoni comportamentali e dai modi di vita consueti. Un bisogno innovativo profondo, portatore di istanze di libertà, autodeterminazione, mobilità, che rilanciano la tradizione nomadica americana. Tutto ciò ha un'incidenza non indifferente sul pensiero architettonico del periodo, influenzando le produzioni di numerosi progettisti, interpreti di queste nuove tendenze ed artefici di opere fortemente innovative, concepite sui principi di totale mobilità, modificabilità, smontabilità, trasformabilità e nelle quali l'incrocio tra pratica architettonica e attitudine politica e sociale trova la sua concretizzazione più forte. Il quartiere sperimentale PREVI, a Lima in Perù, la cui realizzazione fu a partire dal 1967, era previsto come un quartiere di edilizia sociale “progressiva”, termine che nella tradizione della progettazione latinoamericana implicava la possibilità che le unità abitative fossero modificate ed espanse nel tempo dai suoi abitanti, quindi contenevano nelle proprie regole di costruzione, uso, e disposizione in pianta, lo stesso codice genetico delle mutazioni future. Sebbene lo scopo originale del concorso era quello di costruire 1500 abitazioni proposte dal progetto vincitore, l'interesse dimostrato dalla giuria si tradusse in un fatto decisivo per la futura realizzazione di PREVI: si considerarono tutte e 26 le proposte in concorso in un insieme di 467 case, una scuola, un asilo e un centro di quartiere, per ospitare 2800 abitanti, localizzati in un terreno di 12 ettari a 7 km dal centro di Lima.



Dopo più di tre decenni dal suo completamento, PREVI, è un pezzo consolidato della città. Questo sviluppo è stato possibile anche grazie ad un supporto urbano composto di elementi dissimili e complementari allo stesso tempo: una strada perimetrale per far scorrere il traffico e collegare il quartiere alle zone circostanti, strade secondarie per penetrare nel cuore del quartiere, un parcheggio a sessanta metri da ogni abitazione, una strada pedonale che attraversa il centro, mezzi pubblici, un parco con strutture sportive e d'intrattenimento, piazze e una serie di vari passaggi che collegano tutti gli elementi, sopra citati, che costituiscono nel loro insieme questo complesso urbano.

Il registro della evoluzione di PREVI e delle sue abitazioni, dimostra che la trasformazione delle case dipende in gran parte dalle necessità delle famiglie che le abitano. Analizzando nel dettaglio la casa della famiglia Zamora, in un'unità abitativa di James Stirling, notiamo come questa sia costituita da tre elementi: i muri che delineano un perimetro rigido, i pilastri che segnano gli angoli del patio e permettono una relazione fluida tra le stanze e il cortile, e il battuto che sarà campo fertile nel tempo per delle eventuali ampliazioni. Per quanto riguarda la distribuzione della casa, il salotto e le camere da letto sono situate intorno al cortile centrale, mentre la cucina, il bagno e gli ambienti di servizio sono posti attorno ad un secondo cortile più piccolo. Le espansioni previste sono ipotizzate ad angolo sulla terrazza al primo piano.

La proposta delle case e del quartiere iniziale sono la tappa zero di un processo successivo di trasformazione. Per questo processo evolutivo, sono suggerite all'utente le modalità d'adattamento e di trasformazione della sua casa rispettando il programma di crescita dell'intero quartiere. L'importanza di tali regole è che da queste dipende la possibilità finale di effettuare con successo le ampliazioni necessarie alla famiglia. Lo stadio zero deve essere dunque l'inizio di un percorso che favorisca l'economia domestica, la formazione di reti sociali e l'annessione di unità in affitto.




bibliografia John May con Anthony Reid, Architettura senza architetti, Rizzoli Alberto Arecchi, Abitare in Africa, Mimesis Ivan Bargna, Africa, Electa Barbieri e Gambi, La casa rurale in Italia, Olschki Pagano e Daniel, Architettura rurale italiana Documenti online


Forma della struttura e struttura della forma

Il telaio strutturale come elemento generatore dello spazio Professore Marco Pietrosanto Studentesse Caterina Capannoli e Camilla Cardinali


Indice

Forma della struttura e struttura della forma………………………………………………….p. 1 1. L’Italia del miracolo economico e delle aziende di Stato……………………….…………p. 1 L’importanza dell’IRI………………………………………………….……………....…..p. 1 L’aspetto culturale e sociale dell’ingegneria italiana……………………….…….………..p. 2 La costruzione dell’Autostrada del Sole……………….…………………………………...p. 4 2. Riccardo Morandi………………………………………………………………………..…p. 6 3. Sergio Musmeci………………………………………………………………………….....p. 10 Le tensostrutture……………………………………………………………………………p. 13 Analisi del Palazzo per uffici in via Po……………………………………………...……..p. 15 4. Luigi Moretti……………………………………………………………………………..…p. 16 Analisi del Parcheggio Sotterraneo, Roma……………………………………………………p. 21 Spazio……………………………………………………………………………………….p. 23

Il telaio strutturale come elemento generatore dello spazio…………………………………...p. 24 Mies van der Rohe…………………………………………………………………………...p. 28

Atlante………………………………………………………………………………………….p. 30

Bibliografia…………………………………………………….……………………….…..…..p. 48

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Forma della struttura e struttura della forma

1. L’Italia del miracolo economico e delle aziende di Stato

Dall’immediato dopoguerra l’Italia vede nascere e svilupparsi l’ingegneria nei suoi diversi settori (civile, meccanico, industriale, energetico ed elettronico). E’ proprio in questi anni che la figura dell’ingegnere si eleva nell’immaginario collettivo a icona dello sviluppo economico. Analizzando la particolare situazione che l’Italia stava affrontando, sia dal punto di vista politico che da quello economico, possiamo avere una visione più completa sul significato del rapido sviluppo che il Paese stava vivendo. Riscontriamo nel Capitalismo di Stato il fulcro dell’economia nazionale e la principale fonte di lavoro per le imprese.

L’importanza dell’IRI Il miracolo economico che l’Italia si trova a vivere va dal 1948 (approvazione della Costituzione, piano Marshall) ai primi anni Sessanta. Con le Olimpiadi di Roma e l’assegnazione alla lira dell’Oscar delle monete, dimostrazione della stabilizzazione monetaria, si identifica nel 1960 l’anno del miracolo economico. L’aria di ottimismo generale che si respirava al tempo oscurava in realtà alcuni aspetti critici della società: un basso livello di istruzione, un mercato del lavoro poco tutelato e ancor meno remunerato, una disoccupazione che non decresce in proporzione alla crescita, un’inadeguata politica fiscale e l’assenza di una politica economica e sociale a tempi lunghi. A tutto ciò si aggiunge un divario tra Nord e Sud crescente che alimenta un’emigrazione verso il Nord sempre più preoccupante. Il Capitalismo di Stato, fondamento della politica economica e sociale, risale agli anni Trenta, quando lo Stato per salvare le banche e le industrie private le rileva, andando così ad evitare il pericolo del crollo dell’economia nazionale. Il successo di questa operazione è da attribuire ad Alberto Beneduce, il quale realizza un ente straordinario, indipendente dall’amministrazione ordinaria, chiamato IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Così tanto è il potere dell’IRI che, non solo resiste alle pressioni del regime ma permette all’Italia di essere il Paese con il maggior numero di industrie e banche di Stato al mondo, dopo l’Unione Sovietica. Inoltre dopo la guerra, insieme alla Banca d’Italia, è una delle poche istituzioni funzionanti, e ad accorgersene per primi sono gli americani, i quali devolvono gli aiuti economici proprio all’IRI, considerato più affidabile rispetto al Governo. Supportato economicamente dagli americani, protetto dalle forze politiche e ben visto dagli imprenditori, l’ente si trova a dirigere la Ricostruzione del Paese attraverso l’idea di un intervento statale capace di attivare un’imprenditoria privata diffusa nel territorio. L’IRI si dimostra essere l’unica realtà industriale capace di attuare una giusta economia di scala che conduce l’Italia ad una seconda rivoluzione industriale, fondamento dello sviluppo del dopoguerra.

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“…un turista straniero arriva in Italia con un aereo Alitalia? E’ una compagnia aerea dell’IRI. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo, come la Michelangelo, la Raffaello, la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’IRI. Noleggia una macchina veloce ed elegante, come una Alfa Romeo? E’ dell’IRI. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? E’ dell’IRI ed è stata realizzata con acciaio della Finsider (IRI) ed il cemento Cementir (IRI). Uscito dalla città, prende una autostrada della più estesa rete esistente in Europa? E’ dell’IRI. Si ferma a pranzare in un autogrill? E’ dell’IRI. Dopo pranzo telefona a qualcuno in città, usando la prima teleselezione integrale? E’ una linea della SIP, cioè dell’IRI. Arrivato a destinazione deve cambiare valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Commerciale o il Banco di Roma o il Credito italiano) anch’essi dell’IRI”1 Tuttavia nel corso degli anni si vengono a determinare delle criticità, per esempio, i limiti di uno stato che non è più in grado di attivare la domanda a causa del blocco della crescita economica, la scelta di togliere potere alla Pubblica Amministrazione con la creazione degli enti straordinari ed infine il potere dell’IRI, determinato dalla sua rilevanza economica, fa si che l’ente in breve tempo diventi oggetto degli interessi politici.

L’aspetto culturale e sociale dell’ingegneria italiana L’ingegneria civile raggiunge l’apice del suo successo nel 1964 quando al Museum of Modern Art di New York si inaugura la mostra “Twentieth Century Engineering”. In questa occasione sono esposte le opere per le Olimpiadi invernali di Cortina e di Roma, per il Centenario dell’Unità d’Italia a Torino, e per l’autostrada del Sole tra queste emergono i lavori di Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi, Silvano Zorzi, Arrigo Carrè, Giorgio Giannelli, Carlo Cestelli Guidi e Giacinto Turazza. Queste personalità caratterizzate da uno stesso spirito pionieristico possono essere identificate nella figura dell’ingegnere-architetto che si va a delineare in quegli anni come tipico prodotto italiano. Nonostante oltre i nostri confini siano presenti figure rilevanti in quest’ambito, l’ingegnere architetto italiano si afferma con una coscienza professionale che deriva dalla formazione universitaria d’impronta classica. Mentre con la rovinosa caduta del fascismo l’architettura viene inevitabilmente associata al regime, l’ingegneria si salva, percepita nella nuova Italia come sapere tecnico, lontano dalla propaganda. Possono essere identificate altre due cause a partire dagli studi di Sergio Poretti, la prima è la grande richiesta di opere d’ingegneria che porta alla soluzione dei problemi imposti dal mercato. Infatti gli strutturisti italiani si occupano della ricostruzione dei 2600 ponti distrutti durante il conflitto, della costruzione delle dighe e delle autostrade a cui si aggiungono le opere per gli eventi straordinari. La seconda ragione è la qualità della ricerca teorica specialmente per il cemento armato precompresso, tecnologia che diventerà marchio di fabbrica del razionalismo strutturale italiano2 1

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Troilo Carlo, “1963-1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” Iori Tullia, “L’ingegneria del miracolo italiano”

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E’ da notare che non sia un caso che l’ingegneria italiana abbia portato avanti la ricerca sullo studio del cemento armato poiché, fin dall’antichità, i romani impiegarono il calcestruzzo nelle loro architetture. Essi scoprirono che, sostituendo alla sabbia comune la pozzolana delle regioni vulcaniche del Lazio e della Campania, si otteneva un impasto di singolare resistenza. La storia dei primi duecento anni di opera cementizia è in gran parte quella dello sfruttamento delle proprietà del nuovo materiale. Nel II secolo a.C., nelle mani di costruttori più esperti, il calcestruzzo romano, inizialmente concepito come un materiale inerte di riempimento, generalmente rivestito di muratura tradizionale, si era ormai trasformato in un materiale indipendente per la costruzione di muri o di forme semplici di volta. A tutto ciò contribuirono gli influssi diretti del mondo greco ed ellenistico che costituirono una componente culturale sempre più rilevante, dai primi contatti con la guerra di Taranto (280 a.C.) alla conquista della Magna Grecia; ma fu tra il III e II secolo a.C.che il fenomeno della grecizzazione romana si intensificò. Ciò portò alla nascita di uno stile “universale” fondato sul dominio dello spazio e sull’invenzione del calcestruzzo, il quale sempre più legato al linguaggio classico degli ordini. “Una seconda proprietà caratteristica dell’architettura romana è l’uso esteso e variato sia dello spazio interno che dello spazio “attivo” esterno. In effetti si parla dell’architettura romana come di una architettura “spaziale”, in contrasto con il carattere “plastico” di quella greca classica […]. Si può dire in generale che i romani trattarono lo spazio come una sostanza plasmabile e articolabile”.3 Esempio emblematico è il Pantheon, il quale viene considerato una grande conquista del calcestruzzo romano. Attraverso l’uso di questo materiale è stato possibile realizzare un’architettura in cui convivono forme geometriche diverse che si alternano nel rapporto tra pieno e vuoto. Ovvero, avviene un’operazione di svuotamento dalla massa muraria che definisce la forma dello spazio. Questo edificio contiene una serie di aspetti cari ad alcuni degli architetti che andremo successivamente ad analizzare, come ad esempio il soffitto a cassettoni.

3Norberg

Schulz, “Il significato nell’architettura occidentale”

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Pantheon, Roma

La costruzione dell’Autostrada del Sole Il 4 ottobre 1964, con tre mesi di anticipo rispetto ai tempi previsti, vengono inaugurati i 753 km della Milano-Napoli, meglio nota come l’Autostrada del Sole. E’ l’ingegner Piero Puricelli a proporre a Mussolini il piano della costruzione delle autostrade italiane nel corso degli anni Venti. Nel 1924 viene inaugurata la Milano-Laghi in seguito la Milano-Bergamo, la Napoli-Pompei, la Bergamo-Brescia, la Torino-Milano, la Firenze-Mare e la Padova-Mestre. Prima della guerra l’Italia si trova a possedere un numero notevole di autostrade. Piuttosto che utilizzare l’asfalto come era solito nei paesi esteri, a causa delle limitazioni determinate dall’autarchia, le strade vengono realizzate inizialmente in macadam e successivamente con lastroni in cemento. Alla fine degli anni Trenta le autostrade italiane sono ancora lontane da quella motorizzazione di massa già presente negli Stati Uniti e in Germania, sorgono perciò le prime critiche sul progetto autostradale considerato sopra dimensionato per il paese. Nonostante ciò questo nel dopoguerra sarà tra le priorità della Repubblica grazie anche all’azione delle industrie private come la FIAT. Le grandi fabbriche chiedono aiuto allo Stato per la costituzione di un mercato interno in tempi brevi, poiché già nei primi anni Cinquanta possono realizzare una produzione per grandi numeri pur essendo limitate nell’esportazione all’estero. Un ruolo fondamentale in questo progetto è riservato alle autostrade con lo scopo di favorire la mobilità del lavoro. La prima iniziativa concreta per la realizzazione della nuova rete autostradale è dei privati (FIAT, ENI, Pirelli, Italcementi) che regalano allo Stato un progetto preliminare per un’autostrada tale da collegare Milano con Napoli, passando da Bologna, Firenze e Roma. Il progetto viene affidato all’IRI che delega la costruzione dell’opera alla Società Concessioni e Costruzioni Autostrade Spa, creata per l’occasione, con a capo Fedele Cova. Questo sarà possibile grazie alla legge 463 del 1956, promulgata dal Ministro dei Lavori Pubblici Romita.

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Una volta assegnatogli l’incarico, Cova ed i suoi tecnici vanno negli Stati Uniti, non solo a studiare i tracciati stradali ma anche quella politica finanziaria che aveva permesso la realizzazione delle autostrade americane. La progettazione esecutiva viene affidata alle imprese di piccola dimensione del luogo, sia per garantire una distribuzione del lavoro nel territorio che per ottenere consenso, per questo l’IRI impone che ogni impresa non possegga più di un lotto. A dimostrazione di ciò possiamo notare che i ponti sono diversi l’uno dall’altro, specialmente nel tratto Firenze-Bologna. “… si lavorava infatti ad un corpo stradale, ad un semplice tracciato, senza sapere bene come sarebbero stati fatti gli svincoli, gli attraversamenti, gli ingressi; la convenzione era vaga su quasi tutti gli aspetti, compresa la velocità (detta di “progetto”) che i veicoli avrebbero dovuto tenere sul nuovo tracciato. Su tutti gli elementi tecnici e le idee erano tutt’altro che chiare, ma la politica di Cova era quella di creare dei fatti compiuti”. Nel 1964 l’Autostrada del Sole è conclusa, un successo impossibile senza il lavoro di Cova e del suo gruppo ma soprattutto senza la congiuntura tra gli interessi pubblici e quelli privati. I risultati sono notevoli, innanzi tutto dal punto di vista economico, da quello dello sviluppo della mobilità di massa e dalla trasformazione del sistema produttivo italiano, che permette quel pendolarismo, ancora solo al Nord, tipico delle economie avanzate.

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2. Riccardo Morandi

Uno dei padri dell’architettura strutturale è Riccardo Morandi (1902-1984), il quale dedicherà l’intera carriera al tema dei ponti e più specificatamente dei ponti in precompresso. Lo studio di questa tecnologia lo porterà ad allontanarsi dalla sua carriera di progettista per realizzare sette brevetti, a partire dal 1948. Alla fine degli anni Venti la scienza della costruzione aveva già raggiunto nella teoria lineare dell’elasticità grandi risultati, ma saranno gli studi di Morandi che permetteranno di realizzare forme libere e complesse. I primi ponti dell’immediato dopoguerra sono ad arco, a questi succedono quelli a telaio e a trave bilanciata, sempre in precompresso. Il momento culminante della prima fase è il viadotto della Fiumarella a Catanzaro (1958-1961) che, con una lunghezza totale di 600 metri e una luce dell’arcata centrale di 236 metri su un’altezza dal fondovalle di 130 metri, appena costruito è uno dei ponti ad arco più grandi del mondo.

Viadotto della Fiumarella, Catanzaro

Dopo questa realizzazione Morandi abbandona lo schema ad arco, adottando la trave strallata che diventerà il tema dominante della sua poetica fino a rappresentarne l’icona. Tre opere descrivono la

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nuova stagione. La prima è il ponte sulla laguna di Maracaibo (1957-1962) all’epoca il più lungo del mondo (9 chilometri), composto da una serie di appoggi ad antenna a forma di “A” con un cavalletto rovescio a “V” posto a base dell’antenna e con travata a sbalzo strallata. Soluzione plastica efficace ma a detta dello stesso Morandi troppo complessa ed ancora lontana da quella sintesi assoluta, che il progettista romano d’ora in avanti cercherà con sempre maggiore determinazione. I risultati di questi sforzi si concretizzano con il viadotto del Polcevera a Genova (1960-64), un’opera che a tutt’oggi appare uno dei pochi ponti che riesce a trarre vantaggio espressivo dalle difficili ed eterogenee condizioni del contorno. La trilogia dei grandi ponti strallati si chiude con il grande ponte Wadi Kuf (1965-71) in Cirenaica, a detta di molti l’opera che rappresenta l’apice della carriera del progettista.

Viadotto del Polcevera, Genova

Ponte Wadi Kuf, Cirenaica

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Morandi, nel corso della sua carriera, si è cimentato anche nella realizzazione di opere architettoniche. Come faceva notare Bruno Zevi, Morandi inserisce la tensione di uno slancio strutturale, fissato in quel dato momento in cui la forza dinamica diventa statica;esempio emblematico è il Cinema Maestoso (1954-57), nel quale l’intera massa si contrae in uno spazio estremamente limitato. Questo è un edificio polifunzionale in cui oltre alla sala cinematografica, denunciata dalla presenza in facciata di una vetrata che mostra il corpo scala, sono presenti nella parte superiore delle abitazioni e nella parte inferiore degli ambienti destinati ai negozi e ai servizi. La struttura portante dell’intero complesso è costituita da sei grandi portali zoppi in cemento armato precompresso, che scandiscono longitudinalmente la sala di 40 metri, confluendo in un unico grande telaio nel quale è incorniciato lo schermo.

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Cinema Maestoso, Roma

Caratteristica di tutte le opere di Morandi è la grande maestria di portare all’estremo le capacità del materiale, determinando forme che agli occhi di chi guarda appaiono instabili, precari e ad accentuare questa scelta viene presa la decisione di far vedere le componenti strutturali, come, ad esempio, nel Padiglione per il Salone dell’Automobile di Torino (1961) in cui i pilastri sono sostituiti da bielle esibite e sono esplicitate anche le cerniere, a sottolineare proprio il gioco degli equilibri.

Padiglione per il Salone dell’Automobile di Torino

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3. Sergio Musmeci

Sergio Musmeci (1926-1981) può essere inserito in un settore dell’ingegneria più vicino alla scienza, in cui è appunto la scienza a diventare ricerca applicata alla progettazione strutturale. Esempio di questa relazione tra le due discipline sono gli studi di D’Arcy Thompson sulla distribuzione della massa ossea, la quale segue precisi canali statici; questa scoperta fu alla base di importanti innovazioni strutturali. Inoltre con le sue geometrie poliedriche Thompson ispirò Bukminster Fuller nella progettazione delle cupole geodediche.

Cupola Geodedica, Monaco

Questi oggetti sperimentano alcune idee elaborate negli anni precedenti: il montaggio di moduli strutturali inusitati, l’intreccio di molte funzioni in un involucro gigantesco e la libera combinazione di cellule residenziali unificate. La ricerca di Musmeci, invece, si muove su due filoni: la forma embrionale e le tensostrutture. La prima studia la doppia curvatura, possibile con il cemento armato, partendo dall’analisi dei gusci sottili. Un esempio precedente lo possiamo trovare con Eduardo Torroja nell’Ippodromo di Madrid.

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Ippodromo di Madrid

La seconda nasce dalla ricerca dell’ottimizzazione statica, ripresa dagli studi e dai progetti di Frei Otto. Quest’ultimo traduce nelle tensostrutture la congiunzione di superfici minimali e la necessità di un bordo libero (cioè di usare dei punti per i vincoli e non un contorno). Il progetto per il ponte del Basento è il lavoro che racchiude al meglio le intenzioni della ricerca di Musmeci, unita anche ad una grande conoscenza tecnologica resa visibile da l’unica lamina di cemento modellata, in cui sono sintetizzati l’insieme degli elementi strutturali.

Ponte del Basento,Cosenza

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Le tensostrutture La tensostruttura è un sistema statico-resistente composto da elementi sottili (funi o membrane) sollecitati unicamente da uno sforzo di trazione, con il quale ottenere il comportamento stabile e resistente della struttura. Impiegate soprattutto nelle grandi coperture, si propongono come strutture molto leggere e in caso di deformabilità, per effetto di carichi asimmetrici, non si determinano effetti pericolosi. La scelta di ogni possibile configurazione, con questo sistema statico-resistente, è molto ampia e si presta per ottenere suggestivi effetti architettonici. “In effetti gli stupendi esempi offerti dalla natura in tema di tensostrutture, ossia le tele tessute dai ragni, possono offrire spunti di notevole interesse al progettista tenendo in considerazione che non hanno peso proprio accettabile, e sono suscettibili di altissime deformazioni”.4 Possiamo riscontrare tre motivi per cui le tensostrutture hanno avuto grande successo nell’ambito architettonico: - la sollecitazione di trazione, in grado di sfruttare a pieno la sezione resistente del materiale senza essere esposta ai pericoli d’instabilità elastica che danneggia la sollecitazione di compressione; - le grosse possibilità offerte da funi e cavi metallici, grazie alla grande richiesta di ponti sospesi e dei trasporti di tipo funicolari e funiviari; - lo sviluppo degli studi sulle strutture membranali e le strutture resistenti per forma, curvate nello spazio. Le tensostrutture si possono suddividere in due categorie: strutture con funi e strutture con membrane. La figura più popolare è quella a due vertici e due depressioni, il paraboloide iperbolico. Questa è la più indicata per materializzare in termini esemplari il concetto di figura, intesa come rete a maglie ortogonali in cui ci sono cavi “portanti” e cavi “stabilizzanti”. La prima e più suggestiva realizzazione di tensostrutture di questo tipo nacque tra il 1948 e il 1950, la Dorton Arena di Raleigh ideata da Nowicki e realizzata da Severnd, Elstad e Krueger.

Dorton Arena, Raleigh

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Hans-Joachim Schock, “L’atlante delle tensostrutture”

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Rete di maglie ortogonali

Una tensostruttura può assumere diverse forme, tra le quali quelle circolari ed ellittiche. Un interessante esempio di tensostruttura, detta a ruota di bicicletta, è rappresentato dal Palazzo dello Sport-Esposizioni di Genova. La copertura dell'edificio, dal diametro di 68 metri, è concepita come una grande ruota di bicicletta realizzata con doppio ordito di funi pretese in acciaio, ancorate ad un anello di bordo in calcestruzzo. Il manto è eseguito interamente in poliestere rinforzato mediante tegoloni lunghi 28 metri. La parte centrale e la copertura di buona parte dell'anello esterno è pure in poliestere rinforzato, per illuminare i solai intermedi e rendere disponibile la parte esterna per gli stands. Per le coperture ellittiche, eliminando l'anello centrale, si possono disporre tessiture di cavi opposte e intersecatesi tra loro. Il rapporto e la distanza dei fuochi determinano l'eccentricità e da questa, quindi, gli effetti spaziali della visione interna. Con il tempo studi hanno rilevato che, in mancanza della pretensione dei cavi radiali dell’anello centrale, gli effetti ad esempio del vento, avrebbero portato a deformazioni e instabilità di forma inaccettabili.

Palazzo dello Sport-Esposizioni, Genova (1962)

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Analisi del Palazzo per uffici in via Po (1960-64) Attraverso la normativa delle zone B del piano regolatore vengono demolite le abitazioni della zona compresa tra via Pinciana e viale Regina Margherita, in conseguenza di una trasformazione terziaria che a partire dagli anni Sessanta modificherà completamente la distribuzione degli edifici. Negozi, studi professionali e uffici, tra i quali il palazzo progettato a via Po da Musmeci, prenderanno posto in questa zona . Alla base del progetto c’è l’intento di trasmettere una nuova maniera di vivere gli spazi lavorativi che diventa cardine di tutte le scelte progettuali. Con il fine quindi di raggiungere la massima flessibilità spaziale, l’ingombro della struttura portante è ridotto a quattro pilastri, arretrati di 5 metri dal fronte dell’edificio. Per quanto riguarda gli interni, i solai sono realizzati da elementi prefabbricati, costituiti da nervature che permettono l’indipendenza dalle travi, in modo tale da non interferire sulla disposizione delle pareti mobili che suddividono i grandi ambienti di ciascun piano. L’edificio ha una pianta quadrata di circa 23 m di lato e ha il piano terreno occupato solo da un atrio d’ingresso interamente vetrato. Al centro c’è il nucleo dei collegamenti verticali e sul retro il blocco dei servizi, infatti, grazie a questa disposizione, i flussi di percorrenza avvengono in maniera circolare e libera rimanendo fedele all’idea progettuale. La facciata è in curtain-wall con infissi in alluminio anodizzato e cristalli di colore grigio scuro la cui trama prosegue anche nel vuoto dell’ultimo livello, in modo da recuperare i contorni di un volume puro secondo l’idea figurativa del progetto.

Palazzo per uffici in via Po, Roma

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4. Luigi Moretti

“Gli domandiamo se è anche lui del parere che l’architettura vada oggi lasciata in mano agli ingegneri e ai geometri. – Mai più. Un tale pregiudizio è la fonte di tutte le deviazioni che imbarbariscono la nostra arte. Sarebbe lo stesso che si volesse lasciare la poesia o il romanzo in mano ai professori. L’ingegnere è un esecutore. Le dirò anzi di più. Come non esiste l’uomo puramente economico – e parafraso Mussolini – così non esiste l’uomo architetto, ma l’uomo artista”.5 Parallelamente alla realtà ingegneristica che stava prendendo piede in Italia, si sviluppa un altro filone di ricerca sulla forma strutturale che vede come protagonista Luigi Moretti (1907-1973). Questo riconosce l’importanza dell’ornamento, come componente della struttura, partendo da esempi facenti parte della storia dell’arte e dell’architettura. “Si è finalmente capito che l’ornamento non è altro che un’accentuazione e un arricchimento del sistema costruttivo. Per spiegarne l’importanza anche tecnica di quest’ultimo assunto, mi servirò ancora di un esempio. […] tra gli architetti si ostenta una vaga diffidenza verso le attitudini costruttive del grande toscano. […] Ebbene, basta fare un confronto tra le quattro colonne della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore, e le colonne del palazzo dei Conservatori, per rendersi conto di una infinità di problemi. Bisogna vedere con quale enorme fantasia Michelangelo ha saputo nascondere la tecnica. Le quattro colonne della cappella Sforza, che sostengono da sole una copertura pesante ed arditissima, hanno, specialmente alla base che è più stretta e sofferente, una forma strutturale fondamentalmente diversa da quella dei Conservatori. Al profano le differenze appaiono puramente ornamentali”.6 “La personalità dell’architetto Moretti si è imposta per una sua caratteristica speciale: una ferrea e intransigente formazione logica, unita a una facoltà lirica di grande forza: conosce a fondo il mondo antico, lo ama profondamente e da esso parte per ogni anche più azzardata impostazione di architettura e in genere di attività spirituale e critica”. 7 La personalità di Luigi Moretti è considerata complessa e si viene parzialmente a svelare solamente a partire dagli anni successivi alla guerra Alcuni critici considerano l’architetto parte del movimento razionalista, ma c’è da dire che nel periodo antecedente la guerra, Moretti rifiuta le “conquiste” del razionalismo europeo, per esempio: -l’interpretazione tecnicista -la sincerità delle strutture -il primato dell’edilizia sociale e popolare -l’uso sistematico delle tipologie distributive (la casa in serie) “Ecco: su quel foglio di carta l’architettura del nostro tempo è “reale”. Il concepire graficamente è il modo naturale di esprimersi dell’architetto contemporaneo. Oggi la costruzione è una pura e semplice proiezione del grafico, e non, come dovrebbe essere e come è sempre stato, il grafico una proiezione della costruzione. E tanto ciò è vero che i diversi momenti attraverso i quali l’architettura moderna è passata in pochi anni si potrebbero distinguere mediante le varie tecniche del disegno. […] Insomma, l’architettura razionale è nata sulla carta, vi è vissuta e vi morrà infallibilmente. La sua fama è stata creata per mezzo delle riviste, ed essa rimane ancora oggi 5

Intervista pubblicata su Quadrivio di Luigi Diemoz, dicembre 1936 Ibidem nota 5 7 Ibidem nota 5 6

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sempre per quella specie di terrore e di abulia di confronti della realtà di cui abbiamo cominciato a discorrere- un fenomeno extra-architettonico…”8 Egli crede nell’architettura quale immagine singola e circoscritta, momento figurativo culminante della città, edificio-simbolo rappresentativo di una realtà societaria presente; crede nell’architetto come intellettuale, umanista e critico, e soprattutto artista creatore della forma figurata. Consapevole della propria originale interpretazione del mondo, l’architetto descrive così enfaticamente nel 1957 l’instancabile ricerca di fondamenti per il suo lavoro nella storia e nelle discipline logico-matematiche. Se per il periodo precedente la guerra non è facile seguire il filo dei suoi pensieri e dei suoi variatissimi studi e “amori”, a partire dagli anni Cinquanta Moretti inizia a far conoscere sistematicamente le ricerche che conduce in parallelo all’attività professionale. A differenza di quanto sostenuto da coloro che hanno voluto negare la rilevanza delle elaborazioni teoriche di Moretti, queste stesse elaborazioni hanno, non soltanto un notevole rilievo ma anche una sconcertante originalità, frutto di alcune precoci intuizioni. Attraverso l’esperienza della rivista “Spazio”, la teoria dell’“architettura parametrica”, la fondazione dell’Istituto di Ricerca Matematica e Operativa per l’Urbanistica (IRMOU) e l’attività nel mercato dell’arte, Moretti sviluppa nel dopo guerra una serie di riflessioni iniziate negli anni giovanili, che offrono un indispensabile chiave di lettura della sua opera ed esprimono una visione unitaria e coerente della realtà. Nel 1932-36 la costruzione della Stazione di Firenze Santa Maria Novella di Michelucci, interveniva a dimostrare che si poteva ottenere un’opera architettonica di indubbia permanente validità, senza dover ricalcare le tracce del Razionalismo, ma puntando sopra a scelte linguistiche diverse ed autonome, liberamente collegate a valenze del passato, per realizzare un’immagine che si poneva finalmente in rapporto con il mondo storico e con la città antica. Moretti tenta questa possibilità nella Casa della Gioventù di Trastevere, in cui cerca di verificare il razionalismo solo come linguaggio figurativo in atto ed in aperto sviluppo, sperimentando l’uso di alcuni sistemi in una composizione a volumi semplici, distinti e contrapposti. La novità è nella soluzione del fronte d’ingresso sulla testata, con la torre sporgente, che rivela lo sforzo di caratterizzare l’edificio come sede di una funzione pubblica e come tipica “figurazione architettonica del regime”.

Stazione di Santa Maria Novella, Firenze

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Ibidem nota 5

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GIL di Roma

“Per esser più nel vero dovrei precisare che sono gli aspetti caratteristici della società contemporanea a riflettersi nelle produzioni dell’arte. […] Piuttosto non mi sembra che sia stato ancora messo in chiaro abbastanza, e i più sono naturalmente lontani dall’averne la minima consapevolezza, il fatto della nostra scarsissima sensibilità a vivere secondo una realtà esterna. Noi preferiamo di gran lunga crearci continuamente una realtà fittizia, e in essa troviamo l’assopimento e la pace.”9 Fanno parte della poetica di Moretti altri due temi di ricerca che partono dal riscontro con la storia dell’architettura: la luce e la sequenza di volumi. “La Grecia non ebbe nelle sue architetture spazi interni della misura e del significato che i romani promossero. Le colonne del tempio greco chiudono nei loro rettangoli lame d’ombra che sembrano nascere dalle viscere della terra a involgere e formare gli invalicabili sacelli. L’architettura greca fu algoritmo di strutture battute dal sole, fu una logica della luce e insieme ombra di ignote forme ove albergavano gli dei”.10 Possiamo riscontrare questo tema della conversione della luce in taglio, nel complesso di abitazioni e uffici al Corso Italia a Milano(1949-55) e nella casa Girasole a Roma (1947-50). Nel complesso milanese il taglio spezza la continuità della fabbrica per l’intera altezza e diventa una componente vistosa e caratterizzante. E’ una cesura aperta, situata a rompere la troppo consueta e scontata ricorrenza delle ripetute linee orizzontali, la quale crea un’articolazione nel vivo del corpo verticale, e genera per contrasto vibrati effetti umanistici ed accentuati i tono cromatici. 9

Ibidem nota 5 Rivista Spazio n. 7. Strutture e sequenze di spazi

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Moretti è scontento perché obbligato dalla committenza ad adottare tipologie e modelli distributivi ormai acquisiti, questa imposizione si traduce in soluzioni diverse e qualificate. La struttura si presenta come un enorme prisma trapezoidale alto sette piani, squadrato e sporgente. La volontà dell’architetto è quella di superare il lessico razionalista, mutandolo in un linguaggio più ampio e articolato

Complesso di abitazioni e uffici al Corso Italia, Milano

Nel caso romano abbiamo un esempio più maturo di residenza cittadina. Una profonda fenditura verticale taglia il prospetto e ne accentua la simmetria, la quale risulta nello stesso tempo contraddetta dalle maggiori larghezze della parte destra. L’edificio è caratterizzato da un grande basamento, da un solco orizzontale e da un corpo con gli altri piani, che sui fianchi mostra le finestre ricavate negli imbuti obliquamente sporgenti dalle pareti. Il taglio sulla facciata si allarga nell’atrio e nella scala, la continuità dell’edificio viene spesso interrotta e si trasforma in forma viva.

Casa Girasole, Roma

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“Tra le fabbriche di Villa Adriana, specchio argentatissimo di tutte le inflessioni dell’ecclettismo imperiale, si possono individuare interessanti modelli di sequenze dalle più semplici alle più elaborate. Il gruppo ternario del portico del Pecile, dell’aula quadra detta dei Filosofi e del “natatorio” circolare, può assumersi come esempio di una sequenza di volumi la cui vividezza e solennità è poggiata esclusivamente sulla differenza delle forme geometriche fra gli elementi del gruppo”.11 Per quanto riguarda il tema della successione dei volumi possiamo riscontrare un esempio nella Casa della Scherma di Roma (1934-36), scandita da un ritmo spaziale. L’edificio ha una pianta a “L” ed è composto di due parti distinte, collegate tra loro da un percorso in quota. In corrispondenza dell’angolo, la pianta si articola in un elemento di forma ellittica. Di particolare interesse è lo schema della copertura, definito da due grandi mensole in cemento armato a sezione parabolica, sfalsate tra loro in maniera tale da determinare un’apertura longitudinale dalla quale, grazie alla forma delle mensole, la luce si diffonde in maniera uniforme nella sala. Moretti utilizza un linguaggio inedito, valido e moderno ma fondato sulla presenza ideale della tradizione classica, che vi appare riassunta e rinnovata nei suoi termini essenziali. E’ forte il senso della massa plastica, della prevalenza di superfici piene e della luminosità diffusa.

Casa della Scherma, Roma

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Ibidem 10

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Analisi del Parcheggio Sotterraneo, Roma 1966-72 Luigi Moretti Il parcheggio di Villa Borghese, inaugurato nel 1972, fa parte del piano di costruzione bandito dall’amministrazione comunale nel 1964. Tale piano comprendeva la realizzazione di trentacinque parcheggi, di cui venticinque in corrispondenza dei nodi dei mezzi pubblici e dieci nei pressi del centro storico, per un numero complessivo di 25.000 posti macchina. Il primo di questi ad essere realizzato fu il parcheggio sotterraneo di villa Borghese per il quale nel 1966 fu bandito un concorso vinto dalla Società Condotte. Il parcheggio si estende su un’area di 3,6 ettari che si sviluppa su tre piani, di cui due interrati, con il fine di inserirsi nel parco di Villa Borghese senza andare ad intaccare una delle zone verdi della città. Può contenere fino a 2.000 autovetture e comprende al suo interno, oltre i normali servizi per la manutenzione e la sicurezza, un centro commerciale di 6.000 metri quadri che si trova nella parte dell’edificio vicino a porta Pinciana. Nell’organizzazione dei flussi, per quanto riguarda i veicoli, i tre livelli del parcheggio sono collegati con viale del Muro Torto, con piazzale delle Canestre e con piazzale Brasile, mentre per i passaggi pedonali, oltre all’uscita diretta su piazzale Brasile, sono stati realizzati due percorsi sotterranei con uscite su via Veneto e nella stazione della Metropolitana di piazza di Spagna. Il parcheggio è realizzato interamente in cemento armato lasciato a vista. Il livello inferiore è costituito da una maglia strutturale impostata su un reticolo ortogonale di m 13,30 di lato, il quale nei pressi dei nodi è sorretto da pilastri che hanno una base cilindrica e la parte superiore di forma tronco-conica che va ad allargarsi. Questa scelta, come abbiamo visto anche nei progetti di Morandi e Musmeci, mostra la volontà di rendere all’occhio umano l’architettura “instabile”. Nel piano intermedio i pilastri, che hanno la stessa forma di quelli al piano inferiore, sorreggono un soffitto caratterizzato da cupole. Questo progetto rientra tra gli esempi che rappresentano a pieno la grande capacità nel saper sfruttare la nuova tecnologia del cemento precompresso, con il fine di far conciliare la forma con la struttura.

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Parcheggio Sotterraneo, Roma

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Spazio Nel luglio 1950 esce il primo numero della rivista “Spazio”, rassegna delle arti e dell’architettura di cui Moretti è l’ideatore, il direttore, l’editore e il principale autore. Di questa rivista escono sette numeri, nell’arco di tre anni, incentrati su due nuclei principali: la storia dell’arte e l’architettura. Com’è possibile vedere nell’apparato iconografico della rivista l’intento di Moretti è quello di trovare le analogie tra i diversi linguaggi artistici. Infatti, mentre tutti gli altri periodici di architettura, come ad esempio Domus, si occupano del problema della ricostruzione post-bellica, Spazio ha l’obiettivo di dimostrare l’attualità dei valori strutturali e logici dell’architettura antica, in quanto fondamenti di quel nuovo linguaggio in grado di influenzare l’intera struttura del mondo civile. A partire dallo studio dei periodi d’oro (Età Classica, Rinascimento e Barocco) della tradizione occidentale, Moretti decide di risolvere i problemi e le forme della civiltà contemporanea, dall’arte estetica all’etica, concentrandosi su tre punti principali: il ruolo della decorazione, l’importanza della luce e lo spazio interno come componente fondamentale del progetto. Moretti crede nei valori della modanatura degli edifici classici e barocchi, basti pensare alla grande rilevanza che per lui ha Michelangelo architetto (guardare l’intervista riportata a pagina 16), nella luce come elemento di scansione della sintassi logica, in cui è fondamentale il riferimento a Caravaggio e nelle sequenze spaziali riprese dalle basiliche romane e dalle terme. Con la rivista Spazio, Moretti sviluppa una serie di tematiche a lui care, come ad esempio l’interesse per i modelli negativi, ricavati trasformando in volumi pieni i vuoti degli interni di monumenti antichi o rinascimentali. Questo processo di “riempimento” del vuoto diventa segno della sua architettura, basti pensare a come l’architetto è riuscito ad arrivare alla forma finale della Casa della Scherma, attribuendo così all’intera massa un valore plastico che modificherà i canoni dell’architettura da quel momento in poi.

Palazzo Farnese, Roma

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Santa Maria della Provvidenza, Lisbona

San Pietro, Roma

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Il telaio strutturale come elemento generatore dello spazio

A partire dagli anni Venti con il Razionalismo italiano, il telaio diventa vero e proprio tema progettuale, mezzo con cui ottenere quel senso di profondità già presente nella cultura classica quanto in quella rinascimentale. Convergono infatti nel telaio tutti quei principi compositivi quali la prospettiva, l’effetto chiaroscurale, la simmetria, intesa come negazione di essa, luce ed ombra. Inoltre questo è fondamentale poiché determina un nuovo assetto degli spazi che porterà a ridefinirne il concetto stesso. Possiamo percorrere l’evoluzione del telaio in questi anni attraverso le ricerche di Le Corbousier, Giuseppe Terragni, Louis Kahn e Mies van der Rohe. - L’analisi condotta da Le Corbousier è rivolta allo studio dell’unità abitativa, da una parte fissando un codice di principi architettonici, quali i famosi cinque punti, dall’altra prendendo in considerazione proporzioni e necessità che riguardano tanto l’uomo quanto la popolazione di massa, basti pensare agli studi condotti sul Modulor. L’aspetto più innovativo dell’architettura di Le Corbousier è sicuramente la pianta libera la quale ha permesso l’abolizione del tradizionale ruolo della muratura. Attraverso la realizzazione di uno schema estremamente semplificato, costituito da elementi orizzontali, pavimento e solaio ed elementi verticali portanti, i pilastri. Questa si è dimostrata una vera e propria rivoluzione dal punto di vista della distribuzione spaziale poiché non si tratta più di ambienti separati e distinti ma di spazi ampi in cui confluiscono più funzioni. Ciò ha portato a degli stravolgimenti anche dal punto di vista sociale, ridefinendo il concetto di abitabilità e ridisponendo l’assetto funzionale dell’ambiente.

Maison Dom-Ino

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Schizzi relativi agli studi sulla Maison Dom-Ino

- All'interno della sperimentazione di Terragni il tema del telaio può attribuirsi il ruolo di quadro unificante della sua poetica. Possiamo vedere come questo tema vada man mano trasformandosi e precisandosi opera dopo opera. Nella Casa del Fascio (1932-36) il motivo del telaio matura e prende corpo. La struttura è realizzata con due sistemi di telai di cui il primo, posto in facciata, articolato asimmetricamente rispetto alla volumetria principale, il secondo, invece, a vista all’interno della Sala delle Adunanze, in cui è denunciata l’operazione di sottrazione dal volume pieno. Attraverso la creazione di questo vuoto centrale si è andata a manifestare l’armonia del rapporto tra vuoto e pieno. Come in altre architetture del periodo anche qui si ha un perfetto dialogo tra il passato e il presente, infatti l’edificio rivela la logica della struttura trabeata ma anche il codice razionale che stava alla base della creazione della facciata. La forza dell’edificio è quella di avere la capacità di staccarsi dal contesto ideologico, interessandosi alla creazione di una forma spaziale continua senza alcun orientamento quali alto e basso o destra e sinistra.

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Casa del Fascio, Como

- Uno degli architetti che ha contribuito in maniera estremamente interessante a questo tema di ricerca è Luis Kahn, il quale con il progetto per la biblioteca Phillips Exeter Academy (1965-71), ha portato all’interno dell’opera l’elemento della monumentalità, anche dove è il telaio ad essere elemento portante. “Ho considerato lo spessore della muratura esterna come una ciambella di mattoni, indipendente dai libri. Ho reso lo spessore interno come un’altra ciambella in calcestruzzo, in cui i libri sono collocati lontano dalla luce. L’area centrale è la risultante di queste due ciambelle contigue”. Come spiega nella citazione, Kahn decide di realizzare due anelli che, come nel caso della Casa del Fascio di Terragni, sono posti l’uno dentro all’altro.

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Il primo, quello in muratura, è portante ma indipendente dall’interno, mentre il secondo,realizzato in cemento faccia vista,è l’elemento maggiormente interessante, poiché costituito da una struttura a telaio che si sviluppa per tutta l’altezza dell’edificio. In questo caso è emblematico il rapporto tra pieni e vuoti, infatti nella zona dell’ingresso, sono resi visibili solamente i quattro pilastri che sorreggono il volume pieno caratterizzato a sua volta da forature circolari.

Phillips Exeter Academy, New Hampshire

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I temi fondamentali della carriera di Kahn sono: il rapporto tra solido e vuoto, integrazione dei sistemi meccanici con la struttura e la manifestazione dell’essenza di un edificio solo attraverso il processo costruttivo. Questo è il risultato, a prescindere dal valore architettonico dell’opera, di una “nuova oggettività” presente negli Stati Uniti, in quanto non esisteva affatto una base ideologica paragonabile all’ambiente europeo. E’ per questo che Kahn utilizza il carattere della monumentalità dell’America post-bellica come forza culturale altrettanto valida.

Mies van der Rohe “Mi fu allora chiaro che non era compito dell’architettura quello di inventare forme […]. Gli altri dicevano: “Ciò che costruiamo è architettura” ma non eravamo soddisfatti di questa risposta dal momento che sapevamo che si trattava di una questione di verità, ci sforzavamo di scoprire che cosa fosse in realtà il vero […]”. Mies van der Rohe si dichiara apertamente contro il formalismo e la speculazione estetica definendo l’architettura come la volontà di un’epoca manifestatasi in termini spaziali. La forma è il risultato di un processo che parte dall’analisi della funzione che andrà a svolgersi in un dato spazio. L’idea, che diventerà fondamento del lavoro di Mies, è quella che non dovrebbe essere realizzato nulla che non sia costruito con chiarezza. Esattamente quello che fece Berlage, punto di riferimento per l’architetto, con la Borsa di Amsterdam, il quale era riuscito a conferirgli un carattere medievale senza essere medievale. A partire dagli anni Trenta assistiamo alla piena maturazione del pensiero dell’architetto, che vede la conciliazione di due sistemi. Uno deriva dall’eredità del Classicismo romantico che egli traduce nella struttura a scheletro di acciaio, con il fine di smaterializzare l’architettura. Il secondo ereditato dal mondo antico, prevedeva un’architettura costituita dagli elementi del tetto, della trave, della colonna e del muro. Perennemente conteso tra lo spazio e la struttura, il suo intento è quello di mostrare simultaneamente trasparenza e corposità, ciò diventa possibile solo attraverso il telaio in acciaio e le pareti vetrate. Uno degli esempi più significativi è Casa Farnsworth, la quale rispecchia perfettamente il codice architettonico miesiano.

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“La tecnica affonda le sue radici nel passato. Essa domina il presente e si protende verso il futuro. E’ un puro movimento storico, uno dei grandi movimenti che plasmano e rappresentano la loro epoca […]. La tecnica è molto più che un metodo, essa è di per se un mondo”. Notevole fu l’influenza del mestiere del padre, il quale, muratore e scalpellino, catapultò il figlio nel mondo della costruzione. Con Mies assistiamo alla monumentalizzazione della tecnica, ovvero dell’utilizzo di una tecnologia costruttiva oggettiva, coerentemente concepita e rigorosamente realizzata la quale diventa, in termini strettamente hegeliani, manifestazione culturale dell’uomo moderno.

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Atlante

Campanile del cimitero di Malmo; Sigurd Lewerentz

Fontana di Camerlata, Como; Maurizio Cattaneo

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Casa d’affitto, Cernobbio; Maurizio Cattaneo

Biblioteca, Atalanta; Marcel Breuer

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Palazzo dell’UNESCO, Parigi; M. Breuer, P. L. Nervi, B. Zehrfuss

Centre Le Corbusier, Zurigo; Le Corbusier

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Padiglione Amercicano per l’EXPO 67, Montereal; R. Buckminster Fuller

Neue Nationalgalerie, Berlino; Mies van der Rohe

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Padiglione Italiano, Osaka; Maurizio Sacripanti

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Centro di manutenzione per Boeing 747 dell’Alilitalia, Fiumicino; Riccardo Morandi

Yale Centre for British Art, New Haven; Louis Kahn

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Museo-Ponte, Maccagno; Maurizio Sacripanti

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Parco Oceanografico, Valencia; Felix Candela

Biblioteca Centrale, Seattle, Rem Koolhaas

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Padiglione Airtecture, Germania; Festo KG, Esslingen, R. Wagner, A. Thallemer

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Philological Library, Berlino; Norman Foster

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Stadio Comunale di Braga, Eduardo Souto de Moura

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Maxxi, Roma; Zaha Hadid

Concrete House, Alicante; M. Langarita e V. Navarro

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Parrish Art Museum, New York; Herzog & de Meuron

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Roy Lichtenstein residence and studio, New York; Caliper Studio

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Vitra Haus, Weil am Rhein; Herzog & de Meuron

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Church Congregation Hall, Szolnok; SAGRA Architects

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Stazione Ferroviaria Mediopadana, Reggio Emilia; Santiago Calatrava

Biblioteca Hertziana, Roma; Juan Navarro Baldeweg

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Fondazione Feltrinelli, Milano; Herzog & de Meuron

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Bibiografia - “Storia dell’architettura moderna”, Leonardo Benevolo - “Moretti”, Renato Bonelli - “Storia dell’architettura moderna”, Kenneth Frampton - “Il ponte e la città. Sergio Musmeci a Potenza”, Margherita Guccione - “Innovazione, tecnologia e progetto”, Riccardo Morandi - “Sessant’anni d’ingegneria in Italia e all’estero”, Valerio Paolo Mosco - “Luigi Moretti. Opere e scritti”, Federico Bucci e Marco Mulazzani - “Architettura romana”, John Ward Perkins - “Roma, guida all’architettura moderna 1909-2011”, Piero Ostilio Rossi - “Atlante delle tensostrutture”, Haus-Joachim Schock - “Luigi Moretti 1907-1973”, Cecilia Rostagni” - “Intervista pubblicata su Quadrivio di Luigi Diemoz, dicembre 1936” - “Rivista Spazio n.7. Strutture e sequenze di spazi” Siti -­‐ www.europaconcorsi.com -­‐ www.cristianomarchegiani.it

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L’utopia del Movimento

È in questo clima che si diffonde in architettura un’attitudine sperimentale di carattere utopico e visionario che non trova il suo sviluppo nella tendenza ad un unico stile ma piuttosto in un proliferare di idee innovative e voglia di ribaltare gli schemi. I protagonisti di questo movimento non trovano interesse nel soddisfare le esigenze di un consumatore ‘ideale’ preferendo forme stilistiche adattabili alle diverse necessità di una società complessa. Se prima si credeva di poter determinare un appropriato equilibrio sociale attraverso l’evolversi di una cultura della riproducibilità e della copia in serie ecco che la posizione critica dei Radicali mostra con ironia come la ripetitività sottolinei la monotonia di una percezione visiva statica, dell’apparente dinamico linguaggio architettonico. Lo studio degli alloggi e della circolazione affrontati fino a quel momento come problemi regolamentabili in base a standard universalmente riconosciuti, aveva dato luogo a quartieri 1

L’UTOPIA DEL MOVIMENTO

“Il progetto utopico si dà come non realizzabile; non è rimasto sulla carta per sbaglio, ma per decisione progettuale. Si dispone come schema in una società impossibile in quanto sospende e proietta la realtà in un universo senza storia, e tuttavia indica (quando non è rifugio contro la vita) in modo illuminante una direzione di trasformazione.[...]..il progetto utopico è sempre accompagnato da una visione circolare, di definitiva sistemazione di tutti i rapporti, è utopia politica e cosiale oltre che spaziale, e da questo trae la sua stessa carica di significato progettuale.” Vittorio Gregotti Negli anni ‘60 cresce la consapevolezza di quel legame continuo esistente tra i valori dell’architetto e le abitudini e necessità dell’uomo. Questa consapevolezza porta, nell’attività professionale, ad ef-fettuare una varietà di interventi riformisti con l’intento di superare il grande distacco tra il progetti-sta e la società a lui circostante. Nasce quindi una critica spinta nei confronti dell’architettura del tempo vista come inaccessibile e astratta, affiancata dal proposito di trovare soluzioni che potessero rendere l’architetto al servizio di quella parte di società meno agiata alla quale, in genere, questa professione non si rivolgeva.


L’UTOPIA DEL MOVIMENTO

in gran parte privi di vitalità. Spinti dall’urgenza di riformulare teorie e linguaggi, gli architetti mettono in discussione il rapporto tra forma e funzione. Analizzando la crisi del funzionalismo e del razionalismo si iniziano a distinguere i bisogni necessari da quelli voluttuari; Il consumo, tradizionalmente legato al bisogno, nella società capitalistica si trasforma in consumismo, l’oggetto, quindi, si allontana dalla sfera del bisogno per entrare in quella del desiderio. Di qui, soluzioni che comprendono adattabilità del sistema, proposte ludiche nell’organizzazione della ricerca tecnologica. Da questo genere di riflessioni scaturiscono nuove soluzioni. Radicalismi Tra queste si riconosce l’opera di Constant Nieuwenhuis, seguace dell’Internazionale Situazionista e, per un breve periodo, compagno di Guy Debord. Feroce avversario del funzionalismo, della città razionale e dell’ideologia della ‘macchina per abitare’, immagina una città non stanziale, abolendo l’organizzazione dello spazio in funzione dell’ottimizzazione dei processi. L’architetto olandese postula una struttura urbana in continuo mutamento che avrebbe risposto alle tendenze ludiche dell’uomo. La sua visione era quella di una vita intesa come viaggio infinito attraverso un mondo che cambia così rapidamente da apparire sempre un altro. Constant battezza la sua città ideale New Babylon per sottolineare l’obbiettivo di confondere le lingue, destrutturare i comportamenti acquisiti e fuggire dalle città ordinate, progetta una struttura reticolare sospesa sopra il suolo. Un modo per restituire l’uomo ad una condizione nomade (liberata dal capitalismo e autodeterminata nella configurazione del proprio ambiente). Abolendo ogni frontiera, l’architettura si confonde col paesaggio in una pianificazione urbana unitaria. Questo tipo di ricerca progettuale influenzerà poi l’avanguardista inglese Cedric Price, che svilupperà un edificio totalmete dedicato al tempo libero. Attento agli aspetti tecnologici, oggetto dell’azione del tempo, arriva a progettare il Fun Palace: un luogo alternativo e spe2


Così come per Constant anche il lavoro di Yona Friedman è basato sul nomadismo come forza sociale che risponde però anche ad una necessità della crescita urbana e demografica. Nei suoi progetti libera il suolo, sospendendo le stutture a favore della mobilità. Con l’esempio della Ville spatiale, mostra i principi di un’architettura capace di comprendere le continue trasformazioni che caratterizzano la “mobilità sociale”; un’architettura basata su “infrastrutture” che prevedono abitazioni e norme urbanistiche passibili di essere create e ricreate, a secondo dell’esigenza degli abitanti e dei residenti. La sua attenzione per l’autoregolazione degli abitanti nasce dalla sua esperienza diretta di profugo e senzatetto, dapprima nelle città europee disastrate dalla guerra e in seguito in Israele, dove nei primi anni di vita dello Stato sbarcavano ogni giorno migliaia di persone, con conseguenti problemi di alloggio. 3

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rimentale di spazio sociale, dove l’utente avrebbe potuto interagire liberamente e in modo nuovo, stimolando all’infinito la propria creatività e ampliando la propria conoscenza, come una sorta di “università delle strade”. Con questa idea si propone il senso del provvisorio, di un luogo pensato come una grande macchina dedicata al potere di trasformazione del flusso effimero e imprevedibile delle energie creative; i visitatori potevano tracciare da soli il proprio percorso, costruirsi le proprie storie e portare avanti la propria ricerca. Price insiste sulla necessità di individuare nel contensto urbano l’indeterminato, il flessibile, il non compiuto come componente aggiuntiva della progettazione e cogliere così le potenzialità interstiziali che permettono di reinventare un contesto. L’organizzazione dello spazio e degli oggetti che lo occupano intende, da un lato, chiamare in causa l’abilità mentale e fisica dei partecipanti, dall’altro, consentire un flusso di spazio e di tempo nel quale si suscita piacere passivo e attivo. Infatti qui non esistono più un tempo o uno spazio rigorosamente composti dall’artista ma sistemi meccanici che si configurano in ogni modo possibile in risposta alle circostanze. Pensato per durare non più di un decennio il suo progetto non verrà mai realizzato, ciò nonostante condizionerà fortemente il lavoro di Piano e Rogers per il Centro Pompidou.


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Tra gli architetti spinti da una tendenza innovativa e rivoluzionaria trovia-mo anche l’italiano Maurizio Sacripanti, con il suo progetto per il Teatro Li-rico di Cagliari del 1965. L’intento di Sacripanti è quello di oltrepassare i limiti della struttura teatrale tradizionale al fine di superare la frattura tra scena e messa in scena; in quanto la necessità di movimenti illimitati della rappresentazione teatrale viene vincolata dall’immobilità del palcoscenico. Pensando in funzione delle esigenze scenografiche concepisce lo spazio fisico organizzato in base alla mutabilità dei movimenti degli elementi. La soluzione di cui si serve Sacripanti è di tipo marcatamente tecnologico; la disposizione della sala presenta una struttura reticolare completamente scomposta in parti mobili, dove pistoni scorrevoli compongono soffitto e pavimento. Il progetto, benchè realizzabile, arriverà secondo al concorso di Cagliari. Risultato della collaborazione tra Richard Rogers e Renzo Piano è il Centro Pompidou, nato dal desiderio di Georges Pompidou di arricchire Parigi con un museo non consueto che fosse centro culturale e di creazione, dove le arti e le attività si uniscano nella loro interdisciplinarietà. Trovando in questa proposta un’intensa similitudine con l’opera di Cedric Price, qui la flessibilità dello spazio è ottenuta attraverso diverse scelte progettuali: per liberare lo spazio interno i sistemi impiantistici e i percorsi di accesso e distribuzione sono relegati all’esterno dell’edificio. In questa configurazione possiamo notare come ogni piano è costituito da uno spazio vuoto a pianta libera, pronto a essere distribuito e attrezzato per qualsiasi tipo di attività. dell’imprevedibilità e dei sistemi indefiniti. Nel fare questo Rogers e Piano hanno ritenuto il conseguente atto di mostrare con chiarezza l’organizzazione costruttiva del complesso come necessario, evidenziandone le gerarchie.

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Parallelamente a questi architetti orientati verso tematiche sociali, trovano la propria tendenza in questo periodo progettisti rivolti a problematiche di carattere ecologico, avversi a quella grande quatità di rifiuti, frutto della società del consumo. La presa di coscienza attuata da Price in questo ambito, avanza proponendo soluzioni in grado di creare nuove e migliori condizioni nell’ambiente abitativo umano. E se, come abbiamo visto per il Fun Palace, l’architettura doveva rispondere a circostanze costantemente incerte, la sua utilità si trova nella forza di creare e sostenere un dialogo continuo nella collettività. Prendendo le distanze dal ruolo imperialista che fa di questa disciplina un mezzo per imporre l’ordine e stabilire una convinzione mentale, favorisce sensibilmente ricombinazioni di componenti preesistenti alle costruzioni monumentali. Approfondisce la ricerca sui componenti semplici nel progetto del ‘66 Potteries Thinkbelt, da sviluppare su un sito a forma di cintura (‘belt’). Identificata la questione sociale del luogo, in questo caso si tratta di una vecchia zona industriale inglese in crisi (importante per l’industria della ceramica da cui il nome ‘Potteries’), viene messa in discussione in modo ingegneristico. Qui propone di istituire un centro di ricerca universitaria su di uno snodo ferroviario caduto in disuso. Le aree precedentemente utilizzate come scalo ferroviario sarebbero diventate luoghi di educazione dove trasportare e assemblare unità di insegnamento appositamente progettate. Nel ‘64, dimostra la propria eccellenza nella realizzazione della Voliera dello Zoo di Londra. In questo caso escogita una tensostruttura costituita da un’ossatura quadrilaterale di tralicci tubolari sulla quale sembra sospendersi una velata gabbia metallica che accoglie i volatili quasi negando il senso di prigionia.

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Design Etico “Se vuoi fare il designer, devi scegliere se dare un senso alle cose o far denaro” R. Buckminster Fuller


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Se l’esperienza di Price elogia le qualità architettoniche del non costruito, quella dell’austriaco Victor Papanek condivide con spirito provocatorio l’idea che una delle migliori cose che possa fare un designer sia proprio smettere di progettare. Intendendo il progetto principalmente come potente mezzo di cui l’uomo dispone per configurare se stesso, il proprio ambiente e quindi la società, attribuisce al designer un ruolo di responsabilità morale e sociale. In controtendenza rispetto al sistema della produzione in serie, imputabile di avere scopi strettamente commerciali e di proporre la mercificazione del prodotto, Papanek dedica il proprio studio e il proprio insegnamento a quei temi atti a risolvere i problemi del mondo reale. Si pone infatti, considerevoli questioni progettuali, alcune delle quali trovano il proprio interesse nelle aree sottosviluppate, nell’istruzione e l’educazione fisica di minorati, nella medicina e nell’attrezzatura ospedaliera, nella ricerca sperimentale e nel mantenimento della vita umana al di sotto delle condizioni limite. Individuati alcuni problemi globali (e non specifici delle minoranze, come invece vengono catalogati nella cultura di massa) come quelli di natura igienica, sanitaria o quelli della viabilità e dell’istruzione o della mancanza di fonti energetiche e di attrezzature fondamentali; intende ricollocare il disegno per l’industria nel mondo delle esigenze reali, come strumento per soddisfare e migliorare le condizioni di vita, riducendone i costi. Utilizzando un approccio ecologico e razionale per promuove una progettazione che egli stesso definisce “onesta” in quanto libera dalla strumentalizazione finanziaria; si propone di lavorare, spesso con la collaborazione di alcuni suoi studenti della Purdue University, alla progettazione orientata alle necessità della gente piuttosto che ai suoi desideri o ai desideri creati artificialmente. Accusa la società di esercitare un’intensa pressione verso un crescente conformismo e di contribuire quindi alla costruzione di blocchi culturali e percettivi, che inaridiscono la capacità di sviluppare soluzioni in modi nuovi e limitano, spingendo in senso contrario all’autonomia dell’individuo, la vera creatività progettuale. Partendo dal concetto telesico secondo il quale un progetto debba rispecchiare il periodo e le condizioni socioeconomiche che l’hanno causato, il designer rivendica inoltre l’urgenza di una maggiore responsabilità nei confronti dell’ambiente, di esaminare adeguatamente il luogo in cui deve operare raggiungendolo fisicamente e dell’accrescimento delle soluzioni tramite l’acquisizione di interdisciplinarietà nei gruppi di lavoro. 6


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Nel ‘62 elabora, insieme a uno studente, un congegno per comunicazioni per le esigenze delle aree in via di sviluppo con problemi di analfabetismo. Si tratta di una radio a un transistor che non prevede l’uso di corrente o batterie. Costruita con una lattina usata contiene, come una candela, cera e uno stoppino che brucia mettendo in funzione (grazie a una coppia termica che converte il calore) un piccolo altoparlante da infilare nell’orecchio, un’ antenna radiale di rame, un diodo e la messa a terra costituita da un filo terminante con un chiodo usato. Il tutto per un’autonomia dell’unità di 24 ore, con la possibilità di sostituire la cera con sterco secco di mucca o qualsiasi altro combustibile. La radio, ovviamente, non è selettiva ma nei paesi in cui viene trasmesso un solo programma questo non è rilevante. La sua produzione rientra nell’industria domestica al costo di 9 centesimi senza che nessun fabbricante o progettista o l’UNESCO, che si occupa della sua distribuzione, ne possano trarre profitto alcuno. “Recentemente il design ha soddisfatto solo volontà e desideri evanescenti, mentre i genuini bisogni dell’uomo sono stati spesso trascurati dai designer. I bisogni economici, psicologici, spirituali, tecnologici e intelletuali degli umani sono solitamente molto più difficili e meno proficui da soddisfare rispetto ai bisogni accuratamente architettati e manipolati che vengono inculcati dalla moda passeggera. La gente sembra preferire l’ornato al semplice, come preferisce fantasticare invece di pensare e il misticismo al razionalismo. Come loro cercano piacevolmente la folla e scelgono strade largamente percorse piuttosto che la solitudine dei sentieri isolati, sembrano provare un senso di sicurezza nelle folle e negli affollamenti. L’ horror vacui è il terrore del vuoto interno oltre che esterno. La necessità della sicurezza data dall’identità è stata distorta in una simulazione...”


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Troviamo questa propensione verso un libero scambio di pensieri e questioni nel Whole Earth Catalog: un catalogo controculturale pubblicato tra il ‘68 e il ‘72 da Stewart Brand. La pubblicazione includeva annunci di prodotti, servizi e risorse e i prezzi forniti dai diversi venditori. I cataloghi venivano aggiornati di frequente a causa della costante necessità di cambiare e aggiungere fornitori, prezzi, indirizzi, etc. Alcuni dei temi che venivano affrontati erano quelli del design, dell’arte, dell’ingegneria, della comunità, dell’individuo, dell’utopia, dell’attivismo; come anche: capire i sistemi generali, abitazione e uso della terra, industria e artigianato, comunicazione, società, cose in movimento e libri. Impostato come dispositivo di valutazione e di accesso, grazie a questo l’utente veniva messo a conoscenza di ciò che vale la pena ottenere e dove e come fare per ottenerlo. Un elemento veniva indicato nel catalogo se ritenuto: utile come strumento, importante per l’istruzione indipendente, di alta qualità e basso costo o facilmente reperibile per posta. L’accesso e lo scambio di questi dati può essere oggi definito come anticipazione dei sistemi digitali open source; lo stesso fondatore della Apple, Steve Jobs, riprende direttamente dall’ultimo numero della rivista la celebre frase “Stay Hungry. Stay Foolish”.

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Biraghi M., Storia dell’architettura contemporanea II.1945-2008, Torino, Einaudi, 2008 Frampton K., Storia dell’architettura moderna, Bologna, Zanichelli, 1986 Papanek V., Progettare per il mondo reale.il design come è e come potrebbe essere, Venezia, Ar-noldo Mondadori Editore, 1973 Tafuri M., Progetto e utopia, Lecce, Laterza, 2007 Ulrich Obrist H.(a cura di), Re:CP. Cedric Price, Palermo, LetteraVentidue, 2011

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BIBLIOGRAFIA:


IL CINEMA E LO SVILUPPO URBANO:RICOSTRUZIONI E DILATAZIONI La ricerca che mi è stata commissionata ha subìto varie fasi che si sono concluse in un unificazione di tutti gli argomenti da me trattati. Nella relazione che segue, ho iniziato ad assemblare le porzioni relative alla storia sull’espansione di Roma a partire dagli anni ‘30, fino ad arrivare agli anni del boom economico. È stato interessante constatare come lo sviluppo di una città potesse coinvolgere in modo così fortemente emotivo la popolazione che la abitava. La difficile vita delle baracche, le lotte operaie e la borghesia pronta ad allontanarli e opprimerli, saranno temi trattati nella ricerca. È divertente immaginare che le uniche tracce ancora tangibili del passaggio sul territorio di alcuni film, possano essere idealmente rinvenute nei luoghi in cui essi vennero grati. La mia indagine infatti sarà una sorta di viaggio nella memoria di come Roma è cambiata negli anni: un’analisi storica, cinematografica, ‘geografica’ e soprattutto sociale, perché un modo che abbiamo per ricongiungerci con il passato è conoscere il punto di vista delle persone attraverso gli occhi del cinema neorealista. Iniziamo dal fascismo e all’azione diretta che esso intraprese in tema di baracche. Qui si rivela il vero volto della classe dominante; prorompe tutta la repulsione, il disprezzo, l’odio vero e proprio che essa sente per queste masse di baraccati e di senza tetto, ’che in grande maggioranza sono elementi indesiderabili ’. Il tema delle baracche è all’ordine del giorno. Ha avuto inizio la campagna per‘’ la più grande Roma di domani’’. ‘’Le mie idee sono chiare, i miei ordini sono precisi; --diceva nel ’25 Mussolini al neo-governatore Filippo Cremonesi detto anche ‘’Pippo Pappa’’, nel discorso pronunciato il ’31 dicembre 1925 in Campidoglio --- tra cinque anni Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo; vasta, ordinata, potente, come ai tempi del primo impero di Augusto ’’ . E nel ’30, insediando in Campidoglio la commissione incaricata della preparazione del nuovo Piano Regolatore, esortava i suoi componenti a tener conto, nei loro studi, non della Roma 1930, ma della Roma del 1950 con qualche anticipazione della Roma del 2000. La città vuole diventare grande metropoli, vuole essere ‘’vera città’’; in questa esaltazione essa vede aumentare il suo disprezzo verso tutto ciò che è ancora ‘’campagna’’ o che le ricorda la ‘’campagna’’, e che vuole respingere il più possibile lontano da sé. L’attenzione che viene dedicata alle baracche non è tanto preoccupazione per gli abitanti delle baracche, è soprattutto preoccupazione per i vicini; quando si decide a eliminarle, lo si fa non per migliorare le condizioni dei baraccati, ma per migliorare quelle delle zone vicine: poco importa se quelle stesse baracche, cacciate di lì, vanno magari a risorgere in un’altra zona più periferica! La stessa espressione usata, ‘’risanamento’’, esprime questo concetto: in fondo ci si risana dalle baracche, piuttosto che risanare gli abitanti delle baracche. Igiene e decoro: questi dunque i due motivi di fondo che ispirano la politica delle classi dirigenti in materia di abitazione malsane. Per quanto riguarda l’igiene, le baracche debbono essere assolutamente allontanate dalle zone dove sorgono oramai abitazioni signorili per il decoro della città. Esse devono essere soprattutto nascoste. Per lo meno nel suo aspetto esteriore, usando le parole del governatore Filippo Cremonesi la nuova capitale deve apparire lustra e pulita. Attorno alla Roma civile fatta di gente che lavora e vive onestamente, vi è una Roma barbara, un anello di criminalità e di anarchia sociale che desta apprensione. In epoca fascista il primo provvedimento fu il ‘’foglio di via’’, il rimpatrio forzoso. E , non essendo state ancora varate le leggi contro l’urbanesimo, furono rimpatriate le famiglie che già avevano la residenza a Roma, ma ad almeno un quinquennio. La misura incontrò ovviamente una vivace resistenza da parte degli interessati. Le borgate vengono descritte dall’ inchiesta parlamentare sulla miseria condotta nel 1953 come luoghi malsani e invivibili. Non c’è dubbio alcuno che grosse operazioni di speculazione furono dietro ad una soluzione cosi assurda e irrazionale; non


si spiegherebbero diversamente la tipologia scadentissima delle costruzioni, e il fatto di aver scelto zone lontane e insalubri. La Gordiani sorse in una località a circa 6 km dalla stazione termini (quando il limite dell’abitato non si spingeva oltre i 7 km dal centro) su un terreno malsano, continuamente allagato durante la stagione invernale, assolutamente inidoneo all’ edificazione e persino alla coltivazione per la presenza nel sottosuolo di numerose gallerie; terreno che il governatorato acquistò regolarmente da un privato nel dicembre del ’30, rinunciando ad ogni pratica di esproprio. Il Tiburtino fu costruito nel ’35 su un terreno all’ 8° chilometro lungo la via omonima, in piena campagna ( la città arrivava allora al Verano) vi era un terreno completamente deserto e inutilizzato a causa dei periodici straripamenti del fiume Aniene. Adiacente adesso era un secondo appezzamento, più adatto in quanto non soggetto ad allagamenti. Ma per costruire la borgata si scelse il primo perché costava meno. In questi accantonamenti, tra il ’31 e il ’35, accompagnate dal suono delle fanfare fasciste e dal immancabile benedizione del vescovo furono scaraventate le famiglie dei ceti meno abbienti in modo da sventrare e ripulire le zone divenute centrali, destinate ad abitazioni più signorili. Il contatto con il ricco era proibito il pensiero di costruire lì stesso in queste zone divenute centrali le abitazioni per questi baraccati poveri, non attraversò nemmeno la mente degli amministratori di allora. Gli ultimi anni del fascismo, la guerra, il convulso dopoguerra, la sfrenata speculazione di questi quindici anni di regime democristiano rendono il dramma delle borgate incomparabilmente più acuto ed scottante. Il marasma di tutti i servizi cittadini, se crea il caos nel centro della città, spinge al parossismo i problemi della vita di ogni giorno in queste zone ultra periferiche. L’attività edilizia ristagna, l’immigrazione riprende irrefrenabile la stessa ripresa dell’attività edilizia non raggiungerà che marginalmente queste masse di cittadini e non influirà sostanzialmente sul fenomeno, perché l’edilizia lasciata alla più incontrollata speculazione, si rivolgerà solo ad un mercato di ceti benestanti. La sfrenata speculazione sulle aree, in questo dopoguerra, del fenomeno borgate, ha costituito un fattore determinante, le 31 borgate ‘’abusive’’ del ’54 sono ormai diventate oltre 100, le case oltre 30.000. Il grido di allarme lanciato allora dall’assessore liberale non fu seguito da alcuna concreta iniziativa, anzi il Comune, oltre a tollerare, spesso addirittura incoraggiò l’abuso. La legge non offriva per la verità molte armi per reprimere o impedire (la legge sul Piano Regolatore della città di Roma del 1931 vieta la lottizzazione dei terreni dell’Agro a scopo edilizio ma prevede per i trasgressori una multa di sole 80.000 Lire); il caos e l’abuso dilagarono senza alcun freno, creando oltretutto una situazione urbanistica di difficile soluzione anche per l’avvenire. Le 100 borgate, sorte in tutte e direzioni secondo le esigenze della speculazione, hanno costituito il problema più arduo per quegli urbanisti che volevano cercare di dare una soluzione al problema della città rompendo il deprecato sviluppo a ‘’macchia d’olio’. L’usura fondiaria, come ebbe a definirla Pio XII, non è certo nuova di Roma né di questi ultimi anni. Infatti la speculazione edilizia ha raggiunto vette e tecniche eccezionali, nel clima favorevolissimo creato dalle amministrazioni comunali del dopoguerra. È in questo clima che è sorto il grosso delle borgate moderne. La speculazione inizia il suo ciclo sui terreni dell’estrema periferia.


(fonte: ‘Le borgate di Roma’ di Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta) Ma, innanzitutto, che cosa sono le borgate? Giova dire subito che esse, nella vita amministrativa del Comune di Roma non godono di un’ esistenza ufficiale. Il Comune, infatti le ignora. Le borgate non sono dunque riconosciute nella ripartizione circoscrizionale del territorio comunale. Il territorio del Comune di Roma risulta diviso fin dal 1924 in quattro grandi zone, pressappoco concentriche: -­‐ la zona centrale dei rioni entro il perimetro delle mura Aureliane, comprendente i vecchi nuclei della Roma pontificia;


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la zona circostante dei quartieri, extra murali, originata dai nuovi insediamenti sorti dopo il ’70 e comprendente grosso modo la Roma umbertina e parte di quella fascista; -­‐ la zona più esterna dei suburbi; -­‐ la zona estrema dell’ Agro romano diviso in 34 condotte sanitarie. Questa ripartizione ha subìto nel corso degli anni aggiornamenti e modifiche, ma è rimasta inalterata. Le borgate però non vi hanno trovato posto. Il governatorato di Roma non ritenne mai opportuno delimitare e riconoscere questa tragica realtà rappresentata dalle oltre 100 borgate, fascia di depressione e di miseria esistente ai margini della città. Se da un punto di vista toponomastico e amministrativo ciò può essere in parte giustificato dalle difficoltà di fissare una realtà in convulso movimento, da un punto di vista anagrafico e statistico questa esclusione comporta seri inconvenienti e non è certamente del tutto casuale. In questo modo, le circoscrizioni, la toponomastica non ufficiale, vengono incluse nelle delimitazioni dei quartieri e dei suburbi e si mescolano cosi tra loro, artificiosamente, popolazioni e agglomerati diversissimi. In questo modo è presso che impossibile avere dati specifici sulle nascite, le morti, le malattie, le altre condizioni di esistenza e di lavoro di questi centri dove pur vive una notevole parte della popolazione romana. Quali sono dunque le caratteristiche delle borgate e come sono sorte? Le borgate romane sono un aspetto e una conseguenza del fenomeno più generale che si verifica puntualmente in ogni grande centro abitato nel quale in conseguenza dei fenomeni collegati con il passaggio alla civiltà della grande industria manifatturiera, vengono richiamate e rapidamente si concentrano grandi masse di popolazione delle campagne circostanti. Il rapido estendersi dell’industria determinava il bisogno di sempre nuove braccia; il salario crebbe, ed in conseguenza di ciò schiere di operai emigrarono dai distretti agricoli nelle città. La popolazione aumentò in modo rapido e quasi tutto l’aumento si verificò nella classe dei proletari. Queste condizioni non si sono ripetute in termini identici nel nostro paese, in modo particolare a Roma, lo sviluppo della città non è stato provocato dal sorgere e dallo svilupparsi della grande industria moderna. Il fenomeno dell’urbanesimo si è qui manifestato con un ritmo e con intensità non inferiori a quelli delle altre grandi capitali d’Europa. Si potrebbe dire che Roma ha conosciuto o sta conoscendo gli inconvenienti connaturali alle grandi metropoli, senza condividerne i vantaggi parallelamente al manifestarsi dell’ urbanesimo si è qui manifestato con un ritmo e con intensità non inferiori a quelli delle altre grandi capitali d’Europa. Col manifestarsi dell’ urbanesimo ha avuto inizio lo sfrenato e caotico sviluppo dell’abitato: il sorgere in pochi anni di interi nuovi quartieri, la lottizzazione delle ville principesche, il mercato della compravendita delle aree fabbricabili. La sfrenata corsa dell’edilizia, accompagnata da una costante penuria di abitazioni per i ceti meno provveduti e più popolari, gli illeciti e rapidi arricchimenti di alcune grosse società ed imprese edilizie, sono episodi che hanno riempito le cronache cittadine in questi ultimi anni del secondo dopoguerra, hanno accompagnato periodicamente la vita di questa città negli ultimi 90 anni. Parallelamente a tutto ciò, ha avuto inizio la storia delle ‘’borgate’’ di Roma, che potrebbero essere definiti quartieri operai di una città non operaia. Con l’affluire nella città di masse di popolazione povera delle campagne, attratte dalla ‘’capitale’’, sono cominciati a sorgere gli agglomerati di baracche lungo le mura urbane e gli acquedotti, i cosiddetti ‘’quartieri abissini’’ del periodo fascista, i ‘’quartieri popolari’’ creati dall’Istituto case popolari e dal Comune, le borgate ‘’abusive’’ del periodo più recente successivo all’ultima guerra. Agglomerati di abitazioni poverissime, sono sorte spontaneamente in zone lontane, sprovviste dei più elementari servizi pubblici, con criteri contrastanti ai dettami dell’urbanistica contemporanea, ai margini della città, ed il più lontano possibile dagli occhi e dal contatto ‘’della città ufficiale’’. È questa massa di popolazione contadina che si riversa su Roma che da vita alle borgate. Le borgate ‘’ufficiali’’ creati dagli enti per l’edilizia popolare e sovvenzionata – ICP, INA-casa, ecc…- ospitano in


maggioranza popolazione già residente a Roma, proveniente dall’interno della città. Ma il grosso fenomeno è dato dalle borgate spontanee. Queste borgate costituiscono il punto di approdo del contadino che ha fuggito la miseria delle campagne e affronta la sua avventura nella capitale. A questa massa di popolazione immigrata la città offre possibilità limitate di lavoro e di inserimento nella vita produttiva e sociale, ciò che per altro verso incoraggia il rinchiudersi di queste comunità in se stesse, le isola in qualche modo, le mantiene tutta via legate con i paesi e le regioni di provenienza. I quartieri operai, fanno parte integrante della città; le borgate sono respinte dalla città ‘’ufficiali’’, si cerca cioè di mantenerle il più lontano possibile. I quartieri operai sorgono nella città, le borgate ai margini di essa. Le borgate, alla borghesia romana, provocano fastidi e preoccupazioni; essa le considera un corpo estraneo alla capitale. Possiamo quindi operare una distinzione tra borgate spontanee e quelle ufficiali, ma tutti questi agglomerati hanno un punto in comune che non è solo il tenore di vita particolarmente basso, ma la situazione edilizia dimessa e abbandonata. Le borgate sono soprattutto e prima di tutto ‘’periferia’’. Sono periferia poiché sono lontane, mancano delle attrezzature e dei collegamenti, ma soprattutto in quanto sono staccate dal resto del organismo urbano, sono corpi a sé, non riescono ad inserirsi nella ‘’città’’ pur essendo da essa utilizzate e dominate. L’INA-casa, il Comune, l’istituto case popolari hanno scelto in questi anni le zone più lontane per costruire i nuovi quartieri popolari: San Basilio, Torre Spaccata, La Magliana, Tor de Schiavi, Acilia sono i punti della nuova periferia scelti dalla borghesia romana degli anni ’50 per confinare i ceti popolari: così come Primavalle, Quarticciolo, Trullo, Tiburtino, Tufello, Garbatella lo erano stati per la borghesia fascista. Ciò avviene anche quando le aree in zone centrali sarebbero disponibili, o addirittura già in mano al Comune. Cosi oggi il Comune dice senza mezzi termini che le zone centrali della città debbono essere riservate a famiglia signorili. Il discorso che abbiamo qui fatto porta facilmente ad uno schieramento: la città al centro riservata ai ceti più elevati, la periferia ai ceti più popolari. E questo è in qualche modo –geograficamente –il quadro che si presenta. Alla realtà geografica si contrappone una realtà ben diversa: la realtà delle lotte di questi quindici anni, la storia di Roma in questo dopoguerra, la realtà urbanistica stessa della Roma 1960. E, di questa realtà le borgate popolari sono state protagoniste. Nelle lotte della resistenza contro il fascismo nelle grandi lotte popolari per la repubblica nelle lotte quotidiane per il lavoro e per il diritto a una esistenza più dignitosa, nelle lotte dure per la democrazia e per la pace dopo il 1948, le borgate hanno rappresentato uno dei più validi caposaldi dello schieramento popolare a Roma. Il termine cintura rossa con cui sono state denominate indica il posto che le borgate hanno avuto nel difendere e fare avanzare le posizioni democratiche nella capitale. I dati letterali che riportiamo nel grafico, meglio di ogni altra cosa dicono quanto esse abbiano dato alla battaglia anti fascista e democratica negli anni più recenti. E dunque può ben dirsi che, cacciate di continuo alla periferia, le borgate sono pur sempre al centro della vita romana!.


(dati tratti da :‘Le borgate di Roma’ di Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta)


ANALISI SCIENTIFICA 1931-1941 La fortuna del Piano Regolatore del 1931 era strettamente collegata al funzionamento del nuovo dispositivo dei piani particolareggiati, da cui dipendevano gli espropri. I piani particolareggiati hanno costituito il mezzo per svuotare di contenuto il piano regolatore. Ciò è avvenuto soprattutto attraverso l’uso delle varianti, uno strumento con cui è stato possibile sostituire il tipo edilizio previsto dal piano con altro più denso. Con il risultato di aumentare la possibilità di sfruttamento del terreno e con questa la densità della popolazione. Aumenti di densità che hanno colpito in particolar modo le zone periferiche, meno quelle più parzialmente edificate. Ma era possibile costruire anche fuori i limiti del piano regolatore, un esperiente che favoriva chiaramente i grandi proprietari e le grosse imprese edili la licenza di lottizzazione veniva legata unicamente al fattore finanziario. Fuori piano l’espansione di Roma diventa lecita ovunque. 1941-1951 Negli anni dell’ immediato dopoguerra (1944-1945) il numero degli emigrati supera quello degli immigrati, ma già nel 1946 si registra un nuovo afflusso nella città. Le cause di questo fenomeno derivano soprattutto dalla distruzione bellica in varie zone del Paese, dalla funzione burocratica della capitale allo stato di miseria e di abbandono in qui versano le regioni meridionali. Ora la crisi degli alloggi appare in tutta la sua gravità, accentuata dalla paralisi che l’attività edilizia ha subìto a causa della guerra. Negli anni della ricostruzione i proprietari dei suoli e le società immobiliari vedono crescere la loro potenza. La forza dei proprietari deriva anche dalla debolezza centrali e comunali che la guerra ha totalmente disorganizzato. Il quadro poi è completo quando si pensi che in questo periodo le grosse proprietà sono più che mai concentrate in poche mani. Immutati restano gli strumenti principali della speculazione: il piano regolatore del 1933 e le lottizzazioni abusive. In questi anni gli enti pubblici non pensano ad affrontare la gravissima crisi degli alloggi. Protagonista dell’edilizia statale diventa l’INA-casa, istituita con la legge Fanfani del 28 febbraio 1949. Incaricata di attuare un piano di incremento dell’occupazione della mano d’opera mediante la costruzione di case per lavoratori l’INA-casa si finanzia attraverso i fondi dell’ERP, e utilizzando le trattenute versate dai lavoratori e dai datori di lavoro non che una serie di contributi dello stato. A differenza dell’IGP e dell’INCIS, l’INA-casa si presenta quindi come un organismo finanziariamente forte. 1951-1961 Un intervento cosi massiccio non comportava in tutta via un mutamento nella tendenza che dagli anni di Roma capitale si è andato imponendo: gli insediamenti creati con i soldi dello stato. Le case dello stato sorgono dove più forti sono le pressioni economiche, favorendo tutta una serie di manovre speculative che si sviluppano nelle zone limitrofe. Gli edifici pubblici, inoltre, vengono costruiti con materiali di qualità scadente e gli alloggi presentano i più alti indici di affollamento per vano. All’ inizio del decennio 1951-1961 il fenomeno dei baraccati raggiunge la sua massima estensione: oltre 100.000 persone vivono in alloggi in propri. Né la legge Romita del 1954 per le eliminazioni delle abitazioni malsane, riesce nel suo intento. Il risultato finale è che l’intervento pubblico non riesce a realizzare risultati concreti sul piano della produzione degli alloggi ma soprattutto viene meno dall’attuare una politica della casa in qualche modo orientata a fini sociali.


NOMENTANO Il quartiere è composto da una classe sociale fortemente omogenea e interessata da una trasformazione che comporta la utilizzazione e modificazione delle residenze a uffici. I fattori che hanno provocato questo fenomeno sono da ricercare nell’attrazione esercitata da poli come la città universitaria e il Policlinico e dal carattere direzionale che hanno assunto negli ultimi tempi alcuni quartieri limitrofi. TRASTEVERE/TESTACCIO il fenomeno è iniziato con la trasformazione delle abitazioni in tipologie più ‘ commerciali’ provocando una massiccia espulsione delle classi sociali. Successivamente a questo tipo di trasformazione si è affiancata quella del commercio che ‘ qualitativamente’ si è adeguata alla nuova domanda. Molte operazioni di ‘restauro’ sono state portate a termine dai Beni Stabili. Il costo medio di ogni abitazione è molto elevato. ESQUILINO Il processo di trasformazione si è attuato in due fasi distinte. La precedente ha comportato modificazioni delle destinazioni d’uso originarie. La seconda fase ha interessato la trasformazione tipologica delle abitazioni con parallela sostituzione del tessuto sociale, ancora in atto. Il fenomeno tuttavia non è uniforme nel rione: la parte maggiormente interessata è quella adiacente alla stazione e su via Merulana, ma si rileva anche una ‘resistenza’ alla trasformazione che, a differenza degli altri casi, non è a livello di singolo edificio ma di come di una certa estensione. Il costo medio delle abitazioni trasformate è alto ma inferiore a quello degli altri rioni.


CRONOLOGIA Ø 1942

modificazioni all’interno del piano regolatore.

Ø 1943

bombardamenti a San Lorenzo, Scalo San Lorenzo, Tiburtino, Piazza dei Sanniti, Città Universitaria, Stazione Tiburtina, Basilica San Lorenzo.

Ø 1944

il principe Doria Pamphili a capo dell’Amministrazione capitolina

Ø 1946 il quartiere Parioli viene sdoppiato con la delimitazione del nuovo quartiere Tor di Quinto; il quartiere Vittorio Emanuele III assume la precedente denominazione di quartiere Pinciano; il quartiere Savoia assume la denominazione di quartiere Trieste. Ø 1947

Salvatore Rebecchi a capo dell’Amministrazione capitolina

Ø 1949

Legge Tupini: finanziamenti statali a favore delle cooperative edilizie . •

Ø 1950

Ø 1952 Ø Ø 1953

Ø 1954

viene modificato il limite dei quartieri con l’attribuzione al quartiere Portuense di una parte del territorio del suburbio Portuense e con l’attribuzione al quartiere Tuscolano di una parte del territorio del suburbio.

Anno Santo •

Stazione termini (ampiamento)

Viene effettuata una prima riduzione nel quartiere Monte Sacro e una seconda riduzione a Tor di Quinto.

Inaugurata Via della Conciliazione e via Gregorio VII

• Salvatore Rebecchini è rieletto sindaco. provvedimenti a favore della città di Roma; • la fiera di Roma è portata da piazzale Clodio all’Eur e poi sulla via Cristoforo Colombo. • risanamento delle abitazioni malsane; • il Grande Raccordo Anulare viene parzialmente aperto al traffico;

Ø 1955

il primo tronco della metropolitana entra in funzionamento (Termini-Eur-Ostia).

Ø 1956

Umberto Tupini eletto sindaco

Ø 1957

sfratti da Tor di Nona


• •

inizio lavori nell’aeroporto intercontinentale Leonardo Da Vinci a Fiumicino (Arch. Luccichetti e Monaco/ing. Morandi) Piano CET (comitato tecnico esecutivo)

Ø 1958

Umberto Cioccetti eletto sindaco • istituiti nuovi quartieri: Primavalle, Ardeatino, Appio, Pignatelli, Appio Claudio, Don Bosco, Alessandrino, Collatino, Pietralata, Ponte Mammolo, San Basilio, Monte Sacro, Prenestino Centocelle; • elenco dei maggiori proprietari di aree all’interno e ai limiti del perimetro dei piani del 1931 (entro il Raccordo Anulare): Società Generale Immobiliare, Vasetti, Federici, Lancellotti, Barberini, Talenti, Enti religiosi.

Ø 1959

Legge per la costruzione della nuova linea metropolitana.

Ø 1960

Olimpiadi;

• • • •

iniziato l’albergo Hilton; opere ultimate dal 1958; primo tronco del sottovia veicolare di Porta Pinciana; in costruzione i ponti nel settore orientale della città destinati a collegare la zona Pietralata Ø 1961 inizio del quartiere di Spinaceto; • inizio quartiere I.N.C.I.S. al bivio di Ostiense; • quartiere Torre Massimi su Via della Pisana


LO SVILUPPO DELLA CITTà DAL PUNTO DI VISTA STORICOCINEMATOGRAFICO Il cinema italiano del secondo dopoguerra afferma come prima condizione l’esigenza di riappropriarsi dei poteri dello sguardo e muoversi senza limitazioni alla scoperta del visibile (realtà visibile). Il neorealismo, movimento culturale sviluppatosi in Italia tra l’inizio degli anni 40’ e la metà degli anni 50’, ebbe la sua massima espressione nella narrativa e nel cinema. La sala cinematografica diventa uno dei luoghi per eccellenza della partecipazione civile, politica e morale dell’individuo. Muovendo circolarmente l’occhio della macchina da presa, i registi del dopoguerra si accorgono di dover rimisurare il mondo a partire da una nuova unità metrica: le macerie. La cinematografia subisce quindi un forte distacco con il cinema propagandistico mussoliniano, il cosiddetto ‘’cinema dei telefoni bianchi’’, sottogenere cinematografico della commedia in voga tra il 1936 ed il 1943. Il nome deriva dalla presenza di telefoni di colore bianco nelle sequenze dei primi film prodotti in questo periodo, sintomatica di benessere sociale: uno status symbol atto a marcare la differenza dai telefoni "popolari", maggiormente diffusi, che invece erano neri. Altra definizione data a questi film è cinema déco per la forte presenza di oggetti di arredamento che richiamano lo stile internazionale déco, in voga in quegli anni. Esattamente come si ricompongono le reti ferroviarie e le vie di comunicazione, con priorità assoluta si ricostruiscono le vie di comunicazione cinematografiche, vengono gettati ponti a larghe campate verso le arti figurative e ci si libera della zavorra letteraria, teatrale e figurativa che aveva condizionato il cammino del cinema negli anni precedenti. Il tempo e lo spazio si rimisurano a partire dai gesti dei bambini( come ad esempio il film di Vittorio De Sica ‘’i bambini ci guardano’’ pellicola giudicata fra i precursori del neorealismo) delle donne, dei reduci, degli impiegati, dei contadini. Si tratta di un tempo povero di passato e ricco di futuro. Il cinema neorealista diventa il mezzo più rapido per l’ Italia vinta, lacerata, povera e priva di credibilità, il primo grande fenomeno di creatività collettiva, dopo il futurismo, in grado di superare i confini nazionali e stabilire rapporti con tutti i paesi del mondo. Dai resti di un mondo sconvolto dalla guerra si tenta di far nascere e ipotizzare la crescita di un individuo capace di creare nuovi rapporti tra le persone e lo spazio in cui agiscono. A partire da Roma città aperta nasce un modo di accostarsi all’uomo e ai suoi rapporti con persone e cose che lo circondano destinato a diventare presto patrimonio comune del cinema mondiale e a orientare scelte stilistiche, tematiche e narrative di autori delle generazioni successive. Gli autori neorealisti osservano le forme inedite di comunicazione verbale e gestuale e di interazione dell’uomo con il proprietario ambiente: parlare il dialetto della borgata( la lingua non è più quella pomposa, ‘’romana’’ e dannunziana dei discorsi mussoliniani, ma quella frammentata e istintiva dei dialetti), la gestualità, sono i modi dei personaggi di rapportarsi all’ambiente che si trovano a vivere. Giunge allo scoperto l’uomo della strada, il suo volto, il suo corpo, i suoi gesti, il suo dolore, la sua forza, la sua capacità di sopportazione, il suo modo di giudicare e reagire. Lo sguardo neorealista è totalizzante e inclusivo che punta ad abbracciare il territorio italiano nella sua massima estensione, ci si sposta dalle miniere siciliane alle risaie del Vercellese, dalle foci del Po’ ai paesi della ciociaria, dai rioni di Napoli alle borgate di Roma, si entra nelle case e si lascia che la macchina da presa incontri la realtà senza meditazioni. I primi film italiani( neorealisti) del dopoguerra, da Roma città aperta a Sciuscià, evitano di rappresentare lo spazio-piazza, facendo muovere i protagonisti entro una città che ha perso il centro urbanistico e ideale. Muovendo circolarmente l’occhio della macchina da presa (a 360°), il cinema scopre che le case, i vicoli, le chiese, i teatri, le sale cinematografiche, le stazioni, possono in tutto e per tutto sostituirsi alle funzioni rituali assolte dalla piazza, luogo ormai compromesso. Le periferie, i quartieri proletari, i nuovi complessi dell’edilizia popolare, i mercati rionali, la vita nei bassi e nei vicoli romani,


diventano i nuovi scenari naturali entro cui far muovere una folla di nuovi protagonisti sociali. Successivamente negli anni 50’, la piazza diventa un elemento di separazione, specchio di una disgregazione progressiva e inesorabile dei rapporti sociali e interpersonali. Il neorealismo scopre la dimensione quotidiana del vivere e lo spazio pubblico in cui si svolgono drammi, che tutti possono riconoscere; scopre che non esiste più uno sguardo privilegiato che impone una lettura precostituita della realtà, scopre l’esistenza di personaggi che si muovono con naturalezza in uno spazio scenico, tanto da confondersi con esso. In seguito, il neorealismo finì non solo perché alcuni registi ritenevano che il cinema doveva essere realizzato con attori professionisti e non con ‘attori di strada’. Tra il 1958 e il 1963 l’accelerazione dei processi industriali, l’aumento dei consumi, i mutamenti degli standard di vita, i caotici sviluppi urbanistici, l’incremento del turismo, la diffusione delle vacanze di massa, proiettano, a cavallo degli anni 60’, il miracolo economico al centro dello schermo. Anche l’italiano popolare non è più vestito di pantaloni con le toppe( come invece era rappresentato nel neorealismo) e di ‘’ghiacchette rivoltate!’’: vive in case dotate di tutti i servizi e gli elettrodomestici, (nasce l’abitazione popolare, il quartiere periferico) ma nel momento in cui raggiunge uno status sociale e una diversa qualità di vita, comincia ad accorgersi che la rapidità del mutamento produce attorno a lui macerie affettive, distrugge legami familiari, provoca catastrofi nei suoi rapporti con gli altri e soprattutto con se stesso. Il 1963 è datato come la fine del miracolo economico poiché iniziò la congiuntura, la recessione economica, la crisi, che si sviluppò e manifestò con la crisi petrolifera (ancora oggi ne stiamo subendo le conseguenze..) che ne determinò in uno spaventoso aumento. Dopo la formazione del governo di sinistra, rientrarono in campo figure e argomenti fino ad allora proibiti: il fascismo e la resistenza, la realtà delle fabbriche, le lotte sindacali, la mafia e la corruzione politica, l’emarginazione. L’eredità del neorealismo si dimostra vitale perché fa trovare o ritrovare a un vasto gruppo di registi uno sguardo fermo e policentrico ( a 360°) perduto negli anni 50’. Il 1963 è datato come la fine del miracolo economico poiché iniziò la congiuntura, la recessione economica, la crisi, che si sviluppò e manifestò con la crisi petrolifera (ancora oggi ne stiamo subendo le conseguenze..) che ne determinò in uno spaventoso aumento. Dopo la formazione del governo di sinistra, rientrarono in campo figure e argomenti fino ad allora proibiti: il fascismo e la resistenza, la realtà delle fabbriche, le lotte sindacali, la mafia e la corruzione politica, l’emarginazione. L’eredità del neorealismo si dimostra vitale perché fa trovare o ritrovare a un vasto gruppo di registi uno sguardo fermo e policentrico( a 360°) perduto negli anni 50’. L’immaginazione del regista è privata del suo alone carismatico e restituita a un contesto in cui servirsi della macchina da presa o della telecamera diventa la forma più semplice e diretta di comunicazione. Salvo pochissime eccezioni (come il regista Mario Monicelli che produceva una commedia all’italiana molto tagliente, che ‘ fa pensare’ , come ad esempio Un borghese piccolo piccolo), quasi nessuno sente la necessità, o ha a forza, di enunciare un’idea del cinema, di riconoscersi in una tradizione, di volersi confrontare con i ‘’compagni di viaggio ‘’. Ne tantomeno, il giovane regista entra in campo, come negli anni 40’, alla fine di un lungo processo di formazione, consapevole d’essere il rappresentate di una forte <volontà culturale>circostante (come il cinema neorealista quando il regista aveva un ruolo carismatico). Il cinema italiano degli anni 70’ non ha più un ruolo trainante per la cinematografia internazionale ma non è regredito grazie a un gruppo consistente di nuovi autori come ad esempio Carlo Verdone, Massimo Troisi, Nanni Moretti ecc.. Sono proprio questi i registi che fondano il nuovo cinema italiano. Il loro sguardo vuole stabilire rapporti tra interiorità e realtà sociale. Il ventennio successivo agli anni 70’ è contrassegnato da una crisi profonda del cinema italiano. Il mercato interno è ridotto a semplice consumatore di prodotti cinematografici e televisivi made in USA. I film italiani non riescono ad entrare più nelle classifiche dei maggiori incassi. Nei primi anni 90’ scompaiono i maggiori produttori di cinema: Franco Cristaldi e Mario Cecchigori. Negli anni 90’ i confini geografici si modificano: il protagonista non è più


imprigionato in uno spazio protettivo (la superficie di un appartamento) è impermeabile alla realtà esterna da cui è impossibile scappare. La casa diventa perciò un rifugio: non ci sono più contatti con il luogo esterno. Ora il racconto cinematografico cerca di allargare i propri confini narrativi mettendo in relazione mondi fin ora separati e realtà destinate sempre più incrociarsi nel prossimo futuro. Oggi la macchina da presa si muove con la stessa voglia di riscoprire la perfetta corrispondenza tra storie e paesaggio, come aveva fatto il cinema neorealista. Durante gli anni 2000, tutto il sud Italia diventa il luogo privilegiato per interpretare fenomeni che toccano l’intero paese, i suoi squilibri e le contraddizioni più profonde(es. Gomorra ). Per qualche tempo le nuove capitali del giovane cinema italiano, hanno avuto in misura diversa una ricaduta produttiva e realizzativa su tutta la penisola. La realtà, il paesaggio e la stessa anima della città si presentano corrosi e quasi mangiati da vari tipi di mali (corruzione, speculazione) a cui è difficile opporsi. Il cinema dell’ultimo decennio ne vuole misurare film dopo film, il degrado, la disgregazione, materiale e morale.




I S O L IT I I G N OT I M A R I O M O N I C E L L I 1 9 5 8

Peppe er Pantera (Vittorio Gassman) uno dei protagonisti, esce di prigione dopo aver scontato la condizionale,pronto per ‘rientrare nel giro’. Anche qui ritroviamo il quartiere di Montesacro,la nascente zona Nomentana. I palazzi costruiti da Mario Fiorentino, le ‘case a torre’ costruite tra il 1951 e il 1954 su commissione dell’ INAcasa nell’ ambito di un investimento immobiliare su grande scala.Capannelle è alla ricerca di Mario per un ‘lavoretto’, ma non riesce a trovarlo. Lo vediamo mentre passa per un grande campo sterrato con bambini che giocano a ‘lippa’. Il grande spiazzo è quello che oggi troviamo in Via Monte Sirino nel quale l’ICP costruì tra il 1935 e il 1940 le borgate del Tufello e Val Melaina.Peppe er Pantera esce di prigione e la notizia fra gli amici ‘corre alla rapidità del tempo’. Mario corre subito a dirlo a Capannelle: qui vi è Via Collatina Vecchia nel quale sono visibili le baracche abusive. Il luogo del grande colpo fu Via delle Tre Cannelle, una viuzza del rione Trevi. Nel finale del film il colpo al ‘Banco dei Pegni’ è andato come è andato, e i ‘soliti ignoti’ passeggiano sconsolati per piazza Armenia. Da qui ognuno prenderà la sua strada.



Cinema e Metropoli Georg Simmel

Uomo moderno

Immagine

Sovrastimolazione sensoriale

Nascità settima arte

Metropoli

Comunicazione

1. Cinema e Metropoli "La sfera di vita della città provinciale si conclude sostanzialmente in essa e con essa. Per la metropoli, invece, è decisivo il fatto che la sua vita interiore si espande in onde concentriche su di un'ampia area nazionale ed internazionale" - Georg Simmel, "La metropoli e la vita dello spirito", 1903, p.50

La riflessione del filosofo e sociologo Georg Simmel, può essere considerata un punto di partenza estremamente utile per relazionare in modo storico, la metropoli con la nascita del cinema. La metropoli, infatti, viene intesa da Simmel non solo come una città mercantile che ha dovuto ingigantire le proprie dimensioni, modellandosi ai ritmi di produzione industriale, ma viene considerata come un dispositivo sociale. Questa sua affermazione, pone le basi all'analisi del cinema inteso come forma espressiva per eccellenza della metropoli. L'ipotesi è che il rapporto che vi è tra i due elementi, si basi su di una rete di conflitti che oppone la tradizione alle spinte dell'innovazione, intendendo quindi la metropoli, come luogo fisico e spirituale di coesistenza di opposti, e come luogo in costante mutamento. La conseguenza di questo processo viene ancora spiegata da Simmel, come un' "intensificazione della vita nervosa" dell'uomo all'interno della metropoli, causata dall'accumularsi veloce di immagini "cagianti", dal "contrasto che si avverte entro ciò che si abbraccia in uno sguardo" e dal "carattere inatteso di impressioni che si impongono all'attenzione", tutto ciò causa un'intensificazione dei sensi, i quali si manifestano sia a livello psichico che fisico all'interno dell'individuo, conferendogli così una percezione "segmentata" dell'esperienza metropolitana, che sembra quasi anticipare le logiche del montaggio cinematografico (linguaggio filmico).

- "L'uomo con la macchina da presa", Dziga Vertov, 1929

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Per comprendere ulteriormente questo passaggio bisogna citare il filosofo e scrittore Walter Benjamin: "Muoversi attraverso il traffico , comporta per il singolo una serie di chocs e di collisioni (...) Baudelaire parla dell'uomo che s'immerge nella folla come in un serbatoio di energia elettrica (...) I passanti di Poe gettano ancora senza motivo occhiate da tutte le parti, quelli di oggi ( soggetto metropolitano) devono farlo per forza, per tener conto dei segnali del traffico. Così la tecnica sottoponeva il sensorio dell'uomo a un training di ordine complesso. Venne il giorno in cui il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di stimoli. Nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale. Ciò che determina il ritmo della produzione a catena, condiziona, nel film, il ritmo della ricezione". - Walter Benjamin, "Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media 1938, p. 110

In questo passaggio, è chiaro come Benjamin abbia individuato nel cinema, la forma espressiva e tecnologica adatta nell'equilibrio dinamico della vita metropolitana. Infatti la folla necessità di nuovi linguaggi mediatici, attraverso i quali possa sentirsi rappresentata, ed il cinema è una possibile risposta alla crescente domanda di stimolazione sensoriale e comunicazione sociale, dove l'immagine, intesa come linguaggio tradizionale dell'arte, viene piegata all'esigenze del nuovo ordine produttivo e sociale, trasformandosi così in immagine in movimento. Il cinema può dunque essere inteso come ibrido tecnoculturale fra tradizione e innovazione. Ma l'immagine anche se considerata un mezzo mediatico tradizionale, in questo assume un valore decisivo: "Il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la rappresentazione alla realtà, l'apparire all'essere"

- Ludwig Feuebach

Tale citazione, pone le basi per capire l'importanza dell'immagine, e quindi l'importanza del cinema. Le metropoli sono definite come centro delle attività economiche, di conseguenza come la storia ci ha insegnato, vi fu un grande spostamento di masse di disoccupati dalle zone rurali alle zone metropolitane, ciò ha comportato l'irruzione di nuovi ceti sociali all'interno della metropoli, determinando così una forte differenziazione della società e dei mezzi di comunicazione. In una società, che si andava facendo sempre più complessa, le interazioni faccia a faccia degli attori sociali non bastavano più a garantire la visibilità dei soggetti ed il controllo del mondo. Ne consegue, quindi, che il ricorso all'immagine, come forma di comunicazione immediata ed artificiale, sia il più ovvio tentativo di restituire coesione ad un mondo che, differenziandosi, è diventato opaco. Per concludere questa riflessione, si può riassumere quindi, che il cinema agli inizi del XX secolo si sviluppa velocemente, in quanto l'uomo moderno necessità di stimoli sensoriali e di comunicazione sociale, per poter essere rassicurato da un mondo in continuo movimento. Dunque vengono rivalutati i linguaggi artistici tradizionali, e dato un valore maggiore all'immagine, in quanto risulta essere un mezzo di comunicazione immediato, e facilmente comprensibile da soggetti provenienti da differenti classi sociali. Un altro concetto che lega il cinema e la metropoli, tenendo sempre in considerazione il concetto d'immagine, è che questa può essere utilizzata come propaganda di ideologie politiche/economiche legate al progresso. Un esempio sono le esposizioni universali, in cui i magazzini, le vetrine, e quant'altro, sono tutti strumenti concepiti per mettere in scena il territorio metropolitano. Per definizione, le grandi esposizioni universali, sono considerate come: insediamenti territoriali, generalmente collocati in scenari metropolitani in cui vengono pubblicizzate le tecnologie e le merci, per così affermare i rapporti di potere di una determinata società, e per inserire le merci esposte nella vita quotidiana dei cittadini. Tutto ciò può essere paragonato ad una sceneggiatura, in cui viene definita la trama e la scenografia. D'altronde le esposizioni universali percorrono due dimensioni precise; da un lato vi è la delimitazione di una o più parti della città, come luogo deputato a fare apparire i beni della civiltà occidentale e a magnificarli, facendo si che il contenitore faccia anch'esso parte dello spettacolo, ed abbia lo stesso valore seduttivo del contenuto, e dall'altro lato vi è la necessità di appoggiarsi ai media, i quali sono essenziali per l'effettiva diffusione della loro immagine e funzione, che vanno al di là dei limiti spazio-temporali del luogo. Infatti vi fu sempre un dibattito sul rendere permanenti o meno i contenitori delle esposizioni universali. Generalmente i luoghi delle esposizioni, non solo facevano parte dello spettacolo una volta costruiti, ma anche il loro smantellamento faceva parte di una sceneggiatura prescritta, in modo tale di incrementare il potere seduttivo del processo di modernizzazione, e di velocità dell'esperienza. Tuttavia nelle grandi esposizioni nazionali e nelle grandi esposizioni universali, il carattere permanente o provvisorio degli allestimenti sono il risultato di complesse strategie politico/culturali, economiche, e scientifiche, di cui fanno carico gruppi di potere ristretti. Basti pensare al caso dell'esposizione, mai avvenuta, dell' E42 in Italia, dove Mussolini vide nell'esposizione universale di Roma, un pretesto per poter edificare un quartiere che si fondava sulle ideologie fasciste, un quartiere destinato a scrivere e a rimanere nella storia di Roma e dell'Italia Imperiale di Mussolini, un contenitore, per definizione, tutt'altro che provvisorio. 2


EUR: teatro di posa Eur la città immaginata

Composizione immagine

2.1 E42, la città immaginata

Natura Scenografica

1. EUR: teatro di posa

"Ad una visione di Roma non più soltanto Capitale d'Italia, ma umanistico centro della Romanità, doveva necessariamente corrispondere nel piano della realtà architettonica una città delle linee, dai volumi e dagli spazi assolutamente classici. Di questa città, frutto della concorde opera dei secoli, l'ultimo volto in ordine di tempo, ma non di importanza, sarà quella dell'Urbe sotto il segno di Mussolini, che avrà la sua massima, e completa espressione nel nuovo quartiere dell'E.42. (...) Da Piazza Venezia, massimo centro della città, farà capo, attraverso la Via Imperiale e la Via Ostiense, il nuovo settore che avrà la sua più significativa espressione nella zona ove sorge l'E.42. Una volta chiusa l'Esposizione, questa zona dovrà avere ed avrà l'importanza e la vita di un nuovo settore della città, quello Mussoliniano, dotato di una propria fisionomia, classico nel respiro, romano nella concezione. E la fusione tra vecchio e nuovo sarà così logica, che a chi avrà presente la visione di Roma nelle varie epoche, questa nuova Roma apparirà non degenere o slegata nel tempo, ma al contrario logicamente, storicamente ed esteticamente inquadrata con le altre. (...) All'asse fondamentale della Via Imperiale che, quale vero decumano maggiore, attraversa ma non disgiunge, l'intero quartiere dell'E.42, si innestano ortogonalmente, a mano a mano che noi procediamo in direzione Nord - Sud, le direttrici di allineamento dell'intera rete su cui è tessuto il piano dell'Esposizione. Ed è tutto un susseguirsi di ampie prospettive, ora rette, ora curve, ora ritmate, ora libere, eppur sempre studiate in modo che gli spazi, anche se larghissimi, siano architettonicamente composti, cioè spazi intesi classicamente e non soltanto vuote interruzioni tra file di edifici. (...) In sostanza, sia nell'impostazione generale urbanistica, sia nello studio delle sistemazioni particolari, sia ancora nel tracciato dei parchi e delle strade, sia infine nelle proporzioni degli edifici, l'Esposizione del '42 non mancherà di celebrare degnamente, cioè romanamente, la rinascita dell'Italia nel Ventennale. E questa sarà una conquista non solo dell'Urbe, ma della civiltà mondiale che in essa si accentra, erede legittima di quella classica." -Marcello Piacentini, articolo "Classicità E42",in Civiltà, 1940, p. 23-28

La città bianca, la città nella città, la città giardino, la città dei musei, questi sono solo alcuni degli aggettivi che vengono utilizzati per definire il quartiere EUR, voluto da Benito Mussolini, che, come afferma Marcello Piacentini nel proprio articolo, era stato ideato per rappresentare la rinascità di una Italia imperiale. Tutto ebbe inizio nel 1935, anno tredicesimo dell'era fascista, in cui Giuseppe Bottai propose a Mussolini di presentare alla candidatura Roma, per l'Esposizione Universale. L'idea fu subito accolta, e venne istituito un ente autonomo guidato dal senatore Vittorio Cini, il cui compito era quello di identificare l'area adatta dell'esposizione. La scelta cadde sull'allora zona Tre fontane, in quanto zona strategica ed in linea con il progetto. Questa non solo si trovava tra il fiume Tevere e la via Laurentina, ma rispecchiava totalmente la logica del progetto per cui l'EUR, 3


doveva essere una nuova Roma collegata alla vecchia Roma, tramite la via Imperiale, che partiva dal cento della capitale, che all'epoca si identificava con Piazza Venezia, attraversava via dei Fori Imperiali, per raggiungere infine Ostia.

Nel 1936, Vittorio Cini presentò direttamente a Mussolini una lista dei possibili architetti ed urbanisti candidati per la realizzazione di opere all'interno dell'EUR. Tra questi, si aprì un vivace dibattito sullo stile architettonico da adottare. Inizialmente gli architetti razionalisti crederono di avere un grande spazio nella progettazione dell'EUR, ma infine prevalse l'orientamento di Marcello Piacentini, al quale venne affidato il ruolo di coordinatore tecnico dell'intera opera. Piacentini definì lo stile dell'EUR come littorio, monumentale e moderno, uno stile in grado di rievocare l'impero della Roma antica, non in senso nostalgico, ma pensato per lanciare il mito dell'Impero romano nel futuro. Grazie a questi presupposti presero vita opere, destinate a diventare dei veri e propri simboli per il quartiere.

- Palazzo Civiltà Italiana

- Museo Civiltà Romana

-Palazzo dei Congressi

- Basilica dei Santi Pietro e Paolo

Simboli che fanno dell'Eur un perfetto teatro di posa. Tra "cubi di ghiaccio solidificati, geometrici e disumani" (cit. Emilio Gentile), che ricordano la metafisica di De Chirico, luoghi fuori dal tempo, e luoghi maestosi ma allo stesso tempo vuoti, molti registi italiani, tra cui Antonioni, Fellini e Bertolucci, scelsero L'Eur come scenografia ideale dei loro film, risemantizzando luoghi, e trasformando la realtà dell'Eur in una realtà magica.

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l’EUR di Fellini

Ideologia Cattolica Realismo Magico LA DOLCE VITA

BOCCACCIO ‘70

2.2 L’EUR di Fellini "Io ho scelto un quartiere, non ho scelto un'opera d'arte, non ho scelto la rappresentazione del mondo espressa da un autore, da un'artista. Ho scelto l'EUR. Perchè l'ho scelto? In effetti questo è un quartiere che mi piace moltissimo, per quel tanto di opera d'arte realizzata, di atmosfera artistica espressa cioè quel senso di metafisico (...) Ma l'EUR ti restituisce questa leggerezza, insomma come di abitare in una dimensione di un quadro, quindi ha un'atmosfera liberatoria in quanto in un quadro non esistono leggi, se non quelle estetiche, non esistono rapporti se non quelli con la solitudine o soltanto con le cose. Quindi questo quartiere, mi sembra che suggerisca, e vada a nutrire questo senso di libertà, di alibi, questo non so che di sospeso, questo orizzonte piatto, questa improbabilità. Sono case vuote (Palazzo della Civiltà Italiana), case disabitate, edifici creati per fantasmi, per statue (...) c'è anche il fascino di una specie di sogno folle interrotto e poi tramutato in un'altra cosa, questa sensazione di provvisorio penso sia un qualcosa di confortante. Io mi sento vivo in un teatro di posa, quindi l'EUR è dove mi sento più vivo. " - Federico Fellini, tratto da " Fellini e l'EUR" di Luciano Emmer

Così racconta Federico Fellini nel cortometraggio documentaristico diretto da Luciano Emmer, nel 1972. Vincitore di ben cinque premi Oscar, Fellini fu uno dei più grandi registi italiani del neorealismo, e della storia del cinema. Conosciuto in tutto il mondo per i suoi film, e per le sue tematiche, affrontate con leggerezza apparente, Fellini cattura l’attenzione del pubblico ricorrendo a personaggi surreali, talvolta grotteschi, che rappresentano la situazione di una società in continuo cambiamento. Fellini sceglie, per alcuni dei suoi film, l’EUR come teatro di posa, in quanto esso si presta alle varie storie da lui affrontate nei suoi diversi lungometraggi. Tra i film che egli vi girò, vi furono “La dolce vita” del 1960 e l’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio” del 1962.

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Molti critici considerano i film di Fellini come un “itinerario festoso e febbrile”, che generò “fantasmi” divertiti e appassionati in tutto il mondo, riuscendo a registrare come pochi altri, il cambiamento del costume italiano e al tempo stesso, a cogliere in modo esemplare i simboli dell’allora recente passato ed enigmatico presente. Le sue opere presentano caratteristiche comuni, legate da un filo conduttore, che non è nient’altro che la fantasia stessa del regista, che riesce attraverso scenografie, costumi e quant’altro ad esprimere. D'altronde Fellini da sempre, ha apertamente dichiarato di puntare molto sulla scenografia, la quale viene utilizzata dal regista come mezzo per poter raggiungere una determinata atmosfera, ed un determinato climax, per poter così dare vita ad emozioni e stati d’animo in grado di toccare spettatori ed attori. Molti parlano di “realismo magico di Fellini”, in quanto egli rielabora la realtà con la propria immaginazione; e lo stesso Pasolini, regista contemporaneo a Federico Fellini, afferma che egli non prende la magia e la rende reale nei suoi film, ma ben sì prende una realtà e la rende magica. Questo è proprio ciò che avviene nel film “Boccaccio ’70”, dove con il proprio episodio “Le tentazioni del dottor Antonio”, Fellini tenta di raccontare la realtà del proprio periodo storico, ricorrendo ad elementi magici e surreali. L’episodio, ispirato ad un racconto di Flaubert, racconta la missione di Antonio Mazzuolo, di purificare la città ed i cittadini dalla promiscuità che si stava via via diffondendo. Il film gira intorno alla mancata impresa del protagonista, di far rimuovere un gigantesco cartellone pubblicitario, posto proprio dinnanzi le finestre della propria casa, dove vi era raffigurata l’immagine gigante di una bellissima donna (Anita Ekberg) in un provocante abito da sera, sdraiata su di un divano, che reclamava la qualità nutrizionale del latte. Il dottor Antonio, ossessionatone, cerca di censurare tale immagine, di cui al contempo ne è sessualmente attratto.

La vicenda raccontata in modo ironico e sarcastico, mette in mostra il così detto “Realismo Magico” di Fellini; infatti durante la scena in cui il dottor Antonio, sogna che la donna nel cartellone prenda vita, la stessa donna, dalle dimensioni gigantesche, la città, le luci ed i colori, realizzano uno scenario incantato, immerso in una magica sospensione, dove i personaggi grazie all’EUR sembrano immersi in una classicità assorta ed al contempo inquietante, come poi si rivelerà essere la natura del sogno del dottor Antonio. Fellini sfrutta i silenzi del paesaggio notturno, ma soprattutto sfrutta l’EUR, per rendere al meglio la sensazione di un paesaggio deserto, che nasconde la sua natura magica. Il Colosseo Quadrato, come in molti altri film, viene scelto come protagonista della scenografia in quanto, grazie ad una attenta illuminazione che evidenzia la tridimensionalità della struttura, si presta benissimo agli intenti di Fellini. Altro elemento che Fellini sfrutta sono le colonne degli edifici limitrofi al Palazzo della Civiltà Italiana, le quali nel film vengono utilizzate come elementi per caricare ancora di più l’immagine di un piccolo dottor Antonio, vista dalla gigante Anita Ekberg; d'altronde lo stesso Fellini facendo dei sopralluoghi, si sentì “piccolo” camminando tra le colonne che rimandavano subito allo stile monumentale dell’EUR.

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Ma la necessità di ricorrere al realismo magico, unendo persino leggende religiose (Antonio Mazzuolo che si trasforma in San Giorgio), non sono altro che un linguaggio utilizzato dal regista, per poter quasi mascherare il vero significato del proprio film. “Le tentazioni del dottor Antonio”, infatti non è altro che un riflesso della società italiana degli anni ’60. Periodo del così definito “boom economico”, l’Italia di quegli anni si trovava nel bel mezzo di un cambiamento, che non solo incise a livello economico, ma vide un vero e proprio cambiamento etico e culturale, da parte della società. Ancora una volta l’EUR, risulta essere un teatro di posa perfetto in quanto, anch’esso venne investito dal boom economico italiano; i lavori del quartiere E42, infatti erano stati interrotti durante l’entrata in guerra dell’Italia, il quartiere si trasformò così in un quartiere abbandonato, occupato prima da truppe tedesche e successivamente da quelle alleate. Solo a partire dagli anni ’50 i lavori ricominciarono, trasformando quella che era la via Imperiale in via Cristoforo Colombo, ed iniziarono ad essere realizzati edifici residenziali, uffici, ministeri ed enti. Ma fu nel 1960, grazie alle olimpiadi, che l’EUR vide la costruzione di impianti sportivi; come il velodromo, la piscina delle rose, ed il palazzo dello sport, sotto la supervisione di Pier Luigi Nervi. Ma questo veloce progresso, non fece altro che decomporre il modello umanistico fondato sulla classicità e la cristianità, dando spazio ad un modello fondato sul neopositivismo scientista. (Massimo Borghesi,” La crisi dell’Umanesimo europeo, anni ’60- ‘70”).

Dopo tutto, finita la seconda guerra mondiale, ciò che fece entrare in crisi la società borghese italiana fu anche la studiata influenza che ebbero gli americani sulla cultura italiana. Ne “Le tentazioni del dottor Antonio” come anche ne “La dolce vita”, Fellini cerca, quindi, di ridare allo spettatore un ritratto della società borghese in crisi, sotto forma allegorica. Nei suoi film, infatti, vengono ritratte scene quotidiane che costituiscono una serie di nuovi e vecchi miti di un’Italia, che impara a confrontarsi con le merci, i consumi, il tempo libero, il gioco, e lo svago. La parabola allegorica confezionata da Fellini, parte dalla forma urbana e umana di Roma, della nascente civiltà dei consumi, e la deforma, la gonfia, e l’allarga, così trasformando in paradosso i punti di riferimento di una città, di un paese e di una cultura. Si tratta della stessa Roma immortalata dal precedente “La dolce vita” di cui “Le tentazioni del dottor Antonio” diventa un divertitente, provocatorio seguito. D'altronde ancora una volta la figura di Anita Ekberg, che qui viene addirittura ingigantita, non sta altro che a simboleggiare l’effetto che i media ed il consumo hanno sulla società degli anni ’60. L’arrivo improvviso in scena, del cartellone pubblicitario viene rappresentato come una vera e propria apparizione, seguita poi da una sacralizzazione dell’immagine stessa, accompagnata da una canzoncina, la quale non è altro che una sorta di “pregheria” che celebra l’immagine stessa. Tutto ciò non è nient’altro che la rappresentazione di una società che, volente o nolente, fa sempre più affidamento ai media, alla pubblicità ed al consumo. I personaggi felliniani, si fanno via via sempre più rarefatti, ed estranianti come d’altronde lo diventano anche le sue scelte scenografiche. Se ne “La dolce vita” Fellini rappresentava una Roma decadente, attraverso luoghi familiari come la Fontana di Trevi, via Veneto e così via, ne “Le tentazioni del dottor Antonio” il regista, li sostituisce con le prospettive, estranianti e marginali dell’EUR: gli spazi infiniti delle piazze, gli archi eterni del Palazzo della Civiltà Italina, il gigantesco colonnato del Palazzo delle Tradizioni popolari e dell’Arte antica, il portico austero del Palazzo degli Uffici, i marmi gelidi del Palazzo dei Congressi. La città viene quindi aggirata, declinata, sospesa, resa metafisica e surreale. Dopo tutto, come afferma anche nel documentario di Luciano Emmer, Fellini era da sempre stato attratto dalla metafisica di Giorgio De Chirico, e dall’utilizzo scenografico che ne poteva derivare, delle architetture dell’EUR. 7


“Occorre innalzare magiche e insormontabili barriere, per far emergere la potenza metafisica del mondo. Per ottenere questo risultato, è possibile ricorrere a vari sotterfugi: aumentare, truccare o sfruttare scaltramente la forma dei paesaggi e degli oggetti” (Vincenzo Trione, “Giorgio de Chirico. La città del silenzio: architettura, memoria, profezia”, 2009)

Questo il principio alla base dei ritratti urbani di De Chirico, di quelle fantastiche riscritture dello spazio e del tempo in cui “l’architettura è pensata come segno pubblicitario” (Vincenzo Trione). Fellini estende questa logica del sotterfugio a tutto il suo apparato visivo, alla forma delle immagini con cui costruisce gli ambienti, spaziali ma anche umani, del suo cinema. Il sapore metafisico di De Chirico emerge allora, nella poetica dello straniamento, nella rivisitazione di forme classiche sedimentate, rimpastate, in quello che ancora Trione definisce “un infinito repertorio di suggestioni, simile a una favola lontana”; formula efficace che ben si adatta anche all’opera felliniana. Per quanto riguarda il film “La dolce vita”, Fellini sceglie di girare la scena dove il protagonista, Marcello Rubini, incontra il suo amico Steiner nella basilica dei Santi Pietro e Paolo, edificata nel quartiere Eur. Edificata nel 1939 dagli architetti Arnaldo Foschini, Alfredo Energici, Vittorio Grassi, Nello Ena, Tullio Rossi e Costantino Vetriani, la basilica dei Santi Pietro e Paolo viene considerata da alcuni come il secondo simbolo, dopo il Colosseo Quadrato, del quartiere Europa. Uno dei probabili motivi, per cui Mussolini decise di edificare una chiesa all’interno di questa nuova “città” che stava costruendo, era l’intenzione di voler rimarcare l’alleanza che vi era tra il potere politico ed il potere della chiesa (Patti Lateranenzi, 1929), e per rimarcare l’identità religiosa degli italiani.

Fellini, dopo tutto, si forma proprio durante l’Italia del fascismo, “ignorante, e stupida” (Pier Paolo Pasolini), e benché Fellini fosse un antifascista, la sua formazione culturale resta originariamente provinciale; e questo tipo di cultura implica come primo atto, il rifiuto alla razionalità e alla critica, che vengono sostituite dalla tecnica e dalla poeticità. Tuttavia, anche quando si rifiuta di avere un’ideologia, una ideologia esiste ugualmente, benché circoscritta. Questo è quanto accade secondo Pier Paolo Pasolini, nei film di Fellini, i quali sono caratterizzati da un’ideologia cattolica, e film come “La dolce Vita”, non rappresentano altro che il rapporto tra peccato ed innocenza. Concludo questa capitolo su Fellini e l’EUR, riportando quanto affermato da Pier Paolo Pasolini, in una recensione che egli scrisse proprio su questo film.

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“La dolce vita, è il più alto e al più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni, per cui i dati del mondo e della società si presentano come dati eterni e immodificabili, con le loro bassezze e abiezioni, senza dubbio, ma anche con la grazia costantemente sospesa, pronta a discendere (o meglio ancora, quasi sempre già discesa e circolante di persona in persona, di atto in atto, di immagine in immagine). (…) E’ un’opera che pesa nella nostra cultura, e ne segna una data, e come tale è fondamentale. (…) ciò che conta in Fellini è soprattutto ciò che di eterno e assoluto permane nella sua ideologia genericamente cattolica: l’ottimismo, amoroso e simpatetico. Guardate la Roma che egli descrive: è difficile immaginare un mondo più perfettamente arido. Un’aridità che toglie vita, che angoscia. Vediamo passare davanti ai nostri occhi un fiume di personaggi umilianti, in un umiliante spaccato della capitale: tutti cinici, tutti meschini, tutti egoisti, tutti viziati, tutti presuntuosi, tutti vigliacchi, tutti servili, tutti impauriti, tutti sciocchi, tutti miserabili, tutti qualunquisti: è la mostra della piccola borghesia italiana perfettamente inserita in un suo ambiente specifico e non casuale, che ne esalta gli aspetti, che la brucia in una tetra luce evidenziale. Ad essa si mescolano, dall’alto e dal basso, i sottoproletari, e vi portano una ventata che a suo modo è pura, è vitale. Ma come essere riusciti a vedere purezza e vitalismo anche nella massa piccolo-borghese che brulica in questa Roma arrivista, scandalistica, cinematografara, superstiziosa e fascista, mi sembra una cosa incredibile. Eppure non c’è nessuno di questi personaggi che non risulti puro e vitale, presentato sempre in un momento di energia quasi sacra. Osservate: non c’è un personaggio triste, che muova a compassione: a tutti tutto va bene, anche se va malissimo: vitale è ognuno nell’arrangiarsi a vivere, pur col suo carico di morte e di incoscienza. Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vitalità, come spettacoli. Bisogna davvero possedere una miniera inesauribile d’amore per arrivare a questo: magari anche d’amore sacrilego…Il neo-decadente Fellini è colmo di tale amore indifferenziato e indifferente che traspare e trabocca dal film.” (Pier Paolo Pasolini, Filmcritica n° 94, 1960)

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l’EUR di Antonioni

Alienazione Utopia L’ECLISSI

2.3 L’EUR di Antonioni Regista cinematografico italiano, Michelangelo Antonioni, risulta essere una delle personalità più rappresentative del cinema neorealista italiano. Grazie al suo stile spoglio e personale, che rivoluziona in maniera antinaturalistica tutta la narrativa cinematografica italiana, Antonioni costruisce una sua poetica, in cui la tematica ricorrente, è la crisi dei sentimenti nell’ambito della più generale crisi delle istituzioni borghesi. Questo stile, e questo tema, vengono trattati in molti film del regista, ma vengono principalmente approfonditi nei quattro film del così detto periodo “della incomunicabilità”, nei quali Antonioni, prendendo spunto dalla crisi di coppia, affronta il più vasto problema dell’alienazione della società degli anni ’60. Tali film furono: “L’avventura”, 1960; “La notte”, 1961; “L’eclisse”, 1962; ed infine “Deserto Rosso”,1964.

Tra questi, Antonioni, scelse di girare la vicenda narrata nel film “L’eclisse” all’EUR. Il regista, come molti altri, scelse questo quartiere a causa delle opere architettoniche che vi sono al suo interno. Infatti, in molti registi del neorealismo, l’architettura diviene un elemento strutturale e di fondamentale importanza per la narrazione cinematografica, e al contempo molti, rifiutano i classici modelli stilistici per creare, sfruttando le architetture, un rapporto maggiore con la realtà. Infatti ne “L’eclissi” Antonioni, cerca di relazionarsi con le strade, le piazze, le case, ecc. facendole diventare un elemento necessario per la costruzione del film (es. scena finale). 10


Da molti, dunque, Antonioni viene considerato il regista che più è riuscito ad avere un rapporto profondo, e di vera ricerca con l’architettura e gli ambienti. Egli sembra legare una determinata architettura, al carattere di un determinato personaggio o di una determinata scena, rendendola dunque parte del racconto stesso. Per queste ragioni, Antonioni scelse categoricamente, di girare “L’eclisse”, nell’allora nuovo quartiere di Roma; l’EUR, simbolo della grandiosità Fascista degli anni ’30, viene invece raccontato da Antonioni, attraverso una “crisi” dei suoi personaggi, come la rappresentazione di un vuoto architettonico, della solitudine e della desolazione interiore, che inevitabilmente non può che non portare sensazioni di malessere e di freddezza. Quindi il quartiere, non viene rappresentato attraverso la sua immagine stereotipata da “cartolina”, ma ben si Antonioni cerca di palare dell’Utopia del quartiere, restituendo al pubblico un “viaggio” all’interno del quale viene esposta, l’altra faccia dell’EUR. Infatti il regista, differentemente da altri, scelse di riprendere le zone residenziali, le aree e gli edifici, costruiti per le olimpiadi del 1960, i giardini ed il laghetto; e nonostante la maggior parte delle sequenze, siano state girate in interni (appartamenti dei protagonisti, nella Borsa ecc.), Antonioni costruisce comunque inquadrature di grande intensità, per restituire al pubblico il forte rapporto tra architettura e figura umana.

Piazzale dello sport

sullo sfondo il Palazzetto dello sport

via dell’Umanesimo

via Tupini

Laghetto dell’EUR, sullo sfondo il palazzo dell’ENI

viale della Tecnica

Iincrocio viale della Tecnica e viale del Ciclismo

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Durante la prima sequenza, a casa di Riccardo, Vittoria, che gira per la stanza compiendo gesti e movimenti apparentemente inutili e insignificanti, tira una tenda – apre, “strappa” il sipario – e guarda fuori dalla finestra. Le prime luci dell’alba rischiarano l’acquedotto dell’EUR: immenso, “sgradevole” alla vista, presenza quasi spettrale, esso si staglia al centro dell’inquadratura, imponendosi in tutta la sua struttura desolata. Rappresenta dunque, fin dall’inizio del film, il simbolo di una Roma urbana, malsana e innaturale e diventa l’emblema di una modernità invadente e incurante della natura, minacciata da un futuro sempre più inquietante (si pensi alla forma “a fungo” dell’acquedotto, che richiama, in un clima di “guerra fredda”, la paura di un conflitto nucleare).

Particolarmente significativa è ancora un’altra inquadratura: al crocevia dell’EUR – dove Vittoria aspetta Piero – la macchina da presa esita, nel cortile di una casa in costruzione, su un mucchio di mattoni, la cui disposizione ricorda, casualmente, la veduta di una grande città, con grattacieli e palazzi ammucchiati uno sopra l’altro. Poi la camera si sposta verso destra, inquadrando la donna e facendo così intuire il gioco di spazi, forme e dimensioni che ha appena ingannato lo spettatore. In “L’eclisse” c’è spesso “una scala indeterminata che solo con l’ingresso in

campo del personaggio si definisce, là dove evidentemente avviene, in riferimento al parametro della figura umana, una presa di coscienza della vera scala di un’inquadratura” (Mancini – Perrella 1986: 41; Burch 1990: 35).

Vittoria, che nell’inquadratura si trova ai piedi della casa in costruzione, appare ancora una volta piccola e irrilevante. Antonioni voleva raccontare delle grandi città, dove la gente vive in un alterato stato di alienazione, sono tutti luoghi dell’incomunicabilità, luoghi in cui le persone non riescono a esprimersi, non riescono a parlare, non riescono a comprendersi.

La Roma del film è una città spoglia, vuota, deserta, “malata”, degradata e degradante, “indeterminata”, fuori dal tempo e dallo spazio (Si pensi alle lunghe passeggiate di Vittoria e Piero per le strade deserte). Concludendo si può dunque affermare che Antonioni rappresenta “Un deserto metropolitano, traccia luoghi con

preminenza del vuoto e del non-costruito, spazi aperti all’errare, che si prestano a incontri fortuiti” (Mancini – Perrella 1986: 317)

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l’EUR di Bertolucci

Risemantizzazione IL CONFORMISTA

2.4 L’EUR di Bertolucci Regista cinematografico, Bernardo Bertolucci, è conosciuto in tutto il mondo per i suoi film. Per poter trattare il punto di vista del regista sul quartiere Europa, bisogna prima, conoscere la vita stessa di Bertolucci e il significato del film che vi girò: “Il conformista”. Bernardo Bertolucci, si avvicinò al mondo del cinema grazie a Pier Paolo Pasolini, suo vicino di casa all’EUR, il quale lo fece diventare suo assistente in alcuni dei suoi film. Bertolucci nonostante rimase affascinato ed influenzato dai lavori di Pasolini, ben presto sviluppò una propria poetica cinematografica, che fondamentalmente si basava sull’individualità del protagonista che, trovandosi di fronte ad ostacoli, e bruschi cambiamenti del proprio mondo e di quello circostante (da un punto di vista esistenziale e politico), rimane inerme e, volente o nolente, si rifiuta di trovare una soluzione/risposta concisa ai loro problemi. Questi risultano poi essere i temi che vengono trattati nella trasposizione cinematografica de “Il conformista” di Bernardo Bertolucci. Tratto dell’omonimo libro di Alberto Moravia, il regista vi ritrova al suo interno tematiche che risultano essere a lui vicine. Bertolucci si appropria di questi temi, del loro significato, e li carica di valenze semantiche personali. “Voglio essere normale, sposarmi una donna banale e frivola, che mi dia una casa borghese, dei figli, voglio sentirmi come gli altri, fare quello che fanno gli altri” -Marcello Clerici, protagonista del film in una delle scene iniziali.

Questa battuta, può essenzialmente riassumere l’intero significato del film, ovvero il bisogno del protagonista di sentirsi parte della così definita “normalità”; normalità che nel film si trova nell’ubbidienza al regima fascista.

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Bertolucci, tratta nel film i problemi del protagonista relativi alla sessualità, al complesso edipico, e più in generale relativi alla crisi della borghesia di quell’epoca. Il film, infatti, risulta essere incentrato sull'aspirazione all’ordine e al conformismo come compensazione di un'inconfessata e repressa omosessualità; Bertolucci affronta, inoltre, in maniera molto personale il nodo complesso dei rapporti tra fascismo e borghesia: l’ambiguità di Marcello, il suo voler uccidere il proprio padre ideale, il panorama di donne ambigue e personaggi brutali che accompagnano il viaggio a Parigi (rievocato con gusto nostalgico) portano a leggere nel fascismo la parte nera della borghesia, la sua tentazione estrema, auto/distruttiva. Infatti come in tutti i film del neorealismo, la vicenda narrata, non rappresenta nient’altro che il riflesso della società degli anni della seconda guerra mondiale. Moravia, nel suo libro, tenta di connettere tra loro tematiche politiche, sessuali, e psicanalitiche, cercando così di offrire una diagnosi freudiana del fascismo. Bertolucci invece, rispetto a Moravia, tratta gli elementi freudiani contenuti ne “Il conformista”, in modo complicato, e non limitandolo solo sul piano dei contenuti (il complesso di Edipo, il trauma e il senso di colpa, l'omosessualità, il parricidio, il perturbante) ma investe anche il campo della forma, attraverso meccanismi di condensazione, spostamento e reduplicazione. La psicanalisi, undicesima musa, è infatti uno dei motivi conduttori del cinema di Bertolucci; è in chiave onirica e memoriale, e dunque antinaturalistica ed efficacemente espressiva, che vanno inquadrate tanto la particolare ricostruzione storica degli ambienti, quanto i numerosi elementi stranianti del film, quanto infine il trattamento dei personaggi. Gli ambienti traducono in immagini suggestive tre aspetti diversi e concomitanti della società borghese: quello putrido e antiquato della villa materna (le radici familiari malate del protagonista), quello perbenista e squallido dell'appartamento di Giulia (il banale conformismo quotidiano), quello spersonalizzante e allucinante del ministero, del manicomio e del bordello (l'aspetto falsamente pulito e maestoso di un regime meschino e ignorante). Ed è proprio grazie al “manicomio”, che Bertolucci fa anche lui dell’EUR, un perfetto teatro di posa. In questo caso, il registra risemantizza una delle architetture più importanti, del quartiere Europa; ovvero il Palazzo dei Congressi. Bertolucci lo risemantizza trasformandolo in un manicomio dove, il protagonista, va a visitare il padre. La scena in questione, risulta essere molto significativa, in quanto il padre, mentalmente instabile, crede di dover mettere in scena uno spettacolo teatrale. Il tutto viene fatto passare come una follia, in quanto il soggetto non si trova in un teatro ma ben sì in un manicomio. Bertolucci, attraverso questa scena, cerca di mettere in luce intelligentemente, l’assurdità stessa del regime fascista, e del piano E42; infatti, questo, pensato per essere una vera e propria messa in scena “teatrale” internazionale, alla fine si trasformò in un fallimentare “manicomio”, generato dalla follia stessa del regime fascista.

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l’EUR di Julie Taymor

Roma Imperiale TITUS

Mondo Ibrido 2.5 L’EUR di Julie Taymor Tra i film stranieri, che hanno visto l'Eur protagonista nella scenografia, credo che sia importante citare il film "Titus", diretto da Julie Taymor, nel 1999. Il film di per se risulta essere un esperimento della stessa regista, la quale realizza un adattamento cinematografico della tragedia shakespiriana "Tito Andronico" in chiave post-moderna. Brevemente la trama del film, si basa sulle vicende del generale romano Tito, che affronta la vendetta della regina dei Goti, Tamora, la quale era stata precedentemente sconfitta in battaglia e portata a Roma come schiava.

"Roma", è la parola chiave per cui ho preso in considerazione questo film, in quanto la regista, crea la sua Roma ideale in cui ambientare il film. Infatti, sebbene Shakespeare abbia ambientato l'intera tragedia nella Roma antica, la regista e scenografa Julie Taymor ha voluto creare un mondo ibrido, intrappolato tra passato e presente. La Taymor giunta a Roma, ed iniziati i sopralluoghi, rimase affascinata dall'anima ambigua del quartiere Europa, il quale risultò perfetto per lo scopo di creare una Roma antica e contemporanea al contempo.

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Gran parte del film viene infatti girato all'Eur, ed una delle scene più significative del film, la morte di Cesare, vede nel "Colosseo quadrato", grazie alla sua struttura architettonica, un vero e proprio attore di pietra. La regista, molto probabilmente lo scelse, per via del grande impatto visivo, e successivamente culturale, che questo avrebbe potuto avere su di un pubblico non italiano; il Palazzo della Civiltà Italiana, infatti rimanda subito al Colosseo, ma al contempo la rigidità della forma, e la geometria della struttura, generano nello spettatore, uno spaesamento, in quanto riconoscono il simbolo ma non la struttura fisica; pertanto gli spettatori ritengono che la struttura risulti appartenere ad un'epoca differente da quella in cui l'anfiteatro Flavio è stato realizzato. Il tutto risulta essere coerente con la trama del film, e con la struttura stessa, la quale era stata realizzata a partire dal 1938, appunto per ricordare, e celebrare il passato della Roma Imperiale, ma per proiettare una nuova Roma, verso un nuovo Impero.

Un altro edificio ripreso nel film, è il Museo della Civiltà Romana, il quale grazie alle alte colonne e quindi alla sua struttura monumentale, riescono a generare nel film, il senso del potere politico romano (in relazione alla scena girata), e questa volta, grazie alle inquadrature, riesce a conferire l'illusione allo spettatore di trovarsi in una vera costruzione dell'antica Roma. La Taymor infine progetta il montaggio del film in modo tale che i vari edifici dell'Eur in cui vengono girate le scene, riproducano un unico grande palazzo.

Differentemente da quanto visto nei film Italiani, in questo caso la Taymor utilizza l'Eur per quello che è, per cosa era stato progettato, non lo critica, e non lo risemantizza nel significato, lo utilizza come elemento di forza per la trama del film, e soprattutto per la sua interpretazione dell'opera shakespiriana; infatti il messaggio finale del film è che, la violenza, la crudeltà, la vendetta e l'odio, sebbene vengono raccontati da Shakespeare nel passato, continuano ad esistere tutt'oggi, in una Roma contemporaneamente antica nei sentimenti. 16


La cittĂ eterna vista attraverso lo sguardo di sei registi: V. De Sica, F. Fellini, M. Antonioni, N. Moretti, F. Ozpetek, P. VirzĂŹ.


Introduzione La cittĂ di Roma, nel corso degli anni, è stata spesso oggetto di interesse da parte di decine di registi, italiani e non. Proprio grazie alla sua struttura costituita da innumerevoli strati e substrati di edifici derivanti dal susseguirsi di secoli di vicende storiche, politiche e culturali, Roma si presta perfettamente ad essere plasmata dallo sguardo vigile, eclettico e critico dei registi e di conseguenza del cinema. L’obiettivo è quello di esaminare sei film riguardanti epoche e scenari totalmente diversi tra loro per provare ad entrare in contatto con le intenzioni, le emozioni, le suggestioni, i punti di vista, i riferimenti, le chiavi di lettura, le critiche e le denuncie sociali delle pellicole per delineare un profilo omogeneo che sveli i tipi di connessione che i registi volevano dare al film e alle architetture presenti al suo interno.


Capitolo 1 Ladri di biciclette regia: Vittorio de Sica anno: 1948

Trama: Roma, secondo dopoguerra. Antonio Ricci, un disoccupato, trova lavoro come attacchino comunale. Per lavorare deve però possedere una bicicletta e la sua è impegnata al Monte di Pietà, per cui la moglie Maria è costretta a dare in pegno le lenzuola per riscattarla. Proprio il primo giorno di lavoro, mentre incolla maldestramente un manifesto cinematografico, la bicicletta gli viene rubata. Antonio rincorre il ladro, ma inutilmente. Andato a denunciare il furto alla polizia, si rende conto che le forze dell'ordine per quel piccolo e frequente furto non potranno aiutarlo. Tornato a casa disperato e amareggiato, capisce che l'unica possibilità è mettersi lui stesso alla ricerca della bicicletta. Chiede quindi aiuto a un suo compagno di partito, che mobiliterà i suoi colleghi netturbini. All'alba, insieme al figlio Bruno, che lavora in distributore di benzina, e al compagno di partito, si recano a cercare la bici a Piazza Vittorio prima e a Porta Portese poi, dove tradizionalmente venivano rivenduti gli oggetti rubati. Tuttavia non c'è niente da fare: la bicicletta, forse ormai smembrata nelle sue parti, non si trova. Per la disperazione Antonio si rivolgerà persino ad una sorta di veggente, che accoglie nella sua casa gente di diversi strati sociali, afflitta e disgraziata. Il responso sibillino della santona è quasi una presa in giro: «O la trovi subito o non la trovi più». A Porta Portese un vecchio barbone viene visto da Antonio insieme al ladro, che subito si dilegua. Anche il vecchio vuole sfuggire a Ricci che lo segue fino a una mensa dei poveri, dove dame di carità della pia borghesia romana distribuiscono minestra e funzioni religiose agli affamati. Antonio costringe il barbone a rivelargli l’indirizzo del ladro, ma è solo per caso che s'imbatte in lui in un rione malfamato, dove tutta la delinquenza locale sostiene il ladro minacciando la vittima del furto. Anche un "buon carabiniere" – figura tipica e popolare dell'autorità giusta e benevola – chiamato da Bruno, in mancanza di prove, non può fare alcunché per arrestare il colpevole. Stravolti dalla stanchezza, Antonio e Bruno aspettano l'autobus per tornare a casa, quando Antonio vede una bicicletta incustodita e tenta maldestramente di rubarla; è subito fermato e aggredito dalla folla e solo il pianto disperato di Bruno, che muove a pietà i presenti, gli eviterà il carcere. Il film si chiude con il mesto ritorno a casa dei due: Bruno stringe la mano al padre per consolarlo mentre su Roma scende la sera.


Tappe principali: •Via di Val Melaina: dove abita Antonio con la sua famiglia; negli stessi lotti è situato l’ufficio di collocamento.

Immagine 1:l’adunata dinanzi l’ufficio di collomamento

Focus: Val Melaina rientra tra le borgate ufficiali ovvero quegli insediamenti urbanistici di edilizia popolare realizzati a Roma dal 1924 al 1937 in quelle che allora erano le zone dell'Agro Romano, lontane dal centro abitato della capitale. Rispetto ai borghetti e alle borgate spontanee, quelle ufficiali furono espressamente pianificate dal governatorato di Roma allo scopo di trasferirvi i residenti delle vecchie case del centro storico, oggetto di demolizioni e ristrutturazioni urbanistiche. Emarginati ideologicamente, quindi, i vecchi abitanti del centro storico furono emarginati anche di fatto, quando, via via che le nuove borgate ufficiali nascevano, essi presero possesso dei nuovi alloggi distanti anche molti chilometri dal centro di Roma. A rimarcare l'isolamento, anche il carattere dei nuovi allog-


gi: costruiti con materiale spesso scadente, con configurazioni ripetitive e con planimetrie squadrate prive di qualsiasi elemento caratteristico, inserite in un contesto topografico assolutamente anonimo, le nuove borgate ufficiali rappresentavano una specie di corpo estraneo alla città, dalla quale erano, di fatto, tenute distanti. Le palazzine di appartamenti erano di solito a due piani fuori terra, spesso tre e, più raramente, quattro o persino cinque. Scarsi i centri di aggregazione, così come i luoghi dove svolgere attività sociali.

Immagine 2: zona Tufello, anni ‘50

•Via dei Montecatini: dove Antonio prende servizio


Immagine 3: ad Antonio viene consegnata l’attrezzatura da lavoro

•Via Crispi: dove avviene il furto della bicicletta

Immagine 4: ad Antonio viene rubata la bicicletta


•Piazza di Porta Portese: seconda tappa alla ricerca della bicicletta(dopo aver setacciato Piazza Vittorio)

Immagine 5: Antonio e Bruno tentano di ritrovare la bicicletta

•Ponte Palatino: incontro con il vecchio


Immagine 6: l’incontro con il vecchio

•Vicolo della Campanella: casa di tolleranza dove si nasconderà il ladro


Immagine 7: l’inseguimento al presunto ladro

•Via Pietro da Cortona: Antonio tenta di rubare una bicicletta, prima di tornare a casa con il figlio Bruno


Immagine 8: Antonio tenta di rubare un’altra bicicletta

Analisi: “Ladri di biciclette”e “Roma città aperta” di Rossellini, costituiscono i due battistrada del Neorealismo: esso, parte da una stretta e diretta osservazione nel caso specificico della capitale e del suo paesaggio urbano e interiore, delle sue strade e palazzi, della gente che ci abita e delle storie quotidiane fatte di stenti, frustrazioni, povertà e rinunce. La città è percepita come un vero e proprio labirinto, pieno di ostacoli e interrogativi; l’inseguimento del ladro attraverso le piazze, i vicoli, i mercati è metafora del tentativo disperato di riscatto da una vita troppo sacrificata. Antonio con la sua corsa verso il tentato ritrovamento dell’oggetto che gli permetterebbe di dare una svolta alla propria condizione di padre di famiglia disagiato, rappresenta tutta una classe sociale martoriata dalla guerra. Roma si dimostra quasi nemica essendo, quella del Neorealismo non una città turistica e superficiale dei monumenti da cartolina ma specchio di una condizione sociale ancora viva e devastante. Le inquadrature sui soggetti ma soprattutto sui luoghi, molto spesso hanno poco respiro quasi a voler sottolineare la mancanza totale anche del minimo che serve per vivere e del conseguente stato di claustrofobia e panico che ciò provoca. Dei palazzi, delle strade, degli interni è inquadrato solo lo stretto necessario; un portone d’ingresso, una scala, la superficie muraria straziata dai bombardamenti è ciò che il regista vuole mostrare e sottolineare. Dalle strade polverose e dissestate della borgate che conducono dopo chilometri di cammino alla fermata di un tram troppo affollato, ai vicoli di sanpietrini del centro storico, il concetto è quello di rafforzare la sensazione di precarietà, di umiltà e sacrificio che caratterizzano quel periodo storico di un’ Italia che, proprio come lo stesso De Sica, ha subito


un segno troppo profondo dentro di se. Far dialogare città e protagonisti è l’unico modo per comunicare le emozioni volute. La scelta di collocare l’abitazione del Ricci in una tipica borgata dell’epoca non è assolutamente casuale poiché rappresenta la volontà di mostrare confrontandola poi con l’abitazione, anch’essa degradata del ladro, lo stato in cui la maggior parte della popolazione versa. Borgate e centro storico combaciano nell’essere luoghi, anche se di diverse datazioni e vocazioni, di povertà e lotta contro la fame. La pellicola in bianco e nero, le luci e le ombre sottolineano ancor di più la durezza di alcuni sguardi sulla città, il sole e la pioggia concorrono ad enfatizzare gli stati d’animo dei due protagonisti: certo, due, essendo Antonio sempre accompagnato dal figlioletto Bruno dalla dignità e forza d’animo spiccatissime. I gradoni dei marciapiedi o del Ponte Duca d’Aosta sembrano quasi voler sottolineare e ricordare che Bruno, nonostante tutto, è pur sempre un bambino proprio come quello che incontrerà nella trattoria benché sia diversa la sua condizione sociale. Concludere questa analisi con la frase di lancio su una delle locandine del film è d’obbligo: “La vita degli umili in un’opera d’arte”.

Renato Guttuso(maggiore esponente della pittura neorealista italiano): uomo che mangia gli spaghetti


Capitolo 2 La dolce vita regia: Federico Fellini anno: 1960

Trama: Marcello Rubini è un giornalista romano che si occupa di servizi scandalistici, ma coltiva l'ambizione di diventare scrittore. Marcello, cinico e disincantato, è protagonista di sette sequenze che narrano la «dolce vita» della Roma a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta. Nella prima sequenza due elicotteri sorvolano Roma. Il primo trasporta una statua del Cristo, mentre sul secondo si trova Marcello, col fotoreporter Paparazzo, che probabilmente deve scrivere un pezzo sull'avvenimento. I due elicotteri dominano dall’alto un antico acquedotto romano, poi un quartiere popolare seguiti da un gruppo di bambini vocianti, per poi innalzarsi in quota sopra la città, permettendo di osservare i tanti cantieri della capitale, in pieno boom edilizio. I due velivoli passano infine sopra una terrazza sulla quale prendono il sole alcune ragazze in costume; l'elicottero di Marcello e Paparazzo si sofferma sopra la terrazza ed i reporter tentano di abbordare le ragazze, le quali chiedono dove portino la statua. Il rumore dell'elicottero però copre le loro voci. Solo una comprende che la destinazione del Cristo è il Vaticano, quindi Marcello chiede il numero di telefono alle ragazze che, divertite, glielo negano. Il volo degli elicotteri termina su piazza San Pietro, affollatissima, dove suonano le campane a festa. Nella seconda sequenza, Marcello si trova in un locale in stile orientale, per un servizio su una famiglia reale che vi sta mangiando. Mentre Marcello corrompe uno dei camerieri del locale per conoscere i piatti che i principi hanno mangiato, Paparazzo, su indicazione di Marcello, inizia a scattare foto ad una nobile in compagnia di un giovane. Le guardie del corpo intervengono, allontanando il reporter e intimandogli di consegnare il rullino. Uno degli avventori, seduto ad un tavolo con due donne, riconosce Marcello, lo invita a raggiungerlo e gli intima di smettere di creare scompiglio con la sua attività di paparazzo. Al locale arriva una bella donna, Maddalena; Marcello la invita a ballare e a bere, ma lei rifiuta. La donna decide di andarsene; Marcello si offre di accompagnarla, e lei accetta; i due escono dal locale e vengono bersagliati dai flash dei fotoreporter colleghi di Marcello. La coppia si ferma con l'auto in Piazza del Popolo; dopo una chiacchierata incontra una prostituta e Maddalena la invita a seguirli in un giro in auto per poi accompagnarla verso casa, in periferia. Arrivati alla casa della prostituta, ai Cessati Spiriti, Maddalena e Mar-


cello si fanno preparare un caffè. Mentre la prostituta è in cucina, Maddalena e Marcello fanno l'amore nella stanza accanto. La mattina dopo il protettore della prostituta sosta davanti alla casa per ricevere il denaro della prestazione; Marcello e Maddalena se ne vanno in macchina dopo aver pagato la donna. Nel frattempo Emma, la depressa fidanzata di Marcello che sa dei tradimenti del partner, sta aspettando il compagno a casa. Poiché lui è in ritardo, la donna inghiotte delle pastiglie andando in overdose. Marcello la porta quindi in ospedale dove Emma si salva. Mentre aspetta che Emma si riprenda, Marcello chiede ad una suora di poter fare una telefonata: chiama Maddalena ma lei, addormentata sul suo letto, non risponde. Nella terza sequenza Marcello è incaricato di seguire nella capitale l'attrice Sylvia, famosa stella del cinema. Marcello intrattiene Sylvia in un locale frequentato da turisti stranieri, il «Caracalla's», un locale dal sapore antico. Marcello fa le prime avances all'attrice. Uscita dal locale molto euforica, Sylvia inizia a passeggiare per le vie di Roma seguita da Marcello e quando vede la fontana di Trevi vi si immerge iniziando una leggiadra danza. Marcello entra a sua volta nella fontana, vincendo la propria timidezza, dichiarandosi innamorato della donna. Quando la riaccompagna in hotel incontra però il fidanzato di lei che, non gradendo le attenzioni riservatele, prima schiaffeggia Sylvia ed in seguito affronta Marcello, stendendolo con un pugno; il tutto davanti ai fotografi che immortalano la scena. Nel seguente episodio Marcello è nel quartiere Cinecittà per un servizio fotografico quando davanti alla chiesa di Don Bosco scorge il vecchio e stimato amico Steiner. Steiner si interessa su come stia procedendo la stesura del suo libro ed il giornalista afferma che è quasi finito e che presto glielo farà leggere; quindi lo scrittore elogia Marcello per un articolo che ha scritto e che gli è piaciuto molto, quindi lo invita a cena. Prima di lasciarsi, Steiner invita Marcello a rimanere un poco di tempo ad ascoltarlo mentre suona l'organo con l'assenso del prete, amico di Steiner; lo scrittore si cimenta nella Toccata e Fuga in Re minore di Bach. Intanto il popolo romano è in preda ad un episodio di fanatismo collettivo intorno a due bambini che dicono di aver visto la Vergine Maria in un prato fuori città. Marcello accorre per scrivere un pezzo, ma la sua attenzione è distolta dalla fidanzata Emma, che è risentita con lui perché si sente ormai messa in disparte. Alla sera inizia a diluviare ed inizia una calca in cui la folla si contende almeno un pezzo di legno dell'albero vicino al quale è apparsa la Madonna. Tra la folla impazzita c'è anche Emma, che riesce a prendere un ramo, sperando in un aiuto divino che faccia in modo che Marcello le dimostri più attenzione, e finalmente la sposi. Nell'episodio seguente Marcello si reca con Emma a casa di Steiner per trascorrere una serata con una eterogenea compagnia. Qui Marcello conosce la famiglia dello scrittore, della quale fanno parte anche due graziosi bambini. Steiner propone a Marcello di presentargli un editore, cosicché il giornalista possa dedicarsi a quello che più gli piace e non dover scrivere per i rotocalchi di gossip. Nell'episodio seguente Marcello è in una trattoria sul mare, dopo l'ennesima lite al telefono con Emma, si siede sotto un pergolato per scrivere a macchina; la musica dal juke box è troppo alta e chiede bruscamente alla giovane cameriera di chiuderla. Poi, come rendendosi conto che anche senza musica non riesce a scrivere, Marcello attacca discorso con la ragazzina che sta apparecchiando i tavoli: si chiama Paola, è originaria dell'Umbria, le piacerebbe imparare a scrivere a macchina. Marcello prova una simpatia e tenerezza per le semplici aspirazioni di quella ragazzina. Un'altra scena del film vede Marcello ricevere la visita del vecchio padre, riminese. I due si incontrano in un caffè all'aperto di Via Vittorio Veneto, poi decidono di andare in un night insieme a Paparazzo. Nel night incontrano Fanny, ballerina francese conoscente di Marcello. Dopo aver bevuto, i quattro escono dal locale assieme a due ballerine; Paparazzo e Mar-


cello stanno con loro, mentre il padre è invitato da Fanny nell'appartamento della ragazza. Poco dopo però Fanny chiama Marcello: il padre si è sentito male, forse per il troppo bere. In seguito, il padre annuncia al figlio che partirà subito per casa, anche se Marcello vorrebbe che rimanesse ancora presso di lui. L'episodio successivo si svolge in un castello nel viterbese: c'è una festa dell'alta società organizzata da una famiglia della nobiltà romana. Al party Marcello incontra Maddalena che dopo una breve passeggiata lo fa sedere solo al centro di una stanza isolata. Lei quindi si dirige in un'altra ala della villa, da cui tramite un gioco di echi può comunicare con lui. Da lì gli dichiara il suo amore segreto per lui e gli chiede di sposarla, avvertendolo però che dopo poco tempo lui comunque la odierebbe perché lei per natura conserverebbe sempre un carattere particolarmente disinibito con tutti. Mentre Marcello risponde con parole dolci sopraggiunge però da Maddalena uno degli altri invitati che inizia a baciarla e ad abbracciarla. Non ricevendo più dunque alcuna risposta Marcello la cerca invano e si unisce in seguito agli altri invitati per esplorare l'abitazione abbandonata limitrofa al castello. Nella scena seguente Marcello ed Emma sono in macchina fermi a litigare. Emma si lamenta con Marcello del trattamento di sufficienza da parte del compagno, e lo accusa di non voler bene a nessuno e di pensare solo alle varie donne che incontra; lui si lamenta invece che la donna è la sua croce, che è egoista e che i suoi ideali, cioè quelli tradizionali dell'amore di una coppia sposata e di una vita semplice, sono squallidi e piatti ed afferma come un uomo che vive così in verità sia un uomo morto. Marcello esorta Emma ad andarsene dalla sua vita, ma ella rifiuta; lui la fa uscire dalla macchina con la forza schiaffeggiandola mentre lei lo morde ad una mano. Marcello scappa via con la sua macchina lasciando Emma da sola. La mattina dopo Emma e ancora lì in piedi; Marcello arriva, la fa salire in auto, ed entrambi si dirigono verso casa. I due stanno dormendo nel letto quando squilla il telefono; la chiamata è per Marcello e porta una notizia terribile: Steiner ha ucciso i suoi due figlioletti, togliendosi poi la vita. Marcello raggiunge l'appartamento dell'amico scrittore, e la polizia lo fa entrare in quanto amico del suicida. Il palazzo è assediato dai paparazzi; Marcello accompagna il brigadiere a prendere la moglie di Steiner alla fermata dell'autobus per annunciarle la terribile notizia. I due raggiungono la fermata e fanno salire in macchina la donna per raccontarle l'accaduto, mentre uno stuolo di fotoreporter immortala la scena. Un altro party cui partecipa Marcello si tiene in una villa sul mare, a Fregene, concludendosi con uno spogliarello collettivo. L'ultima scena del film si svolge sulla spiaggia antistante la villa, dove viene rinvenuta, morta, all'alba, una manta. Sulla riva Marcello sente una voce che lo chiama: è Paola, l'innocente ragazzina umbra conosciuta per caso nella trattoria, che si trova al di là di un fiumiciattolo d'acqua. Marcello si volge verso di lei ma, pur non essendo lontano, a causa del rumore del mare, non riesce a udirne le parole. Lei gli fa dei gesti per farsi capire, ma è inutile. Marcello alza la mano per un ultimo saluto e si allontana per raggiungere il suo gruppo. La ragazzina lo guarda allontanarsi.


Tappe principali: Focus: la maggior parte delle scene furono girate a Cinecittà ed infatti furono allestiti circa 80 set. In alcuni casi si dovette procedere alla creazione di riproduzioni di luoghi quasi fotografiche, come per le ambientazioni in Via Vittorio Veneto (ricostruite nel Teatro 5 di Cinecittà) o l'interno della cupola di San Pietro. L'esterno della casa della prostituta è stato girato a Tor de' Schiavi nel quartiere Tuscolano, mentre l'interno è stato ricostruito nella piscina di Cinecittà. Il ballo dei nobili è stato ambientato invece a Bassano di Sutri, al palazzo Giustiniani-Odescalchi. La casa di Emma è stata ambientata in un sotterraneo dell'EUR. Dopo aver visitato una ventina di case a Fregene dove ambientare l'orgia, Fellini decise che anche questa ambientazione dovesse essere costruita ex novo da Gherardi, che si ispirò ad una casa popolare vista in precedenza ai Bagni di Tivoli. La scena finale è stata girata a Passo Oscuro, località a 30 chilometri a nord di Roma, sulla cui spiaggia, avviene il ritrovamento della manta. La casa dello scrittore Steiner è situata nel quartiere EUR, come testimoniato dall’inquadratura che mostra il caratteristico Fungo. Per motivi pratici gli esterni furono girati invece nella piazza antistante la Basilica di San Giovanni Bosco, a pochi passi dagli studi di Cinecittà. All'interno della chiesa dei SS. Martiri Canadesi, in viale Giovanni Battista De Rossi, fu girata la scena nella quale Steiner interpreta all'organo la celebre Toccata e fuga di Bach.

•zona EUR, Via Poggio Laurentino: scena elicottero

Immagine 1: Marcello chiacchiera dall’elicottero per qualche minuto con delle ragazze


•Piazza del Popolo: sosta in auto di Marcello e Maddalena

Immagine 2: sosta di Marcella e Maddalena

•Via dei Cessati Spiriti(scena girata in realtà a Tor de’ Schiavi): la casa della prostituta


Immagine 3: l’uscita da casa della prostituta

•EUR: il Palazzo dei Congressi diventa il pronto soccorso dell’ospedale dove Marcello porta Emma; percorre in macchina Via Cristoforo Colombo per giungervi

Immagine 4: Marcello al pronto soccorso


•Fontana di Trevi: tra le scene cinematografiche più famose

Immagine 5: Marcello e Sylvia

•Via Vittorio Veneto: ritrovo dei “paparazzi”, hotel in cui alloggia Sylvia, incontro con il padre di Marcello


Immagine 6: Marcello incontra il compagno di Sylvia

•Via dei salesiani: incontro con Steiner presso la Basilica di San Giovanni Bosco

Immagine 7: Marcello incontra il suo amico Steiner


•Luogo litigio con Emma??

Immagine 8: il litigio tra Marcello ed Emma

•Piazza antistante Basilica di San Giovanni Bosco: riprese esterni casa Steiner; dall’internpo, vista su “fungo”(zona EUR)dalla finestra


Immagine 9: riprese esterni casa Steiner

Immagine 10: riprese dall’interno casa Steiner

Analisi Fellini tende a far coincidere memoria culturale con memoria autobiografica; seguendo dei movimenti oscillatori, la sua memoria si muove alternativamente lungo un tragitto obbligato: l’asse Rimini- Roma e ritorno. Il suo sforzo maggiore è quello di riannodare gli anelli mancanti in una catena di associazioni e ricordi, compresi nel cerchio della sua esistenza, e di farli muovere entro un più vasto quadro della condizione umana contemporanea. Fellini tenta di produrre, o meglio riprodurre, attraverso lo schermo, una serie di sensazioni che colpiscano contemporaneamente i cinque sensi; la figura dominante dell’immaginario cinematografico felliniano è senza dubbio, la sinestesia. Se, negli anni precedenti, le regole del racconto, la critica, l’eredità del Neorealismo lo avevano frenato, dalla Dolce vita in poi il regista compie, nei confronti delle sue immagini, un’operazione per molti versi simile a quella fatta in pittura dall’action painting americana, Pollock, Rothko e soprattutto Tobey: una specie di action- filming.


Ma non solo: la dimensione e la struttura della Dolce vita hanno qualcosa in comune con la prima cantica del poema dantesco. Il viaggio di Marcello nella città, i luoghi a cui accede sono altrettante tappe, disposte secondo una precisa linea di degradazione, gironi di una moderna rappresentazione di una realtà infernale. Analizzando l’immagine in cui è immortalata l’imponente tromba delle scale del condominio in cui Steiner e la sua famiglia vivono si possono cogliere perfettamente i riferimenti sopraelencati. La struttura architettonica è contenitore di più variabili che mescolate tra loro restituiscono all’osservatore senso di vertigine, di estrema confusione e spaesamento. Gli inquilini sparpagliati lungo i numerosi piani del palazzo ricordano le anime incastrate nel Limbo dantesco e quella di Marcello è una di loro.

Immagine 11 e 12: quadro dell’action painter Tobey; veduta della tromba delle scale in cui vive Steiner

Focalizzando ora l’attenzione sulla scelta delle strade e dei quartieri, nonostante fossero quasi tutti ricostruiti sui set di Cinecittà, si può notare come(a parte le scene girate in Via Vittorio Veneto dove il caos la fa da padrone)la città eterna viene trattata da Fellini come un puro e asettico fondale che ha come obiettivo quello di enfatizzare le emozioni dei protagonisti. A differenza della caotica Roma di “Ladri di biciclette”, quella di Fellini è quasi fatiscente, spesso vuota e non dura da vivere come nel caso desichiano. La pellicola ha inizio con le riprese dall’alto di una Roma gia allora sconfinata e da mettere immediatamente a paragone con la limitatezza dell’animo di Marcello. Nelle prime inquadrature sono proiettate le immagini del quartiere EUR, scelto all’epoca da Fellini per il suo carattere dall’atmosfera sospesa e leggera proprio come in un quadro di De Chirico. Un quartiere improbabile e dalla psicologia asettica e sconosciuta, dall’orizzonte piatto, fatto di case vuote e disabitate, di edifici- fantasma dove abitano statue, con un senso provvisorio, da fiera campionaria. Per Fellini l’EUR era un quartiere cinematograficamente congeniale, perché “c’è e non c’è”: nuovo e in trasformazione. Uno scorcio significativo sempre rubato a questo quartiere è quello dal quale si possono osservare il Palazzo dello sport( di Piacentini e Nervi) e il famoso “Fungo”(grandissimo ex-serbatoio d’acqua); il panorama


Immagine 13 e 14: veduta del quartiere EUR durante le prime riprese; “Piazza d’Italia” di Giorgio De Chirico

sconfinato ben si allaccia al dramma profondo dell’omicidio dei due figli per mano dello stesso Steiner e del suo immediato suicidio. La possente immagine del serbatoio rimanda alle serie fotografiche dei coniugi Becher che immortalano anch’esse numerose immagini di serbatoi dalla più svariate forme ma che in fin dei conti conservano tutte la stessa funzione; proprio come i personaggi della Dolce vita: tutti diversi ma accomunati dalla stessa noia e smania di riscatto. Ma il regista non si serve solo di quartieri di nuova o recente costruzione come l’EUR o Cinecittà, bensì sfrutta tutta una serie di scenari forniti dal centro storico e dalle più remote periferie. visita a Steiner, viene immersa in luoghi desolati, vuoti, abbandonati e che gridano di disperazione proprio come lei prima nell’appartamento


Immagine 15 e 16: Marcello a casa di Steiner e una delle serie fotografiche dei coniugi Becher

La scelta del luogo sembra fatta in base alle caratteristiche emotive dei personaggi di una determinata scena: Emma, tranne che per la che condivide con Marcello e dopo durante la lite che ha con lui. Il luogo è cucito addosso al personaggio e viceversa, cosĂŹ da non poter sfuggire e mentire alle emozioni. Maddalena e Sylvia vengono inserite invece da Fellini, in luoghi per niente anonimi ma conosciuti da tutti come Piazza del Popolo nel caso della prima e la Fontana di Trevi nel caso della seconda; la fama e la ricchezza dei personaggi è noto a tutti proprio come quella dei luoghi che perfettamente si prestano ad essere cornice notturna dei vizi, delle pretese e della solitudine delle due donne. La pellicola si chiude con un Marcello che non ha la forza di sottrarsi a questo mondo e quindi seguire il richiamo e la possibile salvezza rappresentata da Paola. E’ risucchiato dai


Immagine 17 e 18: Emma ripresa nella sua solitudine e disperazione

mostri che cerca di esorcizzare e non riesce a dominare. E’ il pesce misterioso e , a sua volta, mostruoso disteso sulla sabbia(località Passo Oscuro)che esercita su di lui il richiamo più forte e gli consente di poter continuare a vivere osservando il prodursi di altre scene, favorendo la materializzazione di sempre nuovi mostri.

Immagine 19 e 20: “L’invention collective”di Renè Magritte e Marcello inginocchiato sulla sabbia


Capitolo 3 L’eclisse regia: Michelangelo Antonioni anno: 1962

Trama: Roma, 1961. In una mattina di luglio, l'inquieta Vittoria lascia il compagno, architetto, che non ama più. Il loro addio è freddo, indolore, quanto il loro rapporto era stato apatico. Sola, avvilita, segnata dalla fatica di vivere, «cerca negli altri un calore di vita, una facoltà di appassionarsi di cui essa stessa è ormai svuotata.» Una sera fa visita alla sua amica Anita, con la quale però non si sente così in confidenza da poter parlare di sé ed aprirsi. Vittoria cerca anche di recuperare un rapporto serio con la madre, che vede con certezza solamente alla Borsa di Roma, luogo dove la madre si reca quotidianamente. Durante una visita incontra Piero, giovane e cinico agente di cambio. Piero, avendo saputo che Vittoria è libera, lascia subito la propria ragazza e inizia a fare la corte a Vittoria. Comincia una relazione, malgrado la differenza di carattere e sensibilità tra i due e l'apparente mancanza di reale coinvolgimento e interesse. Dopo pochi incontri Vittoria si concede a Piero. Nei giorni successivi i due sono felici. Una mattina, nel salutarsi, Piero le ricorda l'orario del loro appuntamento serale. “Alle 8. Solito posto”. Ma sono le ultime parole che si scambiano: nessuno dei due si presenterà.I luoghi dove Piero e Vittoria erano soliti incontrarsi, ora appaiono senza i loro protagonisti: l'angolo di strada, l'edificio in costruzione accanto, la fermata d'autobus e i volti delle persone che Vittoria incrocia quando torna a casa a piedi. Scende la sera, nella città si accendono le luci. Nella completa oscurità la vista rimane quasi accecata dal bagliore di un lampione che illumina una strada.


Tappe principali: •Via dell’Esperanto: la casa del fidanzato di Vittoria

Immagine 1: Vittoria guarda fuori dalla finestra della casa del fidanzato

•Via dell’Umanesimo: la casa di Vittoria


Immagine 2: davanti casa di Vittoria

•Piazza di Pietra: la sede della Borsa di Roma

Immagine 3: davanti la sede della Borsa di Roma


•Piazzale dello Sport: Vittoria e un’amica inseguono il cane scappato a quest’ultima

Immagine 4: la scalinata

•Via della pietra: Piero offre da qualcosa da bere a Vittoria


Immagine 5: il bar

•Via della Stazione di San Pietro: la casa della madre di Vittoria

Immagine 6: vista su San Pietro


•Via Cristoforo Colombo, Laghetto dell’EUR: la macchina di Piero viene ripescata

Immagine 7: il laghetto

•Aree limitrofe al “Fungo”: inquadrature frequenti


Immagine 8: panoramica

Immagine 9: Vittoria e Piero vicino ad un cantiere


•Piazza di Campitelli: casa di Piero

Immagine 10: vista sulla piazza

•Viale della scultura: incontro con Piero


Immagine 11: Piero aspetta l’arrivo di Vittoria

•Via Po: l’ufficio di Piero; ultimo incontro tra i due

Immagine 12: Piero e Vittoria nel loro ultimo incontro


Analisi Sulla scia della letteratura metafisica di Fellini, troviamo anche Antonioni; è facile infatti notare una Monica Vitti in un ancora “periferico” viale dell’Umanesimo, sotto al “fungo”. alla solitudine e al vuoto interiore della donna corrisponde in pieno la metafisica sospensione di quel paesaggio urbano moderno, di quelle algide geometrie architettoniche. I silenzi e il disadattamento emotivo dei personaggi sono sottolineati dai campi lunghi e da un dilatato della cinepresa. Nella “città moderna” si svolge il dramma atono dell’inappagamento muliebre: un EUR

Immagine 13 e 14: panoramica zona EUR e particolare di un cantiere aperto

spettrale, silenzioso, senza traffico, metà paesaggio lunare, metà campagna, che sottolinea le difficoltà dell’incontro: questa parte di Roma risulta talmente alienante ed estranea da far esclamare a Piero(Alain Delon): “Mi sembra di stare all’estero”. Gli ultimi cinque minuti del film sono costituiti da sole riprese di esterni e panoramica sul quartiere vissuto maggiormente dalla giovane coppia durante la loro brevissima storia. Cantieri aperti, pile di laterizi, impalacature: tutto deve concorrere a sottolineare il senso di spaesamento e vuoto di Vittoria che passeggia smarrita lungo le strade deserte del quar-


tiere. Se Antonioni avesse scelto di girare servendosi di un’altra ambientazione, di certo l’impatto emotivo dato dalla vista di questi luoghi quasi disabitati nonostante siano stati disegnati per accogliere un flusso di persone molto importante, sarebbe stato nettamente diverso. La mancanza dei colori, vista la pellicola ancora in bianco e nero, enfatizza ancor di più le luci, le ombre e la plasticità delle architetture inquadrate. Come nel caso de La dolce vita, anche qui lo scenario architetonico si lega ai personaggi, li plasma, li aiuta ad emergere e a sottolineare i loro difetti e mancanze. Nelle scene in cui Vittoria, a casa della sua amica si traveste da indigena di una tribù africana, sembra sentirsi libera e avere un umore nettamente migliore; rincorrere dei cani lungo le scalinate adiacenti il Piazzale dello Sport la fa sentire, anche se per poco, libera dalle sue oppressioni psicologiche. Anche questo luogo e la scelta di girare in notturna si prestano bene all’impatto emotivo da restituire agli spettatori: il quartiere si trasforma in una sorta di “giungla urbana” dove Vittoria abbandona i propri pensieri e ristabilisce un contatto più genuino con gli spazi che la circondano.

Immagine 15: Vittoria corre inseguendo dei cani


Capitolo 4 Caro diario regia: Nanni Moretti anno: 1993

Trama: Il primo episodio dei tre che compongono il film si intitola “In Vespa�e vede il protagonista nella passeggiata appunto in Vespa attraverso i quartieri di una Roma estiva e semideserta. Le inquadrature di bellezze paesaggistiche, architettoniche e monumentali accompagnano le riflessioni del regista che spaziano dalla critica cinematografica, e in genere al cinema hollywoodiano, alla sociologia e alla sfaccettata urbanistica dei tanti quartieri periferici della capitale. L’episodio si apre alla Garbatella e si conclude a Ostia, nei pressi del luogo in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini e ne fu eretto un monumento alla memoria. Tra le scene spicca la visita a Spinaceto, quartiere a sud della capitale, le cui strade il regista percorre dopo averne sentito parlare in toni negativi.


Tappe principali: •Viale 30 aprile(Gianicolo): inizio giro in Vespa

•Lungotevere Arnaldo da Brescia(Parioli): Moretti continua il suo tour in silenzio


•Viale Buozzi(Paioli): inizio lungo monologo


•Via Obizzo Guidotti(Garbatella): inizio percorso all’interno di uno dei quartieri preferiti da Moretti

•Piazza Sant’Eurosia


•Via Magnaghi: Moretti scende per la prima volta dalla Vespa


•Via Dandolo: seconda tappa senza Vespa

•Via Alessandro Magno(Spinaceto): Moretti riflette su alcuni preconcetti riferiti al quartiere Spinaceto


•Zona Casalpalocco: dialogo con un residente sul perchè abitare li


•Serie di Palazzi: “Garbatella 1927”, “Villaggio Olimpico, 1960”, “Tufello, 1960”, “Vigne Nuove, 1987”, “Monte Verde, 1939”



Analisi “Che bello sarebbe un film fatto di case, panoramiche su case”, così Nanni Moretti commenta l’inizio della carrellata di riprese fatte in varie quartieri di Roma. Il primo episodio dei tre di “Caro Diario” è un omaggio vero e proprio all’architettura romana, osservata nelle sue più svariate sfacettature e punti di vista. L’amore per questa città e per i suoi numerosissimi quartieri è tangibile; i lunghi silenzi che intercorrono tra le varie inquadrature invitano lo spettatore ad immergersi visivamente ed emotivamente nelle case, nei palazzi, nei giardini, nelle strade; scrutare e analizzare lo spazio è ciò che fa Moretti, arricchendolo con le proprie considerazioni. A differenza dei film precedentemente analizzati, in questo caso, la città eterna assume tutt’altra connotazione; certo, è pur sempre lo sfondo sul quale si inscenano le riprese ma lo spirito e i fini sono totalmente differenti. Il punto di partenza non è uno stato d’animo, la condizione umana di un dato personaggio o la restituzione di un determinato periodo storico italiano, bensì un pensiero: “Caro diario, c’è una cosa che mi piace fare più di tutte!”. Da questa affermazione, che non svela però immediatamente quale sia l’effettiva cosa che piace fare a Moretti, parte un’intera carrellata di immagini senza alcuna voce di campo. Poco dopo il regista ci svela ciò che gli piace fare in assoluto e soprattutto dove: “Si, la cosa che mi piace più di tutte è vedere le case, vedere quartieri e il quartiere che mi piace più di tutti è la Garbatella e me ne vado in giro per i quartieri popolari”. La Garbatella come il quartiere Tufello o di Val Melaina(precedentemente analizzato)nasce come “borgata”, zona ai limiti(di allora)della città e perciò prospicente ad aree centrali ma che conservava comunque un carattere agrario. Il concetto di limite riferito all’espansione e all’urbanistica di una città come Roma è sempre stato un argomento di particolare interesse ma sopratutto molto articolato e sempre attuale. Si può dire perciò che anche se implicitamente e con modalità assolutamente differenti da un film standard, Caro diario ci invita ad esplorare e ad esplorarci, traendo maga-


ri soddifazioni dal fare ciò che realmente “più ci piace”. A parte qualche considerazione a carattere personale su alcuni dei quartieri visitati, Moretti si limita ad osservare e a cogliere gli aspetti architettonici che lo colpiscono maggiormente eliminando tutto quell’apparato cognitivo e storico(che di certo egli possiede)che ai fini del suo messaggio allo spettatore diventa aspetto secondario. Probabilmente, senza alcuna conoscenza pregressa sulla storia dei quartieri che si attraversano giornalmente, il giudizio sull’estetica, la vivibilità e il fascino di questi muterebbero troavandoci in accordo con alcune “minoranze” di pensiero.


Capitolo 6 Le fate ignoranti regia: Ferzan Ozpetek anno: 2001

Trama: Antonia, un medico specializzato nella cura dell’AIDS, e suo marito Massimo sono una coppia di ultratrentenni, socialmente affermati, che sembrano vivere un legame intenso e perfetto seppur abbastanza routinario, disturbato solo dal difficile rapporto che la donna vive con la propria madre. La tranquilla quotidianità di Antonia viene irreparabilmente sconvolta quando Massimo muore improvvisamente, travolto da un’auto. Il distacco violento dal marito getta la donna in un cupa disperazione, in un lutto profondo che le impedisce di reagire e rende ancora più difficili i rapporti con la madre, anch’ella vedova da lungo tempo. Tra gli oggetti personali che ritira presso l’ufficio dove Massimo lavorava, Antonia scopre un quadro con dedica che la pone sulle tracce di un’amante misteriosa, della quale naturalmente la giovane donna ignorava l’esistenza. Le ricerche che Antonia conduce la porteranno a scoprire una realtà assai lontana da ogni immaginazione, una realtà parallela che Massimo viveva da tempo in perfetta clandestinità e che lo vedeva legato a Michele, un giovane commerciante del mercato ortofrutticolo generale, e alla variopinta comunità di omosessuali cui Michele appartiene: una vera e propria famiglia allargata che abita in una mansarda accogliente in un edificio popolare al centro di uno dei quartieri più caratteristici della Roma contemporanea: l’Ostiense. Attraverso il contatto e l’impatto con la realtà rappresentata dal gruppo di omosessuali, mitigati dalla condivisione del ricordo di Massimo, Antonia subisce un processo di maturazione personale e di affrancamento dagli schemi borghesi che rappresentavano certamente la sua gabbia dorata. La donna si ritroverà in certi momenti a condividere a tal punto con Michele l’immagine del marito scomparso da essere tentata di trasfigurare nel giovane il sentimento negatole dalla morte del congiunto. Sarà soltanto il viaggio lungo e liberatorio di Antonia l’esperienza che ristabilirà equilibrio tra i due e che confermerà la donna in una visione rinnovata e più aperta della propria esistenza.


Tappe principali: •Via Ostiense, Museo della Centrale Montemartini: scena iniziale

•Via del Porto Fluviale: casa di Michele


•Via dei Magazzini Generali: dialogo tra Michele e Antonia


•Via della Piramide Cestia: uscita tra Michele e Antonia

•Ponte dell’industria: la festa sul fiume e il ritrovamento di Ernesto


Analisi “Le fate ignoranti” si differenzia dagli altri quattro film analizzati poichè si focalizza quasi in toto su di un solo quartiere romano: Ostiense. Quest’ultimo è un’area situata a Sud della città e a ridosso delle Mura Aureliane e del fiume Tevere; è fra i primi undici quartieri nati nel 1911 ma ufficialmente istituiti nel 1921. Ostiense è inoltre il quartiere dove Ozpetek risiede e dove, proprio come Michele, ospita i propri amici sulla sua terrazza. Questi luoghi perciò, oltre che per ragioni di affinità al tema trattato, sono stati scelti dal regista per motivi puramente affettivi. La struttura architettonica che viene più volte riproposta è il Gasometro facente parte del gruppo di quattro strutture analoghe risalenti agli inizi del Novecento, e in seguito mai


più utilizzate. Prendendo come riferimento il Gasometro è possibile realizzare diverse analogie e metafore riferite ai temi trattati nel film. Volendo fare un parallelo tra il tema principale della pellicola(ovvero l’omosessualità e le reazioni che questa provoca sulla gente “comune”)e la struttura architettonica fatiscente ma imponente del Gasometro si potrebbe dire che la questione omosessualità è un qualcosa di presente ormai nella vita di tutti- direttamente o indirettamente- ma che spesso viene dimenticata. La frase “siamo ancora qui ma nessuno ci vede” pronunciata da Ernesto(l’amico gay e malato di AIDS di Michele)proprio nelle vicinanze del Gasometro mette in risalto la questione appena espressa. Il gruppo

di quattro gasomentri inseriti in un’area che appare abbandonata a se stessa, danno l’idea che questo sia un “non-luogo” proprio come in modo razzista gli omosessuali vengono pensati come dei “non-uomini”, considerati tutti uguali come appaiono tutti uguali i gasometri ritratti dai coniugi Becher, ma che uguali non lo sono per niente.


Ostiense è in continuo cambiamento ed evoluzione, luogo di cultura, quartiere ancora popolare ma anche di riferimento per la vita notturna. E come Ostiense anche i rapporti umani nel film, mutano di continuo(come succede ad Antonia e Michele), si trasformano assieme ai sentimenti che spesso sono motivo di disprezzo o di vergogna.

Immagine 9 e 10: Renè Magritte

Il quartiere è cambiato profondamente nella forma e nel contenuto e a proposito di questo può essere compiuto un altro parallelo con la vita di Ernesto malato di AIDS o di Mara diventata donna dopo diverse operazioni chirurgiche. Quello del regista è un invito ad abbandonarsi alle proprie emozioni e a perdersi in una città che se vissuta in altri modi può apparirci magari meno insidiosa.


Capitolo 5 Caterina va in città regia: Paolo Virzì anno: 2003

Trama: Il film descrive la situazione della politica italiana vista da una classe di alunni di terza media, per poi incentrarsi sulla figura chiave dell’italiano medio ormai sfiduciato dalle tante promesse e di un mondo politico caratterizzato solo dall’interesse di raggiungere solo i propri obiettivi e dall’ipocrisia. La storia è ambientata tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003; protagonista del film è Caterina lacovoni, una timida, nonché ingenua adolescente che vive in un piccolo paese della costa tirrenica (Montalto di Castro). Suo padre, Giancarlo Iacovoni, insegna ragioneria alle superiori mentre sua madre, Agata, fa la casalinga. Il padre però, insegnando a delle classi di alunni svogliati e maleducati, decide di chiedere il trasferimento a Roma. Caterina quindi, pochi giorni prima che inizi la scuola, con la sua famiglia si trasferisce a Roma nella casa dei suoi defunti nonni paterni, abitata soltanto da un’anziana zia di suo padre di nome Adelina, e dalla sua badante. In questa grande città Caterina, frequenta la terza media nella scuola che il padre frequentò 30 anni prima. La classe dove viene inserita è spaccata a metà: da una parte ragazzi che simpatizzano per la sinistra, capeggiati da Margherita, dall’altra un gruppo di ragazze che simpatizzano per la destra, che hanno come leader Daniela, figlia di un parlamentare di Alleanza Nazionale. Caterina viene a contatto con delle ideologie con le quali non si era mai confrontata: prima vive una forte amicizia con Margherita, che termina quando il padre le scopre a ubriacarsi e tatuarsi; poi senza quasi accorgersene, Caterina, passa nel mondo di Daniela, fatto di feste e lusso. Nascono anche i primi amori per Caterina: il primo è un cugino benestante di Daniela, ma a causa dei profondi pregiudizi della madre del ragazzo nei confronti di Caterina, i due si lasciano. S’innamora poi di Edward, ragazzo australiano che abita nell’appartamento di fronte al suo. Caterina rompe anche col mondo di Daniela quando sente lei e le sue amiche che la considerano una “sfigata” per essersi lasciata col cugino di Daniela, e per essere non alla moda come loro. A causa di questa vicenda durante l’ora di educazione fisica, avviene una piccola rissa tra Caterina e Daniela nella quale si immischierà anche Margherita per difendere Caterina. Quest’ultima perciò scappa e viene cercata dalla


Trama: Il film descrive la situazione della politica italiana vista da una classe di alunni di terza media, per poi incentrarsi sulla figura chiave dell’italiano medio ormai sfiduciato dalle tante promesse e di un mondo politico caratterizzato solo dall’interesse di raggiungere solo i propri obiettivi e dall’ipocrisia. La storia è ambientata tra la fine del 2002 e l’inizio

Tappe principali: •Via dei Ramni(zona Tiburtina): casa Caterina

Immagine 1: androne condominio


•Via dei Ramni(zona Tiburtina): scuola Caterina

•Piazza Farnese: casa Margherita


•Monte dei Cocci(Testaccio): presso la tomba di un poeta conosciuto da Margherita


•Via Appia Antica: casa Daniela

•Piazza di Spagna: appuntamento tra Caterina e il cugino di Daniela


Analisi In “Caterina va in città”, Roma assume un ulteriore ruolo rispetto ai film precedentemente analizzati. La protagonista è inizialmente spaesata e spiazzata dalle modalità con cui la città viene vissuta tanto da ammettere di sentirsi “trasparente”; i luoghi attraversati dalle riprese sono pochi, infatti il cuore del film è costituito dalla casa dove vive Caterina e la sua famiglia e la scuola che lei frequenta. Quasi tutte le altre scene si svolgono nei luoghi della “Roma bene” quasi a voler sottolineare nettamente e costantemente il divario che c’è tra la vita di una famiglia media italiana e quella di altre benestanti. Gli scenari selezionati da Virzì sono ricchi di storia e sono simbolo spesso dell’arte e dell’architettura italiana, nel caso specifico romana; ma la povertà d’animo dei personaggi che abitano questi luoghi è agghiacciante. Altro aspetto da sottolineare è il rapporto tra città e campagna, ben diverso dal concetto di borgata precedentemente citato e analizzato; il cambio di visione dei luoghi a carattere rurale che circondano la città è nettamente cambiato e in questo film visto da due prospettive diverse. Nel caso del padre di Margherita(intellettuale di grande fama) il vivere la campagna, lontano dalla routine cittadina, ha un carattere introspettivo e segue la scia di tutto un filone culturale legato al modus vivendi di matrice hippy. Nel caso invece della famiglia di Daniela, la scelta di vivere in un contesto rurale ha tutt’altro senso e scopo: innanzitutto la tipologia di abitazione è totalmente diversa rispetto a quella del padre di Margherita; da un lato abbiamo infatti un tipico casale di campagna che, sebben ristrutturato, conserva volutamente il carattere tipico di un’abitazione di campagna. Dall’altro ci imbattiamo invece in una sfarzosa villa anche se non di nuova costruzione; ciò che si vuole sottolineare è il lusso e la capacità di poter condurre una vita culturalmente ricca anche se immersi in luogo che per antonomasia è sempre stato lontano dal concetto di cultura. La città perciò in questo caso è analizzata nel senso più ampio del termine e cioè come luogo che conserva al suo interno degli scenari preziosi e di carattere storico, delle aree popolari e che è circondata dalla natura nonostante il concetto di limite sia, come gia detto, ormai un argomento molto complesso.


Bibliografia Storia del cinema italiano. Giampiero Brunetta, Editori riuniti, anno 1982 Il cinema a Roma, Flaminio Di Biafi, Palombi editori, anno 2003 Roma movie walk, Giovanna Dubbini_ Daniela Narici, Palombi editori, anno 2013 Roma moderna, Da Napoleone I al XXI secolo, Italo Insolera, Piccola Biblioteca Einaudi, 2011 Da internet: Wikipedia e “Il Davinotti�


La nuova frontiera della città e la crisi della borghesia Per comprendere fino in fondo i meccanismi e i passaggi che hanno portato alla delineazione della configurazione contemporanea di Roma è importante focalizzare la propria attenzione, anche se brevemente su quello che accadeva nel resto d’Europa intorno alla metà del 1800. Questo fu il secolo in cui presero forma tutta una serie di problematiche legate all’espansione urbanistica, fortemente influenzata dal fenomeno dell’industrializzazione. Parigi: Haussmann impone assi e piazze geometricamente ispirate ai canoni barocchi, ma spazialmente e volumetricamente coerenti con le esigenze della borghesia emergente (difesa, grandeur, le facciate imposte, ecc.). Definisce così un grande telaio di viabilità che tratta la città preesistente come materiale plastico da riconfigurare demolendo e ricostruendo. Vienna: il Ring celebra la borghesia imperiale, le sue istituzioni e i suoi spazi. La Secessione sta per arrivare, ma con il Ring siamo ancora alla fase eroica dell’impero Asburgico; le mura e il “glacis” sono l’occasione per “rifare” la città. Barcellona: la spinta allo sviluppo della borghesia catalana, che di qui a poco produrrà il modernismo e Gaudì, genera l’idea geniale di una espansione assai ampia, che crea un tessuto geometrico capace di accogliere forme tra loro diverse in uno spazio urbano dignitoso e a volte addirittura solenne. La città storica è lasciata da parte. Sorya y Mata: esprime l’utopia riformatrice dell’ingegneria applicata alla città: con lui entriamo già nella stagione degli utopisti francesi, di Howard, fino a Hilberseimer e Le Corbusier. Ciò che sottende i modelli è, come detto prima, il fenomeno del tutto nuovo nella storia finora conosciuta, della formazione della città industriale. Presenza imperiosa e indiscutibile. Occorre darle spazio, aprendo e sventrando la città storica (Parigi e Vienna), oppure realizzando altrove la nuova città (Barcellona).

1931

1962 nuovo Piano Regolatore al quale verranno apportate due varianti generali, una nel 1967 e l’altra nel 1974

2008

il 20 marzo il Consiglio Comunale approva il nuovo PRG

1909

Piano Regolatore di Piacentini, Giovannoni e altri su incarico del Governatorato di Roma

1883

Piano Regolatore di Alessandro Viviani a modifica e integrazione del precedente

primo Piano Regolatore rimasto sulla carta

1873

il 10 febbraio in Consiglio comunale approva il nuovo PRG di Edmondo Sanjust di Teulada

Dopo questa breve introduzione a quello che è stato un periodo storico fondamentale per la delineazione e conformazione delle principali città europee(sotto un punto di vista urbanistico, architettonico e sociale), passiamo all’analisi dei meccanismi di sviluppo urbano e di tutto ciò che ne comporta, innescatisi nella città di Roma. Fondamentale per orientarsi attraverso gli anni della trasformazione, è avere un asse temporale in cui è possibile individuare le principali tappe storiche, che hanno come protagonisti i numerosi Piani Regolatori studiati, ideati e messi in atto per e nella capitale.


PRG 1873(Viviani- Pianciani) Il piano si riferisce al territorio entro le mura e prevede nuovi quartieri per poco più di 150mila abitanti su 278 ha e una zona industriale di circa 28 ha (Testaccio). Gli ampliamenti principali sono ad est, per quasi metà della crescita demografica complessiva e ad ovest in riva destra del Tevere per circa un quarto. In realtà l’ampliamento della città ad ovest (Prati di Castello) non è formalmente inserito nel piano, bensì approvato come progetto esterno al piano ma sarà inserito, ampliato, nel piano del 1883. Nelle zone già edificate si prevedono integrazioni o completamenti (Trastevere, Gianicolo); nell’area di Testaccio, assieme alla zona industriale, si prevedono nuove case per una quota molto piccola. Poiché i nuovi quartieri circondano la città storica, per spostarsi dall’uno all’altro si prevedono arterie che la attraversano rendendo necessarie molte demolizioni (in nero nella mappa). Queste sono finalizzate solo all’attraversamento, non a creare una diversa organizzazione dell’intero sistema stradale urbano. Non c’è, nel piano del ’73 alcuna ispirazione che venga dalle trasformazioni urbane che hanno caratterizzato la scena europea negli ultimi venti anni. Non si guarda né alla Parigi di Haussmann, né alla Barcellona di Cerda, né alla Vienna del Ring. Quanto ai tipi edilizi il piano non li definisce, né in termini generali né in relazione ai singoli quartieri o alle loro parti. In genere i fabbricati che si realizzano dopo il piano sono “case di affitto” di quattro o cinque piani, più il piano terreno, che si erano andate affermando dall’inizio del secolo e che avevano caratterizzato l’espansione ottocentesca di Torino. Sono tipi oggi ben visibili nei quartieri dell’Esquilino, del Celio, di Castro Pretorio, di Prati di Castello, sostanzialmente realizzati secondo le previsioni del piano del ’73. In qualche caso, come lungo il perimetro di piazza Vittorio, secondo la tradizione torinese e settentrionale in genere, si sono introdotti i portici. Il nuovo sindaco Venturi, che succede a Pianciani nel luglio 1874, sospende le iniziative di esproprio e non perfeziona l’approvazione del piano. La delibera comunale non sarà mai inviata al Re per il decreto. Il primo Piano di Roma non diventa legge.


PRG 1883(Viviani) Negli anni seguenti alla sua adozione in Consiglio comunale il piano Viviani, pur privo di approvazione formale, costituisce una guida alle realizzazioni dei nuovi quartieri e delle opere pubbliche principali. Vengono avviati i primi cantieri per i fabbricati di abitazione intorno a piazza Vittorio, a via Nazionale, al Celio, a Testaccio. Anche fuori piano si costruisce, come ad esempio a S. Lorenzo, fuori le mura. Nel corso degli anni ’70 si pone con sempre maggior forza il problema del finanziamento delle opere necessarie al nuovo assetto della capitale. Nel 1879 il Presidente del consiglio A. De Pretis presenta alla Camera un disegno di legge per il Concorso dello Stato per le Opere Edilizie della Capitale. Nel corso dell’anno successivo Governo e Comune (sindaco E. Ruspoli) discutono e approvano una convenzione in base alla quale il Comune si impegna ad approvare il piano regolatore entro il 1881, e lo Stato a versare 50 milioni di lire per le opere della Capitale. 14 maggio 1881: la legge n. 209 approva una convenzione con il Comune e obbliga il Comune stesso a sottoporre il Piano regolatore ad approvazione governativa entro il 31 dicembre 1881. Per rispondere agli impegni assunti il Consiglio Comunale incarica il direttore dell’Ufficio Tecnico Comunale, ancora l’ing. A. Viviani di elaborare il piano regolatore. L’ 8 marzo 1883 è emanato il decreto legge che rende operante il Piano Regolatore la cui validità resta fissata in 25 anni. I nuovi quartieri (nella mappa in rosso scuro quelli in costruzione, in rosa quelli da realizzare) di ampliamento della città sono sostanzialmente gli stessi definiti dal piano di dieci anni prima con poche aggiunte o ingrandimenti: Prati di Castello, Gianicolo e Trastevere, Testaccio, Aventino e Flaminio. Le modifiche più rilevanti riguardano la necessità di ampliare ed accelerare la realizzazione delle opere pubbliche; il piano individua perciò le localizzazioni di grandi attrezzature militari, per il Palazzo delle Esposizioni, per le facoltà scientifichedell’Università al Viminale e per il Policlinico.


PRG 1909(Nathan e Sanjust) Poco dopo l’approvazione del piano del 1883 il Governo De Pretis approva una nuova legge (n. 1482 dell’8 luglio) che stabilisce un ulteriore prestito di 150 milioni di lire al Comune di Roma per la realizzazione di opere pubbliche. Ciò contribuisce, assieme all’abolizione del “corso forzoso” che da qualche anno ha riaperto l’Italia ai capitali internazionali, a creare una nuova attenzione degli investitori per l’edilizia romana. Inizia così la “febbre edilizia” che nei successivi tre quattro anni vedrà l’apertura di numerosissimi cantieri e la produzione di oltre 15-20.000 vani l’anno; ma già tra la fine del 1886 e il 1887 la produzione edilizia si riduce e alla “febbre” subentra la “crisi”che durerà non poco. Nei 25 anni di vigenza il piano del 1883 è stato in buona parte realizzato, soprattutto per le previsioni di nuovi quartieri. Sono stati realizzati anche molti insediamenti “fuori piano”. In molti casi si tratta di convenzioni,anche di grandi dimensioni, che il Consiglio comunale approva e che vengono poi inserite come varianti nel Piano. Il più importante tra i quartieri realizzati “fuori piano” è il quartiere Ludovisi, la cui costruzione si compie grazie ad una convenzione stipulata tra il Principe Ludovisi e il Comune di Roma nel 1986. Convenzione non prevista nel piano approvato tre anni prima e che provocherà la totale distruzione della Villa Ludovisi, una delle più belle di Roma, nota in tutta Europa. Fuori piano sono anche l’edificazione di S. Lorenzo o gli insediamenti industriali lungo la Casilina e la Prenestina, o all’interno delle mura, l’edificazione lungo la via Carlo Felice, per due terzi realizzata prima del 1909. Il 10 febbraio 1909 viene adottato in Consiglio il nuovo Piano Regolatore. Il sindaco è Ernesto Nathan e il tecnico che redige il Piano è Edmondo Sanjust di Teulada; purtroppo dopo due anni, l’esperienza di Nathan si concluderà, il blocco popolare perderà la maggioranza in Consiglio Comunale e in Campidoglio torneranno i sindaci dell’aristocrazia papalina. Il Piano si riferisce ad un territorio di circa 5.000 ha, grosso modo coincidente con quello compreso all’interno della cintura ferroviaria; vengono introdotti tre tipi edilizi: fabbricati, villini e tipo“villa” (all’interno delle aree classificate “parchi e giardini”). Sarà la distribuzione dei diversi tipi edilizi a caratterizzare il disegno del piano. Ma già dopo soli otto anni dal regolamento del 1912, con il nuovo regolamento del 1920 redatto sotto la pressione dei proprietari delle aree destinate a villini che pretendevano di poter realizzare edifici di maggiori dimensioni, si permetterà di sostituire ai villini le palazzine: un nuovo tipo edilizio che nei decenni successivi diventerà, assieme agli intensivi che sostituiscono i fabbricati, la forma più diffusa della crescita urbana.


PRG 1931(Giovannoni) Nel 1916 , a meno di sette anni dall’approvazione del Piano di Sanjust l’Amministrazione capitolina ora espressione di maggioranze opposte a quelle che avevano sostenuto il Sindaco Nathan, istituisce una commissione tecnica per la sua revisione. Ne fa parte tra gli altri Gustavo Giovannoni: le sue posizioni contrarie alle demolizioni e all’”haussmanizzazione” del centro storico e favorevoli invece al recupero e alla tutela dei monumenti, alla eliminazione di superfetazioni ed edificazioni improprie attraverso il “diradamento”, sono ampiamente espresse nella relazione consegnata due anni dopo (1918). Inizia da ora il progressivo smantellamento del Piano di Sanjust. Il primo passo è la sostituzione dei villini con le palazzine. Da allora il tipo edilizio della palazzina ha avuto grande fortuna “non solo presso i proprietari dei suoli ma anche presso gli inquilini. Divenne infatti il tipo edilizio preferito dalla borghesia romana” e nel secondo dopoguerra è stato assai diffusamente utilizzato per costruire quella che il nuovo piano regolatore del 2003 chiama “città consolidata”. Le possibili concessioni del 1920 sono diventate, nei decenni successivi pratiche costanti, a volte sancite dai regolamenti successivi, e le “palazzine”, con i loro piani terreni di negozi, i quattro piani più attico, i balconi e i distacchi risicati dai quali spunta un po’ di verde sono oggi il paesaggio tipico di molti quartieri della città. Nel luglio 1923 viene nominata una nuova Commissione “per lo studio della riforma del piano regolatore di Roma” di cui fanno parte fra gli altri Giovannoni e Marcello Piacentini. Ormai si tratta di sostituire il Piano del 1909 con un altro e nel contesto di una dittatura ormai affermata Mussolini propugna l’ideologia della “romanità”. Perché Roma diventi la capitale del fascismo occorre ricollegarsi agli splendori imperiali, fare piazza pulita di ciò che si è realizzato “nei secoli della decadenza”: nei quindici anni successivi le demolizioni nella città storica saranno numerosissime. Nel 1930 il Governatore, principe Boncompagni Ludovisi nomina una Commissione, da lui presieduta, per la redazione del nuovo Piano regolatore. Ne fanno parte, tra gli altri, Giovannoni, Piacentini, Muñoz e altri rappresentanti degli Ingegneri e degli Architetti. Il progetto di Piano è presentato a Mussolini nell’ottobre del 1930 e viene approvato nel 1931. Il Piano si applica ad un territorio di circa 14.500 ha ed è dimensionato per un aumento di popolazione di circa 1 milione di abitanti. Prevede dunque che entro il suo termine di validità (25 anni) la popolazione della città, che nel 1931 era pari a 937.177 persone, raddoppi arrivando a circa 2 milioni di abitanti. Si introducono tre nuovi tipi edilizi, destinati soprattutto a residenze per gli alti redditi, localizzati essenzialmente nei territori occidentali esterni, tra la Cassia e la Portuense: villini signorili, ville signorili e case a schiera. I tipi edilizi fondamentali del Piano, quelli ai quali è affidato il compito di accogliere l’aumento di popolazione previsto, restano comunque quelli “tradizionali” e cioè le palazzine e gli intensivi; si può dunque valutare che questi ultimi avrebbero dovuto ospitare oltre i tre quarti della nuova popolazione prevista dal Piano.


PRG 1962- 1965 Negli anni del secondo dopoguerra la disciplina urbanistica che governa il territorio di Roma è formalmente ancora quella del piano del 1931, e dei numerosissimi piani particolareggiati e loro varianti che si continuano ad approvare. Il 24 giugno 1959 la nuova versione del piano è adottata dal Consiglio Comunale e scattano le norme di salvaguardia che scadranno tra tre anni, il 24 giugno 1962. La struttura del piano adottato dal Consiglio comunale è il frutto di numerosi compromessi e rispecchia sia alcuni elementi dell’impostazione del CET, e quindi di una cultura urbanistica riformatrice che punta ad un assetto nuovo della città, sia altri elementi tipici dell’impostazione tradizionale e conservatrice che aveva espresso il piano del 1931. La crescita residenziale, rappresentata nel disegno del piano dai “comprensori” è localizzata soprattutto a sud, lungo quell’asse “imperiale” verso il mare nato già con l’E42 e che ritorna prepotentemente: qui si riconosce la mai sopita spinta a tornare alle impostazioni dominanti nel ventennio fascista. Il Peep, adottato dal Consiglio comunale il 26 febbraio 1964, ha dimensioni amplissime anche per una città che da oltre un decennio cresce ad un ritmo di 60.000 abitanti l’anno; con una previsione di 712.000 stanze su 5.179 ha e 70 piani di zona è di gran lunga il più grande piano per l’edilizia economica e popolare varato in Italia. In realtà i singoli piani di zona verranno approvati con molti anni di ritardo (l’unico in cantiere negli anni ‘60 è Spinaceto): per tutti gli anni ‘50 e ‘60 l’industria edilizia romana, assestata su una organizzazione tradizionale dei processi produttivi, su un forte intreccio tra rendita immobiliare e profitto di impresa, su tipologie edilizie ereditate dal piano del ‘31 (palazzine e intensivi) non è interessata a forme innovative di “produzione di città” e preferisce operare attraverso i piani particolareggiati ereditati da allora, la cui validità viene prorogata e che permettono di edificare con alte densità nelle zone D del nuovo piano regolatore. Solo all’inizio degli anni ‘70, esaurita la riserva delle zone D, dieci anni dopo l’adozione e permanendo alta la domanda abitativa, si verifica una complessiva riorganizzazione del settore delle costruzioni romana e decollano i nuovi quartieri della 167. A metà degli anni ‘80 il dibattito intorno al secondo Peep, la conclusione nella primavera del 1985 dell’esperienza delle giunte di sinistra senza che si sia intrapresa una seria riflessione sul piano, il successivo dibattito sulla necessità di una nuova legge per la capitale, che verrà approvata dal Parlamento solo nel 1990, sono altrettante occasioni perché emerga una sempre più diffusa percezione del fallimento del piano. Percezione che diventerà dichiarata consapevolezza agli inizi del decennio successivo, nel corso del dibattito in Consiglio comunale sulle proposte di “programma degli interventi” per l’attuazione della legge 396/90 per “Roma capitale”. Fallimento di un piano rimasto formalmente in vigore più a lungo di qualsiasi altro, ma la cui efficacia rispetto agli obiettivi inizialmente dichiarati è stata inferiore a quella di qualsiasi altro.


Comprendere i passaggi che si sono susseguiti nel corso del tempo sotto un punto di vista politico, economico, strategico, urbanistico e sociale, è fondamentale affinchè avvenga uno scambio equo e pertinente tra tutti questi elementi e quelli forniti dai sei film selezionati e che hanno come scenario la città di Roma. Diverse e complesse sono le tematiche emerse dall’analisi delle pellicole ed è proprio per questo che si è scelto di focalizzare l’attenzione su due aspetti in particolare,estremamente legati tra loro: il concetto di confine della città e la “crisi” della borghesia romana. La definizione di confine recita: “Linea reale o immaginaria che segna i termini di una proprietà privata oppure di un territorio, di una regione, di uno Stato.” Come si può evincere dalle mappe riguardanti i vari PRG che si sono susseguiti lungo il corso della storia della città di Roma dal 1873, si può parlare veramente ben poco di confini. L’unica “linea” reale che funge da vero confine è il fiume Tevere, addomesticato anch’esso al volere dell’uomo. Risale al 1870 l’ultima tra le grandi inondazioni della città e questo avevo reso urgente l’adozione di provvedimenti per evitarne altre; tra le varie ipotesi la soluzione scelta fu la costruzione di due grandi muraglioni che superassero con la loro altezza il limite massimo delle alluvioni. I muraglioni furono progettati da Raffaele Canevari e costruiti molto rapidamente nel tratto centrale(all’incirca dai lungotevete RipaSublicio a quelli tra Prati e il Flaminio)e poi variamente prolungati con l’espandersi della

Costruzione muraglioni, 1875

città. Trasformano completamente la città, soprattutto per la loro dimensione; fu un’opera gigantesca che interessò tutti i rioni. Le strade, le piazze, i vicoli che prima si affacciavano sul Tevere furono bloccati e trasformati in “cortili”; con l’arrivo delle automobili i lungotevere divennero delle autostrade, dapprima a doppio senso di marcia e in seguito unico. Appurato che il Tevere è stato l’unico vincolo ma non ostacolo reale per Roma, è facile notare come questa si sia sviluppata nonostante i vari piani regolatori a “macchia d’olio” per utilizzare un’espressione spesso citata da Italo Insolera. Il periodo della cosiddetta febbre edilizia fu fondamentale per lo sviluppo ed il mutamento dei confini della capitale: i “mercanti di campagna” diventarono i mercanti di terreni fabbricabili e impresari edili. Le tipologie edilizie che scaturirono da questa rivoluzione urbanistica furono due: i villini con giardinetto signorile e le case d’affitto per il ceto medio costituite da quattro-cinque piani. L’espansione popolare però non tardò a sovrapporsi a quella borghese: ed è questa stessa a provocarla; gli stessi contadini laziali o abruzzesi, immiseriti nei loro paesi, che si offrivano prima del 1870 a Piazza Montanara a Piazza Farnese per le semine, la mietitura, le fienaggini nell’Agro malarico, si trasformano nelle migliaia di muratori di cui la febbre edilizia aveva bisogno. Gli ex braccianti, diventati manovali, cominciarono a costruire vicino alle ultime case di Roma delle baracche di fortuna; le conseguenze sociali sono evidenti: non erano i cittadini della nuova Roma che si costruivano la loro città e non c’era in questa un nuovo ambiente che venisse mano a mano formandosi. Una gran massa di persone provenienti da ambienti diversi, conservando abitudini e bisogni dell’ambiente sociale che


avevano abbandonato, conviveva in un rapporto provvisorio con una popolazione che chiamava loro “cafoni”, come chiamava “buzzurri” gli impiegati immigrati, e sembrava comunque poco partecipe a questo grande indaffararsi dei “cafoni” a costruir case per i “buzzurri”. All’indomani della “grande crisi” che seguì la febbre edilizia, Roma ha cambiato volto: non è solo mutato il suo paesaggio urbano, fatto ora di grandi fabbricati color ocra e di grandi cantieri abbandonati, ma è anche cambiata la situazione economica, sociale e politica. Prima è stata l’immigrazione del ceto medio ministeriale ad alterare il rapporto aristocrazia-plebe della vecchia città papale, adesso l’immigrazione di ex contadini, muratori, manovali, ha portato alla formazione di un numeroso proletariato, anche se in contraddizione con il mancato sviluppo industriale. Come accennato in precedenza chi la fece da padrone in questo panorama urbanistico dai confini sempre più labili se non inesistenti fu la tipologia edilizia denominata palazzina in origine caratterizzata da un’altezza di circa 19 metri, 4 piani oltre l’attico e una minima parte di terreno destinata a giardino che andava scomparendo del tutto in prossimità della strada. L’”operazione palazzina” ha gia inizio prima della grande guerra con l’obiettivo di introiti maggiori da parte degli impresari edili e del soddisfacimento della borghesia romana che aveva scelto proprio questa tipologia edilizia come prediletta. Gli inquilini ridotti ad una sola dozzina di individui(contro gli affastellamenti delle borgate), possono così credere di abitare in una casa individuale o quasi; in questo avere di tutto un poco, si finisce per abituarsi come se si avesse in realtà quel tanto che si desidererebbe e vorrebbe. La palazzina diventa spesso compromesso che salva apparentemente ogni desiderio e ogni valore; le palazzine costruite tra il 1920 e il 1930, e poi tra il piano regolatore del 1931 e l’ultima guerra, e ancor di più negli anni del secondo dopoguerra, costituiscono la grande maggioranza delle costruzioni: il volto attuale della Roma del ceto medio, della Roma borghese, è costituito dalle palazzine. E dato che Roma rimane sempre essenzialmente una città borghese, si può affermare che questa sia costituita in gran parte da palazzine. Alla crisi del primo dopoguerra si cercò di rimediare favorendo la costruzione di quanto più possibile da tutte le parti; la Roma borghese si stacca sempre più dalla Roma popolare: al distacco, alla rottura sociale seguirà negli anni del fascismo l’allontanamento topografico con la demolizione dei quartieri poveri nel centro della città. Il dialogo tra città borghese e popolare si evita preferendo ignorare l’esistenza della periferia, mantendendola perpetuamente in una situazione senza sbocchi ed infatti le baracche aumentano enormemente nel dopoguerra. Nuclei di case poverissime si affiancano alle principali vie consolari; queste prime “borgate” romane sorgono favorite dalla presenza di alcune vie ferroviarie. Mentre la propaganda fascista cominciava a proclamare che “Roma deve apparire


meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente, come ai tempi del primo impero di Augusto” e mentre si cominciava a creare il mito dell’Urbe, non si poteva certo ammettere che le baracche facessero parte dell’organismo urbano e che fosse compito e responsabilità dell’intera società operare per la loro scomparsa. L’unico sistema che si dimostrò valido per demolire le baracche fu ancora quello consueto di costruire al loro posto case signorili, di scacciare cioè le baracche e i baraccati più lontani dall’avanzante “classe dirigente”. I confini della città così facendo si allargano ancora di più, diventando quasi inverificabili soprattutto perchè tra le aree”bonificate” dalle baracche e i nuovi lotti destinati al trasferimento dei baraccati, vengono a crearsi delle zone interstiziali, delle vere e proprie pause dal contesto urbano. Questi vuoti marcano ancora di più la lontananza fisica e sociale tra la borghesia romana e la classe estremamente povera ma allo stesso tempo estremamente numerosa. I “saldamenti” perciò diventano una delle tipiche forme dell’espansione di Roma, vittime anch’essi di una profonda speculazione edilizia e della quasi totale mancanza di criteri urbanistici.E’ per questo che parlare di confini della città, quando Roma è al centro del discorso, risulta realmente difficile, ed proprio in questa immagine di labilità dei confini che si inserisce la crisi della borghesia. Per sviscerare meglio l’argomento prenderemo come riferimento due film: l’Eclisse di Michelangelo Antonioni(1962) e Caterina va in città di Paolo Virzì(2003). Stato d’animo comune ad entrambe le pellicole è quello dello spaesamento. E’ importante poter far capo a due range temporali distinti e distanti poichè differenti saranno le motivazioni di questo spaesamento che attraversa la classe sociale per eccellenza romana: la borghesia. Nell’Eclisse, una strordinaria Monica Vitti, riesce a trasferire su di se, mediante i senti-

Scena dal film “L’Eclisse”

menti, i gesti e le emozioni del personaggio che interpreta, la sensazione di sospensione. Le scene sono girate, si può dire, interamente nel quartiere EUR: questo è ritratto come se fosse un paesaggio lunare o comunque come se qualcuno l’avesse preso da tutt’altro contesto e calato improvvisamente in quell’area. I personaggi vagano lungo vie deserte, enormi e che costeggiano spesso numerosi cantieri abbandonati, come se questi luoghi non gli appartenessero affatto alla ricerca di un qualcosa, ma di cosa? Chi si insediò all’EUR


quando gli scenari erano realmente questi, avrà provato certamente un sentimento di totale spaesamento: la borghesia vuole essere lontana dai ceti inferiori, non vuole vedere situazioni di degrado da vicino ed è per questo che bisogna spostarsi, sempre di più, sempre più lontano fino ad arrivare in non luoghi proprio come lo era il quartiere EUR agli inizi della sua storia. E’ un quartiere dotato di possenti strutture, di aree verdi, di grandi strade e di palazzi dalle rifiniture pregiate ma nonostante ciò è possibile vedere la campagna in lontananza. Oltre le schiere di condomini signorili c’è la natura da sempre sinonimo di salute e libertà, eppure, proprio come la Vitti si rimane intrappolati nell’illusione di avere tutto ciò che si desidera in quella porzione di città; abbandonare quest’ultima non è ancora ammissibile, da un lato perchè fuori i “confini” della città vive la Roma popolare e dall’altro perchè non si può ancora parlare di metropoli con tutto ciò che di negativo comporta. Il senso di spaesamento rimane e perdura in questi pezzi di città non ben definiti; ma con il passare degli anni e con la messa in dubbio totale di quali sono realmente i fattori che rendono soddisfacente la vita quotidiana di un individuo o della collettività, questo spae-

Scena dal film “L’Eclisse”

samento si trasforma e si orienta verso altri scenari. Ecco che allora per analizzare la seconda accezione, che la borghesia romana ha dato al concetto di spaesamento, ci serviamo del film “Caterina va in città”; la protagonista, Caterina per l’appunto, si traferisce da un paese di provincia a Roma: l’intento è quello di evadere dal piattume e dagli sbocchi limitati e limitanti che un piccolo centro offre. La ragazzina si iscriverà ad una scuola frequentata dalla nuova borghesia, diversa da quella dipinta da Antonioni. I ritmi sono frenetici, le pretese sempre più pressanti e i ruoli dei singoli individui completamente ribaltati; tutto ciò crea anche in questo caso un forte senso di spaesamento dai risvolti pratici però totalmente differenti. La campagna, in precedenza evitata con cura perchè accostata mentalmente alle borgate ma soprattutto a chi le abitava, ora viene riscoperta. Per soffocare lo spaesamento dato dal caos e dai ritmi serrati che la Roma del duemila ti obbliga a seguire, la nuova borghesia romana decide di scappare e questa volta non in un altro lotto finemente costruito ma in campagna. La prospettiva perciò cambia radicalmente: se prima si guardava con aria malinconica e poco coraggiosa la natura, ora è la città ad essere osservata così. In ogni caso, scappare o appropriarsi di luoghi che non fanno parte del proprio essere, mantiene vivo quel senso di spaesamento e sospensione. Città come Roma sono in continua espansione e mutamento; ieri le borgate erano abitate da gente si povera ma pur sem-


pre appartenente alla stessa nazione del borghese. Oggi gli extracomunitari senza impiego e i senza tetto sono diventati i nuovi “borgatari” da spostare sempre più lontano e il senso di spaesamento che spesso perdura è unito a quello di pericolo. Finchè non si opererà nell’interesse della collettività e non solo di quello delle stesse e limitate cerchie sociali, le dinamiche non potranno mai cambiare ma andranno sempre peggiorando.


Archiettura Romana

1900

20

30

Fascismo (1922-1943)

40

Seconda Guerra Mondiale (1939-1945)

50 Miracolo Ecomomico 60


Quando, in Italia, nasce il movimento moderno, si è già in piena dittatura fascista, impegnata nel regolare ogni aspetto della vita nazionale, architettura compresa. In questo periodo architettonicamente variegato, troviamo tra le due maggiori tendenze il razionalismo, in sintonia con le tendenze europee del funzionalismo, e il monumentalismo o neoclassicismo semplificato. Nel 1927 si forma il Gruppo Sette di cui fanno parte Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava, Giuseppe Terragni e Ubaldo Castagnoli, sostituito poi da Adalberto Libera. Nel 1930 questi stessi architetti fondarono il M.I.A.R., Movimento Italiano per l'Architettura Razionale al quale aderirono 47 architetti; tra i quali Giuseppe Pagano, Mario Ridolfi, Pietro Aschieri. Questo movimento culturale riprende ed elabora i temi del Movimento Moderno Europeo, senza però rispondere alle esigenze di monumentalità e di richiamo al passato richieste dal regime, portando il movimento a sciogliersi nel 1932, sotto la minaccia di espulsione dal Sindacato Fascista degli Architetti. Quest’ultimo intanto creava il RAMI Raggruppamento Architetti Moderni Italiani che si dichiara a favore dell'Architettura Moderna ma anche alla continuità del passato nel presente, rifiutando il lavoro di gruppo a favore dell'esaltazione delle singole personalità. Il Neoclassicismo Semplificato, invece, fu elaborato da Marcello Piacentini, noto per essere l’architetto del regime. Egli considera due aspetti: la modernizzazione vissuta come continua ricerca di innovazione stilistica ed il richiamo ai canoni architettonici classici. La sua ricerca stilistica lo porta ad adattare alcune idee razionalistiche del Gruppo 7 con la monumentalità che caratterizzò il simbolismo architettonico fascista;così nacque lo stile littorio. Questo stile reinterpreta in chiave moderna l'architettura classica, ma piuttosto che rielaborare le decorazioni ed alleggerirle, tende ad eliminare del tutto o quasi le decorazioni e i dettagli architettonici,esaltando il monumentalismo e l’eroismo delle strutture urbane. Il materiale principalmente usato per il rivestimento degli edifici è il travertino, per gli interni vengono usati marmi, tufo e peperino, i classici materiali usati a Roma a partire dai tempi imperiali.

Riqualificazione Centro Storico Il centro di Roma in quegli anni fu il fulcro di importanti lavori di riqualificazione. Il motivo era principalmente dettato da ragioni simboliche atte ad isolare i monumenti e farli,come disse Mussolini, "giganteggiare nella necessaria


solitudine". Il regime fascista aveva nei suoi progetti quello di ristrutturare i centri storici, come Via della Conciliazione, con la conseguente demolizione della Spina di Borgo,permettendo la visione di San Pietro da lontano. Distrussero così la logica progettuale di Bernini che dovette costruire un accesso alla grande piazza ad effetto:inoltre per mitigare l’eccessiva larghezza della via, fu creata una doppia fila di obelischi detti “lanternischi”. I lavori vennero interrotti durante la Seconda Guerra Mondiale e ripresi nel dopoguerra. Un’altra grande demolizione ebbe luogo tra Piazza Venezia e il Foro Romano, con l’eliminazione di alcune case fatiscenti che nascondevano la vista delle rovine; fu costruita così la scenografica Via dell’Impero (oggi Via dei Fori Imperiali), che unisce Piazza Venezia al Colosseo.

La Palazzina novecentesca Il regime lasciò nell'edilizia privata una certa libertà creativa e quindi l'uso di vari stili tra i quali il razionalismo, il barocchetto romano e il liberty. Per Barocchetto Romano si intende quello stile simile al barocco, ma con modanature di sapore medievale; pur essendo un’ ambito popolare in cui si usavano stucchi e calce bianca al posto dei marmi, ci sono particolari interessanti come le figure di animali riscontrabili nei fregi o l'utilizzo estensivo di decorazioni floreali. Varie furono le palazzine costruite in questi anni a Roma. La palazzina Nebbiosi,ad esempio, progettata da Capponi nel 1932, è disegnata attraverso una lettura in chiave moderna con geometrie tipiche di alcune opere barocche. Capponi costruì un edificio molto particolare caratterizzato dalle scanalature semicilindriche delle facciate che consentono di arretrare alcuni ambienti e di eliminare il cortile centrale che può così essere sostituito da due chiostri che illuminano la scala ed ambienti di servizio. Le superfici esterne sono prive di aggetti e ricoperte con lastre di travertino nella facciata sul lungotevere, intonacate e dipinte "color travertino" sulle altre. La Palazzina Colombo, in via di S. Valentino, può essere considerata tra i modelli del razionalismo romano. Realizzata da Mario Ridolfi e Wolfango Frankl, insieme alla Palazzina Rea rappresenta una tappa fondamentale nella ricerca sull'abitazione in Italia nel periodo del fascismo. Il prospetto frontale è caratterizzato dalla presenza di balconi continui, sui quali affacciano i spazi di soggiorno, mentre gli altri prospetti sono marcati dalle bucature delle finestre intervallate dagli aggetti dei balconi. Lo studio di Ridolfi si


occupò anche della progettazione degli arredi fissi e degli infissi, concretizzando quindi l’ideale della progettazione integrata a tutte le scale del progetto, prerogativa fondamentale del razionalismo. La palazzina Furmanick, invece, rappresenta uno dei capolavori del razionalismo italiano. Fu progettata da Mario De Renzi in collaborazione con Pietro Sforza e Giorgio Calza Bini nel 1935.L'uso del cemento armato e della pianta libera fa si che sulla facciata principale predomini l’orizzontalità, data dall’alternarsi equilibrato di fasce piene e di zone d’ombra dovute alle grandi aperture continue. I prospetti laterali, che affacciano su strade secondarie, vengono definiti da una parete continua su cui si aprono finestre quadrate. Il procedimento logico segue l’alternarsi di pieni e di vuoti, di sbalzi e rientranze, un modo per conferire uno svuotamento del volume unitario di base. Agli ultimi due piani era ubicato un grande alloggio con giardino pensile destinato al proprietario. Ogni alloggio, quindi, ha la zona giorno rivolta verso il lungotevere, caratterizzata da una loggia a sbalzo, mentre la zona notte è situata sui fianchi e sul retro.

Opera Nazionale Balilla L'ONB fu fondata nel 1926 come ente autonomo e confluì nella GIL a partire dal 1937. La denominazione fu ispirata da Giovanni Battista detto "Balilla", giovane genovese che secondo la tradizione avrebbe dato inizio alla rivolta contro gli occupanti austriaci nel 1746: immagine di modello rivoluzionario cara al regime. L'ONB era finalizzata all'assistenza e all'educazione fisica e morale della gioventù. Vi avrebbero fatto parte i giovani dagli 8 ai 18 anni. Nel 1933 Renato Ricci, il presidente dell'ONB, conobbe Luigi Moretti, che divenne il direttore dell'ufficio tecnico al posto di Enrico del Debbio che aveva lasciato l'associazione. L’incarico per la realizzazione del complesso destinato all’assistenza della gioventù fu affidato a Moretti. Dagli studi emerge la difficoltà di collocare in un lotto dalla superficie limitata e irregolare un articolato numero di funzioni: uffici di rappresentanza, spazi per attività ricreative e assistenziali, sanitarie e lavorative. La complessa distribuzione planimetrica trova soluzione nella coraggiosa ed innovativa sovrapposizione delle tre palestre previste dall’incarico: un unico blocco costruttivo che vede al piano terra la palestra chiusa, destinata alla boxe e alla scherma, e le altre due aperte seppure ubicate al primo e secondo piano dello stesso fabbricato. L’organizzazione spaziale interna si risolve in una sequenza di ambienti e funzioni, originaria-


mente senza interruzioni, che procede dall’ingresso all’estremo della fabbrica. Indicata da Moretti quale prima delle sue opere più importanti e significative, la Casa del Balilla a Trastevere è espressione di forti capacità progettuali che evidenziano, nonostante la giovane età del suo autore, una approfondita conoscenza sia della spazialità dell’architettura del passato che dei caratteri innovativi delle contemporanee correnti razionaliste.

Il Foro Italico L'attuale Foro Italico, all'epoca denominato Foro Mussolini,fu edificato tra il 1928 come un grande complesso sportivo ed educativo. La data di nascita del Foro può essere fissata il 5 febbraio 1928, giorno in cui si tenne solennemente la cerimonia della posa della prima pietra dell'Accademia di Educazione Fisica. L'edificio era stato progettato dal giovane architetto toscano Enrico Del Debbio su commissione dell'Opera Nazionale Balilla. Lo stabile si articola in due corpi laterali simmetrici collegati da uno trasversale pensile, sotto il quale si aprono la vista e l'accesso al retrostante Stadio dei Marmi, tutto circondato dalle colossali statue di atleti, ciascuna offerta da una provincia italiana, così da costituire una specie di museo all'aperto della scultura italiana del primo '900. Il complesso aveva, ed in parte conserva ancora adesso, un accento metafisico che si ispira alle ambientazioni architettoniche prefigurate da Giorgio de Chirico nella fase più famosa della sua pittura, proprie di gran parte dell'architettura del novecento italiano ma che raggiungono qui una particolare predominanza. L'Accademia di scherma, anche nota come Casa delle armi, fu progettato da Luigi Moretti nel 1934. La struttura ha un impianto a elle. Il lato corto rivolto verso il Tevere è bipartito: cieco per metà e segnato da una griglia finestrata gigante orizzontale per l'altra metà. La seconda parte ospitava la vera e propria sala della scherma, lunga 45 metri e larga 25, che consentiva la presenza simultanea sulle pedane di 160 atleti. Le facciate sono rivestite uniformemente in marmo bianco di Carrara. Altro importante progetto commissionato dal Duce e progettata nel 1936 da Luigi Moretto è la Palestra del duce .E' situata al primo piano dell’edificio di Costantino Costantini, proprio in posizione simmetrica rispetto all’Accademia di Educazione Fisica. L’ingresso è un piccolo vestibolo ,con un mosaico pavimentale di marmo bianco, nero e rosso che immette nella zona principale destinata alla ginnastica


del Duce. In uno degli angoli di questo ambiente venne ricavato un piccolo spazio per il riposo e il ristoro, separato per mezzo di una composizione di lastre di marmo intarsiate nel linoleum e arredato. Un grande schermo rivestito di marmo divideva l’ambiente principale dalla fascia dei servizi, distribuiti su due livelli: al primo livello trovavano posto gli spogliatoi, il bagno e la doccia, mentre al livello superiore, servito da una scala elicoidale, era alloggiato uno spazio per la cura del sole artificiale. L’arredamento estremamente semplice non fu disegnato espressamente. Grande importanza venne invece dedicata all’apparato decorativo: rivestimento marmoreo disposto con le venature a specchio a quadruplice apertura, statue in bronzo dorato, mosaici a tessere di marmo nero e bianco. La pianta è un rettangolo allungato con accesso sul lato corto. La struttura è intelaiata in cemento armato; la parete esterna dello spogliatoio in mosaico, quella interna in quercia naturale

La Città Universitaria Nel 1932 Aschieri, Capponi, Foschini, Michelucci, Pagano, Ponti e Rapisaldi sono chiamati da Piacentini a collaborare alla costruzione della nuova Città universitaria di Roma. La scelta stilistica predominante degli interventi è quella indicata da Marcello Piacentini nei suoi progetti in stile littorio. Capponi e Ponti costruiscono due edifici clamorosamente moderni, come l'istituto di Botanica e l'Istituto di Matematica. Ponti viene scelto per la Scuola di Matematica e si distingue per l’originalità dell’impianto e per l’interessante soluzione strutturale del corpo delle aule. Sceglie una soluzione planimetrica in tre volumi distinti che compongono la pianta a ferro di cavallo: nella parte anteriore un edificio rettangolare accoglie la Scuola di Matematica pura, la biblioteca e le sale dei professori; da questo partono due ali curve, più basse, che ospitano le aule di disegno e si richiudono sul volume più alto del complesso, che contiene le quattro aule a gradoni. Nell’Istituto di Fisica di Pagano, il tema razionale è controllato e non esposto. Rappresenta la maggiore opera dal punto di vista razionale, in quanto in essa si legge un nuovo metodo di progettazione: l’edificio pensato per la funzione a cui è destinato.Si presenta infatti come uno degli edifici formalmente più semplici della città universitaria. Il rivestimento esterno dell’edificio è identico a quello degli altri edifici vicini. Il metodo funzionalista portò


Pagano alla divisione dell’edificio in due parti principali, corrispondenti alla Fisica Superiore e a quella Sperimentale. I duecentotrentasette ambienti che componevano l’Istituto di Fisica erano organizzati secondo uno schema legato alle caratteristiche impiantistiche e statiche. L’arredamento, i rivestimenti delle aule e dei laboratori, realizzati in ceramica, in lamiera di acciaio, in legno di rovere e in linoleum, furono progettati secondo criteri di massima flessibilità di utilizzo. Pagano progettò anche elementi speciali per i soli ambienti delle portinerie e configurò ad anfiteatro i banchi delle aule.

Concorso uffici postali Nel 1932 viene proposto il concorso per i quattro edifici postali della nuova città. L'ufficio postale di piazza Bologna di Mario Ridolfi, l'ufficio postale di via Marmorata di Libera e De Renzi, l'ufficio postale razionalista di via Taranto su progetto di Giuseppe Samonà, l'ufficio postale di piazza Mazzini in Prati progetto di Titta. Questi vincitori furono quasi tutti giovani che si ispiravano a idee rezionaliste. La struttura doveva evidenziare, secondo il bando, una facciata simmetrica verso la piazza. Il progetto vincitore presentato nel maggio 1933 da Ridolfi rispettava le richieste del bando: -la suddivisione in tre parti caratterizzate da tre volumi, - una facciata simmetrica verso la piazza, -il volume centrale accentuato e più alto. Nell'ottobre 1933 il progetto viene modificato da Mario Ridolfi stesso che preferì una struttura più compatta dove tutte e tre le parti venissero accorpate. L'edificio presenta una continuità della superficie che si interrompe solamente nelle parti centrali, sul prospetto principale e sul retro; l'involucro diventa una parete senza spigoli con una forma di doppia curvatura. Gli elementi che caratterizzano il prospetto frontale sono la scalinata centrale e la pensilina dell'ingresso; sul retro troviamo la presenza di una parete curtainwall e due cilindri di vetrocemento che coprono due scalinate. Nell'adottare la soluzione di curtainwall, un elemento nuovo nell'architettura razionalista italiana in cui si scopre l'ossatura portante, vediamo come Ridolfi cerca di unire tradizione e modernità tramite la tensione dei materiali: un contrasto tra due opposti, lo scheletro portante e la tamponatura. La ricerca di Ridolfi di integrare volume, spazio interno ed arredi è qui potenziata, anche attraverso il rivestimento di legno degli sportelli, gli arredi della sala di lettere e altri abachi nelle scale. Le due scale a chiocciola che si trovano nelle parti laterali


sono illuminate da pareti di vetrocemento. Le due scale sul retro, differenti per dimensioni e per orientamento, corrispondono in facciata a due fasce simmetriche, le pareti di vetrocemento. L’edificio di Libera e De Renzi fu realizzato tra il 1933 e il 1935 ed è l’unica costruzione sul lato di Via Marmorata caratterizzata da una forte connotazione e slancio razionalista con una forma squadrata ed elementare, in cui l’organismo assume la forma di edificio a corte dimezzata. É un volume a forma di C, composto da elementi con funzioni diverse: al pian terreno i servizi postali, ai piani superiori gli uffici nelle ali laterali e il grande salone degli apparati telegrafici nel corpo centrale. Obbiettivo comune ai due architetti è coniugare modernità e tradizione: da un lato è presente l’elemento nuovo, dinamico in primo piano nel prospetto principale che affaccia su Via Marmorata e dall’altro lato, nella parte retrostante, una forma elementare, astratta, statica, classica che diventa una caratterizzazione tipizzata aggiunta e di supporto al primo. Abbiamo di fronte un volume essenziale, primario, caratterizzato da una diversità strutturale e tecnologica degli elementi. Questa diversità è data dall’eterogeneità delle parti ma non indebolisce l’unità dell’insieme, che diventa straniante fino a proiettarsi in una dimensione metafisica.

EUR Il quartiere Eur ha origine dall’idea del governatore di Roma Giuseppe Botta, il quale, nel 1935, presenta a Mussolini il suo progetto di una “Esposizione universale” in cui possa essere rappresentata ed esaltata la civiltà romana. L’idea fu approvata e si decise di programmarla per l’anno 1942, in contemporanea al ventennale del fascismo. L’area interessata fu identificata in quella allora nota come Tre Fontane. Nel 1937 fu istituito un ente autonomo per progettare la nuova area e l’incarico venne affidato agli architetti Piacentini, Pagano, Piccinato, Rossi e Vietti. L'architetto Piacentini aveva preso il sopravvento sugli altri e si dedicò a delineare quelle che dovevano essere le linee guida del progetto: ampi spazi verdi e imponenti effetti scenografici. Il pensiero era quello di costruire una città del futuro coniugando modernità e architettura classica dell'Impero Romano, e fu realizzata grazie alla creazione di ampi spazi, all'uso massiccio di marmi, vetri e fontane. L'esempio più indicativo di tutto ciò è oggi visibile nell'area intorno a Piazza Marconi (allora Piazza Imperiale). Il progetto di Piacentini fu firmato anche dagli altri architetti


e fu approvato da Mussolini l'8 aprile del 1937. Nell'occasione venne effettuato un sopralluogo e la piantagione simbolica dei pini. Alla fine del 1937 l'architetto fu nominato Sovrintendente ai Servizi dell'Architettura. Da quel momento il gruppo si sciolse definitivamente e agli altri quattro architetti vennero assegnati compiti molto marginali. L'attività dell'Ente E42 (esposizione 1942) comunque procedette spedita. In questi anni furono progettati e iniziati i lavori per alcune delle costruzioni che ancora oggi sono considerati i simboli rappresentativi dell'Eur. Nel 1939 i lavori subirono forti rallentamenti a causa della guerra che era appena scoppiata,e, nel 1942, anno in cui avrebbe dovuto tenersi l’Esposizione Universale, furono definitivamente interrotti. L'elemento simbolo del modello architettonico è il cosiddetto “Colosseo Quadrato”, soprannome dato al Palazzo della Civiltà Italiana, opera degli architetti Guerrini, Lapadula e Romano e ispirato all'arte metafisica. La sua costruzione iniziò nel luglio 1938 e fu inaugurato, anche se incompleto, nel 1940. I lavori si interruppero nel 1943 per poi essere ultimati nel dopoguerra. L'architettura chiaramente vuole riprendere il simbolo di Roma antica, il Colosseo, rivisitandolo però in chiave moderna. Per questo la pianta si presenta quadrata, creando volta per volta degli scorci ritmici che danno un senso di infinitezza delle arcate. La struttura è alta 50 m (68 m compreso il basamento) ed occupa un area di 8.400 mq. Ogni facciata è costituita da una serie di archi disposti in sei file orizzontali e nove verticali che vanno a creare una griglia che si frappone tra le vetrate e l'aperto. Il palazzo è interamente rivestito in travertino, in modo che risalti la geometria delle facciate grazie al contrasto tra il chiaro del materiale e lo scuro delle ombre. Internamente il palazzo doveva ricordare la storia del popolo italico che viene raccontata dall'alto verso il basso. Il Palazzo dei congressi fu realizzato da Adalberto Libera. La facciata è caratterizzata dalle quattordici colonne doriche, in granito, e una struttura rettangolare che fa da contrasto al volume cubico del salone dei ricevimenti coperto da una volta a crociera in metallo, con lunette vetrate. Il complesso contiene poi il Salone dei Congressi e sale più piccole distribuite su due piani. Nell’atrio principale un affresco decora la parete di fondo con la “Scene della mitologia classica e la dea Roma”, in cui la Roma personificata è circondata da papi e imperatori, scene mitologiche e principali edifici della città. Il palazzo Uffici, per le sue peculiari caratteristiche, può essere ritenuto l’edificio “pilota” per tutte le altre architetture del piano urbanistico-espositivo. La complessiva


articolazione dell’impianto, sia nella sua identità costruttiva e architettonica, sia in quella strettamente impiantistica, ne sottolinea il carattere di grande contenitore sperimentale. Fu progettato da Gaetano Minnucci nel 1937 e ultimato nel 1940. L’edificio è un modello di tecnica e tecnologia. La struttura presenta un primo corpo in muratura portante ed un secondo in cemento armato. Il progetto è ispirato a criteri di razionale utilità, tradizione e modernità. L’apparente staticità monumentale è quasi sempre negata da una continua penetrabilità visiva. Vengono inoltre progettati e realizzati gli arredi degli uffici di rappresentanza e quelli ordinari. Il progetto dell'Edificio delle Poste E42 fu affidato allo studio milanese BBPR, la prima stesura del progetto prevedeva tre corpi paralleli collegati tra di loro, variato successivamente in 2 corpi per intervento dell'Ente sui progettisti. tra cui dopo l'accantonamento di Ernesto Rogers fu elimitato dal progetto perché ebreo e Banfi e Belgiojoso si dovettero assentare per ragioni belliche. Rimase il solo Peressutti ad occuparsi della costruzione dell'edificio. I Palazzi dell’INA e dell’INPS sono stati progettati dagli architetti Muzio, Paniconi e Pediconi. Le due costruzioni sono state costruite col cemento armato e ricoperti di marmo proveniente dalle Alpi Apuane. La facciata dei due edifici si sviluppa su tre livellia. I Palazzi dell’INA e dell’INPS formano alla base dei bacini semicircolari all’interno dei quali sono presenti dei giochi d’acqua. I due altorilievi sul palazzo sono in travertino romano. I due altorilievi su questo edificio sono opera di Giuseppe Marzullo e Mirko Basadella. Tutti gli altorilievi si richiamano alla retorica fascista.


Cicli sociali e sviluppo urbano: l’EUR e l’idea di modernità

il quartiere come paradigma della renovatio urbis di Roma

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CICLI SOCIALI E SVILUPPO URBANO

La nostra ricerca si propone di descrivere la nascita e la crescita dell’EUR, concepito da Mussolini come sede dell’Esposizione Universale di Roma del 1942 per celebrare il Ventennio della dittatura fascista in Italia. Descriveremo, analizzandolo per episodi architettonici esemplari, lo sviluppo cronologico dell’EUR, che sin dall’inizio fu concepito come città satellite di Roma, città nuova da costruire dal nulla e nel nulla. Fu costruito, infatti, come mezzo di autoaffermazione e autopromozione di un regime totalitario che vedeva nell’architettura la “sola disciplina in grado di rappresentare la civiltà e il progresso, in una parola, la modernità, di una nazione e di un popolo”, quello fascista italiano. Con questa impresa il regime si compromise con il potere economico del paese in un’operazione di sostanziale speculazione edilizia. Per poi continuare la ricerca anche nel secondo dopoguerra, analizzando i grandi progetti che hanno segnato il carattere del quartiere dell’EUR. Dal Palazzo dello Sport, realizzato da Nervi nel 1955 in occasione delle Olimpiadi del 1960, alla Sede della Esso italiana di Moretti e Morpurgo dei primi anni sessanta, per poi esaminare gli speciali regolamenti urbanistici e legislativi che hanno consentito al quartiere di crescere in modo autonomo rispetto al resto della città, che risulta pertanto essere “funzionale a un tipo di attività come quella direzionale-terziaria e residenziale privata”. Ed infine il presente del quartiere, legato ai nuovi progetti e nuovi interventi, il futuro dell’area, che va espandendosi col passare del tempo.


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CICLI SOCIALI E SVILUPPO URBANO


CICLI SOCIALI E SVILUPPO URBANO

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FONDAZIONI E CRISI DI UN MODELLO URBANO

Fondazioni e crisi di un modello urbano Nel Giugno del 1935, anno tredicesimo dell’era fascista, Bottai propose a Mussolini di presentare la candidatura di Roma all’esposizione universale. L’idea venne accolta immediatamente. Per realizzarla venne istituito un ente autonomo guidato dal Senatore Cini. Dopo numerose proposte, si decise che l’esposizione sarebbe dovuta sorgere con edifici veri, cioè che restassero anche dopo la sua fine, nella zona di Roma detta delle Tre Fontane, allora fuori del perimetro del piano regolatore, verso il mare e Ostia, in terreni ancora usati a fini agricoli. Tale indicazione aderiva alla logica di spingere la futura espansione di Roma verso il mare con un’edificazione di tipo residenziale. Il quartiere si chiamava E42 (Esposizione Universale del 1942). “L’esposizione che viene definita E42, dovrà essere completamente differente dalle altre esposizioni internazionali: molte parti dell’E42 dovranno avere carattere stabile. L’importanza dell’esposizione sarà perciò enorme: una volta finita essa non scomparirà e non lascerà nemmeno quelle poche cose come un ponte, delle strade, un teatro o simili, che tutte le grandi esposizioni costruivano stabilmente. Sarà la struttura stessa dell’E42 a rimanere come cuore di un grande, futuro quartiere cittadino”. Italo Insolera, Roma Moderna, Einaudi, Torino 1971 Nel disegno originale fascista l’EUR era visto come una città di nuova fondazione, che doveva avere una grande coerenza sia attraverso il disegno urbanistico sia attraverso i rapporti fra gli edifici, che sarebbero stati privi di qualsiasi elemento di decoro. Via Imperiale avrebbe collegato direttamente Roma a Ostia passando per il nuovo quartiere, quasi una cerniera fra la città storica e la città verso il mare. Il nuovo asse, fortemente propagandistico e rappresentativo, si dirama da Piazza Venezia e mette in collegamento la città, l’esposizione e il mare. L’area per la grande esposizione era inizialmente misurata in 400 ettari di campagna, che successivamente sarebbero divenuti molti di più. Per supportare il decollo urbanistico, un piano particolareggiato, nel 1937, prevedeva un’intensa edificazione delle aree intorno alla via Imperiale, cioè della fascia compresa fra le mura aureliane e il futuro E42. Della redazione del piano urbanistico furono incaricati Marcello Piacentini e Giuseppe Pagano insieme a Piccinato, Rossi e Vietti. I lavori iniziarono ufficialmente il 28 aprile 1937 con la prima visita del duce per la consacrazione dell’area di più di 410 ettari . A proposito dell’esperienza dell’E42 così scriveva Pagano nelle pagine di Casabella-Costruzioni, che in quel periodo dirigeva: “L’Olimpiade della Civiltà si trasformò in un famedio da marmorino, vinse l’accademia, e sulla piallata acropoli delle Tre Fontane i due miliardi sin ora spesi monumentalizzarono il vuoto […] Marcello Piacentini capitaneggia schiere di architetti disinvolti che scherzano con lo spessore dei muri e con il pubblico denaro offrendo raccapriccianti esempi di leggerezza e gareggiando con gli scenografi da operetta pur di monumentalizzare l’Italia [….] la spudorata esibizione di marmi, di graniti, di metalli e di strutture costosissime serve soltanto ad umiliare, avvilire, oltraggiare il vero e onesto carattere delle maggiori città italiane”.

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Per ricercare adesioni e consensi tra gli architetti italiani verso quella “monumentalità classica”, che il regime aveva ormai chiaramente individuato come il linguaggio in grado di rappresentare nel modo migliore le proprie aspirazioni politiche, si decise di procedere alla realizzazione dei piu importanti edifici dell’E42 attraverso concorsi pubblici. I bandi non lasciavano però grandi margini all’elaborazione di proposte diverse. Si raccomandava: “ In omaggio ai principi autarchici, il più largo impiego di materiali da costruzione locali e la limitazione al puro necessario del ferro”. I risultati, tranne qualche eccezione, furono in perfetta sintonia con queste richieste. Forse solo il progetto di Terragni, Lingeri e Cattaneo per il Palazzo dei Congressi e quello di Albini, Gardella, Palanti e Romano per il Palazzo della Civiltà Italiana riescono a rimanere coerenti con una linea di ricerca legata al Movimento Moderno. Per gli altri le rinunce e i compromessi rimangono evidenti. I concorsi dell’E42 costituirono forse il livello di maggior compromissione della cultura architettonica italiana negli anni tra le due guerre. Così su “Casabella” Giuseppe Pagano ne sintetizzò i risultati:

Al concorso per il Palazzo dei Congressi, vinto da Adalberto Libera, parteciparono ben quarantuno gruppi di progettisti, cinquantatre gruppi parteciparono a quello per il Palazzo della Civiltà e del Lavoro (noto come Colosseo Quadrato), vinto da La Padula, Guerrini e Romano; gli altri numerosi concorsi, gran parte dei quali irrealizzati, complessivamente videro impegnati circa cento progettisti. La qualità di molte opere fu compromessa dalla forzata “monumentalità”, che induceva a scegliere gli architetti secondo un criterio di adesione a tale principio. Di fatto i pochi esempi di architettura razionalista rappresentano soltanto eccezioni alla regola. La scelta di materiali come i marmi, le colonne tornite e lucidate, i mattoni e le pietre della tradizione “italica” in alternativa al cemento, al vetro e al ferro, materiali della modernità, dimostrano la decisione politica di definire un’immagine di città coerente con lo stile del potere. L’Esposizione fu in questo senso un’occasione mancata per la costruzione di un vero modello di città moderna in Italia. Il primo edificio che fu terminato è il Palazzo degli Uffici dell’Ente, progettato da Gaetano Minnucci. Un opera perfettamente aderente alla linea progettuale, figurativa ed evocativa che il regime spesso impose agli architetti che lavoravano nell’EUR. L’edificio, situato lungo l’asse che precede il Palazzo della Civiltà e del Lavoro, si presenta con un’austera facciata rivestita in lastre di travertino, da tale atteggiamento decorativo

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FONDAZIONI E CRISI DI UN MODELLO URBANO

“Potrà forse sembrare impossibile a qualcuno che proprio attraverso il procedimento dei concorsi si siano portati agli onori della ribalta tante inutili colonne e tanti archi posticci. Io stesso, se non fossi stato giudice a uno dei concorsi, non saprei credere alla decadenza del gusto, alla povertà di fantasia, alla incapacità di giudizio di tante persone “autorevoli”. Era così concorde il giudizio della maggioranza sui progetti più vistosamente affidati al compromesso, che ogni lotta per salvare i migliori pareva rasentare l’assurdo di una fissazione paranoica. E nei casi in cui si pretese il concorso di secondo grado si ottennero danni e beffe doppie, perché nessuna forza di ragionamento, nessuna argomentazione logica, nessun ricorso in cassazione riuscì a far comprendere che la civiltà del nostro temporifiuta le false, inutili, impaciatissime colonne”.


FONDAZIONI E CRISI DI UN MODELLO URBANO

attraverso l’uso della pietra di Roma per antonomasia, si capisce l’adesione al principio monumentalista, che rimane legato ad un idea classica del costruire secondo cui l’ornamento e il rivestimento esterno celano la tettonica. Infatti la struttura del palazzo per uffici è in mattoni e manifesta un monolitismo strutturale e formale. E’ una costruzione su tre piani: i primi due sono evidenziati in facciata da un architrave gigante, mentre il terzo prende luce da finestre quadrate a intervalli regolari. Lo spazio interno è più sobrio e contemporaneo.

I Palazzi dell’INA e del INPS, realizzati su progetto di Muzio, Paniconi e Pediconi, sono un’esempio di quanto fosse importante l’effetto scenografico e di fondale urbano di alcuni edifici: le due grandi esedre accolgono in un accogliente abbraccio chi entra nell’EUR, due grandi fontane (costruite dopo) decorano lo spazio antistante le facciate, la strada attraversa e divide a metà l’esteso incavo formato dai due fronti. La pianta dei due edifici è molto rigida e bloccata, anche perché essi avevano il compito di costituire una vera e propria rigida testata di tutto il sistema EUR. Più tardi Moretti costruirà due edifici gemelli per la Esso, due lunghi corpi articolati in facciata, ma rigidi nell’impianto, a costituire la nuova fronte dell’ingresso non più monumentale, ma moderna e con un’International Style. Anche le facciate concave dei due palazzi INA e INPS tendono a essere poco monumentali e molto alleggerite dal ritmo serrato delle bucature e perciò come una variazione elegante e più sobria delle imponenti e inutili colonne. Il Palazzo dei Congressi, nonostante le contraddizioni e la scelta di un impianto rigido, è senza dubbio l’opera architettonica di maggior rilievo dell’EUR. La progettazione e la realizzazione furono assegnate tramite concorso pubblico all’architetto Adalberto Libera che provò a tradurre in forme più sobrie le dure richieste della committenza anche se il prisma di base da cui emerge il volume cubico della sala principale coperto a crociera e tutto l’impianto dell’edificio restano sostanzialmente bloccati, simmetrici e rigidi. Sul fronte le colonne di granito bianco, aeree ma di sapore monumentale, segnano il ritmo e scandiscono l’imponente, graduale facciata. L’architettura è concepita come contenitore di

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spazio. All’esterno e all’intorno il Palazzo esalta la linearità delle sue forme, facendone uno spazio di relazioni visive, ma mostra anche le sue regolari geometrie e comunque sembra voler aspirare alla continuità fra esterno- interno e architettura. La tecnica costruttiva è per quel periodo innovativa e, per alcuni aspetti, sperimentale: la fusione di strutture portanti in calcestruzzo e le parte aeree in metallo, a grande luce, consentirono a Libera risultati eccellenti. Si può forse dire che la parte più significativa del palazzo sono i corpi scala interni: imponenti quanto necessario, aerei e plastici, leggeri e materici al contempo, eleganti e spazialmente coerenti, con grande cura nella scelta delle pietre che rivestono le scale (marmo statuario venato a fondo bianco alternato ad altri di colore più scuro e con venature nere) e nel disegno raffinato dei corrimani e delle ringhiere. I punti di accesso al palazzo sono due: uno dal portico colonnato di fronte al palazzo della Civiltà italica, l’altro diametralmente opposto, caratterizzato da un ampia vetrata autoportante con telaio in ferro e dalla serie di bellissimi dipinti nel vasto e moderno atrio e dagli altri interventi artistici (mosaici e affreschi). In asse con la sala e con gli ingressi c’è anche l’auditorium (avente 3000 posti), mentre ai piani superiori sono collocate le due sale minori e gli uffici; sulla copertura dell’auditorium è ricavato un teatro, mentre su quella dell’atrio principale era previsto un giardino pensile poi non eseguito. Altro edificio moderno, anche se di dimensioni più modeste, è l’Ufficio Postale progettato dal gruppo milanese BBPR (Barbiano, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) costruito nel 1939. Il fronte principale si presenta come una superficie unitaria rivestita in lastre di travertino bianco che sborda rispetto alle pareti laterali, l’ingresso principale e quello secondario sono ricavati su questa “lastra”, dalla superficie unitaria, grazie all’arretramento della spina portante dei pilastri in cemento armato. Lo schema planimetrico dell’edificio e la sua impostazione generale sono sobrie e sintetiche, oltre che elegant, e costruite in modo da sfuggire alla linea architettonica voluta dal regime. Questi (il Palazzo dei Congressi di Libera e le Poste dei BBPR) sono senza dubbio le archi-


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tetture più anticlassiche nel complesso dell’E42. Appare perciò strano il fatto che, proprio nel periodo di massima fioritura del razionalismo Italiano, in un contesto di costruzione di un pezzo di città nuova, con una grande quantità di edifici e di un investimento finanziario significativo, l’opportunità di realizzare delle architetture e un disegno urbano che fossero al passo con le forme della modernità fu sprecata dall’insensibilità di una parte della cultura architettonica accademica, inadeguata al compito assegnatole. Nel 1940 quando l’Italia entrò in guerra, i lavori furono interrotti e l’appuntamento con la grande Esposizione Universale del 1942 venne cancellato. Ci fu un completo abbandono fino agli anni 50 in cui il quartiere venne abbandonato a se stesso. Definito quasi un fantasma di marmo.

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UN QUARTIERE EMBLEMATICO

Un quartiere emblematico Nell’esperienza di costruzione dell’Esposizione Universale di Roma si sono nettamente contrapposte visioni di modernità e di antichità (quasi come forma di nostalgia). Si sviluppò in un periodo particolare della nostra storia, in un momento eccezionale; per la parte ideativa e urbanistica, frutto dell’intreccio fra la tradizione di studi e ricerche urbane sulla città ottocentesca, all’inizio, e su quella moderna successivamente, l’EUR può considerarsi un fenomeno tutto italiano. L’EUR appare come una città intesa come luogo o grande depositario della memoria collettiva, diverso dalla concezione dell’edificio isolato e capace di generare da sé qualità diffusa, quindi diverso dal concetto di affermazione dell’architettura come sola disciplina in grado di rappresentare la civiltà e il progresso, cioè la modernità, di una nazione e di un popolo. Ma riporta anche alla tradizionale abitudine al compromesso che caratterizza gli italiani, soprattutto nel periodo di storia inerente alla costruzione della città contemporanea. L’EUR rimane, nell’iniziale versione razionalista, successivamente negata e compromessa, uno dei pochi, veri tentativi di costruzione di un pezzo di città moderna. Un tentativo iniziato con uno statuto e regolamenti specifici, una concezione urbanistica delle strade, degli spazi pubblici e del verde oltre gli standard minimi, e differente da quanto era dato vedere in altri quartieri della stessa Roma. In quel periodo la pianificazione urbanistica si muoveva su due scenari molto diversi fra loro: da una parte, l’apparente continuità con la tradizione (anche se comunque negata dagli sventramenti) e lo storicismo; dall’altra parte, alcune esperienze innovative come quella di Sabaudia. Gli schieramenti all’epoca in campo vedevano contrapposti la spinta alla modernizzazione, sostenuta anche dalle precedenti esperienze futuristiche, e l’Arte di Stato, ovvero alle tesi di Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni. L’EUR ha rappresentato un forte terreno di scontro per i giovani razionalisti, con schieramenti privi di compromessi, soprattutto per le scelte architettoniche, oppositori del fascismo e contrari allo storicismo nostalgico degli accademici. E’ stato anche il terreno di prova di esperimenti mirati alla costruzione di una città in cui l’architettura fosse protagonista delle relazioni e parte integrante del tessuto urbano; esperimenti che alla fine si sono risolti nella rappresentazione del potere nella sua configurazione formale-monumentale. Molti degli edifici dell’EUR sono il frutto di esigenze monumentali, statici, quasi come fondali scenografici, inutilmente magniloquenti (come il Museo Pigorini o la rigida Piazza Imperiale). L’inusuale ampiezza delle sue strade e il rapporto fra gli edifici che definiscono i lati delle vie e delle piazze e lo spazio pubblico è dovuta all’impostazione dell’impianto urbanistico dell’Esposizione Universale di Roma, frutto di riferimenti a precedenti modelli europei (dalla città-giardino alla Parigi dell’Expo e dei boulevard) oltre che alla scelta di conferire a tutto il nuovo quartiere un carattere di monumentalità e imponenza anche nel rapporto fra asse viario ed edificio e fra costruito e verde. Il completamento dell’EUR con altri edifici (fino ai giorni nostri) gli ha conferito un carattere di contemporaneità altrimenti impossibile con le sole costruzioni dell’epoca di concezione. Inoltre numerosi edifici realizzati dalla fine degli anni Cinquanta in poi hanno fatto emergere il potenziale di qualità urbana di questo quartiere, riproponendo l’attenzione sulle premesse di modernità che conteneva e che erano state spezzate dall’eccesso di classicismo storicista della prima fase (dagli anni Trenta alla fine della Seconda Guerra Mondiale). Le vicende dell’esposizione Universale si svolsero in maniera molto diversa da come era stato previsto. Allo scoppio della guerra, degli edifici previsti dal piano regolatore, erano

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Fra gli anni 1955 e 1965 venne realizzato il Palazzo dello Sport di Pier Luigi Nervi insieme a Piacentini per l’impianto urbanistico. La presenza piacentiniana si fa sentire in particolare nella rigidezza della forma base dell’edificio, nella collocazione e nelle sistemazioni esterne. Capace di ospitare 16000 spettatori, è caratterizzato da una elevata flessibilità e da una buona acustica, che ne consente l’utilizzazione per manifestazioni musicali e spettacoli in genere. L’edificio è costituito da una cupola a calotta sferica che copre la sala

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stati completati: il Palazzo degli Uffici dell’Ente e il villaggio operaio lungo la via Laurentina. Erano in costruzione anche il Palazzo dei Congressi, il Palazzo della Civiltà Italiana, i quattro musei della Piazza Imperiale con le fondazione del teatro, la chiesa, l’Ufficio Postale e i Palazzi dell’INA e della Provvidenza Sociale, ed era stata realizzata la parte strutturale delle stazione della metropolitana , che doveva collegare l’Esposizione con la stazione Termini. Nel 1942 i lavori furono interrotti. Lontani dalla città, occupati dai tedeschi, poi dagli Alleati e infine dagli sfollati, gli edifici dell’Esposizione andarono lentamente in rovina. Solo nel 1951 con la nomina di Virgilio Testa a commissario straordinario dell’ente EUR ebbe inizio l’opera di riconversione dell’area in un quartiere a carattere amministrativo e residenziale. Il piano per la realizzazione del nuovo quartiere fu redatto nel 1952 e rielaborato nel 1954 in vista delle Olimpiadi e successivamente aggiornato in varie riprese sino al 1967. Pur senza alterare l’impianto messo appunto per l’E42 il nuovo piano ha introdotto numerose modifiche; di cui la maggior parte si riferiscono all’organizzazione e alla destinazione dei singoli lotti, mentre le alterazioni più significative riguardano le aree a sud del lago, quelle destinate all’edilizia residenziale, in gran parte di lusso. L’impulso decisivo allo sviluppo dell’EUR fu offerto dai giochi Olimpici del 1960. Attraverso la via Olimpica il quartiere fu collegato con il settore settentrionale della città e al suo interno furono realizzate alcune tra le attrezzature sportive più importanti: il velodromo, il Palazzo dello Sport, la piscina delle Rose, e il complesso di impianti delle Tre Fontane; nell’occasione fu anche realizzato il lago artificiale.


UN QUARTIERE EMBLEMATICO

centrale, con un diametro di cento metri e percorsa da 144 nervature formate da elementi prefabbricati in cemento armato collegati fra loro da un getto in calcestruzzo. All’esterno il corpo ad anello che cinge la sala è completamente vetrato. Oggi il Palasport, pur rimanendo un edificio spazialmente bloccato in rapporto al contesto e alla sua dinamica esterna e interna, lascia intravedere una possibile innovazione alternativa alla continuità schematica dell’ortogonalità assiali, della tradizione ed i marmi. Altri edifici di dichiarata modernità di stampo Iternational Style sono i due Palazzi della Sede della Esso italiana 1961- 1965, su progetto di Luigi Moretti con Ballio Morpurgo, due edifici gemelli con pianta a T. La scelta planimetrica e poi il risultato formale e visivo, piuttosto regolare e bloccato, sottolinenano l’intenzione dei progettisti di costruire due edifici come “bastioni” e in cui attraverso un varco murario si apre una sorta di grande porta al quartiere. Il corpo principale degli edifici è di sei piani, mentre quello trasversale, più basso, è di quattro piani. La facciata è scandita, orizzontalmente, da tre fasce: la prima, un pian terreno su pilotis completamente libero che permette di spaziare con lo sguardo verso le alberature che circondano l’area; la seconda, nel corpo centrale, in curtain-wall rigato da un ritmo costante di frangisole metallico, che si interromper al quinto livello, dove un piano arretrato marca un distacco che lega compositivamente il corpo principale a quello perpendicolare più basso; la terza, in muratura, nel piano alto, costituisce il piano di chiusura. I tre piani sotterranei accolgono principalmente le aree di parcheggio, oltre ai locali per il condizionamento e il riscaldamento e alcuni servizi come mense, tipografie, centrali telescriventi. I corpi centrali ospitano uffici di varie dimensioni, sale per conferenze, sale d’attesa, archivi e relativi servizi. Il Palazzo degli uffici dell’ENI del 1960-62 su progetto di Bacigalupo e Ratti (progetto architettonico), Finzi e Nova (progetto strutturale) è uno degli edifici simbolo della nuova espansione dell’EUR negli anni Sessanta: semplice ma elegante scatola di vetro di ventuno piani di altezza, più due interrati, che corrisponde al concetto “estetica della forma-funzione” dell’International Style. Le due facciate principali sono in curtain-wal

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Negli anni ’60 il boom edilizio raggiunse il suo massimo, ci fu un costruire frenetico, realizzato male o malissimo purché in fretta, con costruzioni abusive e un incremento della popolazione, nel 1964 si contavano due milioni e mezzo d’italiani. E’ sempre più diffuso l’uso di materiale prefabbricato, non si tratta più di edificare ma di montare. In netto contrasto con l’esaltazione della romanità e dell’autarchia che caratterizzava il nucleo originario dell’E42 negli anni ‘60, si arriva all’accettazione dello stile internazionale, in cui la caratteristica più evidente è il curtain wall: elementi prefabbricati che vengono appesi come una tenda alle strutture portanti a formare le pareti. L’EUR perde la sua impressionante fisionomia marmorea per diventare sempre più “International Style”. L’EUR oggi è un luogo difficile da definire: vi sono numerosi musei ma non è una città dell’arte o della scienza; sono cresciuti i palazzi per gli uffici ma non è una vera Downtown; esiste la residenza ma non è un centro residenziale. Oggi l’EUR soffre di questa indefinita identità urbanistica.

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UN QUARTIERE EMBLEMATICO

verde-azzurro, con finestre non apribili perché tutto l’edificio è areato artificialmente. La facciata “esibisce” anche la struttura portante, un lineare scheletro interamente realizzato in acciaio e formato da dodici telai. Per la scelta progettuale compositiva, nonché per gli stessi materiali, si potrebbe parlare di una fredda esibizione di tecnologia avanzata, con una grande cura dei particolari, a testimoniare ed esaltare l’avanguardia e il prestigio di una società in quegli anni in continua ascesa. La pianta è un rettangolo con due blocchi scala in testata, ascensori e servizi al centro; la distribuzione degli spazi interni è libera e adattabile a diverse esigenze funzionali. È quasi un segno decisivo contemporaneo e dirompente nella monotonia delle forme “candide” e marmoree dell’EUR.


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CICLI SOCIALI E SVILUPPO URBANO


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LO SVILUPPO CICLICO E LA RENOVATIO URBIS

Lo sviluppo ciclico e la renovatio urbis Intorno all’EUR e negli immediati dintorni si sviluppa un tessuto di residenze di vario tipo: intensiva, privata unifamiliare, speculativa, e più in generale di edilizia destinata ad attività terziarie, sia per uffici che per altre iniziative. Dagli inizi del 1970 iniziano a localizzarsi all’interno del perimetro dell’EUR, nei numerosi spazi rimasti ancora vuoti delle aree centrali, alcune attività direzionali come il Ministero delle Poste delle Finanze e del Commercio Estero, della Sanità, della Marina Mercantile e delle Sedi dell’Alitalia e della Democrazia Cristiana. In pratica, l’EUR è una parte di Roma che risulta efficiente, organizzata, con un traffico scorrevole, servita dalla metropolitana, da un Palazzo dei Congressi, da vari musei, dal Palazzo dello Sport e da varie palestre, piscine e velodromo, da alcuni importanti alberghi e dal centro operativo di una baca, oltre a un efficiente rete di arrivo e collegamento. Insomma, una parte di città funzionale a un tipo di attività come quella direzionale-terziaria e residenziale privata, che richiede rapidi spostamenti disponibilità di spazi pubblici, rappresentatività, servizi a breve raggio. Nella redazione del nuovo piano regolatore della città, degli anni Sessanta Settanta, si prendeva atto dell’avvenuta saldatura dell’espansione verso il mare e verso l’EUR, anche per la presenza dell’aeroporto internazionale di Fiumicino. Per tanto, anche per questa ragione, nel disegno della nuova Roma ebbero un ruolo strategico sia l’ente EUR sia la presenza fisica di questa parte di città ormai quasi completa. Il piano regolatore generale riconosce all’EUR un ruolo centrale nella struttura urbana e, con un apposito regolamento, e un piano particolareggiato, riordina tutto quanto era accaduto nella nuova parte di città destinata all’esposizione universale del 1942 in poi. Da questo momento, per la politica e la strategia anche abbastanza confusionaria e poco decisiva delle amministrazioni di Roma, l’EUR diviene un tranquillo quartiere terziario residenziale, un “pezzo funzionale” progressivamente accerchiato dall’espansione della nuova Roma dei palazzinari e dei grandi intensivi di edilizia residenziale pubblica. Sono di questi anni alcuni interventi architettonici, forse le ultime occasioni di architettura moderna in una città in cui questo tipo di realizzazioni è una vera rarità rispetto alle altre capitali d’Europa contemporanea.


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Fra queste va senza dubbio citata, per l’innovatività e la capacità figurativa di essere un pezzo di architettura moderna che abbia una forte carica di contemporaneità e un legame con la realtà dell’immaginario di Roma, la Torre Uffici IBM(ex palazzo Alitalia e oggi INAIL) di Gino Valle. Egli propone il restyling della torre Alitalia acquisita dall’IBM per la nuova sede degli uffici romani e oggi sede dell’INA. Un tema quello del riciclaggio, di cui Valle è sostenitore. Le scelte progettuali sono comunque condizionate sia dal precedente edificio sia dal programma degli interventi definito dall’IBM. A livello tecnico l’edificio doveva essere adattato alle moderne norme di risparmio energetico e di sicurezza antincendio, ma si dovevano anche liberare le strutture metalliche dall’amianto. Valle parla della trasformazione dell’edificio attraverso immagini tipicamente organiche. Il problema era intervenire in un edificio di cui si sarebbe mantenuto solo lo scheletro: era necessario introdurre “carne e sangue” per “riportarlo a nuova vita”. In effetti, il cambio di immagine è totale: mentre la facciata Alitalia si presentava bucata e caratterizzata da una spezzata, ora l’edificio ha una “pelle” continua disegnata da una tesa ed espressiva curvatura. L’uso del vetro a specchio e dell’allumino bianco smaterializza e quindi slancia e alleggerisce il volume. Le strisce orizzontali di vetro riflettono il colore del cielo di Roma e dilatano l’edificio nel paesaggio. Dal punto di vista distributivo, il complesso, nel basamento, contiene mensa, auditorium, laboratori, autorimesse e servizi comuni, mentre nella torre sono collocati gli uffici e nella copertura gli elementi tecnici. Un altro caso è quello degli Uffici Esso di Rebecchini e Lafuente, che sono essenzialmente costituiti da tre elementi a ventaglio disposti in serie e rivolti principalmente lungo l’adiacente autostrada di fiumicino. Il terreno particolarmente argilloso ha imposto una progettazione attenta a risolvere i problemi statici e una struttura interamente metallica è sembrata la soluzione strutturale formale adeguata. Per ciascuno dei tre edifici l’ossatura è costituita da sette pilastri circolari disposti a raggiera e convergenti alla base, che raggiungono al massimo i 45° di inclinazione. I pilastri così disposti con opportune nervature orizzontali, reggono i solai che si allungano man mano che gli edifici crescono, tanto da disegnare tre piramidi rovesciate il cui vertice è “conficcato” a terra. Si può af16


Gli edifici abitabili più alti della città di Roma non superano i 120 metri di altezza, il primato, infatti, attualmente spetta alla Torre Eurosky, alta 120 metri (155 se si conta anche l’antenna di 35 m non abitabile), affiancata dalla Torre Europarco, alta 120 metri, queste costruzioni costituiscono il Business Park dell’Europarco, sono state completate a metà 2012. Sono in costruzione o in fase di approvazione alcuni grattacieli come la Torre Millennium (o Muratella, dal nome dell’area in cui si trova), progettata da Richard Rogers, alta circa 150 m, la Torre Massimina di 130 metri (Urban Roma progetti). La Torre Eurosky è un grattacielo di Roma, il più alto edificio della città e una delle torri residenziali più alte d’Italia. Realizzato su progetto dell’architetto Franco Purini e ubicato al Torrino, di poco fuori dai confini amministrativi dell’EUR, nel XII Municipio , è ispirato alle torri medioevali che punteggiano il centro delle città. Il grattacielo, realizzato in calcestruzzo e acciaio rivestiti in granito lamellare, è misurato dalle bucature regolari dei balconi. La torre Eurosky è articolata in due prismi verticali, ciascuno dei quali servito da due blocchi di scale e di ascensori, collegati da ponti che accolgono al loro interno parte degli impianti tecnici. Altri ambienti destinati a impianti sono collocati alla sommità dell’edificio, coronato da una grande struttura che sostiene una parete di pannelli fotovoltaici. All’estremità della copertura si proietta una grande antenna destinata alle telecomunicazioni. Infine, la struttura di sostegno dei pannelli fotovoltaici crea una sorta di piega della facciata esterna della torre. Accanto al grattacielo residenziale si trova la Torre Europarco (chiamata anche Torre Transit), progettata dallo Studio Transit. La torre, destinata ad ospitare uffici, è costituita da un prisma, rivestito in cristallo ed alto 120 m, suddivisi in 35 piani. 17

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fermare che, se non fosse per l’eccesso di ricerca dell’effetto e un esasperato formalismo che connota l’intero edificio, gli uffici Esso potrebbero essere considerati come le interessanti sperimentazioni realizzate a Roma negli ultimi vent’anni in campo architettonico.


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Il prospetto del piano terra della Torre Europarco è del tipo a montanti e traversi, mentre quello dei rimanenti piani è del tipo a cellule strutturali. Il rivestimento a “copertura palpebra” è in lamiera di alluminio, con elementi frangisole verticali in alluminio e cellule spandrel con profilo decorativo esterno. La Torre Eurosky e la Torre Europarco sono state completate a metà 2012. L’EUR è oggi una “città nella città” che, tutto sommato, funziona abbastanza bene, ma risucchiata dalla grande espansione “a macchia d’olio”, dall’interrotta diffusione delle numerose periferie, dai molteplici intensivi speculativi e del dilagante abusivismo. Può a torto o a ragione considerarsi uno dei tanti “centri” esterni al vero centro urbano: anch’esso, nelle sue parti recenti, in fondo, non è riuscito a sfuggire alla logica della costruzione della città per il raggiungimento di fini privatistici e di profitto, senza qualità. E se resta un pezzo di città a sé, dove comunque il verde, le zone residenziali terziarie, la direzionalità e la viabilità si integrano con una certa funzionale efficacia, lo si deve anche all’autonomia amministrativa che negli anni l’ente EUR ha acquisito; da ciò deriva la possibilità di gestire direttamente il grande patrimonio di aree edificabili, la conseguente ricchezza finanziaria e una notevole disponibilità di risorse. Oggi infastidisce il contrasto fra il dinamismo contemporaneo, il traffico, l’invasione di costruzioni, l’addensarsi di nuovi edifici, e la statica, immutevole e pesante monumentalità dell’impianto piacentini ano e degli edifici che ne sono seguiti. Meglio si sarebbe fusa con questa immagine, dichiaratamente metropolitana, la dinamica fluente organizzazione del progetto del gruppo Pagano. Invece in alcune zone dell’EUR sembra di trovarsi in un luogo atopico, sospeso nel tempo, fermo all’epoca della sua costruzione, con ambiti in cui il silenzio è la cornice ideale alla forma degli edifici e delle piazze. Sembra quasi che l’EUR abbia in se un concetto di metafisicità da attribuirsi a un certo tipo di paesaggio italiano come quello più volte raffigurato da De Chirico, la cui unica peculiarità risiede nella rarefatta atmosfera sospesa, fatta di luce intensa e colori appartenenti diffusamente alla suggestiva “eternità” 18


dalla Sovraintendente della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma Alessandra Pinto e dall’architetto Francesco Garofalo. Non è ancora del tutto diffusa, negli ambienti del potere, la coscienza che 19

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di Roma. Oggi l’EUR, e più in generale Roma in alcune sue parti, testimoniano il ritardo di almeno cinquant’anni rispetto allo sviluppo delle altre capitali e principali città europee; ritardo sempre più incolmabile se i mezzi, gli strumenti e le procedure continueranno ad essere quelle di sempre, e soprattutto se la cultura urbana di chi vive e governa la città continuerà ad avere un profilo riduttivamente provincialistico. C’è una sorta di blocco perenne che frena iniziative a volte reali amministrazioni, con una logica di piccoli e lenti avanzamenti nel definire il cambiamento che non è pensato e progettato, ma affidato a una generica casualità, al desiderio e alle capacità delle singole figure. La qualità dell’architettura, quella che migliora la città, quella che nasce da una rinnovata cultura della forma e dello spazio urbano, non risiede nelle maggior parte delle menti di coloro che hanno programmato e gestito lo sviluppo di Roma. La “conservazione” è l’unica forma, al contrario, di diffusa cultura che pervade ogni decisione e progetto di “trasformazione”. Ed è un evidente paradosso che si possa trasformare conservando. La maggior parte degli interventi nella città è volta al recupero, al restauro, alla manutenzione, alla sostituzione di parti di edifici, vuoti, strade, con porzioni identiche alle precedenti, in cui la sola differenza consiste nel fatto che i materiali sono di produzione contemporanea, ma l’immagine è il “com’era, dov’era”. Alcuni primi e non ancora completi tentativi di introdurre architetture contemporanee di grande rilievo e dimensione sono da attribuire alla conduzione del sindaco Rutelli, che ha anche provveduto all’istituzione di un apposito Ufficio Concorsi del Comune di Roma, presso l’assessorato alle Politiche del Territorio di Domenico Cecchini, ufficio guidato dagli architetti Francesco Ghio e Gabriella Raggi; e al concorso internazionale per il nuovo Centro per le Arti Contemporanee di Roma voluto dal ministro Veltroni e curato


l’architettura potrebbe e dovrebbe avere un ruolo di primissimo piano a Roma, che si confronti e che sia in grado di sostenere almeno il livello europeo, capace di definire e realizzare innovativi “effetti” urbani, che nasca dalla tradizione razionalista italiana e che sappia superarne i limiti finora emersi. È possibile ipotizzare che il futuro di Roma nel prossimo millennio si giochi su questo delicato ma decisivo inserimento di nuovi elementi che arricchiscono la monotona scena urbana delle periferie, dei quartieri ottocenteschi, e persino della Roma storica. Manfredo Tafuri parlando dell’EUR in Storia dell’Architettura italiana 1944-85, Einaudi, Torino 1992, dice:

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“Fu anche una storia che, esprimendo tragicamente la condizione di debolezza della cultura architettonica italiana, rimane indistruttibile a costituire un monito su cui riflettere quotidianamente?”. L’augurio è che possano essere avviate nel corso dei prossimi anni una serie di realizzazioni modernissime, d’avanguardia, una rete di trasporti rivoluzionaria, la capacità di stupire per recuperare in campo tradizionale la credibilità e il tempo arretrato dopo aver perso da svariati anni la leadership mondiale nel campo dell’architettura. Quanto all’EUR potrà continuare a vivere all’interno della città contemporanea solo se riuscirà ad integrarsi e diventare parte di un sistema di relazioni forti, a partire dal riordino e riuso di gran parte degli edifici vuoti o scarsamente utilizzati, da destinare a luoghi per mstre, incontri, spettacoli, eventi quotidiani, ma con un ritmo serrato, appunto da metropoli moderna. Per concludere vi sarà un grande passo in avanti solo quando all’EUR (a Roma e in Italia) la nostalgia non avrà più il sopravvento sulla contemporaneità, e verrà avviata una stagione positiva per il rinnovo urbano per trasformare la città dei Fori e degli Imperatori in una nuova e splendida Capitale europea, dove i turisti verranno non solo per ammirare macerie, pietre, colonne, gatti, chiese, palazzi e affreschi, ma anche vere architetture moderne, alle quali numerosi architetti, scelti per reali meriti e non per altro, lavoreranno per tessere la trama di una rinnovata immagine di città moderna.

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Bibliografia << Guida di Roma Moderna, architettura dal 1870 ad oggi >> di Irene De Gutty; 1° edizione 1978; De Luca Edizione D’arte 1989 << Roma guida all’architettura Moderna 1909 – 2011; Grandi Opere >> di Piero Ostilio Rossi; nuova edizione aggiornata 2012; editori Laterza << l’EUR e Roma dagli anni Trenta al Duemila; Grandi opere >> di Italo Insolera, di Majo Luigi; edizione 1986; editori Laterza << E fu subito regime. Il Fascismo e la marcia su Roma >> di Gentile Emilio; edizione 2012; editori Laterza

BIBLIOGRAFIA

<< Italia modernista. Architetture e costruzioni nel Ventesimo secolo >> di Sergio poretti; edizione 3 Ottobre 2013; editore Gangemi

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Architettura 1940-1960

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INTRODUZIONE La seconda guerra mondiale lascia in Europa distruzioni materiali maggiori della prima. I danni sembrano cosi gravi,alla fine della guerra, da compromettere per un lungo periodo di tempo la ripresa dei Paesi devastati. Nonostante l’Italia esce dalla seconda guerra mondiale con distruzioni materiali non gravissime, riceve in questo momento la scossa politica e sociale più grave della sua storia recente. Un lungo regime autoritario è ingloriosamente crollato, scoprendo improvvisamente la precarietà dei suoi fondamenti; in ogni campo della cultura uomini nuovi vengono alla ribalta, sostituendo i vecchi, non tanto per le discriminazioni politiche quanto perché la vecchia classe dirigente, vissuta nel clima ristretto e artificiale del protezionismo fascista, si trova disorientata di fronte alla dimensione e alla complessità dei nuovi problemi. Al principio queste incertezze sono tuttavia soverchiate da una nuova sensazione: di aver ripreso contatto con la realtà, di vedere con nuovi occhi, come la prima volta, le cose circostanti e soprattutto le più vicine, finora mascherate dalla retorica patriottica. Da questa sensazione è nato il cosiddetto <<neo-realismo>> che ha trovato i mezzi più adatti di espressione nel cinema, ma ha influito in vario modo su tutta la cultura italiana. 1


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CAP.1 – La Ricostruzione del secondo dopoguerra. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le tendenze architettoniche si arricchirono di tante sfaccettature. I grandi protagonisti del periodo precedente maturano nuovi concetti che non tarderanno a diventare il seme di nuove tendenze che si svilupperanno nei primi anni della metà del XX sec. Contemporaneamente però si creano quei presupposti che determineranno la crisi del Razionalismo e quindi del Movimento Moderno. Paradossalmente, la crisi partirà proprio a causa del successo dilagante ottenuto in ragione delle condizioni socio-culturali createsi in questo periodo storico. Il linguaggio architettonico del Razionalismo, si avviò verso un progressivo degenerarsi delle motivazioni iniziali che lo avevano sostenuto. In questi anni del dopoguerra, l’America si affiancava come un centro di sviluppo della cultura architettonica a quelle nazioni che fin ora ne avevano detenuto il primato. Dopo la morte dei grandi protagonisti del Movimento Moderno il problema fu quello di guardare all’eredità di questi grandi maestri nella loro giusta dimensione per non cadere nella banalità dei loro messaggi. In molti casi purtroppo, a causa delle diverse situazioni socio-economiche e culturali dei diversi Paesi nei quali furono applicati i canoni del Movimento Moderno, si giunge ad un progressivo impoverimento del linguaggio architettonico utilizzato da quelle progettazioni che si dicevano raccogliere la lezione dei grandi maestri. La mostra al Museum of modern art di New York, nel 1932, dal titolo International Style, è uno degli elementi posti all’origine del fenomeno della revisione critica del linguaggio razionalista. L’Italia in qualche modo rimane ancora chiusa ad alcuni pregnanti temi dell’International Style, i canoni dell’architettura internazionale del novecento, passano in Italia, ma vengono come filtrati e si cerca una strada italiana. Come si sa per loro stessa ammissione, i maestri del razionalismo italiano avevano tutti, con rarissime eccezioni, aderito in buona fede e convinzione al fascismo, da cui si staccarono solo verso la fine degli anni trenta, dopo la promulgazione delle 2


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leggi razziali nel 1938 e l’entrata in guerra al fianco della Germania nazista. D’altra parte il regime non aveva mai ostacolato l’architettura moderna, ma nei primi anni postbellici, il trauma della guerra produsse un’esigenza di riscatto morale, che portò l’architettura italiana, proprio ad opera dei suoi più importanti maestri ad una profonda revisione del razionalismo centro europeo. Revisione che venne condotta attraverso due componenti costruttive dell’esperienza dell’architettura italiana del dopoguerra: da un lato il rapporto tra architettura e città, dall’altro quello con la storia e la tradizione. D’altronde: che cos’è il realismo in architettura se non la volontà di riallacciare un legame (più o meno critico) con la tradizione? In un primo tempo, fino al 47’, il fervore e l’attivismo degli architetti sono rivolti soprattutto alla tecnica delle costruzioni; siccome non si costruisce quasi nulla, si fanno soprattutto studi e proposte teoriche, che non lasciano molta traccia ma spingono a padroneggiare le tecniche che formeranno la pratica edilizia italiana. Questo indirizzo è documentato a Roma dal Manuale dell’Architetto stilato C. Caprina, A. Cardelli, M. Ridolfi. A differenza dei vecchi libri basati sulla teoria e centrati soprattutto sui problemi distributivi, gli autori di questo manuale hanno cercato di raccogliere i particolari costruttivi di uso corrente in Italia, di estrarre la teoria dalla pratica, evitando ogni generalizzazione. Intanto si cerca di dare a queste aspirazioni una precisa formulazione teorica. Bruno Zevi pubblica nel ‘45 il saggio “Verso un’architettura organica e propone di battezzare con questo termine un programma di revisione dell’eredità culturale dell’anteguerra, che ci si abitua a chiamare con il termine contrapposto di << razionalista >>. Nel dicembre dello stesso anno, al I° Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia, la voce di Ernesto N. Rogers si leva per lamentare l’assenza di un piano nazionale mentre Bruno Zevi indica come modello possibile quello dell’edilizia di guerra statunitense, tentando di trasferire alla situazione italiana i risultati di un secondo New Deal. Ispirandosi al modello del New Deal di Franklin Delano Roosevelt che oggi è considerato come un ideale democratico, la fiera risposta americana ad una crisi economica che spinse la Germania e l’Italia verso la deriva del


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fascismo e del nazional-socialismo. In realtà negli anni ’30 le tre forme di governo non erano cosi diverse da come si è soliti credere. Prendendo le mosse della grande depressione, si indaga sulla nascita e la fortuna di un nuovo tipo di Stato, sostenuto da una massiccia propaganda governativa, guidata da una figura carismatica e volto alla salvaguardia della stabilità e del potere costitutivo. Dopo la guerra, negli anni che vanno dal 1945 alla fine del decennio successivo, si verifica una vasta mobilitazione dell’intero Paese per l’opera di ricostruzione. La cultura architettonica ancora pienamente attiva nel suo dibattito interno, viene investita del ruolo di ricomporre l’immagine di un Paese sconvolto dal conflitto. La rinascita nazionale viene celebrata nell’architettura tramite la ricerca di valori genuini, come si vede già nel 1944, nel progetto per il mausoleo delle Fosse Ardeatine, attraverso il quale i giovanissimi interpreti rievocano uno spirito assolutamente rinnovato che esprime un’esplicita rinuncia alle forme del regine, come a tutto il suo apparato simbolico e scenografico. L’ architettura degli anni ’40 e ’50 risulta pertanto attraversata da uno spirito populista, tesa a identificarsi con lo sforzo sociale della rinascita dalla miseria e dall’umiliazione della guerra. Il programma edilizio delle amministrazioni del resto è radicalmente variato e prevede in maniera cospicua la realizzazione di vasti quartieri popolari alle periferie delle grandi città, la riqualificazione di aree represse, il ripristino di strutture pubbliche e di servizio. In questo senso assume una funzione di manifesto ideale il progetto della Stazione ferroviaria di Roma Termini del 1947, nel quale si propongono le nuove forme di un’architettura tesa all’innovazione in netto contrasto con lo spirito del passato. La cultura architettonica italiana sente subito di dover fronteggiare numerosi nemici, soprattutto intellettuali che affrontano temi riguardanti la situazione italiana dalle varie sfaccettature. A Roma, forte della grandezza del pensiero di Wrigth, Bruno Zevi, nel 1945, promuove la fondazione dell’ APAO, Associazione per l’Architettura Organica. I principi di questa associazione, una sorta di vero e proprio manifesto dell’ APAO, sono esposti all’interno della rivista Metron con cui Bruno Zevi collabora a partire da quegli anni. Il linguaggio dell’architettura organica appare una


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naturale conseguenza al rigore e alla geometria del razionalismo che, sostiene Zevi, va considerato come un’esperienza ormai terminata. L’APAO, nel suo programma ideologico, di perseguire una pianificazione urbanistica e una libertà architettonica come strumenti di costruzioni di una società democratica in lotta. La politica viene evocata piuttosto che praticata dall’APAO. Eppure riviste come Metron, Domus, o la Nuova città, diretta dal ’45 da Giovanni Michelucci, ereditano con diversi orientamenti la polemica della Casabella di Pagano, rivista iniziata da Guido Marangoni nel 1928 con interessi rivolti in particolare alle arti decorative. Diverrà, per merito di Pagano e Persico, il centro più avanzato della cultura architettonica italiana. Sul piano tipologico, essa è caratterizzata da uno schema aperto, privo di chiostrine, la cui funzione è svolta dalla caratteristica conformazione dei corpi posteriori. L’immagine complessiva è quella di un blocco, ma la facciata conferisce all’edificio una forte componente di movimento, grazie ad una maglia scomposta nello sfalsamento di pieni e vuoti, la cui disposizione è simmetrica per fasce. Plazzina in via San Crescenziano (1951) è l’esempio della loro riproduzione più riuscita. L’edificio ha il fronte principale che affaccia direttamente sul verde di villa Ada, ciò spiega la particolare soluzione delle logge che si protendono verso l’esterno, con un notevole sbalzo rispetto al filo della facciata. L’elemento loggia, viene sottolineato dalla diversità del colore e del materiale di rivestimento e, tendono a contrapporsi alla semplicità dell’edificio, caratterizzato da una facciata realizzata con un sistema di fasce orizzontali di muratura piena, interrotte dall’aggetto dei balconi a forte sbalzo, in grado di creare un’interruzione sull’intera superficie. Le palazzine in Via del Circo Massimo (1952-53) hanno uno schema distributivo analogo: due corpi scala posti lungo l’asse dell’edificio danno accesso ciascuno a quattro alloggi per piano, distribuiti intorno due chiostrine. I due edifici hanno soluzioni architettoniche poco diverse tra loro, la prima, ha una facciata scandita orizzontalmente e verticalmente, un coronamento a tetto con mansarde molto arretrate rispetto allo sbalzo dell’ultima terrazza, la seconda presenta dei marcapiani più 6


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pronunciati, finestre a nastro e termina con una linea spezzata, corrispondente ad una copertura triangolare. Entrambe hanno il prospetto caratterizzato da un forte spessore della facciata, la parte centrale piena e le due estremità alleggerite dalle logge. Palazzine in via E. Ximenes (1952-53) sono realizzate su di un lotto rettangolare e l’area di sedime risulta perimetrata da una ringhiera in fero sui due fronti stradali. I due fabbricati si sviluppano su sei piani. L’edificio è caratterizzato da una particolare attenzione al cromatismo evidenziato nell’uso di maiolica in facciata e la presenza di un forte contrasto tra la geometria dei corpi principali e gli elementi aggettanti.


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CAP.2 – Il caso della “Palazzina” del secondo dopoguerra. Molti architetti si cimentano con il tema della palazzina, utilizzando come campo di sperimentazione linguaggi, tecniche e soluzioni decorative appartenenti a diverse ispirazioni, contribuendo alla definizione di questa tipologia. La seconda guerra mondiale porta ad una svolta radicale: rigettati i sistemi classici e barocchi e in parte anche il linguaggio razionalista, gli architetti si volgono alla sperimentazione. E’ una fase in cui avviene un taglio quasi radicale con i cento anni precedenti, e si ricerca senza limiti un nuovo tipo di linguaggio architettonico. L’architetto di questo periodo è teso a privilegiare il dettaglio, fin quasi ad esasperarlo. La palazzina da un lato contraddice i caratteri razionalisti che vuole l’alzato corrispondente alla pianta, dall’altra si fa convettore di una crescita urbana discontinua, legata alla frammentarietà, dato costante della costruzione della città. Per tali motivi trova dunque, la sua maggiore evidenza soprattutto nella rapidità dei suoi processi produttivi. La volumetria risulta legata a schemi prestabiliti e si individuano di conseguenza ambiti compositivi attraverso la “scomposizione”, a livello progettuale, dell’edificio. L’attacco a terra, la copertura, il corpo scala e soprattutto la facciata, che diviene elemento autonomo, vengono analizzati separatamente. In tale condizione gli architetti progettisti di quel periodo propongono, soluzioni distributive e strutturali molto flessibili, che poi saranno modificate e nel tempo riproposte. Il risultato è un’architettura capace di rischiare. Se si considera non solo la crescita urbana ma anche il miglioramento della qualità abitativa, la palazzina ha contribuito allo sviluppo formale proponendo una forte risposta alla crisi del dopoguerra. Luigi Moretti, Mario De Renzi, Mario Ridolfi, Ugo Lucchichenti e lo studio Vincenzo Monaco e Ugo Luccichenti, hanno sicuramente la stessa prerogativa che nasce da atteggiamenti personali e da storie diverse, ma il singolare come alcuni minimi elementi linguistici possano trasferirsi da un architetto modernista ad uno invece sostanzialmente più interessato al classicismo. L’immagine della palazzina romana nel dopoguerra è indubbiamente legata 8


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al panorama della città speculativa. Da un lato, infatti, l’Amministrazione dell’urbanistica generale definita a Roma sulla base del vecchio Piano Regolatore del 1931, si mostrava particolarmente flessibile nei confronti delle manovre speculative del grosso capitale fondiario, mentre, dal lato opposto la stessa Amministrazione pubblica condiziona fortemente il lavoro pubblico sul piano architettonico applicando una regolamentazione vincolante. Sin da subito la palazzina raccoglie un alto favore del pubblico. La media ed alta borghesia ritrova in quegli spazi la propria rappresentatività. La vicenda della palazzina romana segna, forse in parte, una serie di sperimentazioni di straordinaria complessità. Agli inizi degli anni ’50, i primi a proporre nuovi modelli furono Ridolfi, Moretti, Monaco e Luccichenti. In particolare a Ridolfi spetta il primato quantitativo, senza mai abbandonare la ricerca sui materiali e sulla massima funzionalità dell’organismo. Diverso è invece il contributo di Moretti. La sua palazzina del Girasole e quella per la cooperativa Astrea, sono episodi della ricerca sul “monumento”. Questi due edifici costituiscono il vero contributo di Moretti al tema dell’autonomia linguistica. E tutto ciò avviene, mentre, i più ricercati professionisti del periodo, Monaco e Luccichenti, analizzano e propongono nuovi e diversi modelli distributivi, eliminando i lunghi corridoi di disimpegno, caratteristica dello schema dell’appartamento borghese. Gli elementi compositivi più diffusi nell’architettura della palazzina anni ’50 costituiscono facili strumenti di individuazione: balconi sporgenti, arretramenti, frequente irregolarità del lotto, piccoli spazi verdi, apertura di una chiostrina. Il tema della facciata è affrontato come elemento autonomo e sovrapposto alla volumetria dell’edificio; uso della “doppia facciata” che permette di movimentare il piano della facciata “reale” con andamenti vari. Nella realtà dell’attuale città contemporanea, la palazzina ha subìto modificazioni d’uso che spesso ne hanno stravolto il senso originario. La destinazione esclusivamente residenziale lascia spazio a studi professionali,agenzie private e rappresentanze.


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CAP.3 – Analisi della “palazzina” attraverso i maggiori esponenti del dopoguerra. Come altri giovani romani, Ugo Luccichenti affronta il tema del villina-palazzina inseguendo quell’ideale di controllata sperimentazione in cui la pianta, i prospetti, ma soprattutto l’articolazione volumetrica della facciata balconata e la straordinaria qualità del vano scala individuano stili che caratterizzano un tipo abitativo destinato a rappresentare la classe borghese. E’ nel secondo dopoguerra che il linguaggio di Ugo Luccichenti troverà un momento e un’occasioni di trasformazione radicale. La palazzina in via Fratelli Ruspoli (1948), alla quale verrà dato il nome di “La Nave”, presenta un’espressione del tutto nuova e quasi furiosa dopo tanti anni di astinenza dovuti alla guerra, che assume un significato di ribellione. La palazzina è costituita da un unico corpo di fabbrica, che si sviluppa per sei livelli. Internamente si apre una chiostrina che si eleva per tutta l’altezza. Su questa si affaccia il corpo scala, che dal piano terra al primo piano si sviluppa con andamento elicoidale e per i restanti piani segue un disegno quadrangolare. Il prospetto principale presenta un’alternanza ritmata tra pieni e vuoti e il blocco centrale dell’edificio svolge la funzione portante principale, che consente di sfruttare al meglio la luce. Di li a poco progetta la palazzina in Via Archimede 185 (1952). L’ingresso principale affaccia è su Via Archimede e nella soluzione dell’affaccio su strada i volumi dell’appartamento invadono per la prima volta lo spazio dei balconi. L’edificio presenta otto livelli che Luccichenti stacca disegnando una trama di solchi orizzontali che conferiscono al volume una plasticità dinamica. Nella palazzina di Largo Spinelli (1954) l’uso della finestra a fascia diverrà una delle sue caratteristiche principali. Essa diviene elemento della separazione e pubblicoesterno e privato-interno. L’edificio presenta un impianto che si rifà al modello del palazzetto cinquecentesco romano. Il repertorio linguistico utilizzato è, invece, quello del moderno. Il tema dominante è la superficie muraria, ritagliata da una serie di finestre a nastro il cui disegno è reso particolarmente gradevole dai parapetti 10


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rivestiti con doghe in legno. Si sviluppa in 5 piani abitabili di cui un piano fuori terra adibito a locali tecnici. I primi due piani fungono da basamento su cui si innesta il corpo principale circondato da un piccolo giardino, mentre, il terzo piano presenta una loggia che gira lungo tutto il perimetro dell’edificio. Inoltre l’ultimo piano è occupato da un attico circondato da una pensilina di copertura che sul fronte principale, che affaccia su Largo Spinelli, chiude idealmente il volume dell’edificio. La palazzina in Via S. Jacini (1957) presenta una caratteristica forma stellare. I cinque piani di cui è composta, poggiano su una base rivestita in parte in intonaco e in parte in travertino, divisa in una parte anteriore e una posteriore. Gli infissi sono in legno verniciato bianco e alcuni sono stati sostituiti con dei nuovi in alluminio. La palazzina in viale C. Evangelisti (1959) si eleva in sei livelli di cui uno completamente interrato. Gli appartamenti al piano terra sono dotati di giardino e parte del lotto è adibito a parcheggio. I collegamenti verticali creano variazioni alla staticità delle facciate, in particolare la grande scala in cemento armato. I prospetti sono rivestiti da intonaco al piano terra e al terzo, da cortina al primo e al quarto. Gli infissi esterni originali sono in legno verniciato, mentre quelli nuovi sono in alluminio verniciato in nero, soglie e davanzali sono in travertino. L’edificio attuale ha subito modifiche notevoli rispetto a quello originario. La coerenza progettuale risulta quindi compromessa. Luigi Moretti tende a recuperare dalla storia principi compositivi del movimento moderno. Allo scoppiare della seconda guerra mondiale scompare dalla scena. Viene escluso dall’ambiente accademico romano da Enrico Del Debbio, che non gli perdonerà mai la brusca intrusione nella progettazione del Foro Italico del ’36. L’autore crea le sue prime architetture post-belliche con un tocco diverso rispetto al tema corrente della palazzina romana degli anni ’50.


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Nella palazzina “ Astrea” in Via E. Jenner (1947-51) si assiste ad uno sconvolgimento dei piani e dei volumi. Al centro della facciata, la parete si flette come una lastra in procinto di staccarsi. L’edificio è costituito da due parti speculari ma non uguali ognuna dotata di ingresso indipendente sul fronte principale, allo stesso tempo, l’irregolarità del lotto, favorisce una leggera simmetria planimetrica. La facciata è caratterizzata da una grande parete piena e può essere letta come un’unica lastra sagomata. I muri inclinati, gli incavi profondi dei balconi coperti, sono gli elementi che danno effetti suggestivi di ombre nette contrapposte alla chiarezza dei volumi. Nella palazzina del “Girasole” in Viale B. Buozzi (1947-50) i termini compositivi dell’ Astrea sono portati al culmine. L’edificio presenta una pianta a U, organizzata attorno ad una corte interna. Appare come un parallelepipedo leggermente trapezoidale sorretto da una base ed aperto, sul fronte principale, da un profondo taglio centrale che ha il duplice scopo di illuminare l’atrio interno e dividere in due parti la facciata, che risulta una sorta di schermo indipendente rispetto alla distribuzione planimetrica degli interni. Lungo questa apertura centrale , che si estende per tutta l’altezza dell’edificio, troviamo due corpi scala. La facciata principale è caratterizzata da grandi infissi orizzontali scorrevoli. Mario Ridolfi nel 1937 inizia la collaborazione con l’architetto Wolfgang Frankl. Uniti nelle loro rispettive diversità, all’inizio degli anni ’50 gli stessi architetti iniziarono la progettazione del complesso residenziale in viale Etiopia a Roma, per conto dell’Ina-Casa. In tale progetto sono presenti i principali temi della ricerca ridolfiana: lo studio della tipologia edilizia e delle tecniche costruttive, l’adozione di un sistema misto di struttura portante in opera e tamponature in prefabbricato, la continuità prospettica dell’angolo è la soluzione formale dell’ordine in facciata riproposto mediante un intelaiatura di cemento a vista. Quest’opera viene riconosciuta dalla critica come il capolavoro della ricorrente negli “Neorealismo architettonico” e diverrà una traccia fondamentale delle successive esperienze progettuali nell’ambito della residenza. Negli anni successivi, fino al 1961, la loro intensa attività professio12


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nale sarà caratterizzata da numerosi progetti, sia per la committenza pubblica che per quella privata. Nei confronti di quest’ultima l’architetto deve avere un approccio operativo e metodologicamente diverso rispetto alla tradizione, basato su una ricerca espressiva spinta verso la sperimentazione plastica e formale, rivolgendo una diversa attenzione tanto particolari quanto all’impianto tipologico. La ridotta dimensione dei lotti destinati alle palazzine degli anni ‘50 e la forma particolare di essi, costringono Ridolfi e Frankl ad assumere diverse soluzioni tipologiche ed a risolvere il progetto all’interno dell’edificio stesso, mediante una maggiore caratterizzazione formale sia nell’impianto planimetrico che nell’immagine. Nelle palazzine a cura dell’Inail, Ridolfi sperimenta un linguaggio espressivo plastico, giocando sull’andamento concavo-convesso delle facciate e sui particolari sistemi di coronamento dei volumi. Ridolfi organizza nell’attico della sua palazzina di via Marco Polo uno studio di grande efficienza, fondato essenzialmente sulla competenza professionale di Wolfgang Frankl e Domenico Malagricci, più altri saltuari collaboratori. Nel 1928 l’ingegnere Vittorio Morpurgo costruisce in via Paisiello il villino Alatri. Lo stile è quello comune a molte abitazioni della ricca borghesia romana. Ridolfi, Fiorentino e Frankl sono chiamati successivamente a sopraelevare di tre piani la villa. Tra nuovo intervento e preesistenza sottostante il taglio è netto: ogni dialogo formale con l’edificio di Morpurgo viene negato. I balconi vetrati, permettono di leggere le continue variazioni dei parametri murari di facciata. La sopraelevazione ha reso possibile la realizzazione di tre piani e gli elementi di finitura sono tutti di un’eleganza e di una precisione esemplare, tipicamente ridolfiani. La palazzina Zaccardi in via G.B. dè Rossi (1950-51) è organizzata in sei livelli e si articola in due blocchi di diverse dimensioni e forme, quello più grande è caratterizzato da una maglia ortogonale, l’altro, pur se impostato su un’asse di simmetria, ha un andamento decisamente più mosso. Anche nel colore sono differenti, il blocco più grande è ocra mentre l’altro è intonacato di rosa.


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Le Torri INA in viale Etiopia (1951-54) presentano un nastro di negozi e di 8 torri di 9 o 10 piani che consentono una forte concentrazione di alloggi e rendono possibile la creazione di numerosi spazi verdi a servizio degli abitanti del complesso. L’edificio tipo è basato sul concetto di modularità e ripetibilità seriale delle parti. Ha la pianta di forma rettangolare con gli angoli smussati, in maniera tale da porre in relazione i vari edifici alla scala urbanistica. Il piano tipo è suddiviso in 4 alloggi, serviti da un unico corpo scala e da due ascensori. Tutti i piani di ogni singolo edificio sono uguali ad eccezione del quinto e del decimo, dove i muri perimetrali sono arretrati rispetto al filo della facciata in modo tale da creare un loggiato perimetrale. La struttura portante è a telai in cemento armato. Il pilastro tipo subisce una rastremazione di 5cm per piano e subisce un rigonfiamento verso l’esterno, in corrispondenza dei piani loggiati. In facciata la struttura è a vista, le tamponature esterne sono in laterizio pieno intonacato color pastello, mentre le aperture acquistano carattere espressivo grazie al parapetto, rivestito con piastrelle di maiolica a disegni geometrici tricromi, e agli infissi in legno, presenti in otto varianti. Le scale interne sono illuminate da elementi circolari in vetrocemento, utilizzati anche nei piani delle cantine per garantire alle stesse un’illuminazione naturale. Le torri sono coronate da un tetto spiovente ricoperto in lastre, e il piano delle terrazze contiene, oltre ai locali tecnici degli ascensori, i lavatoi e le terrazze utilizzate per stendere il bucato. Sono presenti 8 tipi differenti d’infisso, tra finestre, porte e porte-finestre. La finestra tipo, è costituita da un sottoluce fisso e da due ante apribili verso l’interno. La palazzina “Mancioli” in via Lusitania (1952-53) è stata realizzata sopraelevando e trasformando un edificio ad un piano adibito ad autorimessa. La costruzione si compone di tre piani, attico e superattico. Lo schema distributivo si basa su un impianto semplice con un corpo scala centrale illuminato da una chiostrina situata sul fronte. La ripartizione dello spazio non è simmetrica e tale condizione determina 14


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una differenza significativa nel trattamento delle singole facciate. Palazzina in viale Marco Polo (1952-56) è composta da 5 piani. Il prospetto su via Marco Polo è tripartito e presenta un gioco di aggetti e rientranze. La parte centrale è costituita da una torretta di tre piani, terminante in un tetto “a cappellotto” grigio. La torretta è unita alle due ali laterali da pareti arretrate, ed anche il tetto è articolato con parti arretrate rispetto al filo della facciata. Il retro è invece bipartito: la parte centrale è arretrata e buia, la parte destra presenta dei balconcini scavati nella parete esterna e la parte di sinistra aggettanti. Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti riversano i frutti della loro formazione razionalista nell’attività professionale, rivolta prevalentemente a soddisfare la domanda del ceto medio-alto. Il loro repertorio, dedotto da quello Le Corbusier razionalista, esercita un’influenza notevole e duratura. Lo studio associato Monaco e Luccichenti è, dunque, fra i più attrezzati e capace di emergere negli anni ’50, rappresentando un esempio di ricerca architettonica mirata allo studio della palazzina. I due architetti possono essere considerati tra i maggiori protagonisti della vicenda romana della Palazzina, soprattutto negli anni tra il 1948 e il 1960. A livello linguistico i due architetti definiscono un repertorio di forme ed elementi che caratterizzano in maniera inequivocabile i loro edifici e con il tempo divengono veri e proprio sistemi in grado di realizzare composizioni spesso raffinate e talvolta anche eccessive. Il fronte su strada, è comunque orientato verso la vista migliore ed ha un trattamento che lo distingue dagli altri e spesso è l’elemento più importante della composizione. Palazzina in via San Valentino (1948-50) presenta in pianta un impianto ad U e si innalza su sei piani. L’impianto è simmetrico e ogni piano è articolato in due appartamenti di grande metratura. Il piano terra, il quinto e il sesto piano sono arretrati rispetto ai piani sovrastanti e sottostanti.


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LA NASCITA DELLA MUSEOGRAFIA MODERNO: ALBINI, SCARPA, BBPR

A cura di Luca Cristiano Alessandro Balascau Francesco Bruno Viteri

INDICE: CAP. 1 1.1 1.2 1.3 1.4

Dal Dizionario Quando e come sono nati i musei L’arte moderna rifiuta il museo La museografia del dopoguerra CAP. 2

2.1 2.2

Il segno architettonico Musei e allestimenti

3.1 3.2

CAP. 3 Il segno architettonico Il museo Correr, Venezia CAP. 4

4.1 4.2 4.3

Nascita dei musei

Franco Albini

Carlo Scarpa

BBPR ( Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers )

Castello dei milanesi La nuova concezione di allestimento Caratteri stilistici del castello BIBLIOGRAFIA

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ABSTRACT

In questo saggio cercheremo di analizzare partendo dalla concezione di wunderkammer passando per la concezione di galleria per poi arrivare al primo e vero museo della storia, il Louvre, come si è sviluppata la concezione di museo e collezione. Più in particolare si andrà ad analizzare le principali opere dei maestri indiscussi della museografia italiana razionalista quali: Franco Albini, Carlo Scarpa e lo studio BBPR di Milano. Tramite l’analisi, prima a caratteri generali per poi approdare ad un analisi del dettaglio, cercheremo di capire quali sono le fondamenta e caratteri stilistici della museografia razionalista che ha determinato ed influenzato i musei contemporanei.

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Museo: istituzione culturale pubblica adibita alla conservazione, all’ordinamento e all’esposizione di opere d’arte; luogo privilegiato quindi, anche se non unico, dell’incontro tra arte e pubblico. Con il termine “museo” si intende oggi l’insieme inscindibile del luogo fisico delle raccolte “edificio” delle opere e del loro ordinamento “allestimento” delle funzioni svolte dall’istituzione, didattica promozionale, scientifica e del suo ruolo sociale “pubblico”. Il più significativo elemento di distinzione tra collezione e museo risiede sicuramente nella destinazione pubblica di quest’ultimo, poiché con essa mutano la concezione stessa e la struttura della raccolta: il patrimonio di una collezione privata, strettamente legato alle leggi del mercato dell’arte, ha sempre una caratteristica di instabilità, in quanto sottoposto a dispersioni e smembramenti, volontari o meno, dovuti a rivolgimenti politici ed economici, a vicende di successione familiare o semplicemente al mutare del gusto e delle mode. Il patrimonio di un museo ha invece carattere stabile, anche se non immutabile nel tempo, poiché la funzione conservativa è un suo compito fondamentale. Il termine museo deriva dalla voce greca “museìon” che indicava l’istituzione culturale pubblica creata da Tolomeo da Sotere ad Alessandria d’Egitto nel sec. VI a.C. in stretta correlazione con la celebre biblioteca: un luogo di riunione e di studio per letterati, scienziati, filosofi, tra le cui funzioni non è certo, anche se probabile, vi fosse anche quella di raccogliere ed esporre opere d’arte. Un esempio è l’allestimento realizzato da Bramante per Giulio V del “giardino delle statue” in Belvedere (1506) con pezzi celebri, tra cui il Laocoonte e L’Apollo, studiati da generazioni di artisti; o la creazione a Venezia dello Statuario pubblico, allestito da V. Scamozzi (1591-96) Galleria: lungo, ambiente di collegamento tra due parti di un edificio, per conservare opere d’arte; Si diffonde dalla fine del Cinquecento e conosce un larghissimo sviluppo nei secoli successivi. Esempio precoce è la sistemazione delle collezioni medicee nei lunghi corridoi al primo piano del Palazzo degli Uffizi (1581), con la creazione dell’elegante Tribuna di B. Buontalenti (1585), progettata e arredata in funzione delle opere esposte. Esempi delle sontuose gallerie sei e settecentesche di famiglie aristocratiche di Roma, gallerie Doria-Pamphili, Colonna, Borghese o di più modeste ma raffinate raccolte della nobiltà inglese sono giunti fino a noi

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CAPITOLO 1

1.1 Dal Dizionario


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Diversi sono i modi con cui si attua nell’Europa settecentesca il passaggio da privato a pubblico, in rapporto all’affermarsi della concezione del patrimonio artistico come bene della collettività.
 La prima fase può essere definita “riformista”. In Inghilterra il Parlamento, tramite acquisizioni di raccolte private, decreta la formazione e l’apertura al pubblico del primo nucleo del British Museum (1759).

In Europa e in Italia le riforme dei principi illuministi rendono di pubblico dominio le raccolte dinastiche, che in tal modo diventano patrimonio dello stato, a Dresda, Dusseldorf, Firenze, Monaco di Baviera, Vienna. In particolare a Roma il papato, nell’intento di arginare le dispersioni provocate da un attivissimo mercato antiquario, affianca i primi atti di legislazione di tutela con l’apertura di musei, 1734, Museo Capitolino, con l’aggiunta nel 1750 della Pinacoteca.

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1.2 Quando e come sono nati i musei Fino al XVIII secolo le opere d’arte venivano commissionate e collezionate dalle grandi casate nobiliari. Le collezioni avevano il compito di celebrare le virtù della famiglia. L’accesso a queste collezioni era estremamente selettivo, e solo pochi intimi disponevano delle conoscenze adatte a decifrare le allegorie e il programma iconografico che spesso era sotteso all’ordinamento delle opere. Con il secolo dei Lumi si assiste a una “apertura” delle collezioni dinastiche ad un pubblico estremamente selezionato: i criteri di selezione si basavano sul vestiario e sulla classe sociale di provenienza. La nascita di spazi espositivi aperti al grande pubblico, senza distinzione di classe sociale, è una conquista che ha una data ben precisa: il 19 Settembre 1792 il ministro francese Roland decretò il passaggio delle collezioni reali d’arte della corona di Francia alla nazione francese. Si tratta di una data epocale, non solo perché è la data di fondazione dell’odierno Museo del Louvre, ma soprattutto per il fondamentale scarto con la tradizione precedente: la collezione non è più aperta al pubblico ma del pubblico. L’intento del curatore Vivant Denon era quello di creare un museo enciclopedico in grado di riunire tutte quelle opere che documentavano lo sviluppo della “storia dell’arte” nel territorio europeo.
Nell’ideologia repubblicana, le funzioni del museo sono strettamente integrate: concepito come «scuola» per tutti i cittadini, serve all’educazione degli artisti e alla formazione del gusto del pubblico e ad accogliere le opere provenienti dai patrimoni degli ordini religiosi soppressi e fornisce una risposta al problema del “vandalismo rivoluzionario” esempio principe quello del Musée des Monuments Francais di A. Lenoir, 1795,

allestito con statue e frammenti da chiese medievali distrutte;
- si presenta come immagine simbolica, auto rappresentativa della nazione. Quest’ultimo aspetto viene grandemente amplificato nella Francia napoleonica, quando le requisizioni di opere d’arte dai paesi sconfitti fanno del Louvre, divenuto nel 1803 Musée Napoleon, il più grande museo del mondo, simbolo dell’universalità dell’arte e della cultura. Già prima della restaurazione è il modello francese a stimolare negli altri paesi europei la nascita dei musei nazionali. Un altro momento storico fondamentale per la costituzione dei musei si riscontra in Italia, nel periodo coincidente con la soppressione degli ordini religiosi, ordinate in prima battuta dai sovrani illuminati e in seguito dai decreti napoleonici. Con un regio decreto, il Governo italiano stabilì che i beni mobili, comprendenti anche oggetti d’arte

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e preziosi, venissero riuniti in Musei provinciali. Tuttavia, questa decisione suscitò l’indignazione e la rivolta di tantissimi comuni, che si sentivano privati di quelle opere che, oltre al valore artistico, costituivano dei simboli e delle testimonianze della storia e della cultura della città. Nacquero così i Musei civici, il cui scopo fondamentale fu quello di non rompere quel legame, tanto sottile quanto forte, che connette l’opera d’arte al luogo in cui è stata da sempre collocata. Con la nascita dei Musei civici la concezione dell’opera d’arte inizia a comprendere dunque anche un valore storico e culturale che prescinde la qualità artistica del manufatto stesso. Si gettano insomma le basi per l’odierna concezione di “bene culturale”, fondamentale per il legame con il territorio e con la popolazione. Riassumendo:
- i primi musei nacquero per concessione dei sovrani, che aprirono le collezioni d’arte a un gruppo ristretto; - l’esperienza di nazionalizzazione delle collezioni reali, di cui il caso paradigmatico è costituito dalla nascita in Francia dell’odierno Museo del Louvre, marca l’appartenenza delle opere d’arte alla nazione, che deve tutelarle ma anche valorizzarle. - La costituzione dei musei nacque sia come reazione alle requisizioni napoleoniche, con lo scopo di salvaguardare le opere d’arte da ulteriori requisizioni, sia in seguito alle soppressioni degli ordini e delle confraternite religiose minori. - Dopo l’unità d’Italia nascono i Musei civici, che conservano e valorizzano le opere d’arte locali; inizia una vera e propria mappatura delle risorse artistiche del Regno d’Italia, operata dai primi pionieri della storia dell’arte italiana (Domenico Morelli e Giovanni Battista Cavalcaselle). Queste grandi realizzazioni rappresentano il punto di approdo del pensiero progettuale dell’illuminismo, spesso di utopica grandiosità, sull’architettura del museo, coerentemente al gusto del tempo. La forza simbolica di questo modello spiega la permanenza nel tempo delle forme classiche, ormai irrigidite in schemi revivalistici, la National Gallery di Washington, 1937.

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Durante l’Ottocento l’istituzione museale andava articolandosi, passando cosi da un museo «universale» a un museo “specializzato” in settori differenziati per i diversi rami del sapere, scienza, tecnologia, storia, arte. Sempre più fondamentale diventa la funzione conservativa, sollecitata non solo dall’allargamento di campo delle collezioni ma anche dalla necessità di salvare le testimonianze storiche del passato, minacciate dall’avvento dell’età industriale e dalle profonde trasformazioni imposte alle città antiche dagli sviluppi massicci del nuovo urbanesimo.
 Mentre altrove i musei sono prevalentemente realizzati ex novo, in Italia si afferma sin da subito la tendenza a ospitare le collezioni in edifici di rilievo storico e monumentale e a mantenere possibilmente gli antichi nuclei museali nelle loro storiche sedi. In Italia è quindi meno avvertibile il valore prestigioso attribuito al museo nella crescita della città ottocentesca rilevabile nella creazione di complessi monumentali. Dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste alla crescita in numero ed entità dei musei anche in America, appoggiati da un collezionismo privato attivissimo e spesso lungimirante, che si alimenta, tramite un intenso mercato dell’arte, alla fonte inesauribile dell’arte europea e italiana in particolare, e sostenuti dall’ambizione auto rappresentativa della giovane nazione.

1.3 L’arte moderna rifiuta il museo

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La rottura dell’alleanza tra antico e moderno proposta in epoca illuminista viene sanata con la creazione di musei per l’arte contemporanea, fenomeno caratteristico del Novecento, con sviluppi imponenti all’estero, molto limitati invece in Italia. Modello primo e fondamentale ne è il Museum of Modem Art di New York, di P.L. Goodwin e E.D. Stone, 1929-33.

A partire dagli anni Venti si fanno strada nuovi criteri per l’architettura e l’allestimento dei musei: così come nell’edificio si tende a rifiutare il ricorso agli stili storici, nell’allestimento viene progressivamente abbandonato il criterio dell’ambientazione ottocentesca per creare spazi più agevoli, selezionando le opere esposte e curandone la migliore visibilità particolare attenzione è posta ai sistemi di illuminazione. Il tema del museo è affrontato dai maggiori maestri dell’architettura moderna, secondo una progettualità che spazia dalla tensione utopica di Le Corbusier, progetto per un “museo a crescita illimitata” 1929, al lucido pragmatismo di H. Van de Velde, Kròller-Mùller Museum a Otterlo, 1930-54; dalle geniali invenzioni di F.L. Wright Guggenheim Museum a New York, 1943-58, al razionalismo rarefatto di L. Mies van der Rohe, Neue Nationalgalerie a Berlino, 1962-68.

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Ma è soprattutto dopo la seconda guerra mondiale che il museo deve affrontare una profonda revisione non solo delle sue strutture, ma anche delle sue tradizionali funzioni. In Italia l’opera di restauro e ripristino dopo le distruzioni belliche ha fornito l’occasione per realizzazioni di alto livello. L’aumento del pubblico, l’incremento del turismo internazionale, l’emergere di nuovi bisogni culturali, le sollecitazioni portate dalla società dello spettacolo e dai media hanno imposto al museo la trasformazione, attuata negli Stati Uniti più rapidamente che in Europa, da luogo di conservazione e contemplazione estetica a luogo di attiva elaborazione culturale, a centro polivalente di attività culturali.
In tal senso la creazione a Parigi del Centre Pompidou, R. Piano e R. Rogers, 1971-77, vera “fabbrica di cultura” nella sua ostentata veste high tech, nel carattere polifunzionale e nella totale flessibilità degli spazi interni, ha assunto il ruolo di simbolo del museo dell’età contemporanea.

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Ma in termini più generali, sono gli anni Ottanta a segnare, a livello mondiale, una ripresa del museo in tutte le sue forme, inedite o tradizionali. Tra gli elementi che testimoniano della rinnovata vitalità dell’istituzione, si possono annoverare: la crescita e diffusione dei musei nei paesi di nuova formazione, in funzione auto rappresentativa della raggiunta indipendenza nazionale;
- l’allargamento di interesse a particolari aspetti della produzione, folclore, civiltà contadina, cultura materiale, archeologia industriale. A tali molteplici interessi si è recentemente sommata l’attrazione per le tecnologie più avanzate, informatica compresa: insediato nell’edificio di una fabbrica dismessa, scelta sempre più comune per l’arte contemporanea, vero museo-laboratorio aperto a ogni forma di sperimentazione multimediale. Attentissime al rapporto con la dimensione urbanistica, queste nuove realizzazioni permettono, adottando la soluzione dell’ampliamento funzionale, un confronto tra l’architettura postmoderna e le forme classiche delle sedi museali ottocentesche, rispettate nella loro storicità.
Esempio principe è l’ intervento dell’ architetto americano di origini cinesi Ieoh Ming Pei per il “Grand Louvre” (1983-93), celebre per il forte segno simbolico della piramide vetrata.

Elemento comune e caratteristico delle nuove strutture è la vistosa inversione di rapporto tra spazi espositivi e spazi di servizio moltiplicati e dilatati in rapporto alle nuove esigenze del museo e del pubblico. Ciò ha comportato per il museo il recupero, in nuove forme e con mezzi tecnici aggiornati, dell’antica funzione didattica; l’attuazione di servizi tecnici, depositi, laboratori di restauro, di amministrazione, uffici, di merchandising, book-shop, negozi e l’approntamento di nuovi spazi per il pubblico, biblioteca, sale per conferenze, servizi di ristoro; la previsione, infine, di larghi spazi per attività espositive temporanee. Agli inizi del nuovo millennio il museo sembra godere di una notorietà e di una popolarità mai avute prima, a spese però di mutazioni che rischiano di snaturarne la sostanza, trasformandolo da luogo di cultura, di confronto, di sperimentazione, in centro commerciale o in sede di spettacolo e intrattenimento. Tra gli aspetti più appariscenti della mutazione: l’avanzata di un’architettura prepotentemente spettacolare, che esibisce ostentatamente se stessa, pensando poco alle opere che contiene e molto a stupire il pubblico, i luccicanti musei “decostruttivisti” di F.O. Gehry; la conseguente abolizione di un percorso stabile, a favore di allestimenti mobili continuamente modificabili come il MAXXI di Roma, ne sono una prova.

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1.4 La museografia del dopoguerra Nei primi decenni del XX secolo si intensifica il dibattito sul tema dei nuovi musei, che trova un importante occasione di confronto nella Conferenza Internazionale di Museografia svoltasi a Madrid nel 1934. Il tema della conferenza fu la definizione della museografia come scienza o meglio disciplina che riconoscendo al museo una natura complessa, formata da tre elementi ben distinti, vale a dire collezioni, edificio e pubblico, intendeva tenere conto delle necessità di ciascun elemento, esigendo di conseguenza una collaborazione mai sperimentata prima, tra specialisti di settori molto diversi, con la volontà dichiarata di mettere ordine e metodo nella pratica museale. Le collezioni avevano bisogno di un ordine e si rendeva necessario valutare la possibilità di una doppia ripartizione delle stesse, un’esposizione pubblica limitata ed una destinata solo a studiosi e ricercatori. L’architettura di conseguenza richiedeva o la trasformazione degli spazi alle due nuove ripartizioni o la realizzazioni di nuove strutture pensate già in funzione delle stesse.

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Si afferma quindi la necessità di pensare il museo moderno inteso come strumento elaborato che permette la partecipazione attiva, fisica e spirituale del visitatore. La realtà italiana in tema di musei è particolarmente interessante poiché, data la diffusa storicizzazione ambientale e la cospicuità del patrimonio, ha adottato più di altri paesi un particolare tipo di museo che potremmo definire “museo interno”: l’adattamento di spazi storici alle innovazioni museografiche, attraverso una laboriosa e delicata ricerca di equilibrio tra edifici monumentali e nuove funzioni, tra antiche collezioni e nuovi fruitori. Il 50% dei musei italiani è stato fondato come istituzione dopo il 1945; ciò nonostante gli edifici costruiti ex novo con destinazione museale sono pochissimi. Il dibattito sul rinnovamento museografico in Italia, si sviluppa quindi in un alveo particolare che vede il suo apice nella grande lezione degli anni ’50. In questo i grandi architetti sono stati Albini, Scarpa e il gruppo dei BBPR tra gli esempi più alti della museografia italiana del dopoguerra - innovano profondamente le tecniche espositive e le attrezzature perseguendo una concezione educativa del museo, ma nel medesimo tempo integrano antico e moderno, assurgendo essi stessi a “opere d’arte in sé”. In Italia la guerra è stata un trauma che ha investito direttamente anche l’architettura e i suoi protagonisti.. Come si sa per loro stessa ammissione, i maestri del razionalismo italiano avevano tutti, con rarissime eccezioni, aderito in buona fede e con convinzione al fascismo, da cui si staccarono solo verso la fine degli anni ‘30, dopo la promulgazione delle leggi raziali nel 1938 e l’entrata in guerra a fianco della Germania nazista. D’altra parte il regime non aveva mai ostacolato l’architettura moderna, e dopo una fase iniziale in cui addirittura l’appoggiava, anche nel corso degli anni ‘30 l’aveva quanto meno tollerata, in coesistenza con tendenze più tradizionaliste o accademiche.Ma negli anni post-bellici la disillusione verso il regime e il trauma della guerra produssero, in chi sopravviveva, un esigenza di riscatto morale che portò l’architettura italiana ad una profonda revisione dei postulati universalisti del razionalismo europeo. Revisione che venne condotta lungo due componenti costitutive dell’esperienza dell’architettura italiana del dopoguerra; da un lato il rapporto tra architettura e città e dall’altro quello con la storia e la tradizione.; entrambi questi due insegnamenti, quello relativo alla responsabilità verso la tradizione e al problema di costruire nelle preesistenze ambientali secondo un criterio di caso per caso, e quello dell’unità architettonica-urbanistica, del valore urbano dell’architettura, sono stati decisivi nella cultura architettonica italiana del dopoguerra, e ancora oggi costituiscono un punto di riferimento operante.A sostegno di queste considerazioni verranno mostrati alcuni esempi di opere ad uso museale, interventi che riguardano sistemazioni e allestimenti di musei o addirittura di allestimenti per esposizioni temporanee, che rivestono però grande valore dimostrativo.Perché negli anni ‘50, l’Italia, appena uscita dalla guerra, versava in condizioni economiche difficili. Spesso il tema del museo e dell’allestimento temporaneo offriva ai maestri dell‘architettura italiana l’opportunità di lavorare come per metafore, quasi che l’allestimento rappresentasse la metafora di una città, una specie di prova d’autore di come essi stessi sarebbero intervenuti nel corpo della città reale, quando si fossero date le condizioni. Opere come il museo di Palazzo Bianco, 1951, e il museo del Tesoro di San Lorenzo, 1952, a Genova di Franco Albini, il Museo del Castello Sforzesco a Milano, 1952, dei BBPR, il Museo di Castelvecchio a Verona, 1959, di Carlo Scarpa, sono tutte opere in cui il sentimento e la culture della città sono evidenti e percepibili.


CAPITOLO 2

FRANCO ALBINI Franco Albini esce dalla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano a soli 24 anni ed è già maturo e pienamente consapevole delle sue possibilità progettuali. Hanno contribuito alla formazione di Albini, oltre alla laurea al Politecnico di Milano, l’esperienza lavorativa durata circa un anno presso lo studio di Giò Ponti, la sua famiglia (il padre era un ingegnere molto attivo a Milano) e alcune sue iniziative personali, tra cui una serie di viaggi in Europa, che lo porteranno a conoscere i giovani architetti emergenti quali Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier e altri. Molto importante è stata la sua esperienza prima milanese poi romana. Qui si scontrò con una realtà a lui estranea: la storia. Roma è storia e Albini se ne accorge solo nel 1957 quando si reca per i preliminari del progetto la Rinascente. Tale intervento prevedeva una configurazione tale da coordinare l’estetica della sua opera in rapporto al “preesistente” che in questo caso specifico coincideva con le Mura Aureliane. L’assonanza va riscontrata nella scelta di tonalità che ricavò dalle pietre naturali con cui fece le pareti esterne. Insomma non è la struttura in ferro lasciata a vista, che rende la Rinascente una vera propria architettura moderna, ma il linguaggio delle pareti esterne. L’opera di Albini si articola lungo l’arco di un’attività professionale di circa cinquant’anni, e affronta con estrema abilità temi che vanno “dal cucchiaio, alla città”. Questo passare da un campo all’altro della progettazione, dal design all’urbanistica, non deve far considerare Albini come un funambolo, ma piuttosto un vulcano di idee chiare.

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Gli allestimenti sono la vera struttura portante di tutta la sua vasta produzione. Tutta la sua opera è contenuta in nuce gli allestimenti, sia interni che esterni, sia negli anni Trenta che in quelli successivi alla seconda guerra mondiale. In questi, si riscontra una qualità e una coerenza che non sempre si ritrovano negli altri campi. Lo spazio che Albini propone è uno “spazio totale”. Fino a quel momento, fatte alcune eccezioni che appartengono ai promotori del Movimento Moderno, fare architettura degli interni significava poggiare mobili sul pavimento, inserire tendaggi e decorare le pareti. Albini invece si impossessa di tutto lo spazio di un ambiente, e attribuisce pari dignità a tutte le pareti, non solo al pavimento. Egli introduce nello spazio i tre assi cartesiani, per poter esplorare e valorizzare qualsiasi angolo. I montanti per il sostegno di oggetti di vario tipo, vanno da pavimento a soffitto. I tiranti, tesi da parete a parete, concorrono a dare leggerezza e profondità all’ambiente. Ma la grandezza di Albini non risiede solo in questo sforzo di organizzazione dello spazio, ma anche nell’espressività di alcuni ‘gesti’ pieni di fantasia, di ‘arricchimenti’ dello spazio, che costituiscono il vero messaggio del progetto e vanno al di là e al di sopra dell’impostazione razionale. Nel padiglione dell’INA all’Esposizione Internazionale di Bruxelles, del 1935, Albini costruisce una torre a traliccio basata su un modulo cubico, con “la presenza all’interno di un nastro dall’andamento verticale e spezzato, che si innalza verso la sommità tendendo all’infinito”: tale nastro esprime il successo dell’INA. Il concept alla base di questo è proprio la realizzazione fisica sia come diagramma sia come costruzione imponente. Il grafico degli incrementi dell’attività dell’INA poteva essere posto benissimo all’interno del Padiglione, invece lui preferisce costruire un traliccio di quasi trenta metri, che qualifica con la sua eccezionale presenza non solo il Padiglione, ma anche tutta l’Esposizione.

2.2 Musei e allestimenti La seconda guerra mondiale ha portato cambiamenti radicali nella visione del mondo. Uno di questi aspetti è la precarietà; tutto sfugge e si sente la necessità di un posto sicuro, ben saldo. Ecco che questo pensiero cambia Albini e cambia totalmente la sua visione progettuale. Un esempio eclatante che possa funzionare da spartiacque è il museo del tesoro di San Lorenzo, Genova(1952). Siamo agli inizi degli anni Cinquanta quando Albini progetta l’allestimento del museo ipogeo, realizzato dietro l’abside del Duomo di Genova, al di sotto di un cortile. Due sono gli accessi al Museo, uno per il clero e uno per il pubblico; quest’ultimo avviene dalla sacrestia della cattedrale, attraverso una scala che scende a 3 m sotto il livello del cortile. Nell’area, di forma irregolare, il progetto è stato impostato su una composizione di figure geometriche semplici: un esagono centrale di distribuzione e collegamento, ai cui vertici si impostano tre camere di forma circolare e dimensione crescente nel senso del percorso. Nel piccolo spazio ipogeo della Cattedrale di Genova, Albini crea uno “scrigno”, un ambiente introverso e carico di suggestione, giocato sul contrasto tra la brillantezza degli oggetti esposti (ori, argenti e pietre preziose, databili dall’alto medioevo al XVIII secolo) e la grigia pietra di Promontorio che riveste murature e pavimenti. In tale opera il concetto di spazio cambia completamente, perde la leggerezza, la trasparenza.

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2.1 Il Segno Architettonico


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In tale opera il concetto di spazio cambia completamente, perde la leggerezza, la trasparenza, l’immaterialità e si fa concreto, pesante, gli oggetti al suo interno non levitano più. La presenza del basamento dell’abside del Duomo, fa pensare subito all’uso della pietra ed Albini usa una pietra resa ancor più massiccia dalla bocciardatura e consistente negli spessori. Se si escludono i travetti in cemento armato a soffitto e le teche espositive, ci troviamo di fronte ad un unico materiale: l’ardesia ligure.

La leggerezza e l’esilità svaniscono; lo spazio definito da piani sottili, da teli, da fili, da nastri opalescenti, muta, cambia completamente privilegiando la concretezza, la materialità. Insomma Albini, ha intuito di vedere questo museo non come un semplice allestimento in un ambiente, ma come una vera e propria architettura. Una particolare attenzione è stata data al soffitto, il cui sistema ha come fonte d’ipirazione la Tholos micenea; nel carattere polifunzionale e nella totale flessibilità degli spazi interni, ha assunto il ruolo di simbolo del museo dell’età contemporanea.

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Un altro esempio in cui è riscontrabile una tale importanza al sistema di coperture ed un uso simile è in Villa Saracena di Luigi Moretti. Qui l’architetto utilizza questo sistema per scandire al livello spaziale l’ambiente della villa da una parte all’altra secondo una sortta di spina dorsale.


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In Albini si riscontra anche un notevole rapporto con la creatività e le nuove tecnologie; sia nelle opere di design che in quelle di architettura; secondo questo aspetto Albini rimane uno dei cursori dell’architettura high-tech. Un’estrema accuratezza nel disegno delle soluzioni di dettaglio, improntate ad una estetica essenziale; rimangono memorabili alcune sue soluzioni nell’utilizzo dei profilati metallici, come quelle della scala a chiocciole di Palazzo Rosso a Genova(1952-1962);

In queste vere e proprie architetture d’interni si manifesta la maestria di Albini nel creare spazi emozionali - dove ogni singolo dettaglio, studiato con perizia, concorre al raggiungimento dell’obiettivo sia che esprima una rarefazione di elementi in un’atmosfera sospesa come a Palazzo Bianco, Genova(1950-1962), sia che facciano riferimento a lontani archetipi come a San Lorenzo. La finalità del progetto era quella di creare uno spazio pacato nel quale le opere, drasticamente selezionate, fossero in grado non solo di testimoniare la storia artistica della città ma anche di riappropriarsi della loro individualità, soffocata, negli allestimenti precedenti, dall’ eccesso del materiale esposto e spesso dalla sua incongruenza.

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Tale approccio implicava la realizzazione di depositi attrezzati e visitabili che costituissero non solo un servizio alla collezione, ma per dirla con le parole di Argan “una vera e propria decorosissima galleria secondaria di consultazione”. A tal fine, furono predisposti due diversi tipi di spazi: nei magazzini, ricavati al piano intermedio, le opere erano disposte su pareti mobili a doppia faccia, in compensato di faggio, su supporti di ferro; nei depositi del sottotetto, erano invece appese, con possibilità di scorrimento su guide a soffitto. Il percorso museale iniziava con le due sale del primo piano adiacenti allo scalone - rispettivamente destinate agli affreschi del XII secolo e al frammento del monumento funebre di Margherita di Brabante per poi proseguire, con un andamento a grandi linee cronologico, nelle sale del secondo piano. La parte finale del percorso si svolgeva nuovamente al primo piano, ove l’infilata di sale dell’ala est del palazzo accoglieva gli arazzi fiamminghi. L’ultima sala, la XX, era destinata alle mostre didattiche e temporanee. Di comune accordo con la Marcenaro, Albini realizzò un allestimento di assoluta purezza, esaltato dalla geometria degli antichi pavimenti di ardesia ad intarsi, di marmo bianco, conservati in quasi tutte le sale. Il rigore investì anche le cornici dei quadri, rimosse quando non pertinenti. Appesi a tondini che scorrevano all’interno di guide di ferro, fissate a ridosso dell’imposta delle volte, o sospesi a piantane tubolari, sempre in ferro, infitte su rocchi di colonne antiche, i quadri non deformavano mai la parete, consentendo una lettura parallela dell’architettura del palazzo, esibito nella sua integra completezza. Anche per questo, oltre che pensando ad un ruolo attivo del visitatore, Albini evitò arredi fissi, preferendo distribuire nelle sale numerose “tripoline”, poltroncine pieghevoli in legno nero, con snodi in ottone, sedile e schienale incuoio naturale, leggere e mobili.

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CARLO SCARPA Carlo Scarpa nasce il 2 giugno 1906 a Venezia e scompare il 28 novembre 1978. È stato un grande architetto, designer e accademico italiano del XX secolo. Nella sua carriera gli furono conferite varie onorificenze tra le quali: il premio Olivetti, il Premio della Repubblica per l’architettura e le nomine a membro degli Honorary Royal Designers of Industry, dall’Accademia di Vicenza a San Luca a Roma. “Possiamo dire che l’architettura che noi vorremmo essere poesia dovrebbe chiamarsi armonia, come un bellissimo viso di donna. Ci sono forme che esprimono qualche cosa. L’architettura è un linguaggio molto difficile da comprendere, è misterioso, a differenza delle altre arti, della musica in particolare, più direttamente comprensibili... Il valore di un’opera consiste nella sua espressione: quando una cosa è espressa bene, il suo valore diviene molto alto.” (Cita. Carlo Scarpa 1973).

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I temi fondamentali che ritroviamo nell’architettura di Carlo Scarpa sono: Il progetto basato sulla riflessione visuale e quindi sul disegno; L’interesse per l’allestimento di mostre e musei; Il restauro di edifici preesistenti e la realizzazione di nuovi progetti in antichi contesti; - Il Disegno: Scarpa utilizzava il disegno come strumento per esplorare le sue idee e per avere un riscontro immediato con i suoi pensieri che venivano trasportati da una serie concatenata di forme direttamente sul foglio. Al contrario dei suoi colleghi non utilizzava queste forme in maniera concettuale, ma rappresentativa sfruttando spesso anche dettagli tecnici. - Musei: La particolarità delle composizioni museali di Scarpa è l’utilizzo della luce, in quanto lo spazio luminoso diventa uno strumento per comprendere e far comprendere le sculture. Crea degli appositi spazi per le sculture e le illumina a tal punto che è impossibile spostarle o toglierle. Egli cerca un metodo per arrivare ad un compimento dell’opera esposta, senza dare un giudizio. L’architettura scarpiana diventa un mezzo per conoscere una realtà piuttosto che divenire essa stessa oggetto di conoscenza. L’oggetto di esplorazione non è tanto l’edificio che contiene le sculture quanto le sculture stesse, contrariamente al Movimento Modernista che vede l’architettura oggetto della conoscenza. Anche nei restauri e negli altri progetti architettonici di Scarpa possiamo notare un andamento controcorrente rispetto ai movimenti a lui contemporanei. - Il Restauro: Carlo Scarpa ha progettato spesso in ambienti preesistenti e grazie alla sua bravura nel leggere e comprendere le strutture. Questa caratteristica dell’architetto veniva vista come mancanza da parte dei suoi contemporanei, solo ad oggi sappiamo che questo è stato un suo grande punto di forza.

3.2 Il museo Correr, Venezia Uno dei suoi progetti più interessanti di riallestimento è il Museo Correr a Venezia situato nel sestiere San Marco. Il museo ha inizio grazie alla donazione di opere d’arte da parte di Teodoro Correr. Alla fine degli anni cinquanta Scarpa interviene nella Quadreria. Il lavoro comprende il consolidamento e il restauro delle strutture murarie e l’allestimento delle raccolte del Museo, ordinate da Giovanni Mariacher. Dal punto di vista planimetrico viene mantenuta la struttura dell’edificio che consiste in una successione lineare di ambienti, suddivisi da una spina centrale e affacciati rispettivamente verso la Piazza e verso il bacino. Il percorso espositivo, organizzato in ordine cronologico, segue tale struttura sviluppandosi prima lungo il lato rivolto verso il bacino e poi sul fronte opposto per ritornare al punto di partenza. Evitando di proporre una sequenza monotona di ambienti, lungo tale percorso, Scarpa costruisce alcuni spazi significativi su opere particolarmente rilevanti. In generale, per quanto riguarda la pittura, eliminata ogni cornice ottocentesca quasi tutti i quadri vengono dotati di cornici essenziali pensate ad hoc, talvolta con fondo in tessuto o con sottofondo dipinto. Alcuni di questi sono collocati su appositi cavalletti, altri invece risaltano all’interno di pannelli lignei laccati o su setti divisori profilati in metallo. La stessa attenzione viene dedicata all’architetto, viene dedicata anche alle opere di scultura, che egli “offre” al visitatore su sostegni, prevalentemente metallici, studiati per evidenziare il valore tridimensionale degli oggetti nello spazio.

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3.1 Il Segno Architettonico


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I BBPR CAPITOLO 4

“La localizzazione urbanistica, tangente al cuore della città ma oasi tranquilla, prospicente il parco con la vasta scenografia che si inoltra per l’arco della pace; i bambini che giocano; le passeggiate dei soldati e delle ragazze; i vecchi pensionati, gli studenti, le coppie: è un ambiente di vasta risonanza popolare del quale non si poteva non tenerne conto, cercando di individuare lo stile del nostro allestimento.(CBC, 211,1956)

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È cosi che i BBPR descrivono parco Sempione, il luogo dove è situato il museo del castello Sforzesco di Milano. Il castello è un luogo ideale che si applica a zone di passaggio, potendo usufruire di grandi spazi del cortile aperto, e per chi vuole, è possibile percepirlo come luogo di evocazione con la condizione psicologica che è quella di trovarsi in un luogo incantato fuori dal tempo come in un luna park medievale. Esso è stato ricostruito da Luca Beltrami agli inizi del ‘900, con un aspetto medievale, ma storicamente ripensato e riabilitato da questo grande architetto, che nel sentimento della storia voleva risarcire l’integrità di un luogo affinché non fosse una rovina. È un castello percorribile nelle sue torri, nei sotterranei, nei suoi giardini, un percorso di finzione quasi cinematografico, e questi per molti milanesi è inteso come spazio della loro vita quotidiana e come luogo in cui muoversi senza alcun disagio legato ad una condizione museale, perché esso è appunto una figura, finzione. Tutt’oggi si continua a usare il castello così, come si può immaginare che sia stato luogo della vita dei cittadini nel corso della sua storia. In tempi più moderni è diventato il primo museo di Milano, che contiene la raccolta della storia della città, attraverso un articolata elaborazione di spazi distinti: spazi per le sculture, spazi per la pittura, spazi per i mobili, spazi per le arti applicate. Quindi, è un museo completo quasi un Louvre senza i capolavori assoluti. Qui si percorre la storia della scultura dal ‘200 fino al ‘600, si percorre la storia della pittura prevalentemente lombarda dal ‘300 fino al ‘700, al Canaletto, al Bellotto con dipinti di soggetto milanese. Si percorre la storia dei mobili (dal medioevo fino ad oggi), delle medaglie, degli arazzi, dalla raccolta Bertarelli, suddivisa sia nella sua parte storica di incisioni e documenti relativi al passato, sia della parte novecentesca con manifesti e documentazioni di quella che è stata la città della pubblicità ( Agfa, Pneus Pirelli). Questi rendono il castello un luogo ideale per vedere tutti gli aspetti dell’arte maggiore, dalla pittura fino alle arti applicate, in una varietà e di documentazione veramente efficace sul piano anche didattico. Lungo il percorso non mancano episodi importanti come gli affreschi di Leonardo e di Bramantino. Per cui la visita al castello stabilisce una doppia connessione psicologica, quella di un luogo di evocazione, una macchina teatrale, una situazione di viaggio nel passato, un immersione in una dimensione che è antitetica a quella che è la Milano industriale. Il percorso che si compie avviene tramite gli allestimenti dei BBPR. In questo percorso del museo, si ha da un lato la sensazione voluta da Beltrami, di una ricostruzione evocativa del medioevo e dall’altra invece un’immersione nella modernità della museografia tramite l’ intervento dei BBPR che culmina in quello che è il capolavoro e la principale attrazione: la Pietà Ronadanini. Questo allestimento dei BBPR ha oramai 50 anni, segnala uno dei momenti importanti della museografia novecentesca insieme al restauro di Castel Vecchio di Verona, Palazzo Abatellis di Palermo realizzati da Carlo Scarpa. Questi sono monumenti della museografia italiana che consentono di attribuire alle opere un diverso rilievo a seconda della reazione emotiva che ne determinano.

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4.2 La nuova concezione di allestimento

4.3 Carattere stilistico del Museo del Castello 1956 La sistemazione di un museo negli ambienti di un edificio storico comporta la soluzione di molti problemi inerenti ai rapporti fra il rispetto del Monumento e le esigenze di ordine espositivo. A prima vista queste opposte tendenze del tema potrebbero sembrare inconciliabili, tali da dover imporre vincoli negativi. “Quando ci siamo posti a considerare il Castello di Milano nei suoi caratteri intrinseci d’ordine generale e in quelli che esso può conferire alla complessa ubicazione dei musei (cui è ormai destinato, in antitesi con l’organismo che gli era peculiare) abbiamo subito intuito che la nozione museo grafica degli oggetti contenuti non poteva essere distinta da quella che si poteva trarre dall’esaltazione poetica del vaso ambientale atto a contenerlo”. (CBC, 211, 1956)

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“L’artista è, in definitiva, il creatore del museo. L’artista architetto, quello vero, ha travalicato le idee paradossali di uno spazio escluso dall’opera, e ve l’ha incluso con una penetrazione assai più acuta e sensibile dei suoi valori in rapporto a quelli dell’opera d’arte.” (CBC, 211, 1956). Se la stagione degli allestimenti museali del dopoguerra si era aperta con Palazzo Rosso e Palazzo Bianco a Genova, dove Albini applica una programmatica neutralità nei confronti delle opere, e con Castel Vecchio di Verona e Palazzo Abatellis di Palermo realizzato da Scarpa, i BBPR realizzano una macchina espositiva in cui l’allestimento e l’oggetto d’arte sono legati indissolubilmente, facendo entrare in risonanza le opere, l’allestimento, l’architettura e il restauro. Nel presentare il loro lavoro sulle pagine di Casabella i progettisti dichiarano che questo museo, più di altri, dovrà svolgere “una funzione didattica popolaresca facilmente accessibile alle masse, alla loro spontanea emotività, al loro bisogno di espressioni spettacolari, fantasiose e grandiose” utilizzando un linguaggio che, tuttavia, non scivola mai “nel banale o nel retorico o addirittura nel demagogico”. I BBPR si offrono così a una serrata polemica, accusati, in base all’assunzione idealistica che “l’opera d’arte deve parlare da sé”, di essere “registi invadenti”, secondo la definizione di Antonio Cederna. Questa “ansia comunicativa”, invece, deve essere letta, sulla scorta di quanto afferma Manfredo Tafuri, come un’assunzione di responsabilità del ruolo dell’architetto che intende risolvere il problema di far rivivere una memoria privata, quella dell’intellettuale depositario della conoscenza, nella memoria collettiva della cittadinanza.


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Qui pochi motivi, ottenuti con un numero limitato di materiali, si snodano in un seguito a variazioni che accentuano alcuni momenti più melodici, suggeriti da qualche opera o da qualche ambiente di maggior rilievo del Castello. Le opere e gli ambienti sono argomenti museografici integrati gli uni negli altri a tal punto da non poter essere considerati a parte, pur conservando gli uni e gli altri una chiara personalità ben distinta. Nessuna forma a priori abbiamo voluto imporre alle singole parti o all’insieme, giacché abbiamo cercato al contrario di desumere le forme dall’accurato studio d’ogni cosa, onde, pur traverso il nostro evidente atto interpretativo, il valore estetico e storico del materiale esposto, finisse per prevalere. I caratteri stilistici di ogni opera e del Castello sono stati tradotti nel linguaggio contemporaneo senza cadere in luoghi comuni e senza rifarsi ad uno stile passato o contemporaneo: ad esempio il nuovo serramento che abbiamo disegnato per le finestre, dopo moltissime ricerche, il quale pur rispondendo a criteri moderni di funzionalità, si compone armonicamente con l’antico ordito del monumento. Così i numerosi supporti di ferro battuto o di legno sono stati disegnati secondo un criterio coerente, ma adattando ciascuno alle esigenze pratiche ed espressive d’ogni singolo oggetto. Si notano gli spessori dei profili che si accordano alla massiccia architettura degli ambienti; la forza di alcuni materiali usati con il prevalere del ferro, del bronzo, del legno e delle pietre, la schiettezza degli elementi di sostegno con la rinuncia a qualsiasi ornamento, hanno l’intento di ottenere un’ attraente sollecitazione nell’ animo dei visitatori. Alcuni pezzi di maggior importanza sono naturalmente inamovibili, ma molta cura è stata data alla flessibilità delle opere esposte attorno ad esse; così si sono studiati molti accorgimenti di carattere tecnico nell’intento da favorire quanto più possibile i cambiamenti della disposizione museografica. Per le visite serali, e per aumentare la luce delle fonti normali, spesso inadatte alle necessità del Museo, sono stati montati accorgimenti di vario genere a luce diretta e indiretta e speciali fari (spot lights) con il compito di mettere a fuoco gli oggetti più preziosi. Al piano superiore, dove risiedono le collezioni dei mobili e la pinacoteca, sono stati aperti dei lucernai, indispensabili a condurre la luce in zone altrimenti troppo scarsamente illuminate. Il solenne Portale della Pusterla dei Fabbri è stato riportato all’interno, e si apre come un arco trionfale stupefacente. Non è il caso di descrivere in particolare le diverse sale, basterà qualche cenno per indicare le nostre intenzioni e “speriamo” i conseguenti risultati del nostro allestimento. Le prime tre sale, dedicate alla scultura medioevale, fino agli esempi gotici, hanno acquistato rilievo tramite il restauro dei grandi archi che collegano le tre sale, stabilendo un’unica prospettiva.

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Religiosamente emotivo è il Cristo ligneo nella Cappelletta, la quale, semplice e di modeste proporzioni, prepara alla Sala delle memorie ambrosiane. Qui i Santi protettori e le toccanti reliquie, i fregi della Porta Romana, sono inquadrati dalla parete di noce. Il pavimento è di porfido rosso. Questa sala e le due seguenti dovranno anche servire per i ricevimenti di rappresentanza del Amministrazione Comunale, per i quali è specialmente dicata la ex Sala del Gonfalone, che contiene gli arazzi seicenteschi

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Le caratteristiche degli oggetti, molto interessanti per ricercatori, ma non altrettanto attraenti per il visitatore medio, sono state messe in rilievo suggerendo richiami alle loro condizione primitiva di ritrovamento; così i resti di S. Tecla e della Chiesa di S. Maria in Aurona sono stati disposti in modo da richiamare l’idea degli scavi per cui sono stati riportati alla luce. Lo stupendo monumento equestre di Bernabò Visconti è spostato dalla sala adiacente (terza sala) al vasto salone (seconda sala) affinché fosse ristabilita la relazione con l’ambiente circostante. Le sculture delle porte urbiche, collocate in alto, nelle pareti della terza sala si vedono secondo uno scorcio calcolato e senza interferire con la vista del raffinato affresco del soffitto. I ruderi di Santa Maria di Brera, della sala seguente, hanno acquistato un chiaro significato didattico, disposti in maniera da suggerire le relazioni della loro destinazione originaria.


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Alla Sala delle Asse abbiamo voluto conferire un tono da esterno, armonizzato con la geniale decorazione leonardesca del soffitto: le pareti sono a lastroni di noce dai contorni merlati che s’insinuano nella pittura accentuandone l’ariosità. Lo spazio della sala è ritmato da filari di lampade che, oltre ad accentuare quel tono da esterno di cui si è detto, rischiarano l’arabesco che si dirama dalla volta fino alla sommità delle pareti; un labirinto di pannelli di legno simili a quelli del perimetro, si sviluppa tra i lampioni e servirà per le Mostre temporanee. Il pavimento è di granito verde. La Sala Ducale, come quella detta delle Colombine sono ricche di raffinati documenti artistici rinascimentali; così alla nostra attrezzatura museografica, abbiamo conferito un tono più elegante, usando per lo più il bronzo invece che il ferro, il marmo invece che la beola, in dimensioni più piccole, più agili, più vibranti.

Il pregio della Cappella Ducale si trova negli affreschi sapientemente restaurati, tanto che due soli oggetti, una Madonna a una parete e un’arante, semplicemente collocata sul pavimento, sono sembrati sufficienti agli ordinatori e a noi per dare continuità all’interesse del museo. Nella Sala degli Scarlioni dove, oltre ad altre opere (il Gastone di Foix del Bambaja, il monumento funebre del Cardinale Bagarotto, il busto, detto della Mora) bellissime ma che non reggono al confronto, è collocata la Pietà Rondanini di Michelangelo. E’ difficile descrivere le diverse idee, le proposte discusse e abbandonate per dare una collocazione degna a questa opera che risiede tra i più grandi capolavori delle sculture di tutti i tempi; difficile dire il nostro tremore di fronte a questa alta responsabilità di professionisti e di artisti nonché l’ardore con il quale ci siamo accinti all’impresa. La Sala degli Scarlioni è stata trasformata sostanzialmente, pur mantenendo integro il suo valore essenziale, la superficie del pavimento è stata abbassata di m. 1,80 con una successiva decrescenza di ripiani collegati da un sistema di scale di vaste proporzioni; una nicchia di pietra serena, che si sposa col pavimento in pietra trachite, esce dal ripiano volgendo la convessità esagonale verso la parte più alta dalla quale si avvia il visitatore; questi scoprirà, con improvviso senso di sorpresa, il capolavoro michelangiolesco accolto nel concavo di questo elemento, mentre un’altra nicchia di legno d’olivo lo proteggerà alle spalle. La superficie spezzata della nicchia di pietra è stata realizzata per contrastare con i volumi pittoricamente chiaroscurati della scultura; l’altezza è accuratamente studiata in rapporto con il punto di vista più appropriato al godimento dell’opera e così pure l’ampiezza dello spazio tra le due quinte contrapposte. La volta del soffitto, il cui progetto iniziale non è ben chiaro, è stata rivestita con un plafone di legno a quattro spioventi, dal quale pendono semplici lampade di bronzo: il tutto tende a conferire all’ambiente un tono di raccoglimento sacro tipico delle chiese romaniche. La figura del Bambaja è su un ripiano a metà altezza, la quale si può osservare sia dal ripiano sovrastante ad esso, che da un punto di vista normale. 26


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Di fianco alla Sala degli Scarlioni è la lunghissima Sala dei Portali. Qui il carattere delle opere esposte ci ha consentito di dare maggior sfogo alla fantasia ispirandoci alle scenografie rinascimentali dove il senso letterario si fonde con quello della visione prospettica, in un clima “metafisico”: i tre grandi portali, disposti con valore di quinta, scandiscono lo spazio conferendogli un’atmosfera irreale che ci è sembrata assai indicata ad accogliere i cimeli dei cavalieri antichi, le armature, le armi, le pietre tombali con le immagini eroiche, le insegne araldiche; il colore delle pareti, verde smeraldo, è un’altra nota di gusto dettata dallo stile dell’epoca. Onde far partecipe l’organismo stesso del Castello alla composizione museografica, dopo la visita alla Pietà, il pubblico viene condotto, per un passaggio aperto all’ angolo estremo della Sala degli Scarlioni, verso una chiostrina, particolarmente pittoresca, dove scende fino al piano del fossato per ammirare la fontanella cinquecentesca; questi provoca un immediato cambiamento di stato d’animo. La visita al piano superiore inizia con la collezione dei mobili che occupano quattro grandi scomparti. La disposizione anche qui è cronologica, ma gli accenti, ottenuti con accorgimenti artistici, mettono in maggior rilievo i pezzi più significativi. Un sistema di ripiani di tre altezze, facilmente combinabili, ha il compito di sostenere con un tono di maggior decoro i singoli pezzi, soddisfacendo ai fini didattici che questa sezione del Museo si propone senza ricorrere a ricostruzioni ambientali arbitrarie. I rivestimenti dei ripiani cambiano di materiale e di colore in maniera da adeguarsi meglio alle esigenze interpretative dei diversi periodi storici. La Pinacoteca occupa a sua volta quattro sezioni. La Sala, già dei Costumi, è ora per le opere dei primitivi; sotto l’ampia volta ad ombrello sono disposte delle quinte in muratura di dimensione varia che volgono la facciata alle fonti di luce. La solenne Pala del Mantegna accentra la composizione pur lasciando una perfetta individualità alle altre opere esposte. Nelle sale seguenti i dipinti sono collocati per lo più su cavalletti metallici, ricoperti di stoffa (canapa e lino) atti a una mobile disposizione museografica. Particolarmente notevole è il velario che abbiamo inventato per il controllo della luce, in tavole sagomate di pino di Svezia, orientabili nelle due direzioni.


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E infine, dopo la Saletta dov’è esposto il Gonfalone di S. Ambrogio, si entra nell’immenso salone con gli arazzi trivulziani eseguiti sui cartoni del Bramantino. La posizione delle finestre, quanto mai casuale e la necessità di ottenere la migliore distribuzione della luce, ci hanno guidato a disporre cavalletti di ottone che sostengono i dodici arazzi secondo un percorso ad angolazioni varie e suggestive: il pavimento è di seminato alla veneziana che ha come base del composto il marmo corallo di Verona; lo stesso marmo suddivide la vasta superficie in strisce diagonali, mentre a blocchi scolpiti, sorgenti dallo stesso pavimento, serve da custodia preziosa al dispositivo di sostegno degli arazzi.

“Abbiamo fatto più di 650 disegni oltre a innumerevoli schizzi e prospettive. Al risultato siamo giunti attraverso prove e riprove, costruendo al vero o con simulacri ogni parte del nostro allestimento.”(CBC,211,1956)

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BIBLIOGRAFIA

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I MUSEI DI NEW YORK WHITNEY MUSEUM & NEW MUSEUM

1807 Simeon deWitt, Gouverneur Morris e John Rutherford vengono incaricati di definire il nuovo modello che regolerà l’occupazione finale e conclusiva della penisola di Manhattan. Quattro anni dopo propongono un sistema di città divisa in parte conosciuta e parte sconosciuta, con 12 avenues che corrono da nord a sud e 155 strade che corrono da est a ovest. Con una semplice azione hanno descritto una città di 13 x 156 = 2.028 blocchi, creando i giusti presupposti per le future attività dell’isola: la “Griglia” di Manhattan. Griglia di Manhattan Su questa lingua di terra vegine, non ancora inquinata da nessun tipo di civiltà (fatta eccezione delle comunita’ nomadi originarie di quella terra, definita successivamente America, che occupavano occasionalmente), viene “progettato” il modo in cui si sarebbe dovuta sviluppare ed evolvere la futura società che vi sarebbe sorta. Quindi la “Griglia” fu la traduzione, ipotizzata in quell’epoca, piu’ conforme al futuro utilizzo di Manhattan. 1

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New York La citta’ di NewYork, una delle capitali economiche piu’ famose al mondo, è nata da un’ idea che si è poi concretizzata in un vero e prorpio esperimento, denominato “Esperimento Manhattan” dall’architetto e teorico olandese Rem Koolhaas nel suo libro “Delirius New York”, in cui viene fatta un’attenta riflessione sulle cause principali che hanno dato il via alla nascita di quesa nuova città. Esperimento Manhattan_ Manhattan viene scoperta nel 1609 dall’esploratore inglese Henry Hudson durante la sua ricerca di una nuova via per le Indie, passando per il nord. L’isola è una striscia di terra larga 3-4 km, situata fra il fiume Hudson (che ai giorni nostri la separa ad ovest da varie cittadine del New Jersey) e l’East River (uno stretto braccio di mare che la divide ad est da Brooklyn e dal Queens);mentre la distanza fra l’estremità sud (sulla baia di New York) e quella nord (l’Harlem River, che la separa dal Bronx) è di circa 20 km


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Manhattismo Nel 1845 un modello della citta’ di Manhattan viene esposto prima nella stessa New York e successivamente fatto girare per tutto mondo a testimonianza del suo apparente successo. Il “duplicato della grande Metropoli” è “un facsimile perfetto di New York, che rappresenta ogni strada, terreno, edificio, baracca, parco, recinto, albero, e ogni altro oggetto presente nella città... A coronamento del modello vi e’ un baldacchino ligneo in stile gotico in cui sono raffigurate nella piu’ raffinata pittura ad olio le sedi delle principali imprese cittadine...”.(Delirious New York). Le icone religiose sono rimpiazzata da quelle architettoniche. L’architettura è la nuova religione di Manhattan. Tappeto Nel 1850 l’eventualità che la popolazione di New York potesse accrescersi in maniera repentina, occupando così l’intera griglia, porta a delineare, sulla griglia stessa, delle aree destinate ai parchi. Tre anni dopo, tra la 5th e 8th avenue e la 59th e la 104th street, viene delimitata l’area del futuro Central Park. Viene delineata dentro confini la più grande struttura per il tempo libero di Manhattan, ma Central Park è il sintomo principale di una progettazione frenetica e snaturata, dove la natura è stata allontanta, portata fuori dai confini della città, fuori dalla “Griglia”, per essere poi anch’essa progettata e pianificata accuratamente: «il risultato complesso di manipolazioni e di trasformazioni attuate sulla natura “salvata” dai suoi progettisti. I suoi laghi sono artificiali, i suoi alberi (tra)piantati, i suoi imprevisti progettati, i suoi episodi sostenuti da un infrastuttura invisibile che ne controlla l’assemblaggio.... » (D.N.Y.) Ambizione Manhattan, per l’epoca, diventa il primo palcoscenico dove vengono esibite e messe in pratica tutte le nuove teorie e scoperte in campo sociale, economico e architettonico provenienti dall’Europa, in particolare dall’esposizione internazionale al Crystal Palace di Londra 2


Coney Island Viene scoperta un giorno prima di Manhattan, nel 1609, da Hudson (esploratore inglese della Dutch East India Company). Si trattava di un’appendice naturale di sabbia luccicante all’entrata del porto naturale di New York. Quest’isola rappresentava la scelta piu’ logica come luogo di vacanze di Manhattan, essendo la zona più vicina in cui la natura era ancora vergine. Questo scenario diverrà il luogo in cui verranno sperimentati quei meccanismi e quelle strategie che darrano forma a Manhattan: “Coney Island è una Manhattan allo stato fetale” (D.N.Y). In breve tempo Coney si trasforma nel principale, se non unico, luogo di villeggiatura, dove gli abitanti di Manhattan vi fuggono occasionalmente per poter ristabilire il propio equilibrio. La quantità di persone che iniziano a visitare l’isola diviene in breve tempo insostenibile per la superfice ridotta del isola, cosicché le sue principali attrazioni naturali (sole, sabbia e acqua) vengono convertite in servizi. Verso il 1890 l’introduzione dell’elettricità rende possibile la creazione di una seconda giornata di luce, permettendo ai vistatori di godere degli stessi servizi diurni anche di notte: 3

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del 1851. Per affermare la sua superiorità sotto quasi ogni aspetto viene organizzata due anni dopo un fiera simile a Manhattan dove, per l’occasione, vengono costruiti due edifici. Il primo è una variante del Crystal Palace di Londra; ma dal momento che la divisione in isolati esclude la presenza di strutture oltre una certa lunghezza, viene costruito un impianto cruciforme alla cui intersezione si innalza un’enorme cupola. La secondo struttura, complementare alla prima, è una torre che sorge sull’altro lato di 42th street, il Latting Observatory, alto piu’ di cento metri. Grazie al Latting Obervatory, dalla cui sommita’ si riesce ad avere una vista completa dell’isola, per la prima volta gli abitanti di Manhattan hanno la percezione dei propri confini e, quindi, dei propri limiti d’azione. Questa autocoscienza geografica genera impeti collettivi in obiettivi megalomani condivisi. Tra gli oggetti esposti nella fiera uno in particolare, più di tutti, contribuisce a cambiare l’aspetto fisionomico di Manhattan: l’ascensore, che viene presentato al pubblico come uno spettacolo teatrale.


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“Potenti lampade vengono distribuite a intervalli regolari lungo la linea costiera, così che ora si può godere del mare mediante un sistema di turni autenticamente metropolitano...” (D.N.Y). Questo secondo tempo diurno non viene messo in secondo piano, anzi diventa la principale attrazione propio per la sua artificiosità, preannunciando la sindrome che investira’ tutta Coney Island e i suoi visitatori, ossia il gusto irresistibile per l’artificiale. Parchi a tema diventano i principali abitanti di Coney, luoghi dove vengono creati posti immaginari, di altri mondi (Luna Park, Dreamland), riproduzioni di scenari esistenti trapiantati in scala ridotta, giochi, come la finta corsa cavalli di George Tilyou (direttore del parco di diveritimenti Steeplechase) e attrazioni che tentano il più possibile di sfidare le leggi della natura, come le montagne russe. L’enorme successo di questi parchi di divertimento trasforma Coney Island in una vera e propia arena che porta alla sfrenata battaglia tra imprenditori per chi costruisce l’attrazione più sorprendente. Il processo che si va innescando porta già in sé la sua “malattia”, che in un decennio condurrà alla sua scomparsa, spostando le ricerche e sperimentazioni su Manhattan. Sviluppo Verticale A causa di una forte richiesta di investimenti nell’isola di Manhattan si sono venute a creare i pretesti necessari per lo “sviluppo in verticale” della città: essendo confinata tra due fiumi non ha altra scelta se non quella di estendere la propria “Griglia” verso l’alto. L’esperienza di Coney Island diventa fondamentale per lo sviluppo funzionale della griglia. Gli stessi mezzi e sperimentazioni comparsi sull’isola di Coney (elettricità, aria condizionata, tubature, telegrafi, rotaie e ascensori) riappaiono a Manhattan, riadeguati alla sue funzioni (uffici, abitazioni e istituzioni pubbliche). Grattacielo L’invenzione dell’ascensore (Otis Elisha) e del telaio d’acciaio diventano gli elementi fondamentali che hanno permesso di oltrepassare il limiti dell’utilizzo di un edificio, rendendo 4


Blocks In uno dei 2,028 isolati, tra la 5th avenue, 33rd and 34th streets, si trova uno dei “blocks” piu’ significativi, che darà alloggio all’Hotel Waldorf Astoria e all’Empire State Building, edifici che riassumono le fasi dell’urbanistica di Manhattan, mostrando tutte le strategie, i teoremi, i paradigmi e le ambizioni sostenuti dal Mahattanismo.Nel 1827 il lotto viene comprato da William B. Astor, uno degli imprenditori più influenti dell’epoca, che in pochi anni trasforma questo “block” in una delle attrazioni principali di Manhattan. Dopo la morte di William B. Astor l’isolato viene diviso tra gli eredi della famiglia, così come il suo spirito. Con l’aiuto di George Boldt il blocco della famiglia Astor ritorna a diventare un “blocco” unico, riuscendo abilmente ad unire la preesistenza( Hotel Waldorf) con il nuovo (Hotel Astoria) per trasformarli in un unico edifico, il famoso hotel di lusso Waldorf-Astoria. Giorno dopo giorno il Waldorf diventa a tutti gli effetti “un gigantesco salone collettivo”, dove avranno luogo le nuove tendenze urbane: “un’istituzione semi-pubblica pensata per dotare gli abitanti facoltosi dell’area metropolitana di New York di tutti i lussi della vita urbana”. (D.N.Y) Dopo le varie assemblazioni e distruzioni dell’edificio negli anni, quello che rimane del lotto è la sua anima, la sua idea inizale. Secondo gli Astor la demolizione di un edificio non ne distrugge il suo spirito negli anni, dando vita ad una vera e propria reincarnazione dell’architettura, un prodotto del Manhattismo, dove il nuovo e il rivoluzionario si presentano sotto la falsa luce della familiarità. Questa nuova tendenza ha portato alla luce una nuova forma di urbanismo a Manhattan: il cannibalismo architettonico (D.N.Y). Si inizia a pensare che, 5

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più facile l’uso dei piani superiori. Lo sviluppo in verticale della “Griglia” ha creato nei costruttori l’illusione di poter ripetere i piani abitabili all’infinito, creando stratificazioni autonome sovrapposte, “una città nella città”, con l’obiettivo di racchiudere esperienze, divertimenti, attrazioni in uno o più luoghi, che ospitano tutte quelle esigenze ritenute indispensabili per la vita dell’individuo di quella società.


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inglobando i vecchi edifici con dei nuovi, il risultato finale sarà un risultato che manterrà tutte le energie e le anime dei predecessori, preservandone a modo suo la memoria. L’Empire State Building Il prodotto finale del “Block”, che ancora oggi viene considerato “ una delle meraviglie del mondo”. Fu costruito con un facilità improbabile, arrivando a 14 piani in soli dieci giorni, grazie a un perfetto gioco di squadra: risulterà alla fine un “prodotto puro di un processo”. La bellezza dell’Empire State Building diventa il risultato di un’architettura automatica, senza pensiero: infatti il piano terra è popolato solo da ascensori, un piano la cui funzione è quella di trasportare le persone verso l’alto, mancando di immaginazione metaforica, mentre il resto dei piani viene focalizzato sull’efficienza degli uffici. L’Empire State Building cambia radicalmente l’utilizzo di questo isolato, che perde così la sua anima. Questo porta quindi all’esigenza di fare riapparire “l’anima” del Waldorf-Astoria da qualche altra parte sulla “Griglia”. Per poter comprendere lo sviluppo della società di Manhattan bisogna analizzare le relazioni che avvengono all’interno dei suoi edifici. Downtown Athletic Club Si tratta della macchina ideale per generare e intensificare le forme di rapporti umani esemplari per un perfetto modo di essere nella società, un nuovo essere umano, che trova la sua espressione attraverso una forma dell’architettura che pianifica la vita stessa. Costruito nel 1931 all’estremità più meridionale di Manhattan, si innalza inosservato, e quasi indistinguibile, il palazzo del Downtown Atheltic Club. La sobrietà dell’involucro esterno nasconde al suo interno un susseguirsi di attività frenetiche: palestre, piscine, centri benessere, ristoranti e alloggi, un perfetto strumento della “Cultura della congestione”. Conseguenze_L’ Hotel Waldorf- Astoria, l’Empire State Building e il Downtown Athletic Club danno l’idea di avere gli stessi sintomi con i quali si è venuta a formare e a sviluppare la precedente società di Coney Island. 6


Whiteny Studio Club Il museo fu fondato nel 1931, dalla scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, in seguito all’esperienza del Whiteny Studio Club. Il Whitney Studio Club diventa il circolo i cui obbiettivi erano di sostenere gli artisti americani già in voga, come Edward Hopper e Alexander Calder, e soprattutto di formarne dei nuovi. Quando nel 1928 Edward Robinson, direttore del Metropolitan Museum of Art, rifiuta di ospitare le 500 opere della collezione Whitney, G. V. Whitney e la sua assistente Juliana Force, organizzano la creazione del primo Whitney museum, che fu inaugurato il 15 maggio 1931 con sede a West Eight Street, nel Greenwich Village. Attualmente la sede principale del Whiteny Museum si trova al numero 945 di Madison Avenue, angolo con la 75th street. La progettazione dell’edifico venne affidata al giovane architetto ungherese Marcel Breuer, trasferitosi negli Stati Uniti da pochi anni. Il museo viene inaugurato il 27 settembre 1966, da Jacqueline Kennedy, presidente del Withney’s National Committee. “Che aspetto dovrebbe avere un museo, e per di più un museo a Manhattan? E’ facile dire a posteriori che aspetto non dovrebbe avere: non dovrebbe assomigliare a un grande magazzino, a un palazzo per uffici, né a un luogo di divertimenti. Dovrebbe avere una propria identità e un certo impatto per quanto riguarda la forma e i materiali usati, per affermarsi tra i vicini grattaceli di 50 piani. Dovrebbe rappresentare un’unità indipendente, autosufficiente, una testimonianza della storia, e al contempo entrare in relazione visiva con la strada, come è giusto che sia per un edificio del XX secolo. Dovrebbe trasferire la vitalità della strada nella serietà e profondità dell’arte”. (M. Breuer) Con queste semplici parole, Breuer, racconta quali sono i primi enigmi che un architetto 7

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Se una semplice attrazione, come il tunnel dell’amore, era riuscita ad avviare il processo per un’architettura del fantastico, che si maturo’ successivamente nell’isola madre, Manhattan, attraverso il Grattacielo, la domanda che viene di consguenza e’ a cosa portera’, l’apparente innocua volonta di “Programmare” la vita di un singolo individuo, con la volonta’ di creare un “nuovo essere umano”?


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dovrebbe risolvere trovandosi a progettare un edificio in una città come Manhattan, e soprattutto se questo sorgerà in una parte della “Griglia” dove l’architettura che ne compone il contesto viene ripetuta e scandita in maniera quasi monotona, con un alternanza di funzioni e materiali che sembrano, e cercano, di proiettarsi all’infinito sulle assi X, Y e Z. Sicuramente la scelta di ingaggiare un architetto “non americano” per risolvere questi aspetti, non sarà stata del tutto casuale. Marcel Breuer Di origini ungheresi, si forma già da giovanissimo, all’età di diciotto anni, presso la nuova accademia d’arte di Weimar, il Bauhaus. Passati i tre anni di studio previsti, dove il suo talento riesce già a distinguersi tra i suoi coetanei, gli viene offerto il titolo di “giovane maestro” presso la stessa scuola, con la mansione di direttore del laboratorio di falegnameria. I successivi anni passati come professore e direttore della falegnameria, contribuirono ad affermare la sua carriera da designer, progettando la prima sedia a sbalzo del mondo, completamente in tubolare metallico. La collaborazione nel Bauhaus, in particolar modo con il direttore dell’istituto, Walter Gropuis, fungono da strumenti fondamentali per assicurare la fama di Breuer sia nel campo del design industriale che in quello architettonico. Il Bauhaus subì numerosi cambiamenti, sia per cosi dire “stilistici”, dovuti ai differenti contributi che hanno dato i vari direttori della scuola, personaggi come Walter Gropius, Hannes Meyer e Mies van de Rohe, che geografici, da Weimar a Desseau e in fine a Berilno, arrivando alla sua inevitabile chiusura subito dopo la salita al poter del Nazionalsocialismo nel 1933, a causa dei principi che la scuola sosteneva, che ovviamente differivano da quelli sostenuti dal Nazismo. La collaborazione tra Marcel Breuer e Walter Gropius continuò anche dopo la chiusura del Bauhaus. Grazie a Gropius, Breuer entra a far parte della scena architettonica americana, prima come assistente di Gropius, che aveva ricevuto la catterà come professore di Architettura a Harvard, e successivamente da Architetto professionista con privato a 8


studio a New York.

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Whitney Museum La committenza desiderava una superficie espositiva il più possibile adattabile. Così Breuer progettò tre piani da adibire a sale espositive alti dai 4 ai 5 metri e mezzo, quasi senza finestre e privi di pilastri, alcuni settori più piccoli sono separati e sfruttati per esposizioni permanenti. I soffitti sono coperti da griglie prefabbricate di calcestruzzo che permettono di variare la disposizione di luci e pareti divisorie. Il design degli interni è estremamente sobrio: il colore grigio domina soffitti e pareti, mentre i pavimenti sono rivesti con lastre d’ardesia grigio scuro. Al pianterreno troviamo l’ingresso, al piano interrato la caffetteria e il book shop. Una peculiarità dell’atrio d’ingresso è rappresentata dalle fitte lastre concave di alluminio appese al soffitto, che riflettono la luce proveniente da un elemento illuminante centrale. Il secondo piano interrato, che serve da deposito, e il sottotetto che ospita uffici sono gli unici spazi non aperti al pubblico. Nello spazio che separa il muro dell’ultimo piano e la facciata anteriore del museo, priva di aperture, trova post un giardino pensile. La facciata dell’edificio sulla Madison Avenue è articolata in tre gradoni che arretrano procedendo dall’alto verso il basso. Il marciapiede e l’atrio d’ingresso sono collegati da un ponte coperto, che attraversa il cortile delle sculture, allestito all’altezza del piano interrato. Si accede al museo tramite un’apertura nella parete a vetri che divide il cortile delle sculture in una zona esterna e una interna; per il resto, il blocco rivestito di granito grigio ha solo sette finestre che lo mettono in comunicazione con il mondo esterno: una, la più grande, collocata a livello del piano espositivo superiore che si affaccia sulla Madison Avenue, le altre sei sono distribuite apparentemente a caso sulla parete laterale verticale che dà sulla 75th Street. Le finestre sono ricavate da piramidi troncate obliquamente, così da permettere una migliore infiltrazione della luce al suo interno, e allo stesso tempo bloccano la vista dal traffico cittadino sottostante. Sulla Madison Avenue, l’edificio è discosto dal palazzo vicino, e lo spazio vuoto è colmato da una scala arretrata rispetto alla facciata principale; muri spartifuoco di calcestruzzo


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armato mettono in risalto il carattere solitario del museo. Tutto questo serve a trasformare lo stesso edificio in una scultura”. (M. Breuer) Presupposti Attraverso l’analisi dei precedenti edifici elencati sopra, siamo riusciti ad descrivere in che modo si sono manifestati alcuni degli aspetti più significativi dell’evoluzione sociale della citta di Manhattan; che sono: l’intrattenimento sociale Il Waldorf-Astoria con i suoi “saloni sociali”, che racchiudevano al suo interno tutto il necessario per il divertimento e lo svago di massa. L’economia Con l’ambizione di voler prendere il posto delle divinità, rinchiudendosi dentro monumenti fatti di vetro, acciaio e pietra, verso la conquista dei cieli, (Empire State Building) incombendo timore e allo stesso tempo ambizione sulla nuova società che stava nascendo. l “programma sociale” La progettazione sta alla base “dell’Esperimento Manhattan”, tutto viene pensato e programmato, almeno questa erano le ambizioni. Si stabiliscono i modi in cui la nuova società si divertirà, quali dovranno essere i suoi principi, e di conseguenza anche chi e come deve essere il futuro fruitore di questo “esperimento”. Il Downtown Athletic Club, con le sue palestre e centri benessere diventa quindi il luogo dove al suo interno si trovano gli strumenti necessari per diventare un cittadino ideale per il nuovo tipo di società che stava fiorendo. Arte sociale Il Whitney Museum è di fatto l’imprevisto sfuggito ai suoi progettisti, il virus, l’antagonista, che sembra apparire colpo, senza nessun preavviso, nel mezzo di un piano dettagliatamente organizzato, “la Griglia”, ma che di fatto giaceva sopito al suo interno, e inevitabilmente è uscito fuori facendosi spazio in mezzo ad un contesto oramai ben studiato.

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New Museum Concetto Il progetto di questo museo nasce dall’idea di Marcia Tucker, la ex-curatrice del Whitney, la quale immaginava un’istituzione dedicata alla presentazione, allo studio, alla documentazione e all’interpretazione dell’arte contemporanea. Nel 1977, con la venuta fondazione del museo, il primo dedicato al arte contemporanea in New York City si assiste ad una vera riconcezione dello spazio espositivo dopo la seconda guerra mondiale. Il ruolo del New Museum era quello di essere un ponte di dialogo tra gli artisti e il pubblico; dando al museo un carattere distintivo e innovativo. Il museo presentava i lavori innovativi degli artisti che ancora non riscontravano successo nelle esposizioni pubblice o non erano ancora accettati dalla critica dell’epoca, dandogli l’oppurtunita’ di esporre i propi lavori in un museo pubblico. Durante quei anni, l’arte non era un espressione che tutti potevano venire a capire e aprezzare, e l’arte che c’era nei musei di quel tempo era il classico. Tucker volevo spostarsi da questo pensiero, e aprire il mondo d’arte, a tutti quei artisti che ancora non venivano accetati dal pubblico e da i critici artistici. Questo approcio a l’arte e l’istituzione in cui viene presentato, ha inziato un percorso di cambiamento, nel pensiero di cosa rende un opera o un artista accetabile, per dedicarli lo spazio e il tempo di esposizione. 11

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Questo museo è stato, e ancora lo è, fondamentale per il corso giornaliero della vita di Manhattan, è quello spiraglio di luce e di aria fresca in uno spazio dove il contatto con la natura e con la propria anima quasi non esistono più, non a caso si trova ad essere vicino del Central Park, un altro luogo dove il contatto con la natura viene studiato per non essere dimenticato. L’imprevisto Whitney è un ulteriore prova dell’efficacia della “Griglia”, che riesce comunque a contenere e a controllare anche quello che non si riesce a prevedere, come gli imprevisti, infatti, grazie alla suddivisione in blocchi, con le strade che corrono lungo tutti e 4 gli angoli, si potrà sempre avere una visione a 360 gradi di quello che avviene all’interno di ciascuno dei “Blocks”. Una libertà costantemente monitorata.


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Location/Museo Il New Musuem, dal suo inizio, e’ sempre stato pensato come un idea, mai come un propio edificio. Il fatto che non era mai stato creato in una cosa fisica, ha cresciuto e coltivato negl’anni la sua propia idea e concetto di cosa voleva essere,portando a creare un programma della costruzione del museo. L’obiettivo era un edificio che sorprendeva, che potrebbe suscitare curiosità e riflettere l’attività all’interno attraverso la sua forma, di essere realizzato con materiali vernacolari, materiali che fanno parte della vita quotidiana in armonia con il quartiere Bowery. Il location per un museo non era piu’ sul Upper East Side, dove nel passato, si costruevano. Questo fa capire che anche nel mondo artistico, la societa’ di New York non aveva piu’ la esclusivita’ di una volta; di volere tenere tutto controllato su la griglia. Ora l’obiettivo era di distinguersi e differenziarsi in una citta’ dove e’ a volta quasi improbabile. Bowery La communita’ di cui il new musuem e’ sempre state parto d’integrante e il sito di una communita creativa per decadi. Un location pieno di quartieri svariati come Soho, Nolita, NoHo, Lower East Side, Chinatown, Little Italy; era geograficamente perfetto. Il Bowery e’ anche riconosciuta per essere la casa di tanti artisit del nostro tempo come Mark Rothko, Frankie Kline, William Burroughs, e Terry Richardson. La diversita’ che trasmetteva fuori dal museo e’ come un introduzione di cosa accade dentro; con gli artisti, i tema, le mostre, e tutte l’opere d’arte. Programma Dopo la decisione del Bowery come il sito per il museo, il passo avanti era in quale forma e spirito questo edifico doveva essere realizzato. E’ inteso come una casa per l’arte contemporanea e un incubatore di nuove idee, cosi come un contribuito architettonico al paessaggio urbano di NY. Grazie a un concorso di design tenuto dal gruppo del New Museum, lo studio d’archittetura di SANAA e’ stata scelta per il loro schema che ruinisce il sito, la missione del museo, e il programma architettonico. 12


Contenuto Tante delle mostre e opere esposte al New Museum si focalizzano su temi che in un certo momento nella storia, erano ancora troppo controversiali. Una delle prime mostre del museo, intitolata “Bad Painting”, mette in discussione il concetto di gusto (in arte) e solleva varie questioni controverse della natura e dell’uso di immagini nel arte recente americana. Questa mostra porta in discussione cosa rende un’opera “buona” o “okay” per poter essere esposta in un museo o galleria. L’arte del museo raccontava anche di situazione e crisi reali come nell’installazione “Let the record show”. Questa mostra del ’87, tramite una variazione di media elettronica e stampa, prevede informazioni importanti riguardando l’epidemica AIDS per raccontare la gravita della crisi. Era una delle prime grandi 13

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SANAA L’architettura di SANAA approccia l’complessità all’interno di apparenze ingannevolmente semplici. Ha molti elementi che sono impossibili da comprendere a meno che in realtà “vissuta”. In contrasto con l’architettura moderna, SANAA ha molti aspetti che non possono essere rivelati in media “rappresentativi” come i piani, modelli e fotografie. Questo stile d’architettura l’hanno riportato nella construzione del New Museum al Bowery. Il loro aproccio sorprendente è stato quella di trattare lo spazio limitato come una forma sculturale, arrivando a una drammatica pila di 7 rettangolari, rivestite in una rete di alluminio anodizzato che sottolinea i volume delle scatole. Il materiale trasforma l’entera struttura in un gioco di luci e riflessioni. Questo materiale e’ stato scelto per l’impressione che trasmetteva sul edificio; una sensazione di legerezza, sottigliezza, e permeabilita’. L’uso di questo materiale da anche la sensazione di trasparenza, determerialiazza l’edificio e lo crea’ piu morbido. Nel museo non ci sono colonne continue da terra, aparte quella centrale, permettendo la creazione di uno scheletro nascosto, che permette l’entrate di luce e spazio di gallerie piu ampie. La loro soluzione geometrica e architettonica e’ fondata alle limitazioni dello spazio del sito, che avviene da la Griglia. Lo spazio che era dedicata per la costruizione non poteva essere aumentato, questo ha fatto che SANNA creava un edificio che poteva distinguersi nel suo blocco.


NYC Trilogy Il libro di Paul Auster, basato a Manhattan, arriva a diverse conclusioni e teorie della citta’ moderna. City of Glass proporre’ che lo spazio urbano e’ un ambiente razionalmente ordinato, come se’ puo’ essere letto. Manhattan e’ una citta’ leggibile grazie alla sua formazione, la Griglia. Vista dal alto, e’ composta di strade e viali, dritti e continui, facendola possibile a creare forme e lettere. Questa lettura della citta’ fa parte del controllo presente in Manhattan, dove tutto ha un senso, un piano. Se palazzi come l’Empire State Building e il Waldorf-Astoria erano stati progettati per fornire una societa “New Yorkese”, perche non si puo’ dire la stessa cosa del movimento in citta’? Paul Auster concentra sul identita’ in la citta metropli, post-moderna. Avendo la stabilita’ intorno, il senso di avere un posto, e’ stato a lungo simboleggiatto dalla casa. In una citta’ come Manhattan, la stabilita’ non e’ piu la casa, ma un “luogho chiamato casa”, e’ un punto di supporto che fornisce sia la stabilita spaziale, una struttura geografica o architettonica immuntabile a cui si puo’ ripetutamente ritorno, come “un fonte di identita’ unproblematica”. Questa identita’ e’ parte del museo Whitney e del New Museum, che si creano una propia e vera anima, in un mondo dove e’ difficile a differenziarsi. Manhattan e’ stato un esperimento per portare alla formazione di una societa’ pulita e perfetta, che e’ pianificata a ogni momento. Il Whitney e New Museum sono stati creati per togliersi da questo piano, per rendere possibile la loro ‘vita’.

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risposte del mondo d’arte alla crisi dell’AIDS. Il museo cerca anche di inserire mostre che parlano del concetto e l’importanza dell’identità di se stesso. “The Decade Show: Frameworks of Identity in the 1980’s” era ideata e realizzata da tre istituzioni con diverse circostanze razziali e culturali, e contribuisce al dibattito sul multi culturismo emergente nel mondo d’arte.


Il Giappone alla scoperta dei Musei

Era un periodo in cui il governo giapponese si interessava alle nuove istituzioni museali, notevolmente innovative che si stavano organizzando in Occidente. Così, nel tentativo di trasformare l’industria e stimolare la propria crescita economica, decise di prendere a modello grandi musei come il British Museum e la Smithsonian Institution, dando vita ad un sistema mirato a coinvolgere la popolazione per avvicinarla agli ambiziosi piani di crescita culturale dell’Impero. Nonostante diverse tipologie di esposizione si fossero già sviluppate in Giappone ben prima della fine del diciannovesimo secolo, il museo era comunque visto come un concetto nuovo e inesplorato. Uno dei primi contatti del Giappone con il concetto di museo occidentale è testimoniato da una copia della rivista Nederlandsch Magazijn1 del 1853, conservata all’Istituto per lo Studio di Libri Stranieri (Bansho Shirabesho), in cui compare un articolo che descriveva vari esempi di musei in Europa. La loro più grande fonte d’informazione sull’Occidente era però rappresentata dai rapporti e diari degli studenti e ricercatori Giapponesi all’estero. Nei loro scritti le descrizioni del British Museum e della Smithsonian Institution erano molto ricorrenti. Ne venivano sottolineate soprattutto la monumentalità architettonica, le numerose e differenti tipologie di esposizioni e la stupefacente varietà e particolarità degli oggetti dell’esposizione come le mummie egizie o gli animali vivi. Nel 1860 ad esempio alcuni studiosi in viaggio negli Stati Uniti si riferirono 1

IL GIAPPONE ALLA SCOPERTA DEI MUSEI

É nel tardo diciannovesimo secolo che in un Giappone in ascesa, il nuovo governo Meiji decide di istituire un sistema museale, con lo scopo di mettere in mostra e valorizzare il proprio patrimonio artistico. In quel periodo gli scambi artistico-culturali tra oriente ed occidente erano numerosi sia perché le colonie francesi li favorivano, sia perché in occidente, dove già negli anni dell’Impressionismo francese gli artisti amavano collezionare oggetti e stampe giapponesi, si guardava con ammirazione ai vari artisti come ad esempio Hokusai.


IL GIAPPONE ALLA SCOPETA DEI MUSEI

all’esposizione interna allo U.S. Patent Office di Washington come “hakubutsukan”, termine che oggi viene utilizzato per ‘museo’ e letteralmente: ‘Edificio per la diffusione della cultura tramite artefatti’. La Smithsonian fu nominata kyuri no kan (edificio per la scienza) o ancora ‘luogo dove sono riuniti oggetti rari di diverse nazioni’. La molteplicità di terminologie e le attente osservazioni suggeriscono quanto i giapponesi stessero cominciando a considerare il potenziale della struttura museale. In seguito al Rinnovamento Meiji2 personaggi di cultura come il botanico Itou Keisuke ed il naturalista Tanaka Yoshio scrissero riguardo la necessità di istituire strutture museali come quelle presenti in Occidente con lo scopo di preservare i cimeli storici. Nel 1871, presso il Ministero dell’Educazione (Monbusho Hakubutsukan), nell’area Yushima di Tokyo, venne realizzata la prima esposizione che portò allo sguardo dei visitatori fossili, minerali, animali, piante e artefatti. In seguito all’esposizione di Yushima il governo creò un organo incaricato alla costruzione di un museo permanente. Naque così nel 1877, il Museo dell’ Educazione (Kyoiku Hakubutsukan), conosciuto ora come il Museo Nazionale della Scienza, con esposizioni dedicate alla fisica, chimica, zoologia, botanica e oggetti religiosi. Con una parte distaccata dedicata alle opere d’arte. In seguito cominciarono a svilupparsi i primi musei regionali, come quelli di Akita, Niigata, Kanazawa, Kyoto, Osaka, ed Hiroshima. Questo entusiasmo per le nuove istituzioni museali fece interessare anche la famiglia imperiale che nel 1886 decise di istituire un museo centrale dedicato esclusivamente ai manufatti storici. Nel 1895, apre le sue porte il Museo Nazionale del periodo Nara, seguito due anni dopo dal Museo Nazionale di Kyoto. Verranno stabiliti in seguito dei musei specialistici, come la Sala Espositiva del Ministero dell’Agricoltura e del Commercio nel 1897, il Museo delle Poste nel 1902, e la Sala Espositiva dell’Ufficio Brevetti nel 1905. Con l’inizio del secolo cominciarono a fiorire anche musei privati. Il primo fu il Museo Okura Shukokan Museum, costruito nel 1917 per ospitare la collezione di Okura Kihachiro. L’in2


È il 1939 ed in Europa si sta espandendo il fascismo. Sono molti gli scrittori, architetti, ed artisti che cominciano a lasciare il paese. Fino alla stretta del patto russo-tedesco del ‘39 il Giappone era alleato della Germania nazista per far fronte all’URSS, loro nemico comune. Nel ‘38 il Giappone aveva firmato un accordo culturale con la Germania e poi con l’Italia di Mussolini. Ma in seguito al patto di non aggressione russo-tedesco, il Giappone decise di prendere le distanze dai nazisti e dichiararsi stato neutrale. Il governo continuò quindi il suo progetto di espansione geografica e culturale.

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IL GIAPPONE ALLA SCOPERTA DEI MUSEI

dustriale Ôhara Mogasaburo fondò il Museo dell’Arte Ohara nel 1930 a Kurashiki, nella prefettura di Okayama. Questo fu il primo museo in Giappone ad essere dedicato all’arte occidentale. Altri musei apriranno poi dopo la fine della guerra, come il Museo dell’Arte Yamatane, e la Galleria Idemitsu, entrambi contententi collezioni private. Intorno al 1945, ci saranno circa 150 musei in Giappone. Tuttavia il grande terremoto di Kanto del ‘23, il conflitto con la Cina e la Seconda Guerra Mondiale, fecero cessare per un lungo periodo l’espansione museale del paese.


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IL GIAPPONE ALLA SCOPETA DEI MUSEI


Intorno agli stessi anni il Ministero del Commercio e dell’Arte Industriale, in collaborazione con i grandi magazzini Takashimaya, aveva cominciato ad invitare in Giappone specialisti stranieri per cooperare nella produzione di oggetti industriali concepiti per il pubblico occidentale al fine di sviluppare il commercio con l’estero ed aumentare le esportazioni. In seguito alle dimissioni della tedesca progressista Prill-Scholemann come consigliera di produzione, il capo dello sviluppo estero, Ryōchi Mizutani, si trova a dover scegliere un nuovo consigliere. Junzō Sakakura, presidente della Associazione Architettonica Giapponese risiedente a Parigi, e progettista del padiglione del Giappone all’Esposizione Internazionale di Parigi del ‘37, suggerisce l’amica e collega conosciuta à l’atelier di Le Corbusier: Charlotte Perriand. Prima di lei Bruno Taut, architetto progressista tedesco e figura importante del Werkbund, era stato invitato in Giappone nel 1933 dalla Società Internazionale di Architettura Giapponese (Nihon intanashonaru kenchikukai). Questo prestigioso membro dell’Accademia Reale di Prussia si era recato a Kyoto per visitare la villa imperiale Katsura e affascinato dall’architettura giapponese decise di trattenersi qualche mese. Il suo soggiorno finì per durare tre anni e mezzo e segnare un momento importante nella sua carriera e nella storia del design giapponese. Il ruolo proposto alla Perriand presso il Ministero del Commercio era di estrema importanza: la strategia degli industriali giapponesi, infatti, era di approfittare della guerra in Europa per espandersi sul mercato del mobile di tipo occidentale e degli oggetti per la casa. Ma il loro stile di vita era l’esatto opposto di quello occidentale, i giapponesi vivevano sui tatami, non si sedevano sulle sedie e mangiavano con le bacchette. Progettare oggetti domestici lontani dalla propria cultura e di cui non facevano un uso quotidiano risultava estremamente com5

CHARLOTTE PERRIAND TRA OCCIDENTE E ORIENTE

Charlotte Perriand tra Oriente ed Occidente: tra Modernismo e Tradizione.


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plesso per loro. La sedia fu introdotta in Giappone all’inizio del ventesimo secolo nell’amministrazione per migliorare il rendimento dei funzionari che fino ad allora lavoravano seduti sui tatami. All’inizio della guerra erano davvero poche le influenze occidentali nello stile di vita domestico in Giappone ma, appoggiati dal governo voltosi alla modernizzazione e razionalizzazione della vita quotidiana, alcuni progettisti influenzati dal Bauhaus erano già al lavoro per realizzare oggetti e mobili orientali rivisitati in stile europeo. Copie che pian piano cominciavano ad essere proposte al pubblico nei grandi magazzini. Per la allora trentasettenne Perriand l’occasione di dover dirigere la produzione di arti applicate di un intero paese fu una straordinaria opportunità e – come le scrisse l’amico Fernand Léger in una lettera, spingendola a partire – un’occasione irripetibile di lasciare la Francia ormai orientata verso il fascismo. La Perriand era infatti stata impegnata per più di dieci anni nella sfera comunista, assieme agli amici e colleghi Pierre Janneret e José Luis Sert3. Ma al momento della stretta del patto Molotov-Von Ribentropp, firmato il 23 agosto 1939, Perriand si allontana dal Partito Comunista Francese lasciandosi alle spalle il sogno comunista che andava inesorabilmente virando verso l’incubo.4 La situazione politica in Giappone però non era delle migliori. Non si potevano di certo ignorare i massacri di Nanjin del ‘375, le crudeltà ed il sangue sparso dai giapponesi in Cina che passavano a ciclo continuo sui cinegiornali, l’imperialismo, e l’alleanza del governo con i nazisti. Junzo Sakakura, tuttavia, inserisce le figure di Perriand, Janneret, e Sert - tutti simpatizzanti comunisti impegnati nel movimento antifascista - nel suo collage di presentazione alla stampa e alle autorità giapponesi del Padiglione del Giappone all’Esposizione Internazionale del ‘37. Inserisce anche José Gaos, commissario generale del Padiglione spagnolo, e figura antifascista nella guerra di Spagna. La politica passò in secondo piano però quando la Perriand decise di accettare l’offerta ed imbarcarsi sulla Hakusan Maru6 diretta in Giappone. Durante il viaggio incontrò lo storicoetnologo Narimitsu Matsudaira, membro della famiglia imperiale, che le fa conoscere più da 6


Attirati dalla fama internazionale del maestro i due erano venuti ad apprendere i concetti della ‘nouvelle architecture’, al fine di soddisfare le necessità di sviluppo urbano del loro paese che in seguito alla distruzione di Tokyo per il terremoto del 1923, e degli incendi che lo hanno seguito, si era reso conto della vulnerabilità dell’architettura giapponese e della sua inadeguatezza ai bisogni di una società industriale. Nel 1932 Sakakura regala a Charlotte Perriand Il Libro del té, di Kakuzo Okakura, che illustra il pensiero giapponese attraverso la filosofia del té. “Il téismo – scrive Okakura – é un culto che si fonda sull’adorazione del bello tra le volgarità e l’esistenza quotidiana”. Nelle annotazioni della Perriand, è ricorrente l’esaltazione che il téismo fa all’importanza del vuoto. Al suo arrivo come collaboratore all’atelier di rue de Sèvres, invece, Maekawa regalò a Le Corbusier un libro sul Giappone composto da incisioni antiche. In quel periodo Charlotte Perriand lavorava alle Maisons Loucheur7 con Le Corbusier e Jeanneret, ed utilizzò alcune immagini di una casa giapponese riportate in quel libro per rilevare misure e dimensioni da poter utilizzare nel progetto. L’architettura delle Maisons Loucheur, non a caso, riprende numerose caratteristiche dell’architettura giapponese: pianta e facciata libera, standardizzazione degli elementi, arredi incorporati alle pareti, struttura posata su una base centrale in cemento (come le grandi pietre giapponesi), pareti scorrevoli che permettono di riconfigurare la spazialità interna a seconda del giorno e della notte. Principi molto simili a quelli usati da Gerrit Rietveld nel 1925 nella progettazione della sua Villa Schröder. 7

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vicino lo spirito tradizionale giapponese e le sue celebrazioni per mezzo di feste, riti shintoisti, ed arti religiose. A differenza della gran parte dei francesi dell’epoca, però, la cultura giapponese non era del tutto sconociuta alla Perriand, e questo grazie a Kunio Maekawa e Junzo Sakakura, che avevano lavorato al suo fianco all’atelier di Le Corbusier e Pierre Jeanneret a Rue du Sèvres.


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“Il Giappone è pagano, la vita è pagana, molto differente da noi e la nostra morale di base cristiana […] Difficoltà di prendere contatto con l’arte e la vita. Dov’è l’arte?” Questa è la prima domanda che la Perriand si pone al suo arrivo in Giappone. Più avanti poi si risponderà, “Nel labirinto di strade di questa immensa Tokyo dall’aspetto di banlieue parigina, si mimetizzano dietro a palizzate i più bei giardini del mondo. Dietro barriere in legno di bamboo, le più belle case tradizionali, ed al loro interno gli oggetti comuni, oggetti d’arte. Dietro gli occhi neri, un eterno sorriso, un’estrema gentilezza, l’anima giapponese.” Rimane colpita dalle architetture, i cui principi sono estremamente vicini alle ricerche degli architetti moderni europei. “La stessa attenzione alla purezza – scrive nelle sue note – la stessa legge di compenetrazione di piani. La casa, espressione stessa della vita. Lo spirito moderno rappresenta un gran legame con i principi tradizionali del Giappone. Pianta libera, facciata libera ed interamente aperta sulla natura. La natura penetra nell’abitazione. Flessibilità dello spazio tramite porte scorrevoli, gli arredi incorporati all’architettura. Cosa bisognerebbe aggiungere ad una casa giapponese per viverci all’europea? Delle sedie e dei tavoli, certo. Ma questo adattamento alla vita di oggi rientra nel campo dell’urbanismo e del progresso.” Charlotte Perriand è particolarmente interessata al fatto che non ci sia una grande differenza di spirito nella concezione di una casa comune ed il palazzo dell’imperatore. Da subito la Perriand rimane estremamente colpita dal Giappone, e comincia ad annotare le sue impressioni in una serie di diari accumulando documentazione per le future pubblicazioni.

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Appena due settimane dal suo arrivo, la Perriand si reca al Nihon Mingeikan8, museo dell’artigianato folkloristico giapponese. Conservati in uno dei suoi taccuini, i commenti e le impressioni suscitate dal museo, indicano l’importanza di questa sua visita all’inizio del suo soggiorno in Giappone. Sōetsu Yanagi, fondatore del museo, è il padre di Sori Yanagi, assistente che accompagnerà Charlotte Perriand nei suoi spostamenti in Giappone. Filosofo e scrittore, Sōetsu, nel 1926 lancia il movimento Mingei (Arti popolari) con la pubblicazione del ‘Manifesto per la fondazione di un museo delle arti popolari’. Percorrerà poi tutte le province giapponesi per riunire collezioni di oggetti, fino ad arrivare nel ‘36 all’innaugurazione del museo. Durante la visita al Nihon Mingeikan, nel 1940, la Perriand e Sōetsu Yanagi, discutono di una possibile collaborazione con il Musée de l’Homme, museo antropologico che aveva aperto di recente le sue porte a Parigi, in occasione dell’Esposizione Internazionale delle Arti e delle Tecniche nella Vita Moderna. L’amico di Charlotte Perriand, Georges-Henri Rivière, museologo, era al tempo co-direttore del Museo dell’Uomo, e contava su di lei per posare le basi di una collezione di documenti etnografici sul Giappone, ma anche in vista di una futura esposizione itinerante in Giappone sulle arti e tradizioni popolari in Francia. Fu così che Yanagi propose una collaborazione tra i due musei. La scoperta della produzione per l’esportazione “In Giappone non c’è entusiasmo nel fare nuove esperienze. Non si osa. Risultato: si attende che gli altri paesi facciano qualcosa di successo, e poi si copia.” Charlotte Perriand è costernata dalle sue scoperte riguardo gli oggetti destinati all’esportazione. Gli artigiani giapponesi sfogliavano riviste europee per trarre ispirazione dalle forme senza preoccuparsi della funzione degli oggetti che non conoscevano. Nella regione di Akita, ad esempio, scoprì un porta-uovo troppo grande per un uovo di gallina, e troppo piccolo 9

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Il Nihon Mingeikan


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per un uovo di struzzo. Questo perché i giapponesi non mangiavano uova alla coque, e la foto da cui era stato copiato non riportava le dimensioni. O ancora un tostapane copiato da una rivista americana, sin troppo grande per dei toast, per non contare che i giapponesi comunque non mangiavano pane. Altrove notò anche sei servizi da tè o da caffè i cui piattini erano sin troppo grandi per posarvici le tazze. “Una questione di gesto, perchè il té alla giapponese si serve in piccole ciotole senza manico, tenute tra le mani, che per bere si sollevano come in un gesto di preghiera” commenta la Perriand. Un altro elemento che risulta fortemente criticato nelle sue annotazioni, è l’imitazione del bamboo utilizzando il legno. “Con tutto il bamboo reperibile in Giappone, dovrebbero piuttosto apprendere ad utilizzarlo al meglio – nota la Perriand – non bisogna assolutamente voler fare tutto, ma utilizzare ogni materiale per le proprie qualità specifiche”. Presso un artigiano di oggetti in ciliegio, trovò mobili sovracaricati di decori, ma non per provare l’abilità dell’artigiano. Era stato infatti un disegnatore dell’Istituto di Ricerca delle Arti industriali, come spesso accadeva, ad influenzare l’artigiano a produrre tali pezzi, nel tentativo di attirare la clientela straniera. Avvilita da tali scoperte, Charlotte Perriand porpose la realizzazione di un film sullo stile di vita europeo per mostrare agli artigiani come vivevano davvero gli occidentali. Decise inoltre, per denunciare questi oggetti strani e futili, di dedicargli una vetrina all’interno della sua mostra ‘Sélection, Tradition, Création’ che realizzerà nel 1941. Come detto in precedenza, prima di Charlotte Perriand, anche Bruno Taut si era interessato alle tecniche tradizionali durante il suo soggiorno in Giappone. Si dedicò anche alla concezione di oggetti in bamboo, materiale che nomina spesso nei suoi scritti. Ma nonostante ne faccia un uso pulito ed elegante, Taut si limita ad impiegarlo in oggetti di piccola taglia. La Perriand invece da al bamboo un ruolo più di rilievo e, in vista della sua mostra Sélection, 10


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Tradition, Création, mette in atto numerose sperimentazioni. Inoltre dal 1938 il metallo, requisito per la produzione di materiale bellico, era stato sempre di più rimpiazzato con le lame di bamboo. L’interesse della Perriand per questo materiale, aumentò dopo l’incontro con l’artigiano Kawai Kanjirō, nel suo atelier a Kyoto. In quel periodo Kawai si stava interessando alle sedie in bamboo prodotte a Taiwan per cominciare a disegnare mobili in quel materiale. Le sedute che realizza in quel periodo infatti, sono direttamente ispirate a modelli taiwanesi. Per quanto riguarda le sperimentazioni di Charlotte Perriand, invece, utilizzando canne di bamboo tagliate industrialmente, non si limita a copiare o rivisitare progetti esistenti, ma gioca sull’elasticità del materiale per concepire ad esempio una chaise longue in bamboo, simile a quella progettata nel 1929 insieme a Le Corbusier, che mostra i diversi utilizzi che si possono fare di questa pianta in forma grezza o trattata. Comunque, come scrive nel catalogo della mostra, a suo parere il bamboo non è un materiale ideale, ma resta piuttosto un buon ‘prodotto sostitutivo’ per rimediare all’assenza di materiali più innovativi in tempi di carenza.


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Contributo all’abitazione giapponese Nel marzo 1941, dopo circa sei mesi di ricerche in giro per il Giappone, Charlotte Perriand inaugura, in collaborazione con Sakakura, l’esposizione Sélection, Tradition, Création che - a detta di Perriand stessa - come risultato del suo primo intervento in Giappone, non rappresenta però altro che un punto di partenza. Spiega poi con umiltà che questa mostra è per lei un’occasione di far conoscere gli esempi di design moderno ai giapponesi. Il nome della mostra suggeriva i tre temi principali presi in considerazione da Charlotte Perriand: Selezione, si riferisce al bilancio che aveva fatto di cosa venisse prodotto di soddisfacente in Giappone e di utilizzabile in uno stile di vita europeo, e cosa andasse invece scartato. Tradizione, come lei tiene a precisare, non si tratta di copiare l’esistente, ma di realizzare qualcosa di nuovo nello spirito dell’epoca in cui ci si trova. Creazione, che parte dall’idea di ‘tradizione’, ricerca la sua espressione perfetta nell’utilizzo più ponderato possibile dei materiali per rispondere alle necessità dell’uomo. Non a caso nella cartolina di invito la Perriand è attenta a precisare che la mostra è “Realizzata con i materiali e le possibilità tecniche disponibili.” Per la sezione della mostra dedicata all’arredo domestico la Perriand riadatta il concetto e titolo ‘Équipement intérieur d’une habitation’ che aveva presentato con Le Corbusier e Jeanneret al Salone d’Autunno del ‘29, ma mostrando ogni stanza separatamente e non in un unico volume architetturale. All’ingresso dell’esposizione mette a confronto, tramite due grandi stampe fotografiche, la Villa Imperiale Katsura, realizzata a Kyoto nel diciassettesimo secolo e la Maison de weekend di Le Corbusier e Pierre Jeanneret a La Celle-Saint-Cloud, per dimostrare la forte vicinanza tra i principi tradizionali del Giappone e lo spirito Moderno. “Cambia solamente il modo di vivere e l’espressione tecnica in rapporto al tempo” scrive nel catalogo. Assieme ai pezzi realizzati da grandi artigiani, esposti allo scopo di criticarne la tecnica di copia degli oggetti occidentali, sono esposti anche disegni di bambini, futuro del paese. 12


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Continua così nel catalogo, “Il bambino prova il fatto che, alla base, questa immaginazione feconda si trova all’interno di ogni individuo che la società non ha influenzato.” Cercando di evocare un’idea di sintesi dell’arte all’interno delle sale espositive, i suoi mobili posati su tatami, sabbia e ciottoli sono accompagnati da dipinti di Fernand Léger e Pablo Picasso, opere considerate in Francia e Germania come ‘arte degenere’. Con spirito pedagogico Perriand espone le sedie e tavoli che ha realizzato o riadattato per il Giappone, mettendo in risalto i diversi tessuti che aveva fatto realizzare dagli artigiani, per mostrare la vasta gamma di rivestimenti per mobili e pareti. Questo a dimostrare l’incontro ricco di possibilità tra Occidente e Giappone. Alla conferenza di inaugurazione lancia il seguente messaggio: “Voi (i giapponesi) siete ora sul punto di passare dal modo di vivere dei vostri avi ad una nuova era dominata dalla tensione e dalla rapidità […] Vi trovate ad una svolta e non dovete esitare in quanto alla strada da seguire. Ma vorrei suggerirvi tre cose a tale riguardo. Prima di tutto, dovete tenere i vostri splendidi materiali, utilizzati in una forma pura e naturale propria della vostra tradizione. Non abbandonate mai le vostre qualità, come l’attaccamento alle belle materie e alle tecniche raffinate, la vostra sensibilità alle belle forme, ed il vostro senso estremamente sottile dell’equilibrio e dell’armonia. Vorrei aggiungere che il fatto di preservare la tradizione non significa obbligatoriamente aderirvi perfettamente, ma tener saldo ad una fondazione solida ed andare avanti a partire da essa. La tradizione autentica non può restare in vita che sotto forma di una tradizione adattata a questa nuova era. In secondo luogo, dovreste inventarvi un nuovo programma per il vostro modo di vivere […] Infine, dovreste lavorare al miglioramento delle tecniche di produzione nell’arte industriale. Fate evolvere le vostre proprie tecniche. Questo si inscrive nel quadro della vostra ricerca di progresso costante. Tengo a sottolineare questi punti che sono importanti per voi, tenendo conto della vostra situazione particolare, cioè di entrare in una nuova era fondandovi su di una trazidione autentica.” La Perriand mostra quindi che è importante trasporre i ‘magnifici materiali’ e le ‘tecniche raffinate’ tipici della tradizione giapponese in delle realizzazioni adattate alla nuova era, attraver-


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so un nuovo modo di vivere ed un ‘miglioramento delle tecniche di produzione’. Ma la guerra cino-giapponese è già scoppiata, e si appresta a sfociare nella Guerra del Pacifico, pertanto tali prospettive innovative della Perriand al momento non potranno essere realizzate. Il successo della Perriand è subito evidente, anche se il suo pubblico è incerto e preso alla sprovvista dal modo per loro sacrilego di esporre allo stesso livello opere di anonimi, arte popolare e l’arte della nobiltà. Poco dopo l’apertura della mostra a Tokyo, comunque, la stessa esposizione si terrà anche a Osaka, e all’inaugurazione di questa il capo dell’Ufficio del Commercio dichiara: “Siamo molto lieti di ricevere da tutte le province che lei ha visitato, lettere di ringraziamento e soddisfazione che provano l’efficacia della nostra collaborazione. A conclusione delle sue ricerche e consigli, Charlotte Perriand organizza qui una mostra. Constatiamo che, malgrado il tempo limitato a disposizione, malgrado le condizioni sfavorevoli, che il risultato è magnifico. Non mettiamo in dubbio che i suoi suggerimenti nel campo dell’Arte industriale sono molto apprezzati.” Nell’ottobre del ‘41, sei mesi dopo la mostra ‘Sélection, Tradition, Création’ il Ministero dei commerci e dell’Industria organizza, sempre a Takashimaya, un’altra mostra presentando degli ‘oggetti di vita quotidiana secondo il sistema economico adottato durante il conflitto’. Il messaggio ufficiale proclama che “la bellezza della semplicità può trovarsi dappertutto” e le qualità come la durabilità e la robustezza, la chiarezza e la semplicità, l’utilizzo dei materiali appropriati, e l’accessibilità finanziaria sono messi in risalto per selezionare gli oggetti della vita quotidiana. Dopo la guerra, Katsuhei Toyoguchi9, che aveva collaborato con Charlotte Perriand, riassume così la situazione: “Dopo la nostra entrata in guerra gli oggetti d’uso sono stati progressivamente adattati ai bisogni militari. Il governo ha utilizzato un sofismo che accentua la bellezza della semplicità e la pienezza dell’estetica giapponese.” Le preziose parole della Perriand, espresse anche grazie al suo approccio moderno al de14


La Maison d’Étienne Sicard, Tokyo, 1941 Questa abitazione, costruita presso l’ambasciata di Francia, è una delle rare realizzazioni di Charlotte Perriand durante il suo soggiorno in Giappone. Per il rinnovamento interno di questa residenza individuale in legno la Perriand prende a carico tre stanze: due al piano terra, in stile occidentale (sala da pranzo e salone), ed una in stile giapponese con tatami e shoji al primo piano per la camera da letto. La sala da pranzo riprende i toni preferiti dalla Perriand, con una parete rosso acceso come quello che fece dipingere nell’appartamento del ministro Georges Monnet, a Place du Panthéon, nel 1939. Per il tavolo da pranzo riprende il primo tavolo in legno disegnato per Paul e Agne Gutmann nel 1935. Crea poi una sedia economica in legno e paglia. Quest’ultima sarà poi prodotta in serie dopo la guerra da Steph Simon e Sentou con leggere modifiche, e verrà utilizzata per arredare diversi progetti come gli alloggi della stazione sciistica Les Arcs10. Charlotte Perriand disegna poi una libreria appoggiata su piedi, composta da otto comparti in legno e vetro, assieme a degli scaffali a muro e tavoli da sotto finestra che donano una nuova proporzione alla stanza. Per il salone crea un tavolino basso con uno spesso piano di marmo dai bordi lasciati grezzi, simile al Tavolo Tronco d’Albero che aveva presentato alla mostra ‘Sélection, Tradition, Création’. Attorno al tavolo colloca sedie in bamboo in stile Taiwan, fabbricati nel 1941 dall’Atelier giapponese di mobili in bamboo a Kyoto. L’indocina, 1942-1946 Dopo la chiusura della mostra a Osaka le autorità giapponesi propongono alla Perriand di creare un istituto d’arte a Tokyo e di gestire gli scambi con l’America del Nord e altri paesi. Segno che l’atmosfera tra Giappone e America si fa più distesa. Ma il clima deleterio che 15

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sign, non sono state seguite pedissequamente ma trascritte sotto forma di ‘bellezza semplice’, termine utilizzato come mezzo di controllo per far fronte ai bisogni militari.


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si sviluppa a partire dall’ottobre 1941 e la nostalgia la spingono a voler tornare in Francia passando per gli Stati Uniti, dato che i collegamenti diretti erano tagliati. Prende così contatti a New York con l’amico Sert, l’architetto Paul Nelson e James Johnson Sweeney, curatore del Museo di Arte Moderna avvisando del suo imminente arrivo. Charlotte Perriand conclude il catalogo della mostra e prepara una conferenza per gli americani sulla sua esperienza in Giappone. Poco prima della sua partenza, però, i collegamenti marittimi tra Giappone e USA sono interrotti. I giapponesi le propongono così un soggiorno di quindici giorni in Indocina per contribuire alla promozione delle esportazioni, nel territorio sotto il controllo del governo di Vichy. Per il Giappone l’ascesa economica dei paesi dell’Asia sud orientale (l’attuale Vietnam, Laos e Cambogia), la Tailandia, e la Birmania, si rivela di grande importanza strategica. La Perriand prepara quindi diversi scritti sulle sue recenti ricerche, e soprattutto pianifica una missione simile a quella compiuta in Giappone, per contribuire allo sviluppo dell’artigianato indocinese. Nel dicembre 1942 si sposta quindi ad Hanoi dove presenta un’esposizione sulle sue ricerche in Giappone e pronuncia il discorso che aveva preparato per New York, al Grande Anfiteatro dell’Università Indocinese. Organizza poi diverse manifestazioni artistiche per le quali pratica una selezione per valorizzare i pezzi di artigianato migliori, che prefigura le tematiche della mostra ‘Forme Utili’ di cui sarà la curatrice nel 1949. Creò inoltre ad Hanoi un padiglione per l’artigianato, la cui architettura ricorda i suoi progetti intorno al 1935, con la sua copertura a pendenze invertite. Realizzò poi alcuni mobili in legno di cui ormai non restano che disegni e fotografie. Perriand sposò Jaques Martin, direttore degli affari economici in Indocina. Pernette, frutto di quel matrimonio, nasce poi sotto i bombardamenti del ‘44, mentre suo padre è prigioniero dei Giapponesi. Scampando per poco alla morte durante gli avvenimenti che accompagnarono la dichiarazione di indipendenza di Ho Chi Minh, e l’anno seguente, nel ‘46, l’intera famiglia riuscì a rientrare in Francia.

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Nel 1956 Steph Simon, fino ad allora distributore dei mobili prodotti alla fabbrica di Nancy, decide di aprire la propria galleria e casa di produzione al 145 boulevard Saint-Germain a Parigi. Charlotte Perriand e Jean Prouvé verranno chiamati a collaborare e mettere in produzione i propri mobili. Charlotte Perriand gli affida la produzione dei modelli che ha ideato in Giappone, anche conosciuti come la sua ‘quincaillerie’. Anche se nessuna azienda in Europa sarà in grado di fabbricare in serie la sua ‘Chaise Ombre’, prodotta in Giappone da Tendo, e neppure il suo tavolo ‘Air France’. Direttrice artistica della galleria, Charlotte Perriand seleziona le lampade di Isamu Noguchi e gli sgabelli di Sori Yanagi, che farà conoscere all’Europa. Incaricata delle scenografie introdurrà il bamboo, l’origami, le lampade in carta di riso di Noguchi ed altri oggetti del Giappone, donando un’atmosfera di stampo marcatamente nipponico al luogo. In parte per la mancanza di mezzi in parte per la mancanza di ambizioni di Simon a diventare produttore a livello europeo, i mobili di Prouvé e Perriand avranno un successo limitato e soprattutto riservato ad un pubblico agiato e di cultura. Uno dei veri successi su ampia scala che ebbe la Perriand fu per i suoi celebri cassetti in plastica prodotti in serie e venduti in gran numero da BHV.

Pubblicazioni sul Giappone Fino alla seconda guerra mondiale il Giappone era considerato positivamente dal pubblico francese, avvezzo all’esotismo e avvicinato alla cultura nipponica dagli artisti che vi si erano ispirati in passato. Ma nella Francia del dopo guerra il Giappone, alleato dei nazisti e dell’Italia fascista, sconfitto dagli americani, non godeva della medesima reputazione. Charlotte Perriand contribuisce in parte a ricostruire un’immagine positiva della cultura 17

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Il Giappone in Francia


CHARLOTTE PERRIAND TRA OCCIDENTE E ORIENTE

giapponese nell’ambito artistico tramite una serie di pubblicazioni e dichiarazioni. Nel 1949 pubblica un articolo di 11 pagine intitolato ‘Au Japon’, all’interno di un numero speciale de “L’Architecture d’Aujourd’hui” sulle arti plastiche, la cui copertina fu realizzata da Fernand Léger, partendo da una foto scattata dalla Perriand in Giappone. In seguito scrisse, sempre per “L’Architecture d’Aujourd’hui” che era allora la rivista di architettura più importante al mondo, un articolo di 10 pagine intitolato ‘Spettacoli in Giappone’. Lo stesso anno pubblicò anche la sua conferenza tenuta ad Hanoi ‘Influenze sull’Arte Industriale Giapponese’ nella rivista della Scuola di Belle Arti. Nel 1956 scrive per Casabella ‘Crisi del Gesto in Giappone’, uno studio nel quale critica il Giappone che copia stupidamente il modello Occidentale dimenticando le proprie radici. In tutte le sue interviste ed articoli evoca sempre il Giappone come fonte d’ispirazione ed utilizza fotografie che aveva scattato lei stessa durante la guerra e durante gli altri suoi soggiorni in Giappone negli anni 50-60. Condivide la sua passione per il Giappone con l’amico Robert Guillain che, come corrispondente del giornale Le Monde a Tokyo, ha fatto avvicinare il grande pubblico al Giappone grazie ai suoi articoli. L’installazione de La Maison Japonaise a Parigi nel 1957 riscontrò poi un grande successo e genererà numerosi articoli.

1957, Le Salon des Arts Ménageres Il Salone delle Arti Domestiche, dedicato alle più recenti innovazioni nel campo delle attrezzature domestiche, veniva visitato ogni anno da centinaia di migliaia di visitatori sotto le volte del Grand Palais. Le prime partecipazioni di Charlotte Perriand al salone risalgono al 1934-36 in cui presentò ‘La Grand Misère de Paris’, che suscitò scandalo, ed una ‘Living Room’ con scaffalature in metallo. Nel 1952 vi partecipa con un’Unità da Bagno ispirata ai bagni giapponesi, scoperti durante il suo primo viaggio in Giappone. Al Salone del 1957 Charlotte Perriand propone la presentazione di un’abitazione giapponese, le cui piante sono affidate al giovane architetto Ren Suzuki ed una parte degli oggetti di 18


Residenza dell’ambasciatore del Giappone in Francia, 1966-1969 La residenza dell’ambasciatore del Giappone era inizialmente situata a rue du Faubourg Saint-Honoré, a poca distanza dall’Eliseo, all’interno di una palazzina rococò di tre piani con sottosuolo, interamente ristrutturata. Il progetto a cui collabora Charlotte Perriand nacque nel 1965 quando l’Ambasciatore, Toru Hashigawara, si rivolge a Junzo Sakakura per la costruzione di una nuova residenza. Sakakura fa appello alla Perriand per l’architettura d’interni e gli arredi. L’architetto francese J.H. Riedberger avrà l’incarico di seguire il cantiere, e Jean Prouvè verrà consultato per la realizzazione delle parti in metallo. La struttura esterna dell’edificio, concepita da Sakakura, è un parallelepipedo in gran parte vetrato sulle facciate nord e sud. Ma l’interno della residenza non è visibile dalla corte ester19

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arredo a Sori Yanagi. Ci si troveranno quindi elementi come lo sgabello Papillon e lo sgabello Éléphant, oggetti di Yanagi che la Perriand teneva a far conoscere al pubblico. Fu nell’articolo pubblicato per la rivista Combat che Carlotte Perriand affermò che i suoi obbiettivi nel presentare questo paese dell’estremo Oriente erano di smentire i cliché del pensiero comune sull’esotismo e allo stesso tempo dimostrare come nella casa giapponese tradizionale finestre, porte scorrevoli (shoji, fusuma), e stuoie tatami erano utilizzate da secoli come sistema a moduli standard per ottenere un’armonia rilevante tra lo spazio interno aperto e la natura al suo esterno. Perriand insiste sulla modernità di tale approccio, che vorrebbe applicare all’architettura europea. All’esterno del Grand Palais, dove questa Casa Giapponese è esposta, viene diffusa in sottofondo la musica dello shamisen, strumento tradizionale a tre corde, mentre delle guide illustrano ai visitatori l’Ikebana11, l’utilizzo dei futons, e la maniera appropriata di aprire e chiudere le porte scorrevoli. É possibile che il pubblico francese, poco abituato ai costumi orientali, colto da un forte sentimento di esotismo suscitato dall’esposizione non abbia colto gli obiettivi fissati dalla Perriand.


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na grazie a delle schermature in legno che progetta la Perriand e che, partendo dal pavimento arrivano fino al soffitto, sono poste davanti alle finestre a riprendere i principi degli schermi in listelli di legno delle dimore urbane giapponesi. Perriand si preoccupa particolarmente di aprire gli spazi interni sul giardino con delle ampie vetrate, come nell’architettura tradizionale giapponese o come faceva Mies Van der Rohe. Ricorre poi a delle pareti scorrevoli simili ai fusuma per riconfigurare le dimensioni degli spazi. Per quanto riguarda gli arredi il riferimento al giappone non è così evidente. Il basso tavolo in legno è ripreso da un modello disegnato per Jaques Martin a Rio nel 1962 mentre il grande divano è una rivisitazione di un modello creato sempre per lui in Brasile. Un secondo divano, composto da dodici sedute componibili da disporre in cerchio o a seconda del numero di invitati, è il riadattamento di un arredo che risaliva ai tempi di Napoleone III. Due schermi a forma di onda, destinati a nascondere gli accessi ai servizi, per mancanza di budget sono realizzati con gli scarti di legno delle sedute e degli sgabelli di Charlotte Perriand. In uno spirito di Sintesi dell’Arte la Perriand sceglie opere di artisti giapponesi, in particolare di Isao Domoto e di Sofu Teshigahara, del quale pone una sontuosa scultura all’entrata del salone dei ricevimenti. Junzo Sakakura non vedrà mai la fine del cantiere nel 1970 in quanto morrà nel settembre del ‘69. L’arredo interno della residenza si evolverà nel tempo a seconda dei gusti dei diversi ambasciatori che vi risiederanno. L’imponente scultura di Sofu Teshigahara, che donava maestosità al luogo sparirà misteriosamente, assieme ai mobili di Charlotte Perriand.

La Maison de thé all’UNESCO, 1993 L’amicizia tra Charlotte Perriand e i Teshigawara, padre e figlio, prosegue sin dagli anni ‘50. Nel 1992, Hiroshi Teshigawara, cineasta, ceramista, scultore e maestro di ikebana chiede alla Perriand di concepire una casa del té in occasione del Festival culturale sul Gappone a Parigi presso i giardini dell’UNESCO. Proporrà lo stesso tema a Tadao Ando, Yae Lun Choi ed Ettore Sottsass. Lei risponderà alla proposta: 20


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“Ho avuto un fremito all’idea di immaginare una casa del té. Ho riletto la descrizione di Kakuzo Okakura, (nel suo Libro del té) e ne ho tratto: Effimera. Asimmetrica. Casa del vuoto. […] Questa nozione mi piace ma ancora non è NULLA. Tutto quello che io come occidentale potrei immaginare sarebbe superfluo, celebrale.” Consacrò così più di sei mesi alla realizzazione di questa casa che verrà esposta per dodici giorni soltanto, ai giardini dell’UNESCO, vicino alla Torre Eiffel. Per lei fu come un ritorno alle origini – il téismo – al simbolo della cultura giapponese che aveva tanto amato. Ormai novantenne, mise tutto il suo cuore ed energia in questo progetto. “La cerimonia del té – scrive all’entrata dell’esposizione – si situa in un’architettura tradizionale che risale al diciassettesimo secolo. Ho cercato di interpretare la tradizione Zen e di rispettarla. L’ho messa al riparo sotto una copertura in mylar. Ho realizzato il mio sogno di utilizzare un giorno questo nuovo materiale usato per le vele dei windsurf, che ho visto partire all’orizzonte come farfalle in volo. Hiroshi Teshigawara ha descritto bene l’onda a cui lo rimanda questo spazio.” La casa è circondata da una foresta di bamboo fruscianti, dei quali appaiono le ombre danzanti sulla copertura a ombrello. Isolata dall’atmosfera rumorosa della città, un’apertura centrale sul cielo permette di vedere lo spettacolo di nuvole che scandiscono il passaggio del tempo. Questa casa del té è per Perriand una metafora della vita, ma è anche la visione dell’architettura della quale sognava per il ventesimo secolo: leggera, flessibile, semplice, e poetica. Impiegando materiali nuovi e materiali viventi, in linea con la natura e l’uomo.


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L’Oriente come invenzione dell’Occidente

l’“Oriente”, quella grande etichetta che l’Europa ha incollato a tutto ciò che era al di fuori dei suoi confini, sul quale l’Occidente, in quanto entità astratta, ha sistematicamente costruito e rafforzato la propria identità, altro non è che un racconto elaborato a immagine e somiglianza di ciò che faceva più comodo al pensiero europeo. Per secoli l’Occidente ha posato il suo sguardo giudicante sulle altre culture, rispecchiandosi nell’immagine deformata del proprio dominio. “Com’è noto, la codificazione dell’Altro conosce un punto di svolta con la scoperta del Nuovo Mondo, quando l’Europa, dopo aver definito e dominato l’alterità al suo interno rappresentata dalla donna, dal pazzo o dall’ebreo, scopre l’alterità esterna agli antipodi del suo mondo. Da questo momento in poi ha inizio quel processo di lunga costruzione e di progressiva messa a fuoco dello sguardo europeo sull’Altro, secondo un atteggiamento sempre più connotato da quel “miscuglio di autoritarismo e di condiscendenza” che ha accompagnato le varie forme di dominio e di possesso dell’Occidente sul resto del mondo.” 2 L’evidente convinzione che i popoli dell’Est fossero inferiori, incapaci di governarsi da soli e di capire cosa fosse meglio per loro, era anche frutto dell’incapacità dello stesso Oriente di dare una propria definizione di se stesso. Compito che passò quindi nelle mani degli intellettuali europei, in dovere di rappresentare l’immagine di quella parte del mondo per il proprio Occidente, priva di fondamenta e per proprio uso e consumo. Un vero e proprio apparato 1

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“È così che sono state costruite le rappresentazioni delle altre culture: a partire dalla centralità del nostro sguardo, che ha conferito loro sostanza e identità ritagliate su misura di tutto ciò che noi rifiutavamo di essere. Quelle Afriche fantasma, quegli Orienti misteriosi, quei Paradisi dei mari del sud che, sedotti dalla fascinazione esotica di un altrove immaginario, abbiamo sovrapposto alla concretezza del dominio che gli imperi coloniali esercitavano su di essi, sommando così violenza a violenza, secondo un sistema di classificazione che contrapponeva il mondo del colonizzatore a quello del colonizzato come due essenze irriducibili l’una all’altra. Attribuendo agli altri tutto quello che non volevamo essere ma di cui avevamo bisogno per potere essere”. 1


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teorico che influenzò ogni aspetto della cultura europea. “Oriente” ed “Occidente” quindi non esistono affatto, entrambi sono un’invenzione del pensiero “occidentale” (nel significato geografico del termine). “Un ancor più implicito e importante elemento che distingue l’orientalista dagli orientali, a tutto svantaggio dei secondi, sta nel fatto che l’uno descrive, mentre gli altri sono descritti. La passività è implicata dalla seconda condizione, così come la capacità di osservare, analizzare e così via è implicata dalla prima. […] L’Oriente è qualcosa di fisso, immutabile, che ha bisogno di essere studiato, e di conoscersi meglio. Nessuna dialettica è permessa o richiesta. Vi è una fonte di informazione (l’orientale) e una fonte di conoscenza (l’orientalista) o, in altre parole, uno scrittore e il suo argomento, che di per sé sarebbe muto e inerte”. Cosa può smuovere quindi questa apatia, questo arrendersi al continuo smantellamento della propria immagine, l’impossessarsi della propria e reale identità, senza far nulla? Paradossalmente, secondo Karl Marx, nonostante il suo schieramento verso i ceti sociali più deboli, questo progetto di colonialismo sarebbe stato alla base di un’autentica rivoluzione sociale, altrimenti impossibile a causa della palese immobilità della popolazione asiatica. I veri problemi non hanno soluzione ma storia. 3 “Quasi sin dall’inizio, c’è stato qualcosa di innaturale nello sviluppo del Giappone, qualcosa che forse ha reso quel popolo psicologicamente malato. Di solito un popolo passa dallo stato primitivo alla civiltà con progresso così lento da essere talora impercettibile; è evoluzione piuttosto che cambiamento, e soltanto dopo che sono trascorsi secoli si può notare la differenza tra uno stadio e l’altro. Non così per i giapponesi i quali, due volte nella loro storia, hanno fatto salti improvvisi da uno stadio all’altro, salti di secoli: una volta quando passarono, in beve tempo, da uno stadio quasi primitivo a quello di una delle più alte forme di civiltà allora conosciute dall’uomo, la civiltà cinese; e di nuovo nel diciannovesimo secolo, quando passarono direttamente da un feudalesimo medievale e militare al mondo della scienza 2


moderna e della libera ricerca.” Il giapponese quindi “...abitava simultaneamente due mondi, a livelli completamente differenti e irriconciliabili nello spirito e nel contenuto. Le sue reazioni appartenevano prima all’uno poi all’altro: era lacerato nella sua anima, non si sentiva a suo agio in nessuno dei due mondi, instabile in entrambi, instabile nel suo stesso essere.” “Così si può spiegare l’inclinazione giapponese agli estremismi, così le fluttuazioni, violente nel pensiero e nell’azione e la soggezione alle aberrazioni e alle utopie cui il popolo giapponese si è tanto cospicuamente abbandonato negli ultimi anni: utopie in politica, come in musica ed in architettura”.4 L’ambiente internazionale si va rivolgendo con sempre maggiore interesse alle vicende dell’architettura giapponese; un’architettura che cresce in un Paese che ha subito violente crisi di civiltà a breve distanza fra loro; che pare sconvolto nelle sue strutture tradizionali ed in costante sviluppo; dove si svolge una lotta violenta fra le forze democratiche e popolari e le forze del capitale in espansione; dove coesistono ancora tutte le contraddizioni dovute alla rapidità dei tempi di trasformazione, alla conseguente difficoltà del loro controllo, al peso non indifferente di istituzioni e costumi legati alla storia.

La forte omogeneità, sia per il tipo di problemi affrontati, che per le soluzioni offerte a quei problemi, e la considerazione dei valori culturali e sociali in ogni livello della progettazione, porta l’avanguardia giapponese a porre come base per le proprie ricerche una metodologia storica. Dice Leonardo Benevolo: “La continuità con la tradizione non è un pregiudizio di partenza, ma un possibile punto di arrivo, nella misura con cui gli antichi valori potranno essere recuperati nelle nuove forme di convivenza”.1

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La ricerca disperata di soluzioni quasi indispensabilmente complesse e complicate, spinge lo sguardo competitivo e allo stesso tempo ammirativo dell’Occidente verso la metodologia giapponese, che sembra offrire continuamente soluzioni ed elaborazioni concrete ai problemi che la cultura e la società occidentale tende a porsi e a risolvere con una estrema difficoltà.


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“Ogni generazione di architetti Occidentali ha visto nel Giappone ciò che voleva vedere” 2 La cultura Giapponese e l’architettura che ne deriva, è stata spesso male interpretata dall’Occidente a causa di un’egemonia culturale storica e da una feticizzazione delle forme culturali e dei prodotti ad opera proprio dell’Occidente. Tipico del discorso Occidentale, è la concezione che il Giappone sia appunto un’ “altro” mondo, che la sua cultura si sia evoluta indipendentemente dagli interventi esterni, e che quindi sia una cultura aliena con il potere di sovvertire lo stato delle cose economicamente, culturalmente e socialmente. Considerando falsa questa concezione, la realtà è che le interazioni tecnologiche, sociali ed economiche tra il Giappone e l’Occidente sono state molto influenti dalla metà del 19’ secolo ad oggi. L’architettura Giapponese è comunque fondamentalmente diversa dalla controparte Occidentale, e sebene i significanti interventi tecnologici e culturali del 20’ secolo hanno in qualche modo unito le due parti, rimangono molte differenze e una forte separazione tra le due realtà, favorendo cosi numerose incomprensioni. Approfondendo alcuni caratteri dell’architettura contemporanea Giapponese, si può notare una forte enfatizzazione delle relazioni, oltre i concetti piu occidentali come la materialità e la forma. Questa forma di architettura relazionale è parte dell’arte e della tradizione giapponese ed è spesso fraintesa dal mondo occidentale poiché non gli appartiene. Esempio di combinazione di questi diversi temi, è lo studio SANAA, il quale li esprime attraverso la straordinaria qualità visiva della loro architettura. Concentrandosi esclusivamente sulla estetica visiva, il critico occidentale è in grado di ignorare l’importanza delle qualità relazionali dell’architettura, che impiega un sottile metodo architettonico che non si trova nella tradizione delle controparti Occidentali. L’architettura di SANAA è una sottile, intricata architettura relazionale che mira a ristabilire il legame sociale attraverso la sua materialità e forma e per alleviare antagonismi riguardanti le strutture sociali delle posizioni delle loro opere.

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L’OCCIDENTE COME INVENZIONE DELL’OCCIDENTE

Interazioni culturali - una prospettiva occidentale


L’OCCIDENTE COME INVENZIONE DELL’OCCIDENTE

Le moderne citta’ e metropoli giapponesi “Mentre nell’Occidente le città e le loro strade hanno una progettazione e il contesto ha precisi punti di riferimento, città come Tokyo sembrano essere sistemi indifferenziati con caratteristiche urbane neutre e mutevoli, che potrebbero essere estese all’infinito in qualsiasi direzione [...] di conseguenza l’immagine delle città si modifica costantemente senza cambiare il suo concetto base: un sistema neutro e frammentario, assente di precisi punti di riferimento ad eccezione del sistema di trasporti e comunicazioni.” 3 Lo sviluppo delle città contemporanee giapponesi è stato molto diverso da quello delle città Occidentali. Premettendo che la città riflette le strutture sociali, fattori ambientali e geofisici e clima economico, è evidente che la forma urbana giapponese è differente da quella delle altre parti del mondo. Studiosi e critici occidentali hanno a lungo lavorato per analizzare la forma e l’aspetto delle città giapponesi sul perché si differenziano così fortemente dalle loro controparti Europee e Americane. E’ fondamentale che vengano utilizzati diversi metodi per analizzare il contesto spaziale e formale di edifici Giapponesi all’interno del paesaggio urbano per poter capire come lavorano gli architetti e di conseguenza interpretare le loro opere. Le città giapponesi sono state soggette a numerose distruzioni nel corso della storia: guerre, terremoti, incendi e agitazioni politiche e economiche. Ciò che recentemente ha più cambiato l’assetto delle città Giapponesi è stato il crollo della bolla finanziaria speculativa, che ha causato disagi significativi nel settore delle costruzioni e di conseguenza nel lavoro degli architetti. Questi fattori fisici e sociali hanno avuto un significante effetto sulle modalità di concepimento e costruzione di edifici e città, favorendo qualità che non sono valorizzate in Occidente; la probabilità di una breve durata della vita (a causa dell’instabilità geologica del Giappone, e la costituzione sociale ed economica della città) implica la considerazione di qualità come l’effimero, la frammentazione e la temporaneità, elementi che non si rispecchiano in Occi6


dente, dove prevalgono robustezza e longevità. Questa pratica in uso in Giappone da più di 1300 anni, è legata al rapporto e alla relazione con la natura, tipica della cultura scintoista, forse l’anima primordiale del Giappone. Si intuisce quella necessità dell’architettura di relazionarsi con il tempo in maniera diversa rispetto al nostro modus progettandi di far lasciare il segno dello scorrere dei secoli. I materiali utilizzati per le abitazioni come per i luoghi di culto, e in particolare il legno e la paglia, si rovinano con il passare del tempo, ma gli stessi rispondono ottimamente alle intemperie del luogo. Il non sfidare la forza della natura è una peculiarità dell’architettura giapponese che si esprime quindi anche nel modo di concepire le strutture degli edifici. La sofisticatezza e l’estetica dell’architettura giapponese attirano l’interesse degli occidentali, che esaltano l’estrema incoerenza del contesto urbano. Kazuo Shinohara considera questi interessi diametralmente opposti come produttivi, dicendo su Tokyo che “nessun altra città ha la diversità degli edifici che compongono le sue strade, o il disordine di forme e colori che decorano le loro facciate. Tokyo è diventata una delle città piu eccitanti del mondo”. Il vuoto contestuale di questa forma urbana sconosciuta e la corrispondente architettura, produce fraintendimenti nelle singole opere di costruzione e rende incompresi gli architetti.

Ad esempio: Tokyo Come sappiamo, Tokyo è la città più importante del Giappone, ma la sua ascesa allo status di città del mondo è stato guidato dal suo straordinario recupero dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. Aziende giapponesi e il loro noto duro lavoro sono state responsabili di un ‘ miracolo economico ‘ che entro la fine del 1980 aveva trasformato il Giappone in una delle nazioni più ricche del mondo . Questo crescere ha avuto i suoi effetti anche nella cultura. Elementi della cultura popolare giapponese, dal karaoke ai fumetti manga e sushi bar sparsi in tutto il mondo, mentre i prodotti come il Sony Walkman hanno reinterpretato le abitudini e il modo di vivere in tutto il resto del mondo. Artisti giapponesi, che siano registi, architetti e designer, hanno raggiunto una reputazione in tutto il mondo per l’originalità e la qualità del loro lavoro. Eppure, Tokyo resta diversa dalle altre città del mondo. Non è mai stato paragonabile turisticamente a Parigi o New York, e non ha mai avuto i livelli di diversità etnica o il numero di studenti stranieri di Londra o Sydney. Tuttavia, Tokyo ha sviluppato una diversità particolare che prende inaspettatamente varie forme. A causa della sua complessità, la cultura di Tokyo può essere difficile da capire sia per i turisti ma anche per i residenti della città. Il fascino che la cultura nipponica esercita su di noi quindi è sempre più forte. L’architettura e la consequenziale immagine della città lo mostrano bene. Fino a qualche anno fa si considerava la capitale giapponese come un forte centro di potere economico, ma contemporaneamente una città caotica e disordinata, povera di cultura, d’interessi. Nella sfrenata corsa all’innovazione della capitale, ci si stupiva della convivenza di qualche forma artistica tradizionale, un richiamo storico in un contesto ormai cosi tecnologico. Oggi quest’immagine è ribaltata. Tokyo attrae molto, soprattutto perché è una città che non annoia, con tutta 7

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Per poter meglio analizzare l’architettura del Giappone e dei suoi architetti, è fondamentale capire le differenze nell’assetto delle città e dei paesaggi, come gli edifici vengono concepiti e influenzati dalle interazioni e dai panorami culturali. La fine della politica di isolamento nel 1868 ha avuto un enorme impatto sul Giappone, instaurando un nuovo dialogo politico e sociale tra Giappone e Occidente, permettendo cosi a quest ultimo di influenzare culturalmente anche il lavoro degli architetti.


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una sua ricchezza di comunicazione e informazioni. È sull’informazione stessa, così veloce, rapida, consumistica, che si gioca gran parte del suo fascino. Già la notte cambia il volto della città: la grigia Tokyo dell’asfalto che sovrasta lo stile classico e puro, si trasforma. Shibuya, quartiere simbolo di questa varietà di colori, luci, suoni rumori, segnali, con la sua “assenza di memoria” è uno spazio che mantiene una vitalità unica: è quella che molti critici giapponesi definiscono la forza del disordine, del caos. Tokyo però non è bella secondo i nostri canoni occidentali. Non esiste possibilità di paragone con le nostre capitali, sia qualitativamente che quantitativamente, nell’omogeneità anonima della maggior parte delle città nipponiche e in particolare della capitale, nella “non architettura” degli edifici: “Tokyo è una città senza carattere, come il castello di Kafka, fatta di mediocri edifici in una città mediocre. Tokyo affascina, di un fascino perturbante, che non ha nulla a che vedere con l’idea di bello legata alla perfezione e all’ordine della cultura occidentale. È l’espressione del disagio della società contemporanea, del vortice dell’impermanente, la bellezza del “disgusto”, di ciò che colpisce nella sua fragile violenza e nella sua violenta fragilità”.1 La transitorietà e il relativismo ad essa connesso si legano alla complessità dell’architettura giapponese. Tutto ciò comporta una giustapposizione di diversi elementi eterogenei; l’analisi formale-compositiva della pro- gettazione di Isozaki, pur criticabile in vari aspetti, definisce una sintesi tra le forme tradizionali giapponesi e quelle classiche della cultura occidentale, poste su uno stesso livello e grado di importanza. Si definiscono dei “layer” invisibili, elementi diversi che si stratificano uno sopra l’altro via via senza nascondersi o sminuirsi a vicenda. La progettazione di Maki o di Kitagawara sottolineano in particolare questo aspetto, nelle forme composte, nella loro diversificazione storica e nei materiali. Le abitazioni giapponesi tradizionali anche mostrano la stessa regola di eterogeneità materica: nella casa tradizionale, e in particolare nella minka, convivono il legno della struttura, il fango argilloso delle tamponature, la paglia della copertura, le stuoie di tatami. L’indifferenza alla ricerca di omogeneità si constata semplicemente annotando il numero infinito di “disturbi” del panorama, quali in particolare i cavi sospesi dell’elettricità che continuamente definiscono quel senso di disordine; o i continui “attrattori” quali segnali, cartelloni pubblicitari e luci. Lo stesso processo delle parti si evidenzia nella villa Katsura: la sua pianta è frutto di una serie di 8


Nel corso della storia questo aspetto delle città ha subito una serie di cambiamenti: nel periodo feudale molti centri abitati si svilupparono intorno al castello, che divenne elemento centrale della vita sociale e dello spazio. Differentemente dall’Occidente, la città comunque non creò mai delle mura di difesa e di delimitazione, così piano piano questo centro perse la sua importanza di elemento convergente. Estremamente interessante il caso di Tokyo: il suo centro non è il punto di attrazione e di convergenza della città, non è pieno, ma vuoto; e intorno si avviluppa la città: un vuoto inquietante che può provocare, per la logica occidentale, disagio, o peggio, horror vacui, frutto dell’horror plaeni della concezione estetica giapponese. Le parti nascondono, ricoprendolo di strati giustapposti, l’assente essenza della città e nel microcosmo dell’abitazione. Senza un centro, l’elemento attrattore principale rimane la strada. Lungo le vie si aprono negozi, con le loro insegne e i lori “segnali”; qui avvenivano gli scambi, qui, in questa dinamicità, si sviluppava la vita della città. Le strade 9

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giustapposizioni, di un crescere di parti ete- rogenee, distinte per funzione e per stile; allo stesso tempo l’impressione che si ha è di un complesso unitario, equilibrato, definito, tipico della filosofia zen. Nell’urbanistica si nota la stessa esperienza estetica dello spazio che parte dalle parti: raramente nelle città nipponiche esistono le grandi strade rettilinee, elementi definiti, indipendenti. La maggior parte delle città americane sono regolate da street ed avenue che si incontrano ad angolo retto, con una legge che dallo schema generale definisce il particolare. Anche città come Kyoto hanno uno schema urbanistico di partenza simile legato alla griglia rettangolare di strade, ordine tipico delle antiche capitali cinesi. Questo è un primo elemento direttivo, al cui interno le abitazioni trovavano una propria autonoma configurazione planimetrica perché gli spazi delimitati sono molto ampi; inoltre questo schema ha subito diversi dissestamenti nel tempo, conseguenti a calamità come terremoti o incendi e alle distruzioni delle guerre. La città è cresciuta per addizione e non stratificazione, con continue frammentazioni, dovute anche all’alto costo del terreno. Tutto questo ha fatto sì che la metropoli non fosse ordinata nello spazio: strade sempre nuove e percorsi irregolari diventano gli elementi direttivi e attrattivi della città. La città segue le parti, la loro evoluzione organica, vitale e funzionale. Lo schema grigliato uniforme presuppone l’assenza di piazze, di grandi spazi e di convergenze puntuali.


L’OCCIDENTE COME INVENZIONE DELL’OCCIDENTE

definivano anche caratterialmente le parti della città, in funzione dell’accentramento dei vari ceti. Tutt’oggi questo discorso si è evoluto ma non è cambiato: è vero che le città mancano di un centro, ma è avvenuta una proliferazione di centri specializzati: nel caso di Tokyo per esempio, Shibuya è il centro dei giovani, Shinjuku dei grattacieli, Akihabara dell’elettronica, ecc. La diversità di attrazioni si lega così al movimento che caratterizza la strada, ed in questa nuova dimensione ne definisce il suo carattere vitale. Spontaneamente si sono determinate accumulazioni caotiche, tensioni, ripetizioni e fenomeni legati alla crescita di quel “brutto anatroccolo” che solo oggi si accorge della sua bellezza. Tokyo è la capitale simbolica del disordine periferico che viene via via riscoperto. Le architetture sono la risposta alla città: l’edificio vive nel suo contesto vitale e risponde alla sua evoluzione, alle sue richieste, in un rapporto dinamico non conflittuale tra le parti e il tutto.Questo fa sì che la città manchi di quel coordinamento artistico che denota una chiara identità; allo stesso tempo proprio in questa mancanza del Bello, si ritrova la saggezza di uno sviluppo armonico, sul quale si basa l’evoluzione della più grande città del mondo. In questo modo si definisce il raffronto tra “l’ordine nascosto” di Tokyo e “l’ordine palese” occidentale.

L’interazione culturale e architettonica tra giappone e occidente Essenziale per discutere di cultura giapponese da un punto di vista Occidentale è lo scambio culturale che ha avuto luogo nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, e ragionare su che posto ha la cultura giapponese in Occidente; in particolare come artisti e architetti Giapponesi hanno operato in Occidente e viceversa, come sono stati ricevuti e quali tecniche e metodi hanno impiegato nei loro progetti. Dalla metà del XIX secolo quando la borghesia occidentale ha sviluppato una passione per il collezionismo di Giapponerie, (simile a quella elettronica e automobili che attirano il consumatore occidentale negli anni ottanta e novanta) ha preso posto un’interazione che ha cambiato indelebilmente entrambe le culture. L’Art Nouveau e l’Impressionismo furono molto influenzati dall’interesse che i loro principali protagonisti avevano nel Giappone. Vincent van 10


L’interazione tra architetti modernisti occidentali e i loro contemporanei in Giappone è ben documentata, e molte figure di spicco del modernismo, in Europa e Stati Uniti hanno vissuto, lavorato o sono state ispirate dalla cultura giapponese. Le Corbusier ha costruito solo un edificio in Giappone, il Museo Nazionale di arte occidentale, anche se un certo numero di architetti giapponesi, tra cui Kunio Maekawa e Junzo Sakakura erano suoi apprendisti in Europa. Anche Frank Lloyd Wright e Bruno Taut erano interessati al Giappone ed entrambi ci hanno hanno lavorato, rispecchiandosi nelle idee architettoniche della cultura e dell’architettura tradizionale giapponese. La passione di Frank Lloyd Wright per il Giappone nacque alla vista delle repliche delle costruzioni giapponesi presenti alla Fiera Mondiale Colombiana nel 1893 a Chicago. Nel 1922 fu incaricato di costruire l’Imperial Hotel di Tokyo (ora demolito), che era il più noto e più grande edificio di Wright in Giappone. Taut arrivò in Giappone come rifugiato nazista nel 1933. Egli si recò immediatamente a Kyoto e fu assunto nella Villa imperiale di Katsura dal capo dell’Associazione Internazionale di Architettura Giapponese, che aveva studiato presso la Wiener Werkbund. Descrisse l’architettura giapponese come pura, senza fronzoli, in movimento. Le osservazioni di Bruno Taut, Frank Lloyd Wright e altri personaggi, sulle forme architettoniche giapponesi favorirono l’appropriazione del termine “altro” alla cultura del Giappone, teoricamente indipendente da forze esterne che rivendicavano le loro teorie. Sebene queste posizioni non siano in linea con la storia, aiutarono a stabilire il Giappone come “altro” agli occhi degli occidentali. Molti architetti giapponesi hanno discusso le fondamentali differenze tra architettura Occidentale e Giapponese, e in un intervista Kengo Kuma esprime il verdetto “L’architettura Occidentale è fatta da forme e struttura, mentre l’architettura Giapponese si basa sulle relazioni”. 11

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Gogh è stato pesantemente influenzato dall’arte giapponese eseguendo copie delle stampe di Hiroshige, modificandole stilisticamente, aumentando colore e aggiungendo bordature.


Oriente e cultura architettonica contemporanea: Shigeru Ban e Kengo Kuma di Melania Marsella

Nella vasta porzione del continente eurasiatico nota come Estremo Oriente, le diversità delle condizioni climatiche e orografiche, assieme alla maggiore o minore disponibilità di determinate materie prime e alle prevalenti condizioni economiche regionali, hanno contribuito allo sviluppo di tradizioni architettoniche distinte tra loro. Con architettura cinese ci si riferisce a uno stile architettonico che ha preso forma in Asia orientale nel corso dei secoli. A partire dalla dinastia Tang l’architettura cinese ha avuto una pesante influenza su quelle giapponesi, coreane e vietnamite. L’espressione della monumentalità di un complesso è vista solo in senso orizzontale, ovvero con edifici larghi e bassi, ordinatamente disposti secondo una particolare regola per cui nessun elemento può esistere a sé stante, ma viene completato da uno simile e opposto. Sono queste le caratteristiche di fondo che, insieme all’amore per la natura e la volontà di non turbarla con opere che ne urtino l’equilibrio, appartengono all’”Umanesimo cinese”. È proprio l’idealismo confuciano il responsabile dei rigidi criteri di simmetria che permisero di graduare e ordinare gerarchicamente nella città, la rete viaria, le abitazioni, i complessi direzionali e le aree di servizio, facendo del palazzo reale il centro del sistema urbano. Questa gerarchizzazione si ritrova anche nelle infinte regole che fissavano i colori, i materiali, gli impianti, le strutture delle abitazione relativi a ciascun grado della scala sociale. L’altro aspetto della religiosità, e anche della filosofia cinese, il Taoismo, è invece responsabile della sensibilità “ecologica” propria del fare architettonico cinese nei riguardi dell’ambiente e della natura: splendidi giardini imperiali che comprendono laghi, fiumi e colline e se, come spesso avviene, questi elementi sono artificiali, sono ugualmente resi con splendida 1


naturalezza, dando l’impressione di essere posti lì per caso, anche se tale disposizione è frutto di una sensibilità ricercata. Nel mondo occidentale vi è una visione verticale del mondo in cui Dio viene collocato al primo posto, la natura all’ultimo e l’uomo sta nel mezzo, destinato a controllarla; al contrario per gli orientali l’uomo e la natura sono uguali, legati da un profondo senso di solidarietà, per cui vi è una visione orizzontale del mondo. L’incontro con il moderno mondo tecnologico occidentale fu reso, per i cinesi, ancora più violento dai lunghi secoli di isolamento che l’avevano preceduto. A partire dalla metà del secolo XIX, il riconoscimento della propria inferiorità tecnica e scientifica fu così profondo che nelle nuove opere, ispirate alle costruzioni europee ed americane, non affiora alcun ricordo dell’antica architettura della Cina. L’ansia di adottare in blocco il modo di vita dell’Occidente si ripercuote anche nel campo architettonico. Sorgono così edifici di stile composito strettamente derivati dall’edilizia delle concessioni coloniali straniere. Solo nel 1920, parallelamente al diffondersi del nazionalismo, appare un nuovo stile tendente alla rivalutazione dei valori tradizionali: è questa la cosiddetta “rinascita cinese”. Ma tranne in alcuni esempi più validi, non si giunge ad una vera fusione delle tecniche e dei modi edilizi occidentali con le strutture tipicamente cinesi: il risultato sarebbe solo quello di edifici stranieri coperti da tetti cinesi. L’architettura contemporanea giapponese è il risultato di un ambiguo e conflittuale processo in cui confluiscono questioni teoriche, storiche, politiche ed estetiche molto diverse tra loro. Già dai primi anni del Novecento, il Giappone aveva iniziato ad assorbire molti elementi provenienti dal mondo occidentale, ma fondamentalmente fino allo scoppio della seconda guerra mondiale è rimasto un Paese attaccato alle proprie origine e tradizioni culturali, pur essendo affascinato dalla cultura d’Occidente. Tuttavia fu la restaurazione Meiji del 1868 che segnò l’avvicinamento politico ed economico del Giappone ai modelli occidentali. Fra i tanti programmi di rinnovamento, ebbero la precedenza quelli relativi allo sviluppo urbano ed edilizio: furono abbandonati i tradizionali sistemi di costruzione in legno che non rispondevano più alle nuove esigenze, in particolare per le opere di pubblica utilità, e si puntò sulle tecniche dell’architettura occidentale e sui sistemi di costruzione di tipo coloniale. Un fattore positivo che ha incentivato la qualità della produzione architettonica, è stata l’eccezionale capacità del settore edilizio di combinare la produzione artigianale con sistemi industrializzati e alti livelli di ricerca dedicata all’evoluzione di materiali e sistemi costruttivi. Per i requisiti di antisismicità di cui erano dotati i corpi di fabbrica, gli edifici furono caratterizzati da forme pesanti e da una massiccia solidità di strutture. Presto tuttavia entrarono nell’uso nuovi sistemi di costruzione che mostravano la tendenza a ridurre il più possibile le strutture murarie degli edifici mediante l’impiego di piloni di cemento armato e pareti fornite di ampie vetrate. Con la fine della seconda guerra mondiale, a seguito della quasi totale distruzione di molte città, il problema dell’edilizia si presentò fra i più urgenti. Ma dovendo fa fronte alle necessità più impellenti, interi quartieri d’abitazione sorsero nuovamente in tutte le città senza alcun piano prestabilito e senza nessuna opera di progettazione ponderata. Una soluzione ad un’organica e radicale pianificazione urbanistica fu l’adozione nell’architettura ufficiale e residenziale di nuove tecniche e nuovi materiali di costruzione in cemento armato, con largo impiego di strutture di metallo e di vetro. Tuttavia si tratta di un’architettura con poche possibilità di applicazione su larga scala, nonostante le crescenti risorse della prefabbricazione che tende a trasformare l’opera di progettazione in un design di applicazione industriale. La frattura esistente fra l’architettura d’élite e l’edilizia è accentuata dal fatto che il Giappone è certamente uno dei paesi industriali che meno hanno investito nell’edilizia popolare. Ciò si riflette anche nel settore urbanistico, dove i quartieri d’abitazione hanno finito con l’essere del tutto avulsi dal contesto cittadino. Inoltre gli archi2


tetti giapponesi hanno prestato la loro attenzione più ai centri di vita collettiva che non a quelli individuali, si sono interessati dei centri sportivi, ricreativi, dei campus universitari e hanno soprattutto perseguito studi ideali di progettazioni urbanistiche. Alla fine degli anni Cinquanta il Giappone vive un risveglio culturale molto intenso caratterizzato da un’interessante produzione artistica con Tokyo sede della Conferenza Mondiale di Architettura e Disegno Industriale nel 1960, che a sua volta stimola la nascita di gruppi di giovani artisti ed architetti. Sono di questo periodo le realizzazioni delle grandi infrastrutture e lo sviluppo urbanistico della città di Tokyo ed Osaka. Si realizzano i sistemi metropolitani e i treni ad alta velocità, in quegli anni caratterizzati da una rapida crescita economica, tale che dal 1960 al 1973 il reddito nazionale pro-capite triplica. Seguono gli anni Ottanta con lo sviluppo del fenomeno che porterà alla cosiddetta bubble economy, anni caratterizzati da ingenti flussi finanziari e grandi investimenti. Questi anni coincidono con l’esordio di una nuova generazione di architetti, che rispondono con linguaggi innovativi alla crescita delle città giapponesi, quali ad esempio Toyo Ito che interpreta la città come formata da microchipsa cui si contrappone ad esempio Tadao Ando, con un’architettura molto legata all’espressione geometrica e al suo rapporto con la natura. All’utilizzo quasi esasperato di acciaio, ferro e griglie metalliche, contrappone edifici in cemento a vista a cui affianca legno e serramenti metallici.

Shigeru Ban In questo periodo culturale e produttivo molto attivo, nel 1985, Shigeru Ban inizia la sua attività di architetto a Tokyo, dopo aver effettuato gli studi negli Stati Uniti, prima al Southern California Institute of Architecture, laureandosi poi nel 1984 alla Cooper Union School of Architecture a New York. L’approccio metodologico progettuale di Ban è caratterizzato da un’architettura attenta all’utilizzo di materiali a basso costo, riciclabili, ma allo stesso tempo durevoli. Attenzioni come queste non erano comuni negli anni Ottanta, in un Giappone prosperoso e fiducioso in grandi investimenti economici e finanziari. Egli si pone in controtendenza sviluppando una ricerca architettonica focalizzata sia all’utilizzo di materiali poveri, ma anche alla ricerca di soluzioni strutturali innovative. Nel 1986 Shigeru Ban inizia ad utilizzare tubi in cartone per l’allestimento a Tokyo della mostra sulla figura di Alvar Aalto, che erano già stati utilizzati in una mostra sempre a Tokyo l’anno precedente. Questa installazione testimonierà l’inizio di una ricerca molto attenta all’utilizzo di questo materiale, comprendendone la grande flessibilità applicativa, determinandone la capacità portante e la possibilità di renderlo idrorepellente ed ignifugo. L’utilizzo della struttura in cartone innesta un sistema di pensiero di ricerca metodologica molto libera. Ban afferma: “é questa libertà che fa si che mi piaccia così tanto ciò che faccio, permettendomi di ricercare la leggerezza in architettura attraverso lo studio delle strutture, dei materiali e di tutto ciò che può essere ridotto, diminuito in quantità”. L’evoluzione artistica di Shigeru Ban è quindi fortemente legata alla sua ricerca dell’utilizzo di materiali quasi sempre poveri, studiandone e potenziandone le capacità di resistenza. “Tutto ciò che è logico, è possibile e posso realizzarlo se riesco a 3


dimostrarlo”, potrebbe essere quasi definito il suo slogan. Egli ha creato nuove opportunità progettuali rifiutandosi di percorrere strade già conosciute, ricercandone sempre di nuove. Lo spazio per Ban muta, ma viene suddiviso il meno possibile, in modo da lasciare una visuale aperta in tutte le direzioni. In edifici dove gli spazi comuni interagiscono con spazi più privati , rende gli spazi comuni grandi giardini o corti con cui lo spazio più privato interagisce continuamente. Dunque interno ed esterno spesso si confondono, lo spazio privato tende a fondersi con lo spazio esterno. Si potrebbe affermare che l’impegno alla sperimentazione strutturale, la ricerca volta alla ri-definizione di concetti estetici e spaziali, non avrebbe un senso del tutto compiuto se tutto ciò non fosse accompagnato da un forte e sentito contributo umanitario. L’attenzione per la società nella sua complessità riempie infatti tutta l’opera di Ban. La qualità della vita viene sempre e comunque ricercata, in quanto ritenuta fondamentale per l’essere umano. Consegue una forte attenzione per i meno fortunati, per le aree colpite da disastri naturali, per le persone che vivono in situazioni di emergenza. Egli afferma: “Penso che le strutture per le persone in aree disastrate debbano essere comode e belle, affinché le persone stesse possano sentirti a loro agio ed avere la possibilità di migliorare: se non fosse realizzabile tutto ciò, non potrei fare dell’architettura, perché non apporterei un contributo alla società contemporanea”. Una peculiarità dell’architettura di Shigeru Ban è sicuramente la sua estrema flessibilità progettuale. Principi di utilizzo della struttura in cartone possono portare alla realizzazione di splendide ville dove la leggerezza, la trasparenza, la flessibilità di distribuzione planimetrica sono interessanti ed innovative, o alla loro applicazione per la creazione di strutture temporanee per terremotati o rifugiati politici. Da sottolineare quindi la forza con cui comunica quanto sia determinante l’impegno sociale, non considerando i problemi ambientali e sociali come avulsi dall’attività di un architetto, ma anzi direttamente influenzabili dalle scelte di un progettista. L’attenzione per l’ambiente in Ban, fa parte di una concezione più ampia di rispetto per la società. Ogni scelta architettonica deve essere motivata, a maggior ragione se poi interferisce con patrimoni non facilmente rinnovabili. L’attenzione ambientale si sviluppa in un primo momento con la scelta dei materiali. La sua definizione preferita per il cartone utilizzato come materiale strutturale è quella di “legno perfezionato”. I materiali che utilizza sono sempre facilmente riciclabili e di basso costo. Quando si trova a progettare in aree verdi cerca di preservarne la bellezza e al tal fine ricerca soluzioni strutturali non consuete, ma funzionali allo scopo. L’amore per il rapporto con la natura viene espresso nella progettazione, quando procede in modo da far sì che l’edificio non risulti un oggetto nel paesaggio, ma ne sia parte integrante. Nella cultura giapponese il giardino è sempre stato considerato l’estensione della casa stessa e questo ha permesso il fatto che non vi fosse netta separazione tra interno ed esterno. Il contributo di Shigeru Ban all’architettura è di grande valore, promuovendo il proprio lavoro sempre verso nuove problematiche e avendo la capacità di trasformare le proprie intuizioni in innovazioni. In certi versi si potrebbe sostenere che egli ridefinisce la figura dell’architetto, dell’ingegnere e dello sperimentatore: figura quasi rinascimentale, quella del maestro d’opera, che confida nella possibilità della riuscita attraverso l’uso della ragione umana. Il suo più grande contributo è forse il fatto di aver dimostrato come sia possibile raggiungere un’elevata eleganza formale pur realizzando un’architettura efficiente ed economica, con materiali poveri che possono essere impiegati per diverse tipologie di architettura e l’aver sostenuto anche che nulla deve essere dato per scontato nel processo progettuale.

Paper Art Museum In Giappone, la produzione e l’arte della carta sono basate su tradizioni che risalgono a mi4


gliaia di anni fa e godono di fama mondiale. Nei primi anni Duemila, è stato aperto il Museo della carta a Shizuoka, non lontano da Tokyo, il quale contiene una vasta collezione di arte tradizionale della carta. In una galleria adiacente, un vecchio edificio industriale riconvertito, mostra esempi di tendenze e avanguardie contemporanee. Tradizione e avanguardia, le basi tematiche della mostra, godono di un rapporto congeniale nella progettazione del museo. L’architetto ha utilizzato nuovi materiali per creare spazi moderni, contemporanei, ma allo stesso tempo ha creato un riferimento per l’architettura tradizionale del Giappone con la sua re-interpretazione e variazione dello shitomido, una finestra verticale comune in architettura giapponese tradizionale.

Dettagli di progetto Luogo: Mishima, Shizuoka Cronologia progetto: febbraio 2000 – aprile 2001 Cronologia costruzione: maggio 2001 – settembre 2002 Team di progetto: Shigeru Ban, Nobutaka Hiraga, Matsumori Jun, Tadahiro Kawano, Keina Ishioka Ingegneri strutturali: Hoshino Architect & Engineer Superficie sito: 5277,69 mq Superficie coperta totale: 1672,40 Superficie coperta PAM A: 719, 77 mq Superficie coperta PAM B: 924,76 mq Struttura: acciao Destinazione d’uso: museo/ufficio Il museo della carta è composto di due edifici, uno costruito ex-novo chiamato PAM A ed uno ristrutturato, il PAM B.

PAM A Costruito con l’obiettivo di diventare sede degli uffici di un’azienda produttrice di carta, di sale espositive e luogo di ricerca e promozione inerente il materiale cartaceo, l’edificio a pianta quadrata è suddiviso in tre parti, di cui quella centrale ad altezza tripla, dove è posizionato l’atrio con una grande serranda impilabile e un grande piano aperto, sprovvisto quanto più possibile di pilastri. Gli uffici, situati nell’ala a sud, presentano la parete esterna completamente apribile verso l’esterno con speciali serrande, le quali hanno il ruolo di elementi orizzontali a protezione dalla luce naturale. Il rivestimento esterno è completamente rivestito in pannelli di fibra di plastica rinforzata e sottili strutture in acciaio.

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PAM B L’edificio era precedentemente un laboratorio e ora, dopo la ristrutturazione, accoglie una galleria espositiva di 924 mq. A sud sono stati posizionati sei grossi portoni avvolgibili realizzati con una struttura di metallo e plastica traslucida rinforzata con fibra di vetro. Quando sono chiusi, dall’interno sembrano grandi shoji, attraverso cui filtra la luce. I portoni sono rivolti verso l’esterno e quando vengono aperti hanno l’obiettivo di estendere la galleria interna verso l’esterno collegandola con il paesaggio.

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Kengo Kuma Anche la storia di Kuma come architetto comincia nel caos di una Tokyo fine anni Ottanta, ancora nella bubble economy, periodo questo in cui si registra un’economia gonfiata appunto come una bolla, in cui c’erano soldi per fare qualsiasi cosa, per sperimentare materiali, forme e idee. In questo periodo vi era estrema facilità per un giovane architetto di avere l’incarico di realizzare grandi edifici. Kengo Kuma nasce a Kanagawa nel 1954 e consegue la laurea nel 1979 all’università di Tokyo. Nel 1986 torna in Giappone dopo un periodo di studio alla Columbia University di New York e si allinea con l’idea, condivisa a livello mondiale, che l’utilizzo del cemento armato sia l’unico modo per realizzare un edificio economico e razionale. Ma sono il vetro, il legno, la pietra, la plastica, la terra e il bambù, i materiali che ha deciso di utilizzare per dare corpo ai suoi edifici. Kuma non ha ancora costruito edifici fuori dal Giappone, ad eccezione della Cina, eppure è un architetto conosciuto a livello internazionale, spesso invitato a tenere conferenze nelle maggiori università del mondo e vincitore di molti importanti premi tra cui quello finlandese Spirit of nature Wood Architecture 2002. Kuma sostiene che il suo obiettivo è sempre stato quello di “dar vita ad edifici che non fossero semplicemente oggetti indipendenti, bensì aperture o cavità. Se paragoniamo un edificio al corpo umano, il punto più importante sono gli organi interni, ossia le aperture o cavità. Le cavità costituiscono l’interfaccia: è attraverso di esse che si raggiunge la comunicazione tra interno ed esterno. Questo spiega perché la pelle che riveste una cavità è costituita di delicate mucose che consentono l’ingresso e la fuoriuscita soltanto alle sostanze necessarie”. L’architettura per Kuma deve cercare di non costringere le persone a viverci dentro; al contrario, attraverso quello che egli chiama il garden method, l’architettura dovrà assomigliare ad un giardino, senza muri o finestre che frammentano le viste. Troppo spesso il tema interno - esterno in architettura è affrontato superficialmente. Di solito la questione è posta in termini di riduzione di spessore della facciata, ma in Giappone questo tema non si limita solo a questo ma investe l’organizzazione funzionale di tutto l’edificio. Spesso nelle costruzioni giapponesi è presente l’engawa, una veranda che corre intorno alla casa, una piattaforma a sbalzo su supporti coperta dalla falda del tetto. Rappresenta lo spazio intermedio per eccellenza perché, come l’ha descritta Kisho Kurokawa, “ha una copertura e dunque è interno, non ha parete e dunque è esterno”. Se ammettiamo di aver perso la capacità di sentire la natura all’interno di noi stessi, possiamo considerare il garden method descritto da Kuma, una possibilità per risentire l’unità, senza censure, tra noi e il mondo. La pratica del giardinaggio, come metodologia non visiva, è molto diversa dal landscaping, una metodologia nella quale il progettista sta fuori dal paesaggio, osserva e manipola visivamente la scena. Viceversa nel giardinaggio non esiste alcuna posizione privilegiata dalla quale osservare la scena. Quella del giardiniere corrisponde alla contemplazione silenziosa kuan, ossia il guardare la natura senza pensarci, in silenzio, apertamente, senza un particolare risultato. Gli edifici di Kuma sono fatti per essere guardati all’interno di noi stessi, come ad esempio nel caso del Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia del 1995, in cui egli enfatizza 7


a tal punto la qualità tattile che l’architettura stessa sembra essere subordinata ai sentimenti della gente e all’esperienza, rendendo l’architetto stesso dubbioso del fatto che un occidentale possa comprenderlo: “Il giorno dell’inaugurazione del Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia, le persone si lamentavano di dover entrare senza la scarpe! E questo creò un po’ di confusione. Gli organizzatori della Biennale mi chiesero di permettere ai visitatori di tenere le scarpe e questa mi sembrò una sostanziale differenza tra la cultura occidentale e quella giapponese. Camminare scalzi dà una sensazione più profonda, che è un’esperienza dell’architettura fuori o oltre l’architettura stessa. La gente occidentale sembra comprendere la cultura giapponese solo come uno stile ad esempio quello dell’uso delle stuoie a terra, i tatami. Ma l’uso del tatami cambia la percezione dello spazio e questo mette in discussione le certezze basilari di un occidentale. Quando vivevo in America con molta difficoltà sono riuscito a procurarmi due tatami e ogniqualvolta gli amici venivano nel mio appartamento ci sedevamo per prima cosa sui tatami: ho presto capito che questo era lo spazio migliore per avere un confronto tra culture differenti. Inoltre penso che guardare da una posizione bassa sia molto importante per l’architettura. Ho un legame speciale con il pavimento: quando ti siedi sul pavimento il corpo e il pavimento si toccano costantemente e quindi il pavimento diventa per me l’elemento più importante dell’architettura. Tocchiamo solo talvolta i muri, ma siamo sempre legati al pavimento”. Da queste parole si intuisce l’attenzione che Kuma rivolge al piano orizzontale, e in particolare gli strumenti del suo lavoro si concentrano essenzialmente sull’uomo e sul progetto del piano orizzontale sul quale si trova il corpo. “Voglio cancellare l’architettura! L’ho sempre voluto fare e ritengo improbabile che cambi idea! Ho sempre pensato che creando un’architettura del caos, l’architettura sarebbe scomparsa […] Se un’opera scompare oppure no, dipende non solo dallo stato di caos presente nell’opera in questione, ma anche dalla direzione e dalla cornice visiva della persona che la isola. Il problema, ho scoperto, non è l’oggetto ma il soggetto”. L’oggetto perde il suo carattere ipertrofico, non va quindi guardato esternamente ma va vissuto internamente a noi stessi. I suoi edifici aggiungono alla sensazione visiva quella tattile e questo fa sì che si annullino le distanze che si generano tra soggetto e oggetto, cancellando l’architettura e progettando al suo posto, un luogo. Anche perché la sparizione è un tema ricorrente per Kuma. Egli sostiene che siamo ancora sotto l’illusione che la percezione dipenda dall’esistenza dell’oggetto, col risultato che consideriamo il mondo come una collezione di oggetti. Egli desidera frammentare l’oggetto in particelle, per cui parla del caso del tempio scintoista Ise Shrine, esempio spesso citato dai giapponesi per dimostrare l’assoluto non attaccamento di questo popolo all’oggetto materiale e l’importanza data più che all’oggetto, al processo attraverso il quale questo si realizza. Per gli occidentali è difficilmente comprensibile pensare alla regolare demolizione e ricostruzione di un capolavoro, come il tempio di Ise, che avviene in Giappone ogni vent’anni su diversi lotti di terra. Ma l’ambiente costruito in Giappone è sempre in movimento, il tempio stesso è rappresentato attraverso il movimento. Kuma utilizza questo esempio per dimostrare che il tempio esiste solo come fenomeno, nell’atto della sua ricostruzione. La cerimonia di ricostruzione mostra che ciò che appare come una raccolta di oggetti è solo un’illusione. L’architetto ci mette in guardia sul fatto che oggigiorno non è facile dissolvere l’oggetto dal momento che siamo circondati da sistemi sociali e istituzioni che si fondano proprio sull’oggetto, per cui la funzione della cerimonia di ricostruzione dell’Ise Shrine ogni venti anni è un modo per ricordarci che ci dobbiamo allontanare dall’illusione chiamata oggetto. Molti architetti giapponesi amano e impiegano il bambù come materiale nei propri progetti. Le motivazioni per cui Kuma sceglie questo materiale sta nel fatto che esso rappresenta uno scambio culturale e biologico tra Giappone e Cina. Kuma parla di una favola, contenuta in 8


“Storia di un taglia bambù” di un autore anonimo del 909 circa, che racconta di un vecchio boscaiolo che camminando in mezzo ai bambù, vede una creatura di appena tre pollici. La raccoglie e con la moglie la alleva come una figlia anche se, in soli tre mesi, diventa una splendida fanciulla corteggiata da tutti. Chiaro qui il riferimento al bambù, il quale cresce molto velocemente. Tuttavia la ragazza è scesa sulla terra per espiare una colpa precedente e data la sua natura, non può condividere il suo destino con un umano. Si libera degli ultimi pretendenti lanciando sfide impossibili da risolvere e finalmente libera da ogni legame, torna sulla Luna,della quale diventa la dea. La gente credeva alla storia che essa nacque dentro uno stelo di bambù perché “il bambù ha un particolare tipo di pelle e possiede un’anima”, come afferma l’architetto. La storia di questa dea è importante per comprendere la sua passione per un materiale delicato e semplice che possiede appunto una pelle, a differenza del cemento che possiede una superficie esterna. Ando Hiroshige è stato un grande artista dell’arte dell’ukiyo-e, termine che si può tradurre come “transitorietà del tutto” o “mondo fluttuante”, nella quale la natura rappresenta un fattore di godimento mondano e tutto ciò che la racconta risulta un’immersione fisicamente e sensualmente partecipe del creato. Kuma rimane colpito dal fatto che nelle sue opere è stata introdotta la natura rappresentata in modo arduo, fornendo un’unica visualizzazione di fenomeni variabili, quali ad esempio la pioggia, ritratta facendo delle righe verticali. Hiroshige ha pensato a qualcosa molto vicino alla natura ma al tempo stesso creato dall’uomo: linee molto sottili. E sono proprio le linee del disegno a china “Rain on Travellers” di Hiroshige ad ispirare Kuma. Egli ha voluto tradurre nello spazio la filosofia di questo artista, realizzando il Museo di Ando Hiroshige, il quale è stato concepito per contenere ed esporre le stampe dell’artista e si sviluppa in funzione del paesaggio circostante, su cui si aprono l’ingresso e la galleria. Il museo è composto da una serie di schermi realizzati da listelli di legno di cedro, che hanno precedentemente subito un trattamento di resistenza al fuoco e all’umidità in modo da poter essere collocati sulla copertura a falda del tetto e alle pareti. Al mutare della luce, che filtra all’interno, muta anche il modo di essere di questa griglia. Progettando un’architettura basata interamente su un sistema di schermi, Kuma ha voluto che l’edificio fosse un sensore della luce: l’espressione del modo di Hiroshige di descrivere la mutevolezza degli elementi naturali. Quando l’architetto lascia i suggestivi paesaggi giapponesi per addentrarsi nel denso agglomerato urbano di Tokyo, non rinuncia all’utilizzo della sensibilità che rifiuta la netta separazione interno – esterno che consente agli spazi di interagire e influenzarsi reciprocamente. Da qui ad esempio il progetto One Omotesando della multinazionale della moda Louis Vuitton a Tokyo del 2003, in cui il fronte vetrato che affaccia su una delle note strade della città è schermato da elementi lamellari in legno che sembrano galleggiare sotto gli effetti della luce. “La possibilità più interessante in architettura è vivere a contatto con i materiali”. In questa frase si intuisce la poetica del lavoro di Kengo Kuma e sta a sottolineare che egli incontra i materiali e incontra la gente. Solitamente nei suoi progetti, ma in generale in tutta la sua esperienza professionale, egli ha cercato di evitare l’uso del calcestruzzo. Secondo la sua idea, è un materiale che governa il mondo e domina l’architettura mondiale non perché è bello, ma perché è universale e per usarlo basta conoscere il sistema di costruzione delle casseforme. Il terremoto di Kanto del 1923 e i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, hanno cancellato le città in legno del Giappone e favorito il prevalere delle costruzioni in calcestruzzo: “Questa decisione non ha soltanto modificato l’aspetto della città ha anche distrutto la cultura e minato lo spirito dei giapponesi. Edifici in ruvido e pesante calcestruzzo hanno sopraffatto le delicate sensibilità giapponesi determinando condizioni di conflitto sempre più aperto con l’ambiente naturale”. Con la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi ma9


teriali, in cui gli architetti giapponesi da anni si stanno misurando, ci si può forse avvicinare allo spirito del rispetto per la natura ambito da Kuma: “Dobbiamo scoprire nuovi materiali che sostituiscano il calcestruzzo ed utilizzarli per costruire edifici, creare città, riformare la sensibilità delle persone. È una sfida che non riguarda solo il Giappone ma tutti il pianeta, che deve raccoglierla coralmente. Perché? Perché credo che senza un rispetto istintivo per la natura, l’umanità non possa sperare di sopravvivere al XXI secolo. Dobbiamo trovare qualcosa che sostituisca il calcestruzzo: gli esseri umani ne hanno bisogno, sia fisicamente che spiritualmente”. Nei progetti che egli ha realizzato vengono utilizzati materiali quali il vetro, il legno, la pietra, la plastica, la terra e il bambù, tuttavia nei suoi edifici il calcestruzzo non è stato completamente abolito, bensì ne è stato annullato il suo carattere ipertrofico ed è stato proposto solo dove necessario. Il materiale più duro viene quindi reso morbido, tagliuzzato in sottili lamelle per accentuarne le qualità tattili. Ma le sue lamelle non sono coltelli affilati perché, come sostiene Alan Watt, l’uomo non è destinato ad essere un istrice intellettuale che affronta l’ambiente che lo circonda con una pelle ricoperta di spine. Un altro materiale che Kuma non prediligeva e non amava era la sostanza denominata pietra. Il suo scarso entusiasmo era dovuto al fatto che la pietra, per il modo in cui veniva utilizzata in architettura, rientrava nella categoria di materiali che non sembrano offrire possibilità ulteriori a quella della finitura. Tuttavia alla fine degli anni Novanta, si ritrova a realizzare proprio un museo in pietra dedicato alle sculture lapidee.

Stone Museum Dettagli di progetto Luogo: Batoumachi, Nasu, Tochigi Progettista: Kengo Kuma Collaboratori: Ando Architecture Design Office Consulenza e impianti: M.I. Consultant Impresa di costruzione: Ishihara Construction, ECRIS Datazione progetto: 1996 Cronologia realizzazione: 1999-2000 Murature: blocchi di pietra “Ashino” armati Tamponature: pietra “Ashino” e marmo bianco di Carrara Coperture: travatura principale in acciaio e secondaria in legno Finiture: pietra a vista Pavimentazioni esterne: pietra Pavimentazioni interni: pietra, legno Dimensione lotto: 1.382,60 mq Superficie complessiva: 527,57 mq Struttura: acciao e muratura Destinazione d’uso: museo Il progetto nasce con l’intento di recuperare tre antichi magazzini della città di Nasu costruiti in pietra nella prefettura di Tochigi e danneggiati dalla guerra, trasformandoli in un unico sistema museale. Il programma di recupero dello Stone Museum ha come obiettivo l’integrazione di nuovi volumi collegati con passaggi, che si sviluppano su piani d’acqua artificiale, in modo da ripristinare l’unificazione tra gli spazi interni e lo spazio immediato intorno. I passaggi sono realizzati con due tipi di pareti “morbide”, scoperti e coperti. Il primo tipo realizza questa “morbidezza” mediante l’utilizzo di una serie di listelli di pietra a sezio10


ne rettangolare con misure 40x120x1500 mm e sono disposti ad intervalli verticali di 80 mm: il progetto tra l’altro è il proseguimento della ricerca iniziale col Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia del 1995 che introduceva un passaggio che collegava interno ed esterno, senza escludere l’intorno. Questi sono larghi 1500 mm e sono pavimentati con lastre di pietra di Shirakawa, una pietra scura di origine vulcanica, da 60 mm e sono poste 80 mm più in alto della superficie d’acqua delle vasche. Le pareti sono alte 2970 mm e sono realizzate impiegando lastre di pietra di Ashino di dimensioni 900x300 mm, spesse 50 mm. Il solaio di copertura è realizzato con un’orditura di travi di legno di cedro a sezione rettangolare di 60x165 mm, poste ad intervalli di 300 mm. Le travi sono ancorate alla muratura in pietra mediante profili di acciaio ad U, di dimensione 70x120 mm, realizzati con lamiera da 6 mm. Il piano di copertura è configurato disponendo sulle travi un pannello di MDF spesso 25 mm, un pannello coibente di polistirene da 25 mm e un doppio strato impermeabilizzante. La pietra è tipicamente un materiale pesante, tuttavia un senso di leggerezza e di morbidezza può essere ottenuto attraverso la de-solidificazione del materiale lapideo, lavorandolo a lamelle o, come in questo caso per il secondo tipo di parete, attraverso la creazione di una rete di alveoli nel pesante muro di sostegno dei magazzini esistenti, bucherellato di feritoie e nicchie riempite all’interno da sottili lastrine di marmo bianco di Carrara spesse 6 mm per offrire alla costruzione una qualità di traslucenza, permettendo quindi alla luce di passarvi attraverso in modo diffuso. I percorsi esterni convergono in una sorta di piazza, posta a nord, intorno alla quale sono dislocate le aree espositive e gli spazi di servizio, mentre le gallerie coperte accolgono piccoli spazi espositivi. Le aree espositive sono dislocate in due gallerie adiacenti: la più grande chiude il lato nord-ovest del complesso e misura 18,18x9,08 m; l’altra è posta a nord e misura 7,40x14 m. La galleria più grande è posta a 1,40 m più in alto della piccola ed è connessa ad essa tramite una scala. Quest’ultima galleria ingloba una vasca d’acqua che dall’esterno si estende al suo interno e misura 8,00x2,60 m, è profonda 0,15 m ed è rivestita con pietra di Shirakawa da 30 mm. Oltre a queste gallerie, il complesso accoglie una libreria a sud, una sala per la cerimonia del thè a nord, gli uffici amministrativi ad est e spazi per la messa in scena di piccole rappresentazioni teatrali. L’intento di Kuma, come dice egli stesso, “era di provare a convertire la pietra, che ci si aspetta resistente e pesante, in qualcosa di fragile, debole ed ambiguo”. “Nel museo della pietra, Kuma si è trovato ad affrontare due temi insoliti per il Giappone, che conferiscono all’opera una particolare rilevanza: la pietra e il restauro. In questo paese gli edifici in pietra sono infatti molto rari. Per problemi sismici, tale materiale non è indicato per usi strutturali; solitamente viene utilizzato solo per il rivestimento di strutture prevalentemente in acciaio. […] Il progettista non ha voluto banalizzare le preesistenze, fondendole in un unico nuovo edificio con un solo collegamento, ma ha mantenuto la memoria storica di singoli volumi separati, ciascuno con funzioni distinte, e si è divertito a collegarli con percorsi sull’acqua. In tal modo il visitatore è obbligato a uscire all’esterno di ogni edificio per passare al successivo, mentre gli spazi sull’acqua sono utilizzati anche per esporre sculture in pietra da contemplare durante il percorso, cosicché i vuoti esterni si integrano con gli spazi interni in un unico sistema museale. Nei tre nuovi volumi, Kuma ha utilizzato una pietra locale (Ashino), adottando differenti tecniche costruttive per dimostrarne le potenzialità strutturali e formali. Nell’edificio lungo, sul lato occidentale, la struttura in acciaio interna è stata rivestita di sottili frangisole in pietra con un’interessante soluzione di dettaglio. Anziché usare i sistemi convenzionali di supporto, ai pilastri in acciaio sono stati applicati dei “telai” in pietra, sagomati in modo da incastrarvi le lamelle dei frangisole. Negli altri due volumi, uno per la prima 11


galleria e l’altro per gli uffici, sono stati utilizzati blocchi in pietra con armature interne per le murature portanti. Le tessiture delle murature, con sottili tagli orizzontali per l’illuminazione, creano effetti grafici bidimensionali in facciata e si differenziano per gli spessori adottati. […] La galleria principale è situata nel più grande dei tre edifici restaurati e si compone di un unico spazio multiuso, per mostre temporanee e convegni, senza particolari tecnologie museali per il controllo dell’ambiente”. (MAFFEI A., Leggerezza e gravità: due musei di Kengo Kuma, “Casabella”, n. 689, 2001, p.63)

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Bibliografia: L’architettura: caratteri e modelli. Estremo Oriente, Il mondo dell’Archeologia, R. Ciarla, 2002 Shigeru Ban, Lorena Alessio, Edilstampa, 2008 Kengo Kuma Selected Works, Botond Bognar, Princeton Architectural Pr, 2005 Kengo Kuma, Leone Spita, Edilstampa, 2006 Casabella n. 689 p. 63, A. Maffei, 2001

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