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ARIA SOTTILE

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IL NOME DELLA ROSA

IL NOME DELLA ROSA

Reinhold Messner la vita e l'alpinismo oltre gli Ottomila

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Intervista di Erminio Ferrari ed Ellade Ossola - 12/09/2009

«Vorrei essere ricordato come l’alpinista che ha fallito più di tutti sugli Ottomila». Ecco, se avete un’idea di Reinhold Messner ricalcata sull’immagine che ne hanno dato (complice lui stesso) giornali, libri e televisioni, cambiatela. Le parole che riempiono una sala spoglia di Castel Firmiano, dove ha sede il maggiore dei cinque musei fondati dall’alpinista altoatesino, sono quelle di un uomo di 65 anni, che è sì cresciuto sulle proprie certezze, ma che non ha mai esitato davanti ai fatti o agli incontri che gliele hanno fatte correggere. Ricordarlo come il primo salitore di tutte le quattordici cime di ottomila metri è davvero poca cosa. Prima che in Himalaya, la sua grandezza alpinistica aveva già fatto sensazione sulle Alpi e sulle Dolomiti; poi vennero le traversate dell’Antartide, della Groenlandia, quella in solitaria del Deserto del Gobi, il mandato di parlamentare europeo, l’avventura dei musei della montagna. Ma sono stati senza dubbio i giganti himalayani a dargli una fama che nessun alpinista aveva mai conosciuto, né forse avrà più. Cominciamo da qui, allora.

Come si portano l’onore e la responsabilità di essere la prima figura di alpinista universalmente nota?

«La notorietà non significa per forza qualità dell’alpinista. Ma è vero, sono una persona nota perché faccio attività anche al di fuori dell’alpinismo. Sono una figura che attira interesse; ma a me interessa soprattutto poter fare la mia vita, senza voler essere un leader, né compiacere i desideri di qualcuno o di un pubblico. Non voglio essere seguito».

L’alpinista è spesso dipinto come un uomo libero o piuttosto come un individualista. Non ha mai sentito limitata la sua libertà da questa figura?

«La mia libertà di alpinista include la responsabilità di ciò che faccio nei confronti di chi mi è vicino, figli, moglie, genitori. È chiaro che chi svolge un’attività pericolosa porta con sé questa responsabilità e solo chi se l’assume può veramente dirsi libero alpinista. L’alpinismo si pratica in un mondo arcaico dove non ci sono leggi, ma proprio per questo non c’è quasi rimedio agli errori. È una vita anarchica che chiede di assumersi la responsabilità di ciò che si fa. In ogni salita difficile va contemplata la possibilità di morire, e in questo senso l’alpinismo è egoista».

Ma lei non si è mai sentito limitato in quanto uomo dall’essere un personaggio?

«Sono una persona pubblica e questo è un onere; ma lo accetto, perché so che non mi condiziona nelle scelte. Non mi curo di chi mi applaude o mi fischia. Voglio essere giudicato sul palco come oratore; sul piano letterario se scrivo un libro, su quello artistico se giro un film. Ma non come un vitello a tre teste perché ho fatto i 14 Ottomila o l’Everest o queste cose qui».

Quando ha portato a termine l’ultimo Ottomila lei ha scritto: sono contento di averlo fatto, ma non ne sono fiero. Può spiegare perché?

«Sono stato uno dei primi a dare un taglio all’alpinismo eroico, nato nei primi decenni del secolo in Italia e Germania – non a caso culle del fascismo europeo – sopravvissuto anche dopo la seconda guerra mondiale e in parte vivo ancora oggi. E sono stato il primo a dire: io non porto bandiere in vetta, la mia bandiera è il mio fazzoletto; venendo per questo fischiato e insultato. Non condivido neppure la filosofia secondo cui un alpinista che muore in montagna è in qualche sorta un eroe. No: se l’alpinista muore è solo una disgrazia. E la sola cosa da fare è prendersi cura di chi ha lasciato».

La crisi arrivò sull’ultimo, il Lhotse, nel 1986 fu la paura di vedere l’obiettivo così vicino, o si trattò d’altro?

«Finendo gli Ottomila era chiaro che mi liberavo di un peso che io stesso mi ero caricato. Ma avevo già altre idee, per la verità. Sul Lhotse, sulla espostissima cresta finale soffiava un vento fortissimo che rischiava di buttarci giù. Ma Kammerlander, che era con me, ha insistito: “andiamo avanti”, e così abbiamo fatto. Fu una liberazione, ma anche il momento della crisi: per sedici anni non avevo fatto altro (occupandomi di tutto dalla logistica alla ricerca dei finanziamenti). Ora i miei compagni non condividevano i progetti futuri di traversate ai Poli, e non ho trovato nessuno disposto a seguirmi; forse non capivano la dimensione di quella nuova avventura, o la temevano. Ho dovuto imparare da zero e per fortuna ho trovato specialisti in quel campo, scoprendo compagni straordinari».

Lei ha anche conosciuto l’esperienza del fallimento. Come se ne esce, che cosa si impara?

«Non c’è alpinista di punta che non abbia conosciuto il fallimento. Si impara attraverso il fallimento, non attraverso ciò che riteniamo essere vittorie. Per la propria consapevolezza è importante conoscere i propri limiti, e li si conosce soltanto sperimentandoli. Io ho fallito tredici ottomila. Vorrei essere ricordato come l’alpinista che ha fallito più volte sugli Ottomila. Io ho fatto 18 volte la salita di un Ottomila, perché mi interessavano le salite non i record. Se non avessi fallito (come mi è capitato sul Dhaulagiri, sul Makalu e sul Lhotse) sarei già morto. Ho dimostrato di essere coraggioso nelle sfide, ma anche nel ritirarmi».

Nella sua prima salita a un Ottomila, il Nanga Parbat nel 1970, lei ha perso suo fratello Günther. Quanto e come questo episodio ha mutato il suo rapporto con l’alpinismo?

«È stata un’esperienza fondamentale nella mia vita e mi ha fatto considerare del tutto morta la retorica sul cameratismo in montagna. Sapevo, salendo alla cima, che stavamo mettendoci su un

cammino di rischio assoluto. Poi, nella discesa non c’è più stata scelta. Per i miei genitori è stato un colpo durissimo; per me, in più, c’era lo sgomento di non essere creduto. Il capospedizione mi aveva dato per morto e quando tornai dovette darsi e dare una spiegazione. Il mio ritorno destabilizzò i suoi piani perché si riteneva impossibile che potessimo scendere in quelle condizioni dal Nanga Parbat. Poi vennero le accuse, e solo il ritrovamento dei resti di Gunther, dopo 35 anni, ha reso la verità della storia, nonostante le speculazioni indegne costruite a mio danno».

Yuri Gagarin, dopo il primo volo spaziale disse di non aver visto Dio in cielo. Lei che cosa ha visto sulle cime più alte della terra?

«Chi pensa che l’Everest sia più vicino a Dio sbaglia. Se pensiamo all’infinito non c’è nessuna differenza tra l’Everest e noi qui a questa quota modesta. L’Aldilà, o Dio se si vuole chiamare così, è fuori dalla nostra portata. Rispetto l’Aldilà ma non ho il diritto né il coraggio per descriverlo, è fuori della nostra misura».

La vera avventura, scrive lei, è quella dove non è garantito il ritorno. Quale è allora il valore della vita per Reinhold Messner?

«Non è che la vita valga meno se la si mette in gioco o ci si espone al rischio di perderla. Andare in zone pericolose è un modo per vivere più intensamente. Del resto oggi le metropoli sono molto più pericolose della cima dell’Everest. Abbiamo impiegato migliaia di anni per metterci al sicuro, ma il sentimento di insicurezza non fa che crescere».

[...]

Lei si lasciò alle spalle un mondo coeso, con un forte senso di comunità e valori saldi, che però avvertiva

come chiuso e reazionario. Prese la Foto da: http://www.mountainblog.it/redazionale/reinholdstrada del mondo e della montagna messner-40-anni-senza-bombole-sulleverest-lolimpocome pratica sportiva. I suoi musei dellalpinismo/

sono oggi un ritorno, o la chiusura del cerchio?

«Sono stato fortunato a uscire da questa terra che era e resta molto chiusa. Sono tornato a portarvi la mia idea di pace, e vi propongo vie di convivenza praticabili. Io sono stato il primo a dire: noi sudtirolesi non siamo italiani né austriaci, né tedeschi, ma sudtirolesi e europei. Se ragioneremo così saremo d’esempio per le altre regioni d’Europa. Una volta dire queste cose bastava per essere espulsi dalla comunità. Solo ora, lentamente, la mia strada, che è quella di Alex Langer, si va confermando quella più giusta. Ho riattivato tre masi di montagna dimostrando che si può animare un’economia locale autentica, non finanziata da fuori, ma sufficiente e esemplare. Questo intendo per politica ».

Fonti: https://www.planetmountain.com/it/notizie/interviste/intervista-a-reinhold-messner.html

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