il Bàcaro a n d à r
p e r
g u s t o
Distribuito in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige N u m e r o 2 | l u g l i o | a g o s to | s e t t e m b r e 2 0 1 1
TRIMESTRALE | Ann o I
in primo piano
CIBO E LUOGHI
SALUTE IN TAVOLA
VINO & STORIA
Il mais e la polenta, dalla storia agli impieghi odierni
La mela del Trentino: consorzi, qualità e marchi
A colloquio col nutrizionista per una corretta alimentazione
La viticoltura triestina ieri e oggi
p. 04
p. 09
p. 16
p. 22
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l mondo della stampa è come una foresta intricata, dove gli alberi sembrano tutti uguali, e non ci sono punti di riferimento. Senza orientamento, è facile perdersi. Per uscire dalla foresta, per arrivare al miglior prodotto possibile, bisogna sapere come muoversi. Assistere i nostri clienti nei minimi particolari, dando importanza ad ogni loro esigenza, è questo il nostro metodo per tracciare quel sentiero. La via più sicura ed affidabile, verso il miglior risultato.
{sommario} 3 | L’Editoriale
4 | In primo piano: il mais e la polenta
9 | Cibo e territorio: la mela trentina
12 | Sapori e tradizioni: salse venete e friulane
16 | Salute in tavola:
5 | Le ricette di benvenuto: mangiare bene torta al radicchio 20 | A pranzo da:
7 | Personaggio: Giorgio Piazza
Trattoria Al Cavallino 22 | Vino & Storia: viticoltura triestina
24 | Natura e benessere:
• grotte di sale
• erbe officinali
27 | Bacheca UCET:
• Confraternita
della Sopressa
• Enoclub Portogruaro
30 | L’officina degli eventi
Ristorazione in tempo di crisi
A
ll’aprirsi del secondo decennio del nuovo millennio ci si prospetta una situazione alquanto difficile e, per certi versi, controversa, nell’andamento economico della ristorazione. Sono tempi di crisi questi, che si protrae ormai da alcuni anni, e che sta mettendo in ginocchio l’economia di uno dei settori trainanti del nostro paese. Ma la crisi è strana, crea dissesti e fallimenti, ma anche nuove opportunità, in alcuni casi si può dire “faccia pulizia” del superfluo e del non qualificato creando occasioni ed aprendo porte a chi lavora con impegno e professionalità. Così accade che si registrino notevoli chiusure di locali, accompagnate tuttavia da altrettante aperture o cambi di gestione, il che non sottintende però che tutto vada bene. Il malessere c’è, è evidente, ed è legato alle difficoltà economiche in cui versa l’italiano medio, che fatica a mantenere gli stili di vita di prima e si trova costretto ad operare
il Bacàro
NUMERO 2 | LUGLIO | AGOSTO | SETTEMBRE 2011
Supplemento a: www.Portogruaro.Net del 21/11/2011 Reg. Trib. di Venezia - n. 10 del 05/05/2006 Iscrizione al ROC n. 17423
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tagli sulle spese voluttuarie. Di pari c’è da segnalare la controtendenza di alcuni locali, che addirittura registrano un aumento di fatturato. Questa situazione di difficoltà e precarietà ha tuttavia stimolato molti operatori nella ricerca di nuovi e fruttuosi modi di interpretare la ristorazione, seguendo - o forse sarebbe meglio dire inseguendo - le richieste del mercato: quello che manca è il denaro, non la voglia di ristorazione di qualità. Per inciso, chi andava a mangiar fuori prima in locali di buon livello, non è che ora abbia cambiato target indirizzandosi in basso, ma semplicemente vi rinuncia. Ed è qui che interviene il genio creativo dei gestori che avanzano nuove offerte in grado di mantenere la qualità dei propri prodotti e servizi abbinandoli ad economicità ed a nuove forme di pagamento. Ecco quindi che ci apprestiamo ad importare dagli Stati Uniti due format nuovi ed inediti, per lo meno per i nostri tempi: il baratto ed il foodtruck.
A Chicago ad esempio, un famosissimo ristorante viene ricambiato dai clienti per i pasti serviti con prestazioni di lavoro, forniture di materiali e beni di consumo, macchinari per la cucina e perfino vacanze per i giorni di chiusura. A New York, invece, sono state già rilasciate oltre 4.000 licenze per i furgoncini ristorante, la maggior parte dei quali di grandi ristoranti e rinomati chef, che offrono ristorazione di alta qualità a costi contenuti per chi non vuole rinunciare al buon cibo ma fa tranquillamente a meno del servizio al tavolo, del coperto e della comodità.
Direttore responsabile: Maurizio Pertegato Direttore editoriale: Vincenzo Zollo Direttore esecutivo: Leandro Costa Caporedattore: Federico Guerrini In redazione: Mario Candiago, Tito Cuccaro, Deborah Cuzzolin, Elisa Damian, Ezio Marinato, Dario Mosconi, Franco Polo, Claudia Riccardi, Sebastiano Saviane
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Vincenzo Zollo
editoriale
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{in primo piano} di Leandro Costa
All’origine del gusto:
la Biava (mais) e la Polenta
Nel secolo XVI il mais diventa la pianta che salva o contribuisce a salvare dalla carestia fornendo la materia prima per fare la “polenta”, considerata cibo per villani ORIGINI E STORIA
Alcuni ricercatori inglesi hanno rinvenuto dei reperti di polline fossile riferiti ad un antenato del mais che vegetava sugli altipiani del Messico ben 80.000 anni prima di Cristo. Una scoperta davvero sorprendente, che certifica l’incredibile longevità di questa pianta, la sua adattabilità a varie condizioni ambientali e la disponibilità a subire fenomeni di variazione. Si racconta che furono due marinai di Cristoforo Colombo inviati ad esplorare l’interno dell’isola di Cuba, a scoprire l’esistenza del mais; riferirono di aver visto una quantità di grano che gli indigeni chiamavano ma-hiz che veniva essiccato e ridotto a farina. Molto probabilmente questo prodotto non interessava per cui non fu informato alcun botanico o agronomo. Furono invece gli Spagnoli giunti in America dopo Colombo che, venendo in contatto con gli Aztechi, Maya ed Incas (da loro successivamente sterminati), scoprirono che il mais era il più importante alimento di queste popolazioni, unica specie autoctona individuata e dunque unico cereale disponibile che impararono a coltivare. Bernal Díaz del Castillo, che era al seguito di Cortez, ha lasciato una documentazione in cui racconta che con il mais queste
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popolazioni preparavano delle focacce di circa 30 cm di diametro: le cariossidi venivano dapprima messe nella calce perché si staccasse la pellicola esterna, e poi schiacciate su una pietra con un pistillo. Venivano poi formate delle porzioni appiattite e cotte in una teglia di terracotta (in alcuni scavi archeologici sono stati rinvenuti reperti di questi suppellettili risalenti a mille anni prima di Cristo). Queste focacce venivano condite con miele e pepe, oppure si accompagnavano a fagioli e pesce costituendo quindi una dieta sufficientemente sana. Quando si recavano a lavorare sui campi, consumavano la granella semplicemente bollita oppure portavano con se una pallina dell’ impasto grande come una mela avvolto in foglie. È stato poi accertato che il mais era diffuso anche in altre parti del Continente americano e addirittura si dice che lo stesso emisfero prese vita dalla sua presenza. Pierandrea Mattioli, medico naturalista, in un suo libro di medicina e agricoltura del 1559, così descriveva il mais “...il mais è malamente chiamato granturco, e da alcuni “formento turco”; se mai, devesi chiamare “grano” o “formento indiano”, perché ci è stato portato dalle Indie Occidentali, e non d’Asia, e di Turchia (e ciò perché Colombo aveva annuncia-
to di essere arrivato, in quel fatidico ottobre 1492, nelle Indie Occidentali)”. Questa poi è la curiosa descrizione della semina fornita dal Mattioli “...e seminano gli indiani questo suo grano, il quale chiamano mahiz, in questo modo. Vannose per il campo alquanto insieme, e acconciansi per dritta linea equamente discosto uno dall’altro e poi con la mano destra fanno un pertugio in terra con un palo bene aguzzo; e con la sinistra vi mettono quattro o cinque grani di seme, e con un piede ricoprono il pertugio acciochè i pappagalli non mangino il seme, e così con questo ordine, facendo un passo indietro, seminano tutto il campo intero”.
Diffusione nel mondo
Si racconta che in Europa il mais giunse grazie a Cristoforo Colombo che, nel suo terzo viaggio nelle Americhe, portò in Spagna le cariossidi del mais e le seminò per mostrare come fosse fatta la pianta. Mentre la prima illustrazione del mais apparsa in Europa figura nell’erbario di Leonardo Fuchs stampato a Basilea nel 1542. Successivamente i Portoghesi, seguendo le rotte dal Brasile all’Africa, lo portarono dapprima nel Continente Nero e poi in India e da qui si diffuse in Tibet ed in Cina. Mentre sembra che sia giunto
per la prima volta in Italia nel 1560, importato dal regno di Nuova Granata in Colombia e coltivato nelle terre dei nobili Gonzaga, prima nel mantovano e poi, intorno all’anno 1590, nel bellunese da dove cominciò a diffondersi precocemente nei secoli successivi diventando una importante coltura agraria in buona parte dei territori del Triveneto.
{la ricetta di benvenuto}
Impiego
Il mais, con il quale si fa la polenta, nel Triveneto sostituisce gran parte di culture minori come il sorgo, il miglio, segala, con i quali si faceva un tipo di pane che era comunque più costoso. La forte crescita demografica avvenuta nel ‘700 ed ’800 e le misere risorse economiche costringono la popolazione rurale ad alimentarsi quasi esclusivamente con la polenta di mais, provocando migliaia di vittime a causa della pellagra, una malattia, si dice, legata al consumo di questo alimento. Effettivamente sembra che questa malattia sia stata attribuita all’indiscriminato uso di farina di mais ammuffita da cui si formano delle micro tossine che agiscono come anti vitamine, o per altre concause che hanno portato alla credenza popolare che la polenta provoca la pellagra. Oggi il mais è coltivato in tutti i paesi temperati e caldi del mondo e costituisce una delle materie prime vegetali più importanti. Durante il suo percorso storico ha subito innumerevoli mutazioni, sia per motivi di adattabilità climatiche e dei terreni sia per l’intervento dell’uomo che ha creato una infinità di incroci (ibridi) e quindi di varietà. Alcune delle varietà più coltivate e diffuse nel territorio del Triveneto sono il Bianco Piave, Bianco Perla, Centogiorni, Friulotto, Marano vicentino, Giallo veronese, Scagliolo del Frassine, lo Sponcio della Val Belluna. Gli ibridi possiedono caratteristiche colturali certamente superiori alle vecchie varietà in quanto garantiscono una resa superiore, hanno un apparato radicale più robusto, sono più resistenti ed hanno uno sviluppo più vigoroso. Gli utilizzi del mais sono numerosissimi. Un tempo, aveva una funzione importante nell’alimentazione umana come ingrediente della polenta, considerata il pane dei poveri, il cui uso è costantemente diminuito con il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Altre forme, voluttuarie di sua utilizzazione alimentare sono i fiocchi di mais (corn flakes), il mais scoppiato (pop corn), le farine dietetiche di mais (maizena). Mentre l’uso più prevalente del mais è quello dell’alimentazione zootecnica estesa a quasi tutti gli animali di allevamento (bovini, suini, pollame). Da un opuscolo redatto dal tecnico agrario Sandro Biancardi rileviamo che il granoturco, oltre all’uso zootecnico, ha svariati impieghi nel settore dell’industria: frantumando e macinando i chicchi per liberare il germe dalla massa, e seguendo ulteriori processi lavorativi se ne ricava l’amido, che viene impiegato nell’industria tessile, cartaria e dolciaria; le destrine, attraverso la torrefazione dell’amido e l’aggiunta di altri ingredienti, sono usate per collanti, in fonderia, nella stampa di tessuti ed altro; il glucosio che si impiega nell’industria dolciaria, in conceria, fonderia, smalteria, ecc. il destrosio impiegato nell’industria farmaceutica e dolciaria; il caramello, usato come colorante naturale per liquori e bibite gasate; l’olio, impiegato nell’alimentazione e l’acqua della macerazione impiegata nella produzione di penicillina e brodi di cottura. Ultimamente poi il mais ha trovato impiego anche come combustibile e nella creazione di prodotti per la cura del corpo.
Torta al radicchio (proposta dal maestro Ezio Marinato, pasticciere e fornaio, Campione del Mondo di panificazione)
Ingredienti · gr. 800 di radicchio · gr. 500 di besciamella · 6 uova · gr. 120 di prosciutto crudo macinato · gr. 40 di parmigiano macinato · burro e sale q.b. · pasta brisè Preparazione · pulire e tagliare il radicchio, rosolarlo con burro e sale · a parte preparare la besciamella ed incorporarvi prima il prosciutto, poi le uova, metà parmigiano e per ultimo il radicchio · imburrare per bene i fondi delle tortiere e riporvi uno strato di pasta brisè, versarvi sopra tutto il composto, cospargere il rimanente parmigiano e qualche fiocco di burro · cuocere in forno preriscaldato a 180°-190° C per circa 30’. Pasta brisè · Miscelare gr. 1000 di farina “debole” e gr. 600 di burro in planetaria · aggiungere gr. 20 di sale e gr. 200 di zucchero · continuando ad impastare, aggiungere gr. 200 di latte, gr. 40 di tuorli · impastare per bene e conservare la pasta in frigo per una giornata.
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Cara Vecchia Polenta
(raccontata da Mario Candiago, già vice presidente dell’Accademia Enog. Tre Venezie di Pramaggiore) La storia della polenta si perde nella notte dei tempi; ben inteso non l’attuale polenta di mais che non ha neanche 500 anni, ma all’impasto più o meno cotto di farine varie con acqua. Per brevità partiremo dalla “puls” romana che si faceva con farine di leguminose (ceci, fave) o con farine di piante erbacee (fagopiro e grano saraceno, lenticchia, cicerchia). Il rude legionario romano, quello delle conquiste, aveva sempre nel bagagliaio dei sacchetti con sementi e farine; le prime per seminare erbe di rapida crescita, in caso di lunghi assedi, le seconde per cuocersi la polenta, la “puls”. Ancor oggi archeologi inglesi, per localizzare reperti romani, numerosi in Gran Bretagna, si orientano in alcune zone della Bretagna osservando delle chiazze tra l’erba di lattuga romana che cresce spontanea inselvatichita dall’età; ebbene, nei pressi delle chiazze, hanno spesso trovato tracce di accompagnamenti romani e vari reperti. Tornando un po’ indietro, degli Etruschi si sa poco, ma è certo che la parte migliore della loro civiltà e dei loro usi è stato assorbito dai Romani e quindi anche la maniera semplice di alimentarsi con pappe cotte, le “pultes”. Testimonianze di antiche polente le troviamo spesso nelle opere di autori greci e latini, da Plutarco a Plinio il Giovane, da Seneca a Marziale, ed altri. Ne parla anche Cicerone, ma di sfuggita; sofferente di stomaco mal digeriva le pesanti “pultes”. Lo storico naturalista Plinio il Vecchio riferisce su alcune usanze del popolo:
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“Essi usano cibarsi di una puls fatta con farina di orzo, semi di lino e coriandoli, seccata al sole, mescolata con acqua e poi ben cotta”. Una traccia di puls romana si trova presso alcune zone agricole della Calabria e della Puglia, dove ancora oggi si usa consumare ogni tanto una polenta fatta con farina di fave e ceci, cotta a lungo in caldaia. Tornando per l’ennesima volta ai Romani, Plinio il Vecchio riferisce che alcuni cibi venivano denominati “pulmentaria” (da puls) ad indicare che erano composti dalla puls e pezzi di carne cotti assieme. Catone Uticense chiama “puls punica” un pastone composto da farina, formaggio, miele, uova e carni selvatiche. Ma con il passare dei secoli la rude puls romana va sparendo per lasciare posto a cibi più ricchi, e con disinvolta velocità passiamo alla polenta di mais, il quale è quasi certo che sia stato portato da Cristoforo Colombo dal Messico in Spagna per poi diffondersi anche in Italia. Grazie a una resa media di 200 chicchi per un solo chicco di semina, il mais ha soppiantato altre coltivazioni, in particolare nel Veneto. Per la Repubblica di Venezia è stato una manna, quando la sua supremazia marinara stava per declinare. Infatti grazie alla sua lungimiranza, poté rinsanguare il suo traballante bilancio accogliendo nuove colture nel suo ampio retroterra, prima il riso e poi il mais. Entrambi i prodotti ebbero una crescita rapidissima e il Consiglio dei Dogi attese saggiamente che fossero largamente diffusi prima di imporre
qualsiasi gabella. Un editto annunciava addirittura che “per fare ubertosa questa città non sieno obbligati li villani et li mercanti a pagare alcuna cosa, sì da regalìe come da daccio...”. Ma appena i raccolti si fecero abbondanti, la musica della Repubblica cambiò (come spesso succede) e il nuovo editto fissava consistenti tasse che “dovevano essere pagate fino all’ultimo centesimo, altrimenti...” per i disobbedienti “statim una procedura con ogni rigore, con tratti di corda, frusta, berlina, galera et confisca dei beni et quante altre più rigorose pene at arbitrio dei Signori Provveditori...”. Oggi la polenta si fa dappertutto: raramente nel Sud, spessissimo nel Nord Orientale, ma con una sostanziale differenza: mentre al Sud la polenta è in genere “condita” o comunque elaborata sì da rappresentare o sostituire in pieno un “primo piatto” o anche un “secondo piatto”, al Nord e in particolare nel Veneto e Friuli essa sostituisce pari pari il pane. Anche Apicio, forse il più grande gastronomo romano, cita di sfuggita - tra l’altro - certe “pultes julianeae”. Ci sembra storicamente dimostrato che la polenta non l’hanno proprio inventata i Veneti, ma l’hanno semplicemente “ereditata” dalle popolazioni meridionali che ne hanno fatto grande uso per millenni. Loro ci chiamano “polentoni” anche se questo scherzoso appellativo suona come rivalsa contro il titolo di “terroni” con il quale vengono amichevolmente ripagati. Ma chi è il vero “polentone” dunque?
{personaggi del nostro tempo} di Federico Guerrini
“Una carriera rapida e finora innarrestabile in Coldiretti per questo ex rugbysta della nazionale italiana, che ha dimostrato di saperci fare anche nelle mischie sui temi legati alle politiche agricole”
U
na carriera folgorante, quella di Giorgio Piazza, nato poco più di cinquant’anni fa (classe 1959) in provincia di Venezia e diventato, dopo una breve gavetta, uno degli uomini di riferimento della Coldiretti regionale e nazionale. Sommando all’esperienza manageriale il contatto diretto col mondo della produzione – assieme ai fratelli gestisce l’azienda vitivinicola ereditata dal padre – Piazza è l’uomo ideale da intervistare per avere un parere articolato e competente su una vasta gamma di argomenti: dagli Ogm ai vini biologici, alle biomasse. Ma prima uno sguardo al personaggio dal punto di vista umano.
Giorgio Piazza: manager e coltivatore > Prima di diventare un importante manager lei ha avuto una carriera di rilievo in ambito sportivo e precisamente nel rugby. Come è riuscito a conciliare tutto, sport, istruzione e lavoro? Non è stato facile, si è trattato di un sacrificio condiviso con la mia famiglia – mia moglie e mio figlio. Sono spesso via per lavoro, ma appena posso torno a casa, anche per riprendere il contatto diretto con la realtà produttiva. È vero che negli anni ‘80 ho giocato come pilone sia nel mio club, il Benetton, che nella nazionale italiana. Allora però il rugby era diverso: prevaleva ancora uno spirito dilettantistico, anche in serie A, il che permetteva di studiare e allenarsi solo alla sera.
C’era più tempo, non c’erano i ritmi incalzanti di adesso. Per cui, accanto allo sport, ho sempre collaborato con l’azienda paterna, venendo a contatto con la realtà produttiva del territorio. Poi, dopo il liceo, mi sono laureato in Agraria e il successivo passaggio a Coldiretti è avvenuto in maniera molto naturale. Nel 1990 sono diventato vice-presidente provinciale. Ero però ancora impegnato con lo sport, la mia carriera rugbistica è durata fino al 1999, per cui delegavo molto. Nel 2004 sono stato fatto presidente provinciale e quindi nel 2005 ho assunto la carica a livello regionale. Nel 2007 sono entrato a far parte della Giunta nazionale e nel 2008 diventato presidente del Con-
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Intervista a Giorgio Piazza sorzio Fidi Nazionale. Nel contempo, assieme ai miei fratelli, dopo la morte di mio padre, avvenuta nel 2006, continuiamo a gestire l’azienda di famiglia, dove produciamo tutti i vini della zona di Lison-Pramaggiore. > Di recente, lei ha assunto anche un’altra carica importante, quella di presidente del Consorzio Vini Venezia, nato dal Consorzio volontario tutela vini Doc Lison-Pramaggiore e del Consorzio tutela vini del Piave Doc. Qual è la ragion d’essere di questa operazione? Il Consorzio tutela 44 vini Doc (quelli della Doc “Venezia”) e 2 Docg, il Lison e il Malanotte del Piave. Si è deciso di unificarne la promozione per contenere i costi e razionalizzare l’offerta al mercato. C’è inoltre da dire che il brand Venezia, sul piano commerciale, è un brand fenomenale per la commercializzazione di vini di media qualità e alte rese, che trovano un ottimo riscontro su mercati come Germania, Nord Europa, Stati Uniti, Paesi del Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Il Consorzio tutela e promuove comunque anche denominazioni di più alta qualità, ma con rese più basse. Il 12 novembre, abbiamo festeggiato ad esempio la stappatura della prima bottiglia del Malanotte del Piave Docg. > In questo periodo si parla molto di biomasse, qual è la sua posizione in merito, anche tenendo conto del suo ruolo in Coldiretti come presidente delle Fattorie del Sole, l’ente che promuove l’utilizzo di ener-
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gie rinnovabili in agricoltura? Si tratta di una forma di energia sostenibile o porta all’impoverimento del territorio, come sostengono alcuni? Dipende da come lo si fa. Se usate con criterio, possono rappresentare un’importante possibilità per le imprese di fare reddito e diversificare la produzione. Purché, come dice la Legge, si tratti di un’attività connessa e non sia quella principale; e l’energia sia prodotta utilizzando reflui, scarti di potatura e della coltivazioni. Sul piano ambientale ci sono due aspetti da considerare: gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento imposti dall’Europa (da raggiungere entro il 2020) e quelli stabiliti dal Protocollo di Kyoto. Se non raggiungiamo i parametri richiesti dovremo acquistare crediti di Co2. Con una conduzione virtuosa, si calcola che potremmo invece risparmiare 40 miliardi anno di energia. In alcune regioni, come il Veneto, il problema è che manca un piano energetico che stabilisca collocazione e modalità di implementazione degli impianti a biomasse. Poi in alcune zone si trovano imprenditori interessanti, in altre, meno, il che è strano, perché si tratta di un’attività molto redditizia, in cui la tariffa è bloccata per 15 anni e si raggiunge il break even in 4-5 anni, poi è tutto guadagno. > E per quanto riguarda le coltivazioni Ogm? Sono un rischio o un’opportunità? Gli Ogm dal punto di vista economico non rappresentano un’opportuni-
tà: i costi riducono in guadagni che si potrebbero avere dal non utilizzo di anti-parassitari. Per evitare contaminazioni fra le coltivazioni Ogm e quelle normali, bisognerebbe creare delle fascie tampone, e questo rappresenta un costo. In più, la gente non lo vuole; perfino in Usa, dove c’è una concezione economica molto più liberale, la gente non si fida. Il punto è che l’Ogm va a scapito della biodiversità; inoltre, la natura ha i suoi equilibri e non conosciamo esattamente tutte le implicazioni e conseguenze di alterare la catena della vita, inserendo dei pezzi di Dna in organismi viventi. Si rischia di creare delle reazioni imprevedibili, ad esempio, piante commestibili potrebbero sviluppare delle tossine. Anche i vantaggi derivanti dal fatto di non dover effettuare trattamenti anti parassitari, sono limitati nel tempo. Per esempio, in Inghilterra, dove si usa la colza per il biodiesel, è stato usato uno speciale disseccante che secca tutto quanto tranne la pianta produttiva. La colza però è molto vicina alla senape selvatica, che per un processo di adattamento quindi è diventata immune al disseccante. Qualcosa di simile è successo in Texas, dove gli insetti hanno codificato resistenza agli Ogm. In ogni caso, non bisogna nemmeno creare eccessivo allarmismo, e ricordare che parte di quello che mangiamo è già Ogm; come la soia e molti suoi derivati.
{cibo e territorio}
La Mela:
Regina del Trentino Vi sono documenti storici in cui si attesta che la produzione di mele in questa Regione esisteva ai tempi di Carlo Magno, che, proprio per la loro bontà ne incrementò la coltivazione
È
incredibile quanto fascino raccolga in sé la mela, il frutto più comune e forse il più amato, sensuale, desiderato, cantato e decantato nella storia del mondo. Simbolo dell’amore, della saggezza, della salute, della fortuna, della sensualità e sessualità, e della tentazione. La sua notorietà ed adattabilità è talmente apprezzata che la pianta da cui deriva è coltivata in ogni parte del mondo. Il frutto della mela è il più citato nella mitologia e nella narrativa; simbolo di tante storie d’amore, di tentazione e corruzione: un albero colmo di mele d’oro viene donato da Gaia, la madre terra, a Zeus ed Hera nel giorno del loro matrimonio; mela come simbolo di tentazione di Adamo ed Eva; mela d’oro che Paride dona ad Afrodite la più bella dea dell’Olimpo; frutto della discordia fra Venere e Giunone; nel Corano è considerata “sublime dono di Dio”; la mela nella favola di Bian-
caneve e i sette nani ed ispiratrice dello scienziato Isaac Newton che gli fece intuire la legge di gravitazione; la mela nella leggenda dell’eroe svizzero Guglielmo Tell e ancora, simbolo della città di New York; richiamata in tanti proverbi e citazioni: “una mela al giorno leva il medico di torno”. George Bernard Shaw la richiama in una sua famosa citazione: “Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee”. La mela dunque è frutto mitologico e universale, coltivato in ogni latitudine ed in ogni tempo: gli antichi Egizi la coltivavano nella valle del Nilo, ma sembra che la sua origine risalga al periodo Neolitico, circa seimila anni fa. Il suo frutto, proveniente dall’Asia Minore, si è rapidamente diffuso anche in Europa ed in Italia, in particolare nei territori a clima temperato e freddo. In Italia le
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È stato dimostrato che mangiare 5-6 mele la settimana fa bene ai polmoni in quanto si hanno meno problemi respiratori e di asma varietà più conosciute ed apprezzate sono prodotte in Trentino Alto Adige, le prime ad aver ottenuto la Indicazione Geografica Protetta (IGP). Vi sono documenti storici in cui si attesta che la produzione di mele in questa Regione esisteva ai tempi di Carlo Magno, il quale, proprio per la loro notevole bontà, regolamentò e incrementò la coltivazione dell’albero del melo nelle diverse specie alpine, tanto che sin da quei tempi le si esportavano in altri Stati, un commercio cresciuto nel tempo tanto da costituire una importante risorsa economica per i contadini produttori, e diventare il prodotto frutticolo italiano più esportato nel mondo. Nella provincia di Trento, vigneti e alberi del melo costituiscono le
più importanti specie vegetali di tutto il territorio. La Val di Non, collocata ad una altezza compresa fra i 450 e i 900 metri di altezza sul livello del mare, è zona caratterizzata da condizioni climatiche e pedagogiche fra le più vocate al mondo per la produzione di mele. Qui viene prodotta la mela Golden Delicius, la più rinomata ed apprezzata per qualità tanto da essere stata la prima in Italia a fregiarsi del marchio D.O.P. La Golden delicius ha una buccia dorata ed una polpa dolce e profumata, tanto da essere la preferita fra le qualità ed ideale come ingrediente per la preparazione di torte, crostate e tanti altri dolci. Una sua peculiare qualità è lo straordinario adattamento per una lunga conservazione, tanto da essere
disponibile sul mercato per tutto l’anno. L’antica tradizione commerciale delle mele in Trentino che si espletava attraverso la vendita diretta delle singole aziende si è ora talmente perfezionata a livello cooperativo che non ha eguali in Italia. Le forme consortili sorte poco più di venti anni fa, hanno creato dei marchi commerciali con i quali garantiscono la qualità e genuinità delle mele che vengono prodotte in un ambiente naturalistico e paesaggistico incontaminato. Le cooperative di produzione sono molte; le più note sono riunite nel Consorzio Melinda che opera nella Val di Non e Val di Sole. Sono 16 le Cooperative che formano questo Consorzio che conta ben 5.200 soci dei quali sono poco più di 4.600
Ecco una tipica e succosa ricetta che ci viene proposta dal Consorzio La Trentina. Ingredienti · 200 grammi di farina · 40 grammi di acqua · 50 grammi di burro · 2 uova · sale · zucchero a velo · 8 mele piuttosto piccole PREPARAZIONE
· mettete la farina a fontana sulla
{la ricetta}
Le Mele in camicia 10 .
spianatoia, incorporatevi le uova, il sale, lo zucchero e il burro ammorbidito, formando una pasta omogenea e lucida · sulla spianatoia stendere la pasta con il mattarello tirandola
ad uno spessore di 2 – 3 mm · ritagliate dei quadrati di grandezza sufficiente ad avvolgervi una mela · togliete il torsolo alle mele, sbucciatele, dopo una cottura parziale nel forno, e disponete una mela per ogni quadrato · riempite il buco delle mele con un po’ di zucchero e un po’ di burro, poi sollevate i quattro angoli della pasta e chiudeteli sopra la mela facendo pressione con le dita · disponete su una piastra unta e cuocete nel forno ben caldo fin quando saranno dorate · spolverate con zucchero a velo
quelli che posseggono una propria azienda agricola e si dividono i 6.400 ha di superficie coltivata dei distretti delle Valli di Non e di Sole. Altra realtà importante è il Consorzio La Trentina che nasce nel 1989 con lo scopo di coordinare il lavoro delle diverse cooperative socie distribuite sul territorio trentino e che in seguito diventa Organizzazione di Produttori Consorzio la Trentina, al fine di tutelare e contraddistinguere la qualità della frutta prodotta in Trentino dalle circa 2.500 aziende familiari che coprono 2.300 ettari di territori compresi fra la Valle dell’Adige, la Val di Cembra, la Valsugana, la Vallagarina, la Valle del Sarca ed il Lomaso. Come sottolinea il Consorzio la Trentina “la serietà e l’impegno che ognuno dei nostri agricoltori pone nel suo lavoro e la strategia organizzativa perseguita negli anni ci hanno portati a raggiungere una produzione di oltre 100.000 tonnellate di mele, arrivando ad essere il quarto polo a livello nazionale e internazionale”. “A dimostrazione della serietà e della trasparenza che guidano il nostro lavoro e della primaria importanza che ha per noi la sicurezza del consumatore - sottolineano i Consorzi - tutti i nostri soci adottano il Protocollo di Disciplina per la Produzione Integrata predisposto dall’Assessorato all’Agricoltura della Provincia Autonoma di Trento in collaborazione con l’Associazione Produttori Ortofrutticoli Trentini (A.P.O.T. Sca). Sono indicazioni sulle linee che si devono seguire per produrre mele di qualità, nel rispetto degli standard richiesti dal consumatore, prevedendo esplicite azioni di controllo per la verifica dell’osservanza delle norme da
parte dei produttori. Fra le numerose varietà coltivate, le più diffuse sono la Golden Delicious, Granny Smith, Gala, Red Delicious e Fuji. La Gala è la prima mela della stagione, viene raccolta intorno a Ferragosto: di colore rosso vivo, striato di giallo e arancione, ha una forma arrotondata ed una polpa succosa. La Golden Delicius, come detto, è la Regina delle mele, con la buccia liscia, di forma leggermente allungata e di consistenza compatta; se cresce nelle zone collinari la buccia di colore giallo caldo sfuma nei toni del rosa a causa dell’escursione termica; il sapore è dolce e aromatico. La Red Delicius è la mela rossa brillante, di forma allungata, sprigiona profumo zuccherino dalla buccia croccante. La Granny Smith ha un carattere forte e definito, il profumo fresco ed acido accompagna il colore verde luminoso che la caratterizza; il sapore è intenso e dissetante. La Fuji è di colore che oscilla tra rosa giallo e verde, la pezzatura è medio grande e la consistenza è soda, il sapore dolce e aromatico. I dolci che si preparano con le mele trentine sono molti; ne ricordiamo in particolare due, che raccolgono una lunga tradizione culinaria di questi territori: lo smorn, una frittata dolce a base di mela, uova, farina e zucchero, e poi il tanto celebrato strudel di mele, il dolce simbolo di tutta la Regione Trentina in cui la mela rappresenta l’ingrediente fondamentale nel ripieno del rotolo di pasta, assieme ad uvetta, pinoli e cannella. Anche in Veneto e Friuli la coltivazione della mela ha origini antiche; vi sono numerose fonti che attestano la sua produzione in collina e pianura addirittura prima del XIV secolo. La produzione rimase a lungo soprattutto familiare; si svilup-
pò dapprima in piccoli appezzamenti, negli orti, nei broli e nei conventi, per allargarsi in ampie coltivazioni a filari di grandi produttori che svilupparono un ricco commercio di frutta e anche per la produzione di marmellate. Oggi il melo è l’albero più coltivato nel mondo, e la sua fortuna è favorita oltre che dalla bontà dei frutti anche dalla loro facilità di trasporto e conservazione. Certo è che le mele sono ricche di qualità proprie non riscontrabili in alcun altro frutto. Polpose, con un alto contenuto idrico (circa l’85%), con modesto contenuto zuccherino (mediamente pari al 10-12% del peso) composto dal 6% di fruttosio, 2,2% di glucosio e il 2,5% di saccarosio che conferiscono il gusto dolce ed apportano la quota calorica ma che, rispetto ad altri tipi di frutta, per la prevalenza del fruttosio, rende la mela più favorevole per i diabetici. Le mele hanno un apporto calorico di circa 40-50 Kcal per gr. 100 di peso, è ricca di vitamina C per cui migliora il sistema immunitario, e anche di flavoni che aiutano a prevenire le malattie cardiache per i loro effetti antiossidanti. Contiene fenoli che riducono il colesterolo cattivo aumentando quello buono; il suo succo aiuta a prevenire le carie dentarie e contenendo delle sostanze “fitonutrienti” che tendono a prevenire malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Morbo di Parkinson. È stato dimostrato altresì che mangiare 5-6 mele la settimana fa bene ai polmoni in quanto si hanno meno problemi respiratori e di asma; essendo il frutto ricco di fibre (pectina) favorisce anche l’intestino.
Oggi il melo è l’albero più coltivato nel mondo, e la sua fortuna è favorita oltre che dalla bontà dei frutti anche dalla loro facilità di trasporto e conservazione . 11
{sapori e tradizioni}
Salse tipiche della tavola veneta e friulana
L’
autunno che sta arrivando comporta una diversa dieta alimentare rispetto all’estate, per le variate condizioni climatiche e la reperibilità dei nuovi prodotti freschi di stagione. La cucina si arricchisce di tanti raffinati profumi e sapori di bosco, dove si raccolgono varietà di funghi come i boleti, chiodini, ovuli, e dall’orto, campo e frutteto, le zucche, pregiate qualità di radicchio, biette, broccoli, cardi, cavoli e, ancora, noci, nocciole, mele, mele co-
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togne, melagrani. L’autunno è anche il periodo in cui si sono cresciuti al punto giusto gli animali da cortile (galline, faraone, tacchini, conigli, anatre e oche, piccioni) e dell’apertura della caccia alla selvaggina, specie fagiani e lepri. Come si sa, la stagione autunnale prima e l’invernale poi prediligono piatti caldi e sostanziosi e la carne in genere è abbondantemente consumata. La carne, rossa o bianca o scura di selvaggina, è spesso accompagnata ad alcune specialità peculiari tipicamente venete
e friulane che provengono da antiche ricette molto in uso fra la popolazione e adottate anche dalla aristocrazia per la loro particolarità e duttilità alla nobile cucina del tempo. Ci riferiamo alla salsa pearà e alla salsa peverada, simili nel nome ma diverse fra loro; e poi la salsa crèn (salsa di ràfano) che ha trovato ampio uso dappertutto ma che è di chiara origine triveneta e la brovàda (broade) specialità friulana, molto in uso anche nei territori della Venezia Orientale.
Il crèn (o kren) La Salsa di Crèn, o krèn, è di chiara derivazione austro-ungarica. Era molto in uso nella cucina povera contadina del Veneto e del Friuli perché la marcata acidità della radice del ràfano aiutava a coprire e camuffare i sapori poco gradevoli assunti dalle carni a causa delle precarie condizioni di conservazione. Ora la salsa di Cren è spesso utilizzata per accompagnare i bolliti di carne, il musetto, lingua salmistrata e anche il prosciutto cotto e pane calco, una tipica specialità di chiara origine giuliana. La salsa di crèn ha un sapore forte e deciso tale da conferire uno spiccato tono piccante alle carni, e si può accompagnare anche a salumi e insaccati come il cotechino, la soppressa e lo speck e a carni di pesce affumicate. Per la sua preparazione abbiamo scelto la ricetta del Salumificio Mio di Pravisdomini (PN) specialista nella preparazione di tipici insaccati e fornitore di pregiate carni di filiera. La salsa di crèn preparata dal salumificio Mio è una tipicità friulana, ideale per accompagnare il “lingual” uno storico insaccato di maiale, nato e diffuso all’epoca della Serenissima Repubblica di Venezia, consumato in occasione della cena dell’Ascensione, allorquando i nobili veneziani, una volta conclusa la festa dello sposalizio del mare, si trasferivano in villeggiatura nelle loro tenute di campagna. Ai nostri giorni il lingual, accompagnato dalla salsa di cren, rimane fortemente radicato nella tradizione contadina ed è definito come un piatto di “frontiera” in quanto presente sia in Veneto che in Friuli Venezia Giulia.
Ricetta del cren: Lavare la radice di cren (rafano) sotto l’acqua corrente, asciugarla con carta da cucina, levare la buccia e grattugiarla finemente; amalgamarla con 100 grammi di pan grattato, mescolare continuamente, aggiungendo uno per volta, mezzo calice di aceto di vino, un cucchiaio di olio e.v. di oliva, un cucchiaio di zucchero, fino ad ottenere una pastella morbida ma non liquida. Una piacevole variante è quella di aggiungervi la polpa grattugiata di una mela cotogna. Si accompagna con fettine di lingual bollito e crostine di pane casereccio e si sposa bene con il Refosco dal p.r.
Il Salumificio Mio nasce alla fine del 1800 per opera di Mio Sante, un commerciante di bestiame; trasformandosi prima in macello e poi in attività di produzione insaccati giunge sino ai giorni nostri ricco di un bagaglio invidiabile di esperienze nel settore grazie alle quali il Salumificio Mio e oggi stimato e apprezzato per la produzione di insaccati e carni di qualità. Il nostro ciclo produttivo comprende salumi di cavallo e salumi di puro suino, sempre prodotti artigianalmente e dal gusto particolare; le carni selezionate nel nostro laboratorio sono esclusivamente di 1ª qualità.
Tutti i nostri prodotti sono lavorati presso il nostro stabilimento con il metodo HACCP e autocontrollo per una migliore qualità, sicurezza e igiene. Il Salumificio MIo fa parte del consorzio “lingual” e dispone dei bolli C.E (S e L) Per informazioni su particolari prodotti e/o conoscere l’intera gamma delle nostre specialità e forniture potete telefonare al numero +39 0434 644904 in orario ufficio: 8,30-12,00 e 14,00-18,00 oppure visitare il nostro sito internet
www.salumificiomio.com
Salumificio Mio
Via Starada di Villanova 15 - 33076 Pravisdomini (PN)
La pearà È un gustoso condimento che proviene dalla cucina povera contadina, di origini sconosciute. Su questa salsa è nata una leggenda che risale ai tempi di Alboino Re dei Longobardi. Si narra che il cuoco del sovrano abbia creato un piatto corroborante, come la pearà, per dare energia a Rosamunda, moglie del re, che si stava lasciando morire di fame per il dolore dell’assassinio del padre. Questo antico alimento è diventato molto popolare e diffuso nei secoli e nella provincia di Verona è addirittura simbolo della cultura gastronomica scaligera e la pearà non manca mai nelle grandi occasioni e nei giorni di festa, per accompagnare il bollito misto (testina di vitello, muscolo, paletta e spalla di manzo, lingua di vitello, cotechino, gallina, faraona, ecc.) La pearà (che significa pepata) è una salsa che si fa con il pan grattato, il midollo di bue, burro ed olio extravergine di oliva, brodo di carne e tanto pepe. In ogni modo al giorno d’oggi sono molte le varianti che si fanno da paese in paese nella stessa provincia veronese.
Ricetta della pearà Ingredienti per 4 persone: 80 g di midollo di bue, 70 g di burro, 70 g di formaggio grana grattugiato, 400 g di pane raffermo (15 giorni) grattugiato, 1lt. di brodo di carne, pepe nero macinato al momento in abbondanza, sale q.b. Preparazione: Far fondere in una pentola di coccio il burro ed il midollo avendo cura che quest’ ultimo sia privo di frammenti di osso. Aggiungere il pane grattugiato con il formaggio grana e farlo rosolare leggermente, aggiungere quindi il brodo caldo stemperando con la frusta in modo da evitare grumi. Lasciar bollire su fuoco basso per due/tre ore. A fine cottura aggiungere il pepe e servire bollente. Consigli: La salsa deve risultare cremosa quindi bisogna regolarsi di conseguenza con il pane ed il brodo. Il pepe deve sentirsi nella realizzazione finale quindi siate generosi.
La peverada
Il Libro di Cucina, scritto da Anonimo veneziano nel secolo XIV, racconta che già in quei tempi a Venezia si usava una salsa per accompagnare alcuni tipi di carne lessa o arrosta: Salsa bona e carne de castron o de capretto: “La meiore salsa che fare se pò a questa carne alesse o rosto. Toy de la car-
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ne magra ben cocta e ben batuta e pesta in lo mortaro cum arquante cime de petrosemolo e menta e salvia e rosmarino e altre bone herbe che tu poi avere e maxenale con questa carne e mitige cenamo e garofali e pever e distempera questa salsa con el piú fino aceto che tu ay. “ E’ quindi evidente che la salsa peverada è priorità di cucina tipicamente veneta, in cui abbondano saporite carni per preparare sontuosi bolliti con manzo, vitella, castrato e animali da cortile, e ancora gli insaccati di maiale, come la salsiccia ed il cotechino. La peverada ha avuto una sua costante evoluzione ed affinamento, dapprima nella aristocratica cucina veneziana che la accostava alle carni di selvaggina, addolcite ed aromizzate per levare l’odore e sapore del selvatico e per accompagnare ogni tipo di carni rosse e bianche; è stata tramandata fino ai giorni nostri ed ora viene preparata in modi diversi secondo le consuetudini locali. Gli ingredienti base per una buona peverada sono pangrattato, burro, salumi, brodo, spezie ed abbondante pepe. Vi sono poi molte varianti: nel Trevigiano usano ingredienti di animali da cortile e selvaggina (i fegatini di pollo, di anatra, di oca e di lepre); nel Veneziano invece la peverada è un impasto fatto anche con l’aceto e le acciughe, oltre a pangrattato, aglio, fegatini di pollo e grana e la si serve con le carni di animale da cortile, costituendo un raffinato accompagnamento di gustosi piatti come quello della “Faraona in salsa peverada”.
Ricetta della faraona in salsa peverada Ingredienti: 100 g di fegatini di pollo, 2 fette di soppressa (100 g circa) 3 filetti di acciuga, un trito di prezzemolo, 1 spicchio d`aglio, 1 limone, 40 g di olio extravergine d`oliva, uno spruzzo di aceto, sale e pepe. Preparazione: Far rosolare la faraona intera a fuoco vivo, in una pirofila con olio d’oliva, pancetta, salvia e rosmarino. Quando ha preso colore, bagnarla con vino bianco, farlo evaporare, insaporirla con sale e pepe, infornare e completare la cottura lentamente. Nel frattempo tritare la soppressa, il prezzemolo, la buccia di limone, i filetti di acciuga ed uno spicchio d’aglio. Formare un impasto omogeneo unendovi del formaggio grattugiato, pan grattato, sale e pepe. Far soffriggere in olio d’oliva e far cuocere; verso fine cottura unire il fegato tritato. A fine cottura bagnare con succo di limone e aceto. Me-
scolare bene e servire la salsa calda con la faraona arrosta.
La brovàda
È un tipico prodotto della cucina friulana che accompagna le carni bollite e arroste ed il cotechino. La sua preparazione segue sempre gli stessi criteri della tradizione. Le rape, subito dopo la loro raccolta, vengono lavate, tagliate nella parte verde, riposte a macerare in contenitori a forma di tinozze alternate a strati di vinacce di vino rosso leggermente insaporite con sale marino. Durante il processo di macerazione le rape devono essere sempre coperte dalle vinacce per cui, se il livello scende, si aggiunge o aceto o acqua o vino, tanto da formare un “cappello”. Il processo di macerazione dura per 35-40 giorni, dopo di che le rape che hanno assorbito l’acidità della fermentazione, vengono estratte dalla vinaccia, pelate e tagliate a fettuccine. Le rape assumono una colorazione rosata o violetta, hanno un profumo marcato e persistente ed un sapore acido piuttosto forte. La brovada si prepara facendo saltare le fettucce macerate in una padella, in un soffritto di olio extra vergine di oliva ed uno spicchio d’aglio schiacciato e fanno da accompagnamento a carni bollite ed arroste ma soprattutto al cotechino bollito diventando uno dei classici piatti della cucina friulana, la “brovade e musèt”. Altro piatto molto noto preparato con la brovada è la “Jota” goriziana, di fine ottocento, di cui riportiamo la classica ricetta: Preparare un soffritto di cipolla e aglio in olio extra vergine di oliva, aggiungere la brovada cotta, i fagioli lessati interi e in parte setacciati, della pancetta tagliata a cubetti, mescolare e assodare la minestra con un cucchiaio di farina di polenta. Questa minestra è in parte simile alla classica “Jota” triestina, che si prepara con i crauti (cavolo cappuccio fatto fermentare), fagioli, patate, orzo, e viene poi aromizzata con cumino ed alloro.
DENOMINAZIONE DI ORIGINE PROTETTA
D E NOMINAZIONE PROTET TA T R A N S I TO R I A M E N T E A L I V E L L O N A Z IO N A L E GARANTITO DAL MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI AI SENSI DELL’ARTICOLO 10 DEL REG. (CE) N. 510/2006
MANSUTTI
AZ. AGR. PAVIA DI UDINE VIA SELVUZZIS, 19 33050 PAVIA DI UDINE (UD) Tel. 0432 675105 Fax 0432 685454 e-mail: info@brovadamansutti.it www.brovadamansutti.it
RICETTA TIPICA FRIULANA INGREDIENTI PER 4 PERSONE
Kg. 1 brovada, aglio, alloro, dado • Versare la brovada contenuta nel sacchetto in una pentola, senza sgocciolare il prodotto • A parte, soffriggere 3 spicchi d’aglio, quindi toglierli e versare l’olio soffritto nella brovada • Aggiungere 1 dado di estratto di carne, 5 foglie di alloro, sale e pepe • Lasciar cuocere lentamente a pentola coperta senza aggiungere acqua per circa 2 ore • La brovada va servita con cotechino o carni di maiale.
{salute in tavola}
con la collaborazione di Claudia Riccardi, biologa nutrizioniasta
Salute e
Alimentazione 16 .
G
ià da diverso tempo la Comunità Europea ha approvato un pacchetto di norme legislative atte a garantire la sicurezza igienico-sanitaria degli alimenti e tutelare la salute dei consumatori, attraverso la produzione e commercializzazione di alimenti “sicuri”, vale a dire “ privi di contaminanti di natura fisica, chimica e biologica nocivi per l’uomo”. Per escludere rischi di intossicazione alimentare, esistono poi altre norme legislative che prevedono rigorosi controlli nei punti vendita sulla qualità e conservazione della carne fresca, pesce fresco e decongelato, latte e latticini ed ogni altro alimento soggetto ad alterazione. Le contaminazioni alimentari sono quindi più probabili e frequenti, quando il cibo è manipolato e conservato dopo il suo acquisto, anche fra le mura di casa in cui bisognerebbe seguire delle fondamentali regole igieniche che invece spesse volte si trascurano, o si dimenticano, o non sono applicate nella giusta maniera. Rivolgiamo quindi alcune domande nel merito alla nostra collaboratrice Claudia Riccardi, nota professionista biologa nutrizionista che opera in appoggio a diverse strutture nel territorio della Venezia Orientale. > Signora Claudia, quali sono le raccomandazioni e le regole principali da seguire nell’ambito famigliare, specificatamente alla preparazione, alla cottura e alla conservazione dei cibi (carne, pesce, verdure) e per quanto tempo il cibo può essere conservato prima del suo consumo? La conservazione degli alimenti, ma anche la loro manipolazione per cucinarli costituiscono due momenti di rischio per la sicurezza degli alimenti stessi che dipendono esclusivamente dal consumatore. Carne, pesce, uova, latte e latticini vanno conservati esclusivamente in frigorifero e/o in congelatore sia quando sono crudi sia quando sono cotti. Per quanto riguarda alimenti poco deperibili come pasta, farine, legumi e alimenti in scatola, possono essere conservati a temperatura ambiente in un locale pulito, ben areato e poco umido, protetto dagli insetti e da altri animali. Frutta e verdura possono essere conservate a temperature tra 8-10°C, corrispondenti al cesto della verdura di un comune frigorifero o ad una stanza fresca, non riscaldata durante l’inverno (ad esempio una cantina). Gli oli non presentano par-
Abbiamo rivolto alcune domande nel merito alla nostra collaboratrice Claudia Riccardi, nota professionista biologa nutrizionista che opera in appoggio a diverse strutture nel territorio della Venezia Orientale ticolari rischi di contaminazioni, però tendono ad irrancidire; perciò vanno conservati in recipienti chiusi, lontano da fonti di calore e a riparo dalla luce e dall’aria (la classica bottiglia di vetro scuro a collo stretto è la soluzione migliore). Gli alimenti acquistati surgelati devono essere mantenuti in congelatore (-18°C circa) fino al momento del consumo. Bisogna ricordare che né frigorifero né congelatore effettuano azioni di “bonifica”: sfruttano solo il fatto che a basse temperature (sotto i 4°C) la proliferazione dei batteri che sono responsabili del deterioramento dei cibi rallenta, i batteri rimangono nell’alimento “bloccati” dal freddo, non appena la temperatura si alza, riprendono a moltiplicarsi. Perciò la conservazione in frigorifero deve essere per brevi periodi di tempo; per gli alimenti che presentano una data
di scadenza, attenersi ad essa; per i prodotti sfusi o preparati in casa considerare circa 1-3 settimane per le uova, 5 giorni per la carne, 1 giorno per la carne macinata, 1-2 giorni per il pesce fresco e i frutti di mare, 1-2 giorni per il pollame; se cotti un paio di giorni al massimo. In congelatore i tempi sono più lunghi: pane e paste 3 mesi, carne 3-6 mesi, pesce e frutti di mare 3-6 mesi, verdure 6-12 mesi; per piatti precotti massimo 3 mesi. Anche in questo caso se i cibi presentano una data di scadenza, bisogna rispettarla. Altro punto importante è la preparazione dei cibi prima del consumo. Regola fondamentale, ma non scontata: lavarsi molto bene le mani prima di toccare il cibo e soprattutto lavarle molto bene passando dalla lavorazione di un cibo all’altro e se si toccano superfici o utensili non puliti o animali domestici. Dopo aver toccato il guscio delle uova, le mani vanno lavate con cura particolare. Inoltre se ci sono ferite aperte sulle mani o infezioni è meglio utilizzare dei guanti di gomma. Anche la pulizia degli utensili e delle superfici prima e dopo l’uso è importantissima, soprattutto se si preparano contemporaneamente prodotti crudi e cotti: un coltello utilizzato per tagliare la carne cruda non deve essere utilizzato senza lavaggio con acqua calda e detersivo per tagliare la stessa carne dopo la cottura (quest’ultima uccide buona parte dei batteri patogeni, presenti nella carne cruda, usando
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Verdura, ortaggi e frutta vanno accuratamente lavati (anche le verdure in busta, già lavate) e privati delle parti rovinate
il coltello sporco trasferiremmo batteri su un alimento “bonificato”). Verdura, ortaggi e frutta vanno accuratamente lavati (anche le verdure in busta, già lavate) e privati delle parti rovinate. Frutta e ortaggi muffiti anche solo parzialmente vanno scartati, perché la parte sana può contenere le sostanze tossiche prodotte dalla muffa stessa. Vanno eliminate con cura anche le parti verdi e i germogli delle patate. Gli alimenti inscatolati vanno aperti solo dopo aver pulito l’esterno della confezione per evitare che all’apertura il cibo venga a contatto con la superficie sporca. Al momento di sgusciare le uova, evitare che albume e tuorlo vengano a contatto con l’esterno del guscio (questo è fondamentale se poi l’uovo viene utilizzato in preparazioni crude, come creme e dolci). Come accennavo sopra, la cottura permette di distruggere la carica batterica patogena dell’alimento; questo vale per tutti i metodi di cottura (lessatura, vapore, pentola a pressione, frittura, griglia, piastra, forno). Il metodo migliore, però, è il forno tradizionale che a temperatura 180°-220°C consente di distruggere non solo i batteri, ma anche le spore e le tossine batteriche (qualora il tempo di cottura sia adeguato alle dimensioni dell’alimento preparato). > Come si devono conservare gli avanzi di cibo? Sarebbe ottimale consumare gli alimenti appena cucinati, evitando di produrre avanzi. Nel caso, questi ulti-
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mi, vanno trasferiti in contenitori per alimenti di dimensioni adatte, coperti e lasciati intiepidire a temperatura ambiente. Dopo un paio d’ore circa (non di più, soprattutto nel periodo estivo) vanno trasferiti in frigorifero. Gli “avanzi” vanno consumati dopo un paio di giorni al massimo. Se si tratta di piatti preparati in anticipo che non verranno consumati a breve, vanno posti in congelatore, in un contenitore per alimenti etichettato con la data di congelamento/preparazione. Sia gli avanzi sia gli alimenti preparati in anticipo, devono essere riposti in frigorifero o in congelatore in porzioni piccole, in modo da garantire un raffreddamento/congelamento rapido fino alla parte centrale e la possibilità di scongelare e/o riscaldare solo la parte che sarà effettivamente consumata. Riscaldare un cibo più di una volta o ricongelarlo è assolutamente da evitare. > Per scongelare un cibo, ci sono delle regole da seguire? Lo scongelamento può comportare dei rischi, come la riduzione del gusto, della qualità e delle sue proprietà nutritive? La fase di scongelamento degli alimenti è molto importante in quanto, i contaminanti batterici, la cui crescita è stata bloccata dalle basse temperature, riprendono a moltiplicarsi velocemente man mano che la temperatura sale. Perciò, lo scongelamento deve essere rapido e uniforme per tutto l’alimento in questione e l’alimento una volta decongelato deve essere consumato il più rapidamente possibile. Per quel che riguarda le tecniche di scongelamento migliori sono cuocere l’alimento direttamente in acqua bollente o in un tegame già caldo oppure utilizzare il forno a microonde. È possibile altresì trasferire l’alimento dal congelatore al frigorifero e attendere che si scongeli. È assolutamente sconsigliato scongelare a temperatura ambiente: serve molto tempo perché si scongelino le parti più centrali dell’alimento e nel frattempo in quelle superficiali, già decongelate, i batteri proliferano. Dal punto di vista della qualità nutrizionale dell’alimento, se il congelamento è stato effettuato correttamente (basse temperature e molto rapido) ed è stata mantenuta la catena del freddo – l’alimento non ha avuto modo di scongelarsi, nemmeno par-
zialmente dal produttore al consumatore - non ci sono alterazioni; in caso contrario al momento di decongelare, l’alimento rilascerà dei fluidi (sangue nel caso della carne) contenti diversi nutrienti che vengono persi. > Si sostiene che carne e pesce devono essere mangiati solo se ben cotti; corrisponde a vero e quali sono i motivi? Carne, pesce e uova sono gli alimenti a maggior rischio di contaminazione: è più sicuro consumarli ben cotti e riservare a occasioni rare il loro consumo a crudo. Donne in gravidanza, bambini e anziani dovrebbero assolutamente evitare il consumo a crudo di questi alimenti. > Sotto l’aspetto salutistico, gustativo e nutrizionale, la cottura con il microonde è compatibile con quella tradizionale? Dal punto di vista della resa, quindi organolettico e gustativo, la cottura con il microonde non è paragonabile a quella tradizionale: gli alimenti rimangono più morbidi, meno croccanti e questo altera l’aspetto fondamentale di molte preparazioni. Dal punto di vista salutistico e nutrizionale al momento non ci sono grandi indicazioni sulla salubrità o meno di questo tipo di cottura. Quello che è certo è che non viene abbattuta la carica batterica degli alimenti, come avviene nel caso di altri tipi di cottura (quali il forno tradizionale); quindi la sicurezza dell’alimento così cucinato, è molto bassa. Comunque, il forno a microonde rimane un ottimo sistema per scongelare gli alimenti e per riscaldare velocemente preparazioni già cotte.
2>il
pesce deve avere branchie rosse, squame brillanti e adese alla pelle, occhi brillanti e trasparenti, mai infossati, odore leggero e gradevole. I molluschi (ostriche, vongole, cozze, ecc) devono essere vivi al momento dell’acquisto, per cui le conchiglie devono essere intere e stare chiuse. Se immersi in acqua fredda, devono vedersi le bollicine di ossigeno;
3>le uova devono aver guscio intat-
to e se immerse in abbondante acqua fredda devono posizionarsi con la “punta” verso il basso e non galleggiare;
4>
frutta, verdura e ortaggi pulita, con un buon colore, non danneggiate da insetti o da parassiti e senza aree morbide;
5>
i prodotti già confezionati e i surgelati, al momento dell’acquisto, devono presentare la confezione integra e pulita;
6>Dopo
l’acquisto è fondamentale trasportare immediatamente gli alimenti a casa e distribuirli nelle destinazioni corrette (frigorifero, congelatore, dispensa). Surgelati e prodotti deperibili (latte, yogurt..) vanno acquistati per ultimi e trasportati con contenitori termici (anche d’inverno). > C’è una grande pubblicità degli integratori alimentari; sono proprio indispensabili? Qualora l’alimentazione sia bilanciata e varia, basata principalmente su alimenti freschi contenti la minor quantità possibile di sostanze tossiche e si affianchi ad un corretto stile di vita (sonno regolare e riposante, attività fisica regolare, esposizione quotidiana all’aria aperta in zone poco inquinate, assenza di abusi di alcool, fumo, farmaci) allora gli integratori alimentari non sono indispensabili. In caso contrario, possono essere utili per brevi periodi di tempo, scegliendo però con accortezza sulla base delle reali necessità del singolo individuo.
> Quando si fa la spesa dei generi alimentari freschi, quali sono i requisiti che si possono o si devono accertare a vista, per sincerarsi della qualità e genuinità dei prodotti? Il primo elemento riguarda la pulizia del locale dove avviene l’acquisto: se è carente, la probabilità che il cibo sia contaminato è maggiore. In secondo luogo, bisogna fare attenzione ad alcune caratteristiche tipiche di ogni alimento:
1>la carne deve essere soda, elastica
e leggermente umida e non deve presentare oscuramenti o macchie iridee verdastre;
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{a pranzo da}
Locali storici di Portogruaro:
Al Cavallino Trattoria
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Questa è una sua proposta che fa parte della tradizione portogruarese novembrina che culmina con la Fiera di S. Andrea
Oca in Umido (per 8-10 persone). Tagliare a pezzi circa 4-5 kg. di oca nostrana precedentemente curata, infarinarli, riporli in una casseruola e coprirli con cipolla, sedano, carote tagliati a fettine,un rametto di rosmarino, qualche foglia di alloro, salsa di pomodoro, un filo dolio e.v.o. sale e pepe q.b. e cuocere a fuoco moderato. Durante la cottura bagnare con brodo vegetale e a ¾ della cottura aggiungere delle patate. Continuare la cottura (quattro ore in tutto) e servire in tavola caldo accompagnando con polenta arrostita e vino cabernet o raboso dal p.r. ben stagionati.
Antica Trattoria Al Cavallino Sala banchetti Cucina veneta e marinara Specialità alla griglia Vni locali Borgo S. Agnese, 4 30026 Portogruaro (VE) Tel. e Fax 0421 73096 Chiuso il Martedì
I
l rione Sant’Agnese è un antico borgo di Portogruaro, situato fuori della cinta muraria e sviluppatosi lungo la statale per Venezia fino al ponte sul Reghena. Dirigendosi verso il centro abitato della città, si supera la rotonda proseguendo dritti in senso unico e si incontra la parte più antica del Borgo dove si prolungano i caratteristici sottoportici del centro storico che in tempi meno recenti ospitavano tante botteghe artigianali, dentro i vicoli fino all’argine del fiume Lemene, ora scomparse o trasformate, per esigenza del tempo, in moderni negozi. Un palazzo di stile tardo rinascimento già sede di studio notarile e di fronte una “Osteria con cucina” completano un pittoresco paesaggio che testimonia la bellezza storica ed artistica di quest’area urbana posizionata a ridosso del canale di cinta, proprio prima della Porta Sant’Agnese, sede di un museo etnografico, oltre la quale si raggiunge il centro cittadino fra due ali di palazzi padronali di stile gotico veneziano. In questo sito, nei pressi di Porta Sant’Agnese, è sempre aperta l’Oste-
ria, vecchia di qualche secolo, naturalmente rinnovata, che conserva il suo antico nome “Al Cavallino” in cui vale la pena sostare per gustare ed assaporare i piaceri della tradizione di terra e di mare, riscoprire vecchie ricette tramandate da sapienti custodi della cucina di valle e di laguna di cui notoriamente era ed è famosa Portogruaro. Il locale in verità è molto discreto e lo si nota appena, se non ci fosse una lavagna esterna che annuncia il menu del giorno: spaghetti alle vongole, tagliolini al branzino o ai canestrelli, risotto di zucca con salsiccia, gnocchi di zucca, seppie in umido, anguilla in umido, petto d’anitra al balsamico, oca in umido, goulash. Entrando si respira immediatamente l’aria casereccia e genuina di famiglia paesana, ospitale e gentile che ti invita a degustare al banco bar stuzzichini di polpettine di carne e di pesce, una fettina di cotechino con polenta, di lingua, di crudo San Daniele con un calice dei prelibati vini della doc locale. La sala da pranzo, in classico stile rustico veneto-friulano, ha le pareti interamente tappezzate di foto ricor-
do che traspirano di storia locale e che raccontano la vita del “Cavallino” da sempre luogo di sosta e di ristoro per i viandanti da e per Venezia, Trieste e Treviso, che qui gustavano speciali piatti di carne di animali di pelo e di piuma di valle, e di pescagione di laguna dell’Alto Adriatico. Gianfranco Giroldo e signora Raffaela sono gli attuali gestori. Essi, attraverso la passione, la loro quarantennale esperienza e la tradizione, hanno realizzato il sogno di riportare al suo antico splendore il Ristorante Al Cavallino, ben coadiuvati dal personale molto professionale e in particolare dallo chef Ugo Sangion, uno di quattro gemelli, che è praticamente vissuto fra i fornelli per il suo atavico amore verso la cucina del territorio, che propone una ricca varietà di prodotti di orto, di fiume, di laguna e di mare, di cortile. Come sottolinea il titolare Gianfranco Giroldo, la nostra cucina segue il ritmo delle stagioni e riserva particolare attenzione alla qualità della materia prima che proviene per lo più dalla ricca filiera corta della Venezia Orientale e dell’Alto Adriatico.
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{vino & storia} di Tito Cuccaro
La Viticoltura Triestina
Ieri e Oggi L
e prime notizie sulla viticoltura nell’attuale provincia di Trieste risalgono all’epoca romana quando Plinio il Vecchio per due volte menzionò il nobile vino prodotto in piccole quantità da un sassoso colle vicino al castello di Pucino, non lontano dalla fonte del Timavo. Gli autori moderni spesso affermano che il castello di Pucino era situato nella zona dell’odierna prosecco, ma i dati forniti da Plinio ci danno soltanto la certezza che era situato da Timavo verso Trieste. La seconda notizia scritta sulla viticoltura nella zona risale all’alto medioevo. Cassiodoro, funzionario del re Teodorico, in quattro lettere elogia la buona annata vinicola in Istria e poiché allora l’Istria si estendeva fino a Sistiana se non al Timavo, questa notizia, per quanto indiretta, si riferisce anche al territorio di Trieste. Alla fine dell’alto medioevo, nel 115, abbiamo il primo documento che menziona una vigna nella zona di Trieste. Questa stava sul costone sotto Contovello. Nel 1173 si menziona una vigna in Scorcola. Che nell’alto medioevo la viticoltura fosse
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molto sviluppata sul territorio della provincia di Trieste è provato in via indiretta anche dai documenti di dedizione di Muggia e Trieste a Venezia del 1202. Con questi documenti i due comuni si sono impegnati a pagare al doge di Venezia, come segno di subordinazione, un annuo tributo in vino, e precisamente Muggia 25 orne e Trieste 50 orne. In quegli anni ci sono molti documenti di molte vigne in uso in molte altre località cittadine. Due documenti del 1216 e del 1221 parlano di tributo in vino che i canonici davano al vescovo di Trieste, il quale però vi ha rinunciato, un documento del 1223 parla di vigne, dipendenti dai signori di Duino. Entro i confini del comune di Trieste. Dal ‘300 in poi disponiamo, almeno per il comune di Trieste, di tanti documenti sulle vigne, che un’accurata ricerca probabilmente permetterebbe di seguire per più vigne tutti i passaggi di proprietà fino ai nostri giorni. I documenti sono comunque in numero sufficiente per poter individuare le vigne di proprietà del capitolo e dei vari monasteri.
Dell’importanza del vino nell’economia triestina alla fine del ‘300 è testimone il fatto che il comune di Trieste nel 1382, all’atto di dedizione ai duchi austriaci, ha promesso agli Asburgo un annuo tributo di 100 orne di ribolla. Il diploma dell’imperatore Federico del 1491 ha deciso per almeno due secoli dello sviluppo della viticoltura nel comune di Trieste che abbraccia una parte notevole dell’attuale provincia di Trieste. Con esso l’imperatore ha proibito ai contadini di piantare nuove vigne, affinchè essi dando precedenza ai propri interessi, non abbandonassero la coltura dei cittadini ed il rifornimento della città con fieno e legna. I cittadini hanno interpretato questo divieto in modo così restrittivo da non premettere ai contadini nemmeno la coltivazione di vecchie vigne. Tutti questi contrasti andarono avanti per molti anni fino al 1545 quando fu concluso un accordo tra il comune di Trieste e le vicinie di Contovello, Prosecco e S. Croce. In base a questo accordo i contadini potevano mantenere i vecchi pastini ma non potevano farne dei nuovi, se qualcuno avesse fatto un pa-
stino nuovo il comune poteva tagliare le viti e abbattere i muri e inoltre questi doveva pagare una multa. Tutte le vigne vecchie dovevano essere registrate e misurate. Era proibito anche vendere le vecchie vigne agli stranieri e darle in dote a chi si sposava fuori del comune. Appena nel 1719 finirono questi diverbi tra contadini e cittadini quando l’orientamento di Trieste cominciò verso il commercio marittimo, dopo la dichiarazione del porto franco. L’istituzione della doc “Carso” è del 1985. Con il relativo decreto è stata consolidata a livello normativo la tradizione enologica della periferia di Trieste e del Carso in particolare. Risale però ai tempi dell’imperatore Augusto il cenno storico più famoso sul vino di questa zona. Nei testi di Plinio il Vecchio si fa infatti menzione di un vino, il “Pucinum” che sarebbe stato gradito a Livia, seconda moglie dell’imperatore. Arrivando ai nostri tempi, è del 1993 la fondazione del Consorzio per la tutela della doc. Esso associa i produttori che credono nella grande vocazione vinicola del Carso e cercano, coscienti delle enormi fatiche che la loro terra esige, di
produrre un prodotto sempre migliore. La zona di produzione Carso comprende l’intera provincia di Trieste e il Carso Goriziano. Il territorio, in verità molto ridotto, ha una interessante eterogeneità. Vi troviamo infatti ambienti con vegetazione diversa e appezzamenti coltivati piani o leggermente declivi, ma anche terrazzamenti su ripide pendici collinari che scendono verso il mare. La periferia di Trieste, buona parte di S. Dorligo (Dolina) e le colline di Muggia presentano terra bruna su flysch. Terra per certi aspetti arida e difficile, dove ogni lembo coltivato è stato tolto dal grembo di una natura forte, ma allo stesso tempo accogliente. Ne scaturisce un ambiente culturale, architettonico e rurale gradevole, ambiente che viene tuttora tenacemente conservato in primo luogo da coloro che continuano a dedicarsi alle attività tradizionali, quali l’agricoltura. Le uve pregiate raccolte sui filari danno vita a vini dalla spiccata personalità. Ciò è dovuto alle modeste condizioni pedoclimatiche, ed all’impegno profuso dai bravi vignaioli nella coltivazio-
ne intensiva delle vigne e nei lavori di cantina. Negli ultimi anni diversi produttori, giovani nello spirito, ma anche rispettosi delle migliori tradizioni, stanno puntando molto sulla qualità. Lavorando sulla densità d’impianto, riducendo anche drasticamente la quantità e affinando, nelle migliori occasioni, il vino in fusti di legno. Attualmente la doc è riservata a vitigni autorizzati e raccomandati tra cui Chardonnay, Malvasia (da Malvasia Istriana), Sauvignon, Merlot e Refosco dal Peduncolo Rosso nelle provincie di Trieste e Gorizia, Pinot Grigio, Traminer, Cabernet franc e Cabernet sauvignon nella sola provincia di Gorizia e a Vitovska e Terrano nella sola provincia di Trieste. I viticoltori, considerate le esperienze positive con la varietà autoctona , intendono valorizzare anche altre varietà locali, fra queste di sicuro la Glera, e inserire nel disciplinare di produzione anche il Bianco Carso. Sono 3 gli elementi che danno ai vini oltre la qualità il pregio e la personalità: l’ambiente geoclimatico, le varietà dell’uva, l’arte dell’uomo nella vigna e in cantina.
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{Natura e benessere} di Deborah Cuzzolin
la grotta di sale uno strumento di benessere dalle origini molto antiche
I
benefici del sale si conoscevano fin nell’antichità. Il sale era considerato un rimedio contro molte malattie, veniva utilizzato per bagni, pediluvi, disinfezione di ferite, ulcere, eruzioni cutanee, e veniva cosparso su qualsiasi malato. Nel 1843 gli studi di un medico polacco, il dottor Felix Boczkowski, ne dimostrarono scientificamente gli effetti curativi. Il dottor Boczkowski sorpreso dalle buoni condizioni di salute di coloro che venivano impiegati nelle miniere di sale condusse una ricerca e capì che l’aria delle miniere di sale di Wieliczka, in Polonia, era satura di particelle di sale secco che inalato da persone con problemi respiratori ne provocava la guarigione. Diede così vita alla haloterapia (da “halos”, in greco “sale”), che consiste nella somministrazione, per inalazione, di cloruro di sodio micronizzato in un ambiente confinato: la grotta di sale. Il microclima tipico della grotta di sale è ricco di ioni negativi chiamati anche ioni buoni per tutta una serie di benefici che sono in grado di dare. L’ambiente è ipoallergenico e il sale conferisce all’aria respirata una bassissima carica
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batterica, il cloruro di sodio inalato ha un’azione detergente e battericida per l’intero apparato respiratorio, inoltre ostacola la sopravvivenza e il proliferare dei batteri che sono causa di numerosissime infezioni, come pneumococchi e stafilococchi. All’interno della grotta si percepisce una sensazione di benessere, per effetto del colore bianco del sale che riveste tutto l’ambiente e per l’odore del sale, che porta alla riduzione dell’ansia, al miglioramento dell’umore, all’incremento della capacità di concentrazione ed a una maggiore resistenza fisica. La haloterapia si è dimostrata efficace anche nel trattamento di patologie cutanee quali la dermatite atopica in età pediatrica, la psoriasi e la vitiligine perché normalizza la comune flora cutanea superficiale. La haloterapia non deve essere considerata un’alternativa al trattamento farmacologico intrapreso per la cura di patologie croniche, ma un supporto. È un trattamento del tutto naturale, privo di effetti collaterali, che invece possono accompagnare la terapia farmacologica, adatto a tutte le fasce d’età, particolarmente indicato per i bambini e
per gli sportivi che vogliono riprendersi da uno sforzo. Il concetto di “grotta del sale” nasce in Nord Europa dove la scarsa salinità aerea dei mari ha portato gli abitanti a sviluppare la haloterapia in maniera meccanica per mezzo di un micronizzatore capace di “polverizzare” il Sale Puro all’interno di una stanza ricoperta con mattoni di salgemma con in terra sale marino. In questi Paesi la haloterapia ha avuto una diffusione sempre più consistente sino ad accreditarsi come terapia medica ufficialmente riconosciuta. Oggi, in stati come Lituania, Estonia, Polonia, regioni Baltiche i benefici effetti della haloterpia sono fruibili in strutture sanitarie pubbliche o centri benessere annessi a hotel e SPA ed ulteriori sperimentazioni sono in corso per accreditarsi nell’ambito di tutti i paesi della CEE. Ancora poco conosciuta in Italia, la Grotta di Sale è una delle più recenti scoperte per quanto riguarda la medicina alternativa e la cura naturale e sta diventando uno strumento sempre più indispensabile al completamento dei servizi offerti da centri benessere, termali ed estetici.
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L’UNICO CENTRO A PORTOGRUARO Il trattamento col sale è totalmente naturale e non ha effetti collaterali, proprio per questo è adatto a tutte le fasce d'età, anche ai bambini. Particolarmente indicato per il benessere dell'apparato respiratorio, della pelle e del sistema nervoso. Con 30 minuti di trattamento all'interno della Grotta è possibile ottenere gli stessi risultati di tre giorni al mare.
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Investiamo nel benessere
{Natura e benessere}
Elisa Damian, naturopata, iridologa e Sebastiano Saviane, chef, sommelier, operatore Shiatsu - Ordine Cavalieri di San Martino BL
Le Erbe Officinali L’Achillea L’Achillea appartiene alla famiglia delle asteracee o composite (come il tarassaco e la calendula) viene chiamata anche Sanguinella, Millefoglie, Erba dei tagli, Erba formica, Erba del soldato, Stagnasangue. Ne esistono circa 100 specie diverse. E’ pianta aromatica medicinale, viene definita millefoglie perchè ha le foglie sfrangiate, che si staccano direttamente dal fusto rigido e non ramificato. E’ perenne e infestante, ha un fusto eretto, striato, ricoperto di fitti peli, alta 50-60 cm. Le foglie sono di un colore grigio verde con un gradevole aroma; sono ricche di vitamine e sali minerali. I fiori sono piccoli e riuniti bianchi e rosati, dal rosa pallido al rosa acceso, sono raggruppati ed allineati alla stessa altezza e hanno un profumo piuttosto acre. Fiorisce in primavera-estate. Eccipienti e proprietà: Contiene eccipienti che stimolano la coagulazione del sangue, che contribuiscono a rilassare il tessuto muscolare liscio dell’apparato digerente, quindi risulta un buon antispasmodico. E’ digestiva come la camomilla, rilassa anche la muscolatura dell’utero, e quindi aiuta nel caso di crampi muscolari, ha proprietà antinfiammatorie, analgesiche. L’achillea possiede diverse proprietà salutari: vulnerarie, stimolanti, astringenti, antisettiche, sudorifere, emostatiche, antipiretiche, cicatrizzanti, digestive, toniche, antispasmodiche (soprattutto per il ventre), amaro-toniche, coleretiche, antibatteriche. Inoltre ha proprietà digestive grazie alle sostanze amare in essa contenute con caratteristiche amaro- toniche, antispasmodiche, antiemorragiche, emmenagoghe, diaforetiche. E’ aromatica, antiartritica, è antinfiammatoria, cicatrizzante, regola il flusso mestruale, stimola i processi digestivi, ha una leggera capacità sedativa, indicata per il mal di denti, per la faringite, per i raffreddori, per l’artrite, l’insonnia, è anche un tonico del sistema venoso. Protegge il fegato dagli effetti tossici delle sostanze chi-
Cavolo Verza
Famiglia di appartenenza: Crocifere. Storia: Il Cavolo era noto già nell’antichità. Per i Greci era sacro, mentre i Romani lo utilizzavano per curare le più svariate malattie: ad esempio lo mangiavano crudo, prima dei banchetti, per aiutare l’organismo ad assorbire meglio l’alcool, con le foglie pestate medicavano ulcerazioni e ferite. Nel ‘500 veniva usato come lassativo ed il suo succo unito al miele veniva usato per la cura della raucedine e della tosse. Per i marinai era l’alimento tipico utilizzato per compensare le diete necessariamente povere durante i viaggi per mare. Nel 1630 il brodo di cavolo era raccomandato in tutte le affezioni polmonari. Proprietà: Ricchi di vitamina C, hanno un’azione anti ulcera, disintossicante e protettiva contro il cancro. L’acqua di cottura, per la presenza di zolfo che determina l’aroma e l’odore carat-
miche, è efficace nella flatulenza, nelle gastriti, nelle enteriti. Uso interno: Si utilizzano le sommità fiorite che vengono fatte essiccare in luogo ombroso dopo averle legate in mazzetti lenti e appesi. La raccolta avviene in estate durante la fioritura. Si può assumere sotto forma di infuso (due tre tazze al giorno) preparato versando mezzo litro di acqua bollente su 3 gr di sommità fiorite su 100 ml di acqua sommità fiorite di Achillea secca. Il vino di Achillea, usato con parsimonia, si ottiene lasciando macerare due manciate di erba in un fiasco di generoso vino bianco. Associata a camomilla e angelica e iperico è usata per le infiammazioni gastrointestinali associata ad angelica, camomilla e calendula negli spasmi uterini gastrici e intestinali associata a piantaggine echinacea e calendula esternamente come vulnerario. Uso esterno: già usata nella antichità per curare le ferite, le ustioni, le contusioni, le ecchimosi, per la cicatrizzazione e per le infiammazioni, per i gonfiori, per il torcicollo, i crampi muscolari, per le emorroidi, le ragadi anali e al seno, si può fare un decotto per i lavaggi oculari, per la insufficienza venosa degli arti inferiori, aiuta ad arrestare le emorragie, in quanto dotata di proprietà emostatiche, analgesiche, antinfiammatorie, analgesiche. Viene utilizzata in idrotermofangoterapia come impacco caldo sul fegato per decongestionare l’organo e favorirne l’attività o sul ventre come spasmolitico. Nelle emorroidi purulente e nelle ulcere varicose si può impiegare un lavaggio con infuso concentrato (pari peso di acqua e di erba). Dopo il lavaggio, l’erba residua si può applicare tiepida sulle parti dolenti. Avvertenze e contro indicazioni: evitare di esporre ai raggi solari la pelle bagnata dal succo della pianta. A dosi elevate il thujone in essa contenuto è tossico. Non va usato in gravidanza e durante l’allattamento, ma alle dosi consigliate dagli specialisti è generalmente considerata una pianta sicura. L’ Achillea può dare alle urine una colorazione marrone scuro, e non va utilizzata in caso di allergia all’ambrosia e alle composite.
teristico del cavolo, risulta utile nel trattamento delle affezioni cutanee. Per poterne conservare le proprietà nutritive e per una migliore digestione dello stesso, è consigliabile consumarlo crudo. Viene inoltre usato per l’acne (in succo), l’anemia (crudo in insalata); convalescenza (crudo in insalata); bronchite-catarro (decotto); diabete (succo), digestione difficile (crauti crudi); gastrite nervosa e ulcera gastrica (succo); tosse, raucedine (succo). Ottime le foglie lavate come impacchi contro scottature, eczemi, edemi, contusioni, ulcerazioni, ferite, punture di insetto, morsicature. Profilo merceologico: Oltre ai fenoli, indoli e cumarine, da secoli si conoscono i preziosi nutrienti della verza, quali le vitamine A, B, C, PP, sali minerali (silicio, fosforo, calcio, potassio, magnesio e ferro). Sono ricchi di fibre e hanno uno scarso potere calorico. Avvertenze: Gli ipotiroidei devono farne un uso moderato in quanto contengono delle sostanze che possono rallentare l’attività dell’organo.
Quanto descritto è volto a puro scopo didattico e culturale, qualora una persona desideri utilizzare le piante descritte si consiglia di rivolgersi ad un medico o ad un esperto in materia. Gli autori declinano ogni responsabilità dall’uso improprio di quanto descritto.
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{le confraternite associate all’ucet} Unione Circoli Enogastronomici del Triveneto (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige)
Confraternita della
SOPRESSA Romano d’Ezzelino (VI)
Via G. Minzoni,41 36060 Romano d’Ezzelino (VI) Tel. e Fax 0424 830038 www.confraternitadellasopressa.it
COLLEGIO DEL CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente
Leonida D. Bussolaro Vice Presidente
Bruno Valle
TAGLIATORE UFFICIALE
Ennio Celso Bussolaro
All’insegna del folklore e della gastronomia vicentina, i Circoli UCET si sono ritrovati al Ristorante “Al Pioppeto” di Romano d’Ezzelino per partecipare alla 3a edizione della
Festa della Sopressa Domenica 18 Settembre 2011
All’insegna del folklore e della gastronomia vicentina, i Circoli UCET si sono ritrovati al Ristorante “Al Pioppeto” di Romano d’Ezzelino per partecipare alla 3a edizione della Festa della Sopressa, indetta dalla Omonima Confraternita della Sopressa di Bassano del Grappa. È stato un evento del tutto particolare ed innovativo, in cui a tavola si sono gustate le specialità del territorio, cui faceva particolarmente onore la tipica sopressa vicentina, prodotta artigianalmente e secondo vecchi insegnamenti dagli stessi soci del sodalizio. Contemporaneamente c’è stato un grande evento musicale per festeggiare il 25° anniversario della attività del Gruppo Folkloristico El Canfin. Quindi cibo, vino, musica e folklore, tutto strettamente legato alla tradizione veneta, per una giornata all’insegna del buon gusto e del divertimento. “La Confraternita della Soppressa -
sottolinea il presidente Leonida Bussolaro nel corso del suo intervento durante il Simposio - rivolge la sua particolare attenzione alla cultura della carne suina insaccata secondo i metodi dell’antica tradizione contadina del territorio vicentino. Gli stessi soci del Circolo si sono improvvisati allevatori a livello famigliare: loro stessi abbattono il suino, lo insaccano e lo conservano nella “stanza dei saladi “con gli stessi metodi di un tempo in cui il maiale era preziosa scorta alimentare delle famiglie rurali”. Seguendo poi alcune regole fondamentali del loro statuto, i Confratelli, a maturazione ultimata delle sopresse, si riuniscono per valutare il loro prodotto finito e sottolinearne pregi e difetti, ricavandone una esperienza professionale che li porta ad ergersi a giudici molto preparati anche nei vari concorsi che si svolgono nel territorio vicentino.
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{le confraternite associate all’ucet} Unione Circoli Enogastronomici del Triveneto (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige)
Enoclub Portogruaro Portogruaro (Venezia) Anno di Fondazione: 1976
Via Cavour, 21/a Portogruaro (VE) Tel. 0421 72244
enoclub@portogruaro.net
Consiglio Direttivo Presidente
Franco Polo (Gran Maestro) Vice Presidente
Luciano Sandron Maestro Segretario
Leandro Costa
Maestro Provveditore
Francesco Pasquale
Maestro Gastronomo
Antonio Scarpa
Maestro Ciambellano
Mariangela Bergamo Maestro Cerimoniere
Francesco Rauso Maestro Scrivano
Enrico Ferraresso Maestro Economo
Cesare Lauro Salvador
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Portogruaro
i trentacinque anni dell’Enoclub Una storia ricca di eventi e lunga da raccontare, quella dell’Enoclub Portogruaro, nell’arco dei suoi trentacinque anni di vita che la pongono fra le associazioni più longeve del comprensorio. Fondato nel 1976, dopo una gita alle Cantine Valdo di Valdobbiadene che aveva dato ad alcuni coetanei della classe 1926 - Italo Garbellotto, Mirko Ambrosio, Ilario Anese, Duilio Moras e Giuseppe Dal Cin – l’idea di creare un Circolo culturale di appassionati del buon vino e della buona cucina, l’ente opera attualmente sotto la guida perspicace di Franco Polo. L’attuale presidente, in collaborazione con un propositivo Consiglio direttivo con vice presidente Luciano Sandron e consiglieri Antonio Scarpa, Leandro Costa, Mariangela Bergamo, Francesco Pasquale, Cesare Salvador, Enrico Ferraresso e Francesco Rauso, continua nella missione di scrivere pagine di vita associativa nel segno dell’amicizia e della buona tavola. L’Enoclub Portogruaro è molto attivo e nella sua sede di via Cavour ospita settimanalmente i suoi soci con degustazioni ed incontri a tavola con cibi della tradizione locale e regionale, tenendo ben presente il proverbio che recita “Assai digiuna chi mal mangia” ed il motto sociale “Bere poco ma bene”; inoltre organizza periodiche conferenze, corsi di aggiornamento ed approfondimento didattico sugli accostamenti cibo-
vino, visite istruttive ad aziende vitivinicole ed agro-alimentari, offre il servizio vini con il suo gruppo di coppieri (sommelier) ad ogni evento inteso a promuovere vino ed originalità della cucina territoriale. Con i con i suoi oltre cento soci, si pone a disposizione di istituzioni ed enti, di aziende e quanti altri intendono promuovere il vino e la tipicità ed originalità dei tanti prodotti di filiera locale, nel rispetto delle tradizioni e della genuinità, in linea con quanto stabilito pure dalla associazione delle confraternite trivenete dell’ Ucet, di cui l’Enoclub è stato co-fondatore e promotore. Il 20 novembre, ricorda il Presidente Gran Maestro dell’Enoclub Portogruaro Franco Polo, il Circolo ha festeggiato l’anniversario dei 35 anni di fondazione con un grande evento conviviale riservato ai suoi oltre cento soci, unitamente a tutte le Confraternite amiche che sono convogliate a Portogruaro da tutto il Triveneto per tributare un dovuto applauso al Circolo locale per la sua intensa attività promozionale in favore della cultura enogastronomia della Venezia Orientale. L’evento si è tenuto in concomitanza con la prima giornata della Fiera di S. Andrea, patrono della città, meglio conosciuta come Tradizionale Sagra delle Oche e degli Stivali.
{officina degli eventi}
Piccole Città Storiche del Veneto data
NOME / MANIFESTAZIONE
19-20 novembre Festa dell’Olio
DESCRIZIONE
luogo
comune
prov.
Promozione prodotto locale
Centro Storico
Illasi
VR
20 novembre
Mercatino dell’antiquariato
Iniziativa mensile, con promozioni collegate - Assessorato alle Attività Produttive e Pro Loco Montagnana
Centro storico, ore 8.00 - 18.00
Montagnana
PD
20 novembre
Mercatino dell’antiquariato
Mostra mercato oggetti del passato
Piazza Martiri della Libertà e vie adiacenti
Mirano
VE
21 novembre
Concerto di Santa Cecilia
Complesso Strumentale Città di Schio
Duomo - Piazza Rossi
Schio
VI
22 novembre
Rassegna culturale 2011-2012
Guida all’ascolto: Nino Rota ed Ennio Centro Civico Morricone- Relatore: Maestro Daniele SalaInferiore - ore 15:30 Caorle Labelli ingresso libero
VE
22 novembre
Family Film Forum Incontri di formazione: “Maschile e femminile nella società del benessere”
Percorso formativo tra immagini e della racconti della Parrocchia del Duomo- Villaggio Gioventù, ore 21.00 Sala della Comunità e Montagnana Ingresso libero Film Forum
Montagnana
PD
Assessorato alla Cultura - Provincia di Rovigo - I giorni del grande fiume. Il Polesine e l’alluvione in Polesine. Novembre ‘51 - Fotografie di Walter Breviglieri
Rovigo
RO
Fino al 22 novembre
60° anniversario dell’Alluvione
Pescheria Nuova Sala Brigo
24 novembre
Restless L’amore che Rassegna invernale cineforum resta
25 novembre
Giornata Mondiale contro la Violenza alle Donne
25 novembre
Folkloriamo Martisor - Convegno su Flumina – Folkloriamo Martisor sviluppo turistico, culturale e gastro- Sala dalle 9,00 alle 14,00 nomico del Polesine
25 - 27 novembre
Cinema teatro farinelli Este
Evento da formalizzarsi da parte dell’Assessorato alle Pari Opportunità Centro Storico
PD
Noale
VE
Rovigo
RO
Venice Cup
Torneo Internazionale di Karate even- Palazzetto dello Sport - Caorle to organizzato dalla FJLKAM ingresso libero
VE
26 novembre
Mercatino dell’hobbistica e dell’antiquariato
Mercatino
26 novembre
Giochi di mani e di terra
Laboratori creativi per bambini e Este ceramiche poradulti e visita guidata della fabbrica di cellane ore 15-16,30 su ceramiche prenotazione
27 novembre
Accademia Musicale Concerto dell’Orchestra dell’Accade- Duomo - Piazza Rossi – Stagione Concerti- mia Musicale di Schio 16.00 - 19.00 stica 2011-2012
27 novembre
Sior Tita Paron
Commedia di G. Rocca - Compagnia Teatro Veneto Città di Este
Teatro dei Filodrammatici ore 16,30 - ingresso Este 8,00 euro
29 novembre
Ouverture d’opera
Concerto sinfonico
29 novembre
Rassegna culturale 2011-2012
Conoscere il tuo cuore (1parte) Relatore: dott. A. Bohussine
Teatro Sociale di Rovigo Centro Civico Sala Inferiore - ore 15:30 ingresso libero
Piazza Mazzini. Ore 10:00-18:00. Ingresso Libero
Monselice
PD
Este
PD
Schio
VI PD
Rovigo
RO
Caorle
VE
* il presente elenco è un riassuntivo di tutte le reali manifestazioni disponibili, stillato operando anche una selezione per data rispetto all’uscita di questa rivista. L’elenco completo ed aggiornato, anche per i mesi successivi, è consultabile su www.piccolecittastoriche.it
{eventi}
Gran Galà dei Sapori
Colto inFragranza
Ritorna l’atteso appuntamento natalizio con il ricco percorso enogastronomico legato ai piatti della tradizone del territorio del Lemene e accompagnato dai vini del Lison Pramaggiore. ingresso 30,00 €
giovedì 1 dicembre 2011 | h 20.30 Mostra Nazionale dei Vini di Pramaggiore info e prenotazioni Confcommercio Portogruaro 388 0592872 | ascomportogruaro@confcom.it www.ascomportogruaro.it