SMART EXHIBIT
La SostenibilitĂ del temporaneo
IED a.a. 2013-2014
Il presente volume è frutto della ricerca condotta nell’anno accademico 2013-2014 all’interno del corso di Design 4, quale premessa al Progetto di Tesi relativo all’allestimento dell’evento Città Sostenibile all’interno della Fiera della Sostenibilità Ecomondo a Rimini. La ricerca ha indagato le possibilità di interpretazione della scenografia di eventi e degli elementi espositivi, individuando i principi ecologici alla base di una rinnovata consapevolezza progettuale in termini di sostenibilità ambientale, economica, sociale e culturale. In appendice, la riflessione si estende alle sponde del Tevere e agli eventi estivi ospitati d’estate sulle sue banchine, in virtù di un progetto di tesi personale. È il prodotto di un lavoro collettivo condotto da Giulia Caleca, Claudia Ciccone, Giulia de Lena, Giulia Facioni, Andrea Finelli, Francesca Maiorano, Sara Margutta, Luigi Perrone, Mario Pizzonia, Jacopo Tortora, sotto il coordinamento del correlatore Prof. Gianfranco Bombaci e la supervisione del relatore Prof. Giorgio Martocchia.
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SMART EXHIBIT index 1. Inquadramento del tema. La sostenibilità a cura di Giulia Caleca e Francesca Maiorano
p. 5
2. Dalla campionaria agli expo universali. Il sistema fieristico a cura di Andrea Caggia e Sara Margutta
p.47
3. I maestri dell’allestimento
p.95
4. Uno sguardo al mondo dell’arte
p.233
5. L’interazione nell’allestimento a cura di Giulia Facioni
p.341
6. Materiali e tecnologie per l’allestimento a cura di Andrea Finelli, Claudia Ciccone e Giulia de Lena
p.355
7. Il tevere, luogo dell’effimero a cura di Mario Pizzonia
p.435
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1. SostenibilitĂ
a cura di Giualia Caleca e Francesca Maiorano
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Indice Definizione, obiettivi, principi generali Concetto di sostenibilità L’evoluzione del concetto di Sviluppo Sostenibile Cambiamenti globali Uso delle energie rinnovabili Gestione scarti e rifiuti Contenimento dei consumi Approccio globale alla sostenibilità Protocolli e normative Situazione attuale Eco-progettazione Fondamenti Architettura e sostenibilità Tecnologie, materiali, strategie Conclusioni
Bibliografia
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Concetto di sostenibilità Nelle scienze ambientali ed economiche, è condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Il concetto di sostenibilità è stato introdotto nel corso della prima conferenza ONU sull’ambiente nel 1972, anche se soltanto nel 1987, con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland, venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso. La sostenibilità, sotto il profilo dei contenuti ambientali, discende dallo studio dei sistemi ecologici, tra le cui caratteristiche assumono rilevanza proprietà quali la capacità di carico, le possibilità di autoregolazione, la resilienza e la resistenza che, nel loro insieme, influiscono sulla stabilità dell’ecosistema. Un ecosistema in equilibrio è implicitamente sostenibile; inoltre, maggiore è la sua stabilità maggiori sono le sue capacità di autoregolazione rispetto a fattori interni, e soprattutto esterni, che tendono ad alterarne lo stato di equilibrio. I fattori che ancor più disturbano l’equilibrio degli ecosistemi sono le relazioni che gli stessi instaurano con un altro tipo di sistema complesso come quello antropico. L’interazione tra i due sistemi complessi aumenta le probabilità di perturbazioni e fa aumentare il rischio di alterazioni irreversibili. In particolare, la ricerca pone attenzione sulla possibilità che si verifichino le cosiddette reazioni non lineari, alterazioni irreversibili dell’equilibrio del sistema ambientale in prossimità di valori soglia della capacità di carico, o se si vuole di recupero, del sistema stesso. La capacità di risposta e regolazione dei sistemi interessati alle perturbazioni a sua volta è tanto maggiore quanto più grande è la varietà strutturale e funzionale del sistema. Il concetto di sostenibilità, rispetto alle sue prime versioni, ha fatto registrare una profonda evoluzione che, partendo da una visione centrata preminentemente sugli aspetti ecologici, è approdata verso un significato più globale, che tenesse conto, oltre che della dimensione ambientale, di quella economica e di quella sociale. I tre aspetti sono stati comunque considerati in un rapporto sinergico e sistemico e, combinati tra loro in diversa misura, sono stati impiegati per giungere a una definizione di progresso e di benessere che superasse in qualche modo le tradizionali misure della ricchezza e della crescita economica basate sul PIL. In definitiva, la sostenibilità implica un benessere (ambientale, sociale, economico) costante e preferibilmente crescente e la prospettiva di lasciare alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale. Tale approccio può essere formalizzato mediante funzioni di benessere sociale, ossia relazioni tra il benessere della società e le variabili che concorrono allo stato economico e alla qualità della vita. In questo senso appare particolarmente importante la distinzione tra sostenibilità debole e so-
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stenibilità forte. La prima ammette la sostituzione, all’interno del capitale da tramandare alle generazioni future, del capitale naturale con capitale manufatto (quello creato dall’uomo), mentre la sostenibilità forte introduce la regola del capitale naturale costante. Le argomentazioni a favore di quest’ultima si basano sul fatto che un sistema ambientale meno complesso sarebbe meno dotato di quelle proprietà (resilienza, stabilità, capacità di autoregolazione) che ammortizzano il rischio di reazioni non lineari. La sostenibilità è un concetto dinamico, in quanto le relazioni tra sistema ecologico e sistema antropico possono essere influenzate dallo scenario tecnologico, che, mutando, potrebbe allentare alcuni vincoli relativi, per esempio all’uso delle fonti energetiche. Sotto il profilo operativo, l’assunzione del paradigma dello sviluppo sostenibile implica l’adozione di un sistema di valutazione che determini la sostenibilità di interventi, progetti, sistemi e settori economici. A partire dalla fine degli anni 1990 si è diffusa la tendenza a valutare la sostenibilità di aree territoriali e di programmi di sviluppo. Si parla così di sostenibilità urbana, di sostenibilità dell’agricoltura, di turismo sostenibile. In tutti i casi, nel sistema di valutazione si tende a considerare in un unico quadro la sostenibilità ambientale, la sostenibilità economica e quella sociale di un intervento di sviluppo o di un settore della società o dell’economia.
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L’evoluzione del concetto di Sviluppo Sostenibile L’esigenza di conciliare crescita economica ed equa distribuzione delle risorse in un nuovo modello di sviluppo ha iniziato a farsi strada a partire dagli anni ’70, in seguito all’avvenuta presa di coscienza del fatto che il concetto di sviluppo classico, legato esclusivamente alla crescita economica, avrebbe causato entro breve il collasso dei sistemi naturali. La crescita economica di per sé non basta, lo sviluppo è reale solo se migliora la qualità della vita in modo duraturo. Nella sua accezione più ampia, il concetto di sostenibilità implica la capacità di un processo di sviluppo di sostenere nel corso del tempo la riproduzione del capitale mondiale composto dal capitale economico, umano/sociale e naturale.In particolare, il capitale economico “costruito” è rappresentato da tutte le cose create dagli individui, il capitale umano/sociale è costituito da tutti gli individui di una società mentre il capitale naturale è costituito dall’ambiente naturale e dalle risorse naturali della società. La definizione più diffusa è quella fornita nel 1987 dalla Commissione Indipendente sull’Ambiente e lo Sviluppo (World Commission on Environment and Development), presieduta da Gro Harlem Brundtland, secondo la quale: “L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo , cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai loro”. L’elemento centrale di tale definizione è la necessità di cercare una equità di tipo intergenarazionale: le generazioni future hanno gli stessi diritti di quelle attuali. Si può evincere, inoltre, anche se espresso in maniera meno esplicita, un riferimento all’equità intragenerazionale, ossia all’interno della stessa generazione persone appartenenti a diverse realtà politiche, economiche, sociali e geografiche hanno gli stessi diritti. Il successo di tale enunciato, prevalentemente di matrice ecologica, ha animato il dibattito internazionale, determinando numerosi approfondimenti e ulteriori sviluppi del concetto di sostenibilità, che nel tempo si è esteso a tutte le dimensioni che concorrono allo sviluppo. In tale ottica, la sostenibilità è, dunque, da intendersi non come uno stato o una visione immutabile, ma piuttosto come un processo continuo, che richiama la necessità di coniugare le tre dimensioni fondamentali e inscindibili dello sviluppo: Ambientale, Economica e Sociale. Per sostenibilità ambientale si intende la capacità di preservare nel tempo le tre funzioni dell’ambiente: la funzione di fornitore di risorse, funzione di ricettore di rifiuti e la funzione di fonte diretta di utilità. All’interno di un sistema territoriale per sostenibilità ambientale si intende la capacità di valorizzare l’ambiente in quanto “elemento distintivo” del territorio, garantendo al contempo la tutela e il rinnovamento delle risorse naturali e del patrimonio.
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La sostenibilità economica può essere definita come la capacità di un sistema economico di generare una crescita duratura degli indicatori economici. In particolare, la capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento delle popolazioni. All’interno di un sistema territoriale per sostenibilità economica si intende la capacità di produrre e mantenere all’interno del territorio il massimo del valore aggiunto combinando efficacemente le risorse, al fine di valorizzare la specificità dei prodotti e dei servizi territoriali. Sostenibilità sociale - La sostenibilità sociale può essere definita come la capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione) equamente distribuite per classi e per genere. All’interno di un sistema territoriale per sostenibilità sociale si intende la capacità dei soggetti di intervenire insieme, efficacemente, in base ad una stessa concezione del progetto, incoraggiata da una concertazione fra i vari livelli istituzionali. In sintesi, il concetto di sviluppo sostenibile si sostanzia in un principio etico e politico, che implica che le dinamiche economiche e sociali delle moderne economie siano compatibili con il miglioramento delle condizioni di vita e la capacità delle risorse naturali di riprodursi in maniera indefinita. Appare indispensabile, pertanto, garantire uno sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e gli ecosistemi, operante quindi in regime di equilibrio ambientale, nel rispetto della cosiddetta regola dell’equilibrio delle tre “E”: Ecologia, Equità, Economia. Ne deriva, dunque, che il perseguimento dello sviluppo sostenibile dipende dalla capacità della governance di garantire una interconnessione completa tra economia, società e ambiente. Tuttavia, appare fondamentale evidenziare come tali dimensioni siano strettamente interrelate tra loro da una molteplicità di connessioni e, pertanto, non devono essere considerate come elementi indipendenti, ma devono essere analizzate in una visione sistemica, quali elementi che insieme contribuiscono al raggiungimento di un fine comune. Ciò significa che ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle reciproche interrelazioni. Nel caso in cui le scelte di pianificazione privilegino solo una o due delle sue dimensioni non si verifica uno sviluppo sostenibile. In virtù di tali considerazioni sarebbe preferibile rappresentare la sostenibilità dello sviluppo in tre cerchi concentrici evidenziando come l’economia esiste all’interno di una società ed entrambe esistono nell’ambiente. In tal senso, dunque, è possibile costruire una vera e propria piramide della sostenibilità, ponendo alla base proprio la dimensione ambientale che attraverso la fornitura di risorse naturali, di servizi all’ecosistema e di benessere alla società svolge un ruolo fondamentale di supporto sia alla dimensione economica che a quella sociale. Proprio per la sua triplice dimensione ambientale, sociale ed economica, lo sviluppo sostenibile necessita di sostanziali mutamenti nei comportamenti individuali e nelle scelte dei decisori operanti ai diversi livelli (internazionale – nazionale - territoriale) di governo politico ed amministrativo.
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Cambiamenti globali Nello stesso anno della firma del Protocollo di Kyoto, la Commissione europea pubblica il Libro Bianco “Energie per il Futuro: le fonti energetiche rinnovabili” (FER) nel quale si pone l’obiettivo di raggiungere nell’Unione, entro il 2010, un tasso di penetrazione delle rinnovabili del 12%. A settembre 2001 viene approvata la “Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio” cui obiettivo è “promuovere un maggior contributo delle fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità nel relativo mercato interno e a creare le basi per un futuro quadro comunitario in materia”. Tra i vari punti, la direttiva indicava che gli obiettivi nazionali degli Stati membri devono coincidere con gli obiettivi complessivi globali della Comunità per il 2010. Si prevedeva inoltre che qualora gli obiettivi indicativi nazionali fossero incompatibili con l’obiettivo indicativo globale, la Commissione aveva la possibilità di proporre, nella forma adeguata, obiettivi nazionali, compresi eventuali obiettivi vincolanti.Negli anni seguenti, la Comunità Europea, attraverso la pubblicazione di una serie di Libri verdi e Direttive sulle tematiche energetiche, ha cercato trasversalmente di delineare una strategia di promozione delle energie rinnovabili. Inoltre, è stato istituito il per il periodo 2003/2006, che è poi stato riconfermato nel 2007 fino al 2013. Il programma EIE si propone di accelerare la realizzazione degli obiettivi nel settore dell’energia sostenibile, sostenendo il miglioramento dell’efficienza energetica, l’adozione di fonti di energia nuova e rinnovabile, una maggiore penetrazione sul mercato di tali fonti di energia, la diversificazione dell’energia e dei carburanti, l’aumento della quota di energia prodotta da fonti rinnovabile e la riduzione del consumo energetico finale. Negli anni successivi, la Commissione ha adottato un Piano d’azione per l’efficienza energetica: concretizzare le potenzialità” - COM(2006), il cui obiettivo “è contenere e ridurre la domanda di energia, nonché agire in maniera mirata sul consumo e sull’approvvigionamento per riuscire a ridurre del 20% il consumo annuo di energia primaria entro il 2020 (rispetto alle proiezioni sul consumo energetico per il 2020)”. Dal piano ne deriva la cosiddetta , ossia ridurre le emissioni di CO2 del 20%, aumentare l’efficienza in campo energetico del 20%, e portare la produzione di energie rinnovabili al 20% entro il 2020. Con l’approvazione della strategia 20-20-20 l’Europa si propone quale soggetto trainante nello sviluppo delle energie rinnovabili e nella lotta al cambiamento climatico e se saprà tradurre in politiche ed azioni concrete gli impegni assunti potrà svolgere il ruolo di leadership nell’azione globale per realizzare una società a basse emissioni di carbonio. Attualmente, spinte dalla crisi energetica e dalla questione dei mutamenti climatici, le FER assumono un peso sempre più consistente nella bilancia energetica mondiale. Gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&D) tecnologico hanno sopportato negli ultimi anni un’ampia diffusione in diversi paesi, con il conseguente aumento di efficienza e potenza.
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Negli Stati Uniti, ad inizio 2009, l’energia rinnovabile è diventata la grande scommessa del futuro. Lo staff del presidente Barack Obama ha messo in bilancio 54 miliardi di dollari al fine di rendere il Paese più verde e meno dipendente dal petrolio. Per migliorare l’efficienza della rete elettrica saranno spesi 32 miliardi di dollari, mentre 22 miliardi sono destinati a ridurre i consumi energetici di abitazioni ed edifici pubblici. In Germania ad esempio, attualmente più del 10% dell’energia prodotta nel paese proviene da fonti di energia rinnovabili ed la percentuale è destinata ad aumentare. Già negli anni ’90 la Germania ha creato un quadro normativo nazionale per il lancio e l’introduzione nel mercato delle “energie verdi”, consolidato nel 2001 con l’entrata in vigore della “Legge sulle energie rinnovabili” – LER” (Erneuerbare Energien Gesetz, EEG). La legge regolamenta l’acquisto e la remunerazione dell’energia prodotta dalle diverse fonti rinnovabili, vincolando i gestori della rete elettrica ad acquistare per una durata ventennale l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili a prezzi prefissati. Pare opportuno poi segnalare che gli investimenti per lo sviluppo delle energie rinnovabili in Germania hanno prodotto l’occupazione ad oggi di oltre 250.000 persone. In Danimarca la percentuale di energia elettrica prodotta utilizzando fonti energetiche rinnovabili, in particolar modo da impianti eolici, supera il 25%. In Spagna, invece, le rinnovabili sono attualmente le prime fonti per la produzione di energia elettrica: nel 2007 il paese ha raggiunto una potenza di energia da fonti eoliche pari al 27% della sua domanda, superando tutte le altre fonti energetiche. Anche in altri paesi cresce la diffusione delle fonti alternative: Grecia, Austria e Portogallo in pochi anni hanno realizzato un ampio incremento del solare termico; in Finlandia l’11% dell’elettricità è generata da impianti da biomasse; in Svezia il 50% dell’energia dei distretti teleriscaldati proviene dalla combustione di biomasse. Anche in Italia l’attenzione alla produzione di energia da fonti rinnovabili è in significativo aumento. Nel rapporto del GSE (Gestore Servizi Elettrici) del 2006, emerge che la produzione di elettricità proveniente da fonti rinnovabili è stata pari a circa 52 miliardi di kWh, con un incremento del 4,5% rispetto il 2005. Tale crescita si deve principalmente all’energia prodotta dall’eolico - 3,2 miliardi di kWh nel 2005, equivalente ad un aumento del 37% -, seguita dal fotovoltaico - con circa 35 milioni di kWh prodotti, segnando un aumento del 12,9%. Un risultato importante, ma ancora poco incisivo sul totale del fabbisogno nazionale. Nel settembre 2007 viene pubblicato, in risposta al Piano della Commissione europea, pubblica il “ – Energia: temi e sfide per l’Europa e per l’Italia”, (testo in .pdf) dove emergono le riflessioni del Governo sulle criticità in termini di energie da fonti rinnovabili e sulla necessaria integrazione di una governance multilivello in ambito energetico. Tale documento riflette la consapevolezza di un paese dipendente dall’estero per l’84% del suo fabbisogno di energia, secondo al mondo per importazione di elettricità e che negli anni ha mancato di una politica seria
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in campo energetico. In ragione della sua posizione geografica, grandi sono le potenzialità del nostro paese per lo sviluppo dell’energia solare ed eolica. In questa prospettiva la realizzazione degli obiettivi europei potrà avere un effetto straordinario in termini di riduzione delle importazioni di fonti fossili e quindi di risparmio economico, in termini di innovazione e di creazione di nuovi posti di lavoro, nonché in termini di minor impatto ambientale favorendo un maggior benessere e una migliore qualità della vita per tutti.
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Uso delle energie rinnovabili L’energia rinnovabile (FER) si riferisce a quelle fonti di energia che sono continuamente ricostituite dalla natura. L’energia rinnovabile può essere definita come “l’energia ottenuta da flussi continui o ripetitivi che ritornano periodicamente nell’ambiente naturale” ( cit. Twidell e Weir, 1986).
Energia solare Dal punto di vista energetico, con l’espressione “energia solare” si intende l’energia raggiante sprigionata dal Sole per effetto delle reazioni termonucleari che avvengono nel suo interno, e trasmessa alla Terra sotto forma di radiazione elettromagnetica. L’idea di utilizzare un gran numero di pannelli riflettenti (detti eliostati) o specchi a più facce per concentrare la radiazione solare ha una storia antica che risale almeno al 212 a.C., quando Archimede, nell’antica Siracusa, utilizzò degli scudi di bronzo lucidati per focalizzare i raggi del sole sulle vele delle navi romane, incendiandole. In linea teorica, utilizzando specchi e lenti, si potrebbe raggiungere la temperatura della superficie del Sole. La potenza massima della radiazione solare nelle ore centrali della giornata, alle latitudini dei Paesi europei mediterranei, è di oltre 1 kW/m2; in tali zone l’ energia incidente sull’unità di superficie orizzontale (m2) può raggiungere in un giorno, nelle migliori condizioni estive, circa 25 Mega Joule (come termine di riferimento, l’energia chimica contenuta in 1 kg di gasolio è pari a circa 42 MJ). In meno di 40 minuti, gli Stati Uniti ricevono più energia dal Sole di quanta non ne ottengano bruciando combustibili fossili per un anno. L’energia solare è la fonte di energia più diffusa, disponibile ovunque e in quantità che sono, almeno in teoria, largamente superiori ai fabbisogni energetici. Ogni anno il sole irradia sulla terra 16.000 miliardi di TEP (Tonnellate Equivalenti Petrolio) mentre la domanda mondiale di energia è di circa 8 miliardi di TEP. In Italia la domanda annua è di circa 167 milioni di TEP. In un recente studio dell’International Energy Agency (IEA -Task VIII) presentato in un simposio internazionale sull’energia solare che si è svolto a maggio 2003 a Osaka,in Giappone, si afferma che basterebbe sfruttare il 4% delle aree desertiche della terra per ottenere dal sole energia elettrica pari al il fabbisogno attuale. La sua utilizzazione, tuttavia, pone problemi tecnici ed economici complessi, legati alla bassa densità energetica della radiazione solare, alla sua discontinuità (dovuta all’alternanza tra ore diurne e notturne, ma anche al ciclo delle stagioni), alla sua aleatorietà (determinata dalle mutevoli condizioni meteorologiche) e, infine, al valore modesto dei rendimenti di conversione. L’insieme di questi fattori determina un divario notevole tra le capacità potenziali di sfruttamento dell’energia solare e le possibilità pratiche di impiego.
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Solare fotovoltaico La tecnologia fotovoltaica (FV) consente di trasformare direttamente l’energia associata alla radiazione solare in energia elettrica. Essa sfrutta il cosiddetto effetto fotovoltaico che è basato sulle proprietà di alcuni materiali semiconduttori che se opportunamente trattati sono in grado di produrre elettricità senza l’uso di alcun combustibile. L’effetto fotovoltaico consiste nella generazione di una differenza di potenziale elettrico, grazie all’integrazione di un flusso di energia radiante con la materia. La cella fotovoltaica è costituita da due strati di semiconduttore (solitamente composti a base di silicio) in contatto fra loro: uno strato è di tipo n, o strato finestra (generalmente si tratta di silicio drogato con fosforo), caratterizzato da una certa quantità di cariche negative (elettroni) e uno strato è di tipo p, o strato assorbitore (ottenuto drogando il silicio con boro), in cui si ha un eccesso di cariche positive. Alla giunzione, cioè nella zona di contatto tra i due strati, si crea una barriera di potenziale. Ciascun fotone, dotato di energia sufficiente e = h*v , è in grado di liberare all’interno della giunzione una coppia elettrone - lacuna che contribuisce alla conduzione elettrica del semiconduttore. A causa della barriera di potenziale gli elettroni possono passare dallo strato p a quello n, ma non è possibile il passaggio inverso: si crea così un eccesso di elettroni nello strato n. Collegando un conduttore a ciascuno degli strati p e n e chiudendo il circuito ci sarà circolazione di corrente grazie al passaggio degli elettroni che si ricombinano con le lacune. È importante che la radiazione solare penetri in entrambi gli strati n e p ed è per questo motivo che il primo strato è molto sottile rispetto al secondo. Solare termico L’energia termica derivante dall’irraggiamento solare può essere “catturata” in molti modi e utilizzata per le varie necessità energetiche: come semplice energia termica utile alla produzione di acqua calda per usi sanitari e per riscaldamento ma anche per ottenere energia frigorifera, energia elettrica o energia meccanica. Le tecnologie migliori permettono anche la cogenerazione di più tipologie di energia ed è possibile accumulare l’energia termica in molti modi e per differenti usi. I collettori a tubi sottovuoto sono composti da tubi di vetro speciale sottovuoto ricoperti da uno strato altamente selettivo che trasforma la luce solare in calore. In questo caso l’assorbitore di calore è di forma circolare ed è alloggiato all’interno della cavità sottovuoto dei tubi stessi; in questo modo il fluido termoconvettore evapora e, cedendo il suo calore all’estremità superiore del tubo, si condensa e ritorna in basso. I collettori a piastra, sono composti da una cella/intelaiatura termicamente isolata (in legno incollato a tenuta di acqua o in alluminio), coperta da un vetro protettivo in grado di sopportare pioggia, grandine e temperature rigide, filtra i raggi solari e crea l’effetto serra per intrappolare il calore. All’interno della cella si trova l’assorbitore di calore vero e proprio, che è una lastra metallica scura, detta anche piastra captante, o corpo nero assor-
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bente ,sulla quale sono saldati i tubi all’interno dei quali circola un liquido termoconvettore. Biomasse Biomassa è sostanza organica derivante direttamente o indirettamente (attraverso le catene alimentari) dalla fotosintesi clorofilliana. Mediante la fotosintesi, le piante assorbono dall’ambiente anidride carbonica che viene trasformata, con l’apporto di energia solare, acqua e sostanze nutrienti, presenti nel terreno, in materiale organico (glucosio): biomassa. Ogni anno si stima vengano fissate complessivamente 2x1011 tonnellate di CO2, con un contenuto energetico equivalente a 70 miliardi di tonnellate di petrolio, circa 10 volte l’attuale fabbisogno energetico mondiale. La Biomassa è la più antica e più diffusa delle fonti energetiche, sostituita gradualmente, negli ultimi 150 anni, dai combustibili fossili. Anche i combustibili fossili hanno origine organica, ma non sono ritenuti rinnovabili. Inoltre bruciare combustibili fossili significa bruciare “Vecchia biomassa” per produrre “Nuova anidride carbonica”; bruciare “Nuova biomassa“ in modo ciclico, non contribuisce alla produzione di “Nuova anidride carbonica”, in quanto le quantità emesse sono bilanciate dalle quantità assorbite. La Biomassa utilizzabile ai fini energetici consiste in tutti quei materiali organici che possono essere utilizzati direttamente come combustibili o trasformati in altre sostanze (solide, liquide o gassose) di più facile e conveniente utilizzazione negli impianti di conversione. Le principali tipologie di biomassa utilizzabili per la produzione di energia sono: - legna derivante dalle operazioni di cura e manutenzione dei boschi - residui dell’attività agricola ( paglia , potature) - residui delle attività agroindustriali (sansa, gusci, noccioli) - scarti della lavorazione primaria del legno Biocarburanti I biocarburanti sono prodotti derivati dalla biomassa che, oltre a prestarsi per produrre calore e/o energia elettrica, possono essere usati per autotrazione, sia miscelati con i carburanti da combustibili fossili e sia, in alcuni casi, utilizzati puri. Il bioetanolo è etanolo prodotto mediante un processo di fermentazione delle biomasse, ovvero di prodotti agricoli ricchi di zucchero (glucidi) quali i cereali, le colture zuccherine, gli amidacei e le vinacce. Negli USA sono stati effettuati alcuni interessanti studi sulle potenzialità del bioetanolo tra i quali: - Minor costo della benzina se unita con bioetanolo, tenendo presente che in quel paese la benzina ha un costo nettamente inferiore al nostro. - Maggior profitto per i coltivatori delle colture adatte ad ottenere bioeta-
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nolo, riduzione del deficit commerciale, 13.000 nuovi posti di lavoro. L’ultimo studio sul bilancio energetico nella produzione del bioetanolo segnala un attivo del 34%, tenendo presente che si basa sull’odierna tecnologia e non prende in considerazione le innovazioni che sicuramente ci saranno nei prossimi anni. Con il termine Biogas si intende una miscela di vari tipi di gas (per la maggior parte metano) prodotto dalla naturale fermentazione batterica in anaerobiosi (assenza di ossigeno) dei residui organici provenienti da rifiuti, vegetali in decomposizione, carcasse in putrescenza. L’intero processo vede la decomposizione del materiale organico da parte di alcuni tipi di batteri, producendo anidride carbonica, idrogeno molecolare e metano (metanizzazione dei composti organici). Negli ultimi anni sono state sviluppate interessanti tecnologie che, tramite l’utilizzo di batteri in appositi “fermentatori”, sono in grado di ottenere grandi quantità di biogas dai rifiuti organici urbani e dal letame prodotto dagli allevamenti. Il gas metano prodotto in questo processo può essere quindi utilizzato per la combustione in caldaie da riscaldamento o nei motori a scoppio. Geotermica L’energia geotermica è costituita dal calore contenuto all’interno della Terra, che nelle zone più profonde può raggiungere i 4.000 °C. Esso trae origine dal residuo calore primitivo del pianeta e dalle reazioni nucleari legate al decadimento radioattivo di alcuni materiali terrestri (uranio, torio, potassio, ecc.). Per gli usi industriali ed energetici con energia geotermica si fa riferimento oggi al calore endogeno disponibile fino a profondità di 4-6 km, benché le attuali tecnologie di perforazione consentano di raggiungere profondità anche di 10 km. L’energia geotermica può essere considerata inesauribile; si propaga per conduzione nelle rocce compatte e per convezione in quelle permeabili e fratturate, affluendo in superficie con un gradiente di temperatura medio di circa +3 °C ogni 100 metri. La Terra è quindi un immenso serbatoio di calore: si calcola che l’energia termica contenuta entro i primi 5 km sia equivalente a circa 500.000 volte gli attuali fabbisogni mondiali. Si tratta però di energia fortemente dispersa e solo raramente recuperabile in condizioni economicamente vantaggiose. Per contro ha la caratteristica di essere relativamente costante nel tempo, priva di fluttuazioni meteorologiche (diurne o stagionali) e, cosa che più interessa dal punto di vista economico, può concentrarsi in zone caratterizzate da anomalie termiche (vulcanesimo secondario), ove può raggiungere livelli di temperatura industrialmente sfruttabili. In tali zone l’acqua di falda viene riscaldata dal calore geotermico e resa disponibile (in modo naturale oppure grazie a perforazioni artificiali) sotto forma di fluido più o meno caldo (più raramente anche vapore surriscaldato) utilizzabile per scopi termici (riscaldamento) o per la produzione di energia elettrica, a seconda della temperatura e delle caratteristiche del fluido stesso.
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Eolica L’energia eolica è il prodotto della conversione dell’energia cinetica del vento in elettrica. Prima tra tutte le energie rinnovabili per il rapporto costo/produzione è stata anche la prima fonte energetica rinnovabile usata dall’uomo. Il suo sfruttamento, relativamente semplice e poco costoso, è attuato tramite macchine eoliche divisibili in due gruppi ben distinti: - Generatori eolici ad asse verticale - Generatori eolici ad asse orizzontale Essa è pensata tenendo presente sia una produzione centralizzata in impianti da porre in luoghi alti e ventilati, sia un eventuale decentramento energetico, per il quale ogni Comune ha impianti di piccola taglia, composti da un numero esiguo di pale (1-3 pale da 3-4 megawatt) con le quali genera in loco l’energia consumata dai suoi abitanti. Il tempo di installazione di un impianto è molto breve; fatti i rilievi sul campo per misurare la velocità del vento e la potenza elettrica producibile, si tratta di trasportare le pale eoliche e fermarle nel terreno. Il tempo di progettazione e costruzione di altre centrali (idroelettriche , termoelettriche,etc.) è superiore a 4 anni. Nonostante le intenzioni siano le migliori, la mancanza di una legge quadro o di un testo unico sulle energie eoliche, diversamente dal solare, è considerata una delle cause della lenta diffusione della tecnologia rispetto all’estero. Benché l’eolico sia l’energia meno costosa, non è né massicciamente richiesto dai produttori elettrici che potrebbero rivenderlo al costo del kWh attuale con maggiori profitti, né è la prima quantità d’energia ad essere venduta nella Borsa elettrica che pur abbina domanda e offerta di energia in base al prezzo del kWh elettrico (l’eolico, avendo il prezzo per kWh più basso e conveniente, dovrebbe collocarsi subito). L’eolico è l’energia meno costosa attualmente disponibile. Idroelettrico Energia idroelettrica è un termine usato per definire l’energia elettrica ottenibile a partire da una caduta d’acqua, convertendo con apposito macchinario l’energia meccanica contenuta nella portata d’acqua trattata. Gli impianti idraulici, quindi, sfruttano l’energia potenziale meccanica contenuta in una portata di acqua che si trova disponibile ad una certa quota rispetto al livello cui sono posizionate le turbine. La generazione idroelettrica, nella produzione globale ha raggiunto a livelli internazionali e nazionali una notevole considerazione. In particolare un aspetto che occorre mettere in evidenza è il potenziale ancora non sfruttato delle “microidraulica” ovvero impianti di produzione che utilizzano salti di altezze contenute e altrettanto ridotte portate. La spesa per la realizzazione di queste centrali è dipendente dalle caratteristiche del luogo dove se ne prevede la realizzazione, ovvero dalle caratteristiche dei manufatti ne-
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cessari all’imbrigliamento al convogliamento e, successivamente, allo scarico dell’acqua utilizzata per la produzione, nel corpo idrico originale. Le limitate risorse necessarie per delle centrali di microidraulica con potenzialità da 10 kw a 100 kw consente il loro impiego in siti potenzialmente interessanti proprio per questa loro peculiarità .
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Gestioni di scarti e rifiuti La gestione dei rifiuti è una delle questioni fondamentali di questo paragrafo, sia per quanto riguarda la produzione del prodotto che poi diventerà rifiuto sia per quanto riguarda la raccolta degli stessi, la gestione e la destinazione finale. In origine i generi di consumo andrebbero prodotti con materiali biodegradabili, possibilmente ottenuti da materiali di origine rinnovabile,in alternativa con materiali riciclabili e solo in mancanza di soluzioni possibili con polimeri naturali o vetro e metalli riciclabili andrebbero prodotti con materiali derivati da fonti esauribili come ad es. il petrolio e i suoi derivati plastici, questo per diversi motivi, non ultimo la difficoltà di smaltimento di queste sostanze plastiche per il quale serve un maggiore consumo di energia rispetto agli altri materiali. Nella fase di raccolta i rifiuti devono essere differenziati per tipologia o all’origine o successivamente per vaglio dell’insieme dei rifiuti conferiti in discarica, il procedimento di differenziazione da parte dei singoli utenti è energeticamente conveniente. La frazione umida può essere utilizzata per ricavare gas, liquidi o solidi combustibili, la parte rimanente può essere utilizzata come componente per compost fertilizzanti, in alcune nuove tecnologie per la produzione di bioetanolo i residui di lavorazione possono servire all’industria chimica anche per la produzione di bioplastiche. La frazione secca al netto dei metalli, della carta e del vetro (riciclabili) può costituire il “combustibile da rifiuti” (CDR) che può essere utilizzato in termovalorizzatori che riducendone il quantitativo in volumi finali da conferire nelle aree di discarica definitiva produce energia elettrica, se il termovalorizzatore è provvisto dei filtri adatti ad abbattere la quasi totalità delle immissioni in atmosfera e gli odori del ciclo di lavorazione può essere utilizzato come centrale di cogenerazione e quindi fornire anche energia termica agli edifici non eccessivamente distanti dall’impianto. Un fattore che limita questa tecnologia è la presenza di sostanze plastiche nelle balle di CDR, la plastica bruciando emana diossina che è notoriamente una sostanza tossica, per eliminare l’inconveniente bisogna bruciare la plastica a temperature più elevate di quelle di normale esercizio, compromettendo l’efficienza di produzione energetica del termovalorizzatore, d’altra parte riciclare la plastica costa più energia di quella necessaria per produrne di nuova, una soluzione sarebbe l’adozione di bioplastiche, maggiormente riciclabili e non emanano diossina nella combustione. Dall’utilizzo del CDR si possono ottenere alcuni punti percentuali dell’energia elettrica attualmente consumata. Il riciclo e la reimmissione nel circuito della produzione dei prodotti a fine vita costituisce una delle priorità ambientali perché minimizza la quantità dei rifiuti e permette un recupero di materie prime e in genere quindi un risparmio energetico, tanto che l’uso di prodotti derivanti da materiali rici-
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logiche e quindi di risparmio energetico come l’etichetta “energy star”. L’impiego di prodotti ad alto contenuto di materiali derivanti da riciclo può essere considerato, a prestazioni equivalenti sotto altri profili ambientali, come una caratteristica ambientalmente preferibile. La riciclabilità dei prodotti e, in alcuni casi, la presenza di uno specifico circuito di raccolta e riuso costituiscono generalmente requisiti previsti dalla gran parte dei marchi ambientali. Un Termovalorizzatore è un impianto per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani che ha come obiettivo anche laproduzione di energia. La configurazione tipo di un impianto di termovalorizzazione prevede una sezione di stoccaggio e omogeneizzazione del rifiuto in ingresso, una sezione di combustione, una sezione di recupero energetico (generatore di vapore) e una di depurazione dei fumi. Per garantire elevatissimi standard di affidabilità sicurezza, spesso gli impianti risultano caratterizzati dall’esercizio di più linee (comprendenti il forno, il recupero energetico e la linea fumi) in parallelo ed indipendenti tra loro.
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Contenimento dei consumi Attualmente che ci sono ancora tanti sprechi di energia il risparmio energetico (energy saving) rappresenta una vera e propria fonte di energia rinnovabile e è diventato una pratica necessaria, dal momento che la richiesta di energia nel nostro paese e nel mondo sta aumentando in modo pressoché costante. Nel 2002 si è consumato in tutto il mondo l’equivalente di circa 10.000 milioni di tonnellate di petrolio. Questo significa che ogni abitante della terra consuma in media una tonnellata e mezzo di petrolio, ma con delle grosse differenze tra le varie aree geografiche. Fondamentalmente è possibile intervenire a tre livelli per razionalizzare ed ottimizzare la filiera energetica e ridurne conseguentemente l’impatto ambientale: - all’atto del prelievo (pozzi petroliferi, miniere, dighe, aeromotori, etc) - in fase di conversione in vettore energetico (le fonti primarie, come i combustibili e l’energia solare, vanno trasformate in elettricità o in combustibili raffinati per consentirne il trasporto all’utenza el’utilizzo) - al momento dell’utilizzazione (mezzi di trasporto, elettrodomestici, riscaldamento, processi industriali, etc) Per quel che riguarda l’utilizzazione i settori in cui è possibile ottenere un risparmio energetico attraverso un uso razionale delle risorse energetiche sono: -
Edifici, usi domestici Industria Trasporto Illuminazione pubblica Impianti per la produzione di energia, riciclaggio e recupero
Il 31% dell’energia elettrica e il 44% dell’energia termica (combustibili) vengono utilizzati in ambito residenziale , in uffici e aree commerciali, buona parte di queste fonti energetiche sono destinate alla climatizzazione dei locali (riscaldamento invernale e rinfrescamento estivo),altra voce importante di spesa energetica è rappresentata dagli elettrodomestici ed apparati elettrici ed elettronici come tv radio, computer ecc, anche i sistemi frigo hanno una considerevole necessità di energia mentre l’illuminazione rappresenta una una piccola quota dei consumi totali(circa il 2%) ma non irrilevante, in quanto rappresenta comunque il 15% dei costi dell’energia elettrica mediamente consumata in interni civili. Quindi, sul 100% di energia finale consumato in casa, soltanto il 2% serve all’illuminazione, il 5% per cucinare e per gli elettrodomestici, mentre il 15%
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per il rifornimento di acqua calda e il 78% per il riscaldamento, se poi si ha un impianto di climatizzazione estiva si deve aggiungere un buon 25% in più di consumi energetici. Un risparmio energetico e quindi economico non può prescindere dalla formulazione di un piano di efficienza energetica riguardante l’intera abitazione. Tale piano deve considerare l’abitazione come un sistema formato da alcune parti tra loro interagenti, vale a dire che il malfunzionamento di una parte si ripercuote anche sulle altre parti o su una porzione di esse. Ad esempio l’impianto di riscaldamento domestico, è formato dalla caldaia, dalle tubazioni e dai radiatori. Pertanto, nonostante si possa disporre di una caldaia ad altissima efficienza, se le tubazioni, le porte, le finestre e le pareti non sono ben isolate termicamente, si vanifica la buona prestazione della caldaia. Ecco dunque che una visione d’insieme dell’abitazione assicura che gli investimenti fatti avranno un periodo di payback limitato. Il primo controllo da effettuare è quello dell’isolamento termico dell’abitazione, vale a dire ricorrendo a materiali ed a tecniche specifiche, che incrementano la coibenza, si rendono minime le infiltrazioni d’aria e proteggono dall’umidità. Il fabbisogno energetico per l’impianto di riscaldamento e condizionamento rappresenta quasi la metà del costo di una bolletta media ed inoltre è responsabile negli USA dell’emissione di circa 0,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica/anno, del 24% delle emissioni totali di SO2 e del 12% delle emissioni totali di NOx: dunque influisce in modo rilevante sull’effetto serra e sulla cosiddetta “acidificazione”. Per quanto riguarda, invece, la situazione nel nostro paese ogni anno per riscaldare le nostre abitazioni bruciamo circa 14 miliardi di metri cubi di gas, 4,2 miliardi di chilogrammi di gasolio, oltre a 2,4 milioni di tonnellate di combustibili solidi, soprattutto legna e un po’ di carbone. Così facendo si riversano nell’ aria circa 380.000 tonnellate di sostanze inquinanti come ossidi di zolfo e di azoto, monossido di carbonio, ecc. Oltre alle sostanze propriamente dette inquinanti, si riversano nell’atmosfera anche più di 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2): questa, come è noto, contribuisce al formarsi del così detto “effetto serra” causando l’innalzamento della temperatura media del nostro pianeta. L’illuminazione incide per un terzo circa della bolletta elettrica nel settore civile Il settore delle tecnologie per l’illuminazione efficiente è in continua evoluzione e consente di conseguire risparmi energetici molto elevati, spesso compresi fra il 30% ed il 50%, offrendo contestualmente un comfort visivo migliore.
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Approccio globale alla sostenibilitĂ
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Iniziative istituzionali L’Unione Europea è chiamata oggi a rispondere e a confrontarsi con il processo di globalizzazione, che porta con sé la conseguente necessità che essa si adatti ai processi di innovazione tecnologica, alla liberalizzazione degli scambi, all’invecchiamento della popolazione e, come ultimo, alla crisi energetica ed ecologica. Per far fronte soprattutto alle sfide del processo di globalizzazione l’UE ha iniziato quindi ad impegnarsi a perseguire politiche e iniziative per lo sviluppo sostenibile. L’imperativo della sostenibilità ha inoltre indotto l’Unione Europea e le diverse organizzazioni internazionali ad identificare e sviluppare opportuni indicatori al fine di monitorare i progressi verso lo sviluppo sostenibile. La diffusione di indicatori, metodi e modelli è infatti essenziale per sostenere i processi decisionali in materia ambientale e nell’ultimo decennio si è sviluppata un’azione considerevole in tal senso. Le nuove politiche, le nuove idee e i nuovi strumenti sembrano produrre innovazioni molto interessanti non solo nelle agende politiche ma anche e soprattutto nelle tradizionali modalità di azione e organizzazione della pubblica amministrazione. L’orizzonte della sostenibilità sembra rappresentare quindi una sfida, un obiettivo non più eludibile per tutte le istituzioni di governo; essa diventa l’orizzonte di riferimento all’interno del quale incardinare le politiche e le iniziative dei differenti livelli di governo. La questione ambientale comincia ad assumere particolare rilevanza essenzialmente a partire dagli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui nascono le prime associazioni ambientaliste come World Wildlife Found (1961), Friends of the Earth (1969) e Greenpeace (1971) nelle quali vengono adottate le prime importantissime misure normative di protezione ambientale. Sempre in questi anni, su iniziativa del Club di Roma (associazione volontaria formata nel 1968 da un gruppo internazionale di trenta scienziati, educatori, economisti..) viene avviata una riflessione sui limiti dello sviluppo e i problemi della crescita associati a quelli ambientali e sociali. In particolare, il Club di Roma affiderà ad un gruppo di ricercatori l’incarico di realizzare uno studio, presso il Massachussetts Institute of Tecnology (Mit), per indagare cause e conseguenze a lungo termine della crescita di cinque grandezze: popolazione, capitale industriale, produzione di alimenti, consumo di risorse naturali e inquinamento. I risultati dello studio The Limits to Growth furono pubblicati a New York nel 1972 e sottolinearono come, senza un cambiamento nel modello di sviluppo, l’evoluzione delle grandezze considerate avrebbe raggiunto in un secolo i suoi limiti provocando un improvviso e incontrollabile declino del livello della produzione e del sistema industriale. Lo studio sottolineava quindi come si rendesse necessario modificare la linea di crescita scegliendo un’opzione di sviluppo basata su condizioni di stabilità economica ed ecologica.
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Da questo momento in poi il rapporto tra economia ed ambiente e la necessità di preservare la qualità delle risorse naturali diventa un tema centrale dell’agenda internazionale, che verrà trattato per la prima volta su scala mondiale alla Conferenza di Stoccolma del 1972, la prima che affronta i problemi ambientali. In questa occasione si riunirono i rappresentanti di 113 Stati per redarre un piano con più di 100 raccomandazioni e fu adottata una Dichiarazione che individuava 26 principi sui diritti e le respondabilità dell’uomo in relazione all’ambiente. La Dichiarazione sancisce quindi un passaggio fondamentale: sottolinea in primis la responsabilità delle attuali generazioni nei confronti di quelle future e apre la strada alla nascita del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite. In seguito a catastrofi ambientali come l’incidente industriale di Seveso (1976), l’incidente nucleare di Chernobyl (1986) a catastrofi naturali causate soprattutto da inondazioni e terremoti, l’opinione pubblica è stata catturata anche dalle campagne di informazione promosse dalle associazioni ambientaliste. In generale sulle tematiche dello sviluppo sostenibile furono stipulate prima di arrivare alla pubblicazione del Rapporto Brundtland (1987). Si tratta in particolare: - Convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza, Ginevra (1979); - Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, Parigi (1972). Le Nazioni Unite accolsero la sfida posta dalle nuove problematiche ed individuarono nella figura di Gro Brundtland quella più adatta a ridare un nuovo impulso ai recenti dibattiti. Infatti nel dicembre del 1983 Gro Brundtland, primo ministro norvegese, ricevette dalle Nazioni Unite l’incarico di presiedere una commissione di studio internazionale per analizzare i rapporti tra ambiente e sviluppo. L’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite, concordò nell’assegnare alla commissione il compito di realizzare una “agenda globale per il cambia-mento” che affrontasse le relazioni tra sviluppo e ambiente su scala globale ponendo particolare attenzione agli aspetti politici ed economici dei fenomeni in corso. Dal punto di vista politico ed istituzionale, l’evento più importante è sicuramente la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, che si tenne a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. La conferenza segnò un punto fondamentale per l’evoluzione della politica ambientale; fu infatti all’interno di questa Conferenza che la comunità internazionale prese atto della serietà delle questioni riguardanti i limiti della crescita e delineò di conseguenza una complessiva azione globale. All’interno del vertice si approvarono:
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- la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo - l’ Agenda 21 - la Dichiarazione sui “Principi delle foreste” Il contenuto dei tre documenti definisce una visione complessiva dei temi connessi alla sostenibilità dello sviluppo che è ancor’oggi attuale per ogni azione. Nel corso del vertice di Rio de Janeiro vennero inoltre adottate altre due importanti Convenzioni, una riguardante la biodiversità e la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, conosciuta anche come Summit della Terra, (che rappresentò il punto di partenza per arrivare al Protocollo di Kyoto). In questa occasione inoltre fu istituita la Commissione per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite che ha rappresentato e continua a rappresentare un punto di riferimento fondamentale per tutta la comunità internazionale. La Dichiarazione di Rio individua dei principi chiave, i più importanti richiamano l’attenzione su determinate questioni: 1- il principio di equità fra generazioni (art. 3) 2- il principio di integrazione ( art. 4 ) 3- il principio delle responsabilità comuni ma differenziate ( art. 7 ) 4- il principio 10, ovvero il diritto di accesso alle informazioni, la partecipazione di tutti i cittadini interessati e l’accesso alla giustizia ( art. 10 ) 5- il principio di non discriminazione ( art. 12 ) 6- il principio di precauzione ( art. 15) 7- il principio “chi inquina paga” ( art. 16 )
La Dichiarazione fornì un impulso fondamentale per i cambiamenti profondi nella politica ambientale in direzione della sostenibilità dello sviluppo e nell’elaborazione di nuovi strumenti normativi, di regolazione e gestionali. L’organizzazione dell’Agenda 21, le Convenzioni approvate che riflettono i temi del dibattito sulla sostenibilità, rappresentano la risposta della conferenza di Rio al mandato ricevuto dalle Nazioni Unite. L’Agenda 21 è un programma di azioni articolato in quattro sezioni all’interno delle quali sono trattati 38 temi, ciascuno corrispondente ad un capi-
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tolo. Si compone in una organizzazione completa delle azioni da applicare a livello nazionale, mondiale delle organizzazioni delle Nazioni Unite, dai governi e dalle amministrazioni in ogni territorio dove la presenza umana ha impatto sull’ambiente. Le prime due sezioni sono rivolte alle tre dimensioni inscindibili dello sviluppo sostenibile, quella sociale ed economica nella prima, ambientale nella seconda; la terza invece è dedicata alla funzione di tutte le parti coinvolte nel processo di attuazione, mentre la quarta sezione è rivolta alla descrizione degli strumenti, quali finanziari e non, necessari al raggiungimento deglio obiettivi proposti. Ad ogni modo, la Conferenza di Rio del 1992 diede riconoscimento ufficiale al concetto di sviluppo sostenibile, l’Agenda 21 rappresenta appunto il primo tentativo di realizzare, su scala globale, un programma che permetta una regolazione dello sviluppo attenta alle ricadute economiche, sociali ed ambientali. Negli anni successivi alla conferenza di Rio sono stati impiegati diversi accordi globali e multilaterali, su tematiche che riguardano lo sviluppo sostenibile. Tra quelli più rilevanti riguardanti l’ambiente è il Protocollo di Kyoto alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1997, in cui tutti i paesi industrializzati hanno accettato di ridurre il totale delle emissioni di gas ad effetto serra almeno del 5%, per il periodo 20082012. Nel 2002 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso che la revisione quinquennale dell’Agenda 21 si svolga in forma di Summit, da cui prenderà il nome di “Summit per lo sviluppo sostenibile” Rio+10 ( svolto a Johannesburg ), insieme alla partecipazione dei capi di Stato e di Governo, con l’intento di consolidare l’impegno globale per uno sviluppo sostenibile. Quest’ultimo è uno sviluppo che contiene in sè le problematiche mondiali e che potrebbe divenire il fattore di parità tra le popolazioni del mondo. La sostenibilità dello sviluppo nell’Unione Europea fino al 1997 era priva di un riferimento esplicito alla dimensione ambientale. Tale riferimento viene in seguito citato all’interno del Trattato di Amsterdam con l’articolo 6, in cui si inserisce il principio di integrazione, con la quale, le esigenze che sono connesse con la tutela dell’ambiente devono a loro volta essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche comunitarie, principalmente con l’idea di promuovere lo sviluppo sostenibile. In questo modo il concetto di sviluppo sostenibile diventa la prospettiva di azione per le politiche dell’Unione Europea. In parallelo alla Conferenza di Rio de Janeiro e all’attivazione dell’Agenda 21, si svolge il V Piano di Azione Ambientale che individua le strategie per i temi ambientali principali come il cambiamento climatico, la biodiversità, l’ambiente urbano ed altri fattori, ed i settori di riferimento in cui integrare la dimensione ambientale, ad esempio l’industria, l’energia, trasporti ecc. Anche se il Piano ha sensibilizzato i soggetti interessati, l’analisi globale del programma ha riportato in conclusione che i problemi persistono e che l’ambiente avrebbe continuato a deteriorarsi se non ci fosse stato un pro-
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gresso ulteriore nell’attuazione della legislazione ambientale negli Stati Membri con una maggiore responsabilizzazione dei cittadini e delle parti interessate. Da questa premessa si sviluppa il VI Piano di Azione Ambientale “Ambiente 2010: il nostro futuro la nostra scelta”, in cui si presenta l’obiettivo di promuovere la completa integrazione delle disposizioni in materia di protezione dell’ambiente nelle politiche e azioni comunitarie. A seguito del Consiglio europeo di Helsinki nel 1999, il VI Piano di Azione costituisce il pilastro ambientale di una vasta strategia dell’Unione Europea, per lo sviluppo sostenibile approvato dal Consiglio europeo di Göteborg nel giugno del 2001, cui verrà integrata la Strategia di Lisbona. Questa prefissa un nuovo obiettivo per il decennio a venire, il punto di inizio riguarda l’impatto della globalizzazione e della nuova economia a cui sono richieste una trasformazione radicale dell’economia europea, seppur nel rispetto dei valori e dei concetti di società. La strategia di Lisbona si articola in una serie di riforme strutturali riguardanti gli ambiti dell’innovazione, delle riforme economiche, dell’occupazione ed infine della coesione sociale. In coclusione l’obiettivo complessivo della nuova Strategia per lo Sviluppo Sostenibile è di individuare e sviluppare le iniziative che permetteranno all’Unione Europea di incrementare la qualità della vita delle generazioni attuali e future in modo costante attraverso la progettazione di comunità sostenibili in grado di amministrare ed utilizzare le risorse in maniera adeguata sfruttando il potenziale di innovazione ecologica e sociale dell’economia garantendo la tutela della coesione sociale e dell’ambiente.
Si è analizzato fino ad ora lo sviluppo riguardante l’impegno degli Stati verso la sostenibilità nel corso degli anni e di come il concetto è stato introdotto in tutti gli ambiti di intervento. In questa sezione si andranno ad analizzare le normative ed i protocolli impiegati per la sostenibilità ambientale applicate sul territorio italiano. Una delle prime leggi su cui si baserà il futuro della politica sul risparmio energetico è la legge 10/91, nominata dalla Repubblica Italiana Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia; il cui scopo è di ottimizzare l’uso dell’energia per il riscaldamento cercando di regolamentare il settore termotecnico. Questa legge indica un iter di valutazione del bilancio energetico nel periodo invernale di un edificio in cui ci sono apporti e dispersioni di calore, il risultato della somma algebrica dei due valori rappresenta il bilancio energetico. Il D.M. 20 luglio 2004 “Nuova individuazione degli obiettivi quantitativi per l’incremento dell’efficienza energetica negli usi finali di energia, ai sensi dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79.” determina gli obiettivi quantitativi nazionali di incremento dell’efficienza energetica degli usi
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Protocolli e normative Si è analizzato fino ad ora lo sviluppo riguardante l’impegno degli Stati verso la sostenibilità nel corso degli anni e di come il concetto è stato introdotto in tutti gli ambiti di intervento. In questa sezione si andranno ad analizzare le normative ed i protocolli impiegati per la sostenibilità ambientale applicate sul territorio italiano. Una delle prime leggi su cui si baserà il futuro della politica sul risparmio energetico è la legge 10/91, nominata dalla Repubblica Italiana Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia; il cui scopo è di ottimizzare l’uso dell’energia per il riscaldamento cercando di regolamentare il settore termotecnico. Questa legge indica un iter di valutazione del bilancio energetico nel periodo invernale di un edificio in cui ci sono apporti e dispersioni di calore, il risultato della somma algebrica dei due valori rappresenta il bilancio energetico. Il D.M. 20 luglio 2004 “Nuova individuazione degli obiettivi quantitativi per l’incremento dell’efficienza energetica negli usi finali di energia, ai sensi dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79.” determina gli obiettivi quantitativi nazionali di incremento dell’efficienza energetica degli usi finali di energia, nonché le modalità per la determinazione degli obiettivi specifici da inserire in ciascuna concessione per l’attività di distribuzione di energia elettrica; inoltre stabilisce i criteri generali per la progettazione e l’attuazione di misure e interventi per il conseguimento degli obiettivi generali e specifici di incremento dell’efficienza energetica negli usi finali di energia. L’Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale (ITACA) è stato costituito nel 1996 con il contributo fondamentale delle Regioni italiane. Si occupa della organizzazione tecnica e funzionale tra le medesime Regioni ed altri enti del settore, garantendo innovazione e trasparenza riguardo gli appalti e la compatibilità ambientale. Nel 2001 le Regioni italiane hanno stabilito un protocollo comune per la valutazione dei requisiti e delle soglie di edilizia sostenibili: il Protocollo Itaca, in cui sono racchiusi i criteri fondamentali per la bioedilizia. La sostenibilità bioedilizia è stata codificata in settanta schede di valutazione suddivisi in fogli procedurali: - Foglio calcolo Pesi - Foglio Pesi ridotto - Protocollo ITACA finale RELAZIONI - Protocollo ITACA finale SCHEDE Il BREEAM (BRE Environmental Assessment Method), ed il LEED (Leadership in Energy and Environmental Design) sono stati considerati un riferi-
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mento importante per redigere metodi e standards necessari all’ ideazione e costruzione di edifici a basso impatto ambientale. I protocolli ITACA sono stati sviluppati per diverse destinazioni d’uso, attualmente sono disponibili: - Itaca residenziale - Itaca per edifici industriali - Itaca per uffici - Itaca per centri commerciali In ognuno di questi protocolli si ha una valutazione delle prestazioni ambientali dell’edificio, attraverso una matrice di riferimento definita in aree di valutazione suddivise in categorie a loro volta suddivise in criteri. L’obiettivo comune di tutti i protocolli e le normative che sono state redatte negli ultimi vent’anni è di fornire un supporto tecnico sul tema della sostenibilità applicata all’edilizia e al consumo energetico, favorendo le aziende del territorio italiano a suguire una politica costante in merito a questo ambito.
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Situazione attuale Negli ultimi decenni è stata effettuata una revisione più recente della Strategia per lo Sviluppo Sostenibile, nell’ottobre del 2007. Revisione che prende atto delle decisioni e innovazioni avviate all’interno della precedente, ed è presentata come il primo esempio di un nuovo modo di lavorare dell’ UE. Questa nuova modalità si interessa di come possano essere raggiunti i risultati della Strategia in stretta collaborazione con gli Stati membri attraverso revisioni ed incontri periodici con la partecipazione attiva della Commissione e degli stessi Stati. Nel panorama finanziario 2007-2013 la Commissione attraverso il Regolamento n. 614/2007/CE, riguardante lo strumento finanziario dell’ambiente denominato LIFE+, ha ritenuto conveniente adottare un approccio differente per il finanziamento delle iniziative per la protezione dell’ambiente, effettuato tramite l’inserimento della protezione ambientale e in altri programmi comunitari come il Fondo Sociale Europeo ( FSE ) e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale ( FESR ). LIFE+ ha come obiettivo di offrire un sostegno a livello comunitario, riguardanti progetti e misure aventi valore aggiunto europeo per l’aggiornamento, lo sviluppo della politica e normativa comunitaria in materia di ambiente. A livello internazionale il 2012 è stato caratterizzato dalla Conferenza Rio+20, incentrata principalmente su due temi: il primo riguarda la Green Economy, lo sviluppo sostenibile e la lotta alla povertà, il secondo improntato sull’assetto istituzionale della governance dello sviluppo sostenibile a livello globale. Nel novembre del 2011 l’UNEP ( United Nations Environment Programme ) ha delineato l’importanza della Green Economy come elemento fondamentale per perseguire lo sviluppo sostenibile e la sopressione della povertà, in un periodo di crisi, tale situazione è stata analizzata attraverso il rapporto “Verso una green economy”. In esso sono sottolineate tre diverse sezioni, la prima riguarda gli ambiti del capitale naturale in cui è necessario investire in settori come l’agricoltura, la pesca, l’acqua, nella seconda parte si esaminano le opprtunità nella gestione efficiente delle risorse dei fattori in quanto energia rinnovabile, industria, turismo e città, nella terza si sofferma su come supportare la transizione verso la Green Economy e l’utilizzo di modelli, condizioni abilitanti. L’OCSE ( Organizzazione per la Coperazione dello Sviluppo Economico ) fornisce documenti e strategie, in particolare sul Green Growth, termine che si relaziona alla promozione di una crescita economica che sappia ridurre l’inquinamento, le emissioni di gas serra, assicurando che il patrimonio naturale continui a fornire i servizi e le risorse ambientali su cui si basa il nostro benessere. In questo modo l’OCSE invita attraverso queste direttive ad approcciarsi ad una strategia di crescita verde come reazione alla crisi economica occupandosi dell’interdipendenza dei sistemi economico e naturale. Nel 2011 viene presentato il nucleo centrale della strategia verde, argomento principale è l’avvio delle condizioni necessarie a favorire l’inno-
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vazione e gli investimenti affinchè si crei un terreno fertile per la nascita di nuove fonti di sviluppo economico che sia adattabile con ecosistemi capaci di sopportare gli “stress” come il cambiamento climatico. Nell’ultimo periodo la Commissione Europea ha emanato politiche orientate in particolar modo alla sostenibilità e alla Green Economy. Nel 2010 viene varata la Strategia Europa 2020, in cui viene definita una serie di obiettivi per una crescita sostenibile impiegata a far fronte alle sfide attuali e alle problematiche che potrebbero vanificare il percorso di crescita. Questa strategia mette in evidenza la necessità di promuovere l’incremento dell’efficienza dell’uso delle risorse. Il Parlamento europeo ha approvato nel 2009 una guida pratica alla riduzione dell’80% delle emissioni inquinanti entro il 2050, denominata Roadmap 2050, fino alla completa decarbonizzazione della produzione energetica. I pilastri su cui si basa il nuovo modello energetico sono quattro: prima di tutti l’efficienza e la riduzione dei consumi; in secondo luogo l’aumento della quota prodotta da fonti rinnovabili; successivamente lo sviluppo per le tecniche di cattura e stoccaggio di CO2; ed infine l’energia nucleare di cui l’Unione Europea continua a difendere come alternativa sicura e sostenibile. La Comunità Europea, in ambito di efficienza, ha varato una particolare iniziativa, “Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse”, seguita dalla “Tabella di marcia per una Europa efficiente nell’uso delle risorse” ( COM ( 2011) 571), dedicata al settore industriale e alla Green Economy. La direttiva sull’efficienza energetica è orientata ad accettare misure giuridicamente vincolanti in modo da intensificare gli sforzi degli Stati membri ad utilizzare l’energia in maniera più produttiva in tutte le fasi di impiego. Nel 2012 è stata adottata una strategia sulla bioeconomia, intesa come un’economia che si basa su risorse biologiche dai rifiuti, dalla terra e servono da combustibili per la produzione industriale ed energetica. I risultati di queste strategie hanno portato i Paesi occidendali e l’Europa ad avere un esito negativo, in quanto inadeguati ad esprimere una chiara leadership nelle politiche della sostenibilità come era avvenuto a Rio 1992; osservando da parte della società civile una diffidenza ad un orientamento alla green economy riguardante il mercato. In conclusione il documento finale di Rio+20 il “Futuro che vogliamo”, presenta per la prima volta nell’articolo 12 la Green Economy, ripreso in seguito in un apposito paragrafo che si sviluppa dall’articolo 56 al 74. Di fatto nell’articolo 57 riafferma come le politiche della green economy dovrebbero essere coerenti con i principi di Rio, dell’Agenda 21 ed il piano di attuazione di Johannesburg collaborando al conseguimento di obiettivi importanti di sviluppo concordati internazionalmente.I governi, riguardo la Green Economy, hanno riscontrato difficoltà e problematiche a convergere verso una visione d’insieme, soprattutto nel mondo delle imprese, consapevole del bisogno di una transizione radicale dell’economia e delle oppurtinità di un nuovo modello di sviluppo basato principalmente sulla sostenibilità e sull’uso efficiente delle risorse, ha dimostrato a Rio di essere pronto per divenire un protagonista delle nuove sfide.
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Eco-progettazione
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Fondamenti La bioedilizia è un’ ottima strategia per affrontare alla base il problema del risparmio energetico negli edifici. Con questa disciplina, l’ attenzione viene posta all’isolamento termico dell’edificio progettato. A questo si aggiungono altri importanti obiettivi come la riduzione delle emissioni ambientali, la protezione degli ambienti domestici e dei luoghi di lavoro dalle onde elettromagnetiche e l’utilizzo in edilizia di materiali non tossici e biodegradabili e/o riciclati. Se si pensa che in Italia il 60% degli investimenti immobiliari si riferisce alle ristrutturazioni e che il dato salirà all’80% nei prossimi anni, si comprende quanto la tecnica della costruzione sostenibile possa contribuire al miglioramento della vita urbana. La bioedilizia dedica anche grande attenzione all’ambiente, con l’uso di sostanze naturali, facilmente degradabili o riciclabili, ed è possibile disporre di sistemi ed impianti ad alta efficienza con un consumo minimo diminuendo il fattore inquinamento. Essa offre una vastissima gamma di materiali, tra cui vernici, rivestimenti, tessuti, prodotti che sono già proficuamente utilizzati nei progetti edili più avanzati e che possono aiutarci a rendere la nostra casa più sana e confortevole. Il costo di queste tecniche è paragonabile a quello dei sistemi tradizionali, ma i benefici ottenuti sono sicuramente maggiori: oltre a offrire un consistente vantaggio per la salute e l’ambiente, investire in bioedilizia si traduce in un risparmio concreto. Solo per fare un esempio, un buon isolamento termico e un impianto progettato con la giusta attenzione ai consumi consentono, in breve tempo, di ammortizzare il costo iniziale con il risparmio di energia ottenuto. Con l’architettura sostenibile viene non da ultimo messa alla prova l’autocoscienza professionale degli architetti. Gunter Moewes sostiene ad esempio che molto di ciò che verrà eseguito sotto il nome di “edilizia ecologica” potrà al massimo apparire come opera eseguita nel rispetto dell’ambiente. Nelle attività dell’edilizia sostenibile si inseriscono una serie di elementi legati ai criteri tradizionali di funzionalità, estetica, economia e benessere degli occupanti dell’edificio. La RMI ( Rocky Mountain Institute ), organizzazione statunitense che si interessa alla ricerca, pubblicazione e allo studio nel vasto campo della sostenibilità, ha stabilito cinque principi chiave che dovrebbero esaminare progettisti e investitori prima di iniziare un progetto sostenibile. Il primo principio riguarda il Greenbuilding e sostiene che essa sia una filosofia, non uno stile, e che l’architettura stessa dell’edificio non sia dominata da elementi di sostenibilità. Nel secondo principio si analizza l’intera pianificazione del progetto che deve essere accurato e ben definito nel tempo, in quanto ad obiettivi e caratteristiche della sostenibilità in modo da ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, elemento importante per ottimizzare le risorse senza sprechi. Per evitare inoltre dei costi extra inopportuni
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è fondamentale introdurre gli elementi green all’inizio della progettazione e non in seguito. Il terzo principio esamina il lato economico per la progettazione di un edificio sostenibile, spiegando al committente che la parola sostenibile spesso non collegato a sinonimo di costoso e complesso. Il successo di molte costruzioni sostenibili non viene dalle caratteristiche di tipo meccanico introdotte in esso, piuttosto dal risparmio energetico ottenuto con l’utilizzo di finestre energeticamente efficienti, che hanno un extracosto, ma che sarà ricompensato in seguito dalle riduzioni del prezzo. Un edificio sostenibile non può essere progettato senza considerare l’impatto ambientale che avrà sul territorio circostante, sull’esposizione, si devono considerare diversi fattori, analizzati nel quarto principio, che spiega come un approccio alla progettazione di un elemento sostenibile porta alla realizzazione di un costoso e incoerente oggetto edilizio che funziona leggermente meglio di una struttura convenzionale. Ultimo e forse il principio più importante, interessa la riduzione del consumo di energia, da questo punto di partenza è possibile osservare dei punti significativi, dalle caratteristiche architettoniche finalizzate alla conservazione dell’energia, ai dispositivi meccanici ad alta efficienza energetica. Dalla combinazione di questi elementi e dalla collaborazione del progettista, è possibile ottenere elevati livelli prestazionali. Dopo aver preso atto di questi cinque principi, è opportuno dire che la sostenibilità non prevede una presa di posizione netta ma è un percorso verso il vivere meglio in cui è possibile gestire le caratteristiche funzionali dell’edificio. Molte persone pensano che la sostenibiltà sia il futuro, in realtà fa parte del nostro presente da molti anni, ogni anno vengono realizzati progetti e certificati secondo gli standard di valutazione della sostenibilità edilizia.
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Architettura e sostenibilità Per quanto la consapevolezza ambientale abbia ormai conquistato una salda posizione nel sistema sociale dei valori e gli innegabili mutamenti climatici esercitino una notevole pressione sul pensiero politico, non si può tuttavia affermare che tutti i settori dell’attività umana puntino al raggiungimento della sostenibilità. Continua ad esistere un divario tra ciò che è economicamente conveniente e ciò che è necessario. I vari interventi di carattere eco-compatibile non possono essere considerati sinonimi di eco-architettura. Celle solari o utilizzo passivo dell’energia solare, serre integrate nell’edificio, facciate a verde, isolamento termico o altri interventi isolanti non sono sufficienti affinché si possa parlare di edilizia sostenibile. Finora ci si è limitati all’ottimizzazione di singoli aspetti, anche se importanti, piuttosto che a una progettazione orientata nella sua globalità verso un concetto di sostenibilità. Allo stesso modo si tende a concentrare l’attenzione sul singolo edificio piuttosto che sulle interrelazioni tra tutti gli edifici nel complesso di un insediamento urbano. Se da un lato si può ancora parlare di criteri chiari e di indicatori di sostenibilità in parte misurabili nell’ambito del singolo edificio, non si può tuttavia affermare che, dal punto di vista dell’urbanistica e dell’ecologia urbana, esista già un solido approccio per la determinazione e la realizzazione di una relazione ottimale tra densità, dimensione e qualità dell’ambiente e delle condizioni di vita generale all’interno di una città. Uno sviluppo sostenibile, e di conseguenza un’edilizia sostenibile, è quindi il risultato della sintesi di un’azione tecnologico-scientifica e di “istanze” socio-politiche, fondate e orientate su di un sistema di valori. La progettazione degli edifici non può prescindere dal contesto in cui sono inseriti, numerosi fattori si ripercuotono su ogni singolo edificio e contribuiscono alla creazione del contesto urbano e del tipo di offerta energetica. L’architettura va inserita in una rete di sistemi di alimentazione e smaltimento che non abbracci unicamente le infrastrutture tecnologiche, ma che interessi anche le istituzioni sociali e culturali che assicurano mobilità, comunicazione e la fornitura di altri servizi, rispondendo in tal modo sia alle logiche tecniche ed economiche, sia al carattere sociale della natura umana che dipende dall’offerta sociale e culturale e dal rapporto con i propri simili. L’architettura e l’edilizia presentano elevate potenzialità di intervento nello sviluppo sostenibile dell’ambiente, e pertanto noi tutti siamo chiamati a compiere ogni sforzo per incrementare il rendimento energetico e dei materiali sia nella costruzione degli edifici che nel loro utilizzo. L’edificio non è una entità isolata, ma è inserito in una rete di infrastrutture tecniche di ordine superiore. L’involucro di un edificio traccia la separazione tra spazi interni ed esterni, conferisce un volto all’aspetto esterno della costruzione e comunicazione con l’ambiente circostante. Con la crescente
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attenzione dedicata alla questione del consumo energetico degli edifici, la componente involucro, e in particolare la facciata, viene posta sempre di più al centro delle riflessioni di ordine tecnico e artistico-creativo, essendo un elemento in grado di influenzare fortemente il comportamento energetico dell’edificio, sia per quanto riguarda il trasporto di calore dall’interno all’esterno sia per la produzione locale di energia nell’involucro stesso. Uno dei quattro elementi dell’architettura sostenibile collegato alla riduzione dei consumi energetici è l’approccio bioclimatico, che integra al suo interno l’orientamento, il soleggiamento e l’ombreggiamento e la ventilazione naturale. In seguito all’approccio bioclimatico si collega l’argomento sulla coibentazione dell’involucro edilizio in cui si analizza la riduzione del fabbisogno energetico in modo da riscaldare o raffreddare i locali senza alcuna dispersione. Per realizzare un’architettura sostenibile, che sia edificio o singola abitazione avrà bisogno del passaggio di energia elettrica, tale energia può essere trasmessa attraverso l’uso di diverse fonti energetiche rinnovabili come il pannello fotovoltaico, la geotermia, le biomasse, tutte producono un minimo se non quasi lo 0% di impatto ambientale. Attraverso queste fonti è possibile introdurre un discorso riguardante l’efficienza degli impianti con una riduzione dei consumi a parità di prestazione. L’approccio riservato per questo genere di architettura è prettamente minimalista, infatti i progetti architettonici tendono ad avere una dimensione ridotta eliminando accessori non indispensabili, solo da quel momento è possibile ridefinire il comfort offerto. Lo scopo che si pone l’architettura sostenibile è quello di evitare la mancanza di fonti energetiche per le generazioni future. L’uso sconsiderato di alcune risorse potrebbe far si che esse scarseggino in un futuro prossimo, è quindi opportuno capire quali fonti sono classificabili come rinnovabili e non rinnovabili. Quest’ultime si suddividono in combustibili fissili, e sono riconosciute come fonti primarie per produrre energia nucleare, come l’uranio, e combustibili fossili. Le fonti non rinnovabili racchiudono elementi come il gas naturale, il petrolio, ed il carbon fossile. I primi due elementi non sono reperibili su tutto il globo terrestre ma esistono infatti zone più ricche ed altre dove scarseggia. Per quanto riguarda il carbon fossile, il vero problema è che rilascia nell’atmosfera una notevole quantità quando estratto di biossido di carbonio. L’uomo ha sempre usato e continua tutt’oggi a sfruttare le fonti rinnovabili, come le biomasse, o l’energia idraulica utilizzata per produrre energia nelle centrali idroelettriche, l’energia solare ed i pannelli fotovoltaici che aiutano a produrre energie pulita. Il più grande vantaggio delle fonti rinnovabili rispetto alle altre è quello di ridurre al minimo le emissioni di CO2 ( anidride carbonica ), le quali sono seriamente dannose per l’uomo. Negli ultimi anni l’obiettivo di molti studiosi è stato quello di riuscire a creare un sistema energetico a base di idrogeno, sfruttando le acque marine.Se si riuscisse a trovare un sistema simile si potrebbe immettere acqua pura o in forma liquida o sotto forma di vapore.
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Tecnologie, materiali, strategie La ricerca e lo sviluppo di nuovi strumenti e prodotti innovativi in un contesto di crescita economica globale hanno favorito il rapido miglioramento delle nostre condizioni di vita, soprattutto dall’inizio del processo industriale. Un processo apparentemente inarrestabile permette all’umanità di soddisfare in modo sempre più efficace i propri bisogni fondamentali, sviluppando adeguate tecnologie, reti e sinergie. Nonostante i grandi passi avanti che si sono fatti la nostra società continua purtroppo a dipendere dall’utilizzo di risorse non rinnovabili, le cui riserve sono in continua diminuzione. Lo sfruttamento delle fonti non rinnovabili è il principale responsabile dei cambiamenti climatici. Nel settore economico si sono rese necessarie misure quali un maggior utilizzo di materie prime rinnovabili o di prodotti riciclati di alta qualità, o l’utilizzo di nuove tecnologie per la produzione di energia elettrica e per lo sfruttamento delle energie rinnovabili. Anziché privilegiare l’efficacia, si tende ad adottare sempre più un comportamento all’insegna dell’efficienza. L’efficienza è innanzitutto una categoria di ordine economico, sebbene dagli esempi indicati appaia chiaramente come l’aumento dell’efficienza e la riduzione dei costi vadano di pari passo con una riduzione dell’inquinamento ambientale: privando la natura di una quantità minore di risorse, vengono prodotti meno rifiuti e meno sostanze inquinanti. In molti settori, gli obiettivi dell’economia coincidono con quelli dell’ecologia, e ciò può portare a vantaggi a livello sia individuale che collettivo i quali a loro volta portano a un mutamento nei valori e nei modelli di uno sviluppo sostenibile. La ricchezza di cui disponiamo oggi permette di investire nella ricerca di tecnologie efficienti e rispettose dell’ambiente. Ai suoi inizi l’industrializzazione fu caratterizzata da un’industria pesante con un alto inquinamento e un elevato spreco di materie prime. I Paesi sviluppati hanno raggiunto oggi un alto livello di ricchezza e di influenza riuscendo a ridurre sensibilmente l’incidenza dell’inquinamento ambientale. La progettazione nei settori dell’architettura e delle tecnologie edilizie può costituire una sorta di protezione contro sprechi e inquinamento. Il livello di conoscenze raggiunto ne campo della tecnologia permette già la costruzione di edifici in grado di sfruttare tutte le potenzialità dell’efficienza energetica, le opportunità di tenere in loco le fontidi energia rinnovabili in esaurimento sono molteplici. L’accesso a tali fonti energetiche richiede oggi maggiori investimenti, ma ciò presenta l’inevitabile vantaggio di poter disporre, in condizioni di pieno regime, di fonti di energia inesauribili a costo zero. In base al principio di efficienza è possibile ridurre l’impiego di materiali nella costruzione di un edificio. A livello sia nazionale che europeo esiste un sistema di regolamentazione
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che trova espressione nelle “strategie di sostenibilità” che prevede una serie di requisiti e la rilevazione dell’impatto ambientale dei materiali in base a principio di bilancio ecologico e di “eco-audit”. Si rendono inoltre necessari sforzi creativi per giungere a un tipo di architettura più leggera che utilizzi materie prime riutilizzabili o rinnovabili: una riduzione nell’impiego di materiali può avvenire innalzando la qualità e il valore dei materiali stessi con conseguente riduzione dei rischi connessi all’uso di materiali nocivi per l’ambiente. Esistono molti ambiti in cui poter e dover intervenire. Le argomentazioni di carattere economico vogliono dimostrare quanto stretta sia diventata l’interdipendenza tra ambiente ed economia, e come l’utilità individuale e sociale possa aumentare grazie ai vantaggi ambientali ed economici. Edifici e servizi prodotti o riqualificati in base al principio della sostenibilità sono in grado di aumentare il livello della nostra qualità di vita, del nostro comfort e della nostra sicurezza. Un involucro a risparmio energetico non offre solo protezione termica in estate e in inverno, ma aumenta il livello di comfort dell’utente. Un’appropriata dimensione e collocazione delle finestre assicura una buona illuminazione naturale e previene il surriscaldamento, contribuendo al risparmio di energia e alla riduzione dei costi. Un’accurata scelta dei materiali ecologici e non nocivi alla salute permette di evitare l’insorgere di situazioni di malessere oltre a evitare o ridurre gli alti costi di smaltimento precoce. Una sana e gradevole qualità dell’aria interna presuppone un’accorta progettazione dei sistemi di ventilazione, finalizzandola alla riduzione dei costi e all’impiego di una semplice ma efficiente tecnologia. Strutture flessibili orientate alla comunicazione e prive di barriere architettoniche garantiscono infine un’alta e duratura qualità d’uso. Alta densità e commistione di utilizzi concorrono alla creazione di edifici e di città sostenibili, facilitando nel contempo i contatti sociali e lo sviluppo dell’individualità, aspetti questi nei quali convergono criteri economici, qualità ambientale e azione sociale.
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Conclusioni Per ancorare in modo più saldo il tema della sostenibilità nella pubblica opinione e in un’edilizia comune, non è necessario ricorrere a progetti d’avanguardia ecologica con carattere di eccezionalità, di cui esistono già numerosi esempi. Sarebbe più efficace presentare esempi pratici, illustrando l’impiego di tecnologie inserite in un contesto di quotidianità e ormai consolidate e accessibili a costi contenuti. Spesso si sente parlare dei temi che sono stati affrontati, e nel corso degli anni molti falsi miti nell’ambito dell’architettura sostenibile sono stati generati per proporre una tecnologia, un materiale, una soluzione edilizia o un sistema di certificazione: cercheremo di sfatarli. È curioso osservare come attualmente, in Italia e nel mondo, vi siano pareccchie false informazioni riferibili al contesto dell’architettura sostenibile. Tale fenomeno viene definito “greenwashing”, un termine che viene così descritto nelle sue peculiarità da Wikipedia: “Greenwashing è un neologismo indicante l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste da parte di aziende, industrie, entità politiche o organizzazioni, studi professionali finalizzata alla creazione di un’immagine positiva di proprie attività (o progetti e prodotti) o di un’immagine mistificatoria per distogliere l’attenzione da proprie responsabilità nei confronti di impatti ambientali negativi. Il termine è una sincrasi delle parole inglesi green (verde, colore dell’ambientalismo) e washing (lavare) e potrebbe essere tradotto con ‘lavare col verde’ o, più ironicamente, con ‘il verde lava più bianco’ ”. In altre parole, e nella peggiore delle ipotesi, si può parlare di greenwashing quando uno studio di architettura, un ente o una società finge di occuparsi dell’ambiente compiendo azioni e strategie di immagine al fine di nascondereattività che, al contrario, sono fortemente impattanti. Si ritiene che il termine sia stato coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld, che ironicamente e criticamente osservava la pratica di molti hotel che incoraggiavano gli ospiti a riutilizzare gli asciugamani come uno sforzo per aiutare l’ambiente. Questo infatti induceva a pensare che gli alberghi perseguissero degli sforzi per essere più ecologici, quando l’obiettivo principale era attivare una strategia di risparmio economico sulle spese di lavanderia. Si cita questo facile esempio per indurre la trasposizione nel mondo dell’edilizia, sia a livello “politico” che dei progettisti, così come nel mondo dei produttori di materiali e componenti costruttivi: sebbene infatti sia incoraggiante vedere tante nuove costruzioni definite eco-consapevoli/eco-sostenibili, occorre prestare attenzione poiché ciò che appare verde sulla superficie può svelare tutta un’altra realtà quando si scava un po’ più in profondità alle comprovate caratteristiche dell’edificio. Si afferma questo perché il processo di progettazione sostenibile è impegnativo e deve essere gestito da professionisti consapevoli ed eticamente corretti.
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Anche nel campo dell’architettura è possibile confrontarsi con un crescente gruppo di professionisti che diligentemente cerca di progettare edifici sostenibili con adeguati prodotti, processi e sistemi. Tuttavia, altrettanto possibile è incontrare un folto gruppo di pseudo-professionisti, costruttori o produttori di materiali che utilizzano l’aggettivo “verde” quale stratagemma di marketing per differenziare i loro prodotti e conquistare nicchie di mercato. A fronte di questa realtà ricca di opportunità ma anche di rischi, studenti di architettura e progettisti devono stare attenti a non cadere nella trappola del “greenwashing”, impegnandosi con consapevolezza e reale conoscenza per capire come lavorare per un futuro più sostenibile. Oggi benessere e comfort vengono spesso ottenuti mediante impianti tecnologici, caratterizzati da grande utilizzo di energia. Vero, ma sono gerarchicamente un aspetto secondario all’architettura: troppo spesso gli architetti perdono l’opportunità di agire prima di tutto sul progetto e, solo dopo e se necessario, intervenire sull’aspetto impiantistico. Un buon progetto architettonico, ottenuto mediante la manipolazione e l’integrazione di forma e materiali, permette invece significativi vantaggi economici e ambientali, spesso maggiori rispetto a quelli derivanti da scelte impiantistiche. Ed ecco di seguito altri esempi di falsi miti dell’architettura sostenibile: Un edificio che risparmia energia è un edificio sostenibile. Non sempre. Spesso la sostenibilità è limitata ai soli aspetti energetici e non vi è una visione olistica di altri temi e aspetti di grande importanza: integrazione col sito, efficienza idrica, scelta di materiali, indoor comfort, luce naturale, vivibilità solo per citarne alcuni. Un edificio che ha la sola qualità di risparmiare energia non può essere definito sostenibile se gli altri parametri non sono considerati. La sostenibilità è una limitazione delle possibilità architettoniche.Falso. L’architettura deve concentrarsi sulla produzione di edifici di qualità e deve essere in grado in grado di creare emozioni, deve ispirare i propri occupanti ed essere vissuta piacevolmente, in ogni senso. In questo senso, occorre riflettere criticamente sul concetto di “forgiveness factor” (fattore di perdono) diffuso nella nostra cultura: ai nostri occhi appare più meritevole un’architettura dal forte potere evocativo ma con scarse prestazioni ambientali che non l’opposto.Una buona architettura ha entrambi i requisiti. Dal luglio 2010 La certificazione energetica è divenuta obbligatoria per ogni tipologia di edificio comprato o affittato, o su cui si interviene. Tale strumento dovrebbe essere utilizzato da una parte per censire il parco edilizio italiano e dall’altra per valorizzare correttamente edifici o unità energeticamente virtuose, nell’idea di poter quantificare economicamente il vantaggio che deriva da scelte impattanti sull’ambiente. La certificazione energetica vorrebbe, quindi, fornire indicazioni sul sistema “edificio-impianto”, che viene presentato mediante calcoli effettuati da professionisti accreditati. Il fabbisogno di energia primaria per il riscalda-
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mento o la climatizzazione invernale (EPH) è l’indicatore che determina la classe energetica cui l’edificio appartiene e che dovrebbe essere influenzato dalle caratteristiche costruttive dell’involucro e degli impianti installati. Senza entrare nel dettaglio si individuano subito i gravi limiti della certificazione energetica: trascura ciecamente i consumi estivi, fatto senza alcun senso in un paese come quello italiano ( ad esempio la normativa danese li contempla ). L’architetto quindi non è incentivato né costretto a pensare e proteggere l’edificio dal surriscaldamento estivo. E nella maggior parte delle regioni italiane il costo di raffrescamento incide quanto quello di riscaldamento. Attuata con strumenti fortemente imprecisi che, per essere chiari e semplici, risalgono a una generazione di software vecchi di 50 anni, se comparati ad altre realtà: basti pensare alla situazione, normativa e non, californiana, dove già negli anni Sessanta si svilupparono i primi software di simulazione dinamica, in grado di predire il comportamento reale di un edificio e renderlo di conseguenza più comprensibile a tutta la popolazione. È fortemente basata su un approccio impiantistico, in quanto gli strumenti di calcolo oggi a disposizione non sono in grado di premiare in modo corretto il valore di risparmio del progetto architettonico, inteso come forma dell’edificio, orientamento, scelta dei materiali e utilizzo di strategie passive. Il maggiore potere di risparmio energetico è quindi trascurato. Così come per altre realtà storicamente legate all’idea della sostenibilità e del rispetto ambientale, come il legno, anche questa tipologia di edificio, così attuale, è una forte operazione di branding e commercializzazione. Non ci addentriamo nella discussione architettonica e culturale collegata al fatto che un’architettura venga ripetuta innumerevoli volte con scarse declinazioni e contestualizzazioni. Vorremmo invece soffermarci sugli aspetti di comfort che essa considera e presuppone. Il modello Passive House impone un modo di vivere l’edificio non “libero”, così come dice il nome stesso l’utente è passivo, ovvero deve saper usare finestre, spazi e impianti secondo apposite istruzioni d’uso, spesso riducendo la propria libertà e il comfort stesso. Il concetto di sostenibilità va riferito all’intero processo di progettazione e di gestione degli edifici, e comprende una serie di questioni di carattere sociale, economico ed ecologico, un processo nel quale le generazioni attuali devono agire nella considerazione di quelle che saranno le esigenze di quelle future. La sostenibilità non si definisce unicamente sulla base delle qualità dell’oggetto edilizio, ma anche della sua posizione e del procedimento che ne vede la realizzazione. L’efficienza nell’impiego di energia e materie prime diventa una delle componenti fondamentali del giudizio qualitativo di un edificio.
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Bibliografia Libri e riferimenti bibliografici Hegger M., Zeumer M., Stark T., Fuchs M. Grande Atlante di Architettura - Atlante della Sostenibilità, Utet Scienze Tecniche, 2008 Vanin G. Corso di laurea Specialistica in Politiche dell’Unione Europea - Le politiche europee per lo Sviluppo Sostenibile e l’europeizzazione delle Regioni: il caso del Veneto, A.A. 2007-2008 Riferimenti bibliografici documenti online Fondazione Symbola - Unioncamere, GreenItaly, 2013, “Green Italy - Nutrire il futuro” http://www.cliclavoro.gov.it/Progetti/Documents/GREENITALY-2013.pdf youthxchange; “Kit didattico sul consumo responsabile. La guida.”; www.youthxchange.net Riferimenti a siti Sogesid http://www.sogesid.it/sviluppo_sostenibile.html Garbillo G. http://www.lifegate.it/ http://www.lifegate.it/it/eco/profit/impatto_zero/risparmio_energetico/cosa_vuol_dire_ consumo_sostenibile1.html “Energie rinnovabili” di Unimondo www.unimondo.org/Temi/Ambiente/Energie-rinnovabili
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2. L’esposizione fieristica
a cura di Andrea Caggia e Sara Margutta
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Indice Origine della fiera Le fiere nella storia Le nuove infrastrutture urbane I nuovi “fori” La fiera come propulsore urbano Architettura come composizione di uomini e spazi Composing man and spaces Un’architettura sensoriale Gli elementi funzionali Il layout La segnaletica Lo stand Organizzazione dello spazio Diverse tipologie Modulare preallestito e personalizzato Principi di design Spazi e funzioni Immagine, prodotto, relazione con il cliente Spazi per congressi Sale convegni temporanee Padiglioni temporanei e itineranti La tecnologia espositiva Il preallestito Una nuova tipologia espositiva La Fiera di Rimini Il luogo I progettisti I riferimenti Quantità L’impiantistica Innovare le fiere per vincere la crisi Il ruolo del sistema fieristico italiano Il sistema produttivo italiano e le fiere
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Origine della fiera Le fiere nella storia Le fiere sono convegni abituali di venditori e compratori, d’importanza maggiore dei mercati. Le fiere si può dire siano sorte con l’apparire stesso delle prime attività di scambio. Gli scambi infatti hanno sempre avuto bisogno di “appuntamenti”, ai quali potessero convenire coloro che volevano disfarsi di merci esuberanti prendendone in cambio altre di cui avevano bisogno. Successivamente il sistema economico è diventato sempre più complesso. Sono aumentati i bisogni qualitativi e quantitativi e lo sviluppo demografico ha fatto crescere il numero ed aumentare la varietà dei prodotti richiesti. Si sono specializzate le produzioni e le situazioni geografiche hanno favorito alcune lavorazioni e reso secondarie o poco competitive altre. Si è strutturata la distribuzione, per cui i commercianti, non più solo mercanti, richiedevano prodotti specifici in grandi quantitativi. La produzione è diventata definitivamente industriale cioè molto specifica e con notevoli capacità di produrre in serie. Pertanto, le grandi fiere non potevano più essere solo momento di cessione dei prodotti, ma dovevano diventare vetrina delle potenzialità produttive. Non vi erano presentati prodotti che dovessero essere immediatamente e fisicamente ceduti, ma esempi o campioni della produzione di ogni singola azienda; da questa esposizione di esemplari o campioni deriva il nome di fiera campionaria. Nascono così le Esposizioni Universali, eventi della durata compresa tra tre e sei mesi e che coinvolgono più nazioni. La prima esposizione universale fu l’Esposizione universale di Londra. Venne organizzata nel 1851 al Crystal Palace in Hyde Park ed è conosciuta anche come la Great Exhibition. Questa manifestazione divenne il riferimento per tutte le esposizioni successive, influenzando numerosi aspetti della società quali le arti, l’educazione, il commercio e le relazioni internazionali.
Pianta del Crystal Palace, Esposizione Universale di Londra
La seconda esposizione universale fu l’Esposizione universale di Parigi, che venne accolta dalla Francia come una sfida per superare il grande successo della precedente manifestazione londinese. In questa fase, storicamente collocata tra gli ultimi decenni del 1800 e i primi 60 anni del 1900, le fiere divennero momento di informazione economica. Negli ultimi anni del nostro secolo l’economia è divenuta fenomeno ancora più complesso, caratterizzato da fortissima competitività, allargamento del mercato, successiva globalizzazione e sostanziale unificazione dei bisogni nei paesi sviluppati. Le fiere sono diventate a loro volta uno strumento molto complesso, per essere idonee a rispondere ad esigenze aziendali diversificate, commerciali, informative, distributive, e promozionali. Ogni settore economico ha avuto infatti bisogno di strumenti fieristici specifici per rispondere alla specificità e alla specializzazione raggiunte dalla produzione e dalla distribuzione. Nello stesso periodo, si è sviluppato progressivamente anche il settore terziario, motivo per cui sempre più spesso nelle fiere vengono proposti non solo prodotti, ma anche servizi. Oggi, quindi, le fiere sono divenute uno degli strumenti di marketing dell’impresa. Le fiere specializzate sono una soluzione di valore per le aziende, giacché offrono una gamma di opportunità che bisogna saper cogliere e far fruttare per innescare ricadute positive sui diversi ambiti dell’azienda. Dunque un appuntamento irrinunciabile e ancora attuale, dopo una storia lunga oltre un millennio durante il quale le fiere si sono evolute e, con loro, le modalità di partecipazione e di fruizione, fino all’attuale offerta sempre più specialistica. La fiera non è solo il luogo dove domanda e offerta si incontrano, in un ben definito lasso di tempo, ma un sistema che mette le aziende espositrici e i visitatori in grado di realizzare una performance funzionale agli obiettivi che motivano la loro partecipazione. Questo significa che, qualunque sia la fiera, l’azienda deve pianificare e guidare la propria performance sia usufruendo con profitto dei servizi fieristici disponibili, sia attivando proprie iniziative per convogliare visitatori allo stand, intrattenerli, interessarli e giungere a concretizzare i risultati sottesi agli obiettivi. Esposizione Universale, Parigi
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Le nuove infrastrutture urbane I nuovi “fori” Caratteristica della città è sempre stata quella di essere un luogo di intensa vita comunitaria e di potenziamento delle relazioni interpersonali. I luoghi dedicati all’incremento e allo sviluppo della dinamica sociale all’interno della città erano i centri di culto, le piazze i portici, i luoghi di spettacolo, le terme,i fori. Ora questi luoghi sono diventati centri commerciali, le stazioni, i complessi per la cultura, l’arte e lo spettacolo. Vi è necessità di nuove infrastrutture che sappiano essere i poli di sviluppo della dimensione urbana, nuovi elementi catalizzatori dei processi di formazione della vita sociale e comunitaria. Quindi c’è la necessità di pensare a nuove strutture e forme di organizzazione della dimensione urbana e territoriale. La fiera come propulsore urbano La dimensione che più si presta a giocare questo ruolo di vivificazione della vita urbana è quella dei quartieri fieristici. Il disegno degli spazi e degli ambienti che compongono la fiera è frutto, oltre che di valutazioni economiche ed urbanistiche, anche di considerazioni socio-comportamentali, che coniugano i principali momenti dell’attività fieristica. Tra questi si possono individuare: il tempo quotidiano di relazione che la fiera deve stabilire con la vita urbana, con la quale deve articolarsi e anzi costruire un elemento di qualificazione e arricchimento; il tempo puntuale degli eventi e delle manifestazioni, dalla durata limitata, che periodicamente o eccezionalmente si svolgono in essa; il tempo continuativo che si genere nell’esperienza dei visitatori , che tornando nella fiera, da una manifestazione all’altra, hanno la necessità di ritrovarsi negli stessi ambienti con i quali hanno già familiarizzato e di cui si sono in qualche misura appropriati. Salone del Mobile, Fiera Milano, 2013
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La consapevolezza della complessità temporale degli eventi e degli effetti che si generano per gli espositori e visitatori ha prodotto forme non più legate all’idea di allestimento stabile, bensì forme flessibili in relazione alle esigenze fieristiche ed altresì urbane. Possiamo pertanto affermare che la caratteristica più significativa che meglio rappresenta la fiera è data proprio dalla sua multidimensione temporale. Tuttavia questa caratteristica non fa che rendere più complesso il processo di pianificazione e progettazione urbana, che richiede elevati livelli di integrazione con la città, quali: una parte statica ovvero un’integrazione con la vita quotidiana; una parte mutevole e rinnovabile, ovvero l’integrazione con la città che deve configurarsi ogni volta vi siano delle celebrazioni fieristiche; una parte permanente, ovvero la fiera è rappresentata da un progetto spaziale che si sviluppa nel tempo, la cui immagine deve perdurare ed essere ripresa nelle manifestazioni successive.
Studio di layout fieristico per Bit. Milano, 1992. Studio Vicenza auto, 1995.
Architettura come composizione di uomini e spazi Composing men and spaces La configurazione dei centri fieristici non può rispecchiare solo le logiche funzionali, di layout, comunicative e di espressioni simboliche, anche se tutte queste dimensioni devono essere comunque tenute presenti e progettate. Queste architetture devono essere soprattutto la composizione di uomini e spazi, che devono integrarsi in un processo capace di determinare un sistema in grado di influenzare i comportamenti delle persone. Il centro fieristico deve creare un tessuto di vita in grado di rispondere alle esigenze anche non espresse che l’uso di tali luoghi produce. Tutto il complesso deve comporre spazialmente le diverse dimensioni della vita: quotidiana, periodica, eccezionale.
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Il layout Il layout è il punto di riferimento, il principio ordinatore che si evidenzia come vera spina dorsale della manifestazione. Tramite il layout è infatti possibile comporre lo spazio, offrire una precisa impostazione progettuale, con una valutazione non solo funzionale ma anche estetica. Inoltre è elemento decisivo dell’orientamento e funziona come forma implicita di segnaletica. Infine determina anche l’immagine della manifestazione, il suo biglietto da visita. Con le stesse regole con le quali sono cresciute le nostre città, possono svilupparsi anche le fiere, che presentano, sebbene a scala diversa, tutti gli elementi dell’urbano: piazze, vie, grandi strade di comunicazione. Studio e layout per Mipel, Milano, 1999. Studio di layout per FreeWear, Milano, 2000.
Per la progettazione è perciò necessario rifarsi alle regole che sono proprie dell’ubanistica. Il riferimento principale è alle tipologie della città, dove le possibili composizioni urbanistiche sono numericamente limitate e lo sono ancor più se restringiamo il campo a superfici piane, come sono prevalentemente gli elementi che compongono una fiera. Avremo allora variazioni sulle forme geometriche primarie, dal cerchio, al quadrato, al rettangolo, con la possibilità di creare maglie monocentriche, policentriche, lineari fino ad arrivare a composizioni più libere. Nel quartiere fieristico rivestono un significativo ruolo i cosiddetti spazi di relazione, specialmente se “vuoti”, le cui funzioni mutano da evento ad evento e nel corso dell’evento medesimo. Per comprendere l’importanza di tali aree si può considerare che solo metà della superficie di una manifestazione fieristica è occupata da zone espositive; da ciò si deduce che la restante metà è impegnata da zone comuni.
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Grazie all’industrializzazione del processo allestitivo è più facile realizzare un progetto unitario dello spazio complessivo della fiera, perché maggiormente organizzabile e controllabile. È importante tenere in considerazione l’ipotesi di operare chiusure in altezza creando gallerie, porticati, corridoi, che permettone di dare forma al “vuoto”. Bisogna inoltre tenere in considerazione elementi di arredo urbano, come panchine, poltrone ed elementi funzionali quali bar, reception, punti di ristoro ecc che vengono spesso creati con materiali e altezze diverse da quelli degli stand, proprio per dare un segnale architettonico e agire all’interno della manifestazione come veri e propri punti di riferimento.
Studio di varie tipologie di layout per la Fiera di Vicenza, 1997
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Altri elementi che concorrono a creare il progetto del vuoto sono il colore e la luce, come anche la segnaletica che oltre ad essere un elemento informativo, arreda, caratterizza e definisce l’immagine della fiera. Il layout fieristico è importante poiché in grado di riabilitare ogni tipo di contenitore. Più preciso e compositivo è il suo pensiero progettuale più è possibile gestire lo spazio Gli schemi di distribuzione delle varie edizioni di Momi, testimoniano il continuo lavoro progettuale indirizzato a rispondere alle mutevoli esigenze del mondo della moda con le sue sezioni in continua traformazione ed evoluzione dinamica. MOMI, Fiera della Moda, Milano
Studio layout per MOMI, Fiera della Moda, Milano
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Un’architettura sensoriale A livello fruitivo, un ruolo fondamentale nel progetto per uno spazio espositivo è assunto dalla relazione fra aspetti oggettivi e soggetivi. Esiste, cioè, un vasto ambito di soggettivazione della lettura dell’ambiente, che oltre ai parametri “oggettivi” della configurazione geometrico-formale è veicolato da altre dimensioni sensoriali. Il vasto complesso degli aspetti tattili, matriciali, delle impressioni cromatiche, degli stimoli olfattivi, delle sensazioni di luce e delle vibrazioni acustiche sempre più spesso si propone nelle manifestazioni fieristiche, caratterizzate dall’effimera vita degli spazi costruiti o semplicemente allestiti, che stimola la ricerca e la sperimentazione a tutto campo. Salone del Mobile di Milano Fluidic Sculpture in motion, l’istallazione realizzata dalla Hyundai.
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La segnaletica In ogni manifestazione fieristica si ha la sovrapposizione di due tipi di informazione. Da una parte si ha la maglia informativa fissa, che è legata al quartiere fieristico, informazioni per raggiungere la fiera e indicazioni presenti nel quartiere fieristico stesso relative ai padiglioni e agli elementi funzionali. A questa maglia informativa fissa in ogni singola manifestazione si sovrappone una maglia temporanea di informazione legate alla specifica manifestazione. È necessario riuscire a razionalizzare i flussi o indirizzare i visitatori attraverso la segnaletica, consigliando i percorsi. Vanno studiati gli elementi per orientare al meglio il visitatore, realizzando percorsi, istituendo tappe facilmente individuabili, incroci e piazze, in modo da dare piena visibilità al contenuto della manifestazione e comunicare in modo comprensibile e immediato la totalità dell’evento.
Studio, pianificazione e restyling della segnaletica tecnica interna di ARTEFIERA, Bologna
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Gli elementi funzionali Il buon funzionamento di una manifestazione fieristica è strettamente legato all’impostazione logica, funzionale e al dimensionamento degli spazi ricettivi che svolgono una funzione strategica per l’intero evento. Gli spazi ricettivi sono gli elementi logistici tramite i quali è possibile controllare e gestire l’intera manifestazione fieristica. Spazi e strutture ben proporzionate possono contribuire notevolmente al successi della manifestazione; al contrario un’errata collocazione può creare delle “zone d’ombra”, vale a dire delle parti della manifestazione meno frequentate, che penalizzano alcuni espositori dal punto di vista del flusso dei visitatori. Così come sono stati concepiti e realizzati fino ad ora gli spazi ricettivi sono posizionati abitualmente all’ingresso della manifestazione, rappresentando il primo vero contatto tra il pubblico e l’evento fieristico, svolgendo la funzione di collegamento, di cerniera fra l’esterno e l’interno della manifestazione. Le reception oltre a soddisfare gli aspetti strettamente funzionali, assumono su di sé, anche il compito di rappresentare l’immagine stessa della manifestazione. Grazie alle tecniche computerizzate di registrazione è possibile svincolare la reception dall’usuale ubicazione in prossimità degli spazi espositivi. All’entrata dei padiglioni espositivi è possibile effettuare solo il controllo automatico delle tessere megnetiche di ingresso. Questo sistema permette di aumentare notevolmente il numero degli ingressi alle manifestazione e di suddividere i flussi di accesso senza che nessuno di questi prevalga sugli altri. Inoltre è possibile entrare e uscire più volte dalla manifestazione senza alcun impedimento. Diverse sono perciò oggi le posizioni in cui puo essere collocata la funzione di accreditamento dei visitatori. I casi più frequenti, legati con la morfologia dei vari quartieri fieristici, sono i seguenti: la reception può trovarsi in centro, in testa o in coda degli spazi espositivi; a un piano più alto rispetto alla manifestazione; può essere legata con le strutture connettive fra i padiglioni, di cui sono dotati alcuni quartieri fieristici; o un’unica reception con punti di controllo distibuiti su tutto il perimetro della fiera. Reception fiera, EXPROTUR
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Lo stand Organizzazione dello spazio L’obiettivo di una manifestazione è quello di presentare nel modo più significativo la presenza del singolo espositore e del suo prodotto. Da un punto di vista pratico, progettare uno stand fieristico significa essenzialmente immaginare e pianificare l’ organizzazione dello spazio espositivo e il suo aspetto, affinché il risultato sia una scenografia le cui caratteristiche la rendano adatta alla presentazione dei prodotti dell’ azienda che espone in fiera. Una scenografia che nell’ aspetto e nella qualità del manufatto si conformi allo stile e alle strategie generali della comunicazione che l’ azienda stessa si è precedentemente data e che dal punto di vista funzionale si offra come un valido supporto logistico a tutte le attività che dovranno svolgersi nello stand. Per un’azienda espositrice è il cuore del suo investimento, il biglietto da visita, la vetrina, la sua base operativa, è il luogo in cui incontra clienti, partner, giornalisti e persone influenti nel settore. Nel caso di manifestazioni in cui l’organizzazione fornisce, oltre alla pubblicizzazione della mostra, ai servizi generali e alla segnaletica, solo la segnalazione dei singoli stand sul pavimento, l’espositore si deve occupare della realizzazione del proprio stand. In questi casi la dimensione degli stand partono da 4 metri quadrati e possono arrivare a 3000 metri quadrati e oltre. Diverso è il caso in cui l’organizzazione, oltre agli elementi sopra citati, fornisce, tramite pareti divisorie, spazi già suddivisi, secondo le esigenze di ciascun espositore. All’espositore è lasciato il compito di realizzare liberamente lo spazio interno. Infine un ultimo caso riguarda le manifestazioni totalmente preallestite, dove l’espositore trova lo stand già realizzato dall’organizzazione, secondo le singole esigenze dei partecipanti, completo di arredi e accessori. In questo caso l’espositore deve solo distribuire il suo prodotto all’interno dello stand, eventualmente realizzando la vetrina. In questo modo il visitatore si sente più portato a entrare in uno stand, in quanto lo percepisce come spazio comune. Nello stesso tempo gli espositori vivono la fiera come un proprio spazio ed è quindi necessario creare in ogni stand un piccolo angolo privato in cui questi possano sentirsi a proprio agio. Farmatech stand, design by Studio Mediatica
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Diverse tipologie Le varie tipologie di stand fieristici sono definite in base alla tipologia dello spazio assegnato e all’accesso alle corsie. Esistono quattro tipologie base di stand.
- Stand con un lato aperto (R) Lo stand standard con un lato aperto è disposto accanto ad un’altra fila di stand o ad una parete con stand adiacenti su entrambi i lati. Solo un lato si affaccia su una corsia. In base alla dimensione del lato aperto anteriore lo stand può risultare stretto e profondo o ampio e corto. - Stand d’angolo (C) Uno stand d’angolo si trova all’estremità di una fila. E’ accessibile da due lati, dalla corsia lungo la fila e da quella perpendicolare rispetto a quest’ultima. Uno stand d’angolo dispone di un numero superiore di lati aperti al pubblico, ma ha la stessa superficie complessiva di uno stand di fila, pertanto risulta più funzionale. Grazie alla sua posizione, lo stand è visibile da più corsie, di conseguenza ci si aspetta un maggiore afflusso di visitatori. - Stand con tre lati aperti (E) Questo stand all’estremità di una fila è circondato da corsie sui tre lati. E’ qualitativamente superiore rispetto alle precedenti tipologie in quanto, se sfruttato in modo adeguato, è più rappresentativo e accattivante. - TStand isola (B) Lo stand isola è circondato da corsie lungo tutto il perimetro. Essendo accessibile da ogni lato e indipendente dagli altri stand, attira molto l’attenzione dei visitatori. Questo tipo di stand è il più costoso; richiede infatti un progetto più complesso che impone costi di montaggio e allestimento più elevati.
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Modulare preallestito e personalizzato Per decidere se scegliere uno stand modulare o personalizzato occorre valutare diversi criteri. Uno stand modulare riutilizzabile è economicamente più vantaggioso rispetto ad uno stand personalizzato; i vantaggi sostanziali di un sistema modulare sono: semplicità di trasporto e deposito; meno personale impegnato nelle operazioni di montaggio e smontaggio; maggiore economicità; componenti di montaggio prefabbricati in modo accurato; flessibilità e adattabilità, mentre lo svantaggio maggiore è la minore distinzione rispetto agli altri espositori. Bandera, Plast Milano 2012, Design by Xilos
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L’allestimento personalizzato dello stand è particolarmente interessante per le aziende che operano nell’ambito dell’edilizia o dell’arredo d’interni. Hanno infatti una profonda conoscenza dei materiali e dei metodi di costruzione e dispongono delle attrezzature di produzione necessarie e di personale qualificato. L’allestimento personalizzato consente la realizzazione di progetti altamente personalizzati, che hanno, tuttavia, costi relativamente elevati. Stand Parmalat, design by Promo Spazio
Stand ENI, design by Studio 80
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Principi di design Esistono tre metodi di allestimento di uno stand:
- Allestimento aperto: non sono presenti pannelli esterni che potrebbero ostruire la visione. Lo stand è ben visibile e tutti i prodotti sono immediatamente identificabili. Ăˆ trasparente e invitante quindi viene visitato da molte persone. Tuttavia non seleziona i visitatori. Stand CEME, design by ITALSTAND
- Allestimento parzialmente aperto: prevede la presenza di pannelli esterni per impedire ai visitatori di vedere direttamente l’interno dello stand. Stand Brasilia design by ITALSTAND
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- Allestimento chiuso: lo stand è composto da pannelli esterni (talvolta dotati di finestre), che rendono necessario l’ingresso per vedere i prodotti esposti, assistere a dimostrazioni e parlare con il personale.
Stand Harris, design by Francesco Sani
Spazi e funzioni Ogni stand è costituito da diversi spazi con diverse funzioni.
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- Spazio riservato ad indirizzare i visitatori (1) per attirare l’attenzione, in quest’area si utilizzano strumenti di forte impatto visivo; si possono utilizzare torri espositive a muro e a pavimento per identificare l’azienda, ad esempio riportandone il logo. - Spazio riservato alla presentazione (2) quest’area dovrebbe essere dedicata alla presentazione dei benefici dei prodotti; il personale dello stand illustra i vari prodotti; prima interazione tra il personale e i visitatori; i visitatori si aspettano di ricevere informazioni o campioni dei prodotti. - Spazio riservato alle riunioni (3) area dello stand tranquilla e separata dagli altri spazi, lontana dal consueto andirivieni di visitatori; si possono svolgere trattative e colloqui in tutta
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tranquillità; ideali, a questo proposito, sono le salette dotate di attrezzatura per conferenza. - Spazio riservato alla logistica (4) area non utilizzata dai visitatori, ha un design puramente funzionale; deposito, piccoli spazi con funzione di ufficio. La dimensione di quest’area dipende dalla grandezza dello stand; talvolta negli stand più piccoli, questo spazio è assente; negli stand più grandi l’area riservata alla logistica è importante; infatti queste strutture possono essere paragonate a vere e proprie sedi generali in cui si devono coordinare numerosi compiti. Immagine, prodotto, relazione con il cliente Ad una manifestazione fieristica si può decidere di avere diverse modalità di presenza: Una presenza di prodotto: con ampio spazio per i singoli prodotti, personale addetto alle dimostrazioni e alle vendite, in cui lo spazio sarà articolato per mostrare i prodotti più significativi. Una presenza d’immagine: è quella che mette in luce l’azienda, più per l’evidenza del suo marchio, che per i singoli prodotti. Prevalgono elementi grafici, messaggi e comunicazione. Lo spazio sarà occupato prevalentemente da parti dedicate a cartellonistica e display video, o video proiezioni; Una presenza relazionale: volta soprattutto a stabilire un rapporto privilegiato con i clienti, in cui verranno privilegiate le aree di ospitalità. Tramite lo stand è possibile provocare nel visitatore diversi tipi di sensazioni: - La fascinazione: tutto ciò che fa parte dell’esposizione contribuisce ad attirarre l’attenzione di chi transita davanti allo stand, nel tentativo di suscitare un interesse tale da indurre il cliente alla richiesta di ulteriori informazioni nei confronti dell’espositore. - La seduzione: lo scopo è convincere il visitatore delle buone caratteristiche dei prodotti esposti. - La conquista: è la fase conclusiva, consiste nell’acquisizione da parte del visitatore dei prodotti esposti o comunque illustrati. Tuttavia le motivazioni principali di partecipazione alla fiera non sono quelle “immediatamente” commerciali, tale fase può essere quindi rinviata a momenti successivi a quelli dell’esposizione ma da essa trae comunque origine.
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Progettare una fiera
Spazi per congressi Esistono fondamentalmente due strade per discutere il tema della realizzazione di strutture che hanno la funzione di ospitare convegni e congressi con relative modalità progettuali, entrambe corretta dal punto di vista funzionale. La prima riguarda la creazione di centri congressi permanenti ambienti appositamente ideati e realizzati per questo scopo. Sia i relatori che il pubblico, vengono portati in questi luoghi predisposti, quindi sono loro a doversi spostare. Riguardo la tipologia dei centri congressi permanenti esiste un’ampia documentazione che dimostra in maniera evidente le difficoltà insite nel dimensionamento delle sale, che sono spesso troppo ampie o troppo piccole. E a poco serve la scelta tipologica, frequentemente usata nelle strutture più moderne, di creare delle grandi sale che quando serve si possano suddividere, o al contrario, unificare sale più piccole. Questa scelta non risolve infatti molteplici aspetti, quali il posizionamento delle pedane che ospitano i relatori e il loro rapporto con la platea. La seconda strada ribalta completamente l’impostazione. Infatti non troviamo più un pubblico che deve spostarsi nel luogo dove si tiene il convegno, ma sarà quest’ultimo ad insediarsi dove si trova il pubblico. Questa tipologia ovviamente fa riferimento a convegni che si svolgono in ambito di manifestazioni fieristiche. In questo caso, disporre di un centro congressi costruito appositamente risulta superfluo, potendo con piena soddisfazione fare utilizzo di sale congressi temporanee. La principale caratteristica di questa tipologia è rappresentata dall’estrema duttilità del temporaneo, facilmente dimensionabile sulle specifiche esiA destra, Centro Congressi Verona Fiere
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genze di preciso convegno, dato che una delle più importanti variabili che non si possono determinare a priori è costituita dalle diverse dimensioni di cui necessita un convegno. Lo sviluppo delle fiere ha portato alla crescente affermazione di questa seconda strada nella realizzazione delle strutture per i convegni. Questi ultimi, infatti, sono spesso parte integrante di una manifestazione, e non una sua, quasi insignificante appendice. Al contrario, a volte ne rappresentano la vera sostanza perché è proprio nei convegni che vengono tracciate le strategie, le linee di sviluppo di quel particolare settore produttivo. Il convegno diventa allora un elemento ordinatore della manifestazione. Non essendo solo un’esposizione di prodotti, la manifestazione fieristica è l’incontro di addetti ai lavori, siano essi impegnati in campo teorico o applicativo, diventa chiaro come i convegni rappresentino il momento cruciale in cui la teoria si confronta e si innesta con il mondo della produzione e della distribuzione. Il convegno ha tutte le potenzialità e le necessità affinché venga trattato come la piazza centrale della manifestazione, il luogo dove si scambiano le idee, le informazioni, i risultati delle ricerche; uno spazio anche educativo e di apprendimento. Posizionare le sale convegno nel centro della manifestazione facilità enormemente la possibilità di parteciparvi, desta l’interesse, la curiosità, invoglia a prendervi parte. Tecnicamente sono stati superati i problemi realizzativi per quanto attiene alla costruzione di sale temporanee. L’involucro architettonico è facilmente realizzabile con i moderni sistemi di allestimento, leggeri, di facile gestione, con tempi brevi di montaggio e smontaggio. A sinistra Padiglione 12, Fiera di Milano
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Anzi la possibilità di scegliere la forma architettonica, i materiali di rivestimento e gli elementi funzionali, quali il palco, le sedute e così via, può creare una sintonia con i temi del convegno, forma dello spazio in cui si insedia e pubblico che partecipa. La stessa tecnologia di trasmissione delle traduzioni simultanee, che non comporta più la presenza di fili di collegamento, ha eliminato anche la necessità di avere impianti fissi e cablaggi localizzati nelle singole sedute. In definitiva sembra necessario togliere al convegno quell’ aura di ritualità intrisa di formalismo che ancora lo contraddistingue. Sdrammatizzarne le modalità di celebrazione per farlo diventare un momento di scambio di esperienze e pensieri molto meno formale di quanto non sia attualmente. Perché lo scopo di un convegno è trasmettere contenuti al più ampio pubblico possibile e in situazioni ambientali le più possibili congeniali ai diversi tipi di partecipanti. Una necessità diffusa nelle manifestazioni fieristiche è quella di realizzare sale per convegni strettamente connesse e legate alla manifestazione stessa. Da ciò dipendono due atteggiamenti progettuali e realizzativi. Quando è possibile usufruire di spazi all’interno dei padiglioni, questi vengono trasformati in sale convegni. Nel caso di mancanza di questa possibilità, che è molto frequente, è necessario intervenire con la progettazione di padiglioni temporanei da adibire a questa funzione. Nel primo caso, le sale congressuali allestite nei padiglioni del Lingotto di Torino, si è creato un involucro interno con pareti raddoppiate e fonoassorbenti. Le tre sale, di diverse misure, sono legate da una hall omogenea alle sale per immagine e materiali utilizzati: tela per i controsoffitti e legno per le pareti. Le sale presentano gradinate ad anfiteatro con struttura e pedane in alluminio rivestite in materiale fonoassorbente. I medesimi elementi e materiali sono stati usati per il secondo caso, costruendo però intorno ad essi un involucro realizzato con struttura tridimensionale in alluminio. Questa struttura industrializzata, di facile montaggio e smontaggi, può essere facilmente posizionata all’ interno del layout generale, diventando anche centro e punto di riferimento della manifestazione.
Sale convegni temporanee Una necessità diffusa nelle manifestazioni fieristiche è quella di realizzare sale per convegni strettamente connesse e legate alla manifestazione stessa. Da ciò dipendono due atteggiamenti progettuali e realizzativi. Quando è possibile usufruire di spazi all’interno dei padiglioni, questi vengono trasformati in sale convegni. Nel caso di mancanza di questa possibilità, che è molto frequente, è necessario intervenire con la progettazione di padiglioni temporanei da adibire a questa funzione. Nel primo caso, le sale congressuali allestite nei padiglioni del Lingotto di
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Torino, si è creato un involucro interno con pareti raddoppiate e fonoassorbenti. Le tre sale, di diverse misure, sono legate da una hall omogenea alle sale per immagine e materiali utilizzati: tela per i controsoffitti e legno per le pareti. Le sale presentano gradinate ad anfiteatro con struttura e pedane in alluminio rivestite in materiale fonoassorbente. I medesimi elementi e materiali sono stati usati per il secondo caso, costruendo però intorno ad essi un involucro realizzato con struttura tridimensionale in alluminio. Questa struttura industrializzata, di facile montaggio e smontaggi, può essere facilmente posizionata all’ interno del layout generale, diventando anche centro e punto di riferimento della manifestazione.
A sinistra, Sale congressuali, Lingotto di Torino
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I padiglioni utilizzano gli stessi elementi per la struttura esterna e interna. Strutture tridimensionali di copertura dei padiglioni
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Padiglioni temporanei e itineranti L’ allestimento di mostre è in stretto rapporto con l’ordinamento. Traduce in linguaggio fisico, spaziale, le sue ragioni, i suoi obiettivi, le sue scelte. Può farlo in modo diretto o attraverso una dialettica ordinatore / allestitore. Comunque è sempre un progetto che trova la sua verifica di validità solo nella compiuta realizzazione. Anche l’allestimento di una fiera è un progetto che “mette in scena” temi, ragioni, e scelte di un ordinamento e lo fa con il linguaggio dell’architettura dello spazio. Nonostante questo, molti eventi sono spesso costretti a “cambiare vestito”. Anche le mostre che trovano ospitalità in spazi appositamente destinati devono fare grandi sforzi di ordinamento (per layout, per creare la loro identità). Perché anche la singola manifestazione non può avere un proprio spazio progettato ad hoc insieme con l’allestimento? Una sorta di padiglione molto flessibile che permetterebbe di realizzare lo spazio fisico e l’allestimento calibrati per quel dato evento, per quella data tipologia di prodotti. Una struttura che sia di facile smontaggio e montaggio, e che riproponga in vari luoghi esattamente lo stesso ambiente, la stessa immagine, pronto ad adattarsi alle esigenze di ordinamento ed ad altri progetti allestitivi. Così è nata la necessità di A sinsitra, padiglione temporaneo: studi per la flessibilità d’uso
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realizzare forme temporanee di occupazione del suolo in relazione a mutamenti della destinazione. Questa esigenze diventa più forte quanto più gli interventi assumono il carattere di valorizzazione di uno specifico evento, come è il caso della creazione di un’area per manifestazioni fieristiche. I padiglioni temporanei, a differenza delle strutture rigide e non riconvertibili, propongono una diversa concezione d’uso del territorio, si muovono in una logica di organizzazione per nodi strategici in cui le architetture mobili hanno la possibilità di integrarsi a complessi preesistenti e diventare il fulcro dove si concentrano attività e funzioni che riqualificano le precedenti destinazioni. I padiglioni temporanei quindi, sono concepiti come un sistema semplice nei suoi elementi, ma capace di generare organismi flessibili in termini di immagine e di distribuzione degli spazi interni. Le matrici strutturali dei sistemi per i padiglioni temporanei riprendono la grande tradizione delle manifestazioni espositive – la galleria realizzata con intelaiature metalliche e diaframmi leggeri – reinterpreta però secondo le esigenze di semplicità costruttiva e linearità formale consone alla sensibilità moderna. Tale modalità di progettazione permette di creare eventi laddove già vi sia la presenza dei possibili visitatori della manifestazione. Solo le architetture temporanee, e quindi rimovibili, hanno la possibilità di essere realizzate ad esempio, nelle piazze storiche della città, o in luoghi dove non sarebbe altrimenti possibile edificare nuove costruzioni. La temporalità di queste architetture ben si accorda con temporalità dell’esigenza che determina la volontà di mettere in scena un dato evento. Una delle caratteristiche principali dei padiglioni temporanei è quella della loro possibile itineranza. Accessori per le pareti divisorie curvilinee
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La tecnologia espositiva Nella storia dello sviluppo dei progetti e allestimenti fieristici si possono inviduare tre fasi. Prima fase, quella eroica dove c’era una prevalenza nelle realizzazioni di tipo artigianale. Ogni nuova manifestazione era completamente riconcepita e riallestita, ed era il falegname l’ artefice prioritario dell’esecuzione del progetto allestitivo. C’ è poi una seconda fase, che perdura ancora oggi, in cui le tecniche di allestimenti si sono sviluppate fino alla realizzazione di sistemi modulari molto complessi e flessibili, caratterizzati da una molteplicità di componenti e in grado di fornire una pluralità di soluzioni differenziate tanto dal punto di vista funzionale che da quello della variazione dell’ immagine. Si è cioè passati al concetto di macchina espositiva, o meglio a quello di tecnologia espositiva inserita in un processo industrializzato. Tutti gli elementi, i componenti di questa “macchina”, dai pannelli di riempimento ai pannelli luminosi, dalla controsoffittatura alla segnaletica sono concepiti in modo integrato al fine di costituire un gigantesco meccano capace di risolvere tutte le esigenze espositive e del lavoro in fiera sia per l’ espositore sia per il visitatore. Oltre all’allestimento, anche il sistema di arredo si è sviluppato. Sono sistemi molto simili agli arredi degli uffici e rispettano tutte le tendenze più innovative in questo campo. Gli arredi devo poter essere immagazzinati in poco tempo, in poco spazio e risultare facile da montare. L’utilizzo di allestimenti unificati, naturalmente non si limita alla realiz-
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Studi per pareti divisorie realizzate con struttura in legno e rivestimento in tela
A sinistra, elementi per preallestito a magazzino A destra, tecnologie espositive
zazione dei singoli stand ma dà origine alla costruzione di intere manifestazioni, che possono variare dal singolo padiglione a interi quartieri fieristici. Questo ha portato alla nascita di una terza fase nell’evoluzione degli allestimenti fieristici in cui le aziende allestitrici non si limitano ad essere depositarie di una tecnologia ma sviluppando le competenze e le capacità e affinando il prodotto sulla base del know-how acquisito in fiera, lo hanno adottato anche a situazioni al di fuori di quelle fieristiche. Sta succedendo sempre più spesso che un espositore trova in una fiera un ambiente qualitativamente ed esteticamente molto più avanzato di quello del suo abituale luogo di lavoro. Per qualità dei materiali e delle rifiniture si è arrivati a un livello in cui non solo sono annullate le differenze fra allestimenti temporanei e spazi arredati per un lungo periodo, ma vi è la netta prevalenza dei primi, perché progettati e ingegnerizzati per soddisfare le più complesse esigenze derivanti dall’ utilizzo fieristico. Nell’insieme degli spazi che compongono l’organismo di una manifestazione fieristica, è al tessuto connettivo delle aree comuni e dei luoghi di circolazione che viene assegnato il ruolo di costituire la spina dorsale dell’immagine della fiera, poiché è l’insieme delle attrezzature ricettive e degli spazi comuni che deve manifestare la volontà espressiva dell’ente organizzatore, conferendo un carattere unitario alla manifestazione. Altra prestazione importante è l’integrazione funzionale, ossia la possibilità di utilizzare le strutture per tutte le dotazioni di illuminazione, comunicazione, segnaletica e altri elementi necessari per la gestione degli spazi espositivi. Tutto questo si presta a un procedimento industrializzato della realizzazione degli spazi espositivi, che consente di ridurre i tempi di approntamento e razionalizzare lo sfruttamento delle aree.
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Studi per spazi espositivi preallestiti
Il preallestito Il modo di affrontare il progetto generale della manifestazione si è evoluto insieme all’evolversi delle fiere di esposizioni campionarie in manifestazioni specializzate. Questo cambiamento ha comportato, come si è già accennato esaminando l’evoluzione e il progetto del layout, una trasformazione del progetto generale da semplice elemento di divisione tecnica degli spazi a elemento ordinatorio, logistico e compositivo della mostra nella sua interezza. Gli organizzatore delle manifestazioni hanno così iniziato a sentire la necessità di presentarle con un’immagine unitaria e coordinata. Per questo è nata l’esigenza di una più stretta collaborazione con i progettisti impegnandoli al progetto globale della manifestazione. La soluzione più efficace per dare un’immagine unitaria, dove l’allestimento del singolo stand rientri in un discorso di immagine di tutta la manifestazione, è sicuramente il preallestito. La sua flessibilità gli permette di garantire la realizzazione comunque di una unitarietà dell’immagine, che può essere calibrata per ogni singola manifestazione. Inoltre permette di allestire in tempi brevissimi (15-20.000 mq in 4-5 giorni per montare, 2-3 giorni per smontare).
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Questo è un risultato che nessuna alternativa compagine artigianale sarebbe oggi in grado di offrire. L’ingresso del preallestito nelle fiere ha svolto una funzione determinante per rivedere i layout fieristici, perché lavorando con il preallestito entra nel pensiero del progettista un concetta d’ordine che riguarda le dimensioni, le altezze, i materiali, cioè un elemento di razionalità. Il preallestito, inoltre, ha bisogno di un rigoroso progetto architettonico. La stessa funzionalità e filosofia dell’evento fieristico è notevolmente cambiata. Da “piacevole passeggiata”, tipica della fiera campionaria, le odierne fiere specializzate sono un intenso luogo di lavoro non solo per gli espositore ma anche per gli stessi visitatori che costituiscono ormai un pubblico di operatori specializzati.
I Mercati Traianei, Roma Arles, l’ anfiteatro ancora occupato dalle case.
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Una nuova tipologia espositiva Il progetto del complesso urbano della fiera, sia per come si presenta al suo esterno, sia per il tipo di sembianza che deve avere il paesaggio interno, deve rispondere a una moteplicità di istanze diverse. Ecco le caratteristiche più rilevanti che deve avere.
- L’ immagine esterna La grande scala dimensionale dei complessi fieristici, incide con forza sulla città, questo ci impedisce di far affidamento a soluzioni espressive puramente architettoniche, al contrario va privilegiata la creazione di un tessuto urbano. Va quindi perseguita una cultura tessile, (piuttosto che compositiva – architettonica), nella quale si traccia un ordito sul quale più operatori possono inserire la trama delle proprie poetiche estetiche e funzionali. I prospetti
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esterni potrebbero essere “polifonie” a più voci, e potrebbero essere suddivisi in partizioni funzionali che sarebbero trattate da una molteplicità di progettisti diversi. Questo renderebbe possibile effettuare una realizzazione che esprime atteggiamenti architettonici, stili progettuali, ricerche stilistiche le più variate possibili. In tal modo l’intero complesso architettonico assumerebbe un carattere di una struttura variegata, che infiltrerebbe nel territorio circostante, articolandosi e costituendo un tessuto ad esso fortemente connesso, che si genera attraverso un coinvolgimento di tutte le risorse culturali, economiche e sociali in essa presenti, piuttosto che porsi come un complesso monumentale che ha occupato una parte della città.
- L’ immagine interna Lo spazio dei complessi fieristici non è più riducibile al semplice ruolo di contenitore, ma deve veicolare un’immagine autonoma e unitaria delle singole manifestazioni, in grado di integrare e dialogare con i singoli fatti espositivi. Possiamo così individuare due logiche comunicative per quanto riguarda il vasto universo dei segni e delle configurazioni che producono la scena dell’allestimento: il sistema degli stand, in cui si esprimono le realtà dei differenti espositori,
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cosicché da ottenere la massima differenziazione, creando un tessuto percettivo fortemente disgregato e frammentato; L’insieme delle attrezzature ricettive e degli spazi comuni in cui si manifesta la volontà espressiva dell’ente organizzatore della fiera, il quale deve conferire un carattere unitario alla manifestazione e farle assumere una precisa identità. È per questo che viene assegnato al tessuto connettivo delle aree comuni e dei luoghi di circolazione, il ruolo di costituire la spina dorsale dell’immagine della fiera. La conformazione della fiera ripropone quindi il rapporto fra immagini pubbliche e contrassegni individuali che caratterizza la relazione fra la via e l’immagine delle costruzioni private nelle città. Un problema che ci si trova ad affrontare poi, è la specificità della fiera che non solo riproduce in miniatura il territorio della città, dovendo garantire tutti i servizi in essa normalmente presenti e risolvere i problemi di traffico, o meglio di flusso, conseguenti, ma trattandosi di una sorta di megalopoli specializzata, nella quale sono presenti solo attività e prodotti appartenenti allo stesso settore, deve affrontare problemi solitamente assenti in una città reale. Si può così dire che le grandi manifestazioni espositive rappresentano delle monografie urbane, strane forme di città in cui le strade sono costituite tutte da negozi dello stesso tipo. - L’ immagine permanente In ultimo abbiamo la necessità di coniugare nel tempo l’esperienza di una realtà che si sviluppa per cicli ed eventi periodici richiede la capacità di mantenere una certa continuità espressiva. Mettere in atto un’esposizione è dunque la realizzazione di un discorso spaziale che si sviluppa nel tempo, in cui devono essere attentamente calibrati gli elementi di continuità e innovazione. Questa tipologia di progetto permanente di eventi provvisori, presenta maggiori difficoltà rispetto al progetto di un’opera che dura nel tempo. La realtà fisica della fiera deve contemplare due elementi principali: i corpi che contengono i servizi per la fiera e per la città che perimetrano, senza recintare; il centro espositivo con i padiglioni fieristici polifunzionali. Il primo elemento è quello che corrisponde alla parte statica della fiera. È un elemento strategico perché è attraverso di esso che si può abbinare la funzionalità delle strutture espositive con una reale integrazione con il tessuto e la vita cittadina. Un centro fieristico si pone come elemento pulsante dell’attività economica e sociale della città, uno dei suoi cuori. Il progressivo addensamento di funzioni, ruoli e attività che investe la realtà delle fiere porta a una sempre maggiore integrazione dell’originaria funzione di strutture per l’esposizione con quella di speciale infrastruttura urbana, che rappresenta uno dei nuovi cuori dello sviluppo della vita della città, fortemente integrato al suo tessuto, in un reale coinvolgimento di
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interessi e attività. L’idea che sta alla base del progetto dell’elemento statico della fiera è quella di concepire una cintura di servizi in sostituzione del tradizionale recinto fieristico. Questa cintura, la quale si snoda per tutto il perimetro della fiera contiene tutti i servizi pubblici e privati usufruibili dai cittadini, dagli operatori e dai visitatori delle manifestazioni fieristiche.
I volumi che compongono questa cintura devono costituire l’anello di congiunzione fra le strutture espositive e il tessuto urbano e vanno previsti per contenere tutti i servizi, dai negozi ai ristoranti e ai bar, dalle banche agli uffici, dagli alberghi ai teatri, alle gallerie d’arte fino ai luoghi di culto. In questo modo viene stimolato un nuovo rapporto fra gli operatori fieristici e la città, dando una risposta al sentimento di estraneità e di smarrimento che potrebbe cogliere gli espositori che vengono da paesi o culture lontane.
A destra, disegni tecnici (viste in pianta e sezione della fiera)
Questo permetterebbe di offrire a queste persone, che per cinque o sette giorni vivono e lavorano, in una città che non è la loro, non un quartiere separato ma una parte viva della realtà in cui sono ospiti, così da renderli reali cittadini, sebbene per un periodo di tempo limitato. Il secondo elemento è quello che corrisponde alla parte mutevole e dinamica. Esso deve risolvere la necessità di un continuo adeguamento della fiera a esigenze espositive continuamente variabili e con una vita brevissima, spesso della durata di qualche giorno. L’ambiente deve quindi essere in grado di cambiare e rinnovarsi, mutando a cicli brevissimi. La soluzione al problema è data dal progetto di padiglioni che si configurano come volumi completamenti liberi, non interrotti da alcun volume tecnico o da ostacoli fisici interni. La dimensione dello spazio di un padiglione tipo è costruita su un modulo di 4x4 metri con una larghezza di 60 metri, misura ideale per poter avere efficienti uscite di sicurezza verso l’esterno su entrambi i lati, con una lunghezza che può variare a seconda della necessità di ogni singolo ente fieristico. L’ altezza del padiglione è variabile fra 6 e 12 metri e il sostegno della copertura avviene senza colonne o elementi portanti all’interno. Se necessario è possibile inserire interpiani variabili, appoggiati su colonne anch’esse rimovibili, all’interno delle quali sono canalizzati tutti gli allacciamenti indispensabili per gli stand. Le coperture poggiano direttamente sulla struttura perimetrale o sono appese a pilastri esterni e possono essere fisse o rimovibili. Questo modulo base può essere ripetuto infinite volte, lasciando fra due padiglioni uno spazio di 36 metri di larghezza e lungo quanto il padiglione, necessario per il carico e lo scarico delle merci e su cui si affacciano anche le uscite di sicurezza. È un volume aperto verso l’alto, nascosto agli occhi della città dalla cintura dei servizi, in cui sono ospitati tutti gli elementi tecnici e impiantistici ne-
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cessari al funzionamento dei padiglioni, oltre che alle prese d’aria e di luce per i volumi sotterranei. I vari flussi all’interno del centro fieristico seguono percorsi separati. Mentre il passaggio delle merci avviene direttamente negli spazi fra i padiglioni a livello della strada, i percorsi pedonali corrono al di sopra e al di sotto di tale quota, senza intersecare la circolazione automobilistica.
La Fiera di Rimini Il luogo Il nuovo quartiere fieristico di Rimini sorge a nord della città, su un’ area prevista dal piano regolatore redatto nel 1996 da Leonardo Benevolo. Lo spazio si è rivelato subito molto adatto a ospitare la fiera, e non solo per la vicinanza al centro di Rimini e alla zona degli alberghi, ma anche per la vicinanza della linea ferroviaria Milano-Bari - tanto che è stata addirittura creata un’apposita stazione per servire la fiera. I progettisti Il progetto è stato affidato allo Studio di architettura tedesco GMP (von Gerkan, Marg e Partners), che, nel 1996, aveva vinto la gara indetta dall’Ente Fiera. Lo studio, la cui sede principale è ad Amburgo, si è conquistato notorietà internazionale attraverso la realizzazione di grandi opere in ogni parte del mondo: i progetti firmati GMP, infatti, spaziano dalla scala urbanistica delle città di fondazione, come Luchao (nei pressi di Shanghai) a progetti di grandi infrastrutture, come gli aeroporti di Berlino, Stoccarda e Amburgo,sino ai grandi complessi della Fiere di Lipsia Hannover e Düsseldorf. La fiera di Rimini è stata la prima opera importante realizzata dallo studio dei progettisti tedeschi in Italia; in seguito, si sono aggiunte altre commesse, sempre nel nostro Paese: l’aeroporto di Ancona, l’ospedale di Verona, gli ampliamenti dei quartieri fieristici di Verona e Arezzo e, di recente, il nuovo Palacongressi di Rimini. Il progetto Il progetto della Fiera si distingue in primo luogo per la chiarezza e la semplicità dell’impianto: dodici padiglioni identici si attestano su una spina centrale, con una disposizione a doppio pettine, interrotti al centro dal padiglione d’ingresso: un ampio spazio colonnato d’ispirazione classica. Il percorso pedonale si concentra lungo l’asse interno, mentre i mezzi di servizio possono raggiungere i singoli edifici grazie a una viabilità esterna, strutturata ad anello, che permette lo svolgimento contemporaneo di
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diversi eventi fieristici, facilitando l’allestimento e lo smontaggio delle manifestazioni. I riferimenti Il riferimento tipologico e distributivo è rappresentato dai complessi fieristici già realizzati in Germania dallo studio GMP. Ma se il riferimento funzionale proviene dall’Europa del nord, nel progetto non manca, tuttavia, un forte richiamo all’architettura della tradizione italiana, se non latina, a Rimini ben visibile nel Tempio Malatestiano, l’Arco d’Augusto e l’antichissimo ponte di Tiberio (I sec. d.C.). Il richiamo ai principi formali all’architettura del passato, al genius loci, si ritrova in continuazione ma in particolare è evidente nella tipologia degli spazi, nella scelta degli elementi architettonici e compositivi, e nella scelta
A destra, Fiera di Rimini
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delle tecniche costruttive. Attraversare la fiera significa, quindi, rivivere in chiave moderna gli spazi della tradizione classica: passare tra le grandi corti colonnate - con quella centrale arricchita dalla presenza di uno specchio d’acqua con fontane; ammirare la rotonda della sala d’ingresso con la sua copertura a cupola costruita tutta in legno a vista, e illuminata zenitalmente da una luce naturale grazie a un lucernario circolare; passare attraverso lo spazio degli ampi padiglioni espositivi, con le coperture a volta in legno lamellare che forma una maglia a rombi, di dimensioni regolari, dove non manca mai la luce naturale. Ed è proprio grazie a questi accorgimenti, ispirati alla tradizione italiana, che dalla percezione degli spazi si passa all’individuazione degli elementi compositivi classici: stilobate, pilastri, colonne con capitelli e travatura, soffitti in legno. Quantità La macchina espositiva si descrive anche attraverso quantità e prestazioni funzionali. Il Quartiere Fieristico, organizzato su un unico livello, si distribuisce su una superficie totale di 460 mila metri quadri di cui 160 mila progettate ad aree verdi. Gli spazi espositivi si articolano in 16 padiglioni e l’intera area è accessibile da tre diversi ingressi collegati da mezzi navetta. I padiglioni sono interamente cablati, condizionati e oscurabili; contengono aree di accoglienza, zone tecniche e adibite a servizi - tra cui sale convegni modulabili fino a 730 posti, un funzionale e tecnologico centro operatori, una sala stampa con centro riversamento radiotelevisivo nazionale, ristoranti, free flow, punti ristorazione, 10.600 posti auto attrezzati a camper e infine un’elisuperficie con servizio di elitaxi su prenotazione. L’ impiantistica Degno di nota, infine, è il progetto degli impianti totalmente integrato alla struttura dell’edificio. Si tratta di una pianificazione più che mai necessaria se si vuole liberare i soffitti dalle tipiche condotte a vista dell’aria condizionata tanto comuni nei padiglioni fieristici degli anni settanta-ottanta. A tale scopo sono stati utilizzati ugelli motorizzati a lunga gittata, e ad alta induzione, che, nonostante le dimensioni dei padiglioni, riescono a garantire un microclima ideale sia d’inverno sia d’estate.
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A destra, ingresso della Fiera
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A sinistra, specchio d’ acqua interno
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Innovare le fiere per vincere la crisi Il ruolo del sistema fieristico italiano Il sistema fieristico italiano ha un ruolo, nell’economia del Paese, spesso sottovalutato. Il sistema fieristico rappresenta, per una realtà come quella italiana, sia un fattore essenziale di immagine, sia un formidabile volano per valorizzare le specificità produttive nazionali: made in Italy, eno-gastronomia, turismo, nautica, meccanica per citarne alcune. E’ evidente, pertanto, che i danni che la crisi economica potrebbe arrecare a tale settore vanno attentamente valutati, e le modalità per uscire rafforzati dall’attuale momento attentamente pianificate. In tale prospettiva Aefi ha promosso una ricerca, volta sia ad evidenziare la portata dell’impatto che la crisi sta avendo e continuerà ad avere nei prossimi mesi sull’attività delle fiere, sia ad indicare alcune strade, che già molti quartieri hanno intrapreso, per adeguare le proprie strategie ai cambiamenti strutturali in atto. La ricerca, inoltre, ha individuato gli interventi che le istituzioni centrali e locali dovrebbero porre in essere per rimuovere le principali criticità del sistema fieristico nazionale, e per evitare che la crisi possa portare ad un indebolimento del settore, che ad oggi è ancora uno dei più forti a livello mondiale. Nello specifico la ricerca ha mostrato che: la crisi sta producendo effetti negativi che si protrarranno per più di un anno; tutte le tipologie di eventi fieristici, anche se con diversa intensità, sono investiti dalla crisi economico-finanziaria; la crisi potrebbe avere come conseguenza, nei casi più gravi, persino la cancellazione di alcune manifestazioni; la trasformazione in atto nel settore, che vede un ripensamento tanto delle funzioni svolte dai quartieri fieristici tanto di quelle svolte dagli eventi fieristici, è accelerata dall’attuale scenario; i quartieri fieristici prevedono una molteplicità di risposte strategiche alla crisi incentrate prevalentemente sul rafforzamento delle partnership tra fiere ed organizzatori, sulla razionalizzazione del business fieristico e sull’innovazione delle attività; la predisposizione di risposte adeguate a fronteggiare la crisi in atto richiede che al settore fieristico sia riconosciuto pienamente il ruolo di motore dello sviluppo economico del Paese.
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Il sistema produttivo italiano e le fiere La storia del sistema produttivo italiano mette in luce un rapporto sempre più stretto e collaborativo tra i distretti industriali ed il sistema fieristico. Questa situazione si manifesta poiché i distretti hanno costantemente bisogno di una valida vetrina per vendere i loro prodotti mettendo in campo un’azione volta al rafforzamento delle proprie risorse e competenze distintive, finalizzata a stimolare la diffusione di beni e servizi tra i vari sistemi di riferimento, per ricercare interlocutori altrimenti difficilmente rintracciabili. Le fiere sono una vetrina attraverso cui le realtà produttive di un Paese mettono in mostra i propri prodotti e servizi, ottenendo una visibilità elevata che va ben oltre l’ambito territoriale di appartenenza; L’attività fieristica dovrà quindi esser volta alla definizione di nuovi modelli coerenti con una società in continuo movimento, sempre più flessibile, sempre meno standardizzata, dalla cui efficienza ovvero dalla capacità di recepire i processi di modernizzazione dipende la possibilità di vincere o meno le sfide imposte dalla competizione. Si può a ben ragione analizzare il settore fieristico come “motore” di sviluppo economico ovvero come primo “test match” con un proprio specifico valore aggiunto per analizzare il mercato. Proprio in questo senso, in virtù delle sue iniziative monosettoriali e plurisettoriali, dei suoi canali conoscitivi e delle sue capacità mirate a creare eventi, il settore fieristico italiano è ormai diventato un attore che recita un ruolo di primo piano nel mondo del business nazionale ed internazionale, agendo da strumento che favorisce maggior visibilità al tessuto industriale italiano. È indubbio che in un’economia sempre più globalizzata il settore fieristico dovrà integrare le metodologie di marketing con nuove forme di comunicazione; dalla pubblicità al direct marketing, dall’apertura di show-room ovvero di spazi espositivi alternativi ai padiglioni fieristici a forme di comunicazione cosiddetta below the line, assolvendo ruoli di catalizzatore di interesse, di sostegno alla definizione dell’immagine urbana, di supporto allo sviluppo delle iniziative territoriali. L’effetto della globalizzazione dei mercati ha accentuato la caratteristica di flessibilità del settore fieristico. La necessità di una crescente richiesta di eventi sempre più specializzati sia in termini di pubblico che di contenuti ha comportato una riorganizzazione del settore favorendo la nascita di strutture altamente qualificate in grado di veicolare universi al tempo stesso complessi ed omogenei verso una forte concorrenzialità di sistema. Aumenta il volume dei quartieri fieristici, le strutture divengono sempre più moderne e funzionali. Si decentrano le competenze relative agli eventi fieristici, si studiano nuove modalità di gestione della fiera, si propongono attività multisettoriali, si cerca di stringere alleanze nazionali ed internazionali. Dalla semplice vendita di spazi espositivi ci si proietta verso una vasta scelta di servizi collaterali ad alto valore aggiunto: logistica integrata, specializzazione degli eventi, sistemi informativi di marketing, servizi on-line, servizi finanziari, legali, amministrativi di supporto all’attività espositiva e commerciale, forme
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di intrattenimento in sito ed extra sito per i visitatori, materiale statistico e ricerche sul mercato e sui dati macroeconomici congiunturali di settore. L’organizzazione di congressi, workshop, conferenze, convegni ha assunto un ruolo sempre più importante all’interno delle manifestazioni fieristiche. L’utilizzo da parte delle imprese del cosiddetto “marketing esperienziale” come strumento innovativo di differenziazione per raccogliere e diffondere le loro offerte è un approccio che fa leva sui bisogni dei consumatori, i quali sempre più spesso aspirano a realizzare esperienze di rafforzamento dell’identità puntando al soddisfacimento di esigenze che non riguardano più il prodotto in sé ma evolvono verso bisogni di tipo culturale, affettivo e di inserimento nel sociale. La componente esperienziale diventa un must sempre più forte nell’offerta che le manifestazioni fieristiche propongono. Oggi più che in passato, infatti, la pianificazione strategica relativa all’offerta di prodotti/servizi deve considerare un nuovo stadio della valorizzazione dell’attività che è stato definito con l’espressione “economia delle esperienze”. Il prodotto non è che la forma materiale di un messaggio culturale: è il tipo di cultura di riferimento a costituire il “target” verso cui si vuole indirizzare l’offerta. L’impresa non offre più soltanto beni e servizi, ma l’esperienza che ne deriva, ricca di sensazioni, creata nel cliente. In un ambiente competitivo in cui si assiste ad una crescente “commodizzazione” degli spazi, le fiere si propongono come vere e proprie “business and communication platform”, come uno strumento che favorisce l’elaborazione di progettualità, che testano la validità del brand, un luogo dove viene valutata la disponibilità del mercato alle innovazioni proposte. Settori di consulenza che offrono, al di là del classico momento espositivo, un’opportunità volta all’attivazione di relazioni ovvero allo scambio di informazioni e know-how che genera valore per l’impresa. Come sarà quindi la fiera di domani? Secondo Jochen Witt, futuro è fatto di fiere in cui lo spazio espositivo sarà meno amplificato, a fronte di manifestazioni più intense e ricche di servizi ed in cui le nuove forme di comunicazione e l’utilizzo del web saranno elementi che si integreranno tra loro a fronte di una maggiore frequenza e vicinanza dei mercati che attireranno nuove fiere e nuovi protagonisti. Il settore fieristico è pertanto contraddistinto dall’esigenza di un aggiornamento forte e continuo; l’entrata di nuovi competitor, la riduzione del ciclo di vita delle manifestazioni, lo sviluppo di strumenti alternativi alla fiera (internet, show room di produttori e rappresentanti, centri commerciali all’ingrosso, ecc.) rendono quanto mai necessaria una ridefinizione delle manifestazioni fieristiche italiane in termini di specializzazione e arricchimento di servizi informativi e formativi. Espositori e visitatori guardano ad essa attendendosi soluzioni nuove che accelerino il ritmo della diffusione dell’innovazione tecnologica e che contemporaneamente testino la disponibilità del mercato alle innovazioni proposte.
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“La fiera è il mercato, la vetrina; per l’imprenditore esporre ad una grande fiera vuol dire davvero: mi metto in mostra. La fiera è il perenne atto di coraggio delle imprese, la loro continua sete di successo, la sfida che tutti gli imprenditori avvertono. È in fiera che, come al casinò, continuamente si scommette, qui le imprese fanno mercato. La fiera è l’arena dove la piccola azienda scende realmente in competizione, una grande palestra per l’imprenditore”.
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Bibliografia - Marek N. Piotrowski, 2002, Progettare in fiera, Progettare la fiera; - Fiera di Milano, Accademia di Management fieristico, Manuale come in fiera; - The Global Association of the exhibition industry, Online course, Il ruolo delle fiere nel marketing mix; Lucio Altarelli, 2006, Light city: cittĂ in allestimento.
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3. I maestri dell’allestimento
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I maestri dell’allestimento index Gio Ponti Achille Castiglioni Costantino Dardi Michele De Lucchi Luciano Baldessarri Gae Aulenti Ettore Sottsass Aldo Cibic Archigram Cedric Price
Jacopo Tortora Giulia de Lena Andrea Finelli Francesca Maiorano Giulia Caleca Claudia Ciccone Sara Margutta Giulia Facioni Mario Pizzonia Luigi Perrone
p.95 p.105 p.127 p.139 p.161 p.169 p.177 p.203 p.213 p.219
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Gio Ponti
a cura di Jacopo Tortora
La vita
1891 Giovanni Ponti, detto Gio, nasce a Milano il 18 novembre 1891 da Enrico Ponti e Giovanna Rigone. 1913 Dopo il liceo classico, nel 1913, si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, ma potrà laurearsi solo alla fine della prima guerra mondiale cui partecipa, nonostante la salute inizialmente cagionevole, in prima linea, riportandone alcune decorazioni sul campo e numerosi ritratti ad acquerello dei compagni d'armi. Durante la guerra visita le architetture di Palladio. Rientrato a Milano, si avvicinerà al gruppo dei "neoclassici milanesi". 1921 Si laurea al Politecnico di Milano e sposa Giulia Vimercati. Avranno quattro figli: Lisa, Giovanna, Giulio e Letizia, e poi otto nipoti. 1923 Collabora con la manifattura ceramica Richard-Ginori (fino al 1938) dando il via a un rinnovamento della produzione. Porcellane e maioliche, d'ispirazione classica, verranno presentate alla Prima Mostra Internazionale di Arti Decorative di Monza, nel 1923. Lì Ponti incontra il critico Ugo Ojetti, figura di riferimento per la sua formazione. 1925 La palazzina di via Randaccio a Milano, la prima casa progettata da Ponti, e da lui anche abitata. 1927 Apre il suo primo studio a Milano con l'architetto Emilio Lancia (19271933). La "conformazione classica", come egli stesso diceva, la passione per la pittura (avrebbe voluto essere pittore) e per le arti decorative costituiscono la matrice da cui si sviluppa il primo linguaggio pontiano. Centrale è un inedito approccio al tema dell'abitazione. Di questi anni la villa Bouilhet a Garches presso Parigi, in cui architettura, interni e decorazione si fondono. 1928 Fonda, con Gianni Mazzocchi, la rivista "Domus'', che rappresenterà il suo strumento di elaborazione e diffusione delle nuove idee progettuali, in architettura, nel disegno di arredo e nelle arti decorative. - Il concetto di italianità, unito a un avvicinamento alle teorie razionaliste, lo condurrà a concepire le prime ''Case tipiche" emblematicamente denominate"Domus''. - Gio Ponti ammira il critico Edoardo Persico. 100
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1930 Prende avvio il suo coinvolgimento nelle Triennali di Milano (1930, 1933 -la "sua" Triennale -, 1936, 1940, 1951) 1931 Inizia la collaborazione con la "Luigi Fontana" (dall'anno successivo "Fontana Arte" di cui assumerà la direzione artistica). 1933 Termina, con la casa-torre Rasini in corso Venezia a Milano l'associazione professionale con Emilio Lancia. -fiorisce l'amicizia con il pittore Massimo Campigli. - si associa con Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini (1933-1945). Da questo sodalizio nasceranno importanti progetti e realizzazioni: edifici scolastici (Scuola di Matematica alla Città Universitaria di Roma, Facoltà di Lettere e Rettorato dell'Università di Padova), edifici per uffici (Palazzo Montecatini) ed edifici residenziali (Casa Marmont in via Gustavo Modena a Milano, Casa Laporte in via Brin a Milano e Villa Donegani a Bordighera). Alle grandi opere si affianca una vasta e proficua produzione nel campo dell'arredo, in cui si fondono funzionalità ed eleganza formale. 1936 Diviene docente del corso di interni, arredamento e decorazione presso il Politecnico di Milano (dal 1936 al 1961) 1938 Ponti conosce Bernard Rudofsky. Prende avvio una nuova fase progettuale, caratterizzata dal riferimento a un'ideale architettura mediterranea. 1941 Ponti, abbandonata temporaneamente la direzione di "Domus”, crea per l'editore Garzanti la rivista "Stile", che dirigerà fino al 1947, portando avanti il suo programma di diffusione della cultura artistica e architettonica, per la formazione di un'inedita "cultura dell'abitare". In questi anni si verifica un progressivo allontanamento di Ponti dalla committenza pubblica ufficiale e un rinnovato interesse per le arti decorative (collaborazioni con Venini e De Poli), per la pittura e per la scenografia teatrale. Nell'immediato dopoguerra assistiamo da un lato a un forte coinvolgimento, teorico e pratico, sul tema della ricostruzione, dall'altro a un netto rinnovamento formale: il volume lascia il posto alla superficie, alla ricerca di luminosità e fluidità spaziale. 1952 Nasce lo Studio Ponti, Fornaroli, Rosselli. 1954 Ponti inventa il premio Compasso d'Oro e, nello stesso anno, è partecipe della nascita, per conto di Alberto Rosselli, socio e genero, della rivista "Stile Industria". La teoria della ''forma finita", punto cardine dell'opera di Ponti, coinvolge tutti i livelli della progettazione: dagli oggetti più minuti alle grandi architetture. La forma "a diamante" ne è il codice. Nel campo dell'arredo l'ideazione tocca un vertice con le "pareti organizzate": mobile autoilluminante,
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pannello-cruscotto, finestra arredata. Queste invenzioni troveranno una esemplare applicazione nelle ville dei primi anni Cinquanta: a Caracas, Villa Planchart e Villa Arreaza; a Teheran, Villa Nemazee. 1956 Il capolavoro da tutti riconosciuto: il Grattacielo Pirelli a Milano. 1957 Ponti pubblica "Amate l'Architettura". Progetta la casa di Via Dezza, adiacente allo studio, dove abiterà da allora in poi, in un appartamento espressione della sua “cultura dell'abitare”, delle sue passioni e dei suoi temi. 1964 Gli edifici religiosi a Milano (la chiesa di San Francesco, 1964, e la chiesa di San Carlo Borromeo, 1966) rappresentano un'evidente tendenza alla smaterializzazione, anticipando alcune delle opere del decennio successivo. - Negli anni Sessanta i viaggi di Ponti si spostano dall'America Latina all'Oriente: realizzerà gli edifici ministeriali di lslamabad in Pakistan, una villa per Daniel Koo a Hong Kong e alcune importanti facciate per grandi magazzini (a Singapore, a Hong Kong, a Eindhoven. 1970 Ad ottant'anni Gio Ponti realizza ancora opere memorabili quali la Concattedrale di Taranto (1970) ed il Denver Art Museum . L'architettura è ormai un foglio traforato. Dipinge su perspex, piega con l'argentiere Sabattini sottili lastre metalliche, pensa tessuti, pavimenti, facciate. Il colore predomina. 1979 Muore a Milano, nella casa di via Dezza, il 16 settembre.
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Il personaggio
Gio Ponti si inserisce con difficoltà nella storia dell’architettura moderna italiana: è una figura centrale, se consideriamo, in particolare a partire dalla metà degli anni Trenta, la profusione e l’entità degli incarichi professionali. I critici contemporanei, tuttavia, illustrano per lo più le opere schierate con il modernismo, queli la Facoltà di Matematica e il palazzo di Montecatini, mentre la storiografia degli anni Cinquanta e Sessanta si limita a brevi accenni. Tra le cause di questo silenzio vi è la difficoltà di collocare l’opera di Ponti entro schieramenti prestabiliti o categorie di comodo. Il suo costante riferimento al classicismo fa si che Ponti non possa essere considerato un moderno, ma neppure essere stimato un tradizionalista.
Lo studio dei progetti si è concretato, in primo luogo, nell’analisi di tutti i materiali, dai disegni alle fotografie, procedendo alla loro organizzazione in successione cronologica, per poter, infine, ricostruire l’iter progettuale, con particolare attenzione allo studio delle versioni iniziali e delle varianti e quindi mettendo l’accento sulla processualità della ricerca, sul percorso piuttosto che soltanto sull’opera finita. L’analisi dei disegni, attuata senza operare distinzioni gerarchiche tra schizzi ed esecutivi, non è svolta esclusivamente in funzione del progetto realizzato, ma è tesa a ricostruire le culture del disegno ed i modelli di riferimento.
Le culture del disegno: Il problema delle “scritture” e della loro storia è stato affrontato considerando con attenzione il tipo di grafica prescelto da Ponti, individuando variazioni nel corso del periodo esaminato, ma anche in progetti coevi. L’esame delle “scritture” si è dimostrato particolarmente importante per comprendere il complesso sistema di rapporti fra il progettista e la cultura del suo tempo. Nell’analisi storico-artistica dei progetti, infatti, sono state attentamente considerate le caratteristiche materiali dei supporti, la tecnica esecutiva e le caratteristiche stilistiche, che variano nel tempo secondo le esperienze del progettista.
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Particolare attenzione è stata riservata anche all’organizzazione del lavoro: le metodologie, il rapporto con l’esecuzione, con le imprese, con le ditte e gli artigiani. In seguito all’analisi della corrispondenza intercorsa tra il progettista ed i committenti, tra il progettista ed i fornitori, nonché dall’analisi comparata fra il materiale documentato ( appunti, capitolati d’appalto, verbali di consegna, relazioni di progetto ) e quello progettuale, si è potuto precisare il ruolo giocato negli studi professionali dove ha lavorato. Con l’architetto Lancia dal 1927 al 1933 appartengono una quindicina di progetti, alcuni dei quali sono stati ideati dal solo Ponti, come si è verificato per la Cappella Borletti al Cimitero Monumentale di Milano realizzata nel 1929/30, o come le case tipiche di via De Togni. I progetti concernenti il periodo dal 1933 in avanti, e quindi l’attività dello studio Ponti-Fornaroli-Soncini, permettono di documentare una più complessa organizzazione del lavoro da parte di Ponti nella fase progettuale ed una progressiva diminuzione del suo intervento nella stesura materiale dei disegni esecutivi. I primi interventi si inseriscono nel dibattito che accompagna le cronache delle prime Esposizioni Biennali di Monza e possono essere ricondotti alle diverse posizioni ideologiche assunte dai critici in risposta alle questioni dibattute: il problema, economico ed artistico, della ripresa, dopo la pausa bellica, e del rinnovamento delle arti decorative interessa le questioni della didattica, della produzione e della formazione di uno stile nazionale, ereditate dal periodo post-unitario. Guido Marangoni, ideatore ed organizzatore della manifestazione Monzese, propone lo studio delle arti rustiche regionali come modello per la produzione che deve rivolgersi anche al ceto medio.
Dipartimento di Matematica La Sapienza
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La figura di Ponti è emarginata dalla storiografia del dopoguerra; Ponti, infatti, non rientra facilmente all’interno di un dibattito reso schematico dal confronto ideologico: da una parte l’architettura “antifascista”, dall’altra quella legata al regime. Inoltre, nelle “storie” dell’architettura, come quella di Benevolo, e nella manualistica straniera, la contrapposizione fra “movimento moderno” e architettura evocatrice dell’antico durante il periodo fascista appare uno schema di lettura ritornante. Anche se partono da posizioni diverse, Benevolo ( che supera il concetto di storia come rassegna di personalità e privilegia i meccanismi di produzione, la tecnologia e l’economia ) e Zevi ( che punta la sua storia sul trapasso dalla fase funzionalista degli anni Trenta alla tendenza organica ) segnalano di Ponti solamente la Facoltà di Matematica ed il Palazzo di Montecatini, esempi dell’accostarsi del “novecentista” Ponti al razionalismo.
Nel 1982 esce l’importante contributo di Ciucci. L’azione di Ponti, precisa, contribuisce a creare l’ideologia del Novecento: l’architetto, scrive Ciucci, “si presenta come l’interprete del “gusto Novecento”, rendendo stile ogni ricerca formale col fine di legare linguaggio formale e funzionalità sociale”. La ricerca dello “stile”, nel tentativo di coniugare la ricerca del nuovo con la tradizione, è quindi determinante in Ponti. Un oggetto storico, da tenere ben stretto. Il che, tradotto, significa che è un pezzo da collezione. Non male, se si pensa che Giò Ponti la descriveva come una sedia normale, leggera, sottile e conveniente: caratteristiche proprie di un oggetto d’uso comune.la sua cifra stilistica originale ne fa un simbolo intramontabile di eccellenza del design italiano. Una curiosità: per arrivare al prototipo finale ci sono voluti otto anni. Il nome non è casuale: pesa appena 1,7 kg e si solleva con un dito. Cappella Borletti Cimitero Monumentale di Milano 1929/30
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Questa produzione di Ponti era inserita in un'efficace strategia d'internazionalizzazione. Una strategia volta certo a supportare l'export di una nazione in ricostruzione, ma anche a generare una lettura originale dell'americanismo: una dimostrazione delle connessioni attivate tra imprese e designer, dei rapporti tra comunicazione e modernizzazione della casa borghese. Una casa "felice" e "ingegnosa", agli antipodi dell'esistenz-minimum, che tendeva a diffondere l'elitismo piÚ che a renderlo un distacco esclusivo: uno stile per emanciparsi e rendere pratico il modo di abitare circondati dall'arte. Se arredi e interni vengono sempre piÚ riprodotti in contesti museali, questo fatto non può piÚ rappresentare una visione singola nostalgica e passatista, ma deve trasformarsi in un fenomeno di allargamento e di accessibilità che consenta un reale e ironica democratizzazione del "pratico modo di abitare circondati dall'arte".
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Achille Castiglioni
a cura di Giulia De Lena
“Non vi è nulla della rigidezza, della forzata riduzione a schemi di una questione funzionale o produttiva, nulla della schematicità dei processi di stilizzazione che accompagnano tanto spesso l’apparente semplicità formale di molti oggetti contemporanei. Ma anche non vi è nulla di letteraio o di quella forzata ricerca di simbolismo, del diverso che accompagna la finta rivolta dei designers italiani degli anni Settanta contro la produzione industriale e le sue logiche. Vi è spesso invece in questi oggetti/ meccanismi il segno residuo del gesto artigianale che ha pazientemente costruito il modello, la pinza che ha corretto l’inclinazione dell’amierino, aggiustato la collimazione tra piani, allargato la circonferenza”.1
Vittorio Gregotti
1. Achille Castiglioni, Electa, 1995
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La forza delle idee Achille Castiglioni (Milano, 16 febbraio 1918 – Milano, 2 dicembre 2002), Figlio dello scultore Giannino si è laureato al Politecnico di Milano nel 1944; dopo la laurea lavorò nello studio dei fratelli maggiori Livio (1911 - 1979) e Pier Giacomo (1913 - 1968) dedicandosi a progetti di urbanistica, architettura, mostre, esposizioni e product design.
Sono stati conferiti ad Achille Castiglioni nove Compassi D’Oro, l’ultimo dei quali nel 1989 “per aver innalzato, attraverso la sua insostituibile esperienza, il design ai valori più alti della cultura
Nel lavoro compiuto dai fratelli Castiglioni, nell’ambito dell’oggetto, ha sempre dominato la fisicità dell’oggetto in sé, delle sue parti e materie, delle sue tecniche produttive appropriate e quindi ogni volta diverse, della nuova soluzione tipologica del problema posto da nuove possibilità tecniche per nuovi usi. Il loro metodo, sgombro da pregiudizi ideologici, era teso al risultato appropriato con il minimo dei mezzi ed era altamente interessato a una sperimentazione estesa a tutto il processo progettuale, sensibile al feed-back, all’influenza delle tecniche di produzione; nell’insieme un procedimento che, dall’idea di progetto integrale, assume certo più gli aspetti materiali che quelli di stilizzazione e di mimesi. Castiglioni ha sempre avuto una grande considerazione per quegli oggetti in cui il rapporto tra forma e funzione è risolto, dal punto di vista costruttivo, in maniera brillate ed è per questo che nei suoi lavori ha spesso utilizzato parti di oggetti esistenti indicandone però un uso diverso. Spesso adottava parti di oggetti, che erano per lui fonte di ammirazione, dei quali manteneva intatta la forma, ma per i quali sceglieva anche tempi e modi d’uso completamente nuovi. Questi oggetti poi evolvevano come esseri viventi: le componenti prese a prestito venivano costantemente aggiornate. Gli oggetti ridisegnati sono, per Castiglioni, oggetti tradizionali da lui perfezionati o aggiornati secondo gli sviluppi tecnologici e le esigenze della vita moderna, con la costante volontà di accrescere sempre di più il valore della componente principale di progettazione. Il decennio 1954-1964 fu un periodo di grande fermento per i fratelli Castiglioni; la produzione di quegli anni fu compatta ed altissima. Questo discorso riguarda in particolar, modo le lampade giacché la questione della luce possedeva per loro un fascino simbolico oltreché di suggestione formale. Si potrebbe dire che il loro fu un interesse di radice futurista non negli elementi formali, in quanto essi concepivano la luce come miracolo tecnico, duttile e splendente della Modernità. Questa loro necessità/intenzione di scardinarsi dalla tradizione modernista e nello stesso tempo di sottolineare la continuità con la cultura milanese moderna, porta Achille Castiglioni a intraprendere uno studio su una diversa linea di interessi e di esperimenti che si colgono maggiormente nei lavori di allestimento. Il lavoro espositivo gli concedeva la possibilità di infrangere le regole metodologiche per la costruzione dell’oggetto industriale, portandolo così a dare vita ad una serie di eccezioni e di esperimenti, che influenzeranno il suo lavoro successivo. Infatti durante gli anni ’50 in Italia giunse una ventata di sperimentalismo attraverso le pubblicazioni dei lavori di Eames e di Nelson, ma i Castiglioni risposero confermando il loro solido contatto con le tipologie povere e tradizionali italiane.
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Achille e Piergiacomo Castiglioni aprirono il proprio studio nel 1944 e lavorarono insime fino alla morte di Piergiacomo nel 1968
Per essi lo sperimentalismo dei materiali, delle tecniche non è strumentale alla scoperta di nuove forme, che ne minano i componenti, ma il contrario. Non ci fu da parte loro alcuno sforzo di adeguamento alla cultura internazionale e per questo si allontanarono anche dal dibattito del tema, sociale e politico, della ricostruzione post-bellica. Del 1960 è l’allestimento della sezione italiana della XII Triennale che riporta all’unità, con mezzi semplicissimi, la frammentazione critica in cui si stava muovendo l’inquieta architettura italiana di quegli anni. Del 1964 è l’allestimento della mostra “ Le vie d’acqua al mare”, quasi una risposta alla ridondanza della Triennale. Un allestimento rigoroso, ottenuto attraverso l’uso di un solo materiale povero: l’asse di cantiere. Un altro importante allestimento di quegli anni fu quello per la mostra “Casa da abitare”, un manifesto del ready made, della ricontestualizzazione dell’oggetto umile, comune, senza tempo per dotarlo di nuovi significati.
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Sedile Sella Produzione Zanotta 1983 (1957) “Sgabello per telefono” E’ composto di un basamento dell’equilibrio dinamico in ghisa, il sedile è composto di una sella da bicicletta in cuoio, regolabile in altezza, portata da un tubolare verticale in acciaio verniciato. Sgabello Mezzadro Produzione Zanotta 1971 (1957) Esprime bene la volontà di usare una parte di un oggetto esistente, confermandone la forma ma modificando il suo modo d’uso. E’ composto da: sedile da trattore, perno di fissaggio, balestra, traversa Sedile Allunaggio Produzione Zanotta 1980 (1966) Allunaggio è costituito da tre esili gambe in tubo d’acciaio curvato (diametro 22 mm), su cui poggia un sedile in metallo stampato, verniciato a fuoco nel colore verde prato; il peso è distribuito a terra attraverso tre dischi di materia plastica elastica di colore naturale.
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Nel comprendere la grande e variegata produzione dei fratelli Catiglioni, ho riscontrato come la loro vasta progettazione fosse raggruppabile in quattro ampie categorie: Ready-Made, Redesign, Luci Artificiali, Progetti Integrali. Categorie che esplicano il vasto mondo al quale rivolsero la loro progettazione e il modo con cui la realizzvano. Stravolsero molte delle forme legate ai significati tradizionali, invitando l’osservatore alla conoscenza profonda dell’oggetto stesso. Riscoprirono il significato e la razionalità di molte forme presistenti, invitando l’osservatore a verificare continuamente il valore intrinseco degli oggetti. Investigarono il delicato rapporto tra forma e funzione, cosicché per ogni forma funzionale vi era sempre molteplicità d’uso. Una progettazione dinamica, coraggiosa e quanto mai lungimirante.
Ready-Made. La curiosità di Castiglioni spinge la sua ricerca fino a verificare quanto un oggetto sia in grado di esprimere, attraverso l’aspetto formale, la sua funzione. Quando questa correlazione esiste, ed è risolta brillantemente dal punto di vista costruttivo, questo oggetto ha la sua approvazione, l’ammirazione per chi l’ha progettato, e diventa parte dei suoi affetti progettuali. Forse proprio per questi motivi è sorta in lui l’esigenza di usare tutto ciò che è già ricco di cultura del costruire, anzi, di confermare questa validità anche suggerendone un uso diverso.
Allestimento Telecom 1979
Il Telecom di Ginevra era la più importante esposizione internazionale sulle telecomunicazioni in Europa. Dovendo intervenire in uno spazio espositivo in cui l’organizzazione fieristica non poneva alcun vincolo distributivo, Castiglioni elaborò una serie di soluzioni di percorso e di aggregazioni di stand che tenevano conto delle richieste delle singole aziende partecipanti. Essendoci aziende pubbliche e private e dovendo ipotizzare spazi espositivi di grandi e piccole dimensioni,
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l’unica soluzione possibile con il minore spreco di area comune era quella del percorso unico obbligato. Vennero elaborate le seguenti premesse di progettazione: unitarietà ambientale, Per eliminare ogni possibile interferenza tra la struttura esistente, Castiglioni inglomerò nel progetto solo quei pilastri strutturali che non potevano essere nascosti, facendo ricoprire la struttura rimanente con velari verticali e orizzontali di colore bruno scuro, con i quali si poteva anche eliminare la luce diurna proveninte delle vetrate del salone. Castiglioni decise poi di creare un reticolo con maglia per gli impianti elettrici. Questo reticolo venne sospeso a soffitto e diventò elemento portante di tutto l’allestimento. Infatti nella canalizzazione elettrica vennero inseriti i corpi illuminanti e sempre a essa appesi i pannelli in tessuto ignifugo che dividevano gli spazi espositivi.
Redesign si può parlare di redesign ( riprogettazione) di un oggetto quando si assume come punto di partenza della progettazione non un problema con le sue successive risoluzioni, ma un progetto compiuto o addirittura un oggetto esistente. Per i Castiglioni questo tipo di progettazione passa per una fase ben precisa del suo modo di procedere e cioè quella della individuazione del componente principale di progettazione. Per componente principale si intende quell’elemento del progetto che più sintetizza l’oggetto nel suo complesso che potrebbe essere la forma, la sceltadi un materiale, la funzione, oppure il modo stesso di produrre.
Birreria Spugen Brau (1960)
Birreria ristorante realizzato a piano terra in Corso Europa in un edificio progettato da Luigi Caccia Dominioni. La birreria Spugen Brau stupiva e incuriosiva non meno di quanto non abbiano fatto molti degli oggetti disegnati da Achille Castiglioni. L’ambiente principale era composto dalla sala del ristorante a gradinate che comunicava con il locale tavola calda e bar. La cucina era collegata direttamente con la tavola calda, ed aperta verso il ristorante con un ampio banco di distribuzione. L’idea dominante dell’allestimento prodotto per la birreria Splugen Brau, era il recupero di forme del passato (periodo neoliberty), abbinato all’uso spregiudicato degli impianti, volutamente a vista. Certamente Castiglioni era interessato a stupire il pubblico attraverso questo scenario inconsueto al limite tra birreria di lusso e wagen restau-
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Pianta della mostra con tutti gli oggetti esposti. Evidenziato il percorso espositivo affinchè ci fosse la medesima visibilità per stand pubblici e privati
Atrio del padiglione con planisfero che evidenzia i principali collegamenti di telecomunicazione dell’Italia col mondo; progetto grafico di Max Huber
Vista degli spazi espositivi
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rant. Concorrevano poi l’infinità di particolari costruttivi, tutti volti a rimarcare l’uno all’ altro i contrasti. Le lampade che scendevano sui tavoliera state progettate per questo allestimento e realizzate con una intercapedine tra il riflettore interno e la calotta esterna per disperdere maggiormente il calore. Questi apparecchi illuminanti, che da un lato ricordavano certe lampade in vetro di fine Ottocento e dall’altro rammentavano per l’ondulazione della cupola d’alluminio gli involucri esterni dei thermos,erano contrapposti all’illuminazione generale, costituita da vere e proprie lampade stradali. Alla cura dei disegni per le finiture dei bordi dei tavoli e degli elementi che dividevano un piano dall’altro, era rapportata la cura del disegno delle tubazioni dell’aria condizionata. Alle placche in ceramica, che indicavano i numeri dei tavoli sugli schienali delle panche che costituivano le sedute della zona ristorante, si contrapponevano altoparlanti a tromba per grandi spazi. Anche la distribuzione in pianta presentava le sue trasgressioni a favore dell’effetto scenico finale: le gradinate sulle quali erano disposti i tavoli consentivano, al di sotto, il passaggio alle cucine, ricavato in un elemento di collegamento tra i due corpi di fabbrica, elemento che all’esterno, diventava una grande insegna verticale.
Luce artificiale La possibilità di operare in spazi di dimensioni e di caratteristiche eccezionali spinge Castiglioni a compiere ricerche nell’illuminotecnica, nel tentativo di integrare con la luce artificiale sempre più lo spazio architettonico, la funzione espositiva e la sua volontà espressiva di progettista.
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Vista dells mostra dell’industrial Design. Particolare sistema di illmunazione artificilae dei velari circolari 1954
Nella pagina succesiva: Vista dell’interno dell’allestimento per Ideal Standard 1964
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X Triennale Nella sezione dedicate all’ Industrial Design per la X Triennale del 1954, Castiglioni propose un allestimento molto interessante: i centocinquanta oggetti selezionati per spiegare che cosa fosse l’industrial design erano disposti a diverse altezze su ripiani la cui superficie era interessata con disegni esplicativi, che illustravano, insieme ad un testo esplicativo, l’oggetto esposto. Gli apparecchi illuminanti, appesi al soffitto e molto potenti, erano collocati in un cilindro, in modo da proiettare il loro cono di luce sopra un velario circolare appeso con un cavo al cilindro stesso. L’elasticità del tessuto faceva assumere a questi velari la forma di coni allargati, da cui traspariva una luce omogenea che illuminava gli oggetti lasciando ombre poco marcate sia con luce artificiale che con quella naturale proveniente dalla copertura a shed.
Sala Espressioni In occasione della presentazione di una nuova serie di sanitari Ideal Standard, Castiglioni realizzò un allestimento per la zona vetrine “Sala delle esposizioni”.
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Pianta general mostra
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All’interno delle sale queste lampade creano particolari effetti di luce
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Egli creò per l’occasione una vera cascata di semplicissime piccole lampade poste sull’intero perimetro ad altezze diverse, che varianano dalla più bassa, posta quasi a pavimento, alla più alta a soffitto. Il sistema di sotegno era costituito da una rete elettrosaldata che determinava l’elemento di regolarità orizzontale, mentre l’irregolarità in verticale, dall’aspetto apparentemente casuale, suggeriva invece l’attiva presenza del progettista nel momento della posa in opera. La volontà di seguire il progetto fino alla totale realizzazione era un comportamento tipico di Castiglioni, che tendeva sempre a lascare un margine di variabilità nella fase di esecuzione, come per autocostringersi a essere presente fino alla conclusione dei lavori ,sempre pronto anche ad un deciso rimaneggiamento, necessario per incrementare la spettacolarità nella realizzazione del progetto. Questo comportamento era il risultato di una profonda convinzione che era linfa vitale dei suoi progetti, quella cioè che era sempre possibile aggiungere o togliere qualcosa ad un progetto e migliorere il prodotto finale.
Vie d’acqua da Milano al mare
Castiglioni, in questa mostra, per sottolinare con maggior forza la particolarità dell’allestimento, si servì in primo luogo di specifici materiali in modo da creare un’atmosfera inconsueta e molto contrastante con la architettura del palazzo che la ospitava. Per accentuare tale particolarità utilizzò anche degli apparecchi illuminotecnici da lui realizzati per l’occasione. L’ingresso della mostra era infatti segnalato da due lunghe file di lampade rotanti, comunemente utilizzate sugli automezzi di pronto intervento, sospese a due cavi e fissate a un piattello di lamiera smaltata con la cupola trasparente rivolta verso il basso. Lungo, poi, tutto il percorso espositivo erano presente singolari apparecchi illuminanti che incuriosivano sia per la semplicità della costruzione sia per l’efficacia dell’illuminazione. Questi apparecchii erano costruiti con un filo di ferro disposto ad anello sul quale era incollata della carta argentata,in modo da formare una superfice concava, adatta a riflettere la luce proiettatada una lampada spot da 100 watr applicata a una staffa semicircolare fissata al filo di ferro. Tale apparecchio illuminante era sostenuto esclusivamente da due o tre fili tesi e fissati all’anello metallico in modo da potere governare la sua cupola di riflessione per ottenere la luce nella posizione voluta. Scopo della manifestazione era porre all’attenzione di un vasto pubblico i problemi dell’economia della Val Padana in rapporto alle possibilità di or
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L’aspetto scenografico di questa mostra era anche evidenziato con proiettori in vista che proiettavano immagini su schermi di tela appesa
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ganizzare un efficiente sistema di navigazione interna nell’Italia settentrionale. Il particolare tema di questa mostra consentiva di rivolgersi al pubblico organizzando una sorta di spettacolo lineare dove i vari temi affrontati per illustrare l’importanza dei corsi d’acqua, come vie di comunicazione, venivano spiegati con l’ausilio di modellini, immagini grafiche, immagini luminose, suoni, giochi di luce, e dove l’elemento dinamico era rappresentato dallo spostamento del visitatore lungo il percorso della mostra. Questo percorso era costituito da comuni tavole da ponte. Tutto l’allestimento era realizzato dalle stesse tavole, disposte a formare pavimenti e pareti degli spazi che erano articolati in sale e passaggi lungo i quali si svolgeva, continuo, il racconto espositivo. L’estrema eterogeneità del materiale da esporre ha suggerito una struttura di allestimento la più flessibile possibile; le pareti di legno, infatti, hanno potuto essere adattate, in tutte le posizione più idonee all’economia del rac conto, con aperture, finestre, ripiani, che, essendo tutt’uno con le pareti stesse, formavano il tessuto connettivo di tutto l’allestimento. Il tono apparentemente trasandato e “non finito”, che si trovava nei materiali, nell’immediatezza delle soluzioni tecniche, nell’essenzialità e freschezza del contrappunto grafico, era in realtà sottilmente sofisticato, poiché collaborava a evocare il clima lirico e scabro del fiume, e testimoniava la viva spregiudicatezza dell’equipe di allestitori.
Negozio Flos
Nell’ambito della vendita di apparecchi illuminitecnici, era norma collocare tutte le lampade in un’unico spazio, oppure creare intorno ad esse una ambientazione. Castiglioni riteneva fosse impossibile capire come era fatto un apprarecchio illuminante in mezzo ad altre lampade o ad altri oggetti e soprattutto che fosse ancora più difficile capire quali fossero le caratterisciche di illuminamento di ciascuno. Pensò perciò che fosse più valido inserire ogni singolo apparecchio in un volume racchiuso bianco, una specie di scatola montata su ruote, dove la lampada appariva ben visibile nella sua forma insieme con la luce che sprigionava, e annullare tutto lo spazio architettonico del negozio in un colore scuro che assorbiva la luce riflessa dai contenitori bianchi, evitando così le interferenze di luminosità tra le lampade esposte. Il particolare spazio del negozio di Milano e la facoltà di spostamento dei parallelepipedi di esposizione hanno consentito di mutare l’allestimento del negozio con ben ventotto soluzioni diverse.
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Le due soluzioni espositive delle singole lampade negli espositori
Castiglioni aveva adottato una soluzione espositiva ridotta in dimensione, che consentiva la presentazione di un maggior numero di lampade
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Progetti integrali Castiglioni definisce una progettazione integrale quando essa è intesa come continuo rapporto interdisciplinare con tutti coloro che concorrono alla redazione di tutte le parti del progetto e quando il progettista partecipa attivamente a tutte le fasi del percorso progettuale
XVII Triennale di Milano
Questa esposizione avviene alla conclusione di una serie di iniziative per il rilancio internazionale dell’istituzione milanese. L’allestimento si sviluppa in un itinerario di 1 km tra mostre tematiche e sezioni estere; i progettisti hanno cercato di usare il Palazzo dell’Arte stravolgendone gli spazi e avvalorando più l’idea del luogo che dell’architettura esistente con un percorso espositivo semplice e di facile lettura. Pareti convergenti, sormontate dalla simulazione di una pista di aeroporto – con percorsi, luci, suoni propri della “porta d’accesso” alla metropoli moderna -,incanalavano il visitatore verso la grande hall. Questo ambiente ospitava il bar, uno spazio aperto e fruibile dalla città, ma era intercettato per ben tre volte dal percorso dell’esposizione (all’inizio, a metà, alla fine). Il pavimento riproduceva, su laminato Print, plastici realizzati da Saul Wurman; a soffitto i grandi lampadari Taraxacum 88 e a parete decorazioni di Mario Tudor. Salendo la scalinata, completamente trasformata, il visitatore era ripreso a video e riproiettato su un grande schermo, non più come pubblico della Triennale, ma come abitante di situazioni metropolitane eccezionali, diventando parte della sezione introduttiva. Allo stesso spettacolo si poteva assistere al primo piano, seduti su un’ampia gradinata, per poi scoprire, alle spalle dello schermo, il centro di produzione con i modelli utilizzati nel cinema contemporaneo. Nei due piani la visita, cadenzata da spessi e dinamici diaframmi spaziali, si svolgeva obbligata attraverso le partecipazioni nazionali, alternate alle otto mostre tematiche, che affrontavano la rappresentazione dell’universo metropolitano restituita da discipline come la grafica, il design, la cartografia,l’architettura, l’arte, la statistica, il paesaggio, la fotografia. L’itinerario si concludeva nel grande muro delle scritte, un sette inclinato nel vestibolo del palazzo, singolare elemento di regolazione dei flussi.
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Espressività, forma e funzione. Colori e forme nella casa d’oggi Questa proposta di ambiente raggruppa, in un solo progetto, tutti i comportamenti progettuali che caratterizzano lavori dei fratelli Castiglioni: 1. L’attenzione scenografica al volume dell’ambiente e ai piani delle pareti progettate tenendo in considerazione il movimento del visitatore; 2. La ricerca di oggetti esistenti come allenamento e autoeducazione alla progettazione; 3. Se gli oggetti sono validi, possono coesistere senza la necessità di uno stile che li accomuni; 4. La decorazione come elemento di sottolineatura espressiva, dipendente dal progetto e non forzatamente sovrapposta; 5. La curiosità verso gli oggetti che esprimono particolarità costruttive e progettuali e l’affetto per questi oggetti; 6. La ricerca progettuale come lo sgabello metallico Mezzadro;
“Gli allestimenti sono l’occasione per verificare a fondo le intuizioni progettuali studiando da vicino le reazionidel pubblico, la sua percettività, gli spazi, i volumi, i colori, le luci”. Achille Castiglioni
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Costantino Dardi
a cura di Andrea Finelli
Costantino Dardi Si forma alla scuola veneziana in un periodo di vivace dibattito e di ricerca imperniata sull’analisi urbana. Teorico della progettazione, la sua architettura si distingue per un linguaggio formale e compositivo assolutamente personale, che si ispira a figure geometriche elementari e alla ricerca sul rapporto tra i solidi platonici espressa in schemi configurativi che lui stesso definisce «semplici, lineari o complessi». Allievo di Giuseppe Samonà, subito dopo la laurea all’attività progettuale affianca l’insegnamento prima a Venezia e poi a Roma. Partecipa a numerosi progetti di concorso tra i quali quello per il Museo della Resistenza nella Risiera di San Sabba, Trieste (19661968), per un nuovo Palazzo per uffici della Camera dei Deputati (1966-67), per il padiglione italiano all’Esposizione universale di Osaka (1968). Attivo nel campo della didattica e della ricerca progettuale della scuola, collabora con Gianugo Polesello e Luciano Semerani al Gruppo Architettura formato da Carlo Aymonino con il quale parteciperà ai progetti di concorso per le università di Firenze (1971), Cagliari (1972) e della Calabria (1973). Tra gli anni Sessanta e Settanta stringe un sodalizio professionale con l’ingegnere Giovanni Morabito e si trasferisce a Roma. Il primo premio del concorso bandito dall’Agip per una stazione di servizio avvia una serie di occasioni professionali in Italia e all’estero. Con alcuni progetti di insediamenti turistici da realizzare sulla costa della Tunisia si misura su configurazioni a scala paesistica in territori non urbanizzati. In quegli anni si dedica in particolar modo agli allestimenti espositivi e museali dimostrando sensibilità per l’arte contemporanea e per la valorizzazione dell’oggetto artistico. Cura gli allestimenti della X Quadriennale (1973), della XVI Triennale (1979) e della Biennale di Venezia (1978-1982) e alcune parti di scenografia del film Il ventre dell’architetto di Peter Greenaway (1986). I progetti per il restauro di Palazzo delle Esposizioni (1978-1990), per il restauro e la ristrutturazione di Palazzo Massimo (1985-91) e altri ancora lo vedono coinvolto nelle iniziative dell’amministrazione comunale romana tese al rinnovamento e alla riqualificazione del centro storico romano.
I contributi dell’architetto Sostenitore del confronto attraverso i concorsi, che da sempre rappresentano la principale opportunità operativa per chi crede nella dimensione sperimentale del proprio operare, Nino Dardi era un architetto sensibile, leggero e ironico, aperto all’innovazione (un antesignano della rivoluzione informatica), impegnato a tutto campo nella politica culturale. L’allestimento e il confronto con lo spazio espositivo occupano un ruolo centrale nella prolifica carriera di Costantino Dardi. Nei vari contesti espositivi con i quali si confronta, Dardi opera con uno spirito fortemente critico nel rapporto con lo spazio: non si limita ad un
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piano espressivo o rappresentativo, ma assume un atteggiamento analitico nei riguardi dello spazio. Questo atteggiamento di sfida con i luoghi produce ogni volta operazioni nuove e originali: in quanto risultati di analisi critica e creativa dello spazio, i suoi progetti si propongono come delle vere e proprie installazioni spaziali. Il progetto trova una sintesi nel rapporto tra allestimento e contesto espositivo, sia esso un museo, un sito archeologico, un luogo urbano o un paesaggio. Una sensibilità particolare, quella di Dardi, che deriva da un’attenta e aggiornata cultura visiva, che si inserisce con toni originali nell’ambito della riflessione coeva. Perfettamente collocato nell’ambiente italiano degli anni ’60 e ‘70, Dardi emerge tuttavia come un suo esponente anomalo, soprattutto per la sua approfondita e articolata conoscenza del mondo artistico italiano e internazionale. Sono proprio le ricerche artistiche coeve ad influenzare fortemente la sua sensibilità analitica e il suo progetto. Significative anche le sue intersezioni con il mondo dell’arte, lavorando con critici e artisti, organizzando mostre e partecipando a numerosi convegni e dibattiti sul tema della comunicazione visiva; credeva in un nuovo dialogo interdisciplinare ma senza un’assimilazione reciproca dei linguaggi. Per Dardi l’allestimento, declinato in tutti i suoi aspetti, rappresentava la sintesi tra valenza espressiva e rigore teorico, un tema teorico-progettuale e una opportunità di sperimentazione metodologica. “Non dunque l’arroganza di una tecnica tutta tesa alla presa di possesso del mondo, o la costruzione di macchine irrazionali, retoricamente impegnate nella propria autocelebrazione, ma il ridisegno di quella fortezza della ragione che traccia i propri limiti e, con questo gesto inconsapevole, riscopre il mondo e le cose nel loro continuo divenire.” (Francesco Moschini, Tra retorica del simbolo ed eloquenza del segno) . Anche attraverso il suo contributo, la progettazione museografica oggi non è più un settore disciplinare autonomo dell’architettura: una ricerca specialistica e differente per metodologie, linguaggi e tecniche. Da semplice luogo di conservazione della memoria il museo ha assunto nuove finalità e significati simbolici: è luogo emittente messaggi, spazio interattivo per la comunicazione, soprattutto è centrale nella disciplina del progetto; quindi occupa una postazione privilegiata nella struttura urbana. Strategia che era già evidente nel suo celebre saggio “Semplice Lineare Complesso” del 1971, in cui cercava di mettere a fuoco la nozione cardine di configurazione, analizzando il rapporto tra i fondamenti teorici del progetto e la sua pratica.
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Campidoglio, 1991 Inchiostro su carta da lucido
Semplice, lineare, complesso. Lo scrivere è una forma d’espressione che, fin dalla prima gioventù, ha esercitato in Dardi una particolare attrazione egli infatti studiò giornalismo prima ancora di appassionarsi all’architettura.Dardi stesso descrive la sua passione definendola “il piacere dello scrivere”. Il testo presenta una veste grafica dall’impostazione severa. Bianco e nero fortemente contrastanti, omogeneità visiva e uniformità concettuale ad un alternarsi di disegni, modelli e foto. Dalle proposte urbanistiche ad allestimenti espositivi. Il disegno, osserva Dardi, privilegia la meditazione interiore, qui il layout assume un aspetto iconico che quasi annuncia il contenuto analitico del testo da lui scritto. L’opera di Costantino Dardi, continuamente tesa verso la ricerca di un’identità (e quindi di una reciproca corrispondenza) tra teoria e progetto, è già ampiamente declinato dall’ossimoro contenuto nel titolo, che bene ne sintetizza il contenuto e il valore aggiunto. E’ lo stesso Dardi, nell’introduzione alla prima edizione di Semplice lineare complesso, a proporre un singolare paradosso nello scrivere che …l’area della teoria appare assai più opportunamente coperta dai disegni, dai progetti e dal sistema di riferimenti ad essi sotteso […]. L’area del progetto, al contrario, per la esplicita assunzione delle posizioni di campo, per l’approccio deliberatamente orientato alla fondazione di una base di riferimenti, di un approccio critico, di un retroterra storico, di una collocazione culturale, mi pare che più correttamente sia occupata dai contributi scritti.
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Uffici della Camera dei Deputati a Roma, Prospetto - sezione, 1966/1968.
Determinerà un movimento pendolare tra natura e architettura e la geometria sarà assunta come il tramite che regola i loro reciproci interscambi. Dei suoi numerosissimi progetti, pochi purtroppo hanno trovato compiuta realizzazione. Gran parte di essi è nata per occasioni effimere ed effimera poteva sembrare la loro durata. Altri, come le numerose configurazioni d’immagine per occasioni espositive sembravano destinate a seguire solo le esigenze di immediata accessibilità visiva e didascalica facendo spazio ad altre possibili e infinite soluzioni. Eppure proprio il tema dell’effimero sembra seguire costantemente la ricerca di Dardi intervenendo sulla preesistenza, quasi in una condizione di apparente precarietà, costruendo una sorta di linguaggio parallelo che non dialoga con il contesto, ma aristocraticamente ad esso si accompagna rivendicando l’autosufficienza del proprio linguaggio, in cui la geometria è la sola ragione sufficiente, anche nel momento in cui si autocontraddice o si contesta. Le prime opere, il ruolo della geometria semplice. Le fasi analitiche descritte nel testo “Semplice Lineare Complesso”, partono da una fase di configurazioni primarie, Dardi nel testo ne scrive…E’ la prima delle due famiglie semplici. Essa predilige il volume rispetto alla sua costruzione interna, il pieno rispetto alla struttura che lo costituisce, il risultato manifesto rispetto al processo che lo genera… La sequenza logica dei progetti parte con la serie delle stazioni Agip, qui la configurazione primaria del cubo, completamente emersa al di sopra della
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A SINISTRA: Ponte sullo stretto di Messina, 1969. Inchiostro nero su carta
IN ALTO: Scenografia per trasmissione Greenpeace Rai3.
IN BASSO: La strada novissima, Allestimento, la Biennale di Venezia, 1980.
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linea dell’orizzonte, subisce progressivi condizionamenti contestuali: prima con il trattamento dell’ancoraggio a terra, poi con il prolungamento del solide nelle ampie copertura delle pensiline e delle aree pedonali, infine con il sistema di corpi che scorrono in linea.
Un cubo bianco si propone, sempre identico, di fronte ai piĂš diversi contesti, urbani paesistici. Il solido, sospeso da terra, appoggia su setti di calcestruzzo, predisposti per accogliere messaggi grafici, servizi automobilistici o spalti erbosi.
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Il cubo può anche scorrere su rotaia e assumere, nelle diverse ore, differenti posizioni nello spazio. Di notte, illuminato, accentua il suo ruolo visuale e focale nel paesaggio.
Questo tema assume mutazioni nei progetti successivi fino a raggiungere le configurazioni lineari e complesse. Nel padiglione italiano all’esposizione universale di Osaka ’70, l’assolutezza della configurazione e l’abnormità della sua dimensione introducono il tema dell’organizzazione e della fruizione interna del solido: la strada che si è scelta è stata quella di investire un grande piano inclinato di 45° con un percorso che si costituisce come esperienza delle antinomie fondamentali dello spazio, l’alto e il basso, il pieno e il vuoto, l’interno e l’esterno.
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La configurazione chiusa del cubo è sottolineata dall’involucro bianco opaco. Vi si accede tramite passaggi incisi nel terreno ed all’interno un grande piano inclinato a 45° trasforma il percorso in un’esperienza di alternative spaziali: alto-basso, pienovuoto, interno-esterno. Lungo la discesa, alcuni solidi minori concentrano alcuni aspetti particolari dell’informazione.
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Configurazioni lineari. La configurazione lineare assolve con grande chiarezza compiti di organizzazione dello spazio, di definizione dei contesti morfologici, di caratteruzzazione degli assetti urbano-paesistici. L’analisi progettuale in questo caso rileva che la configurazione lineare ì, per aver privilegiato in maniera così netta una delle sue coordinate, può certamente ancorarsi ad uno schema di grande semplicità. L’allestimento della rassegna Italy 2 a Filadelfia concentra l’attenzione sull’area centreale, risolta con una successione lineare di prismi triangolari , rispetto alla quale le rimanenti aree dell’esposizione risultano essere i terminali o le camere di decompressione.
Le sale del museo vengono organizzate da una linea collocata nella sala centrale e formata da prismi diversamente orientati che fungono da schermi di proiezione. Lo spazio così disegnato raccorda le diverse aree della mostra, dalla “nuova pittura” alla body art.
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Michele De Lucchi
a cura di Francesca Maiorano
Michele De Lucchi Michele De Lucchi è nato nel 1951 a Ferrara e si è laureato in architettura a Firenze nel 1975. Nel periodo “radicale” ha fondato il gruppo artistico Cavart mentre era assistente al corso di progettazione di Adolfo Natalini all’Università di Architettura di Firenze. Le esperienze a Firenze lo portano ad entrare in contatto con gli esponenti dell’architettura radicale e fa proprio il credo dell’arte concettuale: partecipare alla costruzione del mondo attraverso la propria creatività e rendere creativi gli altri. Lì conosce uno dei suoi più affezionati clienti: lo spirito del tempo. « Il tempo nel suo passare – dice – è il più grande artista di tutti i tempi ed è il più grande cliente». E da questo cliente De Lucchi apprende il vero spirito dell’avanguardia: guardare oltre e sentire quale sarà la contemporaneità di domani, concetto che applicherà più in là al design. Dopo Firenze, De Lucchi instaura un duraturo rapporto di amicizia con Ettore Sottsass, i quali daranno inizio alla stagione della collaborazione con “Memphis”. I due architetti-designer realizzano progetti per sette collezioni di arredo, creando l’immagine della casa postmoderna. È il periodo in cui gli artisti radicali diventano prima designer poi architetti , in cui si punta a « dare valore agli oggetti, perché comunicano, raccontano delle storie». Successivamente il grande incontro con la Olivetti, dove è responsabile del design e dei progetti dei sistemi d’arredo per ufficio della divisione Synthesis. De Lucchi in merito esprime un proprio pensiero dicendo: «C’è una grande differenza tra il designer, inteso come progettista per l’industria e l’artista: l’artista lavora per se stesso, il designer per gli altri. E se nell’antichità compito dell’artista è far vedere la bellezza della natura, oggi noi come designer dobbiamo far vedere quante cose belle l’industria può fare. In Olivetti ho sperimentato cosa voglia dire ”bellezza sociale”». Cavart, gruppo attivo a Padova fra il 1973 e il 1976 nell’ideazione e produzione di progetti architettonici, film, testi, happening e altre operazioni artistiche collocabili all’interno delle neoavanguardie degli anni Settanta.
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Negli anni Novanta De Lucchi scrive importanti pagine sulla filosofia del design per il terziario, introducendo lo studio di parametri ambientali quali il colore, la luce e il tatto. Spaziando dal prodotto, all’arredo, alla grafica, il suo approccio al progetto è globale e trasversale facendo dell’architettura un sistema integrato. Il suo lavoro professionale è stato sempre accompagnato dalla ricerca personale sui temi del progetto, del disegno, della tecnologia e dell’artigianato. Nel 2004 egli adibisce il Chioso, suo studio privato e archivio ad Angera (Varese), a laboratorio sulla materia e inizia a scolpire piccole case in legno usando la motosega, alla ricerca dell’essenzialità della forma architettonica e della comunione tra le arti.
St. Jacob’s Chapel, Auerberg, Fischbachau, Germania 2010-2013
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Ministero degli Affari Interni, Tbilisi, Georgia 2006-2009
Installazione “sguardi indiscreti” Cortili dell’Università degli Studi di Milano, Ca’ Granda, ex Ospedale Maggiore, Milano 2013
Dal 2002 De Lucchi intraprende l’insegnamento presso l’Università Iuav di Venezia dove nel 2004 è nominato Professore Ordinario di Disegno Industriale. Nel 2008 assume la carica di Professore Ordinario presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano. Per concludere, De Lucchi consiglia di non trascurare il cliente più esigente ed importante di tutti, la signora Coscienza e aggiunge: «che deve essere limpida e deve dare la massima gratificazione».
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L’incanto dell’industria e della Produzione Privata De Lucchi diffonde le sue perle di saggezza con una semplicità disarmante, ed è la stessa semplicità con cui introduce un concetto difficile da comprendere: la libertà creativa, che solo il lavoro dell’industria può offrire. Comincia a disegnare lampade ed elementi d’arredo per le più conosciute aziende italiane ed europee. Tra le più famose, la “Tolomeo”, progettata per Artemide, ancora oggi è un must del design ammirevole per la leggerezza e la purezza nelle linee, apprezzata per la sua intramontabile attualità.
Comparsa nel 1987, è stata subito un best seller e compasso d’Oro. Tolomeo è la rilettura originale della lampada a molla del passato interpretata con tecnologie moderne e linee contemporanee. La base è un disco in alluminio lucidato a cui è fissato il corpo lampada, il meccanismo di equilibriatura a molle consente infinite posizioni. L’architetto spiega: «Disegnare lampade è bellissimo perchè la lampada non è solo un prodotto di arredamento o tecnologico ma è un “sentire” lo stile di vita di oggi, specialmente ora che le tantissime sorgenti luminose permettono infinite possibilità creative».
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Dal 1988 al 2002 De Lucchi è responsabile dell’ufficio Design di Olivetti e progetta laptop, monitor, stampanti, fax e computer, mentre sviluppa progetti sperimentali per Compaq Computers, Philips, Siemens, Vitra elaborando teorie personali sull’evoluzione dell’ufficio. Altro oggetto noto di design creato per l’azienda Olivetti è la stampante inkjet Artjet 10. De Lucchi ha ridotto al minimo l’ingombro delle componenti elettroniche in un volume cilindrico, il quale è diventato l’elemento iconografico delle nuove stampanti Olivetti.
In quegli anni, l’architetto progetta e realizza senza la figura del committente oggetti e piccoli arredi collaborando con le maestranze artigiane ancora attive in Italia. Nasce così il marchio Produzione Privata, dove la creazione trova la sua espressione ed eleganza in numerosi disegni a matita, acquarelli e studi. Particolare attenzione viene sviluppata per sottolineare il carattere dei materiali come il vetro, il legno, l’acciaio e la loro duttilità. L’architetto attraverso questo marchio mira a sviluppare quei concetti integri dalla logica industriale di produzione e commercializzazione. Si allea, in questo modo, ad una prospettiva culturale che coinvolge materiali e tecniche non più o non ancora di interesse per la grande industria. Tramite questo concetto vuole ispirare e aiutare l’industria del domani accrescendo il merito ed il prestigio dell’artigianato. La collezione prevede
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la realizzazione di lampade da tavolo, lampadari, mobili, vasi e molto altro. Una selezione dei suoi oggetti è esposta nei più importanti musei d’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone. Nel 2003 il Centre Georges Pompidou di Parigi ha acquisito un rilevante numero dei suoi lavori, poi esposti per un anno in due sale della collezione permanente. Nel 1996 con collaborazione di Mario Rossi Scola, Michele De Lucchi ha progettato Acquatinta, una lampada dalle geometrie semplici ed eleganti. Il designer per la realizzazione della lampada, vince il premio Ponte, assegnato dalla Fondazione Europea Guido Venosta di Milano, nel 2008. Lampada Acquatinta 1996 H: 24 cm Ø: 22 cm
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Le prime versioni erano originariamente, trasparente, sabbiata e argentata, in seguito sono state aggiunte una verde trasparente, una verde sabbiata e una bianco lucido. Nel 2003 è uscita di produzione la verde sabbiata, sostituita con la nera incamiciata; la lampada è realizzata in vetro di Murano soffiato a bocca e metallo. Un altro oggetto che prende valore dalla semplice materia è il tavolo Benedetto, realizzato in massello di rovere da una falegnameria di Cantù, con la riconosciuta esperienza. Il tavolo non ha nessun tipo di tinta, è trattato a mano con olio per conservare l’effetto naturale, sarà il tempo che valorizzerà colore e finitura. La struttura è costituita da gambe che si incastrano a pettine l’una sull’altra e si fissano al piano con quattro viti. De Lucchi attraverso Produzione Privata vuole comunicare uno stile di design per cui modificando e aggiungendo il minimo si producono effetti più sorprendenti, invece che il desiderio di ricostruire il mondo. Con piccole deformazioni, variazioni si rende il tutto in modo diverso, genuino, è un invito a lavorare molto attentamente in modo da produrre scarti minimi e cercare di dare una spinta maggiore verso l’innovazione. Tavolo Benedetto, 2007-2013 Benedetto 50: Ø cm 50, H cm 45 Benedetto 80: Ø cm 80, H cm 67 Benedetto 100: Ø cm 100, H cm 50 Benedetto 150: Ø cm 150, H cm 72 Benedetto 180: Ø cm 180, H cm 72 Benedetto 50: Ø cm 50, H cm 45
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Emotività e razionalità Si evidenzia un altro concetto a cui De Lucchi è affezionato: «Bisogna ragionare su emotività e razionalità e renderle complementari». In quegli anni l’ambiente di lavoro è il suo ambito privilegiato di ricerca; questo pensiero viene espresso con una evidente trasparenza nella progettazione per gli spazi di istituti delle agenzie bancarie tedesche Deutsche Bank, Enel, Olivetti, Banca Intesa Sanpaolo, in cui si confronta con l’esigenza di “non ingombrare” lo spazio. L’affinità con quest’ultimo committente, che dura dal 2006 e si conferma all’avvicendarsi di numerose dirigenze, porta De Lucchi a progettare dalle carte di credito alle agenzie, dagli stand fieristici, agli uffici. Per la filiale dedicata alla clientela giovane, la Intesa Sanpaolo SUPERFLASH, l’architetto ha creato uno spazio di incontro e non una banca. Lo sfondo è una grande area self bancaria, dove scrivanie, sale meeting e casse sono scomparse lasciando il posto a dei grandi tavoli con videoterminali e videowall. A destra: Airport Control Tower, Batumi, Georgia, 2010-2011
A sinistra: Filiale Intesa Sanpaolo Superflash, Italia, 2011-2012
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Enel Electric Power Station, Priolo Gargallo, Siracusa, Italia, 2000-2003
L’ambiente è stato rinnovato attraverso la sottrazione delle finiture, evidenziando la storia dell’edificio e donando una flessibilità massima per creare eventi diversi. Nei primi anni 2000 l’aggiornamento tecnologico delle centrali Enel ne ha richiesto la riqualificazione ambientale e il rinnovo dell’immagine. Per la ELECTRIC POWER STATION di Enel, De Lucchi ha risolto il problema dell’integrazione degli impianti nel paesaggio applicando un piano colore ispirato alla terra per le strutture basse e al cielo per quelle svettanti. Le facciate con le ciminiere sono state rivestite in policarbonato del colore dell’aria, mentre per l’edificio turbogas è stato usato il colore rosso bruciato e giallo intenso per il generatore di vapore.
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In seguito l’architetto interrompe la produzione industriale per passare alla “produzione privata”. Incomincia a costruire modellini in legno, piccoli oggetti semplici che diventano progetti più complessi; tutto questo lo realizza nel suo laboratorio a Varese. I modellini diventeranno gli edifici ristrutturati per la riqualificazione del quartiere Rykhe e il palazzo del Ministero degli Interni a Tbilisi, dando inizio ad un rapporto speciale con la Georgia. Pertanto si è vista la realizzazione di importanti edifici come il palazzo di Giustzia, primo edificio dello sviluppo urbano che caratterizza un’area della città di grande pregio. È una torre simbolica, di forma circolare, che si eleva per diciasette piani in modo da rappresentare l’intenzione del Governo di investire nella qualità architettonica della città. Palazzo di Giustizia, Batumi, Georgia, 2009-2011
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Altro edificio che De Lucchi ha realizzato è l’ hotel Medea; la torre è costruita sull’area del preesistente Hotel Medea in epoca sovietica. Il nuovo edificio è traslato in diagonale e non segue la griglia convenzionale, producendo un impatto visivo al primo sguardo. L’intero edificio è coperto da una facciata in vetro, con una struttura in metallo a doppia griglia: quella principale è approssimativamente di 2 metri per 6 (e da un forte effetto di verticalità), la seconda griglia è approssimativamente di 2 metri per 3 e corrisponde alla maglia delle finestre. La capitale della Georgia cerca l’affermazione della propria identità, associando l’audacia del suo sviluppo urbanistico e architettonico ad emergenze visive caratterizzanti il paesaggio. Michele De Lucchi seguendo questa linea di pensiero, progetta il Ponte della Pace, il fiume divide il centro urbano creando una interruzione tra il nucleo storico a Ovest e il parco a Est, da cui ha inizio la nuova Tbilisi. Monumento al dialogo tra presente e passato, il ponte è composto da una passerella pedonale e da una copertura con profilo sinusoidale che sembra sospesa: non ha infatti altri appoggi che quattro pilastri sulle rive del fiume. Valicando le due arterie stradali che corrono ai lati del Mtkvari, la passerella ha una doppia accessibilità: dalle due sponde a una certa quota dei crinali e dai lungofiumi tramite quattro scale. Mediante questi progetti l’architetto è riuscito ad esprimere l’orgoglio nazionale della Georgia. Pagina a fianco: Medea Hotel, Batumi, Georgia, 2006-2011
Ponte della Pace, Tbilisi, Georgia, 2009-2010
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Intrattenimento culturale Nell’ ultimo paragrafo De Lucchi opera nel settore degli allestimenti culturali e museali, come le Gallerie d’Italia in Piazza della Scala, il museo dell’Ottocento e Novecento che espone opere del patrimonio artistico del gruppo, la riqualificazione delle biblioteche e musei, come la Triennale di Milano, dove realizza il restauro del museo del Design ed il celebre ponte di accesso in bambù, ed il Palazzo delle Esposizioni. L’intervento che l’architetto ha curato nelle sale delle Gallerie di Piazza Scala, è un viaggio nella concezione abitativa e nella fruizione dell’opera dalla fine del Settecento ad oggi. Quattro palazzi di grande valore architettonico nel centro di Milano, espongono le collezioni di Intesa Sanpaolo e della Fondazione Cariplo, in parte inedite alla cittadinanza. Le Gallerie collocate negli edifici storici, appartenenti ad Intesa Sanpaolo, sviluppano tramite il progetto diverse concezioni espositive, dove la relazione tra l’arredo e il contenitore architettonico riprende e attualizza quella delle epoche in cui i palazzi sono stati concepiti. Si accede da Piazza della Scala e il percorso di visita si conclude con una caffetteria e un bookshop affacciati su Via Manzoni. Nella sezione ottocentesca delle Gallerie, Palazzo Anguissola di Soave, costruito negli ultimi decenni del Settecento, diventa nel Novecento abitazione di Raffaele Mattioli, fondatore della Banca Commerciale Italiana. Negli anni Novanta il palazzo ha beneficiato del restauro ad opera degli architetti Valle, Broggi e Burckhardt, dove sono stati recuperati interamente i decori in oro, i gessi e gli stucchi.
Gallerie d’Italia Piazza Scala, Piazza della Scala, Milano, Italia, 2012
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La struttura decorativa ha richiesto un’esposizione indipendente dalle pareti, che avviene quasi esclusivamente con cavalletti realizzati in bronzo e realizzati su misura per reggere il notevole peso dei gessi di Antonio Canova e accogliere allo stesso modo anche i dipindi di Francesca Hayez e Giovanni Migliara. Solo in alcune sale è stata possibile un’esposizione con cavi agganciati a una barra fissata senza danneggiare le decorazioni. L’illuminazione nella maggior parte delle stanze di Palazzo Anguissola è portata dal pavimento, ciò significa che l’esposizione a cavalletti ha favorito una soluzione di illuminazione specifica quadro per quadro. Grazie a questo metodo, le lampade a led, fissate direttamente all’asta del cavalletto diffondono una luce omogenea sul dipinto. La presenza della luce diurna, che dalle finestre illumina la sequenza di stanze, porta l’occhio del fruitore ad alternare la contemplazione delle opere a quella del magnifico giardino interno, che affaccia su Casa Manzoni. Nell’Ottocento Palazzo Anguissola viene acquistato da un ricco avvocato della borghesia milanese, Giovanni Battista Traversi. Decide in seguito di realizzare un corpo anteriore affacciato su via Manzoni, l’architetto Canonica realizza un chiostro quadrato ad angoli smussati con imponenti colonne doriche. Tale chiostro costituisce oggi il nodo distributivo delle Gallerie dedicate all’arte dell’Ottocento. Completamente chiuso da una vetrata che ne esalta la forma e mette in evidenza il colonnato e il cortile che collega le sale di Palazzo Anguissola e il giardino interno. Lo spazio attraverso la vetrata, viene organizzato in due ambienti comunicanti che traggono luce l’uno dall’altro e al contempo fruiscono come due cicli espositivi paralleli, ospitando sculture importanti come il Disco in forma di rosa del deserto di Arnaldo Pomodoro, appartenente alla collezione del Novecento di Intesa Sanpaolo. Dal chiostro si accede a nove sale, che si susseguono una dopo l’altra, e attraversano l’area ottocentesca di Palazzo Brentali e Palazzo Anguissola Antona Traversi, in cui sono esposti e suddivisi per sezione tematiche i dipinti dell’Ottocento. Gli uffici della banca hanno lasciato il posto ad ambienti ottocenteschi che costruiscono un palcoscenico teatrale, ponendo le opere al centro della contemplazione. Le sale, sottolineate dal cambio di colore alle pareti, accompagnano i temi espositivi, i cui toni valorizzano le preziose cornici argentate o dorate, lavorate artigianalmente e recuperate dopo un attento restauro. Elemento di connessione nell’intero percorso è il pavimento, ricostruito e realizzato in rovere antichizzato a doghe strette, che riprende l’uso nei palazzi dell’Ottocento. Si arriva infine al Novecento con la sede storica della Banca Commerciale in Piazza della Scala, dove De Lucchi ha effettuato un attento restauro degli spazi al piano terra del palazzo, finalizzato a rendere i saloni bancari e i retro-saloni, funzionali al nuovo scopo espositivo.
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L’architetto ha trasformato i saloni in corti porticate aperte e presentano oggi un’atmosfera di antica nobiltà, con arcate e colonnati che circondano spazi destinati a diventare opere d’arte. Particolare attenzione è stata dedicata all’integrazione delle tecnologie di conservazione ed esposizione delle opere negli ambienti del palazzo, come l’opportuna climatizzazione e la resa illuminotecnica ottimale per la fruizione delle opere d’arte. Sempre a Milano De Lucchi, realizza l’elemento architettonico innovativo della Triennale Design Museum, un ponte, che permette al Museo di essere al contempo all’interno della Triennale e corpo autonomo e visibile nella sua funzione. Una sezione del Palazzo della Triennale è stata convertita a sede permanente del Museo del Design italiano, ha contribuito a definire il nuovo spazio espositivo un ponte che attraversa inaspettatamente lo scalone monumentale e che costruisce una nuova circolazione indipendente e un nuovo ingresso. Le sale all’interno sono dotate di adeguati impianti di illuminazione e climatizzazione senza alterare l’architettura originaria di Giovanni Muzio. Obiettivo del progetto era di fornire un accesso diretto al Museo, realizzando una nuova passerella che permettesse di mettere in relazione diretta due parti dell’edificio, al primo piano finora mai connesse. Il ponte è realizzato con una trave unica in lamellare di bambù, opera che da un punto di vista costruttivo non ha precedenti simili. Sotto il profilo logistico, le diverse componenti progettuali, i vetri dei parapetti, il ponte e le teste di ponte realizzate su disegno, sono state assemblate in opera. Ponte della Triennale Museo del Design, Palazzo dell’arte, Triennale, Milano, Italia, 2003-2007
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Lasciamo Milano, per parlare di Berlino, città in cui De Lucchi ha progettato l’allestimento per il Neues Museum, restaurato dall’architetto David Chipperfield a causa dei bombardamenti avvenuti nella seconda guerra mondiale. Il “nuovo” Neues Museum riunisce nuovamente le due collezioni originarie: la collezione egizia e la collezione di protostoria e preistoria, distribuite in due percorsi distinti e paralleli ma con punti di contatto, organizzandole intorno al nucleo centrale dell’Archeologische Promenade che trova spazio nelle due grandi corti coperte. La zona espositiva accessibile al pubblico è suddivisa su quattro piani, con un totale di quaranta sale distribuite intorno alle due grandi corti. Il principale carattere di allestimento è quello di intervenire con discrezione all’interno, nel rispetto della nota del tempo accumulata dalle pareti e dalle decorazioni dell’edificio. L’allestimento diventa quinidi uno strumento funzionale sensibile, atto a creare una relazione tra l’edificio, i visitatori e i reperti esposti. Nell’insieme, sembra di essere dentro ad una installazione d’arte contemporanea, le sculture di marmo colorato, le armi di bronzo, i vasi primitivi di terracotta, entrano in risonanza in questi ambienti spettacolari. Il progetto di allestimento più in particolare si compone nel cercare un sistema completo di vetrine, piedistalli, sistemi informativi e di protezione che si adatti a risolvere tutte le esigenze e nello stesso momento dia flessibilità nella futura gestione delle esposizioni.ili. Sotto il profilo logistico, le diverse componenti progettuali, i vetri dei parapetti, il ponte e le teste di ponte realizzate su disegno, sono state assemblate in opera. Neues Museum, Berlino, Germania, data di fondazione 1855
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. Attraverso questo ragionamento De Lucchi ha trovato il modo per il dimensionamento delle vetrine, seguendo una logica di “realizzazione a misura”, per favorire al meglio la morfologia delle stanze ed i reperti, simile ad una “standardizzazione” in un’ottica di produzione seriale. Il sistema risulta quindi composto da espositori monolitici, costituite da vetrine posate su piedistalli disegnati in modo tale da poter analizzare sia gli illuminatori del sistema a fibre ottiche che gli elementi del sistema di controllo climatico e di deumidificazione. I basamenti sono realizzati in conglomerato cementizio di marmo e pietre color sabbia nelle sale ricostruite mentre in ottone bronzato nelle sale storiche, inoltre possono avere forma e altezze differenti. Un’altra categoria di espositori sono quelli a tavolo, costituiti da tavoli di diversa lunghezza e profondità, possono essere allestiti con un numero variabile di vetrine. I tavoli sono realizzati in ottone bronzato nero, lo spessore e la forma del piano consentono di alloggiare e ispezionare i sistemi di controllo come nel precedente espositore. La lunghezza dei tavoli dà la flessibilità nell’esposizione consentendo di effettuarre la connessione elettrica sia dal pavimento che dalla parete, riducendo l’impatto impiantistico nelle sale storiche. La grande attenzione al dettaglio sta nella costante ricerca di coerenza tra il linguaggio dei nuovi elementi espositivi e quello del restauro architettonico.
Attraverso questo ragionamento De Lucchi ha trovato il modo per il dimensionamento delle vetrine, seguendo una logica di “realizzazione a misura”, per favorire al meglio la morfologia delle stanze ed i reperti, simile ad una “standardizzazione” in un’ottica di produzione seriale. Il sistema risulta quindi composto da espositori monolitici, costituite da vetrine posate su piedistalli disegnati in modo tale da poter analizzare sia gli illuminatori del sistema a fibre ottiche che gli elementi del sistema di controllo climatico e di deumidificazione. I basamenti sono realizzati in conglomerato cementizio di marmo e pietre color sabbia nelle sale ricostruite mentre in ottone
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bronzato nelle sale storiche, inoltre possono avere forma e altezze differenti. Un’altra categoria di espositori sono quelli a tavolo, costituiti da tavoli di diversa lunghezza e profondità, possono essere allestiti con un numero variabile di vetrine. I tavoli sono realizzati in ottone bronzato nero, lo spessore e la forma del piano consentono di alloggiare e ispezionare i sistemi di controllo come nel precedente espositore. La lunghezza dei tavoli dà la flessibilità nell’esposizione consentendo di effettuarre la connessione elettrica sia dal pavimento che dalla parete, riducendo l’impatto impiantistico nelle sale storiche. La grande attenzione al dettaglio sta nella costante ricerca di coerenza tra il linguaggio dei nuovi elementi espositivi e quello del restauro architettonico.
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Luciano Baldessari
a cura di Giulia Caleca
La vita 1: Nella lettera datata 22 dicembre 1972, Luciano Baldessari scrive all’amico Giulio Carlo Argan, confidandogli questo aneddoto sulle sue lezioni con il maestro Depero: “Nel 1909 – contavo allora tredici anni – Depero tentava con l’ausilio di una scatola di fiammiferi di illuminarmi sulla teoria della prospettiva: non ci riuscì e, dopo tre lezioni, mi piantò disilluso […]” (Fondo Luciano Baldessari, MART).
2: Maestro di altri futuri artisti fra cui lo stesso Depero, Fausto Melotti (ingegnere, scultore e pittore), Tullio Garbari (pittore), Giorgio Wenter-Marini (architetto e pittore). 3: Da una lettera al fratello Mario, in data 7 febbraio 1929: con oggi frequenterò delle lezioni (straordinarie per me) del professor, famoso come artista, Mentessi, di scenografia. Per me saranno, lo spero, lezioni utili per lo studio architettonico-pittorico di interni. Archivio Baldessari, Mart, Rovereto
Nacque a Rovereto (Trento) il 10 dicembre 1896, da Leopoldo Baldessari, calzolaio, e da Maria Casetti, fu il sesto di nove figli. Nel 1906, alla morte del padre, venne accolto nell’istituto orfanotrofio della sua città, dove incontrò Fortunato Depero, che lo avviò all’arte impartendogli lezioni di disegno1. Nel 1909 si iscrisse alla Scuola reale superiore elisabettiana, impostata sui programmi didattici del Werkbund tedesco, e anche qui ebbe la fortuna di incontrare un maestro di disegno di grande qualità, Luigi Comel2, come pure molti compagni di talento con i quali presto divise le inclinazioni futuriste. Conseguì il diploma nella medesima scuola, trasferita a Vienna, nel 1918. Negli ultimi mesi del conflitto mondiale fu arruolato nell’esercito austriaco. Dopo l’armistizio, passò subito a Milano, per frequentarvi il politecnico, e contemporaneamente seguì i corsi di prospettiva scenografica presso l’Accademia di Brera3. Si laureò in architettura il 14 dicembre 1922. Nel 1923 si trasferì a Berlino, dove tenne nel 1925 una mostra di acquarelli nella galleria dell’editore Gurlitt e iniziò l’attività scenografica per il cinema e il teatro, che sarebbe restata sempre uno dei suoi prediletti campi d’espressione; nell’estate del 1925 soggiornò a Parigi. Rientrò in Italia nel 1926 e incominciò a intrattenere fecondi rapporti con l’industriale Carlo Frua, che sarebbe divenuto uno dei suoi più qualificati committenti ed amici, e con gli architetti fondatori in quello stesso periodo del Movimento razionalista italiano, oltre che con il gruppo degli astrattisti comaschi; il teorico dell’astrattismo italiano, Carlo Belli, suo conterraneo, già da tempo suo amico. A Milano Baldessari aprì nel 1928 il suo primo studio, in via S. Marta, svolgendo nei primi anni soprattutto un’intensa attività di scenografo. Del 1930 è il progetto del nuovo caffè-bar Craja in vicolo S. Margherita, che egli realizzò insieme con gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, chiamando a collaborare per le decorazioni anche Marcello Nizzoli e Fausto Melotti, altro suo conterraneo. Oltre ad essere uno dei primi esempi di architettura moderna in Italia, sarà prevalentemente frequentato da artisti d’avanguardia. Negli anni successivi fu presente con varie opere e interventi a importanti manifestazioni espositive, come la Triennale di Milano, e progettò numerose case d’abitazione. Nel 1939 allo scoppio della seconda guerra mondiale, da convinto antifascista, si trasferì a New York, dove visse per nove anni, praticando, poiché non gli era riconosciuta la laurea italiana in architettura, pittura e scenografia.
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Tornato a Milano, incominciò a progettare padiglioni per la Fiera campionaria (notissimo il padiglione Breda del 1951) ed entrò nella giunta esecutiva della Triennale. Baldessari non abbandona l’attività di scenografo, che gli era specialmente congeniale, e di progettazione d’interni (nel 1981 la ditta Luceplan mise in produzione la celebre lampada Luminator ideata dal B. nel 1929); e aveva a più riprese continuato a disegnare e dipingere con libero estro. Nel 1965 aveva sposato a Basilea l’attrice Schifra Gorstein, dalla quale avrebbe divorziato nel 1977. Nel 1982 sposò a Milano Zita Mosca, che con lui collaborava sin dal 1967. Morì a Milano il 16 sett. 1982.
L’ architetto Baldessari in una foto degli anni ‘50
Disegno futurista. Promenade, 1915. CASVA, Centro di alti studi sulle arti visive, Milano.
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L’opera Luciano Baldessari è una delle figure più importanti e una fra le meno conosciute relative all’architettura e alla scenografia nel periodo fra le due guerre. E’ un personaggio che fa a sé nella storia dell’architettura italiana, per non poter essere inserito in un gruppo organizzato e definito. Egli si riconosceva volentieri esponente del razionalismo, essendo la sua produzione, specie nel corso degli anni Trenta, ispirata ai principi di sinteticità, funzionalismo e rifiuto delle sovrastrutture esornative che accomunano tutti gli architetti di quell’indirizzo. La sua adesione al futurismo, rimane marginale sotto il punto di vista ideologico: non è un’adesione profonda la sua, non sente l’appartenenza al gruppo e la sua esperienza nel movimento rimane prettamente personale. È vero d’altra parte che la sua opera è fortemente permeata dalle suggestioni dell’espressionismo tedesco, cui egli era stato vicino negli anni della formazione e che in qualche modo era in linea con la matrice futurista della sua attività giovanile. La sua personalità artistica forte e matura gli permette di tenere ciò che reputa valido dell’avanguardia da riportare e mantenere nella sua arte: il futurismo rimane riconoscibile nelle sperimentazioni cromatiche e nell’interesse di analizzare contemporaneamente i prospetti di uno stesso oggetto (operazione e metodo che poi sfocerà nel cubismo). Questo modo di attingere dalle espressioni artistiche sarà uno dei suoi punti di forza, la compenetrazione fra le correnti artistiche gli forniranno un bagaglio culturale tale da permettergli di confondere ed amalgamare in maniera naturale e costante le caratteristiche di ognuna: ad esempio attraverso il futurismo, e successivamente l’espressionismo, riuscirà ad attuare una rilettura personale del razionalismo, rendendolo più morbido ed intenso nelle intenzioni. È un artista, un tecnico, libero, obbediente solo alle sue esigenze costruttive ed artistiche. Nel corso della sua carriera resterà sempre fedele a se stesso, scegliendo la strada della multidisciplinarità, strada tutt’altro che semplice ma che riuscirà a portare avanti egregiamente. Sa essere a proprio agio con la scultura, con le tecniche di pittura, con l’architettura e col teatro attraverso la stessa sicurezza e professionalità libera, estetica e attenta alle esigenze collettive. Questa sua libertà professionale, non chiusa in una rigidezza disciplinare, si rispecchia nella sua concezione di vita: non abbiamo testimonianze di una sua partecipazione in prima persona ad attività politiche, tuttavia possiamo definirlo un anarchico di sinistra, e forse questa sua libertà affascinante, coerente e mai conformato a ciò che potevano aspettarsi da un architetto sarà il vero motivo del suo esilio professionale. La sua è una grafia forte, veloce, incisiva e sicura, ispirata dalle teorie di Balla e Boccioni e ovviamente dalla vicinanza, fisica e stilistica, di Depero. Predilige i segni morbidi e curvilinei alle linee secche e rette, utilizzando la
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luce e l’ombra come pretesto di opposizione. Una volta arrivato a Vienna all’inizio della guerra, frequentò l’ultimo anno della Scuola Reale Elisabettina. I disegni sono testimonianza dell’adesione di Baldessari al Circolo futurista trentino, fondato a Rovereto nel 1913 da Fortunato Depero, adesione di spirito e tecnica. Nonostante sia attivo e produttivo in architettura, soprattutto con quella che è definita “architettura pubblicitaria”, solo nel teatro poté esprimere tutta la sua creatività e fantasia per mezzo dell’ideazione di finizioni sceniche. Nel gennaio del 1923 si trasferisce a Berlino, dove soggiorna fino al 1926. Qui lavora in qualità di scenografo per il teatro e si dedica parallelamente alla pittura e al disegno, realizzando ritratti e opere a carattere paesaggistico. Torna in Italia nel maggio del 1926. Nel giugno del 1927 realizza l’allestimento della Mostra della Seta a Villa Olmo (Como).
Serie di bozzetti cromatici relativi al Museo della Seta di Como, 1927. CASVA, Centro di alti studi sulle arti visive, Milano.
Ancora nel 1927, progetta l’arredamento della biblioteca - libreria Notari in via Montenapoleone, a Milano. Nel 1928 apre il primo studio milanese in via Santa Marta 25. Nello stesso anno progetta l’allestimento della Mostra della Moda al Teatro Excelsior di Venezia e il Teatro della Moda alla Fiera Internazionale di Milano e al Teatro dell’Esposizione di Torino. Fra il 1928 e il 1930 realizza numerose scenografie per il teatro. Partecipa all’Expo di Barcellona del 1929 progettando lo Stand Tessili Italiani e il manichino metallico “Luminator”. Nel 1930 riceve l’incarico di progettare il bar Craja, cui invita a collaborare Luigi Figini, Gino Pollini e Fausto Melotti. Oltre ad essere uno dei primi esempi di architettura moderna in Italia, costituirà il luogo di incontro preferito degli artisti d’avanguardia. Seguono anni di intensa progettazione architettonica nel segno del razionalismo, da cui nascono lo stabilimento Italcima (Milano, 1932), il Padiglione della Stampa alla V Triennale (1933), il progetto per la Città Cinematografica di Milano (1933, non realizzato), due sale per l’Esposizione dell’Aeronautica Italiana al Palazzo dell’Arte di Milano (1934), la casa d’abitazione di via Pancaldo (1934 - 35), un padiglione per l’Expo Internazionale di Bruxelles (1935) e il progetto - non realizzato - per un complesso di abitazioni e uffici in piazza San Babila (commissionato da Carlo De Angeli Frua, 1936 - 37).
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Fotografia di un prototipo di “Luminator”Collezione “Quaderni di Architettura e Design”, n ° 1Galleria del Levante, Milano.
Fotografia del “Caffe Craja”
Stampa fotografica del Padiglione Breda del 1951, il primo di una serie di padiglioni realizzati tra il 1951 e il 1956 con l’impresa di costruzioni A. Morganti e su incarico della Finanziaria Ernesto Breda S.p.A. in occasione di diverse edizioni della Fiera Internazionale di Milano (Politecnico di Milano, Dipartimento Indaco, Archivio Luciano Baldessari).
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Schizzo dell’ allestimento per la Mostra di Lucio Fontana a Palazzo Reale, Milano, 1972.
Nel dicembre 1939 sbarca a New York, dove soggiornerà fino al 1948. Qui realizza un progetto per il Teatro della Moda di Elizabeth Arden, il ristorante self-service “Alma Products Inc.”, numerose scenografie e opere pittoriche e grafiche. In questi anni frequenta José Luis Sert, Fernand Léger, Stamo Papadaki, Mies van der Rohe, Walter Gropius e numerosi degli “émigrés” che avevano lasciato l’Europa a causa della guerra. Tornato a Milano progetta l’atrio e lo scalone d’onore alla IX Triennale di Milano (1951), che comporta la “regia” delle opere di numerosi artisti invitati a partecipare. In quest’occasione Lucio Fontana realizza il suo celebre “cirro luminoso”, sopeso sul soffitto del salone d’onore. Dal 1951 al 1956, Baldessari è incaricato dalla Breda di progettare i propri padiglioni alla Fiera Internazionale di Milano: l’architetto vi chiama a collaborare Lucio Fontana (1953 e 1954), Attilio Rossi (1954) e Umberto Milani (1954). Opere come il padiglione Breda malauguratamente smantellato e demolito e molti dei progetti non realizzati, mostrano una precisa tensione simbolica che anima la rigorosa semplicità delle strutture. Troviamo il retaggio futurista, liberamente inteso, e una concisione plastica in linea con le indicazioni delle scuole scenografiche franco-tedesche La collaborazione fra Baldessari e Fontana si ripete anche in occasione della progettazione del padiglione Sidercomit alla Fiera del 1953, cui partecipa anche Attilio Rossi. Negli stessi anni è autore di importanti allestimenti di mostre d’arte: quella su Van Gogh a Palazzo Reale di Milano e sul Risorgimento Mantovano alla Casa del Mantegna di Mantova (1952, entrambe con Attilio Rossi); quelle su Rembrandt e il Seicento Olandese (1954), su Arte e Civiltà Etrusca (1955) e su Modigliani (1958) a Palazzo Reale, dove, in collaborazione con l’architetto Zita Mosca, realizza in seguito anche le mostre su Roberto Crippa (1971), Lucio Fontana (1972) e la mostra “La ricerca dell’identità” (1974). Nel 1956-57 è invitato a progettare un grattacielo all’Hansaviertel di Berlino. Dal 1958 è capogruppo per la progettazione di un lotto di edifici residenziali nel quartiere INA - Casa Feltre a Milano.
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Del 1962 - 66 è il progetto per la casa di riposto “Villa Letizia” a Caravate (Varese), con la contigua cappella di Santa Lucia. Gli ultimi anni dell’attività professionale di Baldessari sono punteggiati da numerose mostre, sia personali che collettive (Museo Teatrale alla Scala, Milano, 1969 - 70; Palazzo Rosmini, Rovereto, 1970; Galleria Pancheri, Rovereto, 1975; Biennale di Venezia, 1976 e 1978; Galleria Schettini e Fondazione Corrente, Milano, 1978, Institut Culturel de Paris, 1981). Nel 1978 viene insignito del premio “A. Feltrinelli” dall’Accademia Nazionale dei Lincei. Per la mente di Baldessari il verbo progettare fonde e racchiude in se l’essenza di un intero, ogni progetto è come parte di uno stesso processo, che sia un bozzetto di scenografia, un palazzo, uno stand espositivo, un oggetto d’uso comune, un arredamento. La sua concezione è quella di doversi sempre confrontare con la materia architettonica, con le sue resistenze, caratteristiche, materie, scabrosità. La sua pittura sfiora il paesaggio reale, sfrutta la fantasia dell’elemento d’architettura per poi immetterlo nella sfera teatrale. Il suo interesse e la sua attività si fondò su una triade artistica: futurismo, espressionismo e razionalismo.
“Luciano Baldassari è l’artista più completo tra i moderni, il più rinascimentale, colui che porta, insomma, ad espressione, con qualunque processo artistico intenda operare, e ne impiega diversi, l’integralità massima dell’uomo. Baldassari è pittore, scenografo, architetto, arredatore e illustratore di mostre, e invece di svolgere attività particolaristiche, proprio oggi che si cerca la pura pittura, la pura scultura, la pura architettura, arrivando nello smontaggio alle estreme amputazioni, egli è sempre unitario, nel senso che in ogni sua opera, se pure classificabile per l’estrinseco a una singola arte, ci sono gli elementi di tutte le altre.” Italo Cinti
Riferimenti http://www.treccani.it/enciclopedia/luciano-baldessari http://www.architetti.san.beniculturali.it http://siusa.archivi.beniculturali.it
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Gae Aulenti
a cura di Claudia Ciccone
Tra passato e presente Gaetana “Gae” Aulenti (Palazzolo dello Stella, 4 dicembre 1927 – Milano, 31 ottobre 2012)
Famosa per i suoi interventi prettamente urbanistici e architettonici, Gae Aulenti, nel corso della sua carriera professionale, seppe spaziare tra arredamento, design, progettazione degli spazi, architettura d’interni, allestimenti di mostre, showroom e scenografie teatrali. Allieva di Ernesto Nathan Rogers, aveva ereditato pienamente il suo insegnamento. Dal particolare al generale, dal cucchiaio alla città’ era il motto del maestro, e lo fece suo. Era molto colta, ma possedeva un sapere frizzante, generato dalla curiosità e dalla passione per la lettura più che da uno sterile accademismo, respirava a pieni polmoni il fertile dibattito sull’architettura degli anni della collaborazione con la rivista Casabella-Continuità e testava con mano la dimensione pratica del mestiere nella stretta collaborazione con i tecnici e gli artigiani. Come protagonista di primo piano dell’architettura e del design contemporaneo quale è stata, osservava con occhio critico e attento l’evolversi del modernismo: ha bocciato l’eccesso e la volgarità nell’architettura moderna, ha rimpianto la non multidisciplinarietà dei giovani designer poiché “Non hanno il senso dello spazio”, ha sempre sognato una Milano più verde. E ha ricordato che, nonostante tutto, nell’architettura valgono sempre le stesse regole: essere sintetici, analitici, estetici e profetici. La Milano degli anni Cinquanta ha fatto da sfondo alla sua formazione: in quegli anni l’architettura italiana è concentrata sul recupero storico-culturale del passato in funzione all’ambiente circostante. Il Design Gae Aulenti è stata capace di guardare al razionalismo e al good design attraverso la lente del Neoliberty e dell’Art Deco e di reinventarli con eleganza (come nella lampada Pipistrello o nella sedia Sgarsul) ma anche capace di recuperare con ironia la pratica dell’assemblage e la lezione delle avanguardie (come nel Tavolo con ruote).
Quella che si vede nell’immagine è infatti la lampada pipistrello, una delle più famose realizzazioni di Gae Aulenti. La lampada venne realizzata nel
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1965 appositamente per l’allestimento del negozio Olivetti di Parigi. Il negozio venne aperto nel 1959, ma poi venne completamente riallestito da Gae Aulenti sei anni dopo. Qui sotto invece Gae Aulenti e Guido Soavi davanti al negozio Olivetti di Parigi.
Tavolo Tour Fontana Arte, un grande classico del design firmato Gae Aulenti. Le gambe sono sostituite da ruote di bicicletta, fissate al piano in vetro temperato molato (spessore 15 mm) con quattro piattelli in acciaio inox, le ruote sono pivotanti a 360°. Queste 4 ruote sono dotate di forcelle cromate e di veri e propri pneumatici in gomma piena, che consentono di spostare facilmente il tavolo in tutta la casa. Tour un tavolo in cristallo sostenuto da ruote di bicicletta, pronto a uscire dal soggiorno per riversarsi in strada.
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E nel 62’ per Aulenti arriva la Sgarsul, reinterpretazione della sedia a dondolo derivata dall’incrocio di due ellissi in legno curvato. Gae Aulenti agisce quindi in un contesto specifico, trovando una perfetta fusione tra le esigenze della modernità e i teoremi e gli archetipi compositivi del passato nell’architettura come nel design.
Allestimento Franco Albini 1958-1960
Pilastro rosso al cento dello showroom
L’opera museografica Il suo progetto più noto e che le ha dato fama mondiale, per cui è stata invidiata e molte volte osteggiata, è stato senza dubbio la trasformazione della stazione ferroviaria di Paris Orsay in Museo di Arte Moderna “Musée d’Orsay”. Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento nell’Europa del nord si sviluppò l’interesse per il recupero dei siti industriali dismessi con l’intento di dare a questi edifici una nuova funzione d’uso. A Parigi nel 1978, sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing, si decise di trasformare la Gare d’Orsay in museo grazie anche alla tenacia di alcuni cittadini che si opposero allo smantellamento della struttura. La stazione risale al 1900, progettata dall’architetto Victor Laloux in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi; la struttura si distinse per l’uso di metallo, di pietra e di vetro che ne fecero un esempio di modernismo architettonico. Il progetto per la trasformazione della stazione in museo fu affidato allo studio ACT-Architecture MM. Bordon, Colboc e Philippon che vinse il concorso e valorizzava al meglio la struttura originale rendendola contemporanea. La progettazione degli allestimenti interni fu affidata all’architetto Gae Aulenti coadiuvata da Italo Rota, Piero Castiglioni (architetto delle luci) e Richard Peduzzi. La linea seguita per l’allestimento dello spazio è stata quella di guardare l’edificio come un oggetto contemporaneo; in questo modo gli architetti progettarono le diverse sale espositive seguendo un doppio sistema di relazioni: le opere che il museo doveva conservare ed esporre e l’architettura dell’edificio. La scelta dei materiali è stata in relazione ai materiali esistenti; ad esempio la pietra calcarea chiara amplifica la luce che entra dalla volta a vetrata.
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Si è posta il problema di chi fosse lo spettatore rispetto alla rappresentazione. Questa riflessione le è stata molto utile nella progettazione, perchè ha potuto tener presente il visitatore, sapendo chi è: ma non in senso sociologico. Non gli interessava se i visitatori erano giovani o vecchi, intellettuali o meno, ma piuttosto preoccuparsi nel del mondo in cui poter condurli durante la visita. Di quali cariche di energia doveva dare all’allestimento perchè la visit non sia passiva. Si è impegnata a creare una esposizione unificata nell’ambito di una grande diversità di volumi, soprattuto riguardo l’omogeneità dei materiali utiliazzati.
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Lo showroom urbano Tra il 1958 e il 1959 la Sampo (che nel 1970 diventerà Olivetti France) trasferisce la sua sede principale nel nuovo edificio al n. 91 della Rue du Faubourg St. Honoré, nel cuore di Parigi, via prestigiosa, ricca di storia. Il compito di elaborare questo progetto è affidato a Franco Albini, che si avvale della collaborazione di Franca Helg che fa parte del suo studio. Nel 1966, a distanza di neppure dieci anni, considerato il forte impatto in termini di comunicazione e immagine derivante dal negozio situato in un luogo così prestigioso, l’Olivetti ritiene di avviare un sostanziale rinnovo dell’allestimento. Questa volta il compito è affidato a Gae Aulenti, a cui poco tempo dopo verrà chiesto di lavorare anche all’allestimento del negozio di Buenos Aires. Il nuovo progetto di Gae Aulenti: una piazza d’Italia a Parigi. Con il nuovo progetto l’ambiente del negozio, aperto nell’aprile 1967, muta completamente aspetto. Alcuni prodotti sono esposti su gradoni, simili a bianche scalinate, e su ripiani incorporati in bianche pareti sinuose, che movimentano il locale e offrono bassi “muretti” per sedersi; al centro un pilastro rosso, a forma di capsula spaziale, con ripiani ritagliati nell’incavo e utilizzati come espositori. Una scultura tribale africana di forme singolari richiama l’attenzione e diviene ben presto il segno distintivo dello showroom. Tra i materiali utilizzati, dominano i laminati plastici e l’acciaio inossidabile, tipici elementi del mondo industriale largamente utilizzati anche in Olivetti. Come la stessa Gae Aulenti spiega in un articolo pubblicato su Notizie Olivetti poco dopo l’apertura del negozio, il nuovo design del negozio di Parigi insegue l’idea di realizzare una piazza d’Italia. L’allestimento si è infatti preoccupato di garantire l’unicità dell’ambiente, ben percepibile anche da chi passando per la via si affaccia alle due vetrine; i gradini sui lati richiamano l’idea di una scalinata che accede alle case; le forme curvilinee e i diversi livelli degli espositori ricavati in vario modo vivacizzano l’ambiente senza romperne la continuità e senza ostacolare il colpo d’occhio complessivo della “piazza”. Al centro il pilastro rosso e la scultura tribale sono ad un tempo i monumenti della piazza e il segno di una presenza viva. Alcune macchine per scrivere sono disposte su un lungo piano ricurvo preceduto da un livello o ripiano dotato di alcuni cuscini in cuoio che permettono ai clienti di accomodarsi e provare i prodotti esposti. Una fascia continua in acciaio cromato percorre tutto il negozio e funge da sostegno per le prese di corrente. L’illuminazione generale del negozio è affidata ad elementi non a vista, a cui si aggiungono alcune lampade da tavolo, poste sui ripiani, che oltre a migliorare l’illuminazione rendono più accogliente l’ambiente. Riferendosi alle idee che hanno ispirato l’allestimento, Gae Aulenti si esprime in questi termini: “dentro questo spazio ci sono tre elementi, tre simboli, tre punti fermi intorno ai quali ruota la composizione: la scala, un elemento architettonico simbolo della continuità; il pilastro centrale, che riconduce all’idea della capsula; la forma dell’avvenire e l’Uomo”.
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Scenografie teatrali Gae Aulenti si è sempre dedicata all’architettura e al design ma nel 1975 ha allestito scene teatrali come quella del “Barbiere di Siviglia”.
Ha definito lo spazio con degli armadi sospesi, quando qualcuno andava a nascondersi, glia armadi ondeggiavano. In teatro si può mettere in discussione anche quella base indiscutibile dell’architettura che è la forza di gravità. E’ nel teatro, nella collaborazione con il regista Luca Ronconi, che Gae Aulenti esce dagli schemi strutturali dell’architettura per lasciarsi sedurre dalla dimensione fantastica di uno spazio scenico, per sua stessa natura effimero. Nel mondo del teatro gli oggetti prendono vita autonoma, giocano con gli equilibri di senso per trasformarsi in altro perché, come dice lo stesso architetto, “una porta in architettura è una porta, un passaggio da un luogo all’altro,e basta; a teatro invece ha dei significati molteplici: può essere il dentro e il fuori, della psicanalisi; può essere il limite, il confine, può essere l’apertura”. Con il teatro si aggiunge una nuova dimensione alla progettazione: il tempo. Il teatro è azione nel tempo e nello spazio, dove lo spazio diventa luogo e personaggio dell’azione e dove tempo e spazio diventano unità in districabili. Ma se la scenografia è resa viva dall’azione teatrale e trova in essa il suo senso, l’architettura invece è generata da un contesto storico che è il luogo in cui essa nasce, cioè la città, fatta di tracce storiche ed urbane in un legame non solo fisico ma anche concettuale con il presente e con il passato.
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Ettore Sottsass
a cura di Sara Margutta
La vita La storia del design italiano passa attraverso l’opera dell’architetto e designer Ettore Sottsass junior, figlio dell’architetto Ettore Sottsass senior. Nato nella città austriaca di Innsbruck, Ettore Sottsass nel 1939 si laureò in architettura al Politecnico di Torino. Venne poi chiamato dall’ esercito italiano e partecipò alla Seconda guerra mondiale in un campo di concentramento jugoslavo dove era tenuto prigioniero. Questa esperienza generò in lui un forte sentimento antinazionalista che rifletterà in alcune creazioni dotandole di note egalitarie tramite la scelta di materiali che potevano venire prodotti e venduti a bassi costi, o impiegando forme innovative. Sottsass era orientato verso un approccio alla progettazione innovativo dove in un oggetto l’ aspetto funzionale aveva valore solo se associato ad elementi sensuali e stimolanti per la mente. In accordo con la sua filosofia talvolta un prodotto poteva prescindere dal funzionalismo in senso stretto, come appare in alcune delle sue creazioni iconografiche, e nelle collezioni di Memphis. Quando nel 1945 tornò in Italia lavorò per un anno insieme al padre, e a Milano aprì il proprio studio che divenne la pietra miliare di un periodo durante il quale dipinse, scrisse per la rivista di design e architettura Domus, e fu curatore alla Triennale di Milano. L’ambiente e il contesto di riferimento di Ettore è il design italiano: un laboratorio sperimentale di dimensioni internazionali. Cioè un territorio operativo nel quale vengono prese decisioni che hanno una specificità italiana, ma anche una dimensione piu vasta che riguarda la storia e le grandi questioni del sistema industriale. Non si tratta di un atteggiamento internazionalista, ma di un senso di vasta responsabilità comune a tutta l’Europa, che in lui è presente in duplice misura per le sue origini italiane e austriache. Ciò che lo affatica non è il lavoro ma la responsabilità che il lavoro comporta alla fine davanti alle tragedie e alle felicità umane. La felicità apparente dei segni di Sottsass deriva dall’intrinseca drammaticità di tutto il suo lavoro: il sorriso del gioco coincide con la coscienza della solitudine dell’uomo e con l’impegno a offrirgli strumenti e fiori per la sua esistenza solitaria. Il contesto del design del dopoguerra nel quale il giovane Sottsass comincia a operare, è quello di un ambiente distrutto fisicamente e politicamente, dove il passato viene rimosso e il futuro viene affrontato senza una metodologia. Il clima del dopoguerra italiano è segnato dalla volontà di progettare contro qualcosa, perché questa è l’unica maniera di progettare a favore di qualcosa. Non si cercano certezze scientifiche nel progetto , ma al contrario ci si appassiona nell’aprire nuovi interrogativi. Vi è già l’idea
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di una modernità imperfetta, problematica, in espansione. L’interlocutore del design italiano è l’industria ma ambedue conservano e difendono la propria autonomia, offrendola come un bene reciproco, nel senso che il design non si sente un semplice tecnico, e l’industria bada ai suoi affari e non alle crociate culturali. In Italia a differenza degli altri paesi europei, i governi impediscono di attivare processi di modernizzazione, difendendo gli interessi dei ceti medi contro il capitale industriale.
1 Olivetti Valentine è una macchina per scrivere della Olivetti nata nel 1968 dal progetto di Ettore Sottsass. Il modello venne messo in produzione l’anno successivo, nel 1969. In Italia è conosciuta soprattutto come la rossa portatile, ma ne sono state prodotte anche di colore bianco per l’Italia e blu e verde rispettivamente per la Francia e la Germania, oggi praticamente introvabili.
Nel 1956, Sottsass esplorò New York ed ebbe un’ esperienza di lavoro con l’ affermato designer George Nelson che ebbe una notevole influenza sulla sua carriera ispirandolo a concentrarsi nell’ esercizio del design industriale di prodotto invece che dell’ architettura. Tornato in Italia fu invitato a lavorare come consulente di design dalla compagnia produttrice di oggetti di elettronica Olivetti dove sviluppò in pieno il concetto di design iconografico. Un eccellente esempio, se non il più rilevante, è una macchina da scrivere chiamata Valentine alla quale, tramite un’ efficace rappresentazione sia nell’ ambito della pubblicità, che della comunicazione di massa più in generale, venivano aggiunti dei forti valori emotivi che erano capaci di definire un ruolo in cui una persona di sesso femminile moderna poteva identificarsi. Il concetto del prodotto iconografico da lì generato venne successivamente applicato a vari campi del design sia alto che basso, e all’ abbigliamento da altri designer e produttori. Usando la sua comprensione della psicologia Ettore Sottsass era riuscito creare uno strumento che un individuo poteva usare per rappresentare se stesso fra gli altri, e poteva essere usato efficacemente per dare appoggio a nuove ideologie. A differenza di quanto alcuni critici pensavano, non era impegnato a promuovere una specifica ideologia mentre progettava la macchina da scrivere Valentine1, ma solo nella creazione di uno strumento di rappresentazione che una persona potesse usare. I valori della macchina da scrivere Valentine identificavano un modello di comportamento personale che non era attinente ad una classe, ma ad uno stato d’ animo. Sembra avere solamente offerto alle masse un concetto puro che un individuo può usare per obiettivi personali, che entità comunicatrici possono usare per ottenere un risultato più ampio, e che entrambi possono adattare per fare in modo che si addica ad un goal sociologico.
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I viaggi Sottsass punta subito ad una vasta dimensione internazionale, compiendo, nel 1961 due lunghissimi viaggi. Il primo viaggio avviene in India: ciò che ne deriva non è un patrimono linguistico o formale, ma la base di un atteggiamento che lo accompagnerà sempre. Questo atteggiamento consiste in una sorta di accettazione globale del cosmo, delle sue leggi, delle sue tragedie e della storia. Una accettazione non acritica, non indifferente, ma basata sullo spostamento dei sistemi critci e selettivi, tipici della nostra cultura cattolica e razionalista, verso un piano di coscienza planetaria, di visione simultanea del bene e del male, della vita e dela morte. Tutto questo è tipico della cultura orientale e dell’India: essa produce una tragica calma esteriore e interiore,e una energia eroica che non ha più paura di niente. Compie nello stesso anno il suo viaggio in America, per curarsi di una gravissima nefrosi che lo porta alle soglie della morte e successivamente una volta guarito a frequentare i poeti beat della West Coast. Il suo atteggiamento è già totalmente predisposto a capire la nuova civiltà che sta nascendo. Questa presa di possesso della realtà, questa profonda, preliminare immersione nell’esistente, è simile a un atteggiamento nietzschiano di accettazione della storia e ha origine nell’India: fuori dal moralismo, dalla politica, prima dell’architettura. La sua adesione alla cultura dei consumi come superamento del razionalismo europeo è quindi del tutto particolare: egli non è mai stato un artista pop come gli americani, né un vero radical designer come i giovani italiani. Egli accetta l’America attraverso l’India: anzi esse sono due aspetti della stessa questione. Dai poeti della West Coast apprende una dimensione diversa del concetto di politica: essa non coincide più con i grandi programmi ideologici e sociali, ma con la prassi di una creatività legata alla vita. Letterature e esistenza sono per loro la stessa cosa, e ciò significa che l’estetica diventa un valore politico. La sua formazione trovò subito una grande corrispondenza con i gruppi avanguardistici nascenti in Italia, in particolare con quelli fiorentini incontrati nel 1966. Sottsass pur attraversando da protagonista da stagione dell’architettura radical, non è mai stato un vero radical designer. Quella stagione rivoluzionaria non ha spostato di un millimetro il suo modo di operare, anzi, lo ha confermato. Nell’ambiente esposivo dei gruppi giovanili dell’avanguardia di Firenze, egli ha trovato la giusta pressione ambientale, un contesto impegnatissimo a rinnovare nei modi, nei segni e nei pensieri la cultura del progetto. Egli ha portato nella stagione radical, tra il 1966 e il 1972, soprattutto la sua matura dimensione antropologica e i suo già consolidato spessore professionale.
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Dai radicali a Memphis Con le proposizioni e le intuizioni del gruppo londinese degli Archigram2 inizia un radicale processo di revisione e rifondazione dell’ambito disciplinare dell’architettura e del progetto. In Italia sono le esperienze della seconda metà degli anni sessanta a esprimere nel modo più articolato e complesso il divenire di una ricerca perfettamente intonata anche alla naturale evoluzione della cultura giovanile del tempo e interprete ortodossa degli elementi originati dalla maturazione di questa. La mostra sulla pop art inglese e americana e sull’arte e le ricerche concettuali sono senza dubbio, in quegli anni, riferimenti imprescendibili, inevitabili, che condizionano ogni tipo di operatività di ricerca. Ma c’è negli scritti e nelle visualizzazioni in forma di mobili e disegni di Ettore Sottsass, una maniera di anticipare gli indirizzi di ricerca di ogni aspetto della sperimentazione italiana di quegli anni, perché il suo lavoro, a partire dai primi anni ’60, per Poltronova, per Bitossi, per Abet Print, indicava un superamento, una fresca noncuranza per le limitazioni di scala, di linguaggi e di convenzioni, e mostrava percorsi di ricerca possibili, affrontati con naturalezza, addirittura con facilità. Nel ’77-’78 si comprendono le destinazioni, oggetti d’uso, elementi di arredo, le prime trascrizioni in forma di una possibile produzione industriale, si sospende la sequenza analitica di definizioni assiomatiche e si passa a una proposizione progettuale più disponibile a interpretare le tipologie del quotidiano. Ettore Sottsass aveva capito che il concetto di funzionalità razionalista in realtà non era razionale e obbiettivo come i sostenitori professavano, perché era basato su un insieme di presupposti su come dovessero essere i mobili di cui una persona aveva bisogno. Le sedute lounge razionaliste sembrano essere il risultato obbiettivo di accurate osservazioni di ciò di cui il corpo umano ha bisogno, mentre al contrario, essendo disegnate in modo da permettere soltanto la posizione supina, riflettono dei pregiudizi sul modo in cui ci si aspetta che la gente si rilassi. Aveva identificato i presupposti razionalisti come parte della struttura psicologica che creava le basi della repressione e del nazionalismo, e con Memphis cercava di rimpiazzarne l’ assolutismo con idee di funzionalità che ancora non erano state esplorate. Il movimento si avvaleva della partecipazione di molti designer e architetti che erano interessati alla sperimentazione di un nuovo metodo di design che era indirizzato verso la liberazione della professione del design dai pregiudizi, e che consentiva ai designer di essere più auto espressionisti e creativi. Fra di essi c’ erano Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Matteo Thun, Aldo Cibic, Nathalie du Pasquier, e George Sowden. La loro interazione produsse creazioni da un’ idea di funzionalismo che cominciava da zero, e che poteva facilmente essere confusa con la celebrazione del design non funzionale da coloro che non la capivano.
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Archigram fu un gruppo di avanguardia architettonica formatosi negli anni sessanta del Novecento, basato sull’Architectural Association di Londra. Si possono definire futuristi, anti-eroi e pro-consumismo, traendo ispirazione dalla tecnologia al fine di creare una nuova realtà che è stata espressa unicamente attraverso progetti.
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Nel 1972 il MOMA di New York organizza una grande mostra di design italiano nella quale il curatore Emilio Ambasz accosta i maestri e la nuova generazione nata dai movimenti di avanguardia. L’evento segna un momento molto importante perché rappresenta un’occasione di promozione internazionale del prodotto industriale italiano e al contempo una riflessione sui nuovi fermenti intellettuali nel campo progettuale che risentivano del clima politico e sociale che l’Italia stava vivendo.
I mass media pubblicizzarono Memphis, ma lo dipinsero in modo distorto per farlo apparire al pubblico come un trionfante, ma caotico sistema per divertirsi vandalizzando il concetto del disegno industriale classico. La platea dei mass media era spinta a credere che il movimento mirasse alla sperimentazione dei colori accesi e delle forme insolite di per se stessi invece che nel tentativo di contribuire alla creazione di una società più libera e indipendente. Nel 1985 Ettore Sottsass mise fine alle rappresentazioni paradossali dei mass media lasciando il movimento, e si concentrò più profondamente sul lavoro del suo studio di design Sottsass e Associati con la collaborazione di Aldo Cibic e Andrea Branzi. La ditta intraprese una vasta gamma di progetti fra cui quelli per le case manifatturiere Philips, Siemens, e Apple Computers. Nel frattempo Memphis diventava un’ affermata teoria del design a cui i designer oggi possono fare riferimento quando sviluppano nuovi concetti.
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Un elemento d’arredo che appartiene ormai allo storia del design, lo specchio Ultrafragola di Poltronova, disegnato da Ettore Sottsass nel 1970. E’ un omaggio alla donna e alla sua conturbante vanità. Si caratterizza per la sua imponente struttura, composta da cornice termofonata in materiale plastico opalino con luce al neon rosa. Ultrafragola si ispira a Lewis Carrol e al suo romanzo Alice in Wonderland per questa struttura di 100cm x 195 cm di altezza come una porta da cui oltre passare. Lo specchio faceva parte dellacollezione Mobili Grigi presentata nel 1970 alla terza edizione dell’Eurodomus.
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La libreria Carlton, disegnata nel 1981, è divenuta simbolo della produzione del gruppo Memphis nato da un’idea di Sottsass, Radice e De Lucchi. Immagine vagamente antropomorfa (ricorda un uomo dalle braccia alzate e gambe larghe) è riconoscibile per i ripiani inclinati e per i colori sgargiati. Caratteristica di Carlton, è che può essere usata sia come libreria che come divisorio. Nel 2011 è stato celebrato l’anno del 30° anniversario di questo prodotto, divenuto nel tempo icona del design del XX secolo.
Gli anni ’90 hanno rappresentato per i componenti dello studio, l’estensione del loro progetto di vita e lavoro a quasi tutte le realtà del mondo industriale. L’universo del colore e delle superfici, degli oggetti che ognuno porta con sé, delle sedie e dei tavoli, dell’illuminazione e della comunicazione di questo stesso universo.. tutto è stato esplorato in un lavoro di progetto continuo.
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Sottsass Associati La fondazione di Sottsass Associati, nel maggio 1980, avviene in un clima di grande effervescenza intellettuale. In quei mesi stava maturando la decisione di Sottsass di staccarsi, insieme a De Lucchi dal gruppo Alchymia e nei mesi immediatamente successivi sarebbero state prese decisione che avrebbero portato alla prima mostra Memphis del 1981, nella quale apparivano anche lavori di Zanini, Cibic e Thun. Alchymia aveva rappresentato un momento di ricerca e scambio di idee molto importante ma già a due anni dai primi incontri, erano apparse le prime divergenze. Alchymia non si era mai preoccupata di organizzazione commerciale o distribuzione. Sandro Guerriero, fondatore e direttore, ideologicamente vicino a Mendini, voleva produrre e vendere pezzi unici o numerati, in definitiva oggetti per il collezionismo d’arte. Sottsass, De Lucchi e gli altri giovani architetti del gruppo milanese che si andava formando, volevano confrontarsi con l’industria e la produzione sul piano della quantità, della qualità, dell’immagine. Ritenevano chiuso il tempo della controcultura radicale e delle sue elaborazioni concettuali. Parlavano infatti di Nuovo Design. I temi dibattuti erano numerosi e non riguardavano soltanto l’area compositivo-formale della progettazione ma argomenti più urgenti e di carattere pratico immediato. Il nuovo, auspicato rapporto con l’industria prevedeva che i designer potessero avere voce in capitolo anche nelle decisioni di marketing. Non si sarebbero limitati a disegnare oggetti o mobili da inserire in una linea di produzione; avrebbero proposto una nuova visione della casa, dell’abitare. Sottsass Associati, dall’inizio, si è trovata dunque ad affrontare problemi anche molto complessi di gestione che riguardavano l’articolazione dei rapporti interni del gruppo verso l’esterno e che comportavano l’applicazione dei vari temi dibattuti alla pratica quotidiana della progettazione anche per grandi industrie come Mandelli, Brionvega, Wella. Dal punto di vista progettuale, il passo più importante riguardava la traduzione su scala più vasta, su spazi tridimensionali e abitati, delle innovazioni linguistiche e formali che si andavano concretizzando in quegli anni nelle mostre Memphis. I progetti per i negozi Esprit in tutta Europa sono stati occasione e momento importantissimi nel processo evolutivo del nuovo linguaggio. Si trattava di disegnare spazi in cui la gente doveva lavorare, incontrarsi, sostare, non più mobile o oggetti da guardare o usare. Era necessario prevedere una lettura sensoriale dell’intero spazio vivibile, inventare e utilizzare un sistema tridimensionale organizzato intorno ai ritmi legati ai movimenti del corpo e dell’abitare. Si poneva con urgenza il problema di studiare nuove funzioni espressive: per esempio l’uso del laminato plastico, delle asimmetrie, degli accostamenti di materiali diversi e soprattutto l’uso de colore piu vasto e sofisticato, da applicare appunto all’architettura. Se le innovazioni linguistiche di Memphis avevano radici nella tradizione popolare, era arrivato il momento di metterle in opera in zone che richiedono, per se stesse, un controllo e un assetto più rigorosi.
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Showroom Esprit Zurigo, Svizzera, 1958-86
Lo showroom di Zurigo, di 1200 mq, è situato in un edificio all’interno del Centro Merci Tessili alla periferia della città. Il progetto rivisita la struttura del tradizionale borgo italiano articolandosi intorno a una grande piazza, punto principale di incontro e contemporaneamente spazio multifunzionale per sfilate, incontri commerciali, attività culturali. Le pareti divisorie creano passaggi, metafora di percorsi urbani, identificando uffici-edifici sedi delle diverse attività; la reception è vista come momento di ingresso nell’organismo urbano.
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Allestimento per la mostra itinerante “Pensieri di Plastica� 1958-86
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Showroom Alessi Milano, 1987
Il negozio showroom Alessi occupa tre piani collegati da un ascensore in un palazzo nel cuore del centro storico di Milano: il piano superiore è destinato a showroom e locale per piccole mostre, incontri e presentazioni; il piano intermedio ha una grande vetrina sulla strada, il piano interrato è invece destinato a locale vendite e magazzino. Nucleo centrale del progetto è la vetrina, impostata su due grandi espositori in marmo.
Vetrina Alessi, Milano.
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Negozio Fiorucci 1980-83 Nel 1980 Sottsass Associati, Michele De Lucchi e Anita Bianchetti si occuparono della progettazione del sistema di arredi per i nuovi negozi Fiorucci, con cui furono realizzati i negozi di Amsterdam e Beirut.
Fiorucci, Amsterdam 1980.
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In seguito tra il 1981 e il 1984 Sottass Associati e Michele De Lucchi ripensarono «...un negozio standard, studiato come una macchina componibile e facilmente adattabile a qualsiasi ambiente. Il risultato di un progetto che è attento anche alla tecnica della modularità e della standardizzazione di rivestimenti, mobili e impianti oltre che alla forza dell’immagine e della decorazione» (dal comunicato stampa dell’epoca). Furono progettati gli arredi, l’immagine e l’allestimento di oltre 50 negozi Fiorucci, in Italia, come a Milano e Bologna, e all’estero, come a New York e a Tokyo.
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tori Fiorucci
alia pagina nte: o Fiorucci, a, 1980
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Mostra Promozionale “Material Lights� Abet Laminati, Italia, 1989
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Mostra “Sculture dal XV al XIX secolo” dalla collezione Federico Zeri, 198
L’allestimento é stato realizzato per la mostra “Il conoscitore d’arte - Sculture dal XV al XIX secolo dalla collezione di Federico Zeri”. Inserito nella “Sala degli affreschi” del museo, questa struttura temporanea é stata ideata come un grande blocco; un parallelepipedo nel quale é stato scavato uno svariato insieme di mini-locali, vetrinette e basamenti d’appoggio che si incastrano, sporgendo in maniera irregolare. In questo modo le 46 sculture si ritagliano un loro posto; accostandosi per somiglianza, affinità sensibili, opposizioni e posizioni formali ricreando un ambiente che ne evoca l’antica appartenenza a monumenti e a ceti nobiliari, ma al tempo stesso rispetta il loro nuovo ruolo di oggetti di ricerca per lo studioso d’arte.
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Mostra “Kings of Africa� Palazzo delle Esposizioni di Maastricht, 1991-92
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Bar Zibibbo Fukuoka, Giappone ,1989 Zibibbo, un’uva particolarmente dolce che cresce in Italia nel meridione, è il nome di un bar realizzato a Fukuoka, parte di un complesso alberghiero progettato da Aldo Rossi. Il bar si sviluppa su diversi livelli con piccoli ambienti, terrazze e scale che creano, nel ridottissimo spazio disponibile, una varietà di situazioni: luoghi per appartarsi, luoghi per osservare e zone di passaggio. Il soffitto è decorato con stelle d’oro su fondo blu, come un grande cielo. I materiali utilizzati sono diversi e vanno dalla graniglia colorata, in varie combinazioni, al marmo bianco, dal legno laccato al metallo verniciato. I colori sono quelli primari: giallo, blu, azzurro, bianco.
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Galleria del Museo dell’Arredo Contemporaneo Ravenna, 1992-93
La galleria, ampliamento dell’esistente Museo dell’Arredo Contemporaneo situato nella campagna di Ravenna, si sviluppa su una superficie di 650 mq. Centro del progetto è il cortile alberato, chiuso su tre lati da un porticato in blocchi di cemento dipinti di blu e sul quarto da una costruzione di tipo industriale realizzata con elementi prefabbricati e con una facciata rivestita da mosaico di vetro che funziona come insegna della galleria. La nuova costruzione è collegata alla preesistente sia a livello del pianterreno, con un passaggio coperto, sia a quello del primo piano con un ponte chiuso. L’illuminazione dell’interno, omogenea e diffusa, avviene attraverso un lucernario continuo.
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Mostra Promozionale “Monitor Laminates” Abet Laminati, Italia, 2000
“Comincia a disegnarsi il fatto che l’accesso globale alle informazioni produrrà sempre più la frammentazione di qualunque ideologia, di qualunque pensiero continuo, di qualunque possibilità di fissare un pensiero, di qualunque speranza in una realtà statica e assoluta. Tutto questo può anche voler dire che le persone inseguiranno sempre più l’idea dell’esistenza come successione di stati provvisori, di apparizioni, di spettacoli più o meno virtuali. Pensiamo che quest’atteggiamento generale (se non globale) influirà sempre più anche sul progetto dell’ambiente artificiale, sul progetto della città, sul progetto dell’ambiente privato e sul progetto di tutti gli strumenti che servono per vivere. Per questa serie di osservazioni la mostra Abet Laminati dedica una particolare attenzione alla apparizione delle superfici più che al peso, alla compattezza della struttura.Si può immaginare che anche la superficie perda la sua presenza solida, la sua definizione statica, geometrica, per diventare un evento luministico, metafora di mobilità, di continua metamorfosi, di sorpresa ottica più che di percezione concettuale.La cultura contemporanea è sempre più condizionata da quel tanto di spettacolare, di provvisorio, di accelerato, forse di ambiguo, al quale siamo invitati dai sistemi contemporanei della cosiddetta generale, insistente informazione. Più o meno le riflessioni che si fanno e le emozioni intense che si provano a essere immersi quotidianamente dentro alla violenta rivoluzione contemporanea ci hanno spinto a tentare una diversa, aggiornata rappresentazione degli spazi artificiali. “ Ettore Sottsass
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Aldo Cibic
a cura di Giulia Facioni
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Equilibrio ed armonia Nel 1977 si trasferisce a Milano per lavorare con Ettore Sottsass, di cui diventa socio nel 1980. Nel 1981 nasce la collaborazione Memphis di cui Cibic è uno dei designer e fondatori. Nel 1989 decide di cominciare il suo percorso fondando lo studio Cibic&Partners e dando il via all’attività di ricerca con le scuole.
Il lavoro di Aldo Cibic esprime la ricerca di equilibrio e armonia con l’ambiente circostante. Invece di puntare sulla preziosità degli involucri tecnologici e sulla conseguente esclusione dall’ambiente circostante, la camera si apre completamente al suo esterno, divenendo oggetto tecnologico “ecocompatibile” ammirabile nella sua interezza dal di fuori. Il materiale di interesse di Cibic è l’uomo, come egli stesso afferma in un’ intervista, perché è un materiale in cui l’oggetto, il progetto, la situazione di interni e di design deriva da una storia. Il suo approccio non è di specializzazione su un materiale, quanto sull’idea di capire che tipo di situazione o che tipo di effetto riesce a creare. La sua maggiore attenzione è rivolta all’ estetica delle relazioni cioè capire come si sta muovendo il mondo nel consumo di oggi per arrivare alla scelta più opportuna dei materiali da adoperare.
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Aldo Cibic e il futuro del design In un’intervista, durante la quale gli viene chiesto come vede il futuro del design, se c’è un futuro e qual è la strada, Cibic risponde: “Il futuro lo vedo più che come designer come creativo”. Avendo delle conoscenze più vicine alla zona del progetto, non è interessato a quello che succede oggi sia nel design iper tecnologico, che nel design del mobile in generale, perché lo considera stilizzazione pura. La tecnologia non lo interessa particolarmente dal punto di vista del design, perché è più forte l’ idea del progetto tecnologico, rispetto al design finale, quindi lo coinvolgono di più le situazioni che si producono. Oggi come oggi, continua dicendo Cibic, “siamo assoggettati a un sistema che è sempre più presente, più pressante e più pesante, che vuole costruire un consumatore possibilmente stupido”; per cui tutto il lavoro all’interno delle scuole serve a far vedere quanta vita esiste al di là di quelle che sono i bisogni dichiarati come fondamentali o più diretti.
Rethinking Happiness. “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. In mostra alla 12° Biennale di Architettura di Venezia, oltre 40 metri quadri di modelli che illustrano i 4 progetti di Rethinking Happiness. Si tratta di un atteggiamento pro-attivo rispetto alla progettualità; l’idea di dire “pensiamo che ci voglia un atteggiamento creativo nel processo, perché solo un processo creativo può generare un progetto interessante, in cui più parti si confrontano rispetto a quelle che sono le criticità e i problemi che oggi abbiamo di fronte”.
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Progetti: - New communities, new polarities. Nuovo insediamento di una comunità ai piedi delle Alpi venete per creare un luogo in cui le persone possono riconoscersi e possono godere di più la bellezza del paesaggio. L’ architettura è la scenografia della vita. - Un campus tra i campi. Un nuovo modello di campus sviluppato in una condizione di autosufficienza energetica e alimentare. - Urbanismo rurale. Costruire in Cina, su una terra agricola (4milioni m2), una città a bassissima densità residenziale che galleggia sulla campagna. La città è palafittata e il traffico passa sotto gli edifici. Ottima idea per mantenere la campagna in un luogo che sta sparendo. - Superbazar. Periferia di Milano, in un punto in cui la ferrovia incrocia la Metropolitana, si va a costruire una nuova situazione di vita pubblica e residenziale che dia qualità e benessere al quartiere. L idea è di dare alloggio a due categorie sociali (studentied extra-comunitari) per l’ integrazione e la costruzione di nuove comunità.
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12째 Biennale di Architettura di Venezia.
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“ECOCITY…a better way of life” L’area si trova a un’ora di macchina da Shanghai , all’interno di un paesaggio idilliaco di giardini ornamentali , verdeggiante parco , campi agricoli e zone umide naturali . La proposta è di creare un luogo in completa armonia - una comunità che è in perfetto equilibrio con la natura circostante - dove ci si può vivere per sempre o andare solo per un weekend . E ‘ possibile creare una comunità ecologicamente sostenibile, che funziona anche come una destinazione turistica dove si può trascorrere il proprio tempo libero . E ‘ sempre più presente la necessità di sfuggire al ritmo frenetico della nostra vita nelle grandi città , al fine di trovare momenti di pace e tranquillità nella natura , un luogo in cui possiamo liberare la nostra mente , ricaricare i nostri corpi e riempire i nostri spiriti . Godere dei frutti e dei ritmi della natura è diventato un privilegio inestimabile e un nuovo lusso. Qui si sarà in grado di mantenere orti, fare il vino, il raccolto di prodotti biologici e di catturare il pesce fresco. Il ritorno alle vecchie origini.
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Sitografia • • • • • •
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http://www.cibicpartners.com http://www.sottsass.it http://www.educational.rai.it/lezionididesign/designers/CIBICA.htm http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Cibic http://www.youtube.com/cibicworkshop http://issuu.com/cibicworkshop/docs/rethinkinghappiness_issuu
Archigram
a cura di Mario Pizzonia
Archigram
Logo Archigram 1960
Plug-in City, Peter Cook - 1964
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Il gruppo Archigram nacque a Londra attorno al 1960 dall’ incontro dei componenti di due studi di architettura, da una parte abbiamo Peter Cook, Dennis Crompton, Warren Chalk e dall’altra David Greene, Ron Herron e Michael Weeb. Era un gruppo di architetti d’avanguardia , futuristi e filo - consumistici che prendeva ispirazione dalla tecnologia per creare una nuova realtà che fosse unicamente espressa attraverso progetti ipotetici. Gli Archigram pubblicarono l’omonima rivista, appunto “Archigram”, che costituì lo strumento d’identità del gruppo nella quale poter esprimere liberamente i propri pensieri e le proprie idee. Gli Archigram portarono avanti indagini sulla relazione tra architettura e consumo fino a teorizzare città che si collegano come punti di una gigantesca rete con progetti che prevedono unità di abitazione semoventi e traportabili o interi edifici che, simili a giganteschi ragni, si aggirano per la città, pronti a soddisfare i bisogni di una popolazione di tipo nomade. Essi sentivano il bisogno di leggere la città non come una serie di semplici edifici ma come una serie di eventi che si intersecano all’infinito, immagginando la progettazine di alloggi come estensione e non come semplici case. Questo gruppo compì infatti esperimenti con la teconologia modulare progettando capsule di spazio, pensando queste come oggetti da negozio: le parti che la componono possono essere infatti cambiate e scambiate. Fino alla metà degli anni Sessanta il gruppo Archigram si dedicò a progetti megastrutturali tra cui: Plug-in City, The Walking City e The Instant City.
Plug-in City Il progetto della Plug-in City venne pubblicato nel 1964 in “Archigram 5”. In questo Peter Cook propose una città senza costruzioni, contenuta in una forma megastrutturale all’interno della quale esistono diverse funzioni che vengono messe in relazione grazie a sistemi di comunicazione e circolazione. Plug-in City consiste in una rete di vie di accesso ai trasporti e ai servizi essenziali quali elettricità e riscaldamento, sopra le quali spazi commerciali e abitazioni vengono assemblate tramite un sistema di gru di servizio. La megastruttura è costituita da una maglia strutturale di pianta quadrata, orientata a 45° rispetto a un binario di circolazione. All’interno di questa rete vengono inserite delle unità atte a soddisfare i diversi bisogni; queste unità vengono servite e manovrate per mezzo di gru poste su dei binari situati in cima al telaio strutturale. Esse hanno durata limitata, a differenza dell’intero sistema che ha invece una durata di quarant’anni. In questo progetto la città viene dunque concepita come un insieme di funzioni, un insieme di servizi meccanici ed elettronici che permettono all’uomo di spostarsi e alimentarsi con la propria casa-kit. The Walking City The Walking City, Ron Herron - 1964
Progettata da Ron Herron nel 1964, la così detta “città a piedi” è costituita da edifici intelligenti in formato gigante, che potrebbero vagare per la città. La forma derivante dalla combinazione di insetti e di macchine è stata un’interpretazione letterale da Le Corbusier, aforisma di una casa come una macchina in cui vivere. I baccelli sono indipendenti, contengono parassiti che potrebbero entrare o uscire in stazioni dove questi occupanti vengono cambiati o dove si ricostituiscono le risorse disponibili. Le immagini proposte da Herron fanno scalpore.
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Le enormi macchine mobili di Walking City che sbarcano davanti a Manhattan, che campeggiano nel deserto o che sbucano dal mare indicano però che la ricerca architettonica non può fermarsi, limitandosi alla gestione dell’ordinario e del fattibile; e anticipano la speranza, che la professione possa finalmente proiettarsi verso l’utopia. Instant City The Instant City, Ron Herron - 1970
Arriviamo così a parlare di “The Instant City” (La Città Istantanea), progetto elaborato da Ron Herron nel 1970, in questo caso notiamo come la città diventi un’opera possibile da costruire velocemente in qualsiasi luogo, costituita da parti gonfiabili, semplici tendoni, schermi audiovisivi, cavi e luci elettriche. L’idea è dunque quella di portare il dinamismo della città ovunque se ne senta la necessità, in una landa desolata così come all’interno di un insediamento già esistente, trasportando le componenti mediante autocarri o con un dirigibile in grado di suddividersi in più parti. La città avrebbe potuto essere creata dal nulla, o sovrapporsi alle strutture di una comunità già esistente. Parte dell’opera sarebbe stata svolta da robot in grado di “infiltrarsi” in ogni dove. Il progetto di “The Instant City” è la manifestazione di diverse piccole idee unite in una grande idea. Ron Herron nella realizzazione dei collage di rappresentazione ha lasciato le parti architettoniche in secondo luogo per lasciare spazio alla idee concettuali del progetto, poichè queste, dagli Archigram, venivano considerate più importanti dell’architettura fisica. 220
Il dirigibile adoperato per il trasporto delle componenti dell’ Instant City
Uno scorcio dell’ Instant City
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Cedric Price
a cura di Luigi Perrone
Fun Palace Cedric Price (1934 - 2003) è stato uno degli architetti più influenti e visionari della fine del ventesimo secolo, concentrandosi su interventi urbani a tempo e progetti flessibili e adattabili che invitavano la partecipazione dell’utente. La sua critica implicita delle nozioni contemporanee di architettura ha guadagnato uno status eroico tra gli altri architetti come Will Alsop, Archigram, Arata Isozaki, Rem Koolhaas, e Bernard Tschumi.
Il Fun Palace è un progetto di Cedric Price che non è mai stato costruito, ma che rimane a tutt’oggi un “concept” di riferimento per l’approccio estremamente innovativo alla tipologia di edificio culturale, per la multifunzionalità e per l’assenza di percorsi dedicati predefiniti. Il progetto mirava alla realizzazione di un edificio coinvolgente, uno spazio unico, in cui le varie funzioni fossero episodi interconnessi e nel quale il visitatore potesse recarsi per passare il tempo senza necessariamente avere uno scopo se non quello di stimolare il personale senso di sorpresa e di piacere attraverso una serie di esperienze sensoriali e artistiche, oppure “semplicemente” umane. “Le attività progettate per questo luogo devono essere sperimentali, il luogo stesso deve essere provvisorio e mutevole. L’organizzazione dello spazio e gli oggetti che lo occupano devono, da un lato, sfidare la destrezza fisica e mentale dei partecipanti e dall’altro consentire un fluire dello spazio e del
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tempo in cui il piacere, attivo e passivo, sia stimolato”. (1*) E’ impossibile non pensare alle idee che sottendono il Fun Palace come DNA, più o meno consapevole, di The Public, l’edificio realizzato da Will Alsop a West Bromwich e inaugurato nel giugno 2008. Ci sono progetti, nella vita di un architetto, che per complesse ed imprevedibili ragioni diventano significativi e portatori di valenze che vanno oltre l’aspetto finale dell’oggetto architettonico e generano un processo creativo che si espleta sia nella vita stessa dell’edificio che nel processo che la sua genesi ha innescato. The Public è un edificio complesso, innovativo e in anticipo sui tempi, con una lunga e intricata storia progettuale alle spalle caratterizzata da un’ampia produzione di schizzi e modelli - forse la più ampia prodotta da Alsop per un solo progetto - che, da un lato, lo hanno trasformato nel corso del tempo fino a definirne l’aspetto finale ed attuale, e dall’altro costituiscono in sé una “famiglia” di 4 226
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idee che sono poi state sviluppate in altri progetti dello studio Alsop. The Public può essere considerato l’edificio più importante di Will Alsop. West Bromwich è una cittadina della contea di West Midlands, un’ex area industriale depressa e priva di identità ed attività culturali degne di nota, fulcro di un ampio progetto di rigenerazione per il quale verranno complessivamente spesi circa 700 milioni di sterline e del quale The Public è l’edificio simbolo. L’idea di un centro per l’arte di nuova concezione nasce originariamente come visione di Sylvia King, che nel 1974 istituì l’organizzazione culturale e artistica Jubilee Arts, la cui sede era a quel tempo un doubledecker bus che si spostava per i vari comuni della zona. In seguito Jubilee Arts trovò sede in un edificio modesto a West Bromwich fino a quando, nel 1994, Sylvia King entrò in contatto con Will Alsop e gli sottopose le sue idee innovative: non voleva un edificio concepito per esporre opere d’arte, ma piuttosto un luogo di produzione artistica che esprimesse questa volontà ed implicasse l’esposizione di opere e, in aggiunta, coinvolgesse i visitatori ad interagire con i suoi contenuti e a produrre arte piuttosto che a contemplarla con indifferente distacco. In altre parole, un edificio interattivo. Nel 1998 fu indetto un concorso al quale, contrariamente a quanto fatto da altri architetti, Will Alsop non presentò disegni e modelli perché non era chiaro quale fosse l’obiettivo progettuale, suggerì piuttosto un metodo di approccio al progetto basato sulla relazione col cliente e con gli abitanti del luogo, da svilupparsi attraverso workshop e consultazioni pubbliche al fine di interpretare appropriatamente le esigenze del cliente, quelle del luogo e quelle degli abitanti e utenti finali dell’edificio, per creare così un luogo, un propulsore di energia e cultura atto a ricevere ma anche ad irradiare. Un edificio in cui l’arte, invece che essere conservata vivesse e si riproducesse continuamente. Sylvia King rimase colpita da questa proposta e nel 1998 il processo progettuale prese il via anche attraverso la collaborazione con Bruce McLean, artista e amico di vecchia data di Will Alsop, che partecipò attivamente ad alcune installazioni realizzate in loco allo scopo di sensibilizzare e stimolare gli abitanti ad immaginare un edificio per l’arte che nascesse dai loro desideri e allo stesso tempo li esprimesse e li moltiplicasse; un edificio che fosse fonte di orgoglio e di appartenenza e non, come spesso accade, un’imposizione dall’alto recepita come estranea alla vita culturale della città. Originariamente l’edificio fu chiamato CPlex, e nel 2000 il suo plastico lungo 5 metri fu esposto al Padiglione Britannico della Biennale di Venezia diretta da Massimiliano Fuksas, Less Aesthetics More Ethics. Successivamente altre istituzioni - quali Arts Council, Advantage West Midlands, Fondazione per lo Sviluppo Europeo e la Lotteria - entrarono in gioco al fine di concludere e realizzare il progetto ed il nome stesso fu cambiato in The Public. L’aspetto esteriore dell’edificio è netto e semplice: una scatola nera di dimensioni 112x21x22 metri il cui involucro è completamente indipendente dagli elementi interni, con aperture ameboidi irregolari cerchiate di fucsia. Una “scatola dei desideri” misteriosa, visibile dall’auto-
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strada - e anche per questo la copertura, in cui sono ospitati gli impianti, è stata studiata attentamente come un elemento speciale, che si staglia nel contesto: non manifesta apertamente la sua funzione, ma esprime fermamente la sua singolarità. La complessità è tutta all’interno, dove uno spazio unico, tecnologicamente sofisticato, è popolato e animato da elementi chiamati “Pod”,”Rock”, “Pebble”, “Lily-Pad” e “Sock,” che galleggiano come entità indipendenti e, senza mai interrompere la continuità spaziale, ne costituiscono episodi autonomi. L’edificio, benché iconico, è stato progettato con estrema attenzione anche riguardo gli aspetti energetici. Tutto l’interno è stato realizzato come ambiente bioclimatico: i “pod” rendono possibile la diffusione dell’energia nelle aree in cui le persone si radunano, consentendo allo stesso tempo un alto standard di efficienza. La ventilazione naturale è usata ovunque possibile, e questo si nota particolarmente nelle giornate miti, quando le ampie aperture al piano terra sono aperte per consentire la circolazione naturale dell’aria.
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Sistema e Tecnologia
Se, come Price credeva, “La tecnologia è la risposta, ma qual era la domanda?”, Allora l’architetto deve intraprendere ricerche approfondite per capire veramente e adeguatamente rispondere alle esigenze di un progetto. Nel caso di Fun Palace, dove gli utenti sarebbero determinare tali requisiti, Prezzo intervistati amici e colleghi su quali attività avrebbero godere e anche cercato di anticipare utilizza per cui l’edificio potrebbe essere messo. Durante i documenti per il Fun Palace, si possono trovare decine di tabelle analitiche in cui il prezzo studia tutto, dal rapporto di attività simili agli spazi di cui hanno bisogno, ad una complessa analisi del proprio processo decisionale e il processo di design come affetto da conseguenze esterne. In un unico grafico dal titolo comparativo analisi dei posti a sedere , gli studi Prezzo tutte le possibili variazioni di configurazioni teatrali basati su variabili quali la capacità (un pubblico di 10 a 1.000), grado di shell teatro (6 ° a 35 °), distanza in scena dalla parte anteriore e posteriore righe, il numero massimo di posti per fila, larghezza e profondità delle banche sedile, e l’altezza della parte anteriore di una banca di sedili dal palco. L’elemento fisso solo all’interno del Fun Palace doveva essere la griglia strutturale di colonne a traliccio in acciaio e travi. Tutti gli altri elementi programmatici - teatri appesi, spazi di attività, schermi cinematografici e altoparlanti - dovevano essere mobili o composta di unità modulari prefabbricati che possono essere rapidamente assemblate e smontate come necessario. Le colonne, o torri di servizio, oltre ad ancorare il progetto, contenevano anche di servizio e di emergenza scale, ascensori, impianti idraulici e di connessioni elettriche. In concomitanza con il progetto principale Fun Palace, Cedric Price ha sviluppato un sistema più piccolo o progetto pilota che potrebbe essere montato in modo più rapido e smontato e ri-eretto su un nuovo sito, come richiesto. Un sito in particolare, il quartiere londinese di Camden Town, è stato indagato attraverso una serie di disegni. Il CCA Cedric Price archivio comprende documenti che coprono quasi 50 anni di attività, dal lavoro degli studenti del 1950 ai progetti avviati nel 2000. L’archivio contiene più di 13.000 disegni e stampe; oltre 50 modelli tra cui un prototipo full-size; quasi 400 metri lineari di documenti testuali che comprende corrispondenza, appunti di riunioni, le specifiche, materiale promozionale e stampa, e il sito photography, un ricco insieme di fotografie che documentano lavoro costruito e realizzato, mostre ed eventi, nonché registrazioni di interviste e conferenze. LaCCA ha inoltre acquisito completa libreria di Cedric Price di libri e periodici, molti dei quali sono stati annotati dall’architetto poco prima della sua morte.
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4. Uno sguardo al mondo dell’arte
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Uno sguardo al mondo dell’arte index Olafur Eliasson Liam Gillik Atelier Van Lieashaut Patrick Tuttofuoco Richard Serra Giacomo Costa Thomas Heatherwick Sol Lewitt
Claudia Ciccone Mario Pizzonia Sara Margutta Francesca Maiorano Francesca Maiorano Giulia Facioni Giulia de Lena Giulia Caleca
p.233 p.243 p.249 p.261 p.281 p.293 p.311 p.327
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Olafur Eliasson
a cura di Claudia Ciccone
Elementi naturali Olafur Eliasson è una delle superstar dell’arte contemporanea. Nato nel 1967 a Copenhagen è il maestro incontrastato della luce. Ma non solo. I materiali elementari che sfrutta nelle sue (spesso mega) installazioni – luce e riflessi, appunto, ma anche acqua, aria e altri semplici elementi mixati fra loro dentro habitat stranianti – ne fanno molto più di un creativo: attraverso le esperienze multisensoriali delle sue installazioni di arte contemporanea, trova l’unione fra concettualismo e concretezza, ispirazione e materialità. Molti i lavori che parlano da soli: è il caso, per esempio, del monumentale Weather Project alla Tate Modern di Londra, nel 2003. Weather Project Le rappresentazioni di sole e cielo dominano la distesa della Turbine Hall. Una foschia fine pervade lo spazio, come insinuandosi dall’ambiente all’esterno. Durante il giorno, la foschia si accumula in debole nube, come le formazioni prima della dissipazione attraverso lo spazio. Un’occhiata a quanto circonda per vedere dove la foschia potrebbe fuoriuscire, rivela che il soffitto della Turbine Hall è sparito, sostituito da una riflessione dello spazio qui sotto. All’estremità lontana del corridoio è la forma semicircolare gigante composta delle centinaia delle lampade di mono-frequenza. L’arco ripetuto nello specchio sospeso produce una sfera radiante che collega lo spazio reale con la riflessione: come un sole che sorge tra due mondi. L’altezza della Turbine Hall raddoppiata rende la visione ancora più apocalittica: vedere intrappolato il sole in una struttura chiusa artificiale, dove una volta erano turbine per produrre energia elettrica, nell’ambiente irrorato da spruzzi di nebbia - è penetrante. Idee e suggestioni si succedono: in secondo piano l’originalità dell’artista, in secondo piano forse anche la monumentalità dell’opera. Eliasson ha usato umidificatori per creare una nebbia sottile in aria attraverso una miscela di zucchero e acqua. Il soffitto della sala è stato coperto con un enorme specchio , in cui i visitatori hanno potuto vedere se stessi come piccole ombre nere contro una massa di luce arancione. Molti visitatori hanno risposto a questa mostra da sdraiato sulla schiena e agitando le mani e le gambe. Aperto per sei mesi, il lavoro riferito attirato due milioni di visitatori, molti dei quali erano visitatori abituali.
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Little Sun L’arte applicata alla vita. Con un aiuto pratico della tecnologia. Questo progetto di Olafur Eliasson è un oggetto diffuso che può fare la differenza, migliorando la vita (ma anche l’ambiente) di milioni di persone. Si tratta di Little Sun, una luce a ricarica solare dalla resa straordinaria: per 5 ore di sole si hanno 5 ore di illuminazione artificiale. Oggi sono 1,6 miliardi le persone che non hanno accesso alla rete elettrica, una mancanza che viene sopperita attraverso l’uso di lampade al kerosene, un combustibile altamente inquinante e pericoloso. L’artista danese voleva creare qualcosa che andasse oltre lo spazio dei musei e delle esibizioni, ma, soprattutto, voleva usare la luce in un modo più ambizioso e integrato con le necessità del pianeta. Ecco perché ha fatto squadra con l’ingegnere Frederik Ottesen per creare Little Sun “quello che è interessante dell’energia solare è che prende qualcosa – il sole – che è per tutti e lo rende disponibile per tutti”.
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Visione caleidoscopica L’artista ha un interesse instancabile sui telescopi e caleidoscopi. Eliasson ha costruito caleidoscopi per quasi due decenni, in quasi tutte le forme e dimensioni. Il suo ultimo, installato presso un giardino botanico nel sud del Brasile, trasforma acri di foresta pluviale in un paesaggio di geometrie naturali e colorate - tutto in tempo reale. La macchina è costituita da una grande armatura metallica che è ancorata a un punto di osservazione a Inhotim , un centro d’arte contemporanea e giardini botanici in Brumadinho. La portata è fatta di sei pannelli a specchio disposti in un imbuto esagonale. Anelli in acciaio montati al suo fianco per consentire allo spettatore di ruotare il dispositivo in modo che dalla montagna si incornici con la riserva di 270 ettari. Per Eliasson i caleidoscopi rivelano la verità sulla realtà che viene troppo facilmente oscurata. “Il mio interesse principale è quello di mostrare che il nostro apparato percettivo è una costruzione culturale”, ha osservato in un’intervista. “Possiamo giocare con il fatto che ciò che vediamo con i caleidoscopi può essere facilmente disorganizzato o riconfigurato.” Le sue costruzioni, possono scuotere un ordine visivo, il nostro modo di vedere - o pensare ciò che vediamo. Luce, forma e colore sono criptati in composizioni geometricamente ordinate che approssimano il funzionamento interno dell’occhio. Eliasson sostiene che dopo aver sbircianto in una delle sue macchine, lo spettatore quando tornarà con lo sguardo alla realtà, per un momento non sarà in grado di vedere la realtà senza una visione caleidoscopica, lasciandoci con una domanda, reale o irreale?
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Prototipo della BMW H2R
BMW H2R Dal 8 settembre 2007 al 13 gennaio 2008, il San Francisco Museum of Modern Art presenta la mostra “Il tuo tempo: Olafur Eliasson”. Organizzato da Henry Urbach, curatore di architettura e design. Progetto BMW H2R 2007, opera dell’artista contemporaneo Olafur Eliasson in collaborazione con programma Art Car di BMW. Il progetto di Eliasson trasforma un oggetto di design industriale avanzato in un’opera d’arte che criticamente e poeticamente riflette sul rapporto tra il riscaldamento globale e l’industria automobilistica. L’auto da corsa BMW H2R, un veicolo alimentato a idrogeno, è stata sviluppata per raggiungere record di velocità pur perseguendo un futuro sostenibile basato sull’utilizzo di combustibile rigenerativo. Eliasson ha rimosso il guscio esterno della vettura e lo ha sostituito conpelle traslucida in maglia d’acciaio, pannelli di acciaio riflettenti e numerosi strati di ghiaccio. “Trasformazione di Eliasson della vettura H2R è una potente provocazione al design e un ricordo del disegno chepuò avere un effetto profondo sulle nostre vite”, osserva Urbach. “Egli ci ha dato un’opera che sfida il nostro modo di intendere le auto ora e aiuta ad andare verso un futuro diverso. Si tratta di un esperimento, in realtà, un intervento sociale e politico come quello estetico, ma gli effetti si sentiranno per gli anni a venire. Difficilmente si può immaginare un posto migliore per presentare questo lavoro che SFMOMA, situato nel cuore di una regione che dedica uguale passione alla guida e alle politiche ambientali. “ Acciaio e copertura di ghiaccio per l’automobile di Eliasson, come il suo corpo complessivo del lavoro, evoca molteplici associazioni. In primo luogo,
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riflette l’interesse di vecchia data dell’artista a fenomeni naturali e il senso di dislocazione e soggezione che possono ispirare. In questo contesto, il ghiaccio richiama inoltre la nostra attenzione a idrogeno, che si liquefa e arriva a temperature inferiori allo zero, nonché unico sottoprodotto del combustibile ready-carburante: acqua. “ “Il nostro movimento nello spazio implica l’attrito: non solo la resistenza del vento, ma anche attriti sociali, fisici e politici” Eliasson commenta. “Così, il movimento ha conseguenze per l’auto-percezione e il modo in cui ci impegniamo con il mondo. Si può guardare il corpo come un vaso mobile o un veicolo che modifica i parametri di tempo e spazio. Ciò che trovo così interessante nella ricerca sul movimento e l’energia ambientalmente sostenibile è il fatto che aumenta il nostro senso di responsabilità nel modo in cui noi, come individui navighiamo in un mondo definito da pluralità e polifonia. “ “Il lavoro è tanto di un’esperienza”, Urbach continua. “Si va in uno spazio freddo con un piccolo gruppo, quasi come una piccola spedizione. Ci si incontra qualcosa che non hai mai visto prima, che è completamente magico. Allo stesso tempo, si tratta di una critica seria e incisiva che lascia lo spettatore con un sacco di cose a cui pensare. “ Ad accompagnare l’opera d’arte è un cortometraggio che offre una vista dietro le quinte della squadra di Eliasson al lavoro, nonché due seminari che hanno avuto luogo nel suo studio di Berlino. Questi seminari hanno riunito più di 40 studiosi, artisti, architetti, scienziati e altri esperti per discutere di questo e di altri progetti di Eliasson e la loro relazione a vari temi artistici, sociali, politici e ambientali. Il film dimostra ulteriormente il grado in cui lo studio di Eliasson, un grande laboratorio composta da molti specialisti, funziona come un luogo di ricerca, di uno spazio di dibattito e una sfera di azione sociale.
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Dettaglio dell’opera
Serpentine Gallery Pavillion 2007 Gli autori del padiglione simbolo della ottava edizione della celebre manifestazione artistica a Londra del 2007 sono l’architetto norvegese Kjetil Thorsen dello studio Snøhetta e l’artista danese Olafur Eliasson. Il progetto è una dinamica struttura rivestita in legno che riproduce la geometria di una rampa a spirale. Basato sul principio architettonico di una scala a chiocciola, il padiglione 2007 della Serpentine Gallery londinese esplora l’idea della circolazione verticale all’interno di un unico spazio. Il lavoro di Kjetil Thorsen ed Olafur Eliasson è consistito in una sostanziale revisione del modo tradizionale di concepire la struttura del padiglione introducendo l’altezza come nuovo elemento. La circolazione verticale dei visitatori risulta complementare a quella orizzontale tradizionalmente prevista all’interno degli spazi adiacenti. I visitatori potranno raggiungere il tetto attraverso una rampa che collega l’interno del padiglione con le aree espositive attorno. Avviandosi verso il livello superiore i visitatori incontreranno dapprima lo spazio interno del padiglione, cui seguirà una sorta di prolungamento della rampa che lascerà intravedere gli spazi attorno attraverso delle feritoie sulla facciata. Proseguendo, i visitatori completeranno il percorso a spirale finché la rampa non sarà diventata parte integrante del tetto; di qui potranno godere di una spettacolare vista sul verde di Kensington Gardens. L’interazione ed il movimento dei visitatori diventa in questo modo una componente determinante del progetto. L’oculus immaginato sul tetto consentirà la penetrazione di luce naturale durante il giorno. “La nostra collaborazione per il padiglione 2007 della Serpentine Gallery – dichiarano i due autori del progetto – è definita da un reciproco focus sull’esperienza dello spazio e della temporalità come elemento costitutivo degli spazi, privati e pubblici. Entrambi lavoriamo sul terreno della sperimentazione spaziale che rende superflue le differenze concettuali tra arte ed architettura”.
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Liam Gillik
a cura di Mario Pizzonia
Liam Gillik
Liam Gillik
“For the doors that are welded shut”, struttura in alluminio anodizzato e plexiglas, 2013
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Nato nel Regno Unito nel 1956, Liam Gillik vive e lavora tra Londra e New York. La sua presenza sulla scena dell’arte contemporanea è dovuta non solo all’attività di artista, ma anche a quella di designer, di critico, di curatore di eventi espositivi, di docente e di teorico; questi ruoli insieme contribuiscono a determinare la natura stessa delle opere di Gillik, sia di quelle di carattere relazionale sia di quelle più vicine alla dimensione della scultura. Queste ultime, in particolare, fanno notare come l’artista presti attenzione alle qualità dei materiale, per le loro valenze formali e cromatiche, per le dimensioni e il posizionamento dei singoli lavori e per i rapporti che questi stabiliscono con lo spazio. In diverse opere Liam Gillik utilizza materiali come il plexiglas e l’alluminio anodizzato con il dichiarato intento di esplorare un territorio di confine tra scultura, installazione e design e per individuare possibili soluzioni al rinnovamento del linguaggio architettonico. il “piacere visivo” che l’artista si propone di provocare nello spettatore attraverso il rigore formale, l’altrernanza dei colori e delle superfici opache, trasparenti o riflettenti, assume il valore di una forte critica nei confronti delle modalità con cui la societè moderna, basata sul capitale, ha impostato i quesiti dell’architettura, trasformando in utopia il progetto della pianificazione modernista, e favorendo ogni forma di speculazione.
Partecipazione alla biennale di Venezia Liam Gillik è stato scelto dalla Germania per l’allestimento del proprio padiglione alla 53esima biennale di venezia. Per l’occasione l’artista ha creato la sua opera (somigliante ad una cucina in legno grezzo) come modello di spazio vivibile democratico ed umano in netta contrapposizione con l’assenza di funzionalità ergonomica dell’architettura anni ’30 dell’intero padiglione. Fra queste due differenti prospettive in netto contrasto l’artista ha inserito una connessione, rappresentata da un gatto, icona magica e demoniaca in tempi antichi, come testimone parlante di una storia personale ed universale al tempo stesso. Liam GIllick era stato già criticato ancor prima di esporre la sua opera dalla stampa tedesca che accusava i curatori del padiglione nazionale di aver ingiustamente piazzato un artista di nazionalità britannica in un tempio riservato all’arte teutonica. Col passare dei giorni il tono delle polemiche è salito e diverse testate si sono occupate del caso Gillick correndo in difesa del celebre artista. Il quotidiano tedesco Der Freitag ha dichiarato che l’arte di Gillick è decisamente interessante e classificabile in un contesto di post-minimalismo con una giusta dose di casualità in cui il profano contraddice l’eroico evocando necessità umane. Nzz ha invece lodato l’artista apostrofandolo come l’eccellente Gillick. Il Canadian Calgary Herald ha giudicato il lavoro dell’artista come una delle più rigorose opere d’arte presenti alla Biennale. Richard Dorment del Daily Telegraph ha invece scritto: “La mia lista dei lavori più interessanti della 53esima Biennale include Liam Gillick che ha creato una costruzione di legno grezzo che per eleganza di forme accentua lo splendore delle candide forme dello spazio espositivo attorno ad essa”. Il quotidiano inglese The Guardian ha invece scritto: “L’architettura del padiglione tedesco è totalitaria e neutra ma Gillick l’ha letteralmente neutralizzata con una struttura somigliante ad una cucina in legno grezzo”.
Padiglione della Germania a cura di Liam Gillik nella 53esima Biennale di Venezia.
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L’ opera in Italia La Galleria Alfonso Artiaco di Napoli ha ospitato l’opera di Gillick intitolata: “Four propositions six structures (2012)” e prelude ad una serie di lezioni alla Columbia University nella quale sono proposti i tratti essenziali di questo ciclo docenziale, che costituisce una sorta di compendio illustrativo delle tematiche e delle linee rappresentative di Gillick nel corso dell’ultimo venticinquennio. Proposizioni relate con sequenze e strutture via via più complesse ed astratte, senza che fra tracce formali e testuali sia presente una connessione diretta anche se l’esistenza di ognuna di esse dipende da quella delle altre. Astrazione e modalità operativa, rapporto intimo tra lavoro e vita così come visione collaborativa o visione gettata su come stanno le cose del fare artistico contemporaneo. Ma, come accenna Gillick, non mero recupero o ritorno o reiterazione quanto piuttosto opposizione, rifiuto, messa in discussione su cui creare, reinventare. “Four proposition six structures”, galleria Alfonso Artiaco di Napoli - 2012
La collaborazione con Pringle of Scotland Gillick è stato arruolato dal direttore creativo di Pringle of Scotland per creare una capsule collection di accessori e maglieria che è stata battezzata “liamgillickforpringleofscotland”. Già lanciata in Florida durante il Miami Art Basel arriva anche a Milano, nel concept store di Corso Como. Gillick, ha scelto di lavorare sul contrasto di toni e materiali per questi pezzi di design tutti da indossare. Blocchi di colore, pelle, canvas, vernice illuminano queste clutch, tote-bag, portafogli, porta iPad, maglioni, pensati per lui e per lei e che possono essere indossati separatamente o insieme.
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Collezione “Pringle of Scotland” di Liam Gillik
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Joep Van Lieshout
a cura di Sara Margutta
Joep Van Lieshout Joep Van Lieshout, sotto la sigla Atelier Van Lieshout (AVL), produce cose che è difficile catalogare nella categoria opere d’arte, anche se è uno dei protagonisti della scena artistica internazionale. Così, se molte delle sue creazioni vengono presentate nel circuito espositivo di musei e gallerie, altre sono in produzione presso aziende di arredamento o manufatte artigianalmente dall’Atelier in numero limitato, se non addirittura su misura, per le case di collezionisti ed estimatori, alimentando un’ambiguità disciplinare che diverte molto sia loro che l’artista. L’ironia è alla base del lavoro dell’ Atelier Van Lieshout: un’arma a doppio taglio con cui conquistare e provocare il pubblico. Con la collaborazione di una ventina di persone, l’artista concepisce oggetti, ambienti e addirittura intere città (come AVL-Ville) che già nell’estetica spontanea e fai-da-te si dichiarano alternative alla nostra quotidianità esageratamente programmata e progettata. Oltretutto, spesso non funzionano, o rimangono irrealizzabili utopie o distopie, ma non importa, perché il loro scopo è proprio quello di generare una critica alla contemporaneità ultra-progettata, iperproduttiva e, altrettanto furiosamente, consumistica. Un paio di casi esemplari: il Bordello con serra è un’area pubblica immaginata nel 1999 per un giardino botanico nei pressi di Basilea che combina sesso e sostenibilità ambientale, sollazzo e impegno; dello stesso anno Modular AVL man, sorta di pupazzo stilizzato, che ritorna in tante sculture successive. Nulla è da prendere sul serio nel lavoro di AVL, che comunque affronta Funnel Man, 2004 Vetroresina, 150 x 90 cm
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temi serissimi e universali come la vita, la morte, il potere e i condizionamenti sociali. La soluzione a questo ultimo problema, ad esempio, per AVL esiste ed è costituita da unità residenziali spartane e mobili, dotate dei comfort essenziali, dove vivere in autonomia. L’autosufficienza, infatti, è un concetto chiave nella pratica di AVL, che nel corso degli anni ha sfornato diverse strutture abitative minime, dalla Modular House Mobile alla Pioneer Set Farmer’s House, passando per Autocrat, del 1997, che consentirebbe di sopravvivere anche nelle zone più lontane dalla civiltà senza rinunciare agli agi di un letto e di una cucina.
‘Das haus’ - Atelier Van Lieshout Retrospective
Nel 2008 Joep Van Lieshout se ne è costruita una tutta per sé, dove rintanarsi a disegnare. Perché se non sempre le trasforma in opere, di ideefantasie Joep ne ha moltissime e le disegna tutte nel suo «eremo» che lui stesso definisce «il posto dove preferisco stare», specialmente nelle serate e nei weekend estivi. Collocato sulle dune di sabbia di Hoek van Holland, nei pressi di Rotterdam, l’artista lo racconta come «uno spazio solitario per il pensiero e l’elaborazione. Un cocoon di luce e aria dove interno e esterno si fondono. E tutto quello che mi serve è qui». Un “tutto” essenziale: «Un open space con un piccolo bagno separato con doccia e wc; una cucina perfettamente funzionante, dotata di provviste; un letto, un tavolo con delle sedie-shaker di AVL; una scrivania. Questo è veramente tutto». Un oggetto che contiene altri oggetti, tutti rigorosamente made by AVL, e che può quindi essere considerato un’opera d’arte in sé, ma che è anche un luogo di ispirazione, quindi funzionale. Un condensato del suo stesso linguaggio in equilibrio tra visionarietà ed efficienza, desideri e quotidianità.
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Mobile Homes La Bais-ô-Drôme, 1995 aUna soluzione su misura per relax, divertimento e sesso.
La Bais-ô-Drôme è dotato di un mini-bar, impianto audio e tavoli imbottiti. Il letto si trova in una parte estraibile della struttura, mentre il bagno è un semplice buco nel pavimento.
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Modular House Mobile, 1995/1996 Questa casa mobile è costituita da tre parti principali: una parte strutturale, un’unità funzionale, con tutti i servizi necessari per il conducente /utente (cucina, riscaldamento, zona notte), e uno spazio per il carico merci. La sezione di carico può anche essere utilizzata come un ufficio o una sala da pranzo, nel caso in cui l’utente fosse in compagnia. La mobilità incontra la modularità.
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Tampa Skull, 1998
Tampa Skull è un unità abitativa claustrofobica. Le sue dimensioni sono stati determinati in base al minimo di spazio del quale corpo umano ha bisogno per passare da una sezione all’altra e utilizzare le sue strutture: una toilette, un bagno, una cucina con una padella profonda, un ufficio, un soggiorno e una camera da letto. Compatto ma completo.
Vostok Cabin interni
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Autocrat, 1997 Autocrate è una vettura di sopravvivenza per vivere in luoghi remoti, lontano dalla società civile, senza perdere il proprio comfort. C’è una grande cucina e una zona notte all’interno e un’altra cucina esterna per lavori come la macellazione di animali. La vettura è stata progettata e realizzata con la massima autocrazia in mente. È stato fatto ogni sforzo per utilizzare prodotti fatti in casa e di evitare i prodotti già pronti. Autocrat gioca un ruolo chiave nell’evoluzione di AVL, dal momento che il veicolo ha dato origine al progetto massacro. Per questo progetto, suini sono stati macellati in una fattoria secondo i metodi tradizionali. Tutte le parti sono stati immediatamente utilizzati o conservate mediante essiccazione, salatura, affumicatura, decapaggio e altri metodi. Il libro guida A Manual (1997) mostra di più sul processo di macellazione, in particolare come uccidere un maiale in casa.
Vostok Cabin, 2010 La nostra società è in rapida evoluzione. Il sistema dei valori del passato non appartiene più alla società odierna. Il clima cambia , la povertà si diffonde, le guerre aumentano. Questa Mobile House nomade fornisce riparo da questa situazione sconcertante. Il rifugio blindato è costituito da piastre in acciaio vecchie recuperate dalle barche demolite insieme ad altri materiali di scarto della nostra società attuale. La cabina si presenta come un apparato di difesa e attacco improvvisato per sopravvivere in tempi di rivoluzione e guerra civile. All’interno si trova un bagno, una stufa a legna , e diverse panche . E ‘ un’abitazione praticamente indistruttibile.
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AVL-Ville Le opere di AVL combinano la ricerca del piacere con la sopravvivenza, arrivando fino alla creazione di uno stato autonomo. Il progetto AVL-Ville, del 2001, è un vero stato indipendente nell’area del porto di Rotterdam con tanto di costituzione, sistema politico, sociale e architettonico; per un anno i membri hanno condiviso uno spazio di vita e di lavoro, in cui case mobili, una fattoria biologica, un ristorante, un’accademia, ma anche una distilleria clandestina e una fabbrica di armi, hanno formato un contesto autonomo dove tutto era funzionale e mosso da un’idea di libertà individuale, di eguaglianza, di arte. L’autosufficienza e l’autonomia sono stati i principali obiettivi .
AVL-Ville Flag
“Stavamo facendo molte opere d’arte sulle case autosufficieti, mobili e contenitori per le varie attività , così l’idea di un villaggio autonomo, stava già prendendo forma . Poi , nel 1998 , abbiamo ottenuto un incarico di progettare un progetto urbanistico per Almere, una nuova città che il governo olandese ha iniziato a costruire nella provincia di Flevoland negli anni ‘70. Abbiamo proposto un programma per lo “ Stato Libero di Almere “, che avrebbe separato la città dal resto del paese . Purtroppo, la nostra proposta è stata respinta , così abbiamo deciso di creare il nostro stato libero. Volevo fare un bel posto per le persone che lavoravano, lavorano e lavoreranno in AVL ...” Joep van Lieshout and Jolanda Witlox, drawing of AVLVille, 1999
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AVL-Ville, 2002
Joep van Lieshout Blast Furnace, 1998
AVL-Ville, 2002
Floor Houben, Design for AVL Money, 2001
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Sculture Negli ultimi anni la produzione di Van Lieshout si è orientata verso la scultura: attraverso l’uso di materiali di natura plastica (foam, fiberglass) ma anche legno, acciaio, bronzo, AVL traduce nella terza dimensione le idee e le immagini affiorate alla mente e fissate sulla carta attraverso il disegno. “Il disegno è molto importante per me. Ogni giorno e ogni notte schizzo disegni e disegni e ancora disegni… Certe volte sono solo delle immagini che mi appaiono nella mente come una specie di sogno che fisso su carta, altre volte sono più simili a studi o dettagli delle sculture che sto realizzando… sono il primo passo per trasformare tutte le immagini presenti nella mia mente nel mondo reale…”
Joep van Lieshout Dancing Family, 2006
Le sculture di AVL offrono la possibilità allo spettatore di andare oltre i confini della materia, scavata e messa a nudo per esaltare la profonda relazione che lega l’interno all’esterno. Cascade, 2010 Questa scultura, commissionata da Sculpture International Rotterdam, raffigura diciotto barili di petrolio impilati , che sembrano scendere dal cielo come una cascata, ed una ventina di figure umane . Gli esseri anonimi in pose drammatiche che salgono i robusti profili dei barili di petrolio, sembrano figure molli e informi. La scultura evoca associazioni con l’attuale crisi economica, l’esaurimento delle materie prime e il fallimento della società dei consumi.
Joep van Lieshout “Cascade” sketch
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Patrick Tuttofuoco a cura di Andrea Finelli
Patrick Tuttofuoco Note biografiche Nato a Milano nel 1974, dove attualmente vive e lavora, Patrick Tuttofuoco è uno tra i più interessanti giovani artisti emergenti del momento. A partire dal 2000, a seguito della sua prima mostra personale presso la Galleria Guenzani di Milano, il suo lavoro è stato oggetto di un interesse costantemente crescente da parte di critici , curatori e collezionisti internazionali. Nello stesso anno opere di Tuttofuoco sono state pubblicate all’interno di “Espresso. Arte Oggi in Italia”, edito da Electa; “Fatica Sprecata”, Art Book Edizioni; “L’Art dans le monde 2000”, Paris Musées de Beaux-Artes. L’artista ha partecipato a diverse esposizioni collettive a livello internazionale tra cui la I° Quadriennale di Arte Contemporanea tenutasi presso lo Stedelijk Museum voor Aktuelle Kunst di Gent, “Le Rire d’Echo” presso il Centre d’Art Contemporain di Ginevra, “Hops!” all’interno del Festival di Visual e Performing Arts, Link di Bologna. Al Centro nazionale per le arti contemporanee, Patrick Tuttofuoco presenta il suo video Boing, 2001, un viaggio immaginario attraverso lo spazio virtuale del computer, realizzato in collaborazione con un gruppo di amici artisti quali capsule propulsive (o palline del flipper) della posta pneumatica attraverso i percorsi e le autostrade del Net. Oltre ad altre numerose mostre collettive a Londra, Milano, Parigi, Kanazawa e San Sebastian, è del 2004 la personale “My private-2” a Milano. Per l’artista Patrick Tuttofuoco, “rivalutare ciò che di buono c’era in passato è frutto dell’intelligenza, ma spesso, ahimé, ha più a che fare con la totale assenza d’immaginazione. Bisognerebbe osare un po’ di più, ricominciare a fare ricerca. In questo momento di stagnazione, essere propositivi vuol anche dire essere rivoluzionari!”.
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Focus on his eyes Quello di Patrick Tuttofuoco vuol essere un viaggio che prende il nome di “Revolving Landscape” (Paesaggio rotante) e che prosegue sotto forma di immagini proiettate su sei pannelli, che si riferiscono a diciassette città tra Oriente ed Occidente. Le sculture sono legate all’impressione che l’artista ha avuto delle città visitate e catturano lo sguardo, ma io ho apprezzato maggiormente la videoinstallazione. I sei pannelli proiettano istantanee di persone e luoghi, megalopoli molto differenti tra loro con evidente contrasto tra ricchezza e povertà, in un susseguirsi inframmezzato da interviste a vari personaggi che ! si pronuncian! o sullo sviluppo economico, sociale e urbanistico dei soggetti ritratti. Tuttavia viene anche messa in risalto la grande e a volte eccessiva rincorsa al cambiamento, alla modernizzazione forzata, che è propria delle città orientali e che contrasta fortemente con le loro tradizioni ed antiche abitudini. Credo che l’artista auspichi uno sviluppo equilibrato delle società, in cui si realizzi una sintesi ragionata tra passato e presente, tra istanze di conservazione e di innovazione. Testimonianza di un approccio alla scultura più diretto e fisico da parte dell’artista che riduce al minimo la lavorazione industriale delle opere in mostra pur rimanendo fedele a materiali come le plastiche, le resine o il vinile. Patrick Tuttofuoco, infatti, si confronta con l’imponenza e la classicità di uno dei luoghi simbolo della Capitale e propone Future City, una imponente installazione-cantiere di 80 metri di lunghezza, accessibile gratuitamente e transitabile al suo interno.
crea un flusso di energia che modifica il senso temporale e storico dell’emblematica piazza, divenendo così una metafora dei cambiamenti.
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First Person Plural Il titolo della nuova mostra di Patrick Tuttofuoco, First Person Plural, è preso in prestito da quello del libro omonimo di Cameron West in cui l’autore ripercorre la vicenda che ha interrotto in modo brusco la sua vita di manager di successo, felicemente sposato e padre di un bambino: un giorno, senza un motivo apparente, comincia a comportarsi in modo strano e scopre che dentro di lui convivono diverse personalità, uomini e donne, bambini e adulti, alcuni aggressivi altri docili e gentili. La convivenza di personalità plurime all’interno di un unico individuo non interessa all’artista dal punto di vista scientifico e tantomeno medico, è piuttosto il punto di partenza per indagare come logiche di gruppo possano agire all’interno di un unico individuo e come la loro compresenza agisca nel rapporto con la realtà. Le precedenti mostre di Patrick Tuttofuoco sono nate spesso dalle sinergie di più persone che concorrono a immaginare un progetto, una scultura, un video. L’artista ha proiettato la sua ricerca e la sua energia verso l’esterno: la città, il viaggio, l’incontro con altri mezzi espressivi come l’architettura. In questa mostra invece Tuttofuoco parte da una base più individuale, non fermandosi tuttavia a una semplice ricerca introspettiva ma facendosi affascinare da come la logica del gruppo possa agire all’interno del singolo. Lo spazio della mostra si trasforma in un tracciato narrativo non lineare dove le opere funzionano quasi come dei flashback e dove lo spettatore è libero di muoversi. Le forme che danno vita a questo percorso sono: il volto e la maschera, confine simbolico tra l’io e il mondo, scudo protettivo e cuneo attraverso cui la personalità cerca di mettersi in contatto con la realtà, e il corpo, o meglio alcuni riferimenti ad esso a rappresentarne la fisicità, l’anatomia. Le opere in mostra rivelano una fattura più manuale del consueto, a testimonianza di un approccio alla scultura più diretto e fisico da parte dell’artista che riduce al minimo la lavorazione industriale delle opere in mostra pur rimanendo fedele a materiali come le plastiche, le resine o il vinile.
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Future city Patrick Tuttofuoco, infatti, si confronta con l’imponenza e la classicità di uno dei luoghi simbolo della Capitale e propone Future City, una imponente installazione-cantiere di 80 metri di lunghezza, accessibile gratuitamente e transitabile al suo interno. Crea un flusso di energia che modifica il senso temporale e storico dell’emblematica piazza, divenendo così una metafora dei cambiamenti. Con la scritta “Roma 17 ottobre 2007 Piazza del Popolo” posta come confine tra passato e futuro, l’artista milanese delimita bene i tre diversi momenti. “Future city” vive nel presente, il giorno dell’inaugurazione, giorno in cui essa inizia ad interagire nello spazio pubblico, e già dal giorno successivo inizia ad avere a che fare con il passato esplicitando il suo progressivo invecchiamento, ma allo stesso tempo porta con sé l’intrinseca idea di futuro, essendo un cantiere in profondo divenire. Un’opera, quella di Tuttofuoco, che non solo richiede il coinvolgimento attivo dello spettatore lasciando immaginare l’idea di un futuro tutto da indagare, ma al contempo anche un mezzo attraverso il quale è possibile vivere in maniera diversa una piazza, solitamente attraversata da un veloce crocevia e andirivieni di persone. L’artista, dunque, riflette sul tempo e sull’evoluzione degli spazi urbani, i quali non producono una forma finita, ma uno spazio problematico, non finito, in un cortocircuito intrigante che fa dialogare passato e futuro. Uno spazio peraltro valorizzato dall’utilizzo sapiente della luce e degli specchi, i quali incrementano la capacità comunicativa ed il valore estetico del cantiere.
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Mostra di Patrick Tuttofuoco e John Kleckner da Peres Projects I fantasmini sembrano lievitare su piedistalli – in parte di plexiglas colorato e in parte in mdf – che giocano con forme piene e vuote, rotondità e spigoli, curve e linee rette. Le due parti dialogano bene tra loro, un incontro pieno di promesse. Patrick carica meno le sue sculture di oggetti, di rimandi, di materiali eclettici, si concentra più sull’essenziale diradando l’immagine della maschera, facendola invece fluttuare, pronta a prendere il volo verso chissà dove, eppure tenuta legata alla struttura da una forza invisibile e misteriosa. Ma c’è anche gioco, leggerezza, sguardo autoironico verso ciò che è stato prima e che comunque progredisce trasformandosi in modo intelligente. Queste opere sono la ricerca di una sintesi tra un certo rigore formale delle opere di qualche anno fa e quelle delle ultime mostre.
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Patrick Tuttofuoco è un artista che si colloca perfettamente in quell’ibridazione tra arte e design, tra infrastruttura e intrattenimento. Nelle sue mostre si nota l’attenzione al dettaglio e alla composizione del complesso espositivo, quindi all’opera quanto al modo di esporla, sfrutta il suo bagaglio culturale per dar vita ad istallazioni semplici e d’impatto, influenzato dalla cultura pop e dall’archetettura degli anni sessanta. L’artista gioca sulla stratificazione per livelli e dimensioni verticali e orizzontali, trattando di piccole e grandi dimensioni. Una sensibilità che ha reso Tuttofuoco un personaggio stabile nel mercato dell’arte e ha favorito la sua popolarità tra il pubblico di tutto il mondo.
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Richard Serra
a cura di Francesca Maiorano
Richard Serra Richard Serra, nato a San Francisco nel 1938, è uno degli artisti più significanti della sua generazione, tra cui principale esponente della Process art. Scultore minimalista e videoartista statunitense, è conosciuto per la sua capacità di creare opere d’arte con fogli di metallo. Si laurea alla facoltà di arte e architettura all’università di Yale, nel 1964, inizialmente si dedica alla pittura, ma dopo due anni trascorsi in Europa decide di lavorare come scultore. La sua scultura all’avanguardia esplora lo scambio tra opere d’arte, spettatore e ambiente. Le sue raccolte di sculture e disegni sono state celebrate con esposizioni al Museo di Arte Moderna per oltre vent’anni. Serra ha prodotto su larga scala, sculture architettoniche, urbane e paesaggistiche su ambientazioni specifiche del sito, sparse in tutto il globo, dall’Islanda alla Nuova Zelanda. Dagli anni Settanta un maggiore rigore formale ha caratterizzato, oltre che disegni di grande formato, monumentali archi e strutture primarie, in piombo o acciaio, generalmente destinate all’aperto. A metà tra architettura e non-architettura, tra scultura ed installazione, in stretto dialogo con lo spazio circostante, le opere di Serra si affermano attraverso l’imponenza della massa, in precaria dialettica con la forza di gravità e le interne tensioni strutturali dei materiali dalle quali sembrano autogenerarsi. Nelle installazioni create dall’artista, lo spettatore nel momento in cui accede si trova spesso disorientato, quella che sembra una curva, improvvisamente si distende in una superficie che continua convessa, si ha la percezione dove tutto è alterato; tutto si muove tra equilibri sospesi, sebbene concepiti con materiali pesanti come l’acciaio. Nessuna geometria convenzionale torna nelle installazioni di Serra, le sculture che realizza non hanno come oggetto, un oggetto definito, ma lo spazio, elemento fondamentale da percorrere. Lo spazio, come narra l’artista, cambia relativamente dalla direzione in cui ci si muove. Queste contraddizioni nella percezione, sono state all’origine del proprio interesse per lo spazio, ha cercato di rispondere a questa domanda cambiando il punto d’osservazione degli oggetti e degli ambienti. Serra ritiene che il soggetto del suo lavoro è lo spettatore che esplora la sua installazione, ma principalmente è interessato alla diversa esperienza che ognuno avverte e da cui nasce una differente configurazione dello spazio. All’inizio della sua carriera l’artista ha esplorato e sperimentato le potenzialità espressive dei materiali non tradizionali, tra cui la gomma, il neon e il piombo, attraverso queste esperienze iniziò a concentrarsi sull’atto concreto del fare arte. La sua ricerca si focalizza sui processi di fabbricazione e le caratteristiche fisiche dei materiali, secondo i principi della Process art o Antiform, tendenza dell’arte contemporanea nata alla fine degli anni ’60, in risposta alla Minimal art di cui rifiuta la rigida connotazione geometrica e seriale.
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Belts (1966-67) Serra ha esordito con strutture in neon e gomma, in cui la brillantezza delle luci al neon contrasta con l’immobilità delle nove cinghie avvolte e appese alla parete con dei ganci ed un filo di neon piegato, inserito in uno dei grovigli, che assumono per gravità una connotazione formale quasi antropomorfa, con richiami grafici alle opere di Eva Hesse e Bruce Nauman. L’intenzione dell’artista nel realizzare quest’opera è quella di far emergere qualità fisiche intime(intrinseche) quali il peso, l’equilibrio statico, la flessibilità, facendone il tema dell’opera, che non aspira ad avere nessun significato se non del materiale di cui è fatta. Tuttavia il neon, necessariamente sagomato, sembra acquisire un valore tale da mettere in dubbio uno dei principi basilari della Process art, in cui il materiale scelto può assumere distintamente la forma più congeniale. È forse un commento personale e ironico ad un’arte puramente visiva che non vuole suggerire nulla, non vuole essere nè emotiva nè allusiva, ma vuole soltanto suscitare nella mente dell’osservatore collegamenti propri e soggettivi.
Lista dei verbi transitivi, scritta da Richard Serra
Belts 1966-67 Museo Solomon R. Guggenheim Museum, New York
Splashing (1969) L’artista con l’opera “Splashing”, ha iniziato a catturare l’attenzione del mondo dell’arte nel 1969. Ha prodotto quasi un centinaio di opere impiegando l’uso della lavorazione del piombo. Queste opere sono state create
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attraverso la stesura di una lista di verbi transitivi come “to roll, to cast, to splash”- uniti a sostantivi che indicano condizioni strutturali come “tensione, gravità, entropia. Tra questi lavori, molti sono stati presi come modello, e analizzati non soltanto per l’uso della tecnica di Serra, ma anche per le tendenze più generali nell’arte di quel periodo: “Splashing and Casting” sono entrambi realizzati gettando piombo fuso. La tecnica utilizzata per la realizzazione di quest’opera avviene tramite lo scioglimento del piombo gettato contro le giunture delle pareti e del pavimento, tale processo è espresso nel momento stesso in cui si compie l’azione. Una volta solidificato, lo spettatore è invitato a ricostruire l’azione nella loro mente.
Prop Pieces (1969) La serie “Prop Pieces”, mette in crisi l’equilibrio razionale della ricerca minimalista, in quanto rivela la potenziale contradditorietà insita nel rapporto tra materia e forma. Una tonnellata di piombo assume la fragilità di una castello di carte, una precarietà rarefatta mantiene tubi massicci come sospesi in aria, la forza di gravità viene continuamente sfidata da una materia svuotata del suo peso specifico. Serra rivolge la sua attenzione alla proprietà fisica della scultura esplorando il peso, il materiale, esponendolo nella sua naturalezza invece di mascherarlo. Con il lavoro “One-Ton Prop (House of Cards), che si comopone di quattro lastre di piombo in posizione verticale, tenute in equilibrio con la forza del loro peso. La stabilità della scultura è data dal sostegno che le lastre hanno
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tra loro, portando l’artista ha concentrarsi sulla natura tettonica della scultura. Considerando la natura flessibile del piombo ed il suo peso, tuttavia queste opere sono sovraccariche di tensione e l’apparente instabilità degli elementi produce un conflitto tra la comprensione delle leggi della fisica e la preoccupazione per il cedimento di una lastra. Da sinistra: “House of Cards” (One-Top Prop) 1968-69 Piombo lastra 139,7 cm. “Pole Piece” 1969 Piombo lastra: 200x200x70 cm tubo: 144,9x24,2 cm. “Corner Prop No.8 (Orozco e Siqueiros) 1983 Cor-ten, Acciaio lastra in alto: 182x191x6,3 cm lastra in basso: 145x150x6,3 cm. “Equal (Corner Prop Piece) 196970 Piombo lastra: 122x122x2 cm tubo: 210x11 cm “Shovel Plate Prop” 1969 Piombo Dim: 250x203,5x80 cm “Weights and Measures” 1987 Acciaio laminato a caldo lastre laterali: 160x213x5 cm lastra centrale: 160x160x7,6 cm
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La forma dell’irregolare Partendo dalla combinazione di forme geometriche classiche, Serra sperimenta la realizzazione di forme non convenzionali, costruite grazie all’utilizzo di nuove tecnologie, basate su modelli, su cui poi avviene una sintesi in acciaio, sottoposto alla particolare lavorazione con il pattino, che innesca un particolare processo di ossidazione, con conseguente cambiamento di dei toni del materiale. Le opere, liberate dalla costruzione dei supporti, si trovano di colpo immerse in uno spazio reale, abitato dallo spettatore. Le esperienze del soggetto con l’opera, diventa parte essenziale del suo significato. Con Serra, la scultura, arte che nasce, si scusa per i grandi volumi, che per eccellenza occupa l’indagine della dimensione spaziale, si libera inaspettatamente del peso della completezza della forma, intesa come regolare e risultato di un lavoro razionale.
A sinistra: Vortex, Cor-ten steel, Fort Worth Museum, Texas, 2002
A destra: Band, Steel, Museum of Modern Art (MoMA), New York, 2006
A dimostrazione che l’opera non si esaurisce nella realizzazione dell idea iniziale: in quanto non esiste fredda specularità tra progetto ed esecuzione.
Non è più lo spazio occupato fisicamente, carattere fondato dell’opera, bensì il principio di una ragione asimmetrica. A dimostrazione che l’opera non si esaurisce nella realizzazione dell idea iniziale: in quanto non esiste fredda specularità tra progetto ed esecuzione. La scultura porta con sé la possibilità di un’ asimmetria accettata e assimilata nel progetto, di una concezione contemporanea del mondo fatto di imprevisti e sorprese. Nasce così una Forma che è definizione di tutte le ansietas corse nel XX Secolo, e che è sicuramente destinata per la sua lampante classicità a produr-
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colo, e che è sicuramente destinata per la sua lampante classicità a produrre effetti collaterali anche nel nuovo secolo a futura memoria. E’ il paradigma opposto, dell’irregolare e dell’asimmetrico, che getta le basi di un nuovo orizzonte della gestalt scultorea, dove il senso di vertigine disegna un’indimenticabile traccia mentale dello spazio in movimento. Dal 1970 l’artista ha lavorato prevalentemente con l’acciaio, materiale comunemente associato all’architettura e l’ingegneria, discipline in cui spesso Serra ha cercato la conoscenza delle origini della scultura.
Snake (1994-1997) Snake, opera realizzata per l’inaugurazione del Museo Guggenheim di Bilbao, si compone di tre grandi serpentine in acciaio laminato a caldo, l’installazione sarà poi permanente nella galleria “Fish” del museo. L’opera colossale è vissuta attraverso lo spazio, le inclinazione, i passaggi serpeggianti, è percepito dal fruitore come un insolito senso di movimento e instabilità. Snake è la prima opera monumentale di Serra, ispiratrice di una lunga serie, dove l’artista riflette sulla fisicità dello spazio e la natura della scultura. Questo lavoro sembra sfidare la gravità e la logica, rendendo un materiale solido e pesante come l’acciaio flessibile e plasmabile.
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Torqued Ellipses La serie Torqued Ellipses, sfrutta in modo inaspettato il movimento delle sculture, invitando lo spettatore a camminare all’interno ed all’esterno dello spazio. Queste sculture sono concepite come esperienze singolari, modificando la comune idea di spazio ed equilibrio. Serra coglie l’ispirazione dal soggiorno trascorso in Italia da giovane, sembra costruire una fonte di sollecitazione che opera nelle realizzazioni della maturità; la suggestione delle sculture deriva dalla conoscenza della chiesa barocca di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma di Francesco Borromini. Il design delle forme, che l’artista chiama “navi”, si basa su due ellissi perfette ed identiche che si sovrappongono in un angolo. L’acciaio viene piegato in modo da sembrare un rivestimento armonioso in cui racchiude i vuoti dell’ellissi, ruotando si innalza dal basso verso la parte superiore. L’artista, prima di realizzare le sue opere, ha studiato come questo genere di forma potesse essere curvato su se stesso, per risolvere questo problema Serra ha creato dei modelli con due piccole ellissi di legno uniti tramite una spina cilindrica, ed uniti con un foglio di piombo continuo. Serra, utilizza gli stessi principi, attraverso un programma di software chiamato CATIA, progettato originariamente per la tecnologia aerospaziale, in grado di produrre disegni con una linea continua del volume e determinare l’angolo di piegatura richiesto di ciascuna piastra di acciaio utilizzato per le opere reali, che nella realtà hanno un peso maggiore.
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The Matter of Time (1994-2005) Realizzata da Serra, La materia del tempo, si basa sul linguaggio sviluppato delle Torqued Ellipses: sono otto sculture che “navigano” in rapporto con lo spazio e in relazione le une con le altre. L’installazione viene costruita tramite tre spirali, una Single Torqued Ellipse, una Double Torqued Ellipse, le curve coniche di Snake e due opere formate da sezioni sferiche e toroidali. L’effetto scenografico di Bilbao nasce dalla visione complessiva delle e dalla visione complessiva delle sculture, dal contrasto tra il bianco della sala e il grigio, l’arancione, l’ambra dell’acciaio, dalla perdita di percezione e di orientarnento che si avverte nel momento dell’ attraversamento delle ellissi e spirali. La materia del tempo non è un’esposizione temporanea ma un’opera entrata a far parte della collezione permanente dei maestri moderni e contemporanei nel museo Guggenheim di Billbao, acclamata come l’opera più eclatante. Un museo-scultura che ora ospita l’altrettanto spettacolare installazione di Richard Serra, sculture che attingono tutte allo stesso vocabolario - come spiega lo stesso artista - che «si collocano all’interno di una polarita tra la spinta verso il basso della forza di gravità, il peso della materia e un’elevazione verso l’alto che aspira ad annullare I’effetto gravitazionale». E’ un viaggio tra spirali, sfere, ellissi ritorte, cariche di forti richiami borrominiani, da intraprendere senza riserve, “dove a fronte della continuità delle curve Ie osservazioni diventano frammentarie e discontinue”. Percezioni, esperienze per l’osservatore che diventa protagonista dell’ opera. E’ questa la ricerca di Richard Serra.
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Giacomo Costa
a cura di Giulia Facioni
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Biografia Il suo approccio all’ arte inizia nel 1994; nel 1996 inizia una collaborazione con il gallerista Marsilio Margiacchi e nel 1998 stringe un forte rapporto di collaborazione con il gallerista milanese Davide Faccioli di Photology che espone i suoi lavori in galleria a Milano, a Londra e in varie fiere internazionali a seguito delle quali inizia a collaborare anche con gallerie Americane, fra le quali Arthur Roger Gallery di New Orleans e Laurence Miller Gallery di New York. Nel 1999 partecipa alla VIII Biennale Internazionale di Fotografia di Torino e alla XIII Quadriennale di Roma. Nessuna formazione artistica e specifica alle spalle. Un artigiano.
L’arte “irreale” di Costa L’ arte di Giacomo Costa è, in una parola sola, intuitiva ma non per questo superficiale; estremamente immediata e di facile comprensione. I grandi lavori fotografici dell’artista sono istintivi, offrono un senso ad immagini talmente irreali da poter essere considerate fantascienza, quando con questo termine non si indichi il “fantasy” ma la possibilità di delineare un futuro possibile.
Anteprima del XIV Quadriennale di Torino 2004.
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“C’era una volta il genere umano.” Giacomo Costa si presenta come “artista visivo” che attraverso la sua arte descrive il mondo che sarà e non quello che vorrebbe che fosse. Propone il suo pensiero su un modello di sviluppo umano e contemporaneo che ci porterà all’auto-eliminazione,all’auto-elisione, all’autodistruzione. “Siamo arrivati ad un momento storico nel quale una sola forma di vita, l’uomo, ha le capacità per spazzare via e distruggere ogni essere vivente sulla Terra, compreso se stesso. La distruzione del Pianeta Terra avverrà attraverso il nostro stile di vita, il nostro modo di vivere”. Da questa realtà sociale e ambientale, dove lui ne è testimone, nascono le sue migliori serie di lavori su panorami surreali metamorfici che non hanno niente a che fare con l’architettura; le sue città incastrate, soffocate, da un certo punto di vista anche sofferenti, ingabbiate, sorte senza regole vengono inglobate dalla natura che riprende il proprio posto e ruolo, mangiandosi i manufatti umani in un mondo dove l’uomo non è più compreso né contemplato perché non ha rispettato gli equilibri, salvaguardando ciò che lo circondava.
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Acqua_3.
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Didascalia: Atto_10.
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Didascalia: City.
Didascalia: Consistenza_2.
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Fuzione_1. 2007
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Posto natural.
Water.
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Dai palazzi come fasci di legna da ardere sulla pira, dagli appartamenti cresciuti come funghi dopo l’acquazzone e innalzatisi come germoglio a cercare sole e aria buona, cresciuti in maniera disordinata come baraccopoli di cemento armato, Costa ha continuato a sviluppare il suo progetto. I suoi ultimi approdi progettuali parlano di montagne che sembrano mari, scenari che paiono provenire da Marte, rosse sanguigne e cupe, onde che coprono tutto, maree di ossidiana o vetro fuso dormiente e soffocante nella sua impietosa violenza distruttiva; petrolio e melma, flutti che spazzano via un panorama desolato dove per l’uomo non c’è più quello spazio che ha sciupato e lacerato; perché ha sprecato la sua grande occasione.
Fuzione_3.
Landscape_1_2_5.
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“Il mio futuro artistico potrebbe anche essere un mondo non antropomorfo, dove l’uomo non è più contemplato”. G.C.
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Quattro chiacchiere con l’artista. Ho avuto il piacere di confrontarmi, tramite mail, con Giacomo Costa che si è da subito reso molto disponibile. Le sue risposte chiare e semplici hanno senza dubbio aumentato la mia curiosità e svelato il suo pensiero anche attraverso quei piccoli particolari che da un occhio inesperto non sempre sono colti. “Attraverso i tuoi lavori ho chiaro il tuo punto di vista, ma mi domandavo cosa significano nello specifico alcuni elementi presenti nei tuoi disegni. I tubi di ferro che creano una rete fitta sopra agli edifici e i massi che sono tenuti da una fune presenti nei tuoi lavori “Water” hanno dei significati specifici?” “Beh certo...nelle mie foto l’architettura simboleggia i comportamenti umani e il paesaggio. La natura, che è sempre in relazione all’agire nostro, a volte subisce altre volte si vendica riprendendo i suoi spazi cose che come sai bene accadono poi nella relatà. Gli elementi che inserisco e che quasi sempre sono o fuori scala o metafisici simboleggiano per me quel qualcosa che sta sopra l’uomo e che ci ricorda che noi, nonostante il nostro superego e la convinzione di essere quasi onnipotenti, i nrealtà sottostiamo a leggi che sono ben più alte di noi. Io sono ateo radicale, quindi per me non simboleggiano quel qualcosa che sta sopra di noi e che alcuni identificano nello spirituale o nel sovrannaturale, per me semplicemente ci ricordano che ci sono regole più ampie di quelle che crediamo regolino il rapporto esclusivo tra noi e la natura.” Quindi i tuoi lavori sono l’espressione della guerra tra natura e residui umani. In una tua frase dici che arriverà il momento in cui l’uomo non verrà nemmeno più contemplato. Come ti immagini o come stai sviluppando questa idea?” “Ecco appunto! Sono questi i lavori che presenterò prossimamente alla Fiera di Bologna; “Trilogia della rivoluzione”, paesaggi desertici come quelli della serie dei “Landscape” dove la terra è oramai irrimediabilmente corrotta dall’inquinamento, ossia coperta di un materiale plastico o chissà di che altra natura e sono (a differenza dei “landscape”) tagliati da delle enormi scritte di cemento.” ” Come se fosse un pianeta terrestre...” “In realtà in foto non si capisce che sono scritte, ma sono muri; sono una sorta di testamento ideologico che gli ultimi esseri umani, compreso che oramai è finita a causa delle scelte scellerate prese negli anni, lasciano a ipotetici future forme di vita magari provenienti da altri mondi. Dunque questi uomini scelgono (per mano mia!) le più significative frasi tratte da filosofi, scienziati, religioni, politici o saggi vari, che rappresentano le più alte vette del pensiero umano e che se fossero state seguite il pianete avrebbe prosperato invece che giungere all’estinzione. “A questo punto mi domando...hai mai pensato che magari anche i saggi, i vecchi filosofi o la società francese di quel tempo siano anche essi stati motivo del nostro malessere in questo mondo, per il solo fatto di essere creature umane? Al di là della religione l’ uomo è peccatore comunque...proprio perchè è umano.” Il trittico di Bologna che si chiama “Trilogia della rivoluzione” prende le tre parole simbolo della Rivoluzione francese e principi del diritto moderno “liberté, fraternité, egalité” tradotto in tutte le lingue del mondo.”
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“In un mondo con solo la natura potrebbe scatenarsi una guerra tra elementi organici, visto che esiste sempre la legge del più forte, o essendo “natura” e avendo un proprio equilibrio dato dal suo ciclo vitale, può vivere nell’armonia?” “Volendo fare una critica radicale alla dannosità dell’essere umano direi che hai ragione infatti l’uomo lascia quelle tracce di sè - il titolo della serie è infatti Traces -ma poi egli si estingue; in futuro farò rinascere una natura felice di non avere più tra i piedi l’essere umano! “Quindi siamo noi gli scarti! Credo...poi si vedrà...chi può dirlo!” ”Perchè allora nei tuoi lavori si vedono sempre le tracce umane, come ad esempio gli edifici e mai un essere vivente?...E’ nascosto o è stato già estinto e ne sono rimaste soltanto le tracce?” “Hai detto bene...esiste l’equilibrio che è fatto certamente di tensioni opposte ma che trovano alla fine un certo bilanciamento. L’ essere umano ha alterato questo equilibrio e ha causato indicibili catastrofi che stiamo vedendo con i nostri occhi. Volendo essere precisi essendo che anche noi sottostiamo alle leggi della natura e nonostante siamo convinti di poterla dominare, rientriamo nella ciclicità e nel meccanismo di riequilibrio; quindi si potrebbe pensare che la nostra estinzione è un modo per rimettere in equilibrio le varie forze della natura di cui noi stessi facciamo parte.” ”Il masso enorme che c è nei lavori “Fusione” perchè cambia, perchè è tagliato in modo netto, è sempre l’ uomo che lo ha modificato?” ”In “Fusione” quei blocchi sono iceberg; in particolare su “Fusione 1” c’è una storia particolare.Da bambino lessi una storia su Topolino in cui Zio Paperone faceva un business andando al polo nord con un rimorchiatore prendendo un iceberg per poi vendere l’acqua in Africa. L’ Iceberg però gli si scioglieva durante il tragitto; era una visione potente e modernissima anche se inconsapevole perché descriveva la questione dell’acqua bene comune e dell’ importanza del polo come maggior riserva d’acqua dolce del pianeta messo a rischio a causa del riscaldamento globale. Così, partendo da quel ricordo e sviluppandolo, ho creato quei grossi ammassi di ghiaccio che l’ uomo succhia essendo le ultime scorte di acqua a disposizione. L’ imagine era forte e Kofi Annan, allora segretario generale delle Nazioni Unite, mi chiese di poterlo usare come icona simbolo di uno dei primi Forum sull’acqua! Quindi il cerchio si chiuse..da Topolino alla politica!” ”Questa conversazione è stata entusiasmante. Ti ringrazio della disponibilità e spero che ci sia in futuro un’altra occasione per continuare questa nostra discussione. Per il momento... buon lavoro!” ”Se avrai altre domande da pormi, non ti peritare!....buon lavoro anche a te...alla prossima!”
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Sitografia •
http://www.giacomocosta.com/full
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http://www.co-mag.net/it/2008/citta-giacomo-costa/
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http://www.corrierenazionale.it/spettacoli/65079-giacomo-costa-l-insostenibile-pesantezza-dell-umanita
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http://www.youtube.com
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Thomas Heatherwick
a cura di Giulia De Lena
Designing The Extraordinary
Designing the Extraordinary è il titolo della mostra al Victoria & Albert Museum dedicata ai venti anni di attività del Heatherwich Studio
“Nel nostro lavoro ciò che ci motiva è il problema, il cercare di arrivare a un un’idea che possa rendere qualcosa migliore, e questo su vari livelli, quello ergonomico, sul modo in cui il progetto si inserisce nel contesto dal punto di vista sociale e ambientale, e anche per l’estetica. Sono molto stimolato dalle idee, mi interessa trovare il modo di spingere certe cose oltre e vedere cosa possiamo farle diventare. Penso che gli essere umani siano interessati alle idée, dai bambini ai professori, la gente è incuriosita dal progresso. Il mondo attorno a noi è così vasto che è come se ci fossero spazi illimitati nei contesti urbani, nei paesaggie che ci circondano o sulle strade, per trovare un modo di migliorare le cose e farlo in modo particolare. Il mio interesse personale è quello di cercare di non rendere i posti troppo simili l’uno all’altro perché se da una parte progresso oggi vuol dire che gradualmente sempre meno persone muoiono di fame, dall’altra il trend a cui assistiamo è che le città del mondo diventano sempre più simili, i loro uffici, spazi pubblici, ospedali o gallerie d’arte stanno diventando posti sempre più generici. Questo perché viaggiamo, comunichiamo e possiamo procurarci materiali, prodotti da costruzione e anche designer da qualsiasi parte del mondo. A me invece interessa far evolvere i luoghi secondo una loro propria particolarità. È deludente trovare le stesse costruzioni in posti con climi e condizioni ambientali diverse. Non si scelgono gli amici perché sono versioni di altre persone che conosciamo, li scegliamo per il loro modo di essere unico. Così abbiamo sì bisogno di ospedali che funzionino, parcheggi facilmente accessibili, centri cittadini efficienti ma nello stesso tempo nel crearli abbiamo l’occasione, se non il dovere, di cercare di dare a questi spazi una loro sensazione particolare”. Thomas Heatherwick
L’Heatherwick Studio, fondato da Thomas Heatherwick nel 1994, si occupa di architettura, scultura, infrastrutture urbane, design del prodotto, progetti espositivi e pianificazione strategica. La particolarità di questo geniale desiner, definito da molti il Leonardo da Vinci dei nostri tempi, è un’attitudine di pensiero che lo porta a ripensare alle cose della vita quotidiana per come dovrebbero essere, in un modo non solo nuovo ed innovativo, ma di esprimere un messaggio in più, attraverso forme e linee inusuali. Certamente Thomas Heatherwick è un creativo visionario e promotore
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della multidisciplinarietà delle arti. Infatti Il suo team è composto da trenta persone tra architetti, paesaggisti, designer e ingegneri. L’aggettivo “Straordinario” -dice il curatore della mostra che il V&A di Londra gli ha dedicato, Abraham Thomas- è stato adottato come titolo della mostra del designer perchè non solo i suoi progetti permettono di vivere a chiunque momenti memorabili, ma anche perchè difficilmente è possibile incontrare studi che lavorino con tale pluralismo di materiali e scale e in così tante disclipline diverse come architettura, design, scultura, pianificazione urbanistica. Ecco allora che prendono vita il Rolling Bridge il suo ponte rotante a Paddington, perfetto marchingegno in legno e acciaio che si snoda come un serpente per diventare, una volta chiuso, una ruota perfetta, e successivamente rappresentando l’intero Regno Unito (con il progetto del Padiglione Britannico) all’Expo di Shanghai nel 2010, un manifesto non solo dell’eccentricità Britannica, ma anche dall’originalità dei contenuti sempre accompagnati dall’innovazione tecnologica – fibra di acrilico per un edifico con spine. Ognuno dei progetti proposti da Thomas Heatherwick vogliono con forza affermare come anche le forme più inusuali dell’architettura, se pensate in modo appropriato e con attenzione alle risorse, possono convivere e quindi ben inserirsi nel contesto urbano e portare una boccata di aria fresca e un sorriso. Fin dai tempi dell’università, egli è stato fortemente attratto dall’energia e dall’originalità con cui negli anni ottanta si progettava su piccola scala. Nonostante Heatherwick avesse scelto di studiare design, egli continuò costantentemente a volgere la sua attenzione al mondo della costruzione. Egli era interassato a capire se i variegati tipi di idee, tecniche, materiali e artigianalità che erano solitamente applicati su scale più piccole potessero essere utilizzati su una scala molto più grande. Quello che Heatherwick notò era come fosse più che evidente lo scollamento tra la pratica dell’architettura, come allora era in voga, e il mestiere pratico del fare. Egli prese atto che negli anni ottanta, si era diffusa in Gran Bretagna una forte reazione contro l’architettura a blocchi di cemento tipica del secondo dopoguerra. Questo aveva portato un incremento della domanda di una nuova architettura che fosse in armonia con il patrimonio architettonico del passato. La pressione, quindi, per la costruzione di nuovi edifici che fossero simili a quelli già esistenti e che fossero anche con essi in armonia, aveva prodotto un effetto paralizzante sul loro design. Così Heatherwick volse la sua attenzione ad una particolare categoria di costruzioni. In epoca vittoriana, vi era stata una mania per la costruzione di affascinanti e piccoli edifici - padiglioni, follies e gazebi- all’interno dei terreni di tenute di campagna. Questa particolare scala di edifici, che non si adattava quasi alle categorizzazioni convenzionali di architettura, scultura e design, era perfetta per le sparimentazioni che egli voleva intraprendere. Heatherwick era, e lo è ancora oggi, interessato a definire la sua scala, e a
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Thomas Heatherwick
Rolling Bridge il ponte rotante a Paddington, perfetto marchingegno di legno e acciaio che si snoda come un serpente per diventare, una volta chiuso, una ruota perfetta.
caratterizzare ogni suo edificio per ciò che esso è , per la sua funzione e in considerazione del luogo dove esso deve risiedere. L’architettura proposta da Thomas Heatherwick è un’architettura da vivere davvero, tutti i giorni e da tutte le persone, senza eclusione alcuna di classi sociali.
Dal cucchiaio alla città Spun La seduta Spun rappresenta non solo l’atteggiamento di sfida nei confronti delle regole tipico di Heatherwick, ma anche la sua straordinaria capacità di destreggiargi nella piccola come nella grade scala mantenendo le medesime regole del gioco. Sottile è quindi il confine tra design e istallazione d’arte, per questa seduta iconica. La domanda che lo Studio londinese si è posto è stata: può una forma completamente simmetrica e rotante essere una sedia comoda e solidale? La sua forma è stata realizzata attraverso studi di ergonomia, quindi eseguiti sedile, schienale e braccioli tutti con lo stesso profilo. Essa non è immediatamente riconoscibile in quanto seduta, se posizionata verticalmente potrebbe essere scambiata per una scultura. Quando però si appoggia a un lato, Spun si trasforma in una sedia comoda e funzionale dalle possibilità ludiche, derivanti proprio dalla sua forma. Essa permette infatti a chi vi si siede di girare in tondo dondolandosi e di effettuare adirit-
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Spun è la poltroncina totante creata per Magis, presentata al Salone di Milano del 2010
tura una rotazione completa di 360°. Questa stravagante seduta è realizzata con stampaggio rotazionale in polietilene, molto efficiente e di basso costo durante il processo produttivo. Il processo di creazione prevede l’utilizzo di micro sfere di plastica riscaldate in uno stampo per la filatura, il polietilene si scioglie e scorre all’interno dello stampo, formando uno spessore costante. Questo processo conferisce alla superficie una texture che rende ancora più particolare questa seduta unica nel suo genere.
Il Braciere Olimpico, Londra 2012 “ I Giochi Olimpici sono una fenomenale religione. La liturgia, la dimensione cerimoniale, è incredibilmente simile ad un servizio religioso” Ciscuna delle duecentoquattro squadre nazionale in competizione ai Giochi Olimpici hanno ricevuto, al loro arrivo a Londra, un petalo di rame lucido con inciso il nome del suo Paese. Durante la cerimonia di apertura un menbro di ogni squadra è stato scelto per portare il prezioso oggetto all’interno dello stadio olimpico. Uno per uno questi manufatti sono stati disposti come offerte, formando un grande fiore. Quando l’ultimo di questi petali è stato acceso dalla Torcia Olimpica, il primo ha cominciato a salire da terra portato verso l’alto su un lungo stelo sottile, seguito poi in onde circolari da tutti gli altri. Dopo circa un minuto
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Braciere Olimpico Londra 2012
Cerimonia di inaugurazione dei Giochi Olimpici
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le fiamme dei duecentoquattro petali convergevano per formare una grande fiamma unita verso il cielo, rendendo il braciere una gigantesca scultura cinetica al centro dello stadio, simbolo dell’arrivo congiunto delle nazioni partecipanti per le due settimane di pacifica competizione sportiva. Heatherwick ha voluto conservare la sacralità e la gravità di una cerimonia vera e propria. In un certo senso egli paragona lo stadio ad un tempio, giacchè per molti è una fede e come tale ha precisi aspetti “liturgici”. Alla fine dei Giochi, il braciere olimpico si è aperto nuovamente ed ogni paese ha raccolto ancora una volta ogni singolo petalo che lo componeva. Una volta che tutti i petali sono stati raccolti (ogni paese ha conservervato il suo petalo come ricordo di questo grande evento sportivo), il braciere ha cessato di esistere. Come un fiore che sboccia solo per la durata dei Giochi, questo progetto/ istallazione è una rappresentazione della convivenza straordinaria e temporanea che le Olimpiadi permettono.
The Double-Deckers
E’ nell’ottica di un design democratico e popolare, in quanto usufruibile da tutti, che è stato concepito il rifacimento dello storico double decker londinese (il bus a due piani) - il cui primo prototipo risale a mezzo secolo fa. Heatherwick ha riconfigurato in chiave contemporanea lo storico simbolo della capitale britannica riscotendo consensi anche tra i tradizionalisti più convinti. I nuovi bus sono finalmente ecologici e in grado di consumare un quarto di carburante. Data l’invasiva presenza e caratterizzazione di questi mezzi nel tessuto cittadino, questo progetto è considerato dall’autore un vero e proprio intervento di architettura urbana. Il design esterno è stato sviluppato per riflettere le esigenze funzionali del veicolo. Una lunga finestra anteriore asimettrica offre al guidatore una visione chiara del bordo stradale, mentre i finestrini a nastro che avvolgono il bus permettono di portare più luce all’interno e offrono ai passeggeri una vista a 360° sulla città. Incorporando una piattaforma aperta nel lato posteriore, il bus ripristina una delle caratteristiche più amate del Routemaster del 1950, il quale offriva il servizio di “ hop-on hop-off”. Il nuovo bus è costituito anche da tre porte e da due scale, rendendo più veloce e più facile per i passeggeri a bordo la discesa.
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La versione aggionata e più tecnologica del Double Decker londinese
Uk Pavilion Seguendo una tradizione che è iniziata con la Grande Esposizione del 1851, la World Expo è una grande fiera internazionale in cui i Paesi partecipano con la creazione di propri padiglioni a tema, che rappresentano la tecnologia, la cultura, e le realizzazioni della propria Nazione. Il Padiglione del Regno Unito, secondo l’idea di Heatherwick, si sarebbe distinto dagli altri 200 per la sua potenza formale, ma anche per la sua semplicità e chiarezza, e infine per l’assenza di schermi e dispositivi tecnologici. Partendo dal presupposto che la maggior parte dei settanta milioni di visitatori avrebbe visto la struttura dall’esterno, Heatherwick e il suo team hanno preferito dare maggior risalto alla parte esterna facendo in modo che l’edificio, il suo involucro, fosse espressione del suo stesso contenuto. Il designer britannico si è interrogato su ciò che voleva raccontare della Gran Bretagna invece di perpetuare inutili stereotipi obsoleti. Prendendo così spunto dal tema dell’Expo- il futuro della città, una città migliore per una vita migliore- egli ha iniziato a esplorare le relazioni tra città e natura, e l’importanza delle piante per la salute umana, per il successo economico e per il cambiamento sociale. Lo sforzo compiuto è stato quello di concentrare le risorse a sua disposizione per creare un oggetto memorabile, che occupasse un quinto del sito a sua disposizione, trasformando in spazio pubblico quello che ne restava.
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Padiglione britannico Expo 2010, Shanghai, Cina
L’mmagine irsuta e irregolare dell’esterno del padiglione britannico lo situa immeditamente in una categoria a parte nell’architettura contemporanea
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La Royal Botanical Gardens Kew ha messo a disposizione 15.000 semi per il Padiglione
Questo spazio è divenuto così un luogo di ristoro nel quale i visitatori hanno potuto riposare e osservare la struttura del padiglione separandola dall’ambiente caotico circostante. Per relazionarsi con il tema dell’Expo ( la relazione tra natura e città), Heatherwick ha realizzato il suo padiglione come se esso fosse una cattedrale di semi, che sono immensamente importanti per l’ecologia del pianeta e per l’uomo. L’idea alla base del Padiglione Britannico era, inoltre, coinvolgere nel progetto la Banca dei Semi dei Kew Gardens, la MIllennium Seedbank. L’obiettivo della banca è quello di raccogliere i semi del 25% delle specie vegetali di tutto il mondo entro il 2020. Per mezzo di almeno 60.000 sottili bacchette trasparenti in fibra ottica, ciascuna lunga 7,5 m e contenente uno o più semi alla sua estremità, lo studio ha creato ciò che definisce la Cattedrale dei Semi. I semi “ congelati” in cubetti di acrilico trasparente, diventano il contenuto stesso del padiglione inglese a significare la crescita e l’impegno per un futuro migliore. Realizzato con una struttura composita di acciao e legno che sostiene le bacchette di fibra ottica, il padiglione si contraddistingue per il suo aspetto a forma di riccio. Queste fibre appaiono come una patina protettiva e amplificano l’ apparenete inconsitenza del padiglione così da rendere difficile tracciare una linea definita tra l’edificio e il cielo. Heatherwick parlando delle bacchette: “Di giorno lasciano penetrare la luce per illuminare l’interno, e di notte le sorgenti di luce contenute all’interno di ogni bacchetta fanno brillare la struttura. Se c’è vento, quando passa attraverso le bacchette, queste si muovono delicatamente creando un
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Garden Bridge la cui costruzione dovrebbe iniziare nel 2014 e dovrebbero essere completata entro 2017
effetto dinamico”. Il padiglione sembra galleggiare all’interno di uno spazio le cui estremità appaiono come accartocciate e piegate come un foglio di carta; come un dono del Regno Unito alla Cina, ancora in parte racchiuso in carta da imballaggio. Le superfici inclinate e i bordi sollevati formano come un anfiteatro, il pavimento è rivestito da un’argentea erba sintetica che invita a sedersi ed a straiarsi. L’atmosfera di intimità e ambiguità di intenti permette alle persone di trattare lo spazio coma la piazza di un villaggio, invocando il record del Regno Unito come pioniere del moderno parco pubblico.
Garden Bridge A seguito del concorso indetto dal Transport for London (TfL), l’ Heatherwick Studio si è aggiudicato l’appalto per il miglior progetto per il collegamento pedonale sul Tamigi. Heatherwick, in collaborazione con gli ingegneri di Arup e con il paesaggista Dan Person, ha immaginato la realizzazione di un ponte pedonale di 367 metri che attraversa il fiume della città, portando nuova vegetazione e nuovi spazi pubblici attraverso la realizzazione di diverse aree verdi, giardini, orti urbani e percorsi botanici. Il Garden Bridge quindi, oltre a portare nuova vegetazione per migliorare la qualità dell’aria della città, servirà anche a migliorare la qualità della vita dei cittadini londinesi, semplificando non poco le esigenze della mobilità tra i quartieri separati dal Tamigi.
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Gli architetti si sono ispirati all’ High Line di New York, il parco realizzato su una ferrovia sopraelevata allora in disuso
La struttura del ponte è caratterizzata da una sezione variabile e da diverse aree piantumate, sostenuta da due soli pilastri scanalati. Il Garden Bridge non sarà solo un nuovo parco sospeso sulle acque del fiume ma diverrà, secondo Heatherwick, un punto di vista privileggiato da cui ammirare la città. La nuova struttura è stata progettata per connettere l’area della South Bank con i luoghi d’interesse lungo la sponda nord. L’idea del ponte- giardino nasce dall’ispirazione dell’ attivista Joanna Lumley, la quale parlando del progetto afferma “È abbastanza strano parlare di qualcosa che non esiste ancora, ma il Garden Bridge è già vivo nei piani e nell’immaginazione. Questo giardino sarà sensazionale: un luogo senza rumore o traffico dove gli unici suoni saranno il canto degli uccelli, il ronzio delle api e il vento tra gli alberi, lo scrosciare dell’acqua. Potrà costituire un modo più lento di attraversare il fiume, che consentirà alla gente di indugiare e appoggiarsi sui parapetti ad osservare i grandi paesaggi urbani tutt’intorno, ma sarà anche un modo sicuro e veloce di attraversare il Tamigi per il pendolare stanco. Ci saranno erba, alberi, fiori selvatici e piante; ci saranno fiori in primavera e persino un albero di Natale in pieno inverno. Credo che porterà ai londinesi e ai turisti pace, bellezza e magia”.
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L’ edificio conterrà anche gli uffici, un centro visitatori e un centro per l’istruzione per l’energia rinnovabile con splendide viste in tutta la Tees Valley
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Bombay Sapphire Distillary Heatherwick si è dedicato alla riqualificazione di un vecchio corpo di fabbrica nell’Hamshire, una volta dedito alla produzione di carta per banconote della Gran Bretagna e dell’ Impero. Questo spazio si compone di una quarantina di edifici fatiscenti, molti dei quali di interesse storico. L’intenzione del progettista è stata quella di dare nuova vita all’area totale ( circa due ettari, vicino al Loverstoke Park), che diventerà sede della distilleria Bombay Sapphire, storica azienda produttrice di gin, all’insegna della sostenibilità ambientale, della funzionalità e del design, per riflettere le aspirazioni della casa produttrice. Una delle caratteristiche del sito è il fiume Test, che attualmente è contenuto all’interno di uno stretto canale di cemento dai bordi alti che lo rendono quasi invisibile. Per dare un senso a questo accumulo confuso, la proposta è stata quella di utilizzare il fiume come dispositivo organizzativo della nuova struttura. Le rive verranno aperte e trasformate in un percorso che condurrà i visitatori all’interno del cortile principale. L’idea più originale del progetto è però la creazione di due serre necessarie per la coltivazione delle dieci erbe che sono alla base del famoso gin, esse verranno poste al centro dell’intera area e potranno essere visitate dai visitatori; in una sarà garantita l’umidità necessaria alla crescita di piante originarie dei climi tropicali, e nell’altra saranno assicurate le condizioni per la vita delle piante di origine mediterannea, che necessitano di climi più secchi. Heatherwick afferma che il Gin Bombay Sapphire è particolarmente noto per il suo particolare sapore derivate dalle dieci specie vegetali in esso contenuto, allora il fulcro del progetto saranno le due Glass House, all’interno delle quali i visitatori potranno osservarle e studiarle nei loro habitat tipici. I lavori sono iniziati nel febbraio del 2012 e si prevede che la nuova sede verrà inaugurerà nell’ autunno del 2013.
Teesside Power Station La Bio Energy Investments Ltd (BEI) ha presentato una richiesta per la progettazione di una centrale elettrica da 49MW e alimentata a biomassa, presso Stockton on Tees, Teesside, Inghilterra. Il progetto, noto come BEI-Teesside, porterà 150 milioni di sterline di investimenti nella regione. Esso consentirà nel rilanciare un sito dismesso sulla riva del fiume Tees, e di creare centinaia di posti di lavoro durante il periodo di due anni di costruzione. Heatherwick e il suo team hanno proposto un edificio, che per le sue dimensioni e struttura, diventasse un esempio della progettazione delle moderne
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centrali energetiche; un punto di riferimento locale, e anche un simbolo nazionale della strategia della Gran Bretagna per l’energia rinnovabile. Il progetto è interamente basato sullo sviluppo di ampie forme organiche che, nel paesaggio pianeggiante e industriale dei dintorni, lo fanno apparire più simile a una galleria d’arte che non ad una centrale elettrica. Le attuali centrali elettriche a biomassa assumono, in generale, una forma caotica, dovuta all’assemblaggio casuale dei capannoni che ospitano i vari pezzi di equipaggiamento. Heatherwick, lavorando con un team di ingeneri, ha unito tutto in una unica struttura funzionale. La centrale occupa solo un terzo del sito dell’area dismessa, con i restanti quattro ettari Heatherwick ha proposto di seminare lungo i pendii, dei quali la centrale è circondata, erba e piante. In questo modo si verrà a creare un habitat adatto alla flora e alla fauna ma anche all’uomo che potrà passeggiare e viverlo, trasformando la percezione di un luogo pericoloso e inquinante che generalmente si associa ad una centrale industriale.
“Negli ultimi decenni abbiamo trascurato il contributo culturale che le infrastrutture industriali possono dare alla nostra società. La Gran Bretagna ha un patrimonio di meravigliose centrali energetiche. Ora, con l’impeto della produzione di energia alternativa, abbiamo l’opportunità di adattare quest edifici alle esigenze della nostra epoca. BEI-Teesside sarà alimentato con gusci di noci di cocco - gli avanzi, o sottoprodotti, delle piantagioni di palma da olio. I vantaggi di questo sono che non si sottrarrà terra alla produzione alimentare o alla foresta per ottenere il carburante. Al contrario fornirà ai coltivatori di palma entrate aggiuntive e eliminerà uno scarto che loro stessi non possono utilizzare”. (T.H.)
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Sol LeWitt
a cura di Giulia Caleca
La vita Sol LeWitt naque il 9 Settembre del 1928 a Hatford, Connecticut, da emigranti dell’Est Europa. Suo padre, un dottore ed un inventore, morì quando aveva sei anni. Molto presto si trasferì con la madre, un’infermiera, a vivere dalla zia a New Britain, Connecticut. Sua madre lo mandò ad una classe d’arte all’Ateneo Wadsworth di Hartford dove la sua carriera da Artista comincio partendo dai disegni sulla carta d’imballaggio del negozio dellazia. LeWitt ricevette il BFA dall’Università di Syracuse nel 1949 (dove fece le sue prime stampe), poi fu arruolato per la Guerra di Coreanel 1951. Durante il suo servizio, fece i manifesti per i Servizi Speciali e trascorse del tempo in Giappone, dove compro le prime opere che divennero la base di una grande collezione d’arte personale. Tornato dalla Guerra nel 1953, si trasferì a New York, dove studiò presso la Cartoonists and Illustrators School ( ora la School of Visual Arts) e lavorò presso il magazine Seventeen creando paste-ups, e photostats. Fu poi assunto come grafico nello studio di architettura I.M.Pei. Nel 1960 iniziò a lavorare al Museum of Modern Art, dove incontrò Dan Flavin, Robert Ryman, Lucy Lippard e Robert Mongold. Insieme , attraverso la mostra “Sixteen Americans”, furono introdotti al lavoro di Jasper Jhons, Franck Stella e Robert Rauschenberg. LeWitt fu anche interessato al Costruttivismo russo, con la sua estetica meccanica e l’idea di fare arte utilitaristica in un’epoca di industrializzazione. Tuttavia, il lavoro che lo ha più influenzato sono state le fotografie seriali di Eadweard Muybridge, studi sequenziali di persone o animali in movimento, e che scopri imbattendosi in un libro che qualcuno aveva lasciato nel suo appartamento. Sol LeWitt lavorò dall’inizio del 1960 a opere su tela rivestite di pittura gestuale a olio, ognuna rappresentante una delle figure di Muybridge in movimento. I lavori seriali sulle strutture tridimensionali di LeWitt iniziarono a metà del 1960 e continuarono fino alla fine del decennio, come per esempio Three Part Variations on Three Different Cubes, centinaia di sculture fatte di cubi bianchi aperti. Applicò lo stesso sistema di permutazioni e variazioni nelle sue stampe, disegni su carta e disegni sui muri. Realizzò il suo primo disegno sul muro nel 1968 nella Paula Cooper Galler di New York. Come molti dei wall drawings dopo questo, Wall Drawing #1 consisteva in un sistema di linee parallele disegnate con la matita nera su un muro bianco in quattro direzioni (verticale, orizzontale, diagonale sinistro e diagonale destro). Disegnando direttamente sul muro, la durata del lavoro fu limitata e, infine, i disegni venivano ricoperti. Inoltre questo sistema gli permise di raggiungere il suo obiettivo di rafforzarela planarità e fare un lavoro più bidimensionale possibile. Wall Drawing #1 ha anche sottolineato la premessa dell’opera sul prodotto finale. In un articolo del 1969 per Studio International, LeWitt scrisse :
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”Two-dimensional non vanno visti come oggetti. L’opera è una manifestazione di una idea. E’ un’idea e non un oggetto.” Senza il supporto tradizionale di tela o carta, esistono disegni murali come un insieme di istruzioni che possono essere installati più volte. Questo cambiamento radicale nel disegno su muro, seguì la pubblicazione di Paragraphs on Conceptual Art, dove scrisse: ” Quando un artista usa una forma concettuale d’arte, vuol dire che tutta la pianificazione e le decisioni vengono prese in anticipo e l’esecuzione è un superficiale affare. L’idea diventala macchina che fa l’arte.” Anche se l’artista disegnò lui stesso Wall Drawing #1 sul muro della galleria, ben presto scoprì che un team di assistentia vrebbe potuto installare la sua opera im modo migliore e anche più spesso. Egli credeva che l’idea del suo lavoro superasse l’arte stessa. come disse il curatore Andrea MillerKeller: “ L’essenza del lavorodi LeWitt è l’idea originale come formulata nella mente dell’artista.” Alla fine degli anni ‘70, poco dopo la sua prima retrospettiva al MoMa e dopo numerosi anni di esposizioni in Italia, LeWitt si trasferì a Spoleto. Li vide gli affreschi di Filippo Lippi, Masaccio, Beato Angelico e Giotto nelle chiese locali, nei musei e nei conventi. Nel 983 l’arte di Sol LeWitt subì una profonda trasformazione e cominciò a sperimentare con inchiostro indiano e inchiostri colorati lavabili, con un cenno al Trecento e alle opere locali del Quattrocento. Riconobbe l’influenza di quei capolavori sui propri disegni, e si spinse fino a dire che nel suo lavoro si sforzò: “ per produrre qualcosa che non si vergognerebbe di mostrare a Giotto.” Nel catalogo della mostra Think with Senses - Feel with Mind, L’arte al Presente, parte della Biennale di Venezia 2007, Robert Storr ha scritto che LeWitt: “ ha dimostrato più e più volte che la rigidezza, realizzazione sistematica di una premessa di lavoro singolare, è destinata a produrre risultati che sorprenderanno sia il creatore che lo spettatore superando le aspettative e dando agli occchi e alla mente un’espanzione delle dimensioni fisiche per le astrazioni mentali.” Fino al 2033, i disegni di LeWitt saranno oggetto di una mostra personale dal titolo Sol LeWitt: A Retrospective Wall Drawing al Museo di Arte Contemporanea del Massachussets. Sol LeWitt morì nel 2007 a New York City.
Sol LeWitt in una foto del 2001
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Percorso artisitico Sol LeWitt contribuì a stabilire il concettualismo e il minimalismo come movimenti dominanti del dopoguerra. Fu un mecenate e amico di colleghi giovani e vecchi, lui era l’opposto dell’artista come celebrità. Cercò di reprimere ogni interesse per lui, se non per il suo lavoro, rifiutò premi e fu sempre restio a concedere interviste. Egli non amava particolarmente la prospettiva di avere una sua fotografia sui giornali. Nel 1980 iniziò un progetto denominato “Autobiografia”, costituito da più di mille fotografie che scattò di ogni angolo del suo loft a Manhattan, dalla rubinetteria, fino a prese a muro e vasetti di marmellata vuoti, e documentando tutto quello che gli capitava mentre registrava le immagini. L’artista apparve in una sola foto, che era così piccola e fuori fuoco che è quasi impossibile notarlo. Il suo lavoro - sculture di cubi bianchi, o disegni di motivi geometrici, o schizzi di vernice come modelli Rorschach - testa la flessibilità psicologica e visiva dello spettatore. Vedere una line;. notare come può essere diritta, sottile, rotta, curva, morbida, ad angolo o spessa; godersi le differenze. “Il test non è difficile da passare se i tuoi occhi e la tua mente sono aperti” questo era il messaggio dell’arte di Sol LeWitt. Ridusse l’arte ad alcune delle forme più basilari (quadrilateri, sfere, triangoli), a colori (rosso, giallo, blu, nero) a diversi tipi di linea, e li organizzò secondo linee guida, che poi si sentiva alla fine libero di piegare. Molto di ciò che ideò derivò da idee specifiche o istruzioni: un pensiero che bastava contemplare, o piani per disegni che potrebbero essere svolte anche dallospettatore. Scultura: Inverted six towers, 1987
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Egli riduceva l’arte alla sua essenza “per ricreare l’arte, per ricominciare da zero”, disse, cominciando letteralmente con quadrati e cubi . Ma a differenza di alcuni minimalisti rigorose, LeWitt non era interessato a materiali industriali . Era concentrato sui sistemi e concetti - il volume , trasparenza , sequenze , variazioni , stasi , irregolarità e così via - che ha espresso con parole che potrebbero o non potrebbero essere tradotte in sculture o fotografie o disegni reali. Per lui , le idee erano ciò che contava . Talvolta questi piani derivavano da un sistema logico, come un gioco; a volte sfidavano la logica in modo che i risultati non potevano essere previsti, con istruzioni volutamente generiche per permettere di interpretarle. Una sua caratteristica era quella di accreditare il risultato ad assistenti o ad altri. Un esempio, ne sono i suoi wall drawing, opere murali di dimensioni tali che talvolta hanno necessitato squadre di persone e settimane per eseguirle. Commissionava la realizzazione ai suoi assistenti, per poi poter decidere se una linea per la quale aveva dato l’istruzione “non diritta” era sufficientemente irregolare senza diventare ondulata.
Diede sempre al suo team spazio di manovra, credendo che la collaborazione di altri - la loro gioia, noia, frustrazione o qualsiasi altra cosa - rimanesse parte dell’arte.
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Installazione: Wall Drawings
In tal modo, il signor LeWitt ricordò gentilmente a tutti che gli architetti sono chiamati artisti - buoni architetti, comunque - anche se non depongono i loro mattoni, cosÏ come i compositori scrivono musica che poi anche altri suonano, ma restano lo stesso loro gli artisti musicali. Sol LeWitt, con i suoi metodi, ha permesso ad altre persone di partecipare al processo creativo, di diventare artisti loro stessi. Scultura: Four sided pyramid, 1999
Schizzi di studio
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Cogliere il suo lavoro potrebbe richiedere un piccolo sforzo. Le sue prime sculture erano casti cubi bianchi e blocchi di cemento grigio. Per anni le persone lo associavano a esse. I suoi primi disegni su carta potrebbe assomigliare diagrammi matematici o grafici chimici. Naturalmente i critici conservatori ebbero sempre molto da dire sulla sua opera. Dal 1980, si trasferi da Manhattan a Spoleto, in Italia, cercando di allontanarsi dal vortice del mondo dell’arte di New York. La sua arte subì una trasformazione. In parte dovuta a quello che vide in Italia.
L’opulenza di “Eye-candy” emerse dalle stesse istruzioni, apparentemente prosaiche, che aveva escogitato anni prima. Una retrospettiva nel 2000, organizzata dal San Francisco Museum of Modern Art, che ha viaggiato per il Whitney Museum of American Art di New York e il Museum of Contemporary Art di Chicago, si è concluse con alcuni di quei wall drawings così moderni e colorati. Gary Garrels, un curatore che organizzò la retrospettiva del signor LeWitt, disse: “Non impose nulla. Accettò la contraddizione e il paradosso, l’inconcludenza della logica.”
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Installazione: Wall Drawings N.766
Installazione: Wall Drawings N.260, 1975, vista dell’ installazione al Moma, 2008.
Descrisse così un wall drawing il N ° 766 “Ventuno cubi isometrici di varie dimensioni tutti con lavaggi d’inchiostro a colori sovrapposti” sembrava semplice a guardarla, ma poi si notava che c’erano geometrie giocose di colori scuri che richiamavano alla pittura degli affreschi del Rinascimento in un certo modo. “Loopy Doopy,” un’astrazione in vinile lunga 49 piedi, era come uno psichedelico Matisse ritaglio, ma su larga scala. Altri disegni consisteva in linee di ragnatela, appena visibili.
Coloro che definivano il concettualismo del signor LeWitt come arcano e inerte cambiarono idea quando cominciò a fare disegni lastricati di colore, macchie scultoree spinose spesso come enormi decorazioni per edifici in tutto il mondo. Era come se avesse messo a punto una sorta espressionismo astratto verso la fine del suo lavoro, al quale, guardando indietro, il suo primo concettualismo era stato la risposta.
“Una vita per l’arte è un’esperienza inimmaginabile e imprevedibile.” Sol LeWitt
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Illustrazione in memoria di Sol LeWitt, OnsmithComics ,Giugno 2007
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Riferimenti http://www.sollewittprints.org http://www.nytimes.com http://www.effyeaharthistory.com http://www.sfmoma.org http://onsmithcomics.blogspot.it
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4. L’ interazione nell’allestimento a cura di Giulia Facioni
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Indice L’interazione Il termine Il fenomeno Interazione uomo-computer Usabilità e obiettivi L’interazione e la comunicazione Marketing e pubblicità Uso dei social network
Casi di studio Conclusioni
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L’ interazione Il termine Il termine interazione indica un fenomeno o processo in cui due o più oggetti (agenti o sistemi) agiscono uno sull’altro. Nel concetto di interazione è essenziale l’idea di azione bidirezionale, il che la distingue dalla relazione causa-effetto. Inoltre l’interazione è presente in alcune forme di comunicazione e nel comando, o nella guida, di macchinari.
Il fenomeno L’interattività permette il collegamento di diversi e tantissimi numeri di entità usufruendo di vari sistemi che connetto e permettono la divulgazione di nozioni, ideali, news e contatti con tutti il mondo; è una continua ricerca che aiuta lo svillupo e la realizzazione di progetti in modo semplice ed efficace.
L’ interazione uomo-computer L’interazione uomo-computer è lo studio dell’interazione tra le persone (utenti) e computer per la progettazione e lo sviluppo di sistemi interattivi che siano usabili, affidabili e che supportino e facilitino le attività umane. Il sempre maggior uso di applicazioni informatiche richiede una progettazione che sappia tenere conto dei vari possibili contesti d’uso, degli obiettivi degli utenti e delle nuove tecnologie di interazione. L’informatica perciò, diventa sempre più una disciplina interattiva e orientata alla comunicazione con gli utenti.
Usabilità e obiettivi Il principale obiettivo di questa disciplina, L’interazione, è l’usabilità; aumenta l’efficienza degli utenti e questo significa, per le aziende e le organizzazioni, un aumento di produttività: • • • •
si riducono gli errori, quindi, aumenta la sicurezza nell’interazione con applicazioni o servizi informatici; si riduce il bisogno di addestramento (che è anche esso un costo per le aziende e gli enti); si riduce il bisogno di supporto degli utenti, che quindi accettano più volentieri l’uso di applicazioni informatiche; aumenta le vendite; è evidente che quando due sistemi hanno funzionalità simili gli utenti scelgono quello che consente un facile accesso.
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L’interazione e la comunicazione Marketing e pubblicità Con il termine pubblicità si intende quella forma di comunicazione di massa usata dalle imprese per creare consenso intorno alla propria immagine. L’obiettivo e’ che il consenso si trasformi in atteggiamenti o comportamenti positivi da parte del pubblico che non consistono solo o semplicemente nell’acquisto del prodotto o servizio. La caratteristica principale della comunicazione pubblicitaria e’ di diffondere messaggi preconfezionati a pagamento attraverso i mass-media. La pubblicità informa, persuade, seduce il pubblico. Una pubblicità efficace è quella che fa guadagnare soldi, perciò lo scopo della pubblicità, il motivo per cui s’investe denaro in uno spot televisivo o quant’altro, è quello di vendere di più il proprio prodotto o sponsorizzare un evento per attirare il pubblico inerente e non alla situzione. La pubblicità non può determinare in modo meccanico le vendite di un prodotto o il successo assicurato di un evento, non è sola ma fa parte del cosiddetto Marketing Mix, cioè a incidere sul volume delle vendite non vi è solo la réclame ma anche il prodotto o l’ evento stesso, il Brand image, il Design, il Made image e la concorrenza, La migliore comunicazione per semplicità ed efficacia, studiata nel minimo dettaglio, porterà la vendita del prodotto o il successo di un evento organizzato, al massimo sviluppo e notorietà.
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Uso dei social network Sono sempre di più coloro che fanno uso di questi nuovi mezzi comunicativi per i motivi più disparati: le aziende si fanno pubblicità, alcuni professori postano i compiti e lezioni online, sono utilizzati per organizzare eventi ecc...I social network permettono il collegamento di piu servizi con cui l’utente può informarsi a seconda del suo volere. Social network come Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, Pinterest, Vimeo, Google, Skype e tanti altri, vengono sfruttati per divulgare la proprio immagine e per permettere al pubblico di conoscere o informarsi su qualsiasi cosa; questo avviene grazie ai link dei siti, alle App e ai QR code che ogni social ha creato con il suo Brand prensenti su pc, smartphone e tablet.
*Nella sitografia sono riportati link di esempi video dei casi studio analizzati.
I QR code (abbreviazione di Quick Response code, codice a risposta veloce) sono quei simboli “quadrati” che si trovano sui siti Internet, sui giornali e non solo che, se fotografati con la fotocamera del cellulare, permettono di accedere a siti Internet, informazioni e video online istantaneamente. Si tratta di un’evoluzione dei codici a barre le cui potenzialità sono pressoché infinite. Per visualizzare il contenuto basta installare le applicazioni appropriate sullo smartphone o tablet, puntare la fotocamera sul QR code e si potrà accedere a tutte le informazioni “scritte” su quel codice.
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QR CODE
Come già detto precedentemente vengono usate diverse tipologie di comunicazione soprattutto nelle organizzazioni di mostre ed eventi di ogni genere. In un’esposizione fieristica, per esempio, il pubblico viene stimolato sia all’interno che all’esterno dell’evento; oltre a continue pubblicità, slogan e applicazioni create appositamente, vengono sfruttate delle componenti interattive per coinvolgere, in diversi modi, gli utenti. Prenderemo dei casi di studio per analizzare le differenti teconologie.
Casi di studio * 1 - Augmented Reality
Per realtà aumentata (in inglese augmented reality, abbreviato AR), si intende l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi. Gli elementi che “aumentano” la realtà possono essere aggiunti attraverso un dispositivo mobile, come uno smartphone, con l’uso di un PC dotato di webcam o altri sensori, con dispositivi di visione (per es. occhiali a proiezione sulla retina), di ascolto (auricolari) e di manipolazione (guanti) che aggiungono informazioni multimediali alla realtà già normalmente percepita.
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2 - Citroën / Moving landscape
Interaction design: …dotdotdot Exhibition: per C DISEGNO Grattacielo Pirelli, 31 ° piano, Milano. Settimana del design Aprile 2008
Il Moving landscape è un percorso espositivo che presenta i prototipi selezionati dal concorso di progettazione C design promosso da Citroën e coordinato da DPR eventi . Usufruendo della tecnologia delle proiezioni (Video Mapping) il progetto è stato concepito come una strada per un viaggio attraverso un paesaggio che cambia: dall’ambiente naturale alla città gli edifici si smaterializzano, i volumi perdono la loro dimensione fisica per diventare un universo surreale, animata da immagini proiettate che accompagnano il visitatore lungo il percorso magico.
Evento lancio PlayStation4 Castel
Sant’angelo
(Roma) 2013.
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3 - Interactive Wall
Interaction design: …dotdotdot Interactive wall: L’archivio Piccolo Museo del Diario Arezzo 2013.
La mostra interattiva è un omaggio per l’anima dell’Archivio ed è un meraviglioso crogiolo di ricordi, confessioni e segreti nascosti sugli scaffali e nei cassetti, che aspettano solo di essere rivelati. Uso di video mapping che interagisce con l’utente.
Interactive wall: Nervous Structure Biennale del video e Arti Mediali Santiago, 2012.
Gli utenti possono interagire con il muro interattivo con il solo movimento del corpo; le 144 linee verticali proiettate si muovono come se fossero spostate dal vento.
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4 - Lotus Dome
Progettato dallo Studio Roosegaarde.
Lotus Dome è una cupola vivente fatta di centinaia di fiori intelligenti che si aprono e si chiudono in risposta al comportamento umano. Situato a Sainte Marie Madeleine Chiesa in Lille Lotus Dome crea un gioco interattivo di luci e ombre.
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5 - Interazioni con Arduino, Kinect, motori
Interactive design: Lab di Xavi Cubepix , 2013.
In forma di prototipo, è stato ideato con una ricetta segreta di Xavi, Cubepix che combina un proiettore, un Microsoft Kinect, 8 schede Arduino, 64 servomotori, 64 scatole di cartone. Gli utenti sono in grado di interagire e influenzare l’interazione; le scatole si muovono e sono illuminate da delle proiezioni. Il software sa come e quando le caselle stanno andando a girare e proietta su di loro di conseguenza.
Interaction design: Daniel Rozin Fan Mirror, 2.013.
Ogni ventaglio è azionato da un motore che è controllato dal computer, per aprire e chiudere gli oggetti ritmicamente. La sequenza di movimento in
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questo lavoro è diretta in parte mediante l’impegno dello spettatore che viene ripreso da una telecamera. Quando si avvicina i ventagli si muovono per creare una silhouette approssimativa dello spettatore all’interno della scultura.
Scultura Kinetic per il Museo BMW, Monaco di Baviera, 2008
La “scultura cinetica” si traduce metaforicamente nello spazio in un processo di forma-scoperta di progettazione del veicolo. L’interazione di componenti meccanici ed elettronici crea un pezzo d’arte dinamico. Attaccate a fili di acciaio sottili, manovrati da motori autonomi, 714 sfere di metallo si muovono su e giù; apparentemente le sfere levitano e compongo la struttura della macchina BMW.
Conclusioni I casi analizzati interessano diverse tecnologie che spesso vengono sfruttate per creare dei punti interattivi all’interno di un’ esposizione. Il più delle volte per azionare la struttura interattiva c’è bisogno dell’intervento dell’utente che così viene coinvolto in prima persona nell’exhibition. L’unione di tecnologia e design crea allestimenti che favoriscono la comunicazione tra utente e anzienda e quindi un maggior sviluppo di tutto l’intera complessa rete di interessi coinvolti.
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Sitografia https://vimeo.com http://it.wikipedia.org http://www.studenti.it/ http://aranzulla.tecnologia.virgilio.it/come-leggere-un-qr-code-14448.html
Casi di studio 1) http://vimeo.com/50065093 http://vimeo.com/8350503 http://vimeo.com/11747762 2) http://vimeo.com/43385747 http://dotdotdot.it/it/portfolio/citroen-moving-landscape-2/ http://www.youtube.com/watch?v=x4sVTUAdoLg http://www.youtube.com/watch?v=XSR0Xady02o http://www.youtube.com/watch?v=pWSdi1gNCZE 3) http://vimeo.com/18499643 http://vimeo.com/7260240 http://vimeo.com/35508462 4) http://vimeo.com/55264679 5) http://vimeo.com/58701565 http://vimeo.com/61924238 http://vimeo.com/47577297 http://vimeo.com/74735651
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6. Materiali per l’ Allestimento a cura di Claudia Ciccone. Giulia de Lena, Andrea Finelli
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Indice Crisi Energetica e Tendenze Internazionali Sistemi di rating LEED ( Leadership in Energy and Environment Design) BREEAM (Building Research Establishment Environment Assessment Method) CasaClima ITACA ed ESIt Materiali Il Mercato Legno Carta- Cartone Chimica Riciclo Introduzione Riciclo Materiali Ferrosi Riciclo della Plastica Riciclo della Carta Eco-Design per gli Allestimenti Temporanei Introduzione Eco-Design per gli Allestimenti Temporanei Il Fattore Temporaneità Orientamento alla Progettazione Eco-Sostenibile Gli Attori del Processo Approccio alle fasi e ai criteri progettuali I Materiali Progetto di Utilizzo e accorgimenti per l’Allestimento Eco Progetto di dismissione e/o reimpiego dell’Allestimento LCA ( Life Cycle Assessment) La Metodologia LCA come motore di innovazione Schema del ciclo di vita di un prodotto e dei relativi elementi in ingresso e in uscita Packaging Cradle- to Cradle Lifecycle Conclusioni
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Crisi Energetica e Tendenze Internazionali La filiera dell’edilizia, da considerare nel suo senso più ampio- progettazione, realizzazione, manutenzione, gestione e servizi-, riveste un ruolo oggi sempre più determinante nell’economia di ogni Paese. Una sua visione innovativa può rappresentare una componente importante di politiche di rilancio sostenibile. Coniugare tali nuove politiche di rilancio con la questione della sostenibilità ambientale è oggi una necessità sempre più pressante. Lo sviluppo di fonti di energia rinnovabili è sinonimo di sviluppo sostenibile, ma la strada più agevole e immediata per abbattere l’inquinamento e affrontare la crisi energetica, è quella del risparmio energetico e dell’ecosostenibilità. Recenti stime americane rivelano che l’edilizia è responsabile del consumo di oltre il 70% di tutta l’elettricità prodotta, con un’emissione del 38% di CO2 nell’atmosfera. Ecco allora che diviene sempre più pressante la necessità di ripensare il vasto mondo edilizio in chiave innovativa; adottare quindi una progettazione integrata che coniughi scelte progettuali e costruttive di livello qualitativo. In tal senso, un fattore che sta assumendo sempre maggiore interesse in tutto il mondo è il sistema di rating della sostenibilità: sistemi complessi multifattoriali che da un lato offrono linee guida, e dall’altro ne misurano i risultati. Tali sistemi più in generale diventano la traccia per innumerevoli innovazioni di prodotto e di processo che nel loro insieme individuano un settore edile profondamente diverso da quello solitamente in vigore. La crescente attenzione nei confronti della necessità di perseguire uno sviluppo sostenibile, in grado cioè di garantire alle generazioni presenti di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità che quelle future soddisfino i loro, ha portato la Comunità Internazionale a richiedere la concreta comprensione della questione ambientale e del contenimento dell’uso di risorse energetiche. L’imperativo della sostenibilità ha indotto così la creazione di opportuni indicatori al fine di monitorare l’azione in materia ambientale. L’orizzonte della sostenibilità sembra rappresentare quindi una sfida, un obiettivo non più eludibile. A livello mondiale quindi sono fioriti una serie di sistemi di valutazione ambientale, a base volontaria, che certificano i consumi e l’efficienza energetica di un dato edificio, anche prendendo in considerazione l’impatto della costruzione sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. I protocolli di valutazione della sostenibilità, attualmente disponibili, consentono di definire il livello di sostenibilità di un edificio nella sua interezza, risultando un po’ più carenti nella valutazione degli impatti ambientali che hanno i singoli materiali. E questo perché la valutazione di sostenibi-
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lità di un prodotto è complessa e non avviene in maniera scontata per la presenza di una o più caratteristiche “eco”, ma va sempre rapportata a tutti i fattori che interagiscono tra il prodotto e l’ambiente durante il suo ciclo di vita. Generalmente per sostenibilità si intende la capacità dell’umanità di rispondere alle esigenze del presente senza pregiudicare il futuro. Questo discorso nel campo dell’edilizia è tanto più vero se si considera che esso è uno dei settori maggiormente impattivi sull’ambiente. Lo sviluppo sostenibile tiene conto non solo degli edifici, ma anche delle infrastrutture individuali e collettive, come pure dei singoli prodotti, le componenti funzionali, i servizi e i processi in relazione al loro ciclo di vita. In sintesi, lo sviluppo sostenibile applicato all’edilizia comporta che la prestazione e la funzionalità richiesta all’edificio siano ottenute con il minimo impatto ambientale, incoraggiando nel contempo il miglioramento economico, sociale e culturale, a livello locale, regionale e globale. Esistono due approcci valutativi di un edificio: 1. Metodo qualitativo o a punteggio, basato su requisiti definiti a cui corrispondono specifici punteggi la cui somma globale indica il livello di sostenibilità energetica e ambientale dell’edificio; 2. Metodo quantitativo,che fa riferimento all’analisi dell’LCA ( Life Cycle Assessment) valutando e quantificando l’energia inglobata dal fabbricato durante l’intero arco di vita. Si tratta quindi di un bilancio ambientale rigoroso dell’intero processo edilizio compresa la gestione e la vita dell’edificio; I Protocolli volontari più diffusi nel mondo sono il LEED (Leadership in Energy and Environmental Design) e l’BREEAM ( Building Research Establishment Environmental Assessment Methodology). In Italia, il quadro dei protocolli di valutazione della costruzione sostenibile è frammentato e vede affermarsi a livello pubblico/regionale il protocollo ITACA e il protocollo CasaClima, mentre sul mercato privato di respiro internazionale il protocollo LEED. Questi protocolli sono basati su un sistema a punteggio con un elenco di requisiti a cui è assegnato un giudizio di valutazione, il punteggio globale definisce la sostenibilità ambientale dell’edificio. Di seguito verranno trattati singolarmente tutti gli approcci elencati in precedenza. Ci soffermeremo però maggiormente su quello più accreditato e conosciuto a livello mondiale: il Protocollo LEED.
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Sistemi di Rating LEED LEED-Leadership in Energy and Environment Design- è un programma di certificazione, riconosciuta in tutto il mondo, sviluppato in America ad opera dello U. S. Green Building Council, associazione no profit nata nel 1993, che ha come scopo la promozione e lo sviluppo di un approccio globale alla sostenibilità, dando riconoscimento alle performance virtuose in aree chiave della salute umana e ambientale. Esso è un sistema volontario, per la progettazione, costruzione e gestione di edifici sostenibili ed aree territoriali ad alte prestazioni. Il LEED promuove un sistema di progettazione integrata che riguarda tutto il ciclo di vita della struttura. Certificazione Il LEED è uno dei più accreditati sistemi di rating per le costruzioni ecocompatibili a livello mondiali, che oggi è presente in quaranta Paesi. Il protocollo LEED promuove un approccio per le costruzioni orientato alla sostenibilità e ottimizza le prestazioni degli edifici attraverso la pianificazione di interventi volti al risparmio energetico e idrico, alla riduzione delle emissioni di CO2, al miglioramento della qualità ecologica degli interni, prestando particolare attenzione ai materiali e alle risorse impiegati, nonché alla scelta del sito di progetto. La certificazione LEED è un valore aggiunto e non obbligatorio che può essere richiesto dai soggetti interessati, i quali se da un lato sono mossi da una sensibilità rispetto alla questione ambientale, dall’altro conferiscono ai loro immobili una attrattiva commerciale non indifferente. Infatti il loro valore economico sarà incrementato a causa della riduzione dei costi di mantenimento e di gestione. Non stupisce questo rapporto tra economia ed ambiente, come d’altro canto inseparabili sono i temi dell’ambiente e dello sviluppo. E’ ormai evidente ai più che, molte delle modalità di sviluppo dei paesi industrializzati sono insostenibili, e che molti altri problemi cruciali, relativi alla sopravvivenza, sono correlati allo sviluppo ineguale, alla povertà e alla crescita demografica. Per questo, l’adozione di pratiche sostenibili è oggi una delle più importanti sfide del nostro tempo: limitare i cambiamenti climatici globali, la dipendenza da fonti energetiche non sostenibili con particolare attenzione alla salute ed al benessere dell’uomo. La certificazione LEED è uno degli approccio ovviamente possibili, che ha acquistato valore nel tempo. Essa fornisce al mercato un approccio condiviso, uno standard misurabile per ogni aspetto trattato. Si tratta, comunque, di uno standard volontario e che come tale va molto oltre se comparato con la cogenza normativa.
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L’azione del LEED vuole stabilire uno standard comune di misurazione dei “green buildings”, definiti come edifici a basso impatto ambientale; nonché fornire e promuovere un sistema integrato di progettazione che riguarda l’intero edificio. Inoltre per dare più visibilità e peso al tema, il LEED cerca di stimolare la competizione sul tema della prestazione ambientale così da accrescere nei committenti la consapevolezza dell’importanza di costruire nel rispetto dell’ambiente. Aree Tematiche e Parametri Come abbiamo visto, le certificazioni rilasciate vogliono essere dei valori standard di riferimento nel campo della costruzione. L’impatto ambientale della progettazione, costruzione ed esercizio degli edifici è molto grande: solo in Europa gli edifici sono responsabili, direttamente o meno, di circa il 40% del consumo di energia primaria complessiva. Inoltre gli edifici impoveriscono la varietà biologica dell’ecosistema globale attraverso la trasformazione di microsistemi locali in spazi antropizzati impermeabili e privi di biodiversità. L’enorme influenza negativa delle costruzioni richiede specifiche azioni per contrastarne gli effetti ambientali. Un progetto realizzato con criteri di sostenibilità ambientale può minimizzare o eliminare del tutto gli impatti ambientali negativi attraverso una scelta consapevole che passa attraverso pratiche progettuali, costruttive e di esercizio migliorative rispetto a quelle comunemente in uso. I parametri misurati dalla certificazione LEED sono i seguenti: 1. Siti sostenibili: Utilizzo di siti già esistenti, minimizzazione dell’impatto dell’edificio sull’ecosistema, controllo e gestione dell’acqua piovana, verifica delle emissioni di sostanze inquinanti nell’atmosfera anche in fase di costruzione; 2. Efficienza delle acque: Gli edifici sono i maggiori fruitori di acqua potabile. Scopo di questa categoria è un uso intelligente dell’acqua, all’interno e all’esterno dell’edificio; 3. Energia e atmosfera: Questa categoria incoraggia tutta una serie di strategie per utilizzare al meglio l’energia come, elettrodomestici più efficienti, miglior design, illuminazione più efficace oltre all’uso di forme rinnovabili di energia; 4. Materiali e risorse: Durante sia la costruzione che la fase operativa, gli edifici producono quantità enormi di rifiuti usando contemporaneamente enormi quantità di risorse. Questa categoria incoraggia l’uso di materiali locali e promuove un’attenta riduzione dei rifiuti tramite il ri-uso e il riciclo. In particolar modo premia la riduzione a monte della produzione di rifiuti; 5. Qualità ambientale all’interno: Se si pensa che un essere umano trascorre mediamente il 90% della sua giornata all’interno di un edificio, si capisce come mai si dedichi così tanta attenzione a questo aspetto. Questa categoria promuove strategie che migliorano la qualità dell’aria, la luce naturale e il comfort acustico;
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6. Luoghi e connessioni: Questa categoria incoraggia la costruzione in siti precedentemente costruiti e lontani da zone sensibili dal punto di vista ambientale. Vengono premiati soprattutto i siti vicini a infrastrutture preesistenti, zone pedonali o luoghi per lo sport e le attività all’aria aperta; 7. Consapevolezza ed educazione: Il sistema LEED riconosce che una casa è davvero “verde” se le persone che la abitano sanno usare al meglio le sue caratteristiche “verdi”. Questa categoria incoraggia i costruttori e i professionisti del settore immobiliare ad istruire gli abitanti al corretto utilizzo delle loro casa; 8. Innovazione nella progettazione: Vengono assegnati punti speciali a quei progetti che usano tecnologie e strategie per migliorare il rendimento di un edificio, non espressamente descritte nelle categorie precedenti. Inoltre questa categoria conferisce punti a quei progetti che includono nel team un professionista accreditato LEED che assicuri un approccio olistico alla progettazione; Ognuna di queste categorie è utile al conferimento dei punti LEED in misure variabili e decise dalla commissione giudicante. La somma dei punti determina il livello di certificazione raggiunto dall’edificio o dall’interno in esame. Su 110 punti totali disponibili almeno 40 devono essere ottenuti per il livello base. L’acquisizione della certificazione permette di ottenere vantaggi sia economici, senza i quali probabilmente pochi si adopererebbero, sia ambientali. Vi è una riduzione dei costi operativi, la diminuzione dei rifiuti inviati in discarica, edifici più sani per gli occupanti, la tutela delle risorse naturali, incoraggiando lo sviluppo urbano in zone già antropizzate, la riduzione delle emissioni nocive di gas serra ma anche promuovendo la diffusione del concetto che la tutela ambientale è una responsabilità sociale cui appunto tutti noi dobbiamo tendere. Materiali Caratteristiche Conoscere la struttura della certificazione LEED, le aree tematiche e il sistema dei crediti, è necessario per valutare quale può essere il contributo di un materiale o di un prodotto al punteggio totale. Tale certificazione, come abbiamo avuto modo di approfondire in precedenza, fornisce al mercato un approccio condiviso, su cui basare le scelte ed uno standard misurabile per ogni aspetto trattato. Anche i singoli materiali impiegati nella costruzione devono corrispondere a determinati requisiti: devono essere idonei, resistenti e durevoli, sicuri nell’impiego e, in caso di incendio, la loro produzione e la lavorazione non deve comportare rischi per l’ambiente e per i lavoratori; durante la loro permanenza nell’edificio non dovrebbero esercitare effetti negativi sulla salute degli occupanti e, infine, dovrebbero essere smaltiti o riciclati senza causare forti impatti ambientali.
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Nell’arco della loro vita, i materiali hanno un loro impatto ambientale. Tali effetti non dipendono solo dalla natura dello specifico materiale ma anche dall’adeguatezza e dalla correttezza con la quale vengono impiegati. Gli impatti ambientali di molti materiali sono difficilmente valutabili. Per questo motivo bisogna sensibilizzare i singoli produttori a fornire la più vasta quantità di informazioni possibili, in modo da poter conoscere ogni caratteristica dei materiali in questione. In linea di massima bisogna partire dalla certezza che i materiali utilizzati siano: durevoli ed idonei all’applicazione; ottenuti da materie prime rigenerabili o abbondantemente disponibili; prodotti in processi sicuri e sostenibili per l’ambiente; prodotti con poca energia non rigenerabile; privi di sostanze tossiche ed inquinanti; innocui in caso di incendio; riutilizzabili e riciclabili o smaltibili con metodi sicuri. La valutazione dei materiali viene effettuata considerando alcuni parametri, la cui presenza permette l’acquisizione di uno o più crediti. Questi parametri sono: Gestione dei rifiuti da costruzione; Riutilizzo dei materiali; Contenuto riciclato; Materiali regionali; Materiali rapidamente rinnovabili; Legno certificato; Materiali basso emissivi; La gestione dei rifiuti da costruzioni Questo credito è finalizzato ad evitare che i rifiuti siano gettati in discarica e inceneritori, ad incentivare la re-immissione delle risorse riciclate nel processo produttivo e a confluire i materiali riutilizzabili in appositi siti di raccolta. Il mercato dei rifiuti speciali da costruzione e demolizione ha conosciuto un rilevante sviluppo nell’ultimo decennio, sostenuto dalla lunga espansione del settore della costruzione, oltre che da norme volte a favorire una gestione a minore impatto ambientale degli scarti prodotti dall’attività edilizia. Molti rifiuti sono oggetto di un particolare processo di recupero, e quindi non destinati ad operazioni di smaltimento, in modo da favorire l’immissione delle risorse riciclabili nel processo produttivo. Questo processo di gestione dei materiali necessita anche dell’identificazione dei soggetti che effettueranno il trasporto e il riciclo dei materiali designati, e la possibilità di donare i materiali ad enti caritatevoli o di recuperarli all’interno del sito di costruzione.
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Contenuto riciclato Ovvero aumentare la domanda di materiali e prodotti da costruzione che contengano materiale riciclato, riducendo in tal modo gli impatti derivanti dall’estrazione e dalla lavorazione di materiali vergini. Riciclare vuol dire per prima cosa ridurre il prelievo indiscriminato dei materiali naturali da attività estrattive mal regolamentate e di materie prime non rinnovabili; e in secondo luogo ripensare ai materiali utilizzando, quando è possibile, dei loro sostituti. Materiali regionali Questo credito mira ad incrementare la domanda di materiali e prodotti da costruzione estratti e lavorati in ambito regionale, sostenendo in tal modo l’uso di risorse locali e riducendo gli impatti sull’ambiente derivanti dal trasporto. I materiali devono essere raccolti, recuperati, nonché lavorati, entro un raggio dal luogo di costruzione di circa 350 Km secondo lo standard italiano. Materiali basso emissivi Questo punto vuole ridurre all’interno dell’edificio i contaminanti che risultano odorosi, irritanti e/o nocivi per il comfort e il benessere degli occupanti. La grande diffusione, avvenuta negli untimi cinquanta anni, dell’industria chimica nel settore edilizio e di materiali sintetici per gli arredi, le tappezzerie e le pavimentazioni, ha comportato l’emissione nell’aria degli edifici di composti altamente tossici. L’eccesso di emanazioni gassose provenienti dalla superficie dei prodotti è una delle principali cause di inquinamento indoor e il maggior elemento di diffusione degli idrocarburi dopo il traffico veicolare. In questi ultimi anni, grazie a una crescente preoccupazione per l’inquinamento ambientale, lo studio dei possibili effetti nocivi imputabili all’uso di vernici o pitture ottenute con l’impiego di prodotti sintetici è stato accuratamente documentato. Di pari passo la ricerca di alternative valide sia dal punto di vista della sicurezza per la salute e per l’ambiente sia della resa qualitativa, ha fatto importanti passi in avanti. Sono infatti ormai diverse le possibilità offerte dal mercato per il trattamento delle superfici con prodotti bioecologici e i cataloghi di ditte produttrici ne offrono una vasta gamma. L’attenzione verso tutti questi aspetti sta indirizzando la filiera delle costruzioni all’utilizzo sempre più frequente di prodotti e materiali sostenibili, nonché di metodologie che possono prevenire lo sfruttamento di risorse esauribili, diminuire l’inquinamento e ridurre il quantitativo di materiale smaltito in discarica, mediante l’utilizzo di materiale riciclato. Diventa perciò quanto mai importante pretendere o conoscere la certificazione di ogni materiale utilizzato per poter attestare la attendibilità e sostenibilità.
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BREEAM Sviluppato nel 1990 dal BRE Global Limited, il BREEAM è il sistema britannico di valutazione ambientale che, ad oggi, ha già certificato circa 3650 edifici solo nel Regno Unito. Il Building Research Establishment Environment Assessment Method fornisce un sistema di qualità indipendente, conforme ai sistemi ISO 9001 e 14001 per la revisione e valutazione delle prestazioni. Le categorie con le quali viene valutato un edificio, sono:
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Gestione Salute e benessere Energia Trasporti Sistemi ibridi Materiali Rifiuti Utilizzo del suolo ed ecologia Inquinamento Innovazione
La categoria gestionale riguarda la fase di progettazione e di costruzione di un edificio. Alcuni crediti vengono assegnati durante la fase di costruzione qualora le imprese limitino l’impatto dei lavori sull’ambiente circostante, come ad esempio minimizzare l’inquinamento di aria e acqua, il monitoraggio dell’energia utilizzata, delle emissioni di anidride carbonica e l’uso dell’acqua stessa. La salute e il benessere degli occupanti di un edificio sono elementi che hanno un impatto sulla produttività futura. Per questo il sistema BREEAM fornisce crediti aggiuntivi, se l’edificio offre un buon livello di illuminazione naturale e di accesso ad aperture verso l’esterno, una buona qualità di illuminazione artificiale, una buona qualità dell’aria, la possibilità di ventilazione naturale e un buon livello di acustica. Il BREEAM valuta inoltre positivamente i bassi livelli di emissioni di biossido di carbonio prodotti, o l’inclusione, in fase di progettazione, di tecnologie a bassa o zero emissione di anidrite carbonica come i boiler a biomassa o i pannelli fotovoltaici. Alcuni crediti, inoltre, vengono assegnati qualora venga previsto il monitoraggio di energia per ascensori e sistemi di illuminazione esterna efficiente. La posizione di un edificio ha un impatto sulle sue prestazioni ambientali. Per questo il BREEAM valuta positivamente la facile accessibilità a sistemi di trasporto pubblico o che incoraggiano sistemi di circolazione sostenibile. La posizione quindi dell’edificio è determinante, a maggior ragione se esso viene costruito su un territorio reclamato e/o contaminato La scelta di un’area a basso valore ecologico o la valorizzazione del suo potenziale ecologico sono elementi soggetti all’attribuzione di crediti.
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E’ inoltre soggetta a valutazione positiva la riduzione dell’uso di acqua al di sotto della pratica comune, tramite per esempio l’istallazione di wc, rubinetti e docce con flusso controllato così come la raccolta dell’acqua piovana. BREE Global Limited ha inoltre sviluppato la “Green Guide to Specification”. Questa guida valuta i materiali da costruzione più comuni nell’edilizia per capire la loro prestazione ambientale. La Green Guide utilizza un approccio basato sul ciclo di vita utile e valuta i materiali dalla loro estrazione alla loro lavorazione, fino al loro utilizzo e smaltimento. In aggiunta alla specificazione di materiali con un impatto ambientale ridotto, i crediti sono anche assegnati ai materiali procurati responsabilmente, ad esempio qualora il legno provenga da foreste gestite correttamente dal punto di vista ambientale. Infine il BREEAM valuta anche il modo con cui l’edificio riduce il suo impatto su una serie di tipi di inquinamento. Questi includono il riscaldamento globale, il rischio d’inondazioni, l’inquinamento di fonti idriche, il rumore e l’inquinamento luminoso notturno. Il BREEAM giudica allora non solo il prodotto finito ma l’intero processo, mirando a stimolare il mercato ad un uso favorevole e corretto dell’ambiente, così da adeguare in tale direzione i pianificatori, i progettisti e gli utenti; ponendosi come obiettivo la diffusione della consapevolezza dell’impatto che gli edifici hanno sull’ambiente. CasaClima ( Protocollo italiano) Il protocollo di certificazione CasaClima nasce nel 2002 nella Provincia Autonoma di Bolzano e viene formalizzato a livello legislativo con l’integrazione nella legge urbanistica provinciale. L’Agenzia Casa Clima è l’ente unico designato per la certificazione energetica degli edifici nella Provincia di Bolzano. Il protocollo CasaClima prevede una classificazione degli edifici in classi di prestazione energetica in base al fabbisogno calcolato di calore annuo per il riscaldamento riferito alla superficie netta riscaldata o indice termico (dalla classe B -indice termico < 50 kWh/m2 a alla classe Gold- indice termico < 10 kWh/m2 a). Oltre all’indice termico, il protocollo di certificazione prevede anche il calcolo del rendimento energetico complessivo del sistema edificio- impianti espresso in fabbisogno annuo di energia primaria per riscaldamento, acqua calda, illuminazione, raffrescamento e in indice di emissione di CO2 equivalente. La certificazione energetica CasaClima può essere richiesta per tutte le tipologie costruttive. Per il calcolo è disponibile su piattaforma on-line il programma ProCasaClima. A questo si affianca una direttiva tecnica che definisce in modo preciso le modalità di calcolo di superfici e volumi riscaldati, le modalità di risoluzione dei ponti termici strutturali, le prestazioni richieste alle strutture in termini di ermeticità all’aria e di protezione ter-
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mica estiva, le modalità di calcolo dell’efficienza del recupero di calore delle macchine di ventilazione e altro ancora. Accanto alla certificazione energetica degli edifici vengono offerti anche due strumenti di valutazione e certificazione degli impianti ambientali di una costruzione. Il sigillo CasaClimaPiù, introdotto dal 2005, viene rilasciato in base al soddisfacimento di quattro criteri fondamentali: Indice termico inferiore ai 50 kWh/m2 a; Uso di fonti energetiche rinnovabili; Materiali ecologici e innocui per la salute (esclusione di materiali termoisolanti, PVC, impregnati chimici e solventi, legno tropicale); Accorgimenti per la tutela dell’ambiente (es. recupero acque piova ne, tetti verdi ecc.). L’altra certificazione introdotta è CasaClima Nature, il suo programma di calcolo permette di valutare quantitativamente alcuni parametri ambientali minimi relativi ai materiali utilizzati per la costruzione. Gli indicatori di impatto ambientale presi in considerazione sono il fabbisogno di energia primaria (PEI), il potenziale di acidificazione (AP), il potenziale di effetto serra (GWP). Infine nella valutazione complessiva si considera anche l’indice d’impatto idrico della struttura, ossia l’efficienza nell’utilizzo della risorsa acqua e l’impatto dell’edificio sul ciclo idrico naturale. ITACA ed ESIt Nato nel 1996, per impulso delle Regioni italiane, con la denominazione “Istituto per la trasparenza, l’aggiornamento e la certificazione degli appalti”, l’Istituto ITACA è un’associazione di tipo federale con obiettivo quello di attivare azioni ed iniziative condivise dal sistema regionale al fine di promuovere e garantire un efficace coordinamento tecnico tra le stesse Regioni e province autonome, così da assicurare anche il miglior raccordo con le istituzioni statali, enti locali e operatori del settore. Il protocollo Itaca e SBTool sono strumenti basati entrambi sulla medesima metodologia e si completano in un sistema integrato per la certificazione degli edifici di tipo istituzionale e di mercato. La necessità di individuare sistemi standard per misurare e certificare la sostenibilità degli edifici è stato, nel corso di questi anni, un aspetto imprescindibile per individuare gli obiettivi a cui tendere. Ma se è vero che il tema della sostenibilità ambientale è una questione di interesse internazionale, locale invece deve essere l’approccio operativo verso un’evoluzione della prassi costruttiva. Partendo da questo presupposto, lo sforzo comune è stato quello di individuare strumenti di misura e analisi in grado di considerare anche le peculiarità relative al contesto politico, geografico e sociale dei diversi ambiti di applicazione. Nel 1996, il processo di ricerca internazionale denominato Green Building
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Challange si è posto questo obiettivo, ovvero definire uno standard che fosse comune a livello internazionale e insieme adatto a una completa contestualizzazione rispetto ai singoli ambiti locali di applicazione. L’esito di tale processo di ricerca è la definizione di una metodologia nota come SBMethod. La certificazione Green Building Challange, rispetto a quelle di prima generazione, come il britannico BREEAM e lo statunitense LEED, è di non avere perciò limiti strutturali, dato che non è legato alla realtà regionale geografica di origine. È infatti un metodo di valutazione che può essere adattato alle condizioni locali in cui viene applicato, per esempio clima, economia, cultura, priorità ambientali, pur mantenendo la stessa terminologia e struttura di base. L’Italia ha aderito al processo di ricerca Green Building Challange e, nel 2000, è stata sviluppata e testata la prima applicazione della metodologia al contesto italiano dando vita allo strumento operativo SBTool IT. Nel 2002, l’associazione delle Regioni Italiane (ITACA) ha adottato questa metodologia come base per la realizzazione di uno strumento di valutazione di natura pubblica e di riferimento nazionale. Nacque così il Protocollo Itaca. SBMethod Il principio fondamentale su cui si basa l’SBMthod è la qualificazione del livello di sostenibilità di un edificio rispetto alla passi costruttiva tipica dell’area geografica in cui si opera. L’analisi della prestazione degli edifici avviene attraverso una matrice di riferimento articolato in aree di valutazione, categorie e criteri seguendo una struttura a livello gerarchico. Le aree di valutazione tengono in considerazione le principali problematiche ambientali quali la qualità del sito, il consumo di risorse, i carichi ambientali, la qualità dell’ambiente indoor, la qualità del servizio, gli aspetti economici e sociali, gli aspetti culturali e percettivi. Attraverso la valutazione dei singoli criteri, viene preso in esame un particolare aspetto dell’edificio riferito a uno specifico tema (energia, acqua, materiali, comfort, impatto sul sito, qualità del servizio ecc.) verificando se, per quel determinato aspetto, l’edificio raggiunge l’obiettivo di sostenibilità richiesto e quanto si discosta dalla prassi costruttiva corrente. Ogni criterio riceve un punteggio da -1 a 5, dove lo zero rappresenta la prestazione standard e il 3 la migliore pratica. I punteggi ottenuti per ciascun aspetto valutato vengono aggregati attraverso la somma pesata fino a definire un unico punteggio finale complessivo, anch’esso espresso sulla scala da -1 a +5. Quindi un edificio che ottiene un punteggio zero su tutti i criteri, corrisponde concettualmente a un edificio standard per il quale sono rispettati i limiti normativi vigenti, senza mettere in atto alcuno specifico sforzo progettuale in risposta agli obiettivi di sostenibilità prefissati. Più la progettazione è avanzata in termini di sostenibilità, più il livello ottenuto si incrementa positivamente verso una prassi di eccellenza, ovvero verso il 5. Il Protocollo ITACA, come abbiamo visto in precedenza, è il sistema di valutazione della sostenibilità ambientale degli edifici elaborato dalle Regioni
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Italiane. Attualmente è presente una versione nazionale del Protocollo aggiornata al 2009 e una serie di versioni regionali tra le quali quelle di Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Lazio, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Puglia e Umbria. L’SBTool IT è lo strumento di valutazione della sostenibilità ambientale degli edifici, basato sull’ SBMethod e rivolto al mercato. E’ stato fino ad ora impiegato per attestare la prestazione degli edifici commerciali, uffici, edifici scolastici e grattacieli. I Protocollo ITACA e l’SBTool IT valutano perciò tutti gli aspetti di sostenibilità dell’edificio senza possibilità di escludere quelli legati a prestazioni più difficili da ottenere e premiano, grazie al sistema di aggregazione dei punteggi e delle scale prestazionali lineari, ogni minimo incremento di prestazione. Inoltre, si tratta di un sistema scientifico neutro che restituisce risultati oggettivi e scientificamente validi. Questo avviene in quanto gli indicatori e la relativa procedura di calcolo si basano sulla prassi costruttiva e sulla normativa e letteratura tecnico-scientifica. Considerazioni Abbiamo voluto individuare e descrivere, seppur sommariamente, i Protocolli di certificazione ambientale più diffusi e accreditati a livello mondiale e nazionale. La ricerca compiuta ci ha mostrato come il LEED si stia imponendo come sistema di certificazione della sostenibilità degli edifici; esso viene percepito dal mercato come tra i più seri, applicabili e in grado di misurare il reale valore aggiunto di un immobile. La ragione di questo successo riguarda, in primo luogo, il processo di certificazione stesso, che prevede una figura terza, il Green Building Certification Istitute ( GBCI), quale ente certificatore super partes rispetto all’ente normatore ( U.S. GBC) e agli attori coinvolti nel processo di progettazione/ realizzazione. La seconda ragione dipende dall’inesistenza di un unico protocollo LEED, ma di una serie di protocolli accomunati da uno schema concettuale comune che si declina in modo diverso in funzione della tipologia dell’edificio che si vuole certificare. Inoltre, il LEED è riuscito a coniugare e far dialogare tra loro le tre grandi sfere del mercato, del pianeta e delle persone, individuando la sostenibilità come quell’area dove si sovrappongono, in un processo in continua evoluzione, tutela dell’ambiente, profitto e cultura. Il LEED è lo strumento che permette di tradurre in punteggio la complessa matrice di interrelazioni che vi sono tra le grandi aree dell’energia e atmosfera, della gestione dell’acqua, della sostenibilità del sito, dei materiali e le risorse, della qualità dell’ambiente interno e dell’innovazione; per fare questo, tutti i protocolli, che sono accomunati dallo stesso schema concettuale, identificano in ciascuna delle aree sopra menzionate alcuni aspetti che sono ritenuti primari e di estrema importanza, chiamati Pre-requisiti.
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Se tutti questi non vengono soddisfatti non è possibile certificare l’edificio in alcun modo. Un esempio può essere la prevenzione dell’inquinamento dalle attività di cantiere all’interno dell’area Siti Sostenibili, oppure la riduzione del consumo di acqua potabile indoor nell’area Gestione delle Acque o il raggiungimento di prestazioni energetiche minime nell’area di Energia e Atmosfera. In concomitanza ai pre-requisiti obbligatori, vi sono aspetti facoltativi, chiamati Crediti, che vengono scelti dalla committenza e dal gruppo di progettazione/ costruzione in funzione degli obiettivi di sostenibilità che si vogliono raggiungere. Un esempio può essere la bonifica di un sito contaminato, oppure l’utilizzo di materiali rapidamente rinnovabili o ancora l’ottimizzazione della luce naturale. In questo modo è possibile raggiungere una certa certificazione attraverso differenti combinazioni di crediti, considerando le molteplici peculiarità di ogni progetto. La flessibilità del Protocollo perciò sta nella possibilità di misurare l’ottimizzazione dell’edificio in funzione della specificità del luogo e delle esigenze della committenza, permettendo l’ottenimento del livello di certificazione voluto quale conseguenza di una progettazione e realizzazione a tutto tondo che nei contenuti richiede un approccio ben più approfondito e completo di quanto richiesto a livello normativo, sia in termini di soglie che di numero di aspetti trattati. Un ultimo ma fondamentale aspetto che ha reso il LEED così apprezzato e diffuso, è legato alla sua certificazione la quale permette di misurare e considerare aspetti che saranno imperativi di domani. Ad esempio le Direttive CE 2002/91 e 2010/ 31, nell’ambito di energia e consumi interni dell’edificio, hanno trovato piena applicazione. Oppure in materia di sostenibilità del sito, il protocollo mette in relazione scelte della pubblica amministrazione con le scelte del gruppo di progettazione/costruzione, enfatizzando ancora come sia necessaria una logica integrata. Oggi il certificare un edificio con i protocolli LEED permette di confrontarsi con i più alti livelli di standard e di qualità internazionali, lasciando la possibilità di scegliere la propria strategia e di misurarla in modo oggettivo e pragmatico.
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Riciclo Introduzione La stazione ecologica è il luogo dove vengono raccolte svariate tipologie di rifiuti urbani e assimilati a disposizione di tutti i cittadini. Le stazioni ecologiche integrano la funzione dei contenitori posizionati sul territorio. Sono, infatti, in grado di ricevere anche quei rifiuti non collocabili, per natura o dimensioni, nella raccolta stradale. In questo modo vengono destinati al recupero, al riciclo o allo smaltimento controllato. Si può portare: • Carta e cartoni • Cemento-amianto (previa autorizzazione dell’ASL) • Ferro e metallo, lattine di alluminio • Imballaggi plastici • Inerti da piccole demolizioni domestiche • Ingombranti e arredi • Lampade contenenti sostanze pericolose (lampade a risparmio energetico, neon, ecc.) • Legname, cassette • Ferro e metalli • Pneumatici • Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (piccoli e grandi elettrodomestici, condizionatori, lavatrici, frigoriferi, giocattoli elettrici ed elettronici, computer, stampanti, TV, cellulari, ecc.) • Rifiuti urbani pericolosi (pile e batterie, farmaci, oli minerali, vernici, solventi, pesticidi, diluenti, contenitori e bombolette per prodotti pericolosi, ecc.) • Teli e cassette in plastica • Toner e cartucce stampanti • Vetro I materiali raccolti, separati e stoccati in sicurezza possono quindi essere conferiti presso i diversi Consorzi Nazionali di Filiera. Tali consorzi sono: •COMIECO e ASSOCARTA - carta, cartone e affini; •CIAL, CONAI e CNA - alluminio e materiali ferrosi; •COREVE, ASSOVETRO - vetro; •POLIMERICA, COREPLA - plastica; •FEDERLEGNO e RILEGNO - legno; •ANPAR – inerti. 2 Riciclaggio dei materiali ferrosi Procedure Gli imballaggi in acciaio, vanno sottoposti a operazioni preliminari di sele
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zione, per separarli dalle altre frazioni, con sistemi magnetici. Seguono ope razioni di pulitura, frantumazione, eliminazione dello stagno, ottenendo quindi un materiale pronto per l’acciaieria e/o fonderia. L’acciaio è nuovamente fuso, e trasformato in prodotti siderurgici (semilavorati dell’acciaio). Le industrie trasformatrici dell’acciaio provvedono infine alla lavorazione finale ottenendo nuovi prodotti. Gli imballaggi in acciaio di grosse dimensioni (i fusti industriali), invece di essere avviati al riciclaggio, possono essere rigenerati, cioè sottoposti a un ciclo di operazioni che hanno come obiettivo il ripristino e la verifica delle caratteristiche del contenitore, rendendolo nuovamente utilizzabile. Le principali fasi sono il ripristino della forma del fusto (risanamento di bordi e ammaccature), pulizia (scolatura, lavaggio, asciugatura), verifica della tenuta e delle superfici interne, spazzolatura esterna e verniciatura. I fusti che nel processo si rivelano eccessivamente danneggiati per essere recuperati sono avviati al riciclaggio, seguendo il percorso descritto in precedenza per i materiali ferrosi. Questi ultimi possono essere riciclati un numero illimitato di volte, con notevoli risparmi di materie prime ed energia. Trattamenti alternativi La conservazione delle opere e manufatti di ferro e acciaio realizzati con la zincatura a caldo, restituisce un ciclo di vita così detto “dalla culla alla vita” con il risultato di massima eco-efficacia. Oltre al pregio superiore di lunga conservazione dato dalla forte resistenza all’azione distruttiva degli agenti atmosferici, evitare rifacimenti precoci e interventi di manutenzione, resi inutili, alla fine del ciclo di vita dello strato protettivo di zinco. Il ferro o l’acciaio di costruzione rimane così integro ed il manufatto è interamente riutilizzabile e completamente integro, non ha perso niente della massa iniziale, e può essere nuovamente zincato; oppure può essere riconsegnato in acciaieria restituendo al consumo tutta la qualità di materiale sottratta all’ecosistema al momento della costruzione. Osservando i criteri di preservazione e di conservazione dell’acciaio, si può influenzare positivamente la sostenibilità del costruire e si contribuisce ad evitare emissioni dannose in aria ed in acqua, iniutili sprechi di acqua, di energia e di materie prime non rinnovabili semplicemente utilizzando l’energia effettivamente disponibile e gratuita, cioè il risparmio energetico e materiale imprimendo maggior durata alle opere realizzate. Applicazioni A livello nazionale, esistono opportuni Consorzi di filiera, nati con il Decreto Ronchi nel 1997, che si occupano del recupero di differenti frazioni merceologiche. Per l’acciaio, tale entità è il C.N.A. (Consorzio Nazionale Acciaio), che ha lo scopo di favorire, promuovere, e agevolare la raccolta ed il riciclo degli imballaggi usati in acciaio, siano essi provenienti dall’utenza domestica che industriale. Per l’acciaio, tale entità è il C.N.A. (Consorzio
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raccolta ed il riciclo degli imballaggi usati in acciaio, siano essi provenienti dall’utenza domestica che industriale. Riciclaggio della plastica Procedimenti Dopo la fase di raccolta differenziata, la plastica viene portata negli impianti di prima selezione e trattamento; viene quindi separata da altre frazioni e impurità, quindi suddivisa per tipologia di polimero. In particolare si selezionano PET e PE, a bassa e alta densità. Il procedimento di riciclaggio può essere: •meccanico (il più comune): si ottengono scaglie o granuli che verranno utilizzati per la produzione di nuovi oggetti. Il materiale ottenuto è tanto migliore quanto più la plastica di partenza è omogenea; •chimico (meno comune) ma già applicato a livello industriale (ad esempio l’idrolisi del PET): all’opposto della sintesi della materia plastica, questo processo mira a spezzare le molecole base della plastica (polimeri) e ottenere le materie prime (monomeri) di partenza. Trattamenti alternativi La plastica non avviata al recupero può essere destinata alla termovalorizzazione, sfruttando la possibilità di recupero energetico. Se sottoposta invece ad un apposito trattamento, può dare origine a combustibili alternativi, utilizzabili nei forni dei cementifici e per la produzione di energia termoelettrica. A livello nazionale, esistono opportuni Consorzi di filiera, nati con il Decreto Ronchi, che si occupano del recupero di differenti frazioni merceologiche. Per le materie plastiche, tale entità è il CO.RE.PLA (Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclaggio e i Recupero dei Rifiuti di Imballaggi in Plastica). Sul territorio nazionale sono operativi 35 Centri di Selezione di rifiuti di imballaggi in plastica. Applicazioni Il riciclaggio si presta particolarmente alle materie plastiche degli imballaggi. I polimeri che permettono i migliori risultati in termini di recupero sono: PET, PVC, PE. Nel caso si suddividano le diverse tipologie in modo omogeneo, si ottiene materia prima secondaria, cioè con caratteristiche tecniche e chimiche del riciclato molto simili a quelle iniziali. Alcuni esempi di prodotti: •con il PET riciclato: nuovi contenitori non alimentari con l’eccezione di contenitori per acque minerali e bevande analcoliche, fibre per imbottiture, maglioni, “pile”, moquette, interni per auto, lastre per imballaggi vari; •con il PVC riciclato: tubi, scarichi per l’acqua piovana, raccordi, passacavi, prodotti per il settore edile;
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•con il PE riciclato: contenitori per detergenti, tappi, film per i sacchi della spazzatura, pellicole per imballaggi, casalinghi. Nel caso di trattamento di diversi tipi di plastica insieme, si ottiene plastica riciclata eterogenea, impiegata ad esempio per produzione di panchine, parchi giochi, recinzioni, arredi per la città, cartellonistica stradale Riciclaggio della carta Procedimenti Come tutti i rifiuti, la carta pone problemi di smaltimento. La carta è però un materiale riciclabile, poiché la cellulosa che contiene può essere sottoposta a ripetuti utilizzi. La carta recuperata può essere trattata e riutilizzata come materia seconda per la produzione di nuova carta. La raccolta differenziata della carta riguarda tutti i vari prodotti di carta. Partendo dalla fibra del rifiuto cartaceo, circa il 95% viene trasformato in nuova carta. Rispetto ad altre produzioni, quindi, il macero comporta grandi risparmi energetici, idrici e di legname. Infine, la carta riciclata che non ha più la consistenza sufficiente per produrre altra carta può essere ancora utilizzata come combustibile per produrre energia. La trasformazione della carta da macero in materia prima necessita di varie fasi: •Raccolta e stoccaggio; •Selezionamento, per separare la fibra utilizzabile dai materiali impuri, che normalmente sono incorporati nelle balle di carta da macero e per separare le diverse tipologie di carta da macero. Il valore tecnico ed economico del materiale aumenta quanto più definita è la selezione per tipologia e qualità: solitamente il processo di selezione è meccanico, una selezione più spinta deve essere eseguita a mano, facendo scorrere la carta sopra un nastro trasportatore, con operatori manuali che la dividono per tipologia; •Pressatura e legatura in balle; queste, inviate alle cartiere, subiscono il processo di riciclo vero e proprio; •Sminuzzamento; •Sbiancamento per eliminare gli inchiostri: disinchiostrazione; •Riduzione in poltiglia con aggiunta di acqua calda; •Affinamento: dall’impasto vengono sottratte le impurità e le scorie, fino a separare la pasta di cellulosa; •Aggiunta di cellulosa vergine, in proporzioni diverse a seconda dell’utilizzo futuro. A questo punto del ciclo, la cellulosa contenuta nella cartarifiuto è ritornata ad essere una materia prima pronta a rientrare nel ciclo di produzione. La macchina cosiddetta “continua” provvede infine a stendere, disidratare,pressare l’impasto, con il passaggio attraverso vari rulli, fino all’avvolgimento finale in bobine, da inviare alle cartotecniche, dove la carta viene trasformata ulteriormente per ottenere i nuovi imballaggi e prodotti finiti.
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Applicazioni ll riciclaggio della carta comprende varie tipologie di prodotti, che vanno dai giornali e riviste, libri, quaderni e opuscoli, ai sacchetti, imballaggi in cartone, alle scatole per alimenti, per detersivi o scarpe, fino alle fascette di carta dei vasetti di yogurt e bevande. Non deve essere conferita carta con taminata da sostanze putrescibili o tossiche, fazzoletti/ tovaglioli di carta, o che contenga altri materiali non cellulosici (punti metallici, plastica..). Anche la carta di qualità elevata (ad esempio, da disegno o per fotocopie) può essere prodotta con carta riciclata.
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Eco-design per gli allestimenti temporanei Introduzione Oggi più che mai le autorità pubbliche sono chiamate a pianificare strumenti e azioni politiche mirate a sensibilizzare e coinvolgere i soggetti protagonisti (imprese, consumatori, cittadini...) perchè riducano l’impatto delle loro attività sull’ambiente. In questa direzione, le istituzioni pubbliche hanno a loro disposizione dei programmi come politica degli acquisti compatibile con l’ambiente, ovvero una serie di azioni a favore della sostenibilità ambientale. Si tratta di “acquisti pubblici verdi”, con le quali le Pubbliche Amministrazioni sotto proposta di organismi internazionali, tengono conto dell’impatto ambientale nell’acquisizione di beni, servizi e lavori per far fronte alla gravità dei problemi ambientali e allo spreco di risorse naturali non rinnovabili correlati a stili di vita consumistici. L’obbiettivo degli enti locali come di questo testo, è di diffondere buone pratiche sostenibili mettendo a disposizione conoscenze e strumenti che consentano di rendere abituali ed ordinari comportamenti gestionali ecosostenibili. Nei capitoli precedenti si è parlato di materiali di varia origine, utilizzati in edilizia e nella vita di tutti i giorni, di seguito si è presa in considerazione in particolar modo l’allestimento temporaneo, da sempre oggetto di studi e ricerche. Daniel Libeskind, uno dei più affermati architetti del momento, autore del museo dell’olocausto e vincitore del concorso per la ricostruzione di Ground Zero a New York, sostiene che “ è folle progettare un’ architettura o un oggetto di design, senza pensare alle risorse, all’ecologia, all’ambiente”. Le tendenze in atto, nell’universo del progetto contemporaneo, almeno teoricamente, sembrano prendere le distanze dal pensiero “moderno” di impostazione razionalista e funzionalista, settoriale e schematico, derivante da una cultura progettuale di matrice tedesca anni trenta. L’immaginario del primo design resta tutt’oggi “la macchina e l’arte di fare oggetti di fascino industriale”1. Un’ arte applicata all’industria definita dal modello Bauhaus. L’immaginario del prossimo design viceversa, sarà la natura, il progetto potrà essere l’occasione per cogliere e creare un mondo più sostenibile, coniugando etica e bellezza. La sfida contemporanea è dunque quella di proseguire una nuova cultura tecnica che superi il consumismo anni settanta, il fabbisogno effimero, la riproducibilità esasperata prodotta da un industrialismo senza nessa qualità simbolica, espressiva ed ecologica.
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1 cit Manifesto programmatico del Bauhaus, aprile 1919, Walter Gropius.
2 Cit. Da cosa nasce cosa, Laterza (1981), Bruno Munari.
Passare “dalla fiction alla function”, tuttavia, non significa rievocare il funzionalismo ed il costruttivismo dalle origini a tutti i costi. Al contrario si tratta di ottenere oggetti belli e di fascino, ma che facciano i conti con le risorse economiche ed energetiche del pianeta. Il design deve migliorare la qualità della vita e non contribuire a distruggerla. Non più prodotti e merci che inquinino. Non merci o prodotti che sprechino risorse. Non merci che stimolino inutilmente il desiderio di cambiare. Il trend che si riscontra, anche stante la crisi dei mercati globalizzati che stiamo attraversando, è verso un progetto di oggetti duraturi che non portino alla continua obsolescenza delle merci. Le merci sono vendute con successo, grazie al contributo dei designer che ne accrescono il consenso presso gli utenti. L’industria ha consentito, attraverso i design, di rendere accessibile a tutti quella componente estetica, che l’artigianato riservava, in passato, ad una utenza elitaria. Oggi, occorrre condividere il rapporto con le risorse, le fonti energetiche, l’ecosistema entro il quale si progetta. “Un materiale costoso non migliora la qualità della funzione: a cosa servono dei rubinetti d’oro se ne esce acqua inquinata?”2. 2 Eco-design per gli allestimenti temporanei La disciplina degli allestimenti temporanei è da sempre nota per il ruolo di palestra di sperimentazione di forme e materiali, proprio perchè il tempo con facilità pensa a cancellare l’esperimento; di recente si parla anche di una tendenza anche in questo settore ad uno sviluppo nella direzione della sostenibilità ambientale. In un ambito generale nel quale l’architettura recupera un importante ruolo ed una fondamentale valenza anche attraverso il sempre più forte utilizzo dell’immagine, attraverso la spettacolarizzazione delle forme e l’utilizzo della tecnologia multimediale sempre più radicata nell’involucro edilizio, in alcuni casi addentrandosi e considerando la struttura come oggetto di design, il rapporto con l’estetica ed anche l’estetica funzionale divengono di grande ruolo. Nelle fiere, nei grandi e piccoli eventi dove l’imprenditoria mostra i prodotti e i servizi, la modellazione dello spazio la comunicazione attraverso lo strumento architettura diventano particolarmente coinvolgenti al fine di sollecitare emozioni, stupore; in questo ambito il ruolo dell’immagine a tutto tondo diventa fondamentale. Il risultato che percepiamo dall’allestimento temporaneo diventa il modo attraverso il quale comunicare, sottoposto alla continua ricerca di invenzioni formali e tecnologiche (alcune delle quali affrontate nei capitoli di seguito). L’allestimento quindi, diventa un impegnativo mezzo per comunicare, e non solo uno spazio nel quale si espone e si muovono le persone; ed è proprio in considerazione della propria multidisciplinarità che il progetto di
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allestimento rientra nella logica della complessità progettuale tipica dell’architettura e del design. Nell’ambito di questo settore la cui peculiartià come già detto è quella di riuscire a sperimentare con un certo dinamismo materiali e concetti formali e l’utilizzo dell’architettura come mezzo di comunicazione, si inserisce il valore della eco-sostenibilità con un duplice scopo. Il settore dell’edilizia e quello del design in maniera diversa studiano soluzioni che optano sempre più nella direzione della sostenibilità ambientale. sulle quali si è in fase di costruzione di leggi e norme; l’allestimento temporaneo è in grado di dare un importante contributo sia come mezzo di comunicazione dei valori dell’impatto ambientale sia per la necessità di sviluppare scelte eco-sostenibili in ragione della quantità di materiali e servizi che influenzano la realizzazione di un evento, uno stand, una fiera ecc. La ricerca intende porre attenzione anche sui produttori e gli utilizzatori dei beni e servizi finali, per promuovere azioni per la diffusione di una sensibilità all’ambiente: l’ambito di intervento è rivolto al multidisciplinare settore degli allestimenti, in considerazione della notevole quantità di materiali e delle soluzioni legate all’intera filiera, durante tutto il ciclo di vita dei materiali necessari alla realizzazione delle strutture espositive. 3 Il fattore temporaneità Paradossalmente, oggi, gli allestimenti più sono temporanei e più gli è richiesta spettacolarità. Molta emozione per poca durata. Un investimento consistente di energie creative e di tecniche costruttive, volute per un incanto e come d’incanto destinate a scomparire subito dopo il tempo per il quale sono state progettate. Strutture costruite ad hoc per dare fremito a quell’incanto che Giò Ponti definiva “cosa inutile e indispensabile come il pane” diventano di colpo fuori uso non più idonee, indattabili ad ulteriori impeghi. Di fronte ai problemi dell’iperconsumo e alla crescente sensibilità ecologica non c’è più ragione di lasciare che le cose vadano ancora in questo modo. Poichè fino ad oggi, nella nostra società, l’aspetto positivo di crescita è stato strettamente legato all’aumento delle disponibilità di prodotti materiali e poichè la disponibilità, come è già ampiamente risaputo, attinge alle risorse ambientali per gran parte non rinnovabili, ecco che balza evidente la necessità di attivare in modo radicale un nuovo rapporto tra consumo e produzione. Questo nuovo rapporto è ricercato seguendo due macro strategie: una in cui si fa ricorso allo sviluppo tecnologico secondo una forte richiesta di efficienza, l’altra in cui si fa ricorso all’emancipazione culturale per stabilire le condizioni di sufficienza. Più che cimentarsi nella scelta tra i due paradigmi, la condizione attuale del progetto si confronta con la difficoltà di applicare modelli già acquisiti, per gran parte dovuta all’incapacità di gestire il flusso di informazioni disponibili ritenute incongruenti ad attitudini fin ora sperimentate. “Fare in fretta” e “risparmiare tempo” sono, oggi, imperativi prioritari, più
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che in passato, viste le reali possibilità tecniche di realizzazione a fronte della necessità di risposte in tempo reale ai bisogni crescenti soprattutto se indotti. Fondamentale non è solo confrontarsi con la nozione di tempo di lavoro ossia quanto tempo occorre per realizzare, ma con l’accrescimento di un nuovo prevalente termine di valutazione: il tempo di utilizzo, ossia per quanto tempo deve servire. La nozione di temporaneità assume sempre più rivelanza quanto più la durata del prodotto viene inclusa come elemento fondativo dal progetto. In altri termini il grado di responsabilità della durata programmata non incide solo sul come farlo con poco, visto che deve durare poco, ma accentua la problematica del dopo: cosa ne sarà dopo la sua breve vita? La dismissione non attinge a soluzioni sviluppate secondo il criterio dell’efficienza nè tantomeno secondo quello della sufficienza. In considerazione della temporaneità non conta il migliore risultato ottenuto secondo il minimo impiego nè il cosa sia indispensable per il risultato voluto, ma su tutto conta il grado di efficacia: ossia la capacità di avvalersi di criteri di organizzazione e gestione dell’intero processo di progettazione e realizzazione che includano come valore anche la dismissione dopo l’uso. 4 Orientamento alla progettazione eco-sostenibile La realizzazione di un allestimento eco-sostenibile passa attraverso due fasi progettuali parallele e complementari fra loro. La fase progettuale deve seguire i criteri che portano alla realizzazione e all’utilizzo di un allestimento che rientri nelle caratteristiche di eco-sostenibilità. I criteri in questione sono essenzialmente tre: 1 Materiali: rinnovabili o biocompatibili; riciclati o riciclabili; a nulla o minima tossicità; 2 Energia: limitazione dell’utilizzo di energia e pianificazione del consumo di risorse. Contemporaneamente al progetto di realizzazione e utilizzo è necessario predisporne uno di dismissione e/o reimpiego. Agli elementi indicati ne va aggiunto un terzo; 3 Durata: individuzione degli elementi riutilizzabili in altri allestimenti, reimpiegabili in contesti differenti da quello progettato. 5 Gli attori del processo A questo punto appare indispensabile una riflessione sugli attori impegnati nel processo di realizzazione degli allestimenti temporanei. Ai fini della progettazione non risulta preferibile unificare la funzione progettuale e quella realizzativa/allestitiva, scegliendo quindi un soggetto diverso capace di controllare e pianificare il maggior numero possibile degli aspetti in questione. Escludendo quindi la fase della produzione dei materiali e degli elementi di produzione in serie, i due soggetti scelti, progettista e realizzatore, si occuperanno della progettazione di massima, della realizzazione degli allestimenti fino alla loro dismissione, garantendo i criteri sostenibili del processo
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dalla scelta dei materiali al loro smaltimento. L’unicità del soggetto fornitore del servizio di allestimento produce un doppio vantaggio: da un lato il fornitore stesso riesce a controllare la totalità dei materiali a sua disposizione, predisponendone l’uso nel tempo e quindi garantendone il controllo della durata in ognuna delle possibili accezioni sopra precisate; dall’altro il soggetto appaltante può verificare la virtuosità dell’appaltatore con unico controllo. 6 Approccio alle fasi e ai criteri progettuali Per meglio analizzare le singole fasi progettuali, abbiamo suddiviso il ciclo di vita dell’allestimento temporaneo in 7 fasi. Ad ogni fase corrisponderà un determinato numero di azioni atte a migliorare e valutare il grado di sostenibilità del prodotto allestimento; queste fasi dovranno essere predisposte sin dalla progettazione, momento dedicato alla definizione degli attori e degli strumenti da utilizzare. Fase di approvigionamento dei materiali; fase di produzione/assemblaggio; fase di trasporto; fase di allestimento; utilizzo; smontaggio; dismissione. 7 Materiali Lo sviluppo di progetti per spazi temporanei prevede l’utilizzo di un grande numero di materiali differenti e determina anche un utilizzo notevole di materiale in eccesso e di natura non riutilizzabile o reciclabile. I materiali utilizzabili per allestimenti possono essere di tipo riciclabile e riciclato, nel primo caso si tratta spesso di prodotti utilizzati in edilizia e nelle principali strutture portanti senza l’utilizzo di calcestruzzo, ovvero legno e ferro. Il secondo tipo invece, comprende prodotti frutto di lavorazioni e trattamenti di materie già utilizzate; si trovano già da tempo sul mercato e sono oggi largamente utilizzate sia in ambienti domestici che in luoghi pubblici. Generalmente i materiali riciclati hanno origine da carta cartone e legno fusi e compattati senza l’utilizzo di sostanze nocive per l’ambiente. Importanti criteri di valutazione per questi prodotti sono la lavorabilità, la tipologia di commercializzazione del semi lavorato o prodotto finito, e la semplicità di lavorazione per l’immediato utilizzo. Per quanta riguarda le rifiniture, le texture e l’immagine che il prodotto è in grado di dare, è preferibile prendere in esame materiali che possano rapportarsi ad una caratterizzazione estetica, che sia questa ricercata o già posseduta dal prodotto in questione.
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Le schede seguenti sono tratte dalla pubblicazione â&#x20AC;&#x153;Eco design per gli allestimenti temporaneiâ&#x20AC;? del Dipartimento di tecnologia dellâ&#x20AC;&#x2122;architettura e design Pierluigi Spadolini.
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8 Progetto di utilizzo e accorgimenti per l’allestimento eco Se tutti gli acquisti di beni, servizi e lavori fossero effettuati scegliendo le opzioni a minore impatto ambientale e stimolando il mercato a migliorare le proprie prestazioni, i vantaggi per l’ambiente e per la salute sarebbero considerevoli. In questo contesto diventa sempre più necessario intervenire su due fonti: da un lato sulla riduzione dei rifiuti alla fonte, dall’altro sull’incremento sistematico di recupero e raccolta differenziata di questi rifiuti. L’organizzazione di uno stand con criteri ecologici offre l’opportunità di mostrare come si possibile e anche semplice cambiare abiudini e comportamenti nel rispetto dell’ambiente e della salute. Di seguito vogliamo mostrare come si possono applicare semplici accorgimenti per ridurre gli impatti ambientali correlati all’organizzazione di questo tipo di eventi e considerare gli “acquisti verdi” come uno strumento per ottenere risultati, soprattutto in termini di riduzione dei rifiuti e di gestione della raccolta differenziata, ma anche di riduzione dei consumi energetici. Per quanta riguarda gli aspetti inerenti la gestione dei consumi elettrici, si prende in esame solo quanto strettamente attinente all’allestimento, quindi gli impianti termici e di climatizzazione esulano da questo studio. Illuminazione. Il consumo e l’efficacia dell’illuminazione artificiale non dipendono soltanto dalla scelta degli apparecchi illuminanti ma anche da un intelligente disposizione dei diversi punti luce e dalla combinazione di luce diffusa e luce diretta. Un primo passo per ridurre i consumi in questo senso è privilegiare dove possibile l’impiego della luce naturale, attraverso una corretta percezione del luogo nel quale sarà inserito l’allestimento; questo per precisare che è possibile sfruttare anche la luce naturale degli ambienti nei quali sarà inserito l’allestimento. Occorre poi razionalizzare l’impianto di illuminazione installando timer o fotocellule nei locali di passaggio. Dispositivi di rilevazione di presenza per l’illuminazione delle aree allestite che può essere pilotata tramite dei sensori di presenza e degli interruttori di riduzione. In questo modo non si subisce un dispendio energitico senza beneficiare dell’effetto. E’ bene poi preferire corpi illuminanti a basso consumo, evitare quindi lampade a fluorescenza, laddove ci sia bisogno di un illuminzaione persistente è preferiribile usare le nuove tecnologie adottate nel campo, sono ormai di larga diffusione i LED, che danno un ottimo rendimenento e rapporto tra illuminazione e consumi. Possiamo fare poi un’altra riflessione, una luce intensa deve esserci solo laddove ce n’è bisogno. L’illuminazione di fondo e quella del luogo dell’allestimento devono perciò essere ben distinte.
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Rifiuti La riduzione dei rifiuti, insieme alla raccolta differenziata ed al recupero dei beni ri-utilizzabili, sono fondamentali per contenere la quantità dei prodotti da avviare a smaltimento. In primo luogo è necessario svolgere un’analisi sulla situazione della gestione dei rifiuti nel luogo dell’allestimento e quindi le misure da adottare. Devono essere valutati tipo e quantità dei rifiuti prodotti, sistemi di raccolta e impianti di smaltimento e recupero esistenti. Dopo questa prima analisi può essere valutata la possibilità di introdurre un nuovo metodo di raccolta, basato su selezione monomateriale temporanea (carta e cartone, plastica, alluminio, vetro...) per poi essere incanalato verso appositi centri di raccolta nelle vicinanze. La raccolta differenziata si fonda sul principio di considerare il rifiuto come risorsa da utilizzare. Un’accorta differenziazione può facilitare il recupero di rifiuti, che una volta separati sono pronti per essere riciclati; questa operazione quindi deve risultare quanto più chiara e semplice possibile. E’ consigliato posizionare i contenitori della raccolta differenziata in luoghi vicini a dove si produce il rifiuto e identificarle con indicazioni esplicative. In ogni caso è utile designare un responsabile per la gestione dei rifiuti, in grado di dare informazioni all’interno del contesto organizzativo e espositivo. Ridurre l’utilizzo di imballaggi, senza incidere sulla capacità di proteggere il prodotto, è un modo di ridurre l’impatto e la produzione di rifiuti. Per ridurne la quantità occorre prestare attenzione al momento dell’acquisto dei prodotti, scegliendo quelli con minore imballaggio, evtado quelli usa e getta e conoscendo il significato dei marchi apposti sul packaging. L’imballo inoltre può essere utilizzato più volte se questo viene conservato e se l’uso che se ne fa è identico a quello per il quale è stato concepito. Altra operazione fondamentale è quella di ridurre l’utilizzo di carta “usa e getta” perciò è importante scegliere una carta ecologica, meglio se riciclata e che comunque rispetti l’ambiente. Tra i principali marchi che troviamo in commercio e che ci aiutano a scegliere una carta ecologica troviamo Ecolabel, Blauer Engel, White Swan. Si possono inoltra ridurre sensibilmente i consumi di carta utilizzando procedure e tecnologie informatiche come la posta elettronica per la trasmissione di dati e informazioni, o l’utilizzo di applicazioni e nuovi metodi di trasmissione e condivisione.
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Le schede seguenti sono tratte dalla pubblicazione â&#x20AC;&#x153;Eco design per gli allestimenti temporaneiâ&#x20AC;? del Dipartimento di tecnologia dellâ&#x20AC;&#x2122;architettura e design Pierluigi Spadolini.
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9 Progetto di dismissione e/o reimpiego dell’allestimento Considerando che il LCD (Life Cycle Design) è di norma poco utilizzato nella pratica, dato l’alto costo e il notevole frazionamento degli attori coinvolti, negli allestimenti si può prevedere invece il recupero ed il riutilizzo di buona parte degli elementi che compongono l’allestimento. In definitiva il progetto di dismissione deve fare forza su due precise attività , che comportano quanto più possibile l’utilizzo del materiale riciclabile e non, un progetto che preve azioni di riutilizzo dei componenti o di parte degli stessi. Quindi in fase di progettazione si devono prevedere tutte le azioni che possono ritardare l’accesso alla discarica. Pensare ad un progetto di allestimento riutilizzabile che allunghi la vita del prodotto complessivo; pensare ad un possibile uso degli elementi che compongono l’allestimento una volta dismesso.
Come già detto nel settore dell’allestimento la risoluzione del problema legato al quantitativo dei rifiuti prodotti durante la costruzione e demolizione, gioca un ruolo fondamentale per la sostenibilità e la prevenzione delle risorse naturali. Quanto segue intende mostrare l’opportunità di dismissione e il trattamento di riciclo dei componenti dell’allestimento, e illustrare le potenzialità di reimpiego che gli scarti offrono insistendo all’interno della attività del settore. 424
proponendo la loro valorizzazione come materie prime tramite trattamenti di qualità con elevati standard di riciclaggio. Con la strategia del disassemblaggio si può intervenire al fine di prevedere e quindi facilitare la separazione di tutti i componenti del prodotto per ottimizzare il riuso. Perchè un progetto sia sostenibile deve garantire il massimo della flessibilità, l’obbiettivo è quello di rendere facilmente smontabili e separabili le parti dell’allestimento che potranno subire modifiche nel corso del tempo a fine vita. Alcune di queste modifiche possono essere controllate con il progetto e quindi guidare, facilitare successive variazioni dei pezzi. Nel processo di riciclo il prodotto-rifiuto viene trasformato in “materia prima” o componenti nuovamente rilavorati e quindi riutilizzati. Problabilmente quella appena descritta è la forma che più si presta al prodotto allestimento, che può beneficiare dello sviluppo di un solo attore. Bisogna inoltre distinguere tra i concetti di riciclo, quelli a ciclo chiuso e a ciclo aperto. Nel primo caso, i residui della produzione vengono utilizzati per la realizzazione dello stesso prodotto originario all’interno del ciclo produttivo. Questa organizzazione permette risparmio di energia (trasporto) e un controllo qualitativo dei materiali utilizzati. Nel caso del ciclo aperto, forse l’unico applicabile agli allestimenti, gli scarti vengono utilizzati per la realizzazione di altri prodotti, e si parla di riciclo a cascata poichè i materiali vengono riutilizzati in altri processi produttivi. L’ultima procedura presa in considerazione in questo capitolo è il design for remanufacturing, poco applicabile nel settore degli allestimenti ma comunque interessante per l’iter che il prodotto rifiuto svolge. In questo caso il materiale deve essere “maturo”, cioè non suscettibile di veloce declino formale, tecnologico e di deperimento dei materiali componenti; standardizzato nei componenti e costituito da parti intercambiabili; disassemblabile; riparabile e rinnovabile nei componenti, in modo da ottenere le stesse prestazioni fornite all’inizio del ciclo di vita. Si tratta di un processo molto utilizzato nel settore automobilistico e alla produzione seriale dello stesso genere e come già detto difficilmente accostabile ad un progetto allestitivo.
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Bibliografia Lo Sviluppo dei Prodotti Sostenibili. I Requisiti Ambientali dei Prodotti Industriali, Manzoni M. Vezzoli C (Pubblicazione). ExhibitionDesign “Architettura Come Strumento di Comunicazione”, Brunelli D. , Allinea Editrice 2006. Analisi del Ciclo di Vita. LCA, Baldo G. Marino M. Rossi S. , Edizione Ambiente 2005. Eco-Design per gli Allestimenti Temporanei, Novelli P. Brunelli D. Regione Toscana. Material and the Enviroment, Michael F. Ashby. Refence Guide for Green, Interior Design and Costruction Guide 2012. Rapporto sulla Sostenibilità, Green Italy 2012.
Sitografia www.acquistiverdi.it www.bioarchitettura.org www.eco-label.com www.legaambienteturismo.it www.matrec.it www.certificazioneleed.com www.a-realstate.it www.wikipedia.com
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LCA (life cycle assessment) La metodologia LCA come motore per l’innovazione Il ciclo di vita di un prodotto è definito come una sequenza di fasi successive e correlate, che identificano il “sistema prodotto”, dalle materie prime che lo costituiscono allo smaltimento finale. I paesi anglosassoni definiscono l’intero ciclo di vita di un prodotto con l’espressione cradle to grave (lett. “dalla culla alla tomba”). Si definisce Life Cycle Assessment (LCA), l’operazione di raccolta ed elaborazione dei dati relativi al sistema prodotto, gli input, gli output e il potenziale impatto ambientale attraverso il suo ciclo di vita. Questo strumento permette di gestire in modo trasparente l’analisi del sistema oggetto di studio, e di comprendere, ripercorrere ed eventualmente criticare l’iter che ha portato a determinate valutazioni di impatto ambientale. Gli standard per il Life Cycle Assessment sono stati definiti dall’ISO (International Organization for Standardization), in accordo con il SETAC (Society of Environmental Toxicology and Chemistry) e la Commissione Europea. La metodologia LCA prevede: • la compilazione di un inventario di ciò che di rilevante entra ed esce da un sistema di prodotto • la valutazione dei potenziali impatti ambientali associati a ciò che entra ed a ciò che esce • l’interpretazione dei risultati riguardanti le fasi di analisi dell’inventario e di stima degli impatti in relazione agli obiettivi dello studio. Per intraprendere un LCA è necessario definire fin dall’inizio quali saranno gli obiettivi dello studio: gli strumenti analitici necessari, le competenze e le persone da coinvolgere, le operazioni principali del sistema e l’unità funzionale, l’individuazione dei dati da misurare e delle assunzioni necessarie. L’unità funzionale (Functional Unit) è l’unità di misura a cui si rapportano tutti i dati, espressione della prestazione svolta dal sistema (prodotto o servizio). L’inventario descrive dettagliatamente i flussi di input e output relativi al prodotto e identifica le voci di impatto attraverso l’allestimento di schede per la raccolta dati. In un LCA vengono dapprima descritti i confini del sistema, dopodiché le componenti del sistema sono rappresentate attraverso diagrammi di flusso. Infine, i dati raccolti relativi al sistema prodotto sono riportati in una tabella in cui per ogni voce sono indicati gli impatti ambientali causati dalle unità funzionali in studio. Gli indicatori di impatto ambientale devono essere selezionati specificamente per l’attività in esame. Generalmente si scelgono le seguenti principali categorie di impatto: • consumo di risorse naturali (consumi energetici netti, consumi di fonti non rinnovabili, consumi di acqua, consumi di materia, occupazione di volumi);
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• inquinamento atmosferico (emissioni in aria di polveri, metalli e organici, crescita dell’effetto serra, acidificazione); • inquinamento dell’acqua (scarico di metalli, solidi sospesi e sostanze organiche disciolte, eutrofizzazione); • generazione di rifiuti solidi (di varia provenienza e classe). 2 Schema del ciclo di vita di un prodotto e dei relativi elementi in ingresso e in uscita È da sottolineare come alla base della LCA si possa configurare una visione non lineare ma più propriamente reticolare: ogni fase del ciclo di vita risente della precedente e influenza la successiva. Un materiale con un forte impatto produttivo, ad esempio, potrebbe invece essere riciclato o riutilizzato in modo semplice ed ecologico, rendendo l’intero processo sostenibile e vantaggioso. Come accennato in precedenza, i risultati scaturiti da uno studio LCA forniscono indicazioni per mettere in atto scelte strategiche per migliorare gli impatti ambientali di un prodotto attraverso la visione completa del ciclo di vita. A titolo di esempio, una ricerca condotta per EUROPEN dalla società di ingegneria ambientale URS, rivela che a partire da studi LCA di diversi prodotti è difficile stabilire in assoluto se per l’ambiente sia meglio il riutilizzo o il riciclaggio. Ogni studio infatti può avere fattori diversi che portano a risultati finali diversi: per esempio, per quanto riguarda il settore degli imballaggi, alcuni studi evidenziano l’importanza del trasporto e della distribuzione come fattore chiave e determinante per la scelta preferibile per l’ambiente tra prodotto riutilizzabile e analogo prodotto usa e getta. In generale, più lunga è la distanza da percorrere, più i risultati indicano di scegliere materiali leggeri e riciclabili, sebbene questo dipenda dall’infrastruttura locale per la raccolta, lo smistamento e il riciclaggio. 3 Packaging Cradle-to Cradle Lifecycle Fino a una decina di anni fa, i progettisti non avevano a disposizione strumenti che li aiutassero ad integrare aspetti di protezione ambientale alla progettazione di prodotti: oggi, invece, esistono sofisticati software di calcolo ed analisi (es: SimaproEcoIndicator), banche dati dedicate, nonché centri specializzati in valutazioni di impatto ambientale. I dati utilizzati nel modello di LCA sono preferibilmente raccolti mediante appositi questionari e visite in-situ presso le aziende dei settori interessati. Per alcune fasi del ciclo di vita dei prodotti, i dati primari delle aziende sono integrati con dati secondari provenienti da banche dati nazionali e internazionali (es: Banca Dati Italiana di LCA “I-LCA” presentata dall’ANPA nel febbraio 2001). Gli studi LCA stanno diventando progressivamente uno strumento di ecoinnovazione per le aziende. Per diffondere l’utilizzo di questa metodologia, l’Unione Europea ha inoltre predisposto una piattaforma dedicata al Life Cycle Thinking and Assessment. È inoltre da sottolineare che in tutti i principali programmi di finanziamento europeo a sostegno dell’innovazione sono presenti progetti che si riconducono alla metodologia LCA.
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Per quanto riguarda la presenza di centri di competenza LCA in Italia, un elenco esaustivo è reperibile sul sito della Rete italiana LCA. Negli ultimi dieci anni, le tematiche ambientali come il cambiamento climatico o la conservazione delle risorse naturali hanno preso il sopravvento. Aziende e imprese, per questo motivo, stanno progressivamente aumentando la consapevolezza dell’importante e attivo ruolo che possono ricoprire in tal senso, attraverso la riduzione del consumo di risorse e l’innovazione, non solamente nei processi ma anche nei prodotti. Per l’identificazione del problema dell’impatto ambientale molte aziende, specialmente tra i produttori industriali, hanno dimostrato di poter ridurre anche considerevolmente il proprio impatto negativo sull’ambiente, per esempio nel caso di inquinamento di risorse idriche e dell’aria. Tradizionalmente, questi risultati giungevano in seguito a ridimensionamenti nei processi di produzione. Sempre più, tuttavia, aziende e società stanno focalizzando la loro attenzione anche sugli impatti a lungo termine dei loro prodotti, partendo dalla fase di progettazione per limitare l’impatto ambientale in tutto il corso della vita di tali prodotti. Migliorare il ciclo di vita di un prodotto significa che il produttore dello stesso deve tenere in considerazione il suo ciclo di vita, dall’inizio alla sua fine (e, talvolta, considerare che la sua vita può anche ricominciare), il che include: estrazione del materiale grezzo, la manifattura, la distribuzione, il suo uso. L’approccio olistico è, in questo senso, necessario e complesso, dal momento che esistono molte fasi che devono essere misurate e parametri che devono essere tenuti in considerazione. Riciclare l’acciaio alla fine vita del prodotto è un fatto chiave che, utilizzando lo strumento LCA (Life-Cycle Analysis) si può tradurre in migliori performance ambientali rispetto a materiali competitivi rispetto all’acciaio in diverse situazioni. L’acciaio può essere riciclato più e più volte. Circa l’80% dell’acciaio è riciclato, il che si traduce in oltre 600 milioni di tonnellate di CO2 risparmiate annualmente. E’ importante che le caratteristiche critiche dell’acciaio, come la sua riciclabilità, siano tenute in considerazione in modo appropriato all’interno degli standard ambientali e normativi che vengono stabiliti dai legislatori, come per esempio nel caso delle etichette dei prodotti legate alla loro sostenibilità, o nel caso delle dichiarazioni ambientali per i prodotti e la relativa carbon footprint. Inoltre, fornire informazioni tecniche e analisi di ricerca ai legislatori appare essenziale.
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Conclusioni Si può parlare di eco-design quando il design è ambientalmente, socialmente e, non ultimo, eticamente corretto e responsabile. Nella situazione odierna, è necessario, a nostro avviso, sfruttare la difficile congiuntura economica con le esigenze ambientali. Il design deve allargare perciò la sua azione non solo al sistema di prodotti ma anche a quello dei servizi che soddisfano una determinata domanda di benessere. Progettare a livello di sistema permette di avere più innovazioni radicali e maggiori vantaggi, anche sotto il profilo ambientale, creando nuove forme di partnership tra imprenditori, tra imprenditori e utenti e tra le organizzazioni istituzionali. Il messaggio che, da qualche anno, si cerca da più parti di diffondere, è quello che è possibile vivere- progettare- fare business salvaguardando l’ambiente e le sue risorse. Di fatto si tratta di una questione culturale. In che termini e secondo quali modalità ciò si debba concretizzare, dipende dalla prospettiva e dal settore dal quale si guarda e ci si intende muovere. Il cammino è certamente arduo ma è di estrema urgenza modificare quelli che, dalla rivoluzione industriale ad oggi, sono stati i modelli di produzione e consumo. Dalla nostra analisi è venuto fuori che oltre ad una maggiore informazione e agli strumenti che la ricerca e lo sviluppo hanno raggiunto, è indispensabile un cambiamento dello stile di vita delle società consumistiche e soprattutto un cambiamento di mentalità. La crisi economica che oggi stiamo vivendo potrebbe essere di aiuto, giacché essa stessa ha necessariamente comportato una drastica riduzione di usi e consumi. E’ imprescindibile perciò conciliare i vantaggi ambientali con quelli competitivi. In questo senso il design può coniugare la dimensione etica e sociale della sostenibilità, oltre a quella ambientale, agli obiettivi di un design strategico per la sostenibilità. Il nostro tempo perciò necessita di incanalare lo sviluppo tecnologico alla ricerca scientifica, per il miglioramento della vita umana, su un binario la cui linea sia quella della responsabilità di ogni nostra singola azione, dal pensiero al progetto. Uscire dalla crisi è certamente la priorità immediata ma è ancora più importante cercare di non tornare la situazione precedente ad essa e ricadere nello stesso errore. Le sfide, relative al clima e alle risorse, richiedono misure drastiche. La forte dipendenza dai combustibili fossili, come il petrolio, e l’uso inefficiente delle materie prime espongono consumatori e imprese a dannosi shock dei prezzi, minacciando così sicurezza economica e contribuendo al cambiamento climatico. La maggiore capacità di ricerca e sviluppo, d’innovazione in tutti i settori
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dell’economia, associata ad un uso efficiente di tutte le risorse, migliorerà la competitività e favorirà la creazione di nuovi posti di lavoro. La nostra attenzione collettiva deve focalizzarsi quindi sul raggiungimento di questi traguardi, in tal modo nelle politiche ambientali giocherebbe un ruolo fondamentale il sistema di relazioni industriali, organizzando strutturando e riorientando interi settori produttivi che oggi non siamo ancora in grado di leggere e capirne gli sviluppi futuri. L’applicazione e sviluppo delle tecniche e dei sistemi discussi nei capitoli precedenti, richiede una specifica competenza e sensibilità, che può- anzi deve -entrare a far parte delle conoscenze delle figure coinvolte nel più ampio processo d’integrazione design- sostenibilità- sistemi produttivi. E’ chiaro che le azioni del progettista sono sempre specifiche, legate al caso in questione, ma è ormai assodato che quest’ultimo abbia un ruolo strategico, di facilitatore e di attivatore di relazioni, conoscenze e meccanismi d’innovazione. Il designer, con competenze ambientali, diversamente dal suo ruolo classico, svolge un servizio di ricerca cooperando con gruppi di studio universitari e con centri di ricerca scientifica. L’architettura ha bisogno del supporto della materia, un processo che accetta fin dall’inizio difficoltà e compromessi che proprio la materia offre a chi intenda impiegarla per dare compiutezza e concretezza ad un idea. Le conoscenze delle prestazioni dei diversi materiali e dei componenti tecnici, indispensabili per pensare un edificio fin dalle prime fasi di progetto come un oggetto dotato di forma, colore, consistenza, peso, odore, ecc. si completano con le cognizioni relative all’impatto degli stessi materiali e componenti tecnici sull’ambiente naturale e sull’uomo, nelle loro fasi di produzione, impiego e dismissione a conclusione del ciclo di vita. Costruire sostenibile è forse la sfida più grande che si confronta con l’innovazione. Se l’innovazione, infatti, significa proporre il nuovo, ciò che ancora non esiste, modificare ciò che esiste in funzione di nuovi obiettivi e per ottenere nuovi risultati, trasferire sapere e soluzioni, allora innovare significa modificare il paradigma attuale che vede il settore delle costruzione come il massimo responsabile dei consumi di combustibile fossile, grande produttore di rifiuti non riutilizzabili e grande inquinatore. Come abbiamo visto anche per l’uso dei materiale è indispensabile una responsabilità etica. Progettare un piccolo oggetto o una casa, utilizzare un materiale plastico piuttosto che lapideo, costituiscono azioni che si dovrebbero tradurre in scelte consapevoli, mirate all’utilizzo di materiali, tecniche e sistemi, in grado di offrire apporti positivi rispetto ai requisiti di sostenibilità e di salvaguardia dell’ambiente. In tal senso svolge un ruolo fondamentale la conoscenza dei materiali e delle tecniche costruttive, resa possibile attraverso l’informazione tecnica a cui è demandato il compito di veicolare tutti i dati necessari alla corretta identificazione del prodotto in esame. Tutto questo ha portato alla nascita delle materioteche, neologismo coniato per indicare luoghi fisici o virtuali nei quali sono raccolte e rese disponibili
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informazioni tecniche su ampie gamme di prodotti, riguardanti in particolare il mondo dellâ&#x20AC;&#x2122;architettura, del design, della moda e della produzione industriale in genere. Le materioteche sono archivi tecnologici che propongono come strumento di conoscenza e di diffusione dellâ&#x20AC;&#x2122;informazione tecnica e possono avere fini commerciali o didattici. Crediamo che un passo decisivo oggi sia quello di includere negli obiettivi del design la dimensione etica e sociale della sostenibilitĂ , attraverso lâ&#x20AC;&#x2122;organizzazione di uno spazio che oltre a presentare le nuove tecnologie sia in grado di essere strumento di comprensione e sensibilizzazione.
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Bibliografia Lo Sviluppo dei Prodotti Sostenibili. I Requisiti Ambientali dei Prodotti Industriali, Manzoni M. Vezzoli C (Pubblicazione). ExhibitionDesign “Architettura Come Strumento di Comunicazione”, Brunelli D. , Allinea Editrice 2006. Analisi del Ciclo di Vita. LCA, Baldo G. Marino M. Rossi S. , Edizione Ambiente 2005. Eco-Design per gli Allestimenti Temporanei, Novelli P. Brunelli D. Regione Toscana. Material and the Enviroment, Michael F. Ashby. Refence Guide for Green, Interior Design and Costruction Guide 2012. Rapporto sulla Sostenibilità, Green Italy 2012. www.acquistiverdi.it www.bioarchitettura.org www.eco-label.com www.legaambienteturismo.it www.matrec.it www.certificazioneleed.com www.a-realstate.it www.wikipedia.com
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7. Il Tevere, luogo dellâ&#x20AC;&#x2122;effimero a cura di Mario Pizzonia
1. Il Tevere e Roma Il Tevere, fin dalla sua nascita, è stato l’anima di Roma. Come del resto per molte città, Il fiume ha rappresentato una grande risorsa poiché fornisce acqua per i vari usi, è una fonte di energia motrice, costituisce una via di comunicazione per gli scambi commerciali. Oggi questo legame di tipo utilitaristico si è venuto attenuando, ma, di contro, sembra essersi rafforzato un altro tipo di legame ovvero quello della valenza paesaggistica e ambientale che il fiume riesce a portare nella città stessa. Nel corso della storia questo fiume ha creato alla città non pochi problemi alluvionali, che vennero risolti solo dopo la disastrosa inondazione del 1870 con la più importante impresa ingegneristica e urbanistica nella storia di Roma, ovvero quella della realizzazione degli argini o “muraglioni”. Questo avvenimento, modificando lievemente l’aspetto del fondale, portò al decadimento della navigazione sul fiume per fini commerciali.
La sequenza di immagini ci mostra il prmia ed il dopo dalla costruzione dei muraglioni
Olio su tela di Giuseppe Zocchi, 1721
Le Sponde del Tevere oggi Per i romani il Tevere ha inizio a Ponte Milvio forse perché a monte le banchine non sono praticabili; fatto sta che il fiume sembra prendere vita sotto le arcate di “ponte mollo” e diventare così il fiume di Roma. Ma proprio dove il fiume diventa cittadino il degrado è maggiore vuoi per la vegetazione sulle sponde trasformate in pattumiera o vuoi per quella pessima abitudine di disfarsi di lattine e bottiglie gettandole dal ponte.
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Lungo il tratto di sponda che dalla Torretta Valadier si dirige al ponte Duca d’Aosta montagne di bottiglie e rifiuti si ammucchiano tra le erbacce che crescono disordinatamente; i marmi dei muraglioni sono imbrattati di scritte mentre il canneto che costeggia la pista ciclabile con il tempo è diventato una discarica. Ma grazie all’adesione di numerosi cittadini volontari e di alcune associazioni al programma “RetaKe Roma” nello scorso dicembre (12/13) vi è stato un netto miglioramento che ha contribuito ad un utilizzo più sicuro ed appropriato delle sponde del Tevere, restituendogli , almeno in parte, il nostalgico fascino che abbiamo avuto l’occasione di vedere in film come “La Grande Bellezza”.
Il Tevere: da sempre luogo di sport nelle diverse epoche Il fiume di Roma è sempre stato considerato dai suoi cittadini come un luogo fondamentale per allenarsi e fare sport al centro della città. per descrivere dunque al meglio questo capitolo, e per far capire come sia cambiato nel corso degli anni l’utilizzo del fiume di Roma, iniziamo in ordine temporale. Fino a qualche decennio fa il Tevere veniva sfruttato come molti romani ora sfruttano il mare, questa cosa, ameno per i ragazzi della mia generazione, è veramente difficile da pensare; fatto sta è che nel fiume di Roma ci si nuotava, e c’è stato persino qualcuno che ha voluto battere dei record di distanza! Come il nuotatore non professionista Fioravanti che nel 1949 percorre 120 km a nuoto da Orte a Roma in 30 ore. In quell’ epoca i più tipici frequentatori del fiume a Roma erano chiamati “fiumaroli”. Oltre che a queste imprese, nel Tevere ci si organizzavano anche gare di nuoto, di cui le prime, a carattere sportivo, risalgono alla fine dell’ ‘800. il nuoto non era però l’unico sport praticato, difatti all’epoca, come d’altronde tuttora, era molto in voga il canottaggio; l’insediamento dei circoli di canottieri partì all’epoca di Pio IX, subito dopo l’entrata dei bersaglieri di Raffaele Cadorna. Nell’estate del 1897 esistevano quattro club
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Alto Fioravanti prima di battere il record, 1949
dediti alla voga sportiva, Il più prestigioso era il Reale Club Canottieri del Tevere, con galleggiante e chalet a due piani difronte alla “poetica” passeggiata di Ripetta. Oggi gli utilizzi sportivi del Tevere sono molto cambiati, anche se alcune usanze sono rimaste. Infatti si da più importanza alle sue banchine che ospitano una discreta pista ciclabile inaugurata in occasione dei mondiali di calcio ospitati nel ’90. Location affascinate e suggestiva, il Tevere è stato spesso scelto per manifestazioni sportive ed eventi pubblicitari tra cui ricordiamo uno degli ultimi: la Nike Flash Run, una maratona, organizzata dall’ omonima casa di calzature sportive, nella quale i partecipanti hanno corso per le strade di Roma inseguiti da Zombie, avendo come obiettivo il traguardo situato lungo il Tevere. Il tutto, ovviamente, è stata una trovata pubblicitaria piuttosto divertente per inaugurare l’inizio di una fiction.
Una gara di canottaggio nel 1879
Arte e street art sui muraglioni Apriamo ora un capitolo molto importante per quanto riguarda l’arte, se così si vuol chiamare, dei graffiti o disegni da strada, argomento da sempre molto dibattuto poiché, in effetti, il muro è un bene pubblico ed il graffito è abusivo, ma spesso non è la scadente realizzazione a farlo additare come male da eliminare, ma il concetto di Status che si porta dietro, difatti nell’ immaginario pubblico esprime decadenza e ci rimanda ad un concetto di periferia urbana. Non è questo però il caso di William Kentrige, artista sudafricano che realizzerà nel 2014 Triumphs and Laments, un’opera lunga 550 metri sui muraglioni del Tevere compresi tra ponte Sisto e ponte Mazzini: attraverso la pulitura selettiva della patina di smog e della pelli-
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cola biologica accumulatasi sulle superfici, Kentridge creerà più di novanta grandi figure, alte fino a nove metri, protagoniste di un racconto epico in cui prenderanno forma i trionfi e le sconfitte dell’umanità, dall’età del mito fino alla vicende del presente. Come una lunga pellicola cinematografica, un fregio classico o una sceneggiatura teatrale srotolata nello spazio, la storia di Roma si tramuterà in una infinita processione di simboli e di personaggi; un’ opera di grande impatto visivo, che i passanti potranno ammirare dalle banchine lungo il fiume così come dal livello del Lungotevere. La tecnica è stata ideata e utilizzata dall’artista statunitense Kristin Jones nello stesso luogo, consente di non alterare le caratteristiche chimico fisiche del travertino, essendo perfettamente compatibile con la tutela dei monumenti storici. Un’opera, dunque, destinata a una progressiva scomparsa: negli anni i nuovi strati di smog e di materia biologica si accumuleranno sui muraglioni, lasciando sbiadire le immagini. Un intervento pensato per sciogliersi tra le maglie del tempo, lentamente.
William Kentridge
Una proposta di come potrebbe apparire il murales
Intrattenimento Secondo ciò che abbiamo letto nei capitoli precedenti, capiamo come il Tevere sia stato ed è tuttora una delle principali fonti d’intrattenimento per i romani, ma cerchiamo anche ora di andare in ordine temporale. Quando il Tevere era la spiaggia dei romani, come abbiamo già detto i fiumaroli ne erano i re indiscussi. L’anno più brutto per i fiumaroli fu il 1932, quando ai romani che abitualmente passavano l’estate in riva al fiume fu intimato di andarsene per far posto a una colonia estiva fascista. Il territorio da contendere era una lingua di sabbia fluviale fra Ponte Duca d’Aosta e Ponte Risorgimento: la Spiaggia Polverini. Era già quello di allora un modo come un altro per rifare pace con il fiume. Perché Roma è del Tevere e i romani pure e da quando Garibaldi fece erigere i muraglioni (per salvare Roma dal suo fiume, anche questo va detto), quel rapporto e quella dipendenza si sono affievoliti sempre di più, fino a sparire del tutto. Fu dal 1932, dunque, che ai fiumaroli di Roma venne chiesto di ritirarsi dalle sponde del proprio fiume, e fu così che chi aveva qualche soldo in più si spostò sui barconi dei dopolavoro e dei circoli, gli altri finirono sulla chiatta di “Er Ciriola”, la barca di un pescatore di anguille (le ciriole in romano), che fino a quel momento aveva gestito uno stabilimento di bagni tradizionale costituito da capanne di cannuccia sulla sponda montate agli inizi della
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stagione calda, il quale acquista un rimorchiatore in disarmo, e lo riadatta, in modo innovativo, a stabilimento fluviale. Di quell’epoca rimane un film, “Poveri ma belli”, e i ricordi di chi ha avuto un parente che ha frequentato le feste e quella spiaggia galleggiante. Doveva essere una stagione “mitica”, in piena sintonia con la storia profonda della città. E oggi? La nuotata nelle acque del Tevere, pur avendo una carica simbolica notevole, è sconsigliata non tanto per l’inquinamento, quanto per le correnti micidiali. I barconi però sono rimasti, ma molti non hanno più la stessa funzione di prima poiché ora sono visti ed utilizzati come luoghi, sicuramente unici e suggestivi, per lo svolgimento di eventi, la ristorazione e i restanti, come d’altronde lo sono sempre stato, per l’intrattenimento sportivo.
Renato Salvatori, Maurizio Arena Marisa Allasio sulla chiatta di “Er Ciriola” nel film “Poveri ma Belli”
I Barconi Apriamo ora un capitolo dedicato interamente ai barconi. Le strutture galleggianti sul Tevere sono sempre esistite sin dai tempi dell’assedio gotico, questi però servivano per un altro utilizzo, difatti erano i mulini galleggianti posti presso l’isola Tiberina, questi galleggianti, per motivi di sicurezza idraulica, vennero rimossi nel 1871 per ricomparire dopo la costruzione dei muraglioni a valle e a monte di Ponte Cavour, adibiti, come abbiamo già detto, per ospitare circoli di canottaggio. Oltre che con le funzioni ricreative, i galleggianti hanno segnato le sponde del Tevere con le loro forme e stili; i circoli di canottaggio rivestivano le sponde del fiume con forme liberty, un po’ esotiche, in legno, con torrette, ponti coperti e passerelle. Tantissimi di questi barconi hanno resistito sino ad ora, possiamo così stilare una classifica dei presenti, ognuno con la propria funzione:
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Il Battello Agrippina Maggiore pronto per ospitare la cena
I Battelli Una particolare importanza nei confronti del Tevere per quanto riguarda il turismo l’hanno avuta i battelli, inaugurati nel 2003. Questi sono stati adibiti per svolgere svariate funzioni: si parte dal classico giro turistico sino ad arrivare alla crociera con cena a bordo oppure volendo si può passare un pomeriggio condito da un wine bar sulle acque del fiume. Ogni battello ha il proprio nome e ad ogniuno è attribuita la propria funzione in base alla capienza complessiva e all’architettura interna; in totale sono cinque: Rea Silvia (un ponte con 66 posti), Agrippina Maggiore (un ponte con 50 posti), Corneli (due ponti con 120 posti), Livia Drusilla (due ponti con 80 posti) e Calpurnia (due ponti con 180 posti). Le tratte svolte da queste imbarcazioni sono due: una è lunga 6 km e va da Ponte Risorgimento fino all’isola Tiberina, l’altra invece riguarda la zona sud di Roma ed inizia a Ponte Marconi per terminare nell’antico porto di Ostia. Dopo un decennino però dobbiamo dire addio ai battelli sul Tevere; Il sogno di emulare i bateaux mouches parigini, le motonavi-navetta sul Tamigi londinese, o la tranquilla navigazione sul Danubio a Vienna è andato svanito a causa del degrado e dei pericoli per le imbarcazioni sul fiume, «Il degrado è sotto gli occhi di tutti» afferma Mauro Pica Villa, consigliere di amministrazione dei “Battelli di Roma” e continua «l’ ultimo grande intervento di pulizia sulle rive, sulle banchine e di bonifica dei muraglioni è stato fatto nel 2008, ora la navigazione non è più possibile, sta diventando pericolasa; dopo le piene gli alberi sono sutti una busta di plastica, per non parlare del fatto che ogni giorno c’è un insediamento nuovo sotto i ponti». Sembra dunque questo il destino per i nosti battelli dopo dieci anni di attiva carriera si andranno a riposare in qualche deposito, con la speranza che un giorno, chissà, potranno ritornate per soddisfare gli occhi affamati dei nostri turisti.
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Estate romana Questo clamoroso evento nasce alla fine degli anni ‘70, periodo di forte tensione popolare e politica a causa delgli anni di piombo, dalla geniale idea di Renato Nicolini (Roma, 1º marzo 1942 – Roma, 4 agosto 2012), all’epoca assessore alla cultura, che si impegnò in un programma politico detto dell’ effimero da cui nacque appunto l’ Estate Romana. La politica culturale promossa da Nicolini andava in controtendenza con la storica abitudine italiana di forte accentramento della cultura e di divisione classista per l’accesso al sapere, a tradizionale appannaggio delle élite. Il palco urbano viene così tolto dalle mani del monopolio della politica per essere consegnato ad una cultura di massa, che esce dalle sale chiuse dei teatri e varietà per essere spostata nella città. Nel progetto di Nicolini gli spettacoli culturali all’aperto ideati per animare l’estate della capitale accoppiano musica pop, balletto, teatro di strada, maratone cinamatografiche di film popolari e d’autore, giocando sulla contaminazione di “cultura alta” e “cultura bassa”.
Renato Nicolini
A sinistra la Basilicadi Massenzio prima di una rassegna cinematografiafica. A destra un circo da strada.
Nelle edizioni dell’estate romana partecipa così una varietà di platee di diverse estrazioni sociali, dagli intelletuali agli studenti, dagli abitanti del centro storico alle masse popolari della periferia cittadina. Queste ultime per la prima volta sono chiamate ad essere co-destinatarie di spettacoli culturali allestiti nei luoghi storici del centro della città . L’essenza del progetto risiede appunto nel coinvolgimento del vasto pubblico agli eventi: la trasformazione della platea da semplice spettatore a reale protagonista diviene parte integrante della rassegna. La manifestazione fa il suo esordio con alcuni spettacoli cinematografici presso la Basilica di Massenzio a partire dal 25 Agosto 1977 con la proiezione del film “Senso” di Luchino Visconti di fronte ad alcune centinaia di
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spettatori. Nei giorni successivi l’affluenza cresce smisuratamente: la proiezione du quattro schermi in simultanea e le prime maratone di film portano a massenzio migliaia di spettatori entusiasti. La clamorosa risposta del pubblico a questa iniziativa obbliga gli organizzatori ad optare, nelle estati successive, per l’utilizzo di altri luoghi storici più capienti. L’effimero di Nicolini è durato per ben nove anni, lasciando nelle persone che hanno vissuto quel periodo un ricordo piacevole e nostalgico, per tornare oggi ad animare le giornate estive dei romani con una concezione che purtroppo è ben lontana dal concetto di Nicolini poichè, a mio avviso, incentrata troppo sul guadagno e spesso ostacolata dalla troppa burocrazia italiana.
“Lungo il Tevere” Edizione 2011
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Bibliografia Larisalitadeltevere.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://www.larisalitadeltevere.it/levento/ Vignaclarablog.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://www.vignaclarablog.it/2013120725952/ponte-milvio-tirata-a-lucido-dai-cittadinisponda-tevere/ Archivioluce.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://www.archivioluce.com/archivio/ Artibune.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://www.artribune. com/2013/12/unopera-di-550-metri-sul-tevere-william-kentridge-realizza-a-roma-il-suo-intervento-pubblico-piu-imponente-i-miti-del-passatoe-del-presente-evocati-sui-muraglioni-del-lungotevere/ Trastevereblog.blogspot.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://trastevereblog.blogspot.it Tiscali.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://web.tiscali.it/canottieridlf/storia.htm Archiviostorico.corriere.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://archiviostorico.corriere.it/2013/maggio/06/Stop_Battelli_Roma_Addio_navi gazione_co_0_20130506_7c3b4566-b611-11e2-ac0e-8bec5a51a2bd.shtml Fatti-italiani.it (internet) disponibile all’indirizzo: http://fatti-italiani.it/estate_romana
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IED Stampato ne Luglio 2014
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